The Project Gutenberg eBook of Memorie di Giuda, vol. II

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Title: Memorie di Giuda, vol. II

Author: Ferdinando Petruccelli della Gattina

Release date: August 3, 2014 [eBook #46495]

Language: Italian

Credits: Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli, Barbara
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*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK MEMORIE DI GIUDA, VOL. II ***

Copertina

F. PETRUCCELLI DELLA GATTINA

MEMORIE DI GIUDA

SECONDO VOLUME


Seconda Edizione Italiana


MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1883.


PROPRIETÀ LETTERARIA

Tip. Fratelli Treves.


[1]

MEMORIE DI GIUDA

XVIII.

Restai confuso. L'apostrofe brutale di Moab m'immerse in un disordine d'idee vicino alla stupidità. Una sola cosa non lasciava più alcun dubbio: che questa Ida era la sorella del Rabbì di Nazareth. Di più! C'era ben stato un Cajus Crispus comandante la cavalleria della 12.ª legione che abitava Gerusalemme quando Pilato se ne stava in Antiochia; ma aveva egli mai sposato questa ragazza che avea fatta comperare, e fatta rapire? Era egli morto? Aveva divorziato da sua moglie, o lasciato la sua ganza? Il cavaliere che io aveva veduto da Ida, nella notte dell'uragano, era egli Pilato, o uno del suo seguito? Che era egli andato a fare a quell'ora, con quel tempo, in quella casa? Io poteva rimuginare tutto ciò, andare al fondo di questo intrigo; ed avevo paura di conoscere la verità! La parola «sposare una tal donna, un simile angelo» increspava il mio viso d'un sorriso da demente, e mi metteva il delirio nei cuore.

Ero stato colpito dal sembiante d'Ida, al circo. Ne avevo accarezzata l'immagine immergendola sempre [2] più nel mio cuore durante un mese, e la trovavo più bella ancora, più diabolicamente seducente. Il mio amore era scoppiato come un vaso che rinchiude un liquore fermentato. Doveva io resistere alla mia follia? Dovevo cedervi, sposarla, salvo, una volta saziata la passione, a ripudiarla, ad ucciderla, ed uccidermi con lei? Ma, anzitutto, consentirà ella a codesto matrimonio se io oso proporglielo? Che agguato mi si tendeva? E c'era poi un agguato? Io era idiota, ridicolo.

Meditavo tutte queste ed altre mille stravaganze avanzando lentamente sulla strada di Gerusalemme. Tentai di distrarmi.

Mi recai la sera presso Hannah, e gli resi conto del mio viaggio. Fu incantato dell'acquisto del Nazzareno. Gesù aveva fatto, e non senza successo, le sue prime armi in Gerusalemme. Hannah l'aveva scorto, ne aveva inteso a parlare; ed era ora più ardente di me stesso. Aveva veduto Claudia, che l'aveva ammaliato.

Claudia gli aveva tenuto un linguaggio più preciso. Si trattava inoltre di spiegare perchè Pilato, il quale aveva l'aria di dormire e vegliava con ambi gli occhi, avesse fatto venire una legione di più nella Samaria, un'altra in Galilea, una terza a Betlemme, ed aumentato di varie coorti la guarnigione stessa di Gerusalemme. Claudia fu esplicita, chiara, senza reticenze. Ella disse al sagan:

— Pilato vuol essere proconsole in Ispagna suo paese. A Roma si compra tutto. Noi non abbiamo denaro. Il vostro Tempio, la tomba di Davide, sono ricchi. Voi volete sbarazzarvi dei Romani: noi vogliamo sbarazzarci di voi. Voi avrete l'indipendenza e tutto ciò che vorrete. Ma cosa guadagneremo noi? [3] Ebbene fate la vostra insurrezione. Noi vi lasceremo agire, ma avendo la forza di schiacciarvi quando vorremo. Terremo i nostri soldati nelle tre torri, nel palazzo d'Erode, nella fortezza Antonia. Voi potete comperare una capitolazione al prezzo dei tesori che vi ho indicati. Con quel denaro, noi compreremo i soldati che, potendo vincere, potrebbero avere della ripugnanza a rendersi, gli ufficiali che potrebbero resistere, il legato della Siria che potrebbe eseguire egli ciò che non faremmo noi, comperare infine l'impunità della reddizione, ed il governo della Spagna. Occorrono per tutto ciò milioni e milioni.... Siete voi disposti a comperare la vostra redenzione?

Claudia aveva risolte tutte le difficoltà sollevate dal sagan, e dissipati tutti i suoi dubbi. Hannah era sedotto, convinto, premuroso. Occorreva solamente che la sollevazione del popolo fosse talmente imponente, che Pilato potesse aver l'aria di dover cedere, senza che gli si domandasse come a Varo: Che hai tu fatto delle nostre legioni? Ora, per sollevare così il popolo, per riunire tutti i partiti e tutte le classi in un solo slancio, era necessario che qualche profeta o messia pieno di autorità facesse appello alle armi in nome di Dio e della patria. Ogni altro nome, qualunque si fosse stata la sua posizione sociale, non sarebbe riescito. Il sagan fu dunque fuor di sè dalla gioia udendo il ritratto che io gli dipingeva del Rabbì di Nazareth, e noi convenimmo di affrettare i preparativi, e disporre gli animi, onde tentare il gran colpo nel prossimo paschah.

Lasciando il sagan andai da Claudia. M'accolse a braccia aperte come un vecchio amico. Io diedi a lei ragguagli più completi, e valutai con più calma le probabilità dell'impresa. Le mie domande la imbarazzarono [4] più forse di quelle del sagan. Ma in realtà, io prestava poca attenzione alle sue risposte. Una cosa per altro mi colpì, perchè ella stessa n'era impressionata. Claudia, dopo avermi raccontata la scena che seguì fra lei e suo marito dopo la mia partenza, mi disse, che da quella sera Pilato era divenuto invisibile e sembrava orribilmente triste. Arrivava al pretorio all'ora della giustizia, poi si chiudeva nella sua torre solitaria, e non se ne moveva più. Claudia non lo aveva intravisto, da circa un mese, che due volte, per darle delle lettere di Tiberio. Ella principiava a sospettare che suo marito l'amasse.

Ebbi paura di mettere questa lupa sulle traccie d'Ida, e di approfondire questa coincidenza di malinconia. Tuttavolta le dissi:

— Claudia, conosci tu Cajus Crispus?

— L'ho veduto a Joppa quando arrivai nella Siria.

— È egli morto ora?

— Otto giorni fa egli viveva, credo, poichè ne ho udito parlare. Non so se sia morto di poi.

— Conosci sua moglie?

— Mi fu mostrata a Roma spesse volte. È una delle Lesbiane alla moda, la più conosciuta nelle terme, aveva per amante il gladiatore Lydius, e per fellatore l'affrancato Cerinthus.

— A Roma! sua moglie non è dunque in Asia?

— Che io sappia almeno, no.

— Ma avrebbe egli ripudiato la sua moglie di Roma per prenderne una in Siria?

— Ne dubito. Terentilla è ricca. È figlia di un senatore, e Cajus Crispus è un ciompo, un legionario che ebbe fortuna. In quanto ad una moglie ch'egli potrebbe avere presa in Siria, non ci vedo nulla di straordinario. Tutti i nostri legionari si maritano [5] nelle provincie ove stanno di guarnigione; poi quando partono, scrivono alle loro vedove desolate: «Cara amica, sono morto il venticinque del mese scorso» non dimenticarmi troppo, consolati come puoi, e non divenir troppo brutta nella tua vedovanza, addio.» I nostri legionarii, soldati ed ufficiali, ripetono questi matrimonii per una stagione o due, ovunque essi vanno, in Germania, in Ispagna, nelle Gallie, in Giudea, sotto ogni clima.

Ne sapevo abbastanza. Il destino di quella povera ragazza Galilea m'era ora spiegato. Vi pensai sopra tutta la notte: la mia convinzione fu completa. Ida era una vittima ed amava il suo carnefice, non dubitando punto del suo destino.

L'indomani all'alba, montai a cavallo, e mi recai di galoppo a Berachah. Moab vegliava in cima della sua piccola torre. La porta era chiusa.

— Ah! Giuda, mi gridò da quel posto senza muoversi, sei tu? Hai dunque riflettuto al mio consiglio?

— Si tratta di ben altro che del tuo consiglio, Moab. Vengo a svelare alla tua padrona il più infame tranello che si possa tendere ad una donna, e che le è stato già teso.

— Davvero! sclamò stupito Moab: parla dunque.

— Non è mica a te che devo raccontarlo, non sei tu che io possa prendere per confidente in affare così delicato.

— Sta bene. Va allora a raccontarla, la tua storia, al Monumento del gran sacerdote.

— Moab, finiamo questo scherzo che principia ad offendermi.

— Tanto peggio. Ma se tu principii soltanto ad offenderti di ciò che chiami il mio scherzo, io lo sono completamente di ciò che io chiamo la tua impudenza. [6] Con qual diritto vieni tu ad insinuarti qui per attentare all'onore di una nobile dama che cerca la pace e la solitudine?

— Ma io vengo al contrario, per avvertirla.

— Di che?

— Ma bestia che sei, suo marito Cajus Crispus non è morto.

— E che importa a noi che il tuo Crispus sia morto o vivo?

— La tua padrona non è vedova.

— Ella vuol esserlo.

— Ella piange come un amore spento ciò che non è stato che un infame mercato.

— Tutti i mercati sono infami; compreso quello che tu fai in questo momento.

— Moab! Moab! la mia pazienza è stanca.

— E poi?

— Ma te ne supplico. Moab, lasciami vedere la tua padrona. Vengo a portarle la gioja. È così dunque che l'ami tu?

— Non inquietarti del come io l'ami. Non inquietarti di ciò che non ti risguarda. Non inquietarti del passato della mia padrona e di penetrarne le angoscie. La mia conclusione è questa: io conosco il pudore, la purezza, il profumo di questa viola mammola che custodisco da quasi due anni, e quali che sieno le apparenze e le ombre che abbiano velato, forse offuscato, il suo candore, non c'è una figlia di Sion che possa esserle paragonata. Io la vedo disgraziata e sola. Sola, poichè io sono tutto per lei, io straniero; io sono per lei padre, fratello, protettore, custode. L'ho adottata, io, a cui la mia fede proibisce d'amare la donna che avevo scelta, ed il figlio che la mi aveva dato. Io non comprendo la mia fede; non la [7] discuto. La trovo crudele, insensata, immorale; ma non avendola inventata io, avendola accettata, la rispetto straziando il mio cuore la notte, e soffocando le mie lagrime il giorno. Ebbene, questa povera creatura sulla quale io veglio, colpita da un seguito di sventure, di cui Dio solo può comprendere e giustificare la durezza, questa povera vittima ha bisogno d'un protettore che la difenda, d'un cuore che l'ami nobilmente e puramente. La tua fiamma, Giuda, mi pare una di quelle luci che si scorgono la notte nei cimiteri: una scintilla della putrefazione.

— T'inganni, Moab.

— Lascia che m'inganni; non c'è alcun male. Di tutti gli uomini che ho conosciuti, Giuda, tu sei quegli che io mi ami di più dopo il Battista; che io stimi meglio, malgrado la tua empietà ed i tuoi vizii. Sei l'uomo al quale confiderei con minor timore il destino e l'avvenire di Ida; perchè sono convinto che un giorno ella ti amerebbe, e che la tua concupiscenza d'oggi, si cangerebbe domani in un nobile amore. Se tu continui a vederla, la tua fiamma divamperà sempre più e non so che cosa potrà accadere. Io non vorrei ucciderti pertanto! T'impedisco di vederla. Tu la vedrai, quando l'avrai domandata in isposa.

— Ma, amico mio, come vuoi tu che io sposi una donna che non mi ama, e che conosco imperfettamente?....

— Ecco perchè t'impegno a continuare la tua strada ed a lasciarci tranquilli.

— Ma consentirebbe ella a questo matrimonio, anche quando io consentissi a tentarlo?

— Ora no. Ma dal momento che tu sembrerai risoluto, io so il mezzo di determinarla a tutto.

[8] — Mi amerà essa?

— L'amore non si coglie come una rosa bella e sbocciata in primavera. Si prepara, si coltiva, si accudisce, si chiama; e sta sicuro che un giorno, quando ella t'avrà conosciuto, l'amore verrà.

— Ma lasciami tentare ancora una visita, lascia che io le parli ancora una volta, non fosse altro per decidermi completamente.

— Cosa vuoi dirle?

— Lo so io forse? Moab, tu non hai mai amato, tu?

— Non so. Mi pare però che quando penso a quella disgraziata che volevano lapidare come adultera, e che il Rabbì di Nazareth ha salvata...

Moab s'arrestò. Sembrava soffocato da un singhiozzo.

— Moab, te ne supplico per la memoria di tua moglie e di tuo figlio, cui ti prometto non lasciar mancare d'oggi innanzi più di nulla; Moab, te ne scongiuro, fammi veder Ida ancora una volta io muojo d'amore per lei.

— Sia, disse Moab. Ma sarà l'ultima. Mi sono già spiegato abbastanza.

Io andava a tentare il mio colpo supremo, e non avevo un'idea nel mio spirito, una parola nella bocca. Non sapevo neppure perchè mi trovassi là. Il mio cuore mi soffocava.

Ida si era appena alzata. Era in una piccola stanza vicino al suo tablinum (il salotto d'oggidì), una specie di gabinetto ove ella tenevasi pensosa, stesa sopra dei cuscini di seta. Era avviluppata in una stola di lana bianca a grandi pieghe, che la copriva dal capo in giù, non lasciando vedere che dei piccoli piedi calzati di stivaletti rossi, piedi così piccini che parevano inverosimili. Noah aveva finito di vestirla e le [9] porgeva una coppa di latte caldo per quel primo pasto che i Romani chiamano jentaculum. Ella si mostrò molto sorpresa, e sgradevolmente, vedendomi. Moab mi precedeva.

In realtà, io aveva l'aria d'un importuno. Ciò raddoppiò il mio imbarazzo. Quando si ama si diviene stupido. Io amava per la prima volta nella mia vita. L'affrontai dunque con una sconveniente storditezza.

— Ieri, le dissi, ho dimenticato, nobile dama, l'oggetto principale che mi aveva condotto dinanzi a te. Avevo a rimetterti questa collana cui Erodiade, la moglie del tetrarca di Galilea, mi diede, dicendomi: La presenterai alla donna che ami di più. Ida, degna di accettarla.

— Ti sbagli d'indirizzo, o giovane. Non è per me quel gioiello: riponilo nel suo scrigno.

E non lo guardò neppure.

— Ti chiedo scusa, Ida, ripresi dopo un istante d'esitazione. Io non so a chi offrirlo, secondo la destinazione che Erodiade gli ha dato. Non ho moglie, non ho amica, non ho amante, mia madre è vecchia, le mie sorelle sono ricche e maritate. Io sono solo.

— Conservalo allora per quando non potrai più ripetere ciò che dici in questo momento. Non c'è motivo perchè io accetti il tuo regalo.

— Ciò mi avrebbe fatto pertanto un così gran piacere! Intorno a qualunque altro collo, questa collana perderà il valore.

— Cessa, e se non hai altro a dirmi, addio!

Gettai il mio giojello a Noah, dicendole:

— Comprane la tua libertà, quando non avrai più una simile padrona.

Noah arrossì, tremò, e fuggì col suo tesoro.

— Ebbene, Ida, poichè mi condanni a non vederti più, concedimi di parlare, avanti che io ti lasci.

[10] Ida si sollevò sul suo gomito, con aria severa ed offesa, e non rispose.

— Non aggrottare il ciglio, Ida: non ti parlerò di me. Io non ho cercato conoscerti. Taluni briccioli della tua storia sono giunti fino a me, soli, inattesi. Ne so forse più di te stessa, poichè tu non t'immagini certo neppure d'essere stata venduta per 15,000 sesterzii. Io conosco tuo fratello, e chi t'ha venduta. Sospetto chi fu l'uomo che ti comprò.

— Tu deliri, esci da qui, gridò Ida.

— Io non deliro punto, ma continuo. Tuo marito non è morto. Ha un'altra moglie a Roma.

Credevo di colpirla mortalmente: Ida si coricò lentamente sui suoi cuscini. Ella dunque sapeva tuttociò. Continuai.

— Sei stata la vittima d'una infame mistificazione: io ti porto la vendetta.

— Grazie, rispose Ida freddamente, riportala teco.

Mi ero fuorviato nuovamente. Toccai un'altra corda.

— Ida, sei sola, e ricca, continuai.

— T'inganni, interruppe Ida con un ghigno di disprezzo, sono povera. Puoi andartene ora, mi pare, dopo una simile spiegazione.

— Tanto meglio, risposi. V'è una ricchezza che macchia. Ma dov'è tuo padre? Ov'è tua madre? Ov'è tuo marito? Sono tutti morti per te, o io m'inganno sul loro carattere. A chi dunque indirizzarmi per dire ciò che tu rifiuti d'udire?

— Ma infine, gridò Ida incollerita, chi sei tu? Cosa vuoi?

— Chi io mi sia, Moab te lo dirà, tutta Gerusalemme potrà ripetertelo. Ciò che io voglio, non oso dirtelo.

— E fai bene perchè io non voglio nulla sapere, e nulla intendere.

[11] — Sei tu libera, Ida?

— Che t'importa ciò?

— Io debbo dunque soffocare nel mio cuore il grido che mi dice: questa giovinetta sì rudemente provata dalla sventura, è il tuo destino!

Ida alzò le spalle sdegnosamente, e si ricoricò. Io continuai.

— Io t'ho veduta, Ida, per la prima volta al circo.

— Cinquanta mila persone mi hanno veduta come te.

— Nessuna coi miei occhi. Poichè da quel momento tu riempi la mia anima, come l'anima riempie la vita.

— Via dunque! disse Ida con disgusto. Codeste passioni repentine e chiacchierone si comprano bell'e fatte dai poeti e dagli istrioni. Quanto ti ha dessa costato, giovanotto?

— Hai tu giammai amato, Ida?

— Che t'importa ciò?

— Oh, se hai mai amato, grazia per me.

— Ma veramente, giovane, tu deliri. Con qual diritto t'introduci tu nella mia casa, sotto un ridicolo pretesto, per offrirmi un amore di cui non ho d'uopo, che non ho in nessuna maniera nè autorizzato, nè incoraggiato, cui io non voglio, cui respingo con isdegno? Da chi credi tu trovarti? Quale ignobile impertinenza ti ha consigliato questo passo che mi offende! Ah! proruppe poi sciogliendosi in lagrime. Ah! se non fossi stata sola!

— Addio, Ida, le dissi. Tu hai mal giudicato le mie parole, ma hai ragione. Io mi sono condotto male. Che vuoi? non si è sempre padrone dei proprii istinti. Io venivo soltanto per avvertirti d'un pericolo, per illuminarti. Accogliesti male le mie proferte; io mi [12] ritiro. Ma ricordati questo. Ida: io t'amo. Se un giorno, il dolore che ti padroneggia in questo momento si calma, se la nebbia che ti ricopre si dissipa, e se hai bisogno d'un amico che ti consoli, di' a Moab di chiamarmi: io sarò sempre pronto, senza rancore, senza tiepidezza. Bisognava bene che io provassi alla fine quel dolore spaventevole che si chiama il primo amore.

Ida non intese forse una parola di ciò che io le dissi, poichè, la testa immersa nei suoi origlieri, singhiozzava. Io mi sentiva morire. Il sangue m'invadeva il cervello. Avevo voglia di gettarmi ai suoi piedi, di ucciderla, di coprirla di lagrime e di baci. Osai prenderle la mano — bella ed agghiacciata come quella d'una statua di Venere. A quel contatto, Ida balzò e si rizzò a me dinanzi. I suoi occhi si tersero in un istante.

— Che vuoi tu? la gridò. Noah! Noah!

La giovine schiava entrò.

— Indica la sua strada a codesto straniero, riprese Ida divenuta calma di nuovo, e volgendomi le spalle.

— Ida, gridai alla mia volta, sei dunque stata ben provata dalla sorte per divenire così crudele? Sono stato indiscreto forse, ma non ho meritato d'essere trattato come un galuppo.

Ida sembrò commossa.

— Giovane, disse ella, tu non sai dunque che non si deve mai domandar l'elemosina al ricco, il quale non comprende cosa sia la miseria? Tu mi domandi, credo, dell'amore: lo domandi ad una donna che soffoca sotto questo peso. Ebbene, io non ho nulla a darti. La mia ricchezza è forse minacciata in questo istante. Che importa! gli è sempre vero, che non ho [13] nulla per te, nè per alcuno. Quando la rovina sarà certa, oh, allora, ciò che si farà dei resti del mio cuore mi sarà indifferente. Se la morte li respinge, li prenda chi vuole. Io non sarò più della partita. Una carcassa senza anima, appartiene alla prima jena che vi si getta sopra.

— Ida, mi prometti di ricordarti allora di me!

— Si ricordano i morti, o giovane, ma i morti, essi, non ricordano più.

Ida lasciò la stanza. Passando per la corte, dissi a Moab:

— Avresti fatto meglio di uccidermi sulla soglia.

— Io ti aveva prevenuto, mi rispose con voce accasciata.

I quindici giorni che seguirono questa scena non contano nella mia esistenza.

Fuggii a Gerico. Mia sorella che m'amava tanto, che m'aveva fatto giuocare sulle sue ginocchia quando ero bimbo, che mi era stata quasi una madre, la mia povera sorella fu spaventata dal mio stato. Ella mi credette talvolta pazzo, talvolta stupido. Poi, ebbi la febbre ed il delirio. Chi non ha avuto una simile crisi nella sua vita? Tanto peggio per queglino che non l'ebbero mai. Finalmente mia sorella entrò nella mia stanza, un mattino, spaventata, e con voce concitata mi disse:

— Giuda, un corriere da Gerusalemme.

— Che mi vuol egli?

— Porta una lettera.

— La dia....

— È venuto a cavallo, e viene dal palazzo d'Erode.

— Dal palazzo d'Erode, o dall'inferno, per me è tutt'uno. Dove è la lettera?

— Eccola.

[14] L'aprii macchinalmente. Era di Claudia, e diceva:

«Giuda, ho il cuore morso da un sospetto. Conducimi subito il tuo messia, dovessi tu farlo trascinare dai soldati. Ho d'uopo di consultarlo, ad ogni costo. Presto, presto, presto.

«Claudia.»

[15]

XIX.

Il Rabbì di Nazareth lasciò la Galilea la notte stessa che avemmo il colloquio in casa di Maria.

In meno di dodici ore, egli aveva traversato la crisi fatale della sua vita. L'attitudine del popolo nella sinagoga, l'aveva scosso la mattina; la prospettiva dell'immenso orizzonte che io aveva spiegato innanzi ai suoi occhi la sera, lo aveva deciso. La sua anima era tocca. In mezzo ad un amaro disinganno, una folgoreggiante visione l'aveva consolato ed esaltato. Ma egli aveva paura della tempesta che aveva scatenata, forse con più precipitazione e più prematura ch'egli stesso non l'avesse desiderato.

Ormai, egli non poteva restare più sotto il bel cielo del suo paese, ove aveva tessuto tanti idillii nella prima fase della sua missione. Dopo aver gettato la sua terribile parola, che lo tratteggiava a figlio di Dio, egli non poteva più abbandonarsi ai dolci amori dell'infanzia, dei fiori, della donna, dei profumi, alla sua morale gaia, alla sua sottile ironia contro le bizzarre pratiche dei Farisei. Gli era mestieri ora regnare nelle regioni della folgore. Ma nessuno lo comprendeva più. I suoi discepoli stessi lo trovavano strano, lo credevano tal fiata demente, si raffreddavano, o si allontanavano. Egli sentiva che doveva arrischiare un colpo decisivo; ed io gli offriva una gran parte, in un grande teatro. Nulla ostante, non [16] credendo alle mie parole, volle assicurarsi dello stato degli spiriti, e per sua propria prova.

Il Rabbì era un cattivo Ebreo. Egli accettava le nostre leggi, le nostre tradizioni, i nostri patriarchi, i nostri profeti e le nostre dottrine, ma tutto sotto benefizio di stretto inventario; e ben poco ne lasciava in piedi dopo il suo esame.

Un abisso separava l'anima sua dall'anima nazionale.

L'Ebreo è materiale, formalista, rozzo, puntiglioso, orgoglioso, crudele, superstizioso, di passioni affatto vive e palpabili. Il Rabbì era dolce, semplice, tollerante, popolare; elevava lo spirito e l'ideale su tutto, e lasciava alla materia una grande libertà di sviluppo. Egli aveva sfiorato le dottrine di Sakya-Mouni, di Gesù figlio di Sirach, di Gamaliel, d'Hillel, d'Antigone da Soco, pigliando da loro i principii di eguaglianza sociale, di carità, di semplicità nel culto e nell'idea di Dio, di fratellanza umana. Ma egli faceva buon mercato del resto dei principii, presi sia nei libri di Mosè e dei profeti, sia nelle masores o tradizioni che formavano il corpo della legge orale. Respingeva, motteggiandola, la massa delle dottrine dei Farisei, come altresì quella dei Sadducei e degli Esseniani. Si alzava solo contro tutti: era egli perciò più alto di tutti? Al regno del popolo ebreo, opponeva quello di Dio. All'aspettazione di un messia più grande di Erode e di Giuda di Gamala, egli offriva un messia paradossale, addobbato ad iperboli incomprensibili, traboccante di promesse che se non erano delle assurdità, lambivano la mentecattaggine. Salomone, Giona, non arrivavano, diceva egli, all'altezza del suo malleolo[1]. Nonostante, la sua opera si riassumeva [17] in un tessuto di frasi oscure, ed alcune guarigioni di ammalati, quali i ciarlatani della piazza pubblica compievano essi pure, e che i maghi egiziani sorpassavano. Non lo si comprendeva, egli diceva, irritandosi sempre maggiormente. Gli era forse vero, ma sta sempre, che avendo urtato profondamente le credenze degli abitanti dei villaggi del lago, sgomentati i Farisei, gettato la diffidenza nella Casa Dorata, egli non poteva più restare nella Galilea. Lo avrebbero perseguitato, e preso in qualche agguato.

Spronato dunque dalla paura, consigliato dalla prudenza di verificare le mie parole, egli partì la notte stessa, seguito da soli due discepoli, l'ambizioso e turbolento Simone, e l'indolente Giovanni, altrettanto ambizioso, ma più poltrone del vecchio marinajo. Questi altresì si aspettavano dal maestro, nel suo regno, dei posti di generali, d'intendenti, di grandi sacerdoti, un'alta posizione in fine, con un ricco seguito di donne, di schiavi, di provincie da governare, di palazzi, di giardini, la porpora, le stanze dorate, e spingevano quindi il Rabbì ai colpi decisivi[2].

Traversarono la regione delle colline della Galilea, e penetrarono nella pianura di Tiro. Percorsero a piedi il paese, dal piano di Sidon fino alle montagne di Gilead, fermandosi poco, fiutando l'opinione pubblica, non predicando nè insegnando; perchè credevano esser seguiti dalle spie dei Farisei.

La cosa che pungeva di più i Farisei, gli era il voltafaccia di Gesù a proposito dei pagani. Egli, che [18] fino allora aveva rispettata la legge della separazione dallo straniero, come impuro, conversava ora con una Samaritana al pozzo di Giacobbe; dormiva sotto il tetto dell'uomo di Sychar; entrava nelle città greche, romane, o fenicie; si mischiava ai credenti di Baal e di Astaroth. Il popolo ebreo non era più per lui il popolo eletto, per il diletto del quale Dio aveva creato questa terra rivestita di fiori e di frutti, questo cielo inondato di astri. Egli credeva all'uomo, questo messia del popolo di Dio.

Il viaggio si faceva in fretta; poichè dal primo suo passo sopra questo suolo, ove l'attività umana si sviluppava con energia, Gesù comprese la situazione degli animi. Questi popoli che correvano il mondo, che trafficavano il mare, che esportavano ed importavano le ricchezze dei differenti climi, che godevano di queste ricchezze nelle orgie che si prolungavano fra due soli, che s'inebbriavano di donne, di vino, di arti, di ornamenti, che abitavano dei palazzi soppannati di seta e risplendenti di marmo e d'oro, questi popoli che divoravano le voluttà della vita, e la vita stessa senza risparmio, non potevano odiare i Romani che loro lasciavano una completa libertà di sviluppo, che l'incoraggiavano e li favorivano. Essi non potevano in nessuna maniera preferire una dominazione giudea, meschina, dura, barbara, limitata nello spirito e nell'attività individuale, che scorgeva in ogni uomo non circonciso un impuro da evitare o da lapidare.

Gesù in questo paese sentiva mancare il suo senso dell'ideale. L'aria voluttuosa che respirava nelle città gli dava la vertigine. Si trovava piccolo, disorientato. Egli che veniva a predicare la supremazia di Dio sull'uomo, l'eclissi dell'uomo dinanzi lo spirito, [19] trovava che qui l'uomo era Dio, e creava come lui. I suoi due discepoli, che non comprendevano nulla alla rivelazione ed alla rivoluzione che si compieva nello spirito del Rabbì, che non avevano come esso una forte energia morale per sostenerli, soccombevano sotto la fatica della corsa vertiginosa che trascinava Gesù.

Il Rabbì vedeva il mondo chiudersi sopra di lui per soffocarlo. La Galilea gl'involava il mondo ideale: qui, il mondo materiale l'assorbiva nella sua esuberanza.

Non potendo fissarsi in questa pianura di Tiro e di Sidon, in queste due città scintillanti di palazzi, ove il popolo lavorava per godere, non potendo, egli credeva, ritornare senza pericolo nella Galilea, Gesù ed i due discepoli vennero a cercar un ricovero nella Decapolis, gruppo di città greche alleate che accampa alla punta meridionale del lago di Gennesareth e sulle due rive del basso Giordano. In mezzo ai Greci ed agli stranieri d'ogni paese che popolavano Hippo, Gadara, Pella, Scitopoli, il Rabbì di Nazareth si credette sicuro.

Ma là pure, la sua anima non aveva eco, nè trovava quell'odio contro la dominazione straniera, di cui io gli aveva parlato, e quel desiderio della dominazione ebrea, che io attribuiva a quei paesi.

Qui, egualmente, il lusso, l'arte, il movimento per abbellire la vita di piaceri e di agiatezze, la scienza, la poesia, l'esistenza facile, le relazioni festevoli, si sviluppavano vivamente. Gli Dei erano umani ed alla buona, e non dei tiranni brontoloni ed arcigni come il Dio degli Ebrei. Omero, Platone, Tucidide, Erodoto, Anacreonte, non facevano punto desiderare il Pentateuco, i libri di Salomone e dei Profeti, di [20] Giobbe e di Daniele. Qui, quell'ideale del popolo ebreo sembrava un cupo e mal costrutto fantasma che era antipatico, ed offendeva lo sguardo. L'ideale stesso di Gesù, così semplice, etereo, si annientava in quell'aria febbrile, pregna di emanazioni umane, dell'eretismo dei sensi. Il Padre ch'egli predicava nel paese giudeo, era qui una creazione fantastica cui Platone aveva già abbozzata nella regione dei sogni. I miracoli trovavansi classificati negli aforismi d'Ippocrate. Quegli allegri bellimbusti dell'Olimpo ne avevano fatto di più belle.

Gesù non potè mantenersi neppure in quell'angolo d'un suolo, d'onde scopriva nondimeno le cime del Carmelo ai cui piedi sorgeva Nazareth sua patria, le roccie bruciate sulle vette delle quali poggiava Cafarnaum ove dimorava sua madre, le spiaggie fiorite ove Magdala lavava i suoi piedi, e cui Maria percorreva gli occhi assetati di rivedere il suo Rabbì.

Gli è in quel sito che lo incontrò il messaggiero che io gli inviai da Gerico dopo la lettera di Claudia, onde affrettare il suo viaggio a Gerusalemme.

Se Gesù aveva per un momento azzannato all'avvenire splendido che io gli aveva fatto intrasognare, e' si guariva ogni dì più delle sue speranze. Sulle rive del Giordano, come nei piani e sulle spiaggie di Tiro e di Sidon, egli comprendeva le terribili difficoltà della missione che io gli proponeva, la ripugnanza che destava un messia politico. Magdala, d'altronde, lo attraeva. Egli era come il Tantalo di quella casetta linda e graziosa ove Maria lo circondava di cure, di carezze, di fede. La tentazione lo vinse, prese il battello, e vi andò.

La voce del suo arrivo si sparse immediatamente. La gioja frenetica e comunicativa di Maria lo tradiva. [21] Poco alla volta, in quarant'ott'ore, i cinque villaggi della costa orientale di Gennesarth furono commossi. Coloro che credevano nel Rabbì ne aspettavano infine una manifestazione che loro desse confidenza, e li ponesse in grado di respingere il ridicolo di cui i loro nemici li coprivano. Questi nemici poi si misero in posizione di tendergli nuovi agguati, per farlo esagerare nella sua predicazione, e perderlo. Perocchè dessi non l'avevano nè dimenticato, nè perduto mai di vista, nelle sue peregrinazioni.

La lotta principiava a divenire implacabile e il terreno si circonscriveva sotto i piedi del Rabbì. Egli avrebbe voluto restare nascosto per alcun tempo in quel ritiro, onde meditare, onde meglio determinare la sua situazione, e poi decidersi sotto la pressione degli avvenimenti. Non lo potè. E' non andò alla sinagoga; il popolo venne da lui. La sua posizione era critica: eclissarsi e mostrarsi, egualmente pericoloso. Del resto non gliene fu lasciata la scelta.

Gesù era sceso sulla spiaggia verso l'ora ottava per recarsi a Cafarnaum, dalla moglie di Zebedeo che era ammalata. Alcuni Farisei ed alcuni Erodiani che si trovarono là, lo circondarono, e il cerchio in breve cominciò a farsi fitto. Gli agenti provocatori non mostrarono nessuna disposizione ostile. Festeggiarono dapprima il ritorno del Rabbì, perchè era corsa voce che avesse abbandonato il paese; poi cominciarono ad interrogarlo, come gente che ha voglia d'illuminarsi. Gesù comprese.

— Tu ci hai detto che sei il Messia, gli dissero, e noi siamo fortunati di crederti. Ma mostraci almeno con un segno, che tu sei quell'inviato di Dio che noi attendiamo.

[22] Gesù sospirò profondamente. Capì la perfidia di questa domanda. Che cosa doveva egli rispondere? che era il Messia, provandolo con delle cose sorprendenti, e chiamando il popolo all'insurrezione? A pochi passi di distanza, i soldati di Antipas lo spiavano. Rifiuterebbe di dare il segno che gli si chiedeva? l'avrebbero beffato, bandito come un impostore, posto alla berlina: ben felice se si fossero limitati ad annegarlo nel lago. Gesù, le cui principali qualità erano la presenza di spirito ed il sangue freddo, rispose:

— Quando la sera voi scorgete il cielo tutto rosso, voi pensate: domani farà bello. Quando lo vedete rosso il mattino, voi sclamate: oggi farà cattivo tempo. Ebbene, ipocriti, se voi potete indovinare i segni della faccia del cielo, perchè non indovinate voi altresì i segni dei tempi? Una generazione miserabile ed adultera domanda segni del cielo? Io non ne ho alcuno a darle, eccetto quello del profeta Giona.

— Insultare non è rispondere, o Rabbì, gli gridarono da tutte le parti. Se noi ti domandiamo il marchio del tuo apostolato di Messia, gli è perchè tu ti presenti come tale, e la trinci da figlio di Dio. Se tu non ti mostri così, sei un empio, e noi ti tratteremo come si trattano i bestemmiatori.

I discepoli del Rabbì, che si trovarono presenti, intervennero. Gesù, protetto da essi, indietreggiò di due passi e si gettò nella barca di Simone che si dondolava sulla spiaggia. I suoi discepoli lo seguirono, e fecero forza di remi. Era tempo: cominciavano già a lapidarli.

Questa scena imprevista sconcertò il piano dell'escursione di Gesù. Invece di vogare verso Cafarnaum, [23] a pochi minuti di distanza ove senza dubbio si sarebbe rinnovata l'istessa scena, Gesù fece mettere la proda verso la costa greca ove poteva trovare ricovero.

Sembrava scoraggiato, profondamente abbattuto. Egli vedeva che bisognava rinunziare per sempre a questa contrada che gli parlava della sua gioventù, della prima epoca della sua missione, profumata dalla memoria della grande fede che vi aveva trovato, di tante belle opere fatte, di tante belle parole dette. Un destino lo spingeva, e lo metteva nell'impossibilità di resistere, di ricalcitrare.

Quando egli disse a Simone di dirigersi verso Bethsaida-Julia, questi gli fece osservare che l'ora era avanzata, che la notte s'appressava e che avendo lasciato precipitosamente Magdala, non avevano preso con loro il pane.

— Che importa il pane? replicò Gesù.

— Bravo, osservò Giovanni indispettito, saremo obbligati d'impastare e di mangiare il pane senza lievito.

Gesù l'intese e gli rispose seccamente:

— Come! ne siete ancora alla preoccupazione dei Farisei e dei Sadducei, il lievito nel pane?

— Sta quieto, rispose Simone piano, toccando del gomito Giovanni; non vedi che è in collera perchè non abbiamo preso il pane?

— Uomini di poca fede! interruppe il Rabbì, seduto alla poppa. Che andate brontolando fra voi per non aver comperato il pane? Quante volte ne avete mancato? Quando io vi parlava del lievito del pane dei Farisei, è delle loro dottrine che io intendeva parlarvi.

Il Rabbì non si fermò a lungo a Bethsaida-Julia, [24] alla sorgente del Giordano. Quivi ancora, egli era troppo vicino; gli echi di Cafarnaum ve lo inseguivano. Egli si sentiva eccitato da una forza invincibile che lo spingeva avanti, a passare, come Cesare, il suo Rubicone. Si arrampicò sulla collina e venne a Paneas, divenuta da poco Caesarea-Philippi.

Dominato dalla sua preoccupazione, credendosi assalito pure in questo ritiro negli stati del Tetrarca della Golonotide — Filippo, un'altro figlio di Erode — egli pensava nascondervisi per qualche tempo. Avrebbe voluto sottrarsi alla fatalità che lo impelleva verso Gerusalemme ove io lo attiravo. Chiese dunque ai suoi discepoli:

— Gli uomini di qui, dicono essi pure che io sono il figlio dell'uomo?

— Gli uni dicono, rispose Giovanni, che tu sei Johanan il Battista; gli altri che sei Geremia; alcuni che sei Elija o un altro dei profeti.

— E voi, chi credete voi che io mi sia?

— Che tu sei il Cristo, figlio del Dio vivente, rispose Simone bruscamente.

Gesù che si compiaceva molto di questo titolo il quale rispondeva meglio, pel suo vago, alle sue aspirazioni ancora indecise e assai complesse, lodò Simone della sua adulazione, e l'incoraggiò con promesse. Credendosi pertanto traccheggiato anche a Caesarea-Philippi dai suoi nemici, congedò una parte dei suoi discepoli, e con due o tre di essi soltanto, s'avanzò nelle vallate del monte Hermon onde raccogliersi per alcuni giorni. Raccogliersi solo; poichè ormai aveva presa una risoluzione.

Il Rabbì di Nazareth rinunziava definitivamente alla parte di messia politico, che aveva per qualche tempo accarezzata, dopo il quadro che io gli aveva [25] tracciato della situazione degli spiriti nell'antico regno d'Erode. Io non avevo nulla esagerato nondimeno, come gli avvenimenti più tardi lo provarono. Ma Gesù, avendo nelle sue peregrinazioni toccato soltanto i paesi fenici, greci e romani, aveva creduto che il popolo ebreo dividesse con loro il sentimento di tolleranza del giogo romano. Avendo abdicato il titolo di figlio di David, cui alcuni mesi prima aveva vagheggiato, egli si era deciso per la parte di figlio di Dio che viene ad annunziare il regno di suo padre. Questo bisticcio, che non significava nulla, poteva prendere tutte le forme che le circostanze avrebbero indicate.

Il tipo di Rettore universale concepito da Gesù era quello di un gran sacerdote-re, il quale nel nome di Dio governasse e conducesse in via assoluta corpi ed anime — la monarchia teocratica la quale non conosce altro padrone che Dio con cui s'identifica, nè altro limite che le proprie aspirazioni — (il papato come è inteso oggidì al Vaticano).

Questo tipo non era realizzabile nei paesi misti, sotto la dominazione degli eredi d'Erode. La mescolanza di razze, di popoli, di credenze che s'incrociavano nelle provincie sotto la dominazione indiretta dei Romani, si opponeva a questa feroce autocrazia, quand'anche quei suscettibili figli di Erode fossero stati così dabbene da lasciarle gettare le sue basi nella loro casa. Occorreva dunque emigrare, e tosto; perchè i pericoli crescevano, si accumulavano dinanzi il Rabbì. Dove andare?

Io gli aprivo le porte di Gerusalemme, preparandogli una calda accoglienza. Io aveva bene specificato a quali condizioni. Gesù voleva sottrarvisi, e trar partito del favore che io gli preparava.

[26] I primi colpi della contraddizione l'avevano cangiato. Era divenuto irascibile, assoluto, collerico, esigente più che mai, non tollerante alcun ritardo, alcun consiglio, alcuna controversia, alcuna resistenza: non discussioni, non dubbii. Era divenuto spaventevolmente assorbente. Egli comprendeva tutto ciò che la sua posizione aveva di terribile. Non vedeva nessuna maniera di sfuggirvi senza scadere, rientrare nell'ombra, annichilirsi, e morire di crepacuore nel ridicolo. Comprendeva che in situazioni simili l'ardire solo può esser salvezza. Cesare s'era salvato così. Pompeo ed Antonio avevano soccombuto per aver mancato di codesta prontezza necessaria a parare i colpi del destino. Egli non aveva più nulla a sperare dal tempo che facendogli violenza. L'occasione che io gli offriva non si presenta due volte nella vita dell'uomo che provoca la sorte. Occorreva agire, ora, e nient'altro che agire, sorprendere, forzare quelle decisioni dietro le quali si rizza o l'altare o il patibolo. I suoi nemici l'avevano compreso. Essi l'avevano segnato, avevano posto gli artigli sopra di lui, e parevano decisi a non più lasciarlo, che soccombendo essi stessi, o annientandolo.

Gli antichi partiti non potevano più vivere insieme con lui. Egli li aveva provocati; essi avrebbero creduto abdicare se non avessero accettata la sfida, e schiacciato l'audace che li aveva sberteggiati. Gesù veniva a disfare cinquemila anni di giudaismo. Si poteva incrociarsi le braccia e lasciarlo fare? Il tuono da lui assunto non poteva del resto durare più oltre. La dottrina, tale quale egli l'esponeva, si oscurava e diminuiva spiegandola maggiormente: al che lo si spingeva ogni giorno. Il figlio di Dio stava in equilibrio sopra un filo, fra il sublime ed il ridicolo, [27] fra il messia ed il ciarlatano. Un soffio, e l'idolo ascendeva ai cieli, o si affondava nel fango. Già i suoi discepoli lo credevano un pazzo, ed i suoi nemici un demoniaco[3]. Ed egli si vedeva obbligato ad accelerare la progressione nell'entusiasmo, onde non precipitare dalle cime ove erasi innalzato.

Gesù aveva detto la sua prima parola: amore! Ora gridava freneticamente: Io sono la spada, il disordine, il fuoco! Rinnegava la patria, la famiglia, l'amicizia, la personalità: il sangue, il suo stesso sangue l'inebbriava. Dichiarava guerra alla società, alla natura. Un uomo gli disse: Io ti seguo, o Signore, ma lascia che prima io seppellisca mio padre. «Lascia» gli rispose il Rabbì «lascia i morti seppellire i morti: cammina». Ancora un passo, e questa fede, questa sicurezza, questa confidenza in sè stesso, questo idealismo, questa visione, questa fissità generavano la follia. Egli stesso me lo disse più tardi, tratteggiandomi lo stato del suo spirito nella capanna della valle del monte Hermon. Egli fe' violenza a queste riflessioni, tagliò corto all'aspettare, ai nuovi progetti, sviluppo consecutivo della sua dottrina e dei suoi piani, ed annunziò ai suoi discepoli che partiva per Gerusalemme ove andrebbe ad attenderli pel paschah.

— Aspetta ancora, o Signore, gli suggerì Simone, non andare ad esporti così presto.

— Indietro, Satana! gridò Gesù incollerito. Tu mi disgusti; perocchè tu non assapori le cose di Dio, e ti inebbrii di quelle degli uomini.

Gesù partì effettivamente dalla Galilea un mese prima della carovana. Andò a vedere sua madre a [28] Cafarnaum — aveva rotto coi suoi fratelli che lo spingevano a perdersi con dei colpi messianici avventurosi. Andò a vedere Maria a Magdala, e le ordinò di unirsi alla carovana, e di recarsi a Gerusalemme per la valle del Giordano. Egli prese in seguito, solo ed a piedi, la via di Samaria, traversando Shichem, Shiloh e Bethel, le tre città sacre che precedono Sion.

La sera del 13 Adar, giorno del digiuno di Esther, vigilia della festa grottesca del Purim, le saturnalia degli Ebrei (carnevale odierno), il Rabbì di Nazareth, entrò a Gerusalemme pel sobborgo e la porta di Beniamino, vedendo alla sua sinistra Bezetha colle sue case, le sue sinagoghe, ed il nuovo palazzo di Antipas, alla diritta il Gareb coi suoi giardini, le sue ville, la sua piazza per i supplizj, le sue grotte e le sue tombe. Traversando la grande strada nella valle dei formaggiaj, e voltando a sinistra a mezza via nella strada che conduce alla porta delle Greggie, egli passò il letto disseccato del Cedron. Poi costeggiò la china occidentale del monte degli olivi, ed a traverso una piantagione di fichi e d'olivi arrivò a Bethany, villaggio a due miglia di Gerusalemme, nella casa del suo amico Lazzaro.

Questa casa era bassa e nuda; aveva un tetto aperto, un solaio a calce e sabbia, una piccola corte, e dominava la valle del Cedron, il mare d'Asfalto, le montagne di Moab, e quel sentiero di pietre liscie e sdrucciolanti sulle quali nè cavallo nè cammello possono tener piede, e che da Gerusalemme conduce a Gerico. Fu lì, seduto fra le due sorelle di Lazzaro, Marta e Maria, che rinvenni finalmente il Rabbì di Nazareth, dopo esservi andato dieci volte per trovarlo.

Era tempo, imperciocchè ecco che cosa era accaduto.

[29]

XX.

Io non aveva mai compreso, nella nostra istoria, la violenza della passione di Amnon per la sua sorella Tamar, e la sua indegna condotta. La comprendevo adesso.

L'amore è sempre una malattia. In alcuni momenti, l'è una distruzione. Durante quindici giorni la mia anima aveva dato un terribile combattimento al mio cuore. Essa gli aveva presentato una ad una tutte le impossibilità, le inconvenienze, gli oltraggi del mio amore per Ida. Il cuore aveva sempre risposto: È vero, ma io l'amo. L'anima era restata colle sue ragioni vittoriose; ma il cuore aveva trionfato. Partii dunque da Gerico, risoluto di sposar Ida, checchè ne potesse accadere. L'avvenire era armato da capo a piedi in mio favore, se mai mi ripentissi. Poteva cacciarla, farla uccidere, ucciderla, se il delirio della mia passione si fosse calmato. Nonpertanto, quantunque assolutamente determinato al passo disperato di sposare l'abbandonata favorita d'un ufficiale romano, volli, per giustificarmi ai miei propri occhi, domandare un consiglio.

Arrivando a Gerusalemme andai a trovare Hannah.

Il sagan era uomo da darlo, questo consiglio.

Dopo la morte d'Erode, l'indomani stesso, due [30] partiti si erano levati in armi l'uno contro l'altro in Gerusalemme: il partito dei nobili, depresso dai Maccabei; il partito dei separatisti, schiacciato da Erode: i vecchi legittimisti[4], i quali sulla base della legge organica di Mosè ambivano una grande libertà oligarchica; il partito democratico, che mirava a monopolizzare e trar profitto del potere, oligarchico pure, ma dal basso in sù. I due partiti erano ambo contrarii alla dinastia, alle istituzioni di Erode, ed alla divisione ch'egli aveva fatto dei suoi Stati. Il partito nobile aveva per iscopo di rovesciare l'etnarca Archelao figlio di Erode, ed il gran sacerdote Joazar, della casa Betusiana, e d'impadronirsi del governo civile e religioso. Il partito popolare aveva per iscopo di rovesciare a qualunque costo Archelao, figlio d'una regina Samaritana, quindi impuro, e di trattare con Joazar, meno odiato, a causa delle sue maniere facili e nobili. Il capo del partito nobile era questo Hannah, figlio di Seth, uomo di grande nascita, di grandi ricchezze, dotato di coraggio, d'ambizione, di perseveranza illimitata, quantunque d'intelligenza scarsa, e di costumi depravati.

I due partiti avevano trionfato della famiglia di Erode. Archelao era stato chiamato a Roma per render conto della sua condotta. Accusato da tutti i partiti e dai suoi stessi fratelli, Augusto l'aveva esiliato a Vienna. In seguito l'Etnarchia era stata annessa alla Siria come provincia romana, mentre le due tetrarchie restavano ai due altri figli di Erode, che ambivano d'annettere la Giudea e la Samaria ai loro [31] Stati. L'accusa principale contro Archelao era questa: ch'egli aveva cacciato sua moglie Mariamne, e sposato Glaphyra, figlia del re di Cappadocia, la quale era stata prima moglie di suo fratello Alessandro. Quando Archelao fu esiliato, la bella e giovine regina ne morì di dolore. Cyrenius, governatore della Siria, fu incaricato di organizzare le nuove provincie sotto un governatore speciale, chiamato procuratore. Caesarea, sulla costa, fu destinata a capitale e residenza di questo funzionario.

Cyrenius venne a Gerusalemme. Dopo aver tasteggiato tutti i partiti, destituì Joazar il gran sacerdote popolare, e mise al suo posto Hannah. Mentre il primo procuratore, Coponius, risiedeva a Cesarea, Hannah regnava in Gerusalemme. Durante quindici anni, quantunque i Giudei fossero oppressi d'imposte, addolorati dalla perdita della loro nazionalità e del loro governo nazionale, nulla turbò l'impero di Hannah e del partito nobile che governava Gerusalemme in nome di Roma. Ma Valerius Gratus, il governatore della Siria inviato da Tiberio, si avvisò di dare un altro assetto al dominio romano, forse perchè egli vide la marea dello scontento ingrossare, e perchè sperava scongiurare il pericolo appoggiandosi al partito popolare. Fatto sta che Hannah fu destituito, e Ismael elevato a grande sacerdote.

Gratus comprese presto l'importanza del fallo che aveva commesso, dallo scontento più grave ancora che seguì la destituizione d'Hannah, scontento fomentato dal partito nobile. Non volendo indietreggiare, e pur volendo calmare gli spiriti, destituì alla sua volta Ismael, e nominò gran sacerdote Eleazar figlio di Hannah, lasciando a quest'ultimo, col titolo di sagan (deputato), le funzioni spirituali, ed il regolamento [32] dei riti inerenti alla carica di gran sacerdote.

Gratus non poteva però consolarsi di essere stato costretto a tutto ciò da Hannah e dai nobili. Per cui appena il potè impunemente, depose anche Eleazar, ed elesse in suo luogo Simone. Nuovo fallo; perchè in meno di un anno fu obbligato di deporre anche Simone e di nominare Caifas, genero del sagan. Da allora il trionfo del partito nobile fu definitivo, almeno per un certo tempo.

Pilato se ne fece un appoggio. Ma non riuscì nè a neutralizzare nè a vincere con questo partito quello popolare. Questo abbracciò i principii d'una fazione — la galilea di Giuda, di Gamala — cioè l'odio contro i Romani, e l'attesa d'un messia, il quale doveva vendicare i Giudei, spezzandone il giogo. Hannah vide questo partito ascendere, crescere, divenire ardito. Sentendosi in mezzo a due pericoli, piaggiò Pilato, e cospirò meco.

Tale era il sagan — un bell'uomo d'una cinquantina d'anni, rotto a tutti i vizii ed a tutte le astuzie, — che io stava per prendere a giudice della mia condotta.

Gli raccontai tutto: i miei passi presso l'Ida, l'accoglimento che ne aveva avuto, la mia lotta interiore, la risoluzione da me presa. Hannah m'ascoltò seriamente, tranquillamente, poi mi chiese:

— Hai tu la forza di strappare codesta passione dal tuo cuore?

— No. Ho provato, e non ci sono riescito.

— Lo vedo. Il tuo viso porta le traccie della sua lotta. Allora che vieni a domandarmi? Ogni transazione per mascherare la vergogna del tuo matrimonio, sarebbe un'altra vergogna. La passione non ha [33] logica, non può quindi avere un codice. Agisci francamente, apertamente, altamente. Sposa quella donna, e aspetta dal tempo il rimedio.

— Ella non ha alcun parente a cui dirigermi. Non oso presentarmi a lei di nuovo, per paura di romper tutto. Vuoi tu andare a domandarle per me la sua mano?

— Son pronto.

— Non ne arrossisci? Non indietreggi dinanzi il rimprovero di esser entrato in una casa impura?

— Per nulla. Soltanto combineremo una storia, che allontani più ch'è possibile di tali rimproveri.

— Ti lascio piena libertà d'azione.

— Quando devo andare a vederla?

— Aspetta. Bisogna che io parli prima con Moab onde prepararla alla tua visita. Temo di non riescire.

— Allora m'avviserai quando potrò presentarmi.

— In che maniera pensi tu di diminuire dinanzi il mondo la mia follia, e di mostrare mia moglie ai miei amici?

— Molto semplicemente. Noi non possiamo presentarla come la vedova di Cajus Crispus, che tutta Gerusalemme conosce, e sa essere vivo a Sebaste in questo momento, e che può capitar qui domani forse, alla testa della sua cavalleria. Gli è mestieri dunque far passare Ida per la moglie di quell'ufficiale, ripudiata da lui perchè la trovò invincibilmente attaccata alla fede dei suoi padri. Così, tutto è salvo. La bellezza d'Ida giustifica la passione del Romano che l'ha sposata, sperando convertirla in seguito. Questa perseveranza nel culto delle leggi di Mosè allontana da lei il rimprovero di avere sposato un pagano, e noi possiamo, senza contaminarci, entrare [34] nella sua casa. Qualunque onest'uomo può sposare una donna divorziata per simile ragione. Ma gli è d'uopo d'una cosa: che Ida abbia uno scritto di suo marito che confermi codesto divorzio. Ella non l'ha, probabilmente. Occorre ad ogni costo che ne abbia uno, dovesse ella falsificarlo. Io m'incarico, se c'è di bisogno, di far domandare da Pilato questo attestato, se Cajus Crispus lo rifiuta. Nella condizione eccezionale di quella giovane, possiamo alterare il rito ordinario del matrimonio, accorciare le dilazioni, semplificare le formalità. In una parola, noi siamo padroni di agire un poco a nostro comodo, e preparare così dei motivi di nullità di matrimonio nel caso che tu te ne penta, o che abbandoni la tua follia.

— Grazie, Hannah, tu mi salvi. Corro a Berachah.

Vi corsi infatti immediatamente e vidi Moab. Gli dichiarai che volevo sposare la sua padrona, e gli spiegai il tutto.

Egli comprese. Promise di fare tutto ciò ch'era necessario, d'ottenere l'atto di divorzio, e di venire da me fra due giorni, per annunziarmi il risultato dei suoi passi. Ritornai più calmo, e, devo confessarlo? scusando me stesso della mia viltà.

Moab non disse una parola ad Ida di tutti questi accordi. A sua insaputa andò a vedere Pilato, nel giorno stesso, alla sua torre di Mariamne.

Ho saputo da Noah e da Moab, più tardi, i fatti che sto per raccontare, e li racconto qui onde far meglio comprendere le scene dolorose che stanno per svolgersi.

L'uomo che io aveva veduto uscire dalla casa di Ida, la notte in cui vi cercai un ricovero, era propriamente [35] Pilato. Cajus Crispus non aveva mai veduto Ida. Colui che l'aveva comperata e fatta rapire era lo stesso Pilato. Il suo amante era Pilato. Nessuno conosceva questo amore. Egli andava a vederla la notte, e quasi tutte le notti. L'amore d'Ida era la brezza di quella vita bruciata da tante cupidigie e da tante passioni. Dopo la terribile scena però, ch'egli aveva avuto con sua moglie, Pilato aveva tremato forse; aveva avuto rimorso; in ogni caso e' voleva prepararsi il diritto d'essere d'ora in avanti severo con Claudia.

Ida l'aspettava come sempre. Quando ella udì il rumore dei cavalli, il rumore dei passi nell'atrium, corse, il sorriso sul volto, i baci sulle labbra, le braccia aperte. Ventidue ore della sua giornata erano un desiderio ed un preparamento a quelle due ore di beatitudine che passava col triste e cupo Romano. Ella cominciava a perder la speranza di vederlo in quella notte; la tempesta sfrenata metteva a soqquadro il cielo; l'ora ordinaria era scorsa. L'arrivo di Pilato le parve dunque una doppia festa. Ma appena fu egli penetrato nei raggi di quella camera da letto rischiarata vivamente, ella indietreggia colpita dall'aspetto di lui. Era orribilmente pallido, aveva gli occhi stravolti, gli abiti coperti di sangue, il braccio ferito, Ida gettò un grido. Pilato quella volta non le rese le sue carezze; non la calmò. Sedette, o meglio si lasciò cadere affranto sopra dei cuscini, e piegò la fronte fra le mani, sulle ginocchia. Ida corse a lui.

— Dio mio, Dio mio, cos'hai? gridò essa.

Pilato si alzò d'uno sbalzo, e baciandola in fronte le disse:

— Tranquillizzati. Questa notte hai d'uopo di tutta la tua calma. Vengo ad annunziarti una disgrazia.

[36] — Che! non m'ami più? sclamò Ida tremante.

— Peggio ancora, Ida.

— Impossibile. Ma parla dunque, parla, Dio buono.

— Ida, non ho che alcuni istanti a darti, e darei la mia vita, per diminuirti l'amarezza. Ma non posso più nasconderti il vero senza disonore.

Ida gettò le braccia al collo del suo amante, e con voce soffocata, balbettò:

— Parla.

— Ida, io ti lascio.

— Come? tu mi lasci?

— Ida, amo mia moglie.

Le braccia d'Ida si sciolsero a poco a poco, un gemito sordo si sprigionò dal suo petto, e cadde al suolo fulminata. Pilato la prese fra le sue braccia, la posò dolcemente sul letto, e s'inginocchiò al suo capezzale, spiando, con gli occhi annegati di lagrime, il suo ritorno alla vita. Scorse lungo tempo. Finalmente, poco a poco, le pallide guancie, le labbra scolorite d'Ida si animarono, un soffio ardente traversò la sua bocca, le sue diafane narici palpitarono, le palpebre si aprirono dolcemente, smisuratamente, l'occhio ceruleo brillò come la stella mattutina, le lunghe ciglia tremarono; poi alzandosi di un colpo sul letto, gettando le braccia al collo dell'amante, e scoppiando in un riso convulso, ella gridò:

— Oh! amico mio, che sogno infame ho io fatto.

Pilato diede in un lungo sospiro, e tacque.

— Indovina! continuò Ida, ho sognato che tu mi lasciavi, dicendomi con voce breve e mortale: Amo mia moglie.

— Ida, non hai sognato.

— Non ho sognato, dici? gli è dunque vero! è [37] vero che m'abbandoni e che ami quella donna, bella.... oh! bella, che ho veduta nel circo?

— È vero.

— E l'amavi tu, quando m'hai presa? L'amavi tu durante quelle notti lunghe e felici nelle quali mi hai mille volte ripetuto, che io era la luce della tua vita? L'amavi, quando mi prendevi sulle tue ginocchia, e la testa piegata sulle mie spalle, m'abbruciavi del tuo soffio, mi compenetravi di un fuoco che ci faceva tremare insieme, come due foglie sotto i buffi della tempesta? L'amavi tu, quando, qui, in questo posto, dove tu sei, dove sono io, m'inondavi dei tuoi sguardi come d'un bagno di fiamme, e che la tua anima si esalava in una cascata di baci? Dimmi, dimmi, era a lei che tu pensavi quando eri così vinto di tristezza, quando eri così fosco, quando sospiravi di così profondo, da sì lontano, che quel sospiro pareva uscisse dalla tomba della tua anima?

— Ida, mia moglie non sa ancora che io l'amo, che l'amo da sei anni! Ella non ha ancora ricevuto un solo bacio da me.

Ida balzò dal suo letto, e prendendo la testa di Pilato sul suo seno la coperse di baci.

— È vero quello che mi dici? è proprio vero, amor mio?

— È vero, Ida. L'è la mia terribile storia. Ma non è meno vero, figliuola mia, che io devo lasciarti per sempre, e che amai quella donna fatale dal primo giorno che la vidi.

— Tu non m'hai dunque mai amata!

— Ho fatto meglio che amarti, Ida, io ti ho considerata come il riposo della mia anima. I giorni felici della mia vita si contano con quelli che ho passato vicino a te.

[38] — Ah! me ne ricordo ora: tu non mi hai mai detto d'amarmi. Sì, almeno non mi hai mentito. Ah! se tu sapessi, Ponzio, come io t'amo? Ma trovami dunque un paragone perchè io possa esprimerti come io t'amo, perocchè io, povera figlia del popolo, sono ignorante. Sì, ti sfido a trovare un paragone che non sia pallido e mentitore. Ma perchè non m'ami tu? Sono brutta forse? Sono cattiva? Mi vesto male, e non so dirti mille tenere cose? Me ne passano tante nell'anima, pure; te ne dico tante, quando non sei più là! Poi, non so come avvenga, dacchè tu arrivi, non so far altro che guardarti, abbracciarti, e poi.... ecco tutto! Ebbene inventa qualche cosa che valga un bacio tutto pregno di ciò che l'esistenza ha di più ardente. Dimmi i miei difetti, Ponzio, me ne correggerò. La mia testa, il mio corpo sono tuoi, fanne ciò che vuoi, col ferro e col fuoco.

— Ida, tu sei la creatura la più bella, la più soave, che io m'abbia vista in mia vita. Ma io amo mia moglie, che mi odia.

— Ma, io t'amo, io, Ponzio. Non sono così folgorantemente bella come tua moglie; ma io t'amo, non amo che te, non ho mai amato che te. Questa sera sono una stolida, vedi! Ho ricevuto un colpo troppo forte dalle tue parole. Ma vedrai domani sera come ti dirò delle cose gentili, come mi farò bella. M'adornerò dei bei giojelli che mi hai regalati. Il vecchio Thorix mi coglierà dei fiori che metterò nei miei capelli. Vedrai come Noah mi pettinerà bene. La povera ragazza ruberebbe la bellezza d'una regina per adornarmene, e farti piacere. Ceneremo insieme domani sera. Ti canterò quella bella canzone del tuo paese che m'hai insegnata..... Vedi, Ponzio, ti parlerò in Iberiano.

[39] — Ida, fanciulla mia, non c'è più «domani sera» per noi! Ti dico addio per sempre.

— Oh! impossibile, impossibile, ti dico. Non si viene da una povera ragazza che ti ama, che non ti ha mai fatto del male, e non le si dice con quell'accento feroce che hai questa sera nella voce: Addio! addio, sia pure: ma nel cielo. Uccidimi, ucciditi, ed andiamo a ritrovarci in seno al Dio d'Abraham. Chi è dunque che ti ha consigliato di venirmi a torturare così, stanotte, con codesto orribile scherzo? È tua moglie forse. Ma di che sarebbe ella gelosa poichè la è così bella, più bella di me?

Pilato si alzò. Questa specie di divagazione della giovinetta, lo straziava.

— Ida, diss'egli, da alcune ore una nuova vita è principiata per noi. Mia moglie ha un amante che io non ho il diritto di uccidere, ma ella ti ucciderebbe se sapesse che tu sei mia. Eppure, Dio sa quanti rimorsi m'hanno costato queste goccie di consolazione di cui tu hai sparso la mia vita lugubre e disonorata. Io mi getto in un avvenire di tenebre, cui non oso guardar di fronte, e nemmeno intravedere. Non so cosa avverrà di me. So che non posso ormai continuare a vederti senza insultarti, senza insultare me stesso, senza insultare la donna che porta il mio nome. Tu ti consolerai, col tempo. Sei pura, sei restata pura anche sotto i tristi baci strappati al mio dolore. Sei giovane, l'avvenire è un abbagliante promettitore: confida in lui. Se sei stata punta da un'ortica cogliendo delle mammole, i fiori che si schiudevano nelle tue braccia non saranno men belli, quando il bruciore sarà calmato. Ah! potessi dire altrettanto di me! Gli Dei mi hanno messo nel cuore un amore per farne il mio carnefice....

[40] — Cessa, o Ponzio, disse Ida, vedo che tu sei infelice, e che sei determinato. Oh! come vorrei vedere tua moglie, e dirle quanto tu sei buono, e supplicarla a ginocchio di amarti.

— Ida, Ida, sclamò Pilato abbracciandola in un accesso di delirio, perchè non posso io dirti: t'amo! tu sei la più nobile di tutte le creature!

Poi sciogliendosi ad un tratto da quella stretta, si precipitò fuori della stanza gridando:

— Addio, mia gioja perduta, addio consolazione celeste, sii felice per sempre!

— Pilato! Pilato! gridò Ida come risvegliandosi di un balzo, ancora una parola, un ultimo bacio. Pilato! ascoltami, Pilato.....

Pilato era già nella corte ed usciva dalla cinta. Ida corse fino all'atrio, e cadde svenuta nelle braccia del vecchio Thorix, il suo giardiniere gallo.

Dopo quella notte, Pilato non uscì più dalla sua torre, consumato da una implacabile malinconia.

Ida si strusse in lagrime, dopo due giorni di delirio, ed otto di febbre. Noah, Febea, la vecchia moglie del giardiniere, vegliarono giorno e notte su lei. Infine ella si alzò come dal fondo d'una tomba ove aveva lasciato la sua gioja, la sua speranza, la sua gioventù. Il giorno stesso in cui potè dare degli ordini, rese la libertà a tutti gli schiavi di cui Pilato l'aveva circondata, come una piccola regina. Thorix che da trent'anni abitava quella casa, passando di padrone in padrone, attaccato a quella gleba di cui aveva fatto un piccolo paradiso, a quelle piante, a quei fiori, a tutta la creazione che aveva imposta a quelle nude roccie, non volle la libertà, onde non lasciare quel mondo che era nato sotto le sue mani. Febea non abbandonò suo marito. Noah rifiutò di separarsi dalla sua padrona.

[41] Intanto, Ida — continuo a chiamarla così — avendo perduto l'amante, non volle conservarne le reliquie. In questa casa, tutto le ricordava una felicità svanita, un amore che aveva naufragato al primo volo. Ma dove andare? Che divenire? Allora il pensiero di sua madre, della casa di suo padre, brillò come un arcobaleno dinanzi ai suoi occhi. Bisognava far loro conoscere la sua posizione. Chi inviare? Ella non aveva nessuno cui confidarsi. Moab era ancora molto ammalato, malgrado le cure ed i rimedii secreti di Febea che lo vegliava. Thorix non comprendeva quel mondo di cose, che una donna sa, od indovina, e che Ida voleva far conoscere a sua madre, per commuoverla. Prese una risoluzione, ed un mattino fece montare Noah sopra un cammello, Thorix sopra un asino onde accompagnarla, e li inviò a Nazareth.

Gesù conosceva da lungo tempo la dolorosa storia di sua sorella, dalla sua vendita al suo destino finale. Non ne aveva detto nulla nè a sua madre, nè ai suoi fratelli, nè a sua sorella. Noah trovò la famiglia partita per Cafarnaum. Ida sapeva già la morte del padre. Gesù era assente.

È impossibile descrivere il lutto che si abbattè sul cuore della povera madre del Rabbì, al racconto misto di lagrime che le fece Noah. Ne parlò ai suoi figli. Un grido di riprovazione sorse da tutta la famiglia.

I fratelli, l'altra sorella del Rabbì, erano gente di intelligenza limitata, rozzi, senza cuore, pieni d'avidità, d'ambizione, d'invidia, e di gelosia. La madre avrebbe voluto attendere a rispondere fino all'arrivo di Gesù, che era allora il capo della famiglia, essendo il primogenito. Ma gli altri figliuoli della [42] moglie del carpentiere si pronunziarono in forma chiara ed energica «Mirjam è una straniera per noi, se la mette il piede in questa casa, noi la lasciamo tutti, ti lasciamo tutti, madre, o l'anneghiamo nel lago.» Questa è la risposta che la povera Noah udì tremante, e la sola che potè recare alla sua padrona.

Ida aveva ricevuto questa comunicazione da due giorni, allorchè io picchiai alla sua porta.

In questa situazione, si comprende la proposizione che mi venne fatta da Moab. Occorreva a quella povera giovane un angolo per ricoverarsi, poichè era decisa ad abbandonare la casa di marmo ed il delizioso rifugio donato da Pilato.

Ida, nonpertanto, sperava ancora nel ritorno del suo amante. Non poteva rendersi conto di ciò che era accaduto, e come in alcuni minuti avesse potuto rompersi un legame tessuto d'oro e di raggi per due anni. Per determinarla era mestieri un colpo decisivo.....

Moab stava per portarlo.

Egli si recò da Pilato.

Lo trovò in un piccolo appartamento nella torre Mariamna, molto poco ed assai semplicemente ammobigliato. Dappertutto c'erano soldati romani, cosicchè l'avresti detto alloggiato in un accampamento in tempo di guerra. Moab fu introdotto appena fece dire qual era il suo nome, e che veniva da Berachah.

Una certa emozione si dipinse sul viso di Pilato. L'aspetto di quell'uomo gli faceva ricordare tante cose, tanti giorni felici, irrevocabilmente tramontati! Imperciocchè Pilato era davvero cupamente triste, pallido più del solito, e come consunto da una febbre [43] che non gli dava tregua. Lo si sarebbe detto convalescente. Aveva ancora il braccio avvolto in un pezzo di stoffa.

— È accaduta qualche disgrazia? gli chiese Pilato ansiosamente.

— La disgrazia sta di casa da noi, rispose Moab, non può dunque più arrivare.

— Parla, allora. È Ida che t'invia?

— No. Ella non conosce il passo che io faccio. Agisco di mia propria ispirazione.

Pilato prese un'aria più fredda, e soggiunse:

— Cosa vuoi dunque?

— Ecco, in due parole: m'occorre una tua lettera ad Ida, nella quale tu, nella maniera più definitiva e più formale, le dichiari che la non debba più pensare a te, perchè tu sei felice con tua moglie.

— Proprio! sclamò Pilato.

— Che la debba maritarsi, se trova uno sposo, e dimenticare il passato.

— È tutto?

— Non ancora. Mi farai poi uno scritto, in nome di Cajus Crispus, che dica ch'egli l'ha ripudiata, e che Ida è libera di convolare a nuove nozze.

— Quante nozze nelle tue parole! Stanno esse soltanto nel tuo discorso?

— No.

— Come no! Ida si mariterebbe dunque di già?

— Non è lei che si marita, sono io che la marito.

— Tu? ma, fulmini di Giove! parla dunque chiaro e presto.

— Io procedo per ordine. Non posso principiare dalla fine.

— Allora?

[44] — Ebbene! Tu sai che Ida non vuole nulla da te, che ti ha rinviato i tuoi schiavi, e che si apparecchia a lasciare la casa che le hai data. Ella inviò Noah presso sua madre a Cafarnaum. N'ebbe in risposta: che non la conoscono più, e che se si arrischia a por piede in quella casa, i suoi fratelli la annegheranno nel lago di Gennezareth.

— Bestie brutali.'

— Cosa vuoi? ci sono dei bruti simili, i quali considerano che l'onore è ancora qualche cosa in questo mondo. Non sei dell'istessa opinione tu, marito di Claudia Paolilla?

Pilato fulminò di uno sguardo il suo insultatore, e non rispose. Moab continuò:

— Tu sai inoltre che Ida è povera, che è giovine e bella, e che, malgrado il tuo contatto, la è una delle più pure figlie d'Israello. Che diverrà ella quando sia uscita da quella casa, ove tutto le ricorda una gioja estinta, un amore oltraggiato, l'onore perduto? La sua vita è nelle lagrime; se non lascia quella casa, ella morrà.

— Che posso io fare?

— Quello che ti ho chiesto.

— Con quale scopo?

— Tel dico subito. Ti ricordi di quel giovane Giuda bar Simone da Kariot, che nel circo salvò la vita di tua moglie, che tu facesti arrestare, e ch'ella fece porre in libertà?

— Me ne ricordo.

— Ebbene questo giovane vide Ida nel circo, e ne fu colpito nel cuore. Egli la cercò, mi cercò, ma non potè allora trovarci. Per uno strano caso, una notte di tempesta, quella stessa in cui egli uscì dal palazzo d'Erode ed andava a Betlemme onde veder sua madre, egli si ricoverò a Berachah.

[45] — Lo incontrai per via.

— Quindici giorni dopo, egli venne a ringraziar Ida; la rivide, la riconobbe, e la sua pazzia scoppiò. Lo misi alla porta, dichiarandogli che la vedova di Cajus Crispus non riceverebbe ormai che quegli che venisse a domandare la sua mano.

— Ed è ritornato?

— Mi ha domandato, quindici giorni dopo, di sposare Ida. Non l'ha riveduta. Non le ha nulla domandato. Vuole ora inviare il sagan a portare il suo messaggio.

— E Ida non ne sa nulla?

— Assolutamente nulla.

— Tu dunque non vieni in suo nome?

— Te l'ho già detto.

— Ebbene, io respingo la tua dimanda.

— E perchè la respingi tu?

— Dapprima, perchè così mi piace; poi, perchè sei tu che me la fai; finalmente, perchè non credo alla tua storia, e che essa deve coprire qualche vergognoso mercato.

— Pilato, non abbiamo l'abitudine, noi, di comperare le nipoti a degli zii infami, e di farle rapire. Io ti ho detto il vero. Tu puoi assicurartene come meglio vorrai.

— Non ho d'uopo di verificare nulla; i vostri nomi me lo dicono abbastanza.

— Non so quale obbjezione hai contro i nostri nomi, e non vengo a spiegarmi a questo proposito. Si tratta d'altro.

— Di che dunque?

— Di che? disse Moab principiando a torcersi le mani e a respirare più violentemente, di che? Tu hai disonorato una povera fanciulla che non aveva [46] nulla fatto per provocare una simile sventura. Questa fanciulla ti ha amato, è ancora onesta abbastanza per rifiutare il prezzo dell'amore ch'ella ti ha dato, e non venduto. Ora questa povera creatura, che ti ama ancora, ha qualcuno che s'interessa a lei, e che l'ama, l'ama al punto di dimenticare che la è stata gualcita....

— Sarebbe dunque ben felice, quel giovane, ottenendo Ida?

— Il passo ch'egli fa, lo dice ad esuberanza.

— Non la sposerebbe senza questi scritti che mi domandi?

— L'uno serve a decidere Ida; l'altro a redimerla, e rendere la sua disgrazia dignitosa.

— Ed egli si riputerebbe ben infelice, codesto Giuda, se dovesse rinunziare a lei?

— Lo credo. Io m'intendo poco d'amore, ma e' mi pare colpito da demenza.

— Ebbene, io rifiuto reciso di cooperare a codeste nozze.

— Ma rifletti, Pilato, che qui non si tratta di Giuda, ma d'Ida, continuò Moab con grande calma nella voce mentre che i colori si alternavano sul suo sembiante. Dimentica Giuda, e le ragioni che puoi avere contro di lui, se tuttavia ne hai alcuna. Ma potrai tu riposar tranquillo le tue notti, quando avrai gettato questa povera figlia sul lastrico, forse in mezzo a quelle disgraziate che portano la testa coperta ed il corpo nudo, agli angoli delle strade? Se io avessi un ricovero, io non sarei qui, non ti parlerei supplicante come fo. Ma il mio covo, il mio, gli è quello da cui scaccio nel deserto la tigre ed il leopardo. Posso io condurre quella povera creatura in quell'inferno? Non ho un pezzo di pane, vivo di radici, [47] di locuste, di qualche lappata di mele che disputo alle vespe. Posso nutrire quell'essere delicato di queste immondizie? Non so lavorare. Il mio mestiere è di pregare, di far del bene, di fulminare il vizio, d'amare il mio paese, di detestare e combattere lo straniero. Varrebbe meglio forse coltivare la terra. Nol so. Ma è troppo tardi per tornare a ciò. E poi non è di questo che ora si tratta. Pensaci! cosa diverrà Ida una volta partita da Berachah? Pilato non ascoltava più Moab, forse non lo vedeva più. Passeggiava a passi concitati, e parlava a se stesso.

— Ecco gli amori eterni! L'eternità d'una donna, della più innamorata, non è dunque che quindici giorni? Come! il suo viso è ancora rosso dell'alito mio! i miei baci aleggiano ancora sulle sue labbra, le sue pupille riflettono ancora il mio viso, e già, già! ella apre le sue braccia ad un altro uomo! Puh! Ebbene, no; io non coopererò a questa infamia. La prostituzione di questa ragazza principierebbe nel giorno delle sue nozze.

— Pilato, non dir ciò. Gli è male ciò che tu pensi, e ciò che vuoi fare. Tu non hai mai amato Ida; donde ti viene codesta gelosia?

— Non è gelosia, è nausea. Io vendico la morale.

— Marito di Claudia, ti proibisco di pronunziare codesta parola, parlando d'Ida.

— Che! tu....

— Sei stato un infame, non esser vile.

— Va fuori.... fuori da qui, miserabile furfante

— Sì, uscirò, rispose Moab, ma quando l'avrò vendicata codesta morale, l'onore, il mio paese, ed Ida....

E così dicendo Moab cavò un pugnale e si scagliò su Pilato.

Pilato gettò un grido: cinque o sei soldati si precipitarono nella stanza.

[48]

XXI.

Io attesi Moab tre giorni. Non sapevo ch'egli era stato arrestato dopo aver ferito Pilato alla spalla. Non osavo andare a Berachah. Una inquietudine febbrile non mi lasciava decidere sopra alcuna risoluzione. Percorrevo le vie di Gerusalemme dalla mattina alla sera, e dalla sera alla mattina. Justus, che mi aveva evitato fino allora, credendomi istrutto delle sue infamie, ora, più tranquillo, mi seguiva dovunque.

Avevo già visitato Lazzaro quattro o cinque volte, dopo il mio ritorno, per aver notizie del Rabbì di Nazareth. Volevo inviarlo da sua sorella onde intercedere per me; giacchè, certamente, il Rabbì non poteva sperare uno scioglimento più fortunato dalla fatale posizione in cui Ida si trovava. Finalmente, in una corsa fatta un mattino a Bethania, Marta, sorella di Lazzaro, m'annunziò che il Nazareno arriverebbe per le feste del Purim. Mi sovvenni allora della lettera sì pressante di Claudia, ed andai al palazzo di Erode per dargliene notizia.

Ricorderò qui che io non conosceva nulla allora di tutto ciò che ho raccontato di Pilato e d'Ida, e che io credeva sempre che ella fosse stata l'amante di Crispus.

Claudia m'aspettava con impazienza da diversi giorni. Cento pazzie fermentavano nel suo capo.

[49] — E il tuo messia? — mi domandò avanti che io neppure avessi passato la soglia della sua porta, — ove l'hai tu lasciato, il tuo messia? Perchè non entra?

— È per istrada, Claudia; arriva fra pochi giorni, al quindici di questo mese.

— Gli piacerebbero le mascherate, per avventura?

— Credo che non n'esca giammai, risposi ridendo. Hai dunque molta fretta d'interrogarlo?

— È desso almeno del calibro di Simone di Samaria?

— Non posso compararli; non lavorano nell'istesso genere. Ma il mio Rabbì, Claudia, mi sembra un compare non comune. È serio; è severo; difficile a maneggiare, come un giovine mulo; non ha passioni che diano presa su di lui; è ostinato e disinteressato; e vaneggia come dieci profeti.

— È dunque la perfezione che sei ito a dissotterrare in quella provincia! osservò Claudia. Mi dai la febbre dal desiderio di vederlo.

— Non potrei surrogarlo io, per un momento?

— Sei curioso? Ebbene non ti dirò nulla. Quando una donna ha una piaga, è già molto se la mostra al suo medico.

— Preferisco vedere le tue belle spalle, o Claudia, ed i tuoi occhi tumultuosi, che le tue piaghe. Ne ho abbastanza delle mie.

— Dimmi anzitutto a che punto sono i nostri affari più serii.

— Non potrebbero progredire più prosperamente. La Galilea e la Samaria non attendono che una parola per insorgere. In quei paesi, gli Erodiani ed i Zeloti che seguono i figli di Giuda di Gamala, sono [50] animati d'uno spirito irresistibile. Antipas arriverà per la festa del paschah con un seguito numeroso, il quale prenderà le armi al momento della sommossa. Un migliajo di giovani del suo Stato lo precedono in occasione della festa, ed i sotterranei del palazzo d'Antipas si riempiono già di ciò che occorre per armarli. Il popolo di Gerusalemme è molto eccitato. I Farisei ed i Sadducei che si odiano fra loro, convengono in questo: che val meglio, cacciati i Romani, che uno dei due partiti resti padrone, dopo la distruzione dell'altro, anzi che lasciar dominare lo straniero, il quale li schiaccia tutti, anche quando favorisce il Sadduceo. Gli Esseniani, che professano principii contrarii a quelli dei due altri partiti, s'accordano in questo con loro: che occorre purificare il suolo d'Israello dalla presenza degli infedeli. Noi, Sadducei, vogliamo un governo oligarchico che soggioghi il partito del Tempio, una repubblica con gli efori come in Grecia. I Farisei vogliono una monarchia popolare, ma sacerdotale: il prete ed il re, confusi nell'istessa persona. Gli Esseniani vogliono una monarchia, o piuttosto una repubblica teocratica, ma tutta del popolo, tutta per il popolo, e fatta dal popolo. I Zeloti sono comunisti come gli Esseniani. Ma tutto ciò detesta Roma e vuole frangere la potenza. Infine, il Rabbì che io conduco vuole l'assorbimento del popolo e della nazione in un sol uomo, che emani direttamente da Dio, che abbia potere illimitato sulle anime e sugli individui, che confonda il trono e l'altare, che confonda le nazioni nell'istessa abdicazione in favore di questo eletto di Dio, luogotenente di Dio, onnipossente come Dio, arbitrario come Dio, figlio di Dio, e dell'istessa sua essenza.

[51] — Che abbominevole garbuglio!

— Questo garbuglio però, forma un massa contro Roma. Hanno delle armi, del cuore, della disperazione e della costanza, sono irriflessivi ed atroci.

— Il tuo Rabbì entra dunque egli pure nella politica?

— Per la porta di dietro, ma vi s'impianta come un pilastro.

— Legge egli nel pensiero?

— Io non l'ho veduto leggere che l'ebraico nel Torah, e molto bene.

— Indovina il futuro?

— Non è ciò che è difficile: il difficile è decifrare il passato.

— Compone dei filtri, dei veleni, degli incanti?

— Cosa non si farebbe per te, o Claudia? Chiedimi di servirti una stella stemperata in una coppa d'acqua, ed io te l'appresto.

— E se ti chiedessi di uccidere un uomo?

— E che bisogno hai tu di me, mentre puoi ucciderlo con un solo tuo sguardo? I tuoi occhi sono come quel piccolo pesce del mar indiano, che d'un colpo di pinna sprofonda un naviglio.

Io principiava a dimenticare, in questi scherzi, la mia cupa preoccupazione, quando il nostro conversare fu interrotto dall'arrivo di Pilato. Eccetto il suo pallore, nulla tradiva la ferita che aveva ricevuto da Moab. Avanzò lentamente nella stanza, ed i suoi occhi s'animarono d'una subita luce, vedendomi e riconoscendomi.

Egli credeva sempre che io fossi l'amante di sua moglie. Claudia non fece a lui maggior attenzione che se fosse stato uno dei suoi schiavi.

Pilato le porse una lettera dicendole:

[52] — È di Cesare.

Claudia la prese, la guardò, la riconobbe e la gettò da parte, domandandomi:

— L'è dunque burlesca la vostra festa del Purim?

— Valgono meglio le bacchanalia, risposi, alzandomi e salutando Pilato come per partire.

— A proposito, Claudia, disse Pilato, bisogna che tu faccia un regalo di nozze alla fidanzata di codesto giovine. Egli si ammoglia.

— È vero? mi domandò Claudia, con aria allegra.

— Pel momento, io risposi sull'istesso tuono, non è vero che per metà. Sposo una donna che non lo sa ancora.

Claudia si alzò, entrò nella stanza vicina, e ritornò immediatamente con un pugno di gioielli, dicendomi:

— Prendi, Giuda: per la tua fidanzata.

Pilato sembrava stupidito. Non comprendeva nulla a quell'indifferenza di Claudia ad una notizia ch'egli le dava per atterrarla. Credette quindi che noi fingessimo la calma.

— Ti ringrazio, risposi. Accetterò il tuo regalo quando il matrimonio sarà deciso.

— Mi condurrai tua moglie, Giuda, riprese Claudia, se la non teme contaminarsi entrando in una casa di pagani. Non dubito che la tua compagna non sia una nobile, bella e pura fanciulla, che io sarò felice di vedere.

— Sua moglie è tutto ciò, Claudia, rispose Pilato; io la conosco.

— Tu la conosci! sclamò Claudia rizzandosi sulla persona e fissando suo marito negli occhi.

— Si, ho avuto diverse occasioni di portarle i messaggi di suo marito, il mio amico Cajus Crispus.

[53] — Che mi vai bisticciando?

— Sì, codesto giovane sposa la donna cui Cajus Crispus ha or ora divorziato.

— Capisco, disse Claudia tristemente. Poi, dopo un istante di silenzio, soggiunse: Avrei preferito ch'egli avesse sposato una giovinetta conosciuta da lui, cui lo sguardo della madre non avesse abbandonata giammai, e che fosse sempre restata sotto la protezione di suo padre.

— Hai ragione, Claudia, risposi sospirando; ma di tutti i tiranni, il cuore è il più inesorabile.

— Ahimè! è vero! fece Pilato.

— L'è dunque assai bella, codesta giovine donna? chiese Claudia.

— Non come te, Minerva romana.

— È stupendamente bella, rispose Pilato. E fui anch'io sul punto di diventarne innamorato, aggiunse sorridendo.

Claudia ed io lo guardammo con uno sguardo differente, ma egualmente feroce.

— Mi permetterai tu, il mio giovine, disse Pilato con tuono sdegnosamente sarcastico, di porgere un regalo di nozze alla dama, che ebbi, non ha guari, ancora il piacere di vedere?

— Grazie, risposi freddamente: io non conosco nulla di più costoso d'un regalo; ed io sono troppo povero per pagarlo, troppo orgoglioso per riceverlo.

— Orgoglioso! disse Pilato sorridendo: difatti. Credo che Ida sia molto ricca. Gli è vero?

— È falso. La donna che io prendo ha per unico adornamento i suoi capelli, per tutta ricchezza la sua bellezza. Ella non ne porta alcun'altra nella mia casa.

Pilato sorrise, e non rispose.

[54] — Cajus Crispus sarebbe dunque così taccagno e così ignobile, osservò Claudia, di riprendere alla moglie ch'egli rinvia, i doni che le fece?

— A proposito, disse Pilato, tre o quattro giorni fa, Ida m'inviò un uomo per pregarmi di ottenere da Crispus l'atto del divorzio. Ho ricevuto questa mattina codesto atto e mi disponevo a portarglielo. Ma poichè il suo fidanzato è qui...

Feci un movimento di gioia, e arrossii.

— Vuoi tu incaricarti di questa piccola missione, giovinotto? fece Pilato sorridendo sardonicamente.

— Volentieri.

— Dirai a Ida che il ritardo non proviene da colpa mia. Deve proprio contar le ore, quella bella figliuola, dopo una separazione di due mesi circa da Crispus, di passare in altre braccia più giovani, e più carezzanti.

C'era in tutte le parole di Pilato un motteggio e un'amarezza, che mi davano i brividi di collera e di sospetto. Gli risposi:

— Noi altri, rozzi ebrei, non siamo esperti nel ripetere di sì squisiti complimenti iberici; lascio quindi cader qui le tue parole, e vi passo sopra.

— Come vuoi. Questo complimento, portato al suo indirizzo e balbettato da te o da uno schiavo, ha per me sempre l'istesso valore. Io parlo in nome di Cajus Crispus.

— Cajus Crispus è, credo, in Antiochia.

— In Samaria.

— Ho letto in un libro egiziano, che le montagne talvolta s'incontrano. Ci credi tu, Pilato?

— Più facilmente che gli uomini, quando l'uno è posto così alto e l'altro così basso.

— Scusa! c'è un tratto di unione in acciajo che avvicina le distanze.

[55] — E' può sopprimerle, piccino mio, non mai ravvicinarle. Del resto Cajus Crispus è maestro in fatto di conoscenze di montagne che camminano, e può darti migliori spiegazioni delle mie.

— Non capisco nulla a tutte codeste chiacchiere, disse Claudia. Io so soltanto che Crispus è stato un uomo indegno ripudiando questa ragazza ebrea, che è, dite voi, oscura, povera e modesta, e conservando la sua moglie di Roma, che è ricca, infame, nella bocca di tutti i giovani effeminati e di tutti i vecchi impuri della via Sacra.

— Lasso! fece Pilato, gli uomini non hanno sempre il coraggio di uccidersi, quando contraggono la lebbra di certi amori, che divengono come la tonaca di Nesso. Ho imparato a perdonare.

— Gli è che hanno dessi nell'anima una lebbra più sordida ancora di quella del cuore, la quale li rende vili, fe' di rimando Claudia, fissando sopra suo marito un tale sguardo di sprezzo, che avrebbe sepolto a cento braccia sotto terra la statua di Giove Capitolino.

Pilato s'accorse che la conversazione prendeva una piega doppiamente pericolosa; ma volle lanciarmi un altra freccia prima di partire. Io non compresi la malignità di questa scena che più tardi, quando seppi che Ida era stata sua ganza. Pilato mi odiava come amante di sua moglie, come colui che gli rubava le ultime memorie di quella ganza, e gongolava nello stesso tempo che la fatalità riparatrice gettasse fra le mie braccia, come moglie, quella che egli aveva posseduto come favorita.

— Giovane, diss'egli, tu hai avuto fretta d'entrare in quel paradiso ove i libri sacri del tuo paese nicchiano il serpente. Se ve lo trovi ancora, se ti morde, [56] ricordati che Ida, la quale conosce così bene il valore del tempo, sa pure che ella conserva, anche dopo il divorzio, quel diritto di cittadina romana che le aveva conferito suo marito, e che v'è a Gerusalemme un procuratore di Roma per renderle giustizia.

Non attese la mia risposta e partì. Io era impaziente d'inviare ad Ida i documenti ed il messaggio che dovevano decidere della mia sorte. Il sagan si condusse lo stesso giorno a Berachah.

Una grande costernazione regnava nella casa, in causa della scomparsa di Moab. Si passava in rivista ogni sorta di congetture, tutte lontane dal vero. Ciò che Moab aveva fatto, era per induzione e per determinazione personale. Ida non ne sapeva nulla.

Il sagan poco poteva apprenderle.

L'arrivo di questo personaggio, il più considerevole dopo Pilato ed il governatore della Siria, accrebbe lo scompiglio. Noah lo introdusse subito nel tablinum, e lo annunziò alla sua padrona.

Ida uscì immediatamente per ricevere Hannah. Come Pilato, come Moab, come io stesso, egli fu colpito al cuore dalla bellezza fatale di quella fanciulla. Appena trovò da biascicare qualche parola, porgendole il pacco di lettere di Pilato. Ella tremò in tutta la persona, a questo nome, e l'aprì precipitosamente.

L'involto conteneva un atto di divorzio di Cajus Crispus, ch'egli aveva fatto redigere, ed una lettera ch'egli stesso scriveva ad Ida. La giovinetta vide prima l'atto del divorzio, cui lesse, mostrandosene sorpresa, e non comprendendone nulla. Poi ella lesse la lettera. Io seppi più tardi tutto ciò. Ecco ciò che Pilato le scriveva:

«Ponzio Pilato a Ida, salute!

«Ida, il ritardo di questa lettera è involontario.

[57] «Ne sono causa una ferita che ho ricevuto alla spalla dal tuo messaggero, e la lentezza del corriere che ho inviato al mio amico Cajus Crispus, ritornato soltanto questa mane.

«Ecco la risposta di Crispus.

«Così, tu puoi ora maritarti. Ti avevo detto addio per sempre. Te lo ripeto ancora una volta. Amo mia moglie. Ti lasciai con rammarico il giorno che mi separai da te. Mi parve che il tuo dolore avesse l'aria della disperazione. Mi parve che tu mi amassi ancora. Questo rammarico è ora cessato.

«Il tuo dolore, non ha avuto indomani.

«Il tuo amore, che si era svenuto nelle lagrime, si è risvegliato poche ore dopo nelle braccia di un marito. Hai fatto bene. Grazie. Tu mi guarisci dai rimorsi. Tu alleggerisci le mie memorie del passato dalle preoccupazioni dell'avvenire. Il disinganno al postutto è un grande beneficio: brucia le vecchie piaghe per guarirle. Io non aveva alcun dritto ad una affezione di cui tu sola avevi formato il capitale. Non ho dunque a rivolgerti alcun rimprovero, e, ne avessi anche il diritto, non lo farei. Sii felice, se lo puoi, se la felicità può esistere in codeste affezioni apopletiche che scattan di botto e muoiono all'istante. Però, se un giorno fossi visitata dalla disgrazia, ricordati di me, che non dimenticherò mai di qual balsamo tu hai profumato le ore del mio spaventevole dolore. Addio.»

Ida lesse questa lettera cogli occhi acciecati dalle lagrime, il singhiozzo nella gola, il rantolo nel petto. Alla parola «addio» cadde al suolo svenuta. Il sagan che non sapeva nulla, nè dell'istoria di Pilato, nè del contenuto della lettera, corse a chiamare Noah, che prese fra le braccia la sua padrona, e la trasportò priva di sensi nella sua stanza da letto.

[58] Hannah attese più d'un'ora, solo, nel tablinum, prima d'aver notizie dell'ammalata. Mille pensieri l'assalivano. Fu sul punto di partire per ritornare un altro giorno; ma la curiosità, l'interesse ch'egli prendeva per quella bella creatura, lo trattennero. Attese. Alla fine Noah venne a dirgli che la sua padrona era in istato di riceverlo.

Entrò infatti nel piccolo gabinetto vicino al tablinum, ove trovò Ida, stesa sopra un letto di cuscini, più calma, ma spaventevolmente pallida.

— Perdonami, o principe, diss'ella. Mi sono sentita morire, malgrado gli sforzi che ho fatto per non mancarti di rispetto.

— Sei tu in grado d'ascoltarmi? Ho a farti un grave messaggio. Se sei ancora debole, ritornerò domani.

— Oh! no; parla; io posso udir tutto, adesso. Ho subito la grande prova.

— Allora sarò corto e preciso.

— Occorre rinviare Noah? Ella conosce tutta la mia vita, tutta la mia anima.

— Che resti dunque, disse il sagan. Ecco di che si tratta. Tu hai veduto qui due volte un giovine mio amico, Giuda di Kariot.

— Credo di si.

— Egli ti ama.

— Disgraziato!

— Vengo in suo nome a chiederti in matrimonio.

Ida rimase come attonita.

— In matrimonio?

— Vengo a supplicarti a nome suo di non rifiutarlo.

— Questo scherno è crudele, mormorò Ida, sciogliendosi in lagrime.

[59] — Non è uno scherno, Ida; io non son uomo da prestarmi a simili cose.

— Ma egli non mi conosce punto.

— Egli ti ama. E ti conosce abbastanza per condurti come sua moglie sotto il tetto ove suo padre è morto, ove sua madre dorme, ed ove sua sorella vive.

Ida dette di nuovo in singhiozzi.

— Dio mio! perchè sono io indegna della felicità, che è serbata alle altre fanciulle della mia età!

— Consolati, Ida; tu non sei la prima donna ripudiata, la quale passi dal letto desolato d'un marito che la respinge a quello di un marito che l'attende come una benedizione.

— Io non sono una donna ripudiata, io.

— Che importa se il mondo lo crede, dacchè l'uomo che ti vuole sua dimentica cosa sei!

— Ma io amo, amo ancora, non posso obbliare, io. Io ho l'anima, il cuore, la bocca, gli occhi, tutta la mia esistenza, la notte come il giorno, desta o sognando, pregni di quell'uomo che ha avuto il mio primo bacio, che ha soffiato sulla bianca nuvola della mia infanzia.

— Giuda ti amerà per due.

— Oh! no; ciò è impossibile. Non aggiungiamo il rimorso al dolore. Non aggiungiamo ai ricordi d'un cuore gualcito, la ripugnanza alle carezze che sono sante dinanzi a Dio, e che diverrebbero infamia per me. Io non posso accettare l'offerta di cui mi parli. Mi sprezzereste se lo facessi.

— Se per mio conto io dovessi sprezzarti non sarei venuto a portarti la parola supplichevole del mio amico. Puoi accettare senza timore.

— Ma io non l'amo. Non si può darsi senza amare.

[60] — Credi che sia più difficile il darsi ad un uomo che non si ama, che il prendere una donna che ne ama un altro?

Ida restò silenziosa per un istante.

— È impossibile, obiettò ella di nuovo. Non posso farmi a questa idea. Lasciatemi respirare. Se sapeste sopra quali rovine voi camminate. Un momento fa ho creduto morire. Mi si sospetta; mi si dice: Maritati! si dubita del passato, mi si sprezza forse... Maritati! Ma egli crederebbe tutto questo; riterrebbe certo che io non l'ho mai amato, che non l'amo più: sarei infame ai suoi occhi! No, no. Che m'importa che egli ami sua moglie, e che mi percuota le gote con codesto amore? Cosa sono io per essere orgogliosa? Capisci, principe? Direbbe: ella si marita, eccola lì. Ieri diceva ancora: ritorna! ieri ella sperava ancora, si abbiosciava nella desolazione: oggi sorride al primo giovinotto che le sorride, e lo segue. Ella mentiva. Che importa che codest'uomo si chiami marito o amante? Ella lo segue. Il cuore non conosce nozze. Ebbene, principe, vuoi tu che io sia disonorata agli occhi d'uno d'essi e peccatrice dinanzi gli occhi dell'altro: indegna per entrambi? Ma non senti tu dunque che quest'aria palpita ancora dei baci di un altro?

— Calmati. Tu entrerai in un altro mondo.

— Non ce n'è che uno di possibile per me: quello della tomba. Ovunque, fuori di là, v'è il rimprovero e l'obbrobrio.

— Ascolta, figlia mia, disse il sagan prendendole le mani agghiacciate: prima di vederti e di ascoltarti, nel mio cuore io condannava il mio amico. Io mi diceva: Perchè far violenza ad una donna che ne ama un altro? perchè urtare contro una passione [61] che brucia di fiamme così cupe? Ora io comprendo il mio amico. Non lo biasimo più, lo scuso. Lo compiangerei, al contrario, se il mio messaggio non riescisse. Io peso tutte le tue ragioni; e ti stimo. Ma rifletti d'altra parte, figliuola mia, al tuo avvenire. Dico di più; rifletti all'attuale tua posizione. Chi sei tu? Cosa sei tu? Ogni cosa che ti circonda è una creazione della tua vergogna. Ogni soffio d'aria che respiri è pregno di disprezzo. Tu trovi un uomo il cui possente amore ti attrae in una più pura atmosfera. Non vuoi seguirlo perchè non lo ami, perchè ne ami un altro. Ti ama egli dunque ancora, colui che ti respinge? Comprende egli dunque il tuo sacrifizio? Che cosa ti consiglia egli?

— Mi disprezza, mi deride, mi crede già infedele alla sua memoria. Mi spinge a maritarmi. Mi percuote sempre e poi sempre colla sua confessione, ch'egli ama sua moglie.

— Vedi dunque; tu non sei più una donna per codestui. Tu sei una cui egli ha beneficata, e ti accusa già d'ingratitudine. L'altro invece...

— Ma gli è precisamente perchè io stimo il tuo amico e ne ho compassione, che io indietreggio, o principe. Fuggirò appena sia Moab di ritorno. Non so cosa diverrò, ma non resterò più qui, ove io soffoco in mezzo a tanti testimoni della mia defunta felicità.

— Cessa allora di resistere. L'amore che dimentica il fallo, saprà addolcire il rimorso, consolare il dolore, e perdonare l'indifferenza.

Ida lottò ancora, ripetendo quanto aveva detto, trovando nuove ragioni. Hannah trionfò di tutto. Finalmente ella sclamò:

— Tu lo vuoi, o principe? Egli lo vuole? Sia. Mi [62] abbandono a voi tale quale sono, prendetemi come raccogliereste un cadavere che chiede una tomba ed un ricovero contro gli avoltoj e le jene. Non mi appartengo più; dunque non posso più nulla dare in cambio di questo atto generoso. Non mi resta che la riconoscenza.

— Ciò basta, rispose il sagan, tagliando corto al colloquio ed alleviato dal dubbio se avrebbe o no vinta la resistenza di quella nobile creatura.

All'indomani io andai a trovarla. Pianse vedendomi. Evitai la minima allusione al suo passato: stornai sempre la conversazione da questo soggetto, se ella v'entrava. Ella mi ripetè ancora che amava un altro, e che non mi amava. Le risposi che io saprei farmi amare un giorno. La lasciai non più tranquilla, ma più rassegnata.

[63]

XXII.

Era stato convenuto fra Hannah ed Ida, dopo la mia visita, che avremmo prestato il giuramento del matrimonio, e che io le avrei dato il mohar (regalo di nozze) la sera della festa del Purim. Era stato pure convenuto che l'anno della vergine, che doveva, secondo il rito, scorrere fra questo giuramento e quella sera fortunata in cui io squarcierei il suo velo, la bacerei sulla bocca e la condurrei nella mia casa, che quest'anno, dico, sarebbe accorciato — la qualità di donna divorziata il permetteva, — e che l'ultima cerimonia avrebbe luogo la sera della festa del paschah. Ahimè! come l'uomo, che è fatto, dicono, ad imagine di Dio, è giuoco degli avvenimenti e delle vicende del caso!

La festa di Purim è appo di noi un'orgia celebrata alla più grande gloria di Dio.

Fu istituita a Babilonia onde perpetuare la commemorazione della morte d'Aman, e l'esaltazione di Ester. Ottantacinque anziani si opposero all'adozione di questa festa persiana, quando Mordecai la propose la prima volta; ma fu adottata malgrado ciò. Il popolo ebreo la celebrava dovunque. A Gerusalemme la diveniva un delirio, dopo esser stata il sospiro di tutto l'anno. Io aveva ora l'anima traboccante di gioia, seguii quindi l'esempio degli altri.

[64] All'alba, Bar Abbas batteva alla mia porta. Egli ritornava appositamente per la festa. Più tardi arrivò Justus, e andammo insieme alla sinagoga.

La sinagoga era zeppa. Una folla immensa vi aveva fatto irruzione, uomini, donne, fanciulli, vecchi, ciechi e zoppi, senza eccezione, perfino i sordi. Queglino che non trovavano più posto dentro, passavano la testa dalle finestre, o s'accalcavano alle porte. Un Giudeo si sarebbe creduto disonorato, se non avesse in questo giorno lanciato la sua maledizioncella postuma ad Aman, e data la sua avvinazzata benedizione a Mordecai.

Il paraschà del giorno conteneva la storia che dette origine alla festa. Il sheliach andò al suo posto, e principiò il seguente racconto:

«Allorchè Artaserse Longimano succedette a suo padre Serse, diede una gran festa al suo popolo, sotto delle tende di porpora sostenute da colonne d'argento ed oro. A mezzo il banchetto, riscaldato un tantinello dal vino, il re giurò che non c'era in tutto il regno una donna più bella della regina Vastiti. Un principe tributario del suo regno dimostrò una tal quale incredulità. Il re andò in collera, s'ostinò nella sua idea, e volendo provare al popolo che aveva detto il vero, imaginò di far comparire la regina ignuda dinanzi ai suoi convitati. Vastiti fu chiamata. Avendone appreso il perchè, rifiutò di obbedire. Artaserse la fece chiamare di nuovo, poi di nuovo ancora: in tutto sette volte. La regina rifiutò sempre. Il re si credette offeso da questa disobbedienza. Uno dei grandi della corte, Memunean, dichiarò al re che occorreva un esempio, senza che, incoraggiate dall'impunità della regina, nessuna donna persiana avrebbe più obbedito al suo marito. Il re comprese questa ragione [65] di Stato, e Vastiti fu condannata ad essere espulsa e surrogata da un'altra regina. Ma Artaserse l'amava. E' divenne triste. I suoi amici lo consigliarono di neutralizzare questo amore con un altro amore e di elevare al suo letto la più bella vergine della terra abitata. Il re si rassegnò al rimedio, trovandolo dolce».

— Il povero uomo! esclamò Bar Abbas.

«Una caccia di vergini fu messa in campo, continuò il sheliach. I differenti ufficiali che percorsero l'Asia a quest'oggetto ne riunirono quattrocento.

— Soltanto? chiese Bar Abbas.

— Ahimè! sì, continuò il sheliach.

«Le vergini erano rare e le belle ancora più rare. Fra queste si trovò Esther, la nipote unica d'un Ebreo di Babilonia. Era la più bella di tutte. Quando gli eunuchi ebbero preparato per sei mesi queste vergini con delle abluzioni, delle unzioni, e dei profumi, il re ne prese una tutti i giorni nel suo letto, onde scegliere alla prova, e non sul rapporto d'un eunuco. Allorchè giunse la volta di Esther, il re se ne innamorò e la sposò. Ella non aveva detto a quale nazione appartenesse. Allora Mordecai lasciò Babilonia e venne a Shushan. Una cospirazione d'eunuchi essendo stata ordita contro il re, Mordecai la scoprì ad Esther, e questa salvò il re. Mordecai fu autorizzato a dimorare alla corte. Ora il re aveva un amico, un Amalecita chiamato Aman.

«Maledetto Aman! gridarono tutti da tutti gli angoli.

«Il re aveva ordinato che lo si adorasse come un altro lui stesso. I Persiani, i Medi obbedirono. Mordecai, no.

«Bravo, Mordecai! gridò ancora il popolo, noi andremo a bere alla tua salute.

[66] — Bere e mangiare, se vi piace, interloquì Bar Abbas, e ancora qualche cos'altro. Non si fa mai abbastanza per un grand'uomo.

«La nostra legge ingiungeva a Mordecai di non adorare che Dio, continuò il sheliach. Aman si credette offeso: tanto più che l'audace refrattario era un Ebreo, un prigioniero, quasi uno schiavo. Egli se ne lagnò al re. Dipinse la nostra nazione come perversa, insocievole, nemica di tutti gli altri popoli e di tutti gli altri culti; e lo persuase di sterminarla per la maggior prosperità dei suoi sudditi. — Ma essi pagano un tributo, osservò il re. — Ebbene, rispose Aman, io pagherò quarantamila talenti a vostra divinità. — Il re rifiutò il denaro, e sacrificò gli uomini. Aman decretò, in nome di Artaserse, sovrano di cento ventisette provincie dall'India all'Etiopia, che al quattordicesimo giorno del dodicesimo mese di quell'anno tutti gli Ebrei del suo Stato, uomini, donne, e fanciulli, fossero distrutti.

«Oh l'infame manigoldo di re! urlò la folla.

— Ohe, disse Bar Abbas, rispetto ai re, dunque! Senza di essi, chi potrebbe strozzarvi un poco, eh?

«Il popolo ebreo, tutto intero, stracciò i suoi abiti, si vestì di sacco, si coprì di cenere, proseguì il sheliach. Mordecai parti dalla corte, e si conformò al dolore dei suoi compatriotti. Esther ne venne a cognizione. Ella ordinò agli Ebrei tre giorni di preghiera. Gli Ebrei, a cui ella diede l'esempio, obbedirono e le inviarono una supplica pel re. Ora Artaserse aveva fatto una legge, che chiunque gli si presentasse senza essere chiamato, sarebbe ucciso. Esther sfidò il pericolo. Si affusolò splendidamente di porpora e di pietre preziose: una schiava sollevava lo strascico della lunga sua veste con la cima [67] delle sue dita, mentre un'altra la sosteneva sulle sue braccia. Abbagliante di vesti e di bellezza, rossa d'emozione, Esther si recò così dinanzi al re senza esserne dimandata. Artaserse, seduto sul suo trono, la corona sul capo, lo scettro d'oro nelle mani, tutto ricoperto di giojelli, di tela d'oro e di porpora, la squadrò corrucciato. Esther tremò, e cadde svenuta ai piedi del trono. Il re, vedendola così bella, pieno d'amore scese dal trono, la prese fra le braccia, e la richiamò alla vita coi suoi baci. Le chiese poi cosa desiderasse, promettendole d'esaudirla. Esther lo invitò nei suoi appartamenti, in una al suo amico Aman, ad una cena preparata colle sue stesse mani. Il re ed Aman accettarono il banchetto, si divertirono molto alla festa, e bevettero enormemente. Il re le domandò quale grazia ella chiedesse. — Te lo dirò domani, giacchè io v'invito di nuovo a cena, rispose Esther.

— Oh! il caro briciolo di tosa! sclamò Bar Abbas. Perchè mai non si trovano ogni giorno di gioje simili nelle strade, come si trovano dei cani e dei leviti!

«Aman ritornò allegro alla sua dimora. Sua moglie gli consigliò di far rizzare nella sua corte una forca alta cinquanta cubiti per impiccarvi Mordecai.

— Le donne danno sempre dei buoni consigli, osservò Bar Abbas.

«Il re, esaltato dalla bellezza della regina, non dormì in tutta la notte, ma si fece leggere le cronache del suo regno. Si lesse fino all'alba. Arrivato alla storia della cospirazione scoperta da Mordecai, il gran sire domandò: Che ricompensa gli fu data?

— Che! che! l'è una fiaba codesta, osservò Bar Abbas: i re non si ricordano mai i servigi ricevuti, e meno ancora le ricompense che restano a darsi.

[68] «Non gli si è dato nulla, rispose lo scriba del re. — Sta bene, disse Artaserse. Ecco il giorno. Se v'è qualche amico arrivato nella mia anticamera, fallo entrare. — Aman era di già lì. S'era alzato di buon'ora per ottenere dal re il permesso d'impiccare Mordecai.

— Impiccare? corbezzoli! ciò non si ritarda giammai! sclamò Bar Abbas.

«Arrivi in punto, rispose il re. Consigliami come potrei onorare in maniera degna di me una persona che io amo assai. — Autorizzandolo, Dio mio, a passeggiare a cavallo cogli stessi emblemi della tua Divinità, una catena d'oro al collo, e ordinando a tutto il tuo popolo di onorarlo come tu lo onori.

— Va bene, rispose il re; cerca allora Mordecai, e fa tu stesso quanto mi hai consigliato.

«Benissimo, bravo, viva il re! gridò il popolo.

«Aman che aspettava tale onore per sè stesso, parve confuso, abbattuto. Pure obbedì. Mordecai ritornò alla corte. Aman andò a lagnarsi con sua moglie. Fu chiamato alla cena per ordine della regina. Al banchetto, il re domandò nuovamente ad Esther quale grazia desiderasse. Esther principiò allora ad esporre, piangendo, le miserie del suo popolo, e supplicò che l'ordine della sua distruzione fosse rivocato. — Chi ha cagionato questo dolore alla mia regina? chiese il re. — Aman, rispose Esther. — Artaserse lasciò il banchetto, ed uscì nei giardini molto turbato. Aman cominciò allora ad intercedere la sua grazia presso la regina, e cadde sul suo letto. Il re entrò in quel momento, e vedendolo in quella postura, gridò: — Miserabile creatura, la più vile della terra, osi anche fare violenza alla mia regina? — Un eunuco raccontò allora al re la storia della forca destinata [69] da Aman a Mordecai. Il re ordinò che Aman fosse appeso al patibolo che aveva egli stesso innalzato[5].

«Viva il re, viva il re, dannazione ad Aman! vociò il popolo.

— Cara quell'Esther, giojello vero! sclamava Bar Abbas più forte degli altri; ti nomino mia regina a vita.... dopo l'anfora del vino!

«Ed ecco come Dio liberò il suo popolo, come Mordecai scrisse a tutti gli Ebrei di celebrare con una festa perpetua questo giorno della liberazione. Andate dunque, figliuoli miei, e glorificate il Signore.»

— Ah! perchè questo popolo non è stato liberato tutti i giorni dell'anno? osservò Bar Abbas.

Il popolo si precipitò fuori della sinagoga.

Il baccanale nella città principiò.

Gerusalemme era una mischianza d'individui di tutte le nazioni, in cui gli Ebrei erano forse in minoranza. Il popolo di Dio era stato in ogni tempo il focolare di vizii vergognosi e bestiali. Gli stranieri, che l'avevano conquistato successivamente, gliene avevano inoculati d'infami, e di empii. L'innesto s'era fatto con rigoglio. Alle dissolutezze che avevamo apprese dall'Egitto, dalla Siria, dalla Persia e dalla Fenicia, Alessandro aggiunse quelle della Grecia, Pompeo quelle di Roma, Erode quelle del mondo intero. Il giorno del purim era quello in cui tutte codeste dissolutezze sguazzavano in pompa reale.

In quel giorno, si sarebbe creduto trovarsi a Roma nella via Sacra, verso l'ora nona. Nulla mancava. Nulla si mascherava, eccetto la virtù per accatastare le briciole delle delizie del vizio. Gli uomini si travestivano [70] da donne, e le donne da uomini, le ragazze da cortigiane, e queste da matrone. Chi aveva qualche cosa da mostrare, la metteva fuori. Chi non aveva di che affusolarsi, si svestiva. Gerusalemme riboccava tutta nelle strade: neppure le madri oneste, e le fanciulle pure restavano a casa. Il pudore diveniva un'impertinenza, un'offesa a Dio. Il Tempio si dava allo sciopero; poichè preti e leviti, membri del Gran Consiglio e del sanhedrin, Simeon, Gamaliel, Caifa stessi, lo stesso Hannah, potevano mascherarsi senza infamia da giocolieri, da istrioni, da maghi, da pontefici idolatri, da becchi, o da buoi, a loro talento.

I bagni pubblici, le stufe, le osterie, gli alberghi, le botteghe dei fornaj, dei beccaj, dei rosticciaj, dei barbieri, dei profumieri, residenze ordinarie della prostituzione, issarono, dall'ora nona, l'insegna di orribili Priapi, e misero delle lanterne a forma di mostruosi phallus. Le cortigiane non erano in tal giorno obbligate a mostrarsi in parrucca bionda, in coculla, o con un pezzo di stoffa di oro sul seno — secondo l'editto degli edili romani, portatoci dai procuratori. Potevano, se loro piaceva, adornarsi della stola, delle bende bianche, e degli stivaletti rossi delle matrone romane. Ma non lo facevano neppur per idea.

Le vie formicolavano di cantoniere venute da tutte le parti della Siria, dall'Assiria, dalla Grecia, da Roma, dall'istessa Gallia. Esse si pavoneggiavano. Talune attillate nelle loro tuniche gialle o verdi, con sandali gialli legati al collo del piede da coreggie dorate, mostravano i piedi nudi, bianchi e provocanti, tenevano il capo avvilupato in un piccolo mantello di stoffa di color vivo, i capelli tinti in giallo con dello zafferano, o in rosso col succo della barbabietola, o in celeste con del pastello, o semplicemente spolverati [71] con polvere d'oro, di lapis, di guado, o stropicciati con cenere profumata. Altre, con vesti babiloniche, o in tuniche di seta, trascinavano delle dalmatiche abbottonate sul davanti, fatte di stoffe dipinte, variate di fiori e ricami, ed avevano sul capo una mitra a colori, o una tiara scarlatta, o un nimbo d'oro. Le preziose, le meravigliose, le famose, che ci venivano dal superfluo di Roma, dietro le legioni, erano vestite di quella stoffa di seta chiamata Tiriana cui un poeta latino (Petronio) addimanda vento tessuto, o di quella garza detta indiana, che era trasparente come una nuvola d'estate, e rendeva più provocante la nudità. Le etere greche col loro grazioso camiciotto di lino aperto sotto le braccia e scendente fino alla vita, in coturni dorati, passeggiavano in lettighe aperte, portate da Abissinii. Alcune, coricate sopra cuscini di porpora, tenendo in mano uno specchio d'argento lisciato, delle palle d'ambra o di cristallo, un ventaglio od un parasole, sporgevano un viso leggermente imbellettato, costellato di piccoli nei onde rialzarne la tinta, mentre una bella schiava le rinfrescava daccanto con delle penne di pavone, precedute e seguite da eunuchi, da fanciulli, da suonatori di flauti, e da nani buffoni. Altre ancora, in toga verde, guidavano esse stesse un carro leggiero. Poi questa a cavallo, quell'altra sopra una mula di Spagna condotta a mano da un negro.

Dietro questo corteggio seguiva un'appendice inevitabile: il libertino, il bertone, vestiti di una clamide scarlatta, celeste, o verde; i suonatori d'arpa, di flauto, e di tamburo venuti dalla Siria; l'auletride jonia — cantante che si scritturava per le feste particolari; — le fellatrici di Lesbos; gli effeminati, i delicati della Frigia — giovani schiavi dai capelli lunghi ed ondeggianti, [72] dai grandi orecchini, dalle tuniche a larghe maniche e dagli stivaletti verdi. Poi i bei giovanotti di Sibaris e di Taranto dalla pelle profumata, i membri epilati, il corpo ricoperto di stoffe trasparenti, come le ninfe. Poi i leziosi e le tribadi di Sparta, che pytismate lubricant orbem (Giovenale), e sono rinomate nelle lotte femminili. V'erano ancora i Marsigliesi dalle dita vellutate, e gli emigranti da Capua e da Opicus, che si prestavano ai piaceri mostruosi. Intorno ed in mezzo a questo nuvolo profumato, scintillante d'oro, di pietre preziose, di seta, di colori vivi, svolazzava quella gioventù d'Alcinous di cui io era il capo — assente in quel giorno — adornata, arricciata, profumata, azzimata di chiridata — la tunica siriaca a maniche lunghe e larghe color ciliegia.

In mezzo a questa folla, la quale assorbiva, incantava, abbagliava la gente onesta di tutti i giorni, si distingueva il mio ipocrita amico Justus, mascherato da saga, che vendeva degli istrumenti infami, messi in mostra su delle ceste portate da schiavi. Quel monellaccio offriva ad un grave membro del Collegio un phallus ad uso della famiglia; ad una matrona, un subliaculum, o arnese della maternità, onde non sopraccaricare di troppi bimbi la famiglia; ad una giovane sposa, una serratura di castità; ad una ragazza una fibula; alle vecchie un enorme fascinum (phallus fittizio in cuojo, tela o seta).

Bar Abbas, a cavallo sopra un asino, era imbacuccato d'un immenso priapo in cartone che gli si rizzava sopra come un astuccio. Portava dinanzi a sè una sporta ripiena di quelle ciambelle di frumento a forme impudiche, che i Romani chiamano coliphia o cunni siliginei, e ne offriva alle donne, che le accettavano [73] senza sembrarne offese. Poi dispensava delle gerse di escremento di coccodrillo, di cerussa, o di gesso, delle fiale piene di non so qual ingrediente, ch'egli indicava agli uomini per quel terribile filtro che le venditrici di profumi dicevano venire da Roma, e chiamavano coppe del desiderio, acqua d'amante, satyricon, bulbus, o hippomane.

Ahimè! avevamo mandato a Roma circa due secoli fa (187 anni av. G. C.) con Lucius Montius, il vincitore di Antioco il Grande, tutto questo mondo di danzatrici, di suonatrici di flauto, di cortigiane, d'eunuchi, d'effeminati, di bertoni, e con essi la lebbra, la terribile elefantiasi, il mal di Venere delle nostre donne, ed il morbus indecens sotto tutte le sue orribili forme. Roma aveva innalzato tutto ciò alla sua grandezza, aggiungendovi le infamie spigolate nel resto del mondo, e ce lo rimandava trionfante, orgoglioso e risplendente.

I nostri Ebrei si contentavano di bere: i poveri, i nostri buoni vini della Siria; i ricchi, i vini della Grecia o di Roma, il cecubo, il falerno, il metimnese, con o senza aromi, e di berne fino al punto, sempre maledicendo, di non più sapere se maledicessero Aman o Mordecai.

Alcuni anni avanti, due pii anziani, Rabba e Zira, avevano bevuto insieme, e si erano altercati, cadendo sotto il tavolo, in tal guisa che Rabba aveva ucciso Zira. All'indomani, quando il vino fu digerito, Rabba, disperato d'aver ucciso il suo amico, pregò Iddio di risuscitarlo, e Dio l'aveva compiacentemente esaudito. L'anno dopo, Rabba propose a Zira di bere ancora insieme; ma Zira rifiutò, pel ridicolo pretesto che Dio potrebbe non voler incomodarsi ogni anno a fare un miracolo.

[74] Mentre l'orgia s'impadroniva della città, all'ora nona, i miei amici ed io, ci preparavamo ad andare a Berachah. Avevo invitato a dividere la nostra festa e ad essere testimonii della mia gioja, Hannah che era stato il mio ambasciatore, i suoi figli, Gamaliel, il suo vecchio padre Simeone, direttore del grande collegio, Justus, che si divertiva attendendo l'ora della partenza, Lazzaro, alcuni altri amici, ed il Rabbì di Nazareth, cui io era andato a snidare dal Tempio ove fin dal mattino predicava ed insegnava.

Traversammo la città, nel momento in cui la gioja era nel suo più grande fermento. In ogni via, degli ubbriachi; in ogni piazza, della musica e dei danzatori; in ogni luogo pubblico, la debolezza; le case pavesate di fiori o di rami d'albero; ad ogni finestra degli spettatori; sopra ogni tetto, delle bandiere, dei preparativi per l'illuminazione della sera. Dapertutto lo schiamazzo; canti a tutti gli angoli delle strade; dei motti allegri o lubrici in tutte le bocche; dei desiderii in tutti gli sguardi, ma anche l'elemosina in tutte le mani. C'incontrammo con Bar Abbas, che arringava in mezzo ad una folla immensa.

— Non vi spaventate, ragazze mie; io sono modesto; venite da me, gravi mamme, io sono discreto; avvicinatevi, le mie vecchie, se la vostra borsa è pregna e ha voglia di partorire, io sono un gaio compare; e voi altri, branco di canaglie, vecchi libertini, preti modesti, gravi farisei, dissoluti avariati, baldracche da elefanti, avanzate pure, io non aggrotto le ciglia, sono un buon diavolo; pennone al vento, ma silenzioso e perseverante. Cosa vi occorre? via, adoratemi un po', io sono quegli che crea e quegli che disfà.

Vedendoci passare, Bar Abbas interruppe la sua [75] allocuzione che io ho resa più modesta. Gli si gittavano degli aranci, della poma, dei torsoli di cavolo. I ragazzi mettevano dell'esca accesa sotto la coda del suo asino, e lo facevano sgambettare come cinquanta istrioni.

— Figli della prostituzione, continuava, lasciate dunque che mi avvicini a quella compagnia di scapati che va non so dove, a papparsi una festa senza di me. Senza di me! e ci sarebbe una festa a Gerusalemme, senza Bar Abbas? Tò! tò! anche mio nipote? Orsù! mucchio di botoli, lasciatemi passare.

Ma essi s'erano attaccati alle sue gambe, alle orecchie ed alla coda del suo asino.

— Dammi una chicca, barbiere della regina Saba, l'apostrofava una ganza dalla gialla mitra persiana.

— Va a farti impiccare, confettiera di sterco di vacca alla crema; rimbeccava Bar Abbas.

— Lascia dunque che ti abbracci, bardassa leccato dai dromedarii d'Abramo, grugniva una vecchia, civettando e tendendogli le braccia.

— Abbraccia il mio asino sulla sua bocca senza denti, urlava Bar Abbas percuotendola sulle mani col suo scudiscio.

— Se hai dei ninnoli, vieni da me, ciabattino delle volpi di Sansone, mormorava una donzella, passando sul suo cammello.

— Del denaro! bellettatrice di giovani balene, replicò Bar Abbas, m'hai tu preso per un ladro?

— Professore di lingua dell'asina di Balaam, hai tu cenato? gli chiese dalla sua lettiga una preziosa.

— Ceni tu di un mercante di Tiro disossato, o di un prete cotto nel miele, levatrice delle cagne di Jezabele?

— Pfuah! gridò una voce nella folla, ti sputo in faccia, venditore di fanciulle.

[76] — In fede mia, se mi fate dei complimenti, non ci sto più, e che il diavolo vi prenda tutti, replicò Bar Abbas.

Nell'istesso tempo, gettando da parte l'infame astuccio che faceva di lui un mostruoso phallus, si slanciò fuori della folla, nella direzione ove eravamo scomparsi, e principiò a correrci dietro.

Quando arrivammo a Berachah, il giorno cadeva. Il cielo era tigrato di rosse nuvole; un vento lamentoso tormentava i rami degli alberi, e rendeva l'aria pungente. Degli avvoltoi si slanciavano dai crepacci delle roccie al rumore dei nostri passi, e la jena squittiva di lontano. Camminavamo silenziosi e preoccupati: nessuno avrebbe detto che andavamo a nozze. Il più sereno di tutti era il Rabbì Galileo, che non sapeva nulla della fidanzata, avendogli detto semplicemente che stavo per maritarmi e che desideravo averlo fra i miei amici. Il più assorto era il sagan. I servi che portavano i regali per la sposa ci seguivano.

La porta della casa di Berachah era chiusa. Il silenzio più completo regnava in quell'abitazione che si sarebbe detta deserta. Thorix ci aprì, ed i miei servi l'aiutarono a ricoverare sotto la tettoja le nostre bestie. Quella corte così bene ordinata, quella fontana il cui getto risuonava nella vasca di marmo, quei vasi di fiori, rigogliosi come se fossimo stati nel mese di maggio, quei verdi arbusti, tutto contrastava con la casa silenziosa di cui Febea ci apriva la porta. Evidentemente non eravamo aspettati. Si era dimenticata la cerimonia che doveva aver luogo, cerimonia pertanto che fissa un'êra nella vita di una donna.

— C'è qual cosa di nuovo? domandai a Febea.

— Niente, mi rispose la vecchia Galla; Moab non è ancor ritornato.

[77] Di guisa che, l'avvenimento più considerevole per quella casa, era l'assenza misteriosa del custode fedele.

— E Ida? chiesi con ansietà.

— Ah! replicò la vecchia, non so. Credo che pianga.

Entrammo nel tablinum. E siccome la notte avanzava, Febea vi accese i lumi. Noah aveva fatto preparare diverse lampade. Questa giovine, bella e fedele schiava, era la sola che s'interessasse a me, e comprendesse il mio amore. Il tablinum fu dunque vivamente rischiarato. Thorix l'aveva profumato con dei vasi di fiori, pei quali egli faceva nelle sue stanze una temperatura tropicale. Riuniti in quella camera, ravvicinati, la conversazione si animò un poco più. I miei servi deposero sulle tavole i regali che avevo portati alla fidanzata. Erano delle pezze di tela di lino di Egitto, delle stoffe tessute di porpora e d'oro nell'isola di Cos, dei tappeti di Mesopotamia, delle garze dell'India, delle stoffe di seta di Tiro e di Babilonia, delle belle tuniche siriache, due magnifiche insista ornate di porpora, delle stoffe ricamate, bianchi veli rigati d'oro e violetto, stivaletti di pelle rossa adornati con oro, una veste galbanata per le feste, delle clamidi turchine ed oro, alcune amicola di lino sottile come un raggio di sole. Poi dei giojelli, orecchini, collane, braccialetti, spilli, fibulae, scheggiali. Poi profumi squisiti di tutte le qualità; la nicerontina, quell'odore soporifero inventato dall'eunuco Nicerontas; il nardo di Persia preparato dalla saga Folia, detto foliatum; il balsamo di Mendes, gli unguenti di Cipro; il nardo Achaemenium, degli olii di Arabia e di Siria, del malobathrum di Sidone; l'olio arabico pei capelli, e quello di mirabolano pel corpo, l'opobalsamum di Gerico, l'amone dell'Assiria, la mirra [78] di Oronte, il timo di Cipro, il cinnamomo dell'India, le pastiglie diapasmate inventate da Cosmos per profumare e rinfrescare l'alito nelle ore dell'amore, l'unguento reale della Partia.... Infine, tutto ciò che l'arte della profumeria di tutti i climi e di tutti i paesi aveva inventato di più soave e di più inebbriante.

Tutto ciò fu posto in bell'ordine su canestrine che stavano sul tavolo, e risplendeva alla luce, deliziando la vista e l'odorato.

Il sagan ed io entrammo in una stanza laterale ove Noah venne a raggiungerci e dirci che Ida fra qualche istante sarebbe pronta. Infrattanto i miei servi, Thorix e Febea presentavano sopra bacini dei frutti canditi, delle bibite agghiacciate, dei vini d'ogni paese, profumati e puri, dell'idromele, ed una quantità di dolciumi che io aveva inviati alcune ore prima.

Non ebbi il coraggio di veder Ida da sola. Ebbi paura di qualche esplosione di dolore, di un nuovo accesso di pentimento. Lasciai ad aspettarla il sagan, il quale, non avendo io parenti, faceva l'ufficio di padre o di fratello.

Ida aveva pianto tutto il giorno. Venti volte aveva ordinato a Noah, di mandarmi a dire che dovessi rinunziare definitivamente a lei. Dieci volte ella aveva allontanato questa giovine schiava che voleva dar principio all'opera della pettinatura e dell'abbigliamento. Poi s'era rassegnata, affranta della persona e nel cuore.

Noah l'aveva consolata, aveva asciugato le di lei lagrime, rinfrescato le guancie e gli occhi con dell'acqua di rosa; ma la non aveva potuto far sparire il pallore, nè ottenere di correggerlo con qualche cosmetico. Finalmente la teletta s'era terminata come Noah aveva voluto, poichè Ida non aveva consentito [79] a guardarsi una sola volta nello specchio, a dar un consiglio, ad esprimere un'idea od un desiderio, ad ajutarla per nulla. Si lasciava fare come se si fosse vestito il cadavere d'una fanciulla che si conduce alla tomba. Impiegava tutta l'energia del suo animo a contenere le sue lagrime, ed a mantenersi nella risoluzione che le si era strappata. Quando fu pronta, Noah la mise fra le mani di Hannah, il quale doveva introdurla nel tablinum, e le si pose dietro, onde ripeterle incessantemente una parola fantastica, preparata d'accordo prima, e che voleva significare: coraggio! attenzione!

In quel momento si udì nell'atrium la voce di Jesu Bar Abbas.

— Come, come? per le corna di Mosè! ci si marita qui senza informarmene! Ah, ah! l'è proprio squisita questa; si fanno nozze senza di me!

Bar Abbas fece irruzione così nel tablinum, e si trovò di faccia a faccia col Rabbì di Nazareth.

— To', brontolò desso, mio nipote! Oh! grazioso! Ci farai qualche miracoletto come a Cana, non è vero, mio bel nipote? Non potreste mai imaginarvi ciò che questo bell'imbusto di galantuomo seppe far credere ad un branco d'ubbriachi, alla fine d'un pranzo di nozze? Che ei bevevano del vino, nè più nè meno! mentre si riempivano i loro bicchieri con dell'acqua arrossata alla barbabietola! Non andar dunque a far sparire la sposa, almeno, nipote mio! Parola da Cesare! e' sarebbe ben capace di cangiarla in una nuvola come l'angelo che precedeva gli Israeliti, o in una bolla di sapone.

Mentre Bar Abbas snocciolava questo discorso, tenendo il Rabbì per la sua tonaca violetta, questi indietreggiava, lanciandogli a voce bassa la sua terribile [80] parola: Infame! infame! Alla fine, addossato alla porta, sempre spinto dall'impudente Bar Abbas, Gesù gridò ad alta voce: Indietro, infame!

— Capperi! e' sembra che mi riconosca alla fine, sclamò Bar Abbas senza scomporsi.

Nel medesimo tempo, l'uscio del tablinum, a cui era stato dietrospinto il Rabbì, si aperse a due battenti, e comparvero il sagan ed Ida. Il Rabbì di Nazareth si voltò, e tutti si posero in cerchio. M'avanzai, e presi la mano sinistra d'Ida che tremava come una foglia.

Era vestita d'una lunga stola porpora — le vergini sole la portavano bianca in tale circostanza. — Il suo capo era coperto d'un velo bianco ed argento. I capelli, rialzati da un nimbo d'oro, ricadevano in ricci sulle spalle insieme alle bende. Il collo s'intravedeva appena, e la sua bianchezza sorpassava quella del lino.

Un silenzio profondo seguì questa apparizione, di cui le forme del corpo, l'elevazione della taglia, la sveltezza, la molle e soave posa, eccitavano una curiosità ansiosa. Io mi sentiva soffocare. Finalmente, dopo alcune parole di presentazione dette dal sagan, egli mi fece segno che io poteva sollevare il velo della fidanzata, avanti di prestare il nostro reciproco giuramento.

Ahimè! quarant'anni sono scorsi da quel giorno fatale, ed io tremo ancora scrivendo queste linee.

Senza abbandonare la mano di Ida, sollevai il velo con la mia mano sinistra. Due gridi scoppiarono nel medesimo tempo nella sala, di cui l'uno soffocò l'altro.

Un grido di meraviglia, sfuggì da tutte le bocche alla vista di quella bellezza celeste, di cui l'aria infantile raddolciva lo splendore della donna. Quella [81] pelle diafana che sembrava imbevuta dei raggi del giorno; quelle labbra rosse come gli spicchi del melagrano, mezzo aperte per lasciar intravedere dei denti bianchi come il marmo di Paros, per lanciar un soffio pari al respiro della viola; quei grandi occhi azzurri nascosti sotto delle palpebre di latte, sormontati da due archi di sopracciglia castagne; quel naso diritto, fino, dalle narici rosee, che tradivano l'emozione; tutto l'insieme, in una parola, di quell'armonia vivente strappò un'esclamazione di sorpresa e d'ammirazione. Ma nello stesso tempo un altro grido risuonò al disopra di tutte le voci, quello del Rabbì di Nazareth, che indietreggiando come spaventato fino al fondo del tablinum, esclamò:

— Come! noi siamo qui in casa della ganza di Pilato! L'amante di Pilato è la sposa!

Il sagan ed io sapevamo soltanto che Ida era stata l'amante di Cajus Crispus, il quale consentiva finalmente a riconoscerla come moglie per ripudiarla. Nessuno sospettava che Ida fosse qualcosa di peggio: l'amante di Pilato.

S'imagini quindi l'effetto di questo grido del Rabbì, la portata di questa accusa.

Tutti quegli Ebrei, che per la loro posizione dovevano mostrarsi zelanti, si trovavano in una casa considerata come impura, e pel carattere della donna, e per la frequentazione dello straniero. Impuro! era la folgore sul capo dell'Ebreo!

La parola del Nazareno fu in effetto come il fulmine.

Le mani protese nell'attitudine della maledizione, gli occhi spalancali, tutta quella gente principiò ad indietreggiare, rinculando, non potendo staccare lo sguardo da quella magica figura.

Alla voce di Gesù, Ida alzò gli occhi, e riconoscendo [82] il Rabbì, cadde in ginocchio, fissò il suo sguardo divaricato ed ardente su di lui, gli tese le braccia, e mormorò:

— Fratello, fratello, abbi pietà di me.

— Terremoto del Sinai! gridò Bar Abbas, non ci mancava altro; ecco mia nipote! Sono in famiglia alla fine.

La mano d'Ida era caduta dalla mia, ed io mi copriva il viso. L'anatema era sceso sul mio capo.

Dopo un simile scandalo, l'unione con Ida diveniva impossibile. Gamaliel e Simeone mi presero per le braccia e mi trascinarono con loro. Io era istupidito; non mi sentiva più vivere. Noah s'inginocchiò dietro la sua padrona e la ricevette fra le sue braccia.

Il sagan solo restò come pietrificato, impassibile, assorto in un turbine di idee. Noah aveva già trasportato fuori Ida, spezzata in due e svenuta, ed Hannah era ancora al suo posto. In questa sala non ha guari tutta gremita di gente, non restavano più che il sagan e Bar Abbas posti alle due estremità. Hannah corse verso Bar Abbas, che se ne stava egualmente indeciso fra il seguire gli altri o restare per parlare a sua nipote, lo prese pel braccio e lo scosse.

— Ben m'avvisavo, brontolò Bar Abbas, che quel rabbioso di mio nipote ce ne avrebbe fatta una delle sue.

— Hai detto «mia nipote?» susurrò Hannah.

— Sì, mia nipote.

— Quella che vendesti a Cajus Crispus?

— Disgraziatamente non ho avuto che una sola nipote da vendere.

— Devo parlarti.

— Parla.

[83] — Vieni questa sera da me. Qui non posso.

Cinque minuti dopo, Thorix chiudeva la porta della corte, e la casa di Berachah ricadeva nelle lagrime, nella disperazione e nel silenzio.

Chi ha mai detto che il dolore uccide?

Insensato!

E nondimeno la coppa era appena sfiorata.

[84]

XXIII.

Bar Abbas andò a cenare dal sagan.

— Poichè questo onorevole funzionario, si disse egli, vuol godere della mia conversazione, e poichè la sua non mi diverte gran fatto, e' mi deve un compenso. Mi rassegno ad accettare quello della sua tavola, che non è gran che. Vi servono degli intingoli allo zafferano! se fossero all'aglio almeno! E poi dell'aceto che si dà l'aria di vino, o una bevanda che non vi resta tre minuti nel corpo. Ma, non fa niente, ciò val sempre meglio che i manicaretti equivoci della vecchia Phlogis, la quale principia sempre dal posare i suoi denti sul piatto, per timore d'inghiottirli. Poi si chiacchiera bene quando lo stomaco è convenientemente soppannato. Si può permettersi di sbadigliare piacevolmente se la conversazione vi annoja. L'arguzia sbuccia sola se la cicalata vi garba. Infine, sta sempre bene il premunirsi contro l'incertezza del domani.

Ordinariamente, Hannah faceva pranzare Bar Abbas con i suoi famigliari. Quella sera, l'ammise alla propria tavola; soltanto lo si relegò al posto dei parossiti, che prendevano a volo ciò che restava delle vivande servite agli altri convitati. Bar Abbas, difatti, brontolò durante tutta la cena, altercò col servo che gli versava da bere, perchè non gli riempiva mai [85] interamente la coppa. La cena finita, il sagan gli fece cenno di seguirlo, e lo condusse in una stanza remota, ove egli si ritirava quando aveva bisogno di raccogliersi. Bar Abbas, già malcontento della parte che gli era toccata a tavola, promise a sè stesso di tener sodo e di giocar forte, poichè Hannah aveva bisogno di lui, e di rifarsi. Hannah, dal suo canto, sapendo con qual uomo avesse a fare, non perdette tempo in preliminari. D'altronde sembrava vivamente eccitato.

— Ida, diss'egli, è proprio quella nipote che vendesti un dì a Cajus Crispus, o a Pilato?

— La stessa, appuntino, salvo i cangiamenti causati dall'uso e dal tempo, rispose quel cinico.

— Quanto ti dette Pilato, allorchè gliela consegnasti?

— Anzi tutto, egli la prese, e non fui io che gliela consegnai, perocchè ciò avrebbe aumentato il prezzo. Ma quel furfante non si fece vedere nell'affare, perchè ciò altresì avrebbe rincarito il mercato. Fece comparire un ufficiale di non so qual legione, ciò che mi rese più alla mano. So che quei ribaldacci non sono mai ricchi, neppur dopo un saccheggio.

— Insomma?

— Insomma.... Bisogna dirti proprio la verità, eh!

— Senza dubbio, non siamo mica al mercato qui.

— Nè al Tempio. Ebbene, egli mi diede trenta mila sesterzii. Ed ancora, quel mariuolo di Cneus Crispus, sono sicuro, me ne rubò dieci o quindici mila.

— Te ne do altrettanti: conducimi qui tua nipote.

— Pubblicamente?

— Imbecille!

— Allora, principe mio, non ci siamo mica ancora.

— In che?

[86] — Nel prezzo, per Dio!

— Sei tu che l'hai fatto.

— A quel tempo, sì: ma adesso la cosa è differente. Prima di tutto tu non calcoli i miglioramenti: due anni d'educazione e di esperienza che la tosa ha ricevuto da uno degli eleganti della corte di Tiberio, di cui un poeta cantava: tergo foemina, pube vir est. Ciò si paga. Tu sei un principe. L'altro era un soldataccio. A quell'epoca, Ida dimorava nella mia casa, ora sta nella sua, è libera. Può chiudermi la porta sul viso, se le aggrada.

— Quanto vuoi dunque?

— Ida ora si è sviluppata, ed è più bella che mai. Hai veduto le sue labbra, eh? Se Dio le vedesse, farebbe piovere baci.

— Quanto dunque?

— Da due anni, questo genere è caro sul mercato. Si è obbligati di farne venire dalla Campania, dall'Etruria, dalle Gallie; Sparta dà poco; Atene è esaurita; Tiro spedisce robaccia; Babilonia de' brutti grugni.

— Quanto dunque?

— Poi, se vedesti che piede ha quella piccina; potrebbe ficcarlo nel tuo naso senza farti starnutare. E che vita! fulmine d'un fulmine! passerebbe per l'anello del tuo auricolare. Non parlo del suo se....

— Quanto, quanto?

— Oh! quell'effeminato di Giuda è di buon gusto, va! Aveva fiutato un pezzo da imperatore. Darebbe venticinque anni a Matusalem.

— Quanto, quanto?

— Ma! poichè pranzo spesso da te, voglio andarci alla buona e lavorare a questo affare per quaranta mila sesterzii.

[87] — Canaglia! tu mi spennacchi, eh!

— Ebbene, prova se puoi averla a meno da un altro. Ah! dimenticavo il Rabbì che potrebbe ora ficcare il naso negli affari di sua sorella. Ed è un fiero compare, sai, il Rabbì: te lo giuro! È il solo uomo di cui io mi abbia paura a Gerusalemme. Poi, ho delle spese di viaggio per recarmi fino lì in fondo. Devo dare delle mancie alle persone che la contornano; forse far anco un po' la corte alla sua giovine schiava, ciò che m'imporrebbe la spesa per lo meno di una tunica nuova.... Non importa, è graziosa quella schiava.... vi aggiungerò un mantello....

— L'ultima parola, insomma?

— Lo vedi.... Ah! bisogna poi condurla qui, e di nascosto ancora. Quanta eloquenza mi farà d'uopo per persuaderla; quante bugie dovrò spippolare! Ciò mi umilia! mancarmi di rispetto così! Devo quindi darle a credere.... che cosa? che hai sposato sua madre e suo padre forse! Diavolo! non si vende così facilmente il proprio sangue, quando si ha della coscienza.

— Sia! quaranta mila sesterzi (10,000 lire). Quando me la conduci?

— Ah! ecco ancora una difficoltà! Non piglio nessun impegno prima di averla veduta domani. Fortunatamente che so come si prendono le fortezze: poichè, o sagan, se non sono stato generale, all'esercito, non è colpa mia. M'è d'uopo comperare l'eloquenza di tutte le mezzane, e di tutti i poeti di Gerusalemme.

— Basta così. Vattene, e vieni domani a dirmi cosa avrai fatto.

— Non ti lusingare però di giungere senza forse romper per via il tuo bagattello. Tu vedi che io non ti dimando neppure caparra. Se per altro vuoi darmi....

[88] — Va via, e vieni domani.

All'indomani, il giorno non era ancora chiaro, che Bar Abbas si acculava alla porta di sua nipote, attendendo che si aprisse. Egli comprendeva che era mestieri presentarsi con un convenevole pretesto, e non lo trovava. Non sapeva più a quale corda il cuore sanguinante di Ida risuonasse ancora, in nome di chi parlare, e che speranza far brillare. Egli ci era su a riflettere, allorchè Thorix aprì. Bar Abbas finse di arrivare in quel momento.

— È alzata la tua padrona? diss'egli.

— Non so se la riceva. Chi sei tu?

— Un messaggero del sagan Hannah, e porto gravi notizie.

— Dalla parte di chi?

— Ohe! saresti tu incaricato di udire ciò che si ha a dire alla tua padrona? Se la è così, a rivederci.

— Hai tu un nome in vita tua? Chi devo annunziare? Imperciocchè, all'aria, puoi forse essere un re travestito, ma nulla tradisce il tuo incognito. Sei tu il re di Persia, od uno schiavo del sagan che vuol parlare alla mia padrona, o semplicemente un ladro?

— Tocco di birbo! saresti bene in trappola se io mi fossi un re, poichè ti farei appiccare come un gufo alla soglia della porta. Va, di' alla tua padrona che un amico del sagan deve parlarle a nome del Rabbì di Nazareth.

Bar Abbas aveva trovato il suo eureka. Con questi due nomi, era sicuro sfondare la porta, benchè il vecchio Gallo non ne sembrasse per nulla ammaliato. Fu d'uopo però attendere che Ida, ancora spossata, si levasse.

Quando Noah vide il grugno del messaggiero, la fece una smorfia che diede a riflettere a Bar Abbas.

[89] — I miei quaranta mila sesterzii sono in pericolo, con questa volpe piccina, pensò egli.

Ida lo fece entrare nulla ostante.

Bar Abbas si atteggiò a modi di non dubbia autorità, quasi di parente che ha diritto di occuparsi della sorte del suo parente minore. Ida gettò un grido vedendolo e riconoscendolo. Ordinò quindi a Noah di restare presso di lei.

— Che vieni a far qui? sclamò essa.

— Dopo la scena di ieri, avresti dovuto stupirti piuttosto se io non fossi venuto, io, il marito vedovo ed inconsolabile della sorella di tua madre.

— Non invocare quei nomi, gli ordinò Ida. Tu! tu non sei che l'infame venditore di tua nipote. Vieni forse a vendermi di nuovo?

— Cominci male, figliuola, e non m'incoraggi certo a renderti servigio, ingiuriandomi.

— Tu non hai che un solo servigio a rendermi, ripetè Ida con disprezzo; uscire di qui.

— Potrei stabilirmi qui, fino a che tu ci resti, o condurti con me, fino a che i tuoi fratelli o tua madre ti reclamassero. Ma non voglio contrariarti. Non è per mia volontà che vengo qui, non è nè per me, nè per te.

— Per chi dunque? perchè dunque?

— Gli è per tuo fratello il Rabbì.

— Che Dio gli perdoni, mormorò Ida.

— Egli si lascia sempre andare a delle violenze. Ma questa volta, a quanto pare, corre dei veri pericoli.

— Quali pericoli? Che menzogna vieni a raccontarmi, ora?

— Tu sei bene la degna sorella di quel fratello, va! Sappi dunque che Gesù attacca ora a Gerusalemme [90] tutti i partiti. Egli carica d'ingiurie i Farisei; colma di rimproveri i Sadducei; non risparmia nè gli Esseniani, nè gli Erodiani; pungiglia i ricchi, i preti, gli scribi, i pubblicani.... non so infine chi mai risparmia. Non parlo di me che egli perseguita più degli altri, come se avessi messo fuoco al Tempio, o se gli avessi rubato Dio, suo padre.

— Hai fatto ancora peggio di codesto, osservò Ida con disgusto; hai accettato il prezzo del sangue di tua nipote.

— Sono malinconie codeste! Ricordati il covo sporco, cupo, e freddo ove stavamo. Mosè non si sarebbe data la pena di grattare la terra, per compiere da noi il miracolo dello sprazzo dei pidocchi. Ebbene guardati intorno, ove sei di presente. È forse tuo padre il carpentiere che ti ha somministrato quei cuscini di porpora ove riposi, queste sedie d'avorio, queste tavole di madreperla o di tartaruga, questi vasi d'argento pieni di fiori, queste ricche tonache che ti rendon sì bella? Non sarebbe certo stato un marito artigiano — il solo al quale tu potevi ambire, che ti avrebbe data questa casa, questo giardino, questi servi, questa bella giovane schiava, che avrebbe diritto di esser regina.... Tu non comprendi tutto ciò ora; sei giovane, fantastica, contenta. Il giorno in cui avrai fame, quando coperta di stracci mendicherai un pezzo di pane per non importa che, da non importa chi, comprenderai l'amore che ebbe per te tuo zio, che conosce il mondo. Adesso insultami, disprezzami e sospettami. Il genere umano è cattivo.

— Tu parlavi di mio fratello, disse Ida, finisci.

— Egli dunque ha posto fuoco ai quattro canti di Gerusalemme. Ora, ciò non si fa senza provocare una terribile reazione. Egli l'ha provocata; e tutti queglino [91] che furono attaccati, l'attaccano a loro volta. Si sono indirizzati al sagan, il più generoso, il più virtuoso, e l'uomo più elevato della Giudea. Hanno accusato Gesù. Il sagan ha conversato con tuo fratello qui, e si è preso di simpatia per lui. T'ha veduta, fu testimonio della catastrofe a cui tuo fratello ti sospinse, ed ha avuto pietà di te. Sa, che l'ultimo appoggio che ti resti omai, è questo fanatico Rabbì. Vorrebbe stornare dai vostri capi, il fulmine da cui sono minacciati. Ma non può rivolgersi direttamente al Rabbì, dapprima perchè questi forse non l'ascolterebbe, poi perchè il sagan non può urtare la suscettività dei suoi propri partigiani.

— Lasci dunque che la volontà del Signore si compia.

— Gli è precisamente ciò che gli ho detto io, io che preferisco sempre compiere la mia volontà. Conosco il temperamento della famiglia, e trovo la sorella calcata a pelo sul fratello. Ma il sagan non ha voluto credermi. Mi ha anzi maltrattato, dicendomi, che non vi amo, che odio Gesù. Allora mi son sobbarcato a tentare quest'opera di salvezza di nipote maschio e femmina, a cui sentomi così poco attagliato. Non ho voluto però vedere Gesù, che mi manca assolutamente di rispetto. Ho promesso di vederti, ma ad una condizione....

— Quale, di grazia, affettuosissimo zio?

— Che sia egli stesso, il sagan, che ti dica ciò che ha detto a me; poichè tu forse crederai a lui, meglio che a me.

— Difatti, io ho di che non crederti senza garanzia, e ancora...

— E ancora, che cosa?

— Ho ancora ad aggiungere, che in questo momento [92] stesso tu menti, e che questa storia che mi racconti è un nuovo tranello.

— Sei una sciocca figliuola, va, cara nipote. Non t'ho forse detto che sono indifferentissimo alle disgrazie che cadranno sul capo di tuo fratello, cui abbomino? Non t'ho detto che puoi andare tu stessa, quando vorrai, ad informarti dal sagan, il quale è l'uomo il più saggio, il più probo, il più stimato della Siria? Aggiungo di più: il sagan m'ha confidato, che fra qualche giorno avrà luogo, in sua casa, una riunione dei nemici di tuo fratello. Ebbene va a domandargli, se non mi credi, di assistere, nascosta, a quella riunione. Questa domanda sarebbe, te ne avverto, un insulto per l'uomo che ti previene a tempo del pericolo del Rabbì, ond'e' si metta in guardia. Ma puoi dire al sagan, che il suo messaggio pervenendoti da uno spezzaforche come tuo zio, il quale ti ha già fatto delle monellate, non vi ti fidi, e che vuoi vedere ed udire da te stessa. Quell'uomo tanto buono, che non ha rifiutato di andare a domandare in isposa la ganza di Pilato per un suo amico, sarà tocco dalle tue ragioni, e ti soddisferà; avvegnacchè, al postutto, e' non prenda lo scorruccio se tuo fratello rovina nell'abisso cui scava sotto i piedi dei nemici della nazione.

C'era nel discorso di Bar Abbas un tal misto abbominevole di sentimenti di odio, d'indifferenza, di franchezza, di probabilità, di evidenza possibile, di prove, e d'inverosimiglianze, che Ida ne rimase confusa e perplessa. Non era impossibile che il nobile carattere di suo fratello avesse colpito il sagan e ch'egli si fosse interessato alla sua sorte. Il sagan non aveva forse mostrato per lei un affettuoso interesse? Bar Abbas non parlava in suo nome, poichè [93] confessava di abborrire Gesù. Perchè Ida non andrebbe ad interrogare il sagan direttamente? Quale sospetto poteva destare un uomo che era, dopo Pilato, il più grande della Galilea e della Giudea? Che v'era d'impossibile che il sagan si astenesse di agire direttamente in favore di Gesù, il quale l'attaccava, attaccava il suo partito ed il suo genero Caifas? Ida restò quindi silenziosa. Bar Abbas continuò.

— Ho adempita la mia commissione, contro mia voglia, lo confesso; perocchè sarei beato che dessero una piccola lezione di convenienza e di umiltà a tuo fratello. Egli si atteggia nè più nè meno che a figlio di Dio! La tua povera madre è dunque non so cosa, e tu non gli sei niente; ciò che ti ha del resto dimostrato ieri sera colla sua stupida interruzione. Alla fin fine, io non ho nulla a rimproverarmi; poichè tutte le volte che ho voluto farvi del bene — ammettiamo che io mi sia ingannato nei modi, ma infine la mia intenzione era buona... — voi mi avete colmo di calunnie e d'oltraggi. Non voglio più impacciarmene. Alla mia età, vecchio soldato, la è davvero ridicola di essere sempre ingiuriato... anche da te, miccina, non ancora sgusciata di chiocciola. Dunque, riassumo: ecco di che si tratta. Tuo fratello corre un grave pericolo. Il sagan te ne previene. Va a prenderne conto più minuto da lui; va a domandargli, se vuoi, di verificare tu stessa la cospirazione che si ordisce contro il Rabbì; fa quello che vuoi; non stare a credermi; non dir nulla a tuo fratello, al sagan. Per me mi levo d'imbarazzo, e me ne vado.

Ida era scossa. In quel punto arrivò Justus, il quale, secondo il suo solito, cacciava sempre sulle mie peste. Era stato anch'egli colpito dalla bellezza fulminante di Ida; più degli altri forse, fatalmente [94] per lui, come vedremo. Veniva ora, come amico mio, a domandare a quella giovine donna che io aveva dovuto sposare, se avesse d'uopo di un qualche servigio. Justus fu contrariato della presenza di Bar Abbas in quel sito; questi, dall'arrivo di Justus che calcolava inopportuno. Ma con la sua solita prontezza di spirito, volle profittare dell'intrusione di quell'importuno. Gli si rivolse dunque e gli chiese:

— A proposito, Ida non vuol credere che suo fratello ha offeso tutti i partiti a Gerusalemme, e solleva contro di sè una reazione viva e pericolosa.

— È verissimo, Ida, fece Justus, interrogando dello sguardo Bar Abbas, onde comprendere ciò che significasse la domanda che gli dirigeva. È verissimo; ieri ancora, il Rabbì ha fatto uno scandalo al Tempio, ove non ha alcun diritto di levarsi a padrone, ed ha suscitato una gran collera nel capitano.

Ida non conosceva punto quell'intruso. Principiava a credere a Bar Abbas; ma l'attestato che egli chiedeva ad uno sconosciuto le fece l'effetto di una commedia tra compare e ciarlatano. Li sospettò ambedue. Gli era proprio ciò che voleva Bar Abbas onde deciderla a rivolgersi al sagan per sapere la verità. In fatti, Ida gli disse:

— Vi ringrazio dell'interesse che prendete per mio fratello. Io sono una povera donna isolata, e non posso nulla fare per lui. Dio lo proteggerà, se cammina nella sua strada. Addio.

Così dicendo Ida si alzò ed uscì. Noah indicò la porta a Justus ed a Bar Abbas che non se lo fecero ripetere due volte. Però, quando furono sulla strada, Justus si fermò, e guardando fisso negli occhi Bar Abbas gli chiese:

— Per chi lavori tu?

[95] — E tu? rispose Bar Abbas.

— Io? pel meglio del mio amico Giuda.

— Nobile cuore! sclamò Bar Abbas; ed io per tuo zio Hannah.

Justus tacque, e lasciò Bar Abbas ammirare tranquillamente da solo le singolarità del paesaggio durante il cammino.

Ida, dal canto suo, appena rientrata nella sua stanza da letto, raggiunta da Noah, non si fermò a lungo a riflettere. S'avviluppò in ampia stola che la coprì da capo a piedi, e facendo segno a Noah di seguirla, uscì. Ma prima di partire, diede ordine a Thorix di riportarmi i regali che le avevo mandati la vigilia, poi di aspettarla sulla strada, ai piedi del monte degli Ulivi.

Precediamola.

[96]

XXIV.

Il Rabbì di Nazareth era venuto a Gerusalemme in una disposizione di spirito diametralmente opposta a quella in cui l'avevo lasciato a Cafarnaum. Il rapido giro ch'egli aveva fatto nelle Provincie non ebree, gli aveva aperto gli occhi su quell'orrore pei Romani, di cui io credeva animato il popolo Israelita. La sua missione perdeva dunque la base politica, sulla quale egli non avrebbe sdegnato di appoggiarla.

Egli riconosceva bene l'esistenza del sentimento ebreo che sospirava un liberatore, un messia, il quale lo francasse dallo straniero. Ma egli aveva riconosciuto altresì che questo sentimento non era abbastanza intenso da farsene una leva di sovversione politica, e di elevazione personale. Occorreva dunque rinunziare a quel mezzo di attrarre il popolo dietro a sè. Egli attribuiva la tiepidezza della plebe alla soddisfazione dei Sadducei, alla interessata rassegnazione dei Farisei. In realtà, per gli uni, il dominio romano era la pace; per gli altri, una tregua, durante la quale lavorerebbero a scalzare la supremazia dei loro rivali. Il Rabbì detestava gli uni e gli altri come traditori verso Dio, di cui egli si era proclamato figlio, e traditori verso il popolo di cui egli si faceva sgabello. La sua grande parola pronunciata, [97] la sua missione dichiarata, esposte le sue dottrine, i suoi discepoli inquieti, ma all'erta, — che poteva ormai fare il Rabbì? Il cielo stesso della sua provincia rotolava tuoni contro di lui. Di tutte le mie insinuazioni, non aveva ascoltato che il consiglio, appoggiato dall'evidenza quotidiana, di cangiare il teatro delle sue prediche, e di venire a spiegare la sua attività a Gerusalemme. Colpito il capo, il corpo cadrebbe da sè. Era dunque arrivato a Bethania, la vigilia del Purim, con un piano stabilito di condotta: confondere i suoi nemici, trionfare o soccombere.

Il Rabbì non mi disse verbo pertanto nè del suo cangiamento interno, nè delle sue disposizioni aggressive. Non lo seppi che troppo tardi, ahimè! quando un seguito d'imprudenze aveva reso il male irreparabile, ed il rimedio impossibile. Poi, altre complicazioni vennero a precipitare la catastrofe.

Così, dall'indomani del suo arrivo, il giorno stesso del Purim, mentre Gerusalemme guazzava nelle orgie dei suoi saturnali, il Rabbì di Galilea principiava la sua gran battaglia sotto il portico di Salomone nel Tempio. Quando arrivai per vederlo ed invitarlo alle mie nozze, lo trovai circondato da popolo, da leviti, da scribi, sofisticando con un astuto rabbino che gli aveva chiesto:

— Cosa devo fare per avere una particella nell'eredità della vita eterna?

— Ciò che è scritto nella legge, rispose Gesù; l'hai tu letta?

— È il mio mestiere.

— E cosa vi hai letto?

— Ama Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutto il tuo spirito, ed il tuo prossimo come te stesso.

[98] — Ebbene, replicò il Rabbì, fa tutto ciò e vivrai.

— Facile a dire, e ad ordinare, riprese il rabbino; ma in pratica la cosa s'imbroglia. Chi è il mio prossimo?

— Ascolta, rispose il Rabbì. Un certo uomo, scendendo da Gerusalemme a Gerico, cadde in mezzo a dei ladri, che lo spogliarono di tutti i suoi vestiti, lo ferirono, e partendo, lo lasciarono mezzo morto.

— Ciò avviene sovente, interruppe il rabbino. La colpa è dei nostri padroni, che ci mettono delle taglie pesanti per difenderci, e ci lasciano in balia degli assassini.

— Ciò non mi riguarda, riprese il Rabbì. Ora avvenne che un prete per caso passasse per quella strada.

— Tanto meglio pel ferito, sclamò il rabbino.

— Credi? ebbene, t'inganni. Il prete guardò, vide l'uomo moribondo, e si tirò dall'altra parte della strada.

— Ebbe paura, osservò il rabbino.

— Sia, continuò il Rabbì, ma un levita passò pure per di là alcuni minuti dopo. Si fermò, guardò alla sua volta, si assicurò dello stato del ferito come aveva fatto il prete, poi alzò le spalle e proseguì la sua strada.

— Temette l'istessa sorte, disse il rabbino, o forse anco, d'esser preso per l'assassino.

— Forse fu così. Ma un altro non ebbe le stesse paure, e non si spaventò d'esser confuso con dei ladri. Sai tu, ora, chi era quest'altro?

— Uno scriba, un uomo della legge senza dubbio, esclamò il rabbino.

— T'inganni: un Samaritano, — uno di quegli uomini che voi disprezzate, considerandoli come impuri, [99] e sui quali invocate tutti i malanni e tutte le maledizioni. Sì, un buon Samaritano viaggiava anch'egli da quella parte. Quando arrivò presso il ferito, e lo vide in quello stato, e' scese dal suo asino. Poi, tocco da compassione, s'avvicinò, fasciò le ferite del moribondo, vi versò dell'olio e del vino, lo accomodò sulla sua cavalcatura, lo condusse in un albergo vicino e gli prodigò le sue cure. All'indomani e' partì; ma prima, prese due monete, e dandole all'oste gli disse: Abbi cura di questo disgraziato, e quanto spenderai di più, te lo pagherò, ripassando per qui.

— Un Samaritano! esclamò il rabbino.

— Sì, affermò Gesù, un Samaritano. Io ti chiedo adesso, a te uomo della legge, quale dei tre viaggiatori fu il prossimo della vittima dei ladri.

— Hum, brontolò il rabbino, quello che ne ebbe compassione.

— Allora, osservò il Rabbì, va e fa altrettanto[6].

— Come il Samaritano, non come i ladri, gridò una voce fra gli spettatori. Manasse sarebbe capace d'ingannarsi.

Questo ripicco non diminuì punto l'impressione fatta da questa bella parabola, che offendeva mortalmente i signori del tempio.

Abbassare il prete ed il levita al disotto di quello scomunicato, di quel disprezzato Samaritano cui gli Ebrei detestavano peggio dei pagani, al punto di dire che il pane dei Samaritani era come la carne del maiale; glorificare quel lebbroso dell'anima a spese dei ministri di Dio, parve il colmo dell'audacia, dell'impertinenza e dell'insulto: una bestemmia, una [100] violazione della legge. Ma Gesù non si fermò a mezza via; e poichè aveva un così bell'uditorio intorno a sè, sguainò tutta la sua collera contro i Farisei, chiamandoli: razza di vipere, ipocriti, sepolcri imbiancati, mentitori, impuri dell'anima, intelligenze limitate e false, vasi d'immondizia. Un sordo mormorio circolava nella folla, taluni applaudendo, altri corrucciandosi. Allora il Rabbì vide un mendicante cieco che entrava per la porta. Corse a quell'uomo e lo prese per le mani.

— Maestro, dissero allora i suoi discepoli, chi è che ha peccato, quest'uomo o i suoi parenti, perchè egli sia cieco?

— Nè lui, nè gli altri, rispose il Rabbì. Quest'uomo è in quello stato, perchè io possa manifestare il mio potere.

Allora egli sputò per terra e compose una specie di pasta, mescolando la sua saliva alla polvere. Lo vidi in seguito spalancare le palpebre del cieco, con una punta brillante d'acciajo, toccare l'occhio infermo, e cavarne come una pietruzza. L'uomo gettò un grido di dolore, che si cangiò in gioia, poichè esclamò:

— Dio mio, vedo la luce.

Il Rabbì toccò nell'istessa maniera l'altro occhio e ne fece pure spiccare una piccola rena. Il mendicante gittò un secondo grido:

— Dio mio; vedo le cose e gli uomini.

Il Rabbì applicò allora la sua belletta sopra i due occhi, impedendo loro di vedere, e disse al cieco:

— Va. Fra tre giorni o quattro, lavati alle sorgenti di Siloam e credi nell'inviato di Dio[7].

Questa guarigione era stata operata dal Rabbì in [101] modo così pronto, abile e rapido, che i suoi discepoli gridarono al miracolo! ed egualmente la plebe. Ma i farisei, gli Scribi, e le altre persone istrutte se ne spassarono come di una gherminella da cerretano.

I più coscienziosi fra loro lo chiamarono pazzo e demonio, e principiarono ad interrogare il mendicante cui sospettavano forte di essere un discepolo addestrato od un compare d'accordo.

Io vidi che la tempesta ingrossava, ed avvicinandomi al Rabbì lo condussi meco.

L'ora della nostra partenza per Berachah s'appressava.

Dopo aver lanciato la terribile apostrofe che abbattè e schiacciò sua sorella, Gesù scappò via da Berachah come da una fornace che l'avesse bruciato.

Passioni e pensieri d'ogni fatta lo turbavano. Gli avvenimenti lo mettevano da ogni parte alla prova; alle angoscie della vita pubblica si aggiungevano gli spasimi del cuore. Quando arrivò a Bethania, la notte era molto avanzata, il freddo intenso, il cielo puro e profondo. Sedette sopra un banco di pietra nella corte e s'immerse nell'abisso dei suoi pensieri. Tutti dormivano sotto quel tetto tranquillo, anche le due sorelle affettuose che vegliavano alla sorte del Rabbì con tale inquietudine di amore che cangiava in grazia la loro bruttezza. Il Rabbì non risvegliò nessuno, s'avvolse nel suo mantello, e spiò il giorno.

Appena spuntò l'alba e' si rimise in via per Gerusalemme, pel Tempio. Ormai ogni esitazione era cessata: il destino lo travolgeva nei suoi fiotti. Adescato dal successo del giorno precedente, più focoso e più incocciato all'opera che mai, entrò di buon'ora nel Tempio, e s'installò sotto il portico di Salomone.

Appena fu visto, gli oziosi che venivano in quel [102] sito per veder gente e spigolar novelle, i devoti che ci venivano pel sacrifizio, le persone del culto, lo circondarono. Nessuno ignorava come l'insegnamento del Rabbì fosse originale, piccante, ed elevato. Quel giorno, il domani della mia catastrofe, il Rabbì si lasciò andare al suo umore mistico, cioè a quella parte della sua dottrina che urtava di più, a causa della sua oscurità, la quale le dava l'impronta dell'assurdo. In fatti il Rabbì assicurò ch'egli era la porta del pecorile, che egli era la buona gregge, il buon pastore, che egli entrava solo da padrone in quel sito, mentre gli altri vi si insinuavano come ladri per uccidere e distruggere. Affermò che «suo Padre lo conosceva, e ch'egli conosceva suo Padre, ed era pronto a dare la vita pel suo gregge, ragione per cui suo Padre l'amava; che egli aveva il potere di dare e di riprendere la sua vita; che egli si era attribuita questa missione ma che suo Padre altresì gliela aveva imposta....» ed altre cose simili.

— È egli pazzo, od è osesso? chiedeva la folla. Ma altri che si annojavano di quel garbuglio di parole, misero la questione in termini chiari, dimandandogli:

— Per quanto tempo ancora ci lascerai brancolare nel dubbio? Se sei il Cristo, dichiaralo senza ambagi.

— Ve l'ho già detto, rispose il Rabbì con voce ferma, e non senza collera; ve l'ho detto e voi non avete voluto credermi. Le opere pertanto che fo io in nome di mio Padre non sono esse sufficienti per attestarvi il mio potere? Ma voi non credete, perchè voi non siete del mio ovile, a cui solo do la vita eterna, perchè mi è stato affidato da mio Padre, e mio Padre ed io non facciamo che uno[8].

[103]

Un grido d'orrore scoppiò in mezzo alla folla. Alcuni vollero lapidarlo, altri l'accusarono di bestemmia. I Farisei, ingiuriati, fuggirono, verso il Lishcathha Gazith (camera selciata) ove il sanhedrin sedeva fino dal mattino, precisamente per giudicare il Rabbì.

Il Rabbì di Nazareth aveva dichiarato la guerra al dogma ebreo ed a tutti i partiti della Giudea, senza formulare ancora la sua dottrina, o ravvolgendola in una fraseologia che offendeva il gusto e non rischiarava le intelligenze. I Sadducei, i quali, se non potevano migliorare la loro situazione politica, preferivano conservare la pace al conservare le dottrine giudaiche, s'erano mostrati più tolleranti dinanzi gli attacchi del Rabbì. Gli Esseniani, che vedevano nel suo insegnamento un primo passo verso la effettuazione delle loro idee, si rassegnavano alle ferite che il Rabbì portava loro. Ma i Farisei non sapevano restar impassibili sotto quella doccia incessante di motteggi, di rimproveri, di censure, di villanie, di cui si sentivano sempre più caricati. Avrebbero accettato di transigere con lui, se il Rabbì avesse consentito a piantarsi a dirittura come un principe della loro casa reale maccabea, sostegno della polizia separatista, ammiratore della legge rivelata, ristauratore del regolamento indipendente, e dell'indipendenza; in una parola: re degli Ebrei. Il Rabbì me l'aveva fatto sperare. Io aveva portato a Gerusalemme tale speranza. Adesso, egli mi scattava fra le mani, insistendo, con una pertinacia piena di collera, sopra la necessità d'adottare una nuova legge, un nuovo comandamento, una nuova forma di preghiere, una nuova vita religiosa. Egli profanava il sabato. Faceva buon mercato di ciò che i Farisei credevano impuro. Aboliva i loro riti, ed attaccava la loro rettitudine. Il giorno [104] prima aveva tocco il colmo delle sue invettive. I Farisei avevano portato contro di lui, dinanzi al sanhedrin, l'accusa di cui Bar Abbas aveva inteso parlare alla tavola del sagan, e che aveva raccontata ad Ida.

Il sanhedrin si era radunato alla mattina nella sua sala di discussione, detta Lishcath-ha-Gazith, sul grande bastione della parte occidentale, rimpetto Sion, presso l'entrata principale del Tempio, che dava sulla corte degli Israeliti e su quella dei pagani, per permettere l'entrata agli Ebrei ed ai Greci.

Il sanhedrin si componeva di settanta a settantadue membri, scelti a suffragio, fra gli Ebrei più considerevoli, più ricchi e più vecchi, non solo di Gerusalemme, ma anche dell'Egitto, della Grecia e di Babilonia. Prima di Erode, questo consiglio aveva un potere regio, temporale e spirituale, essendo nell'istesso tempo corte d'appello e corte giurisdizionale, civile e criminale, potendo nominare e deporre i re, nominare i consigli provinciali, decidere delle questioni di pace e di guerra, giudicare le tribù, il gran sacerdote, i falsi profeti, metter in movimento gli eserciti. In breve, questo consiglio aveva diritto assoluto sulle fortune, la vita, la morte, la coscienza dei cittadini, eleggeva i suoi membri, pubblicava sentenze di morte, interpretava la legge ed i libri sacri: Dio ed il sanhedrin non facevano che una cosa sola[9]. [105] Erode condannò a morte tutti i membri di questo corpo — due eccettuati, Hillel e Shammai — e diminuì di molto i poteri del sanhedrin cui riunì intorno a questi due illustri membri. Pilato diminuì ancora i poteri che Erode aveva loro lasciati; ma ciò nondimeno, quelli che loro restavano erano ancora considerevoli. Il governo romano però, si riserbava la legalizzazione dei decreti del sanhedrin avanti la loro esecuzione, eccettuati quelli che riguardavano l'educazione, la liturgia, la fede ed il culto. Dopo gli errori di Gratus, Pilato aveva compreso che questo corpo poteva essere un eccellente alleato, o un nemico terribile.

Il sanhedrin era scelto fra i preti, i leviti e la classe laica degli Ebrei. L'elemento sacerdotale vi dominava. Il gran sacerdote lo presiedeva, o in sua vece, il rettore del gran Collegio, assistito da due segretarii.

Un atto d'accusa contro il Rabbì di Nazareth essendo stato portato il giorno prima, Caifas aveva radunato il sanhedrin, che sedeva in semicerchio intorno a lui. Dopo che l'atto fu letto, siccome occorreva l'unanimità dei membri presenti del consiglio per pronunziare la colpabilità e poi la pena, Caifas domandò se c'era nessuno che volesse presentare delle osservazioni. Nicodemus, un sacerdote della famiglia di Hillel, si alzò e disse:

— Padri della camera del giudizio, la nostra legge ci comanda di non condannare alcuno prima di averlo udito. Ora, ci vien fatta un'accusa contro questo Rabbì, ma le prove mancano. Possiamo noi procedere sopra questo quaderno d'imputazioni soltanto? Possiamo inviare dinanzi al giudice romano una sentenza senza base?

[106] Gli altri membri del sanhedrin, preparati a lanciare un mandato d'arresto contro il Rabbì, tennero conto di questa osservazione, e l'assemblea era per isciogliersi, quando un gran numero di Scribi, leviti, e Farisei irruppero nella sala del consiglio gridando: allo scandalo, alla bestemmia! Raccontarono allora aver udito il Rabbì proclamarsi figlio di Dio, e che egli era lì ancora, sotto il portico di Salomone, per ripeterlo a chi volesse interrogarlo. Questa volta le testimonianze erano concludenti, irrefragabili. Il mandato di arrestare il Rabbì fu spedito all'istante. Gli ufficiali del Tempio ricevettero l'ordine di eseguirlo.

Gesù predicava ancora ed insisteva, colla sua ordinaria tenacità, sopra la sua asserzione.

— Voi dite che io bestemmio perchè ho annunziato che io sono il figlio di Dio? Se io non fo le opere di mio Padre, non mi credete. Ma se le fo, se non volete credere in me, credete in esse; giacchè allora voi potrete conoscere e convincervi che mio Padre è in me, ed io sono in lui[10].

A queste parole gli ufficiali del Tempio si avanzarono per impadronirsi di lui; ma nel medesimo momento, Gneus Priscus entrò sotto il portico, e rivolgendosi a Gesù, gli domandò:

— Non sei tu il Rabbì di Nazareth?

— Sì, son io.

— Vieni con me allora; Claudia, la moglie del procuratore, t'invita alla sua presenza.

Gli ufficiali del Tempio si ritirarono, accompagnati da uno sguardo ironico del Rabbì, mentre Gneus Priscus lo afferrava senza troppe cerimonie pel braccio, e lo conduceva seco.

[107] Era l'ora quinta.

Claudia s'era risvegliata all'ora quarta (dieci ore del mattino), il viso simile ad una maschera di creta, a causa della mollica di pane bagnata nel latte d'asina che vi applicava durante la notte onde conservarsi fresca e bianca la pelle, e che disseccava e si screpolava la notte. Battè ad un timballetto d'oro posto sul tavolo dinanzi il suo letto, e Nomas, che stava alla porta, coll'orecchia tesa, si presentò. Claudia ordinò che venissero ad alzarla; e Nomas avendo aperto le finestre, cinque o sei schiave si precipitarono nella stanza, per aiutare la loro padrona a scendere dal letto ed a venire nel vicino gabinetto, ove andava a principiare la grand'opera della teletta[11].

Il gabinetto ove Claudia entrava era quello stesso ch'Erode aveva fatto costruire per la regina Mariamne. Era un ottagono abbastanza grande per contenere quell'esercito di giovani e belle schiave, nude fino alla cintura, che dovevano compiere i sapienti misteri della trasformazione, della creazione qualche volta, del culto della bellezza. Dai muri di questo gabinetto pendevano delle stoffe di seta color di giacinto rilevate di porpora[12] e ricamate in oro e in perso. Due intermedii di finestre erano coverti di specchi dal su in giù. Il soffitto, di cedro d'Africa scolpito, sembrava un pergolato dalle foglie d'oro, e dai grappoli d'argento e di pietre preziose. Un magnifico tappeto di Smirne ricopriva il mosaico del [108] suolo in lazulite, agate e smeraldi, poichè la stagione era fredda, benchè il sole entrasse a iosa dalle due finestre aperte sui giardini. Alcuni dipinti poco modesti ornavano gli assiti delle finestre, ed alcuni quadri, anche questi poco decenti, pendevano dalle pareti; finalmente alcuni seggi coperti di cuscini ricamati.

La schiava che attendeva alla porta chiese a Claudia, chi doveva lasciar entrare durante la teletta.

— Il Rabbì di Nazareth soltanto, rispose Claudia, se si presenta. L'ho fatto domandare fin da ieri sera.

L'opera delle schiave addimandate cosmetes non durava a lungo con Claudia, la quale non metteva che di rado un po' di rosso sulle labbra. Chi legge ricorderà la funzione ch'ella esercitava a Capri presso di Tiberio. Un poeta aveva cantato di lei, sotto il nome di Tais: Tam casta est rogo Thais? Immo fellat: Perchè mai Tais è così casta? perchè la sua bocca non lo è punto.

Del resto, nè capelli posticci, tagliati ad una fanciulla d'oltre Reno, ed intrecciati da un'artista del Velabro: nè capelli tinti in biondo, dopo essere stati lavati alla calce, colla pomata del Gallo del circo Massimo; e neppure denti falsi, nè false sopracciglia.

Cinzia portò una coppa d'oro colma di latte d'asina munto in quel momento, ed umettò con esso la crosta di mollica di pane della notte in maniera da farla cadere. Poi Cinzia lavò la pelle prima con dell'acqua tepida, poi con della fredda, in cui durante la notte era restato in fusione del nardo d'Etiopia. Cloe si presentò con una conchiglia d'oro, e dopo aver respirato sopra uno specchio, per mostrare alla sua padrona che il suo alito era puro, e convenientemente profumato dalle pastiglie di Cosmos, umettò [109] con della saliva un pizzico di rosso molto allungato cui distese leggermente sulle labbra di lei. Delia aveva già lavati i denti di Claudia, con una dolce spugna di Bretagna.

Licenziata la coorte delle cosmetes, vennero le acconciatrici dei capelli.

Claudia aveva una ricchezza imbarazzante di capelli neri, soffici, lunghi fino alle ginocchia. Questa parte della teletta era la più molesta; e le accadeva sovente, per impazienza, di mordere, di pungere colla sua spilla, di pizzicare i seni delle sue schiave. Neera teneva lo specchio mobile cui presentava alla sua padrona in tutte le posizioni. Questo specchio non era altro che una piastra d'argento levigata, contornata d'un rilievo d'oro riccamente cesellato ed ornato di perle. Fiale sfece la pettinatura notturna, e diede dell'aria a quelle splendide treccie. Ostilia le profumò di pomate preziose. Nape rotolò con un ferro caldo i piccoli ricci delle tempie e della fronte. Cypassis, una bella negra, intrecciò, annodò ed avvolse in forma di torre le treccie di dietro. Galla le traversò di quel terribile spillone di cui Claudia faceva un uso così omicida nella sua ira.

La fioraia egiziana Nemesis entrò di poi, seguita da due fanciulli etiopi con due corbelli ripieni di fiori, e di rami colti nello stufe. Claudia scelse un ramo di verbena ed alcuni narcisi, cui Phlogis le piantò nelle treccie. Claudia, l'ho già detto, non portava mai gioielli.

Acconciata la testa, toccò la volta alle mani.

Fabulla le lavò con del latte tepido. Lilla le sciacquò all'acqua di rose. Vetustilla le asciugò con una pasta di mandorle profumata, poi con un lino d'Egitto fino come una tela di ragno. Sabina, che aveva tolto il [110] famoso anello di Tiberio, lo rimise all'annulare. Polla tagliò le unghie, e le lucidò con un cosmetico oleoso e profumato. In quel momento, mentre Chione, Clio, Calamide ed Eunoe si occupavano dei piedi di Claudia, d'una bianchezza abbagliante, — quei piedi che davano il batticuore alla gioventù d'Alcinous di Roma, quando ella passava per la Via Sacra, — mentre Glicera le calzava degli stivaletti rossi dai talloni dorati, e che Marcella li annodava con dei cordoni di seta ed oro a quelle caviglie ed a quelle gambe tanto cantate dai poeti, due adolescenti Galli, dai capelli castagni arricciati, e dalla schiappa corta e bianca, portarono lo asciolvere di Claudia.

Uno d'essi teneva sopra un bacino una coppa di murrina che aveva il valore d'una provincia, l'altro un vassoio d'oro con dei frutti. Nella coppa fumava quel brodo squisito di succo di selvaggiume, allungato con della crema, del mele e alcune goccie di vecchio Pollio di Siracusa, inventato da Eumolpe, cuoco, o meglio medico di Claudia. Cleopatra le presentò un pezzo di porpora per asciugarsi le mani, ma Claudia preferì tuffarle nei capelli dei due giovani schiavi.

In quell'istante, venne la volta delle ornatrici. Ma nell'istesso tempo Drusilla, la schiava della porta, annunziò Filottete, Curculio, ed il Rabbì di Nazareth.

Claudia rinviò Curculio, lo schiavo che ogni mattina le raccontava gli avvenimenti della città, ed ordinò di lasciar passare il Rabbì e Filottete.

Questi era il filosofo di Claudia, il cui mestiere consisteva nel recitarle dei versi greci e latini — i più liberi erano i meglio accolti. Filottete doveva altresì pigliar cura delle piccole cagne, insegnare a chiacchierare ai papagalli, ritrovare delle nuove pomate, [111] lavare i cagnolini quando avevano caldo, pettinarli ed uccidere i loro insetti. Questo filosofo era calvo. Aveva una barba che gli scendeva fino alla cintura, un mantello spelato e sordido, una tunica di lana rozza che non gli copriva neppure le gambe nude e vellute, e dei sandali grossolani. Era ghiottone a dar dei punti ad una preziosa; e siccome Claudia nutriva le sue cagne in puerperio di fegati d'oca e di cialdelle di sesamo, il filosofo le faceva partorire sovente, troppo sovente, le condannava ad una dieta salutare, e ne divorava egli le leccornie. Filottete veniva a presentare a Claudia la sua favorita Febea, la cagnetta maltese che abbaiava a Pilato più delle altre, e che aveva dato alla luce sei piccoli cui egli recava in un lembo del suo mantello. Claudia accarezzò la cagna, e la rimandò col suo aio. Poi, volgendosi verso Gesù, gli chiese in greco:

— Rabbì, che lingua devo parlarti? io non so l'ebraico; conosci tu il greco od il latino?

— Parla il linguaggio che traduce meglio la voce del tuo cuore, rispose il Rabbì.

Claudia aveva tutto il busto ignudo. La candidezza, la bellezza, l'eleganza di quel corpo davano i brividi. Tiberio l'aveva temuto, e, per gelosia d'imperio, era stato contento di allontanare Claudia di cui temeva l'irresistibile influenza, ch'ella andava prendendo su di lui. Il Rabbì la guardò come se i suoi occhi fossero stati di cristallo. Marcia, la direttrice della guardaroba, venne a chiedere a Claudia che tunica volesse.

— Una tunica a frange azzurre, ordinò Claudia, la damascata.

Mentre Marcia traversava un'infilata di stanze piene di schiave: nella prima quelle che filavano e tessevano [112] le stoffe; nella seconda le sarte; nella terza, le ricamatrici; nelle altre le piegatrici, le stiratrici, quelle che facevano gli ornamenti; mentre Marcia domandava alle schiave la tunica disegnata, Claudia diceva al Rabbì:

— È molto tempo che ho dato l'ordine di farti venire. Non sei dunque stato avvertito del mio desiderio? Non ti hanno trovato? Pure, se avessi chiesto a Roma che mi si conducesse l'istrione Pilade, l'avrebbero trovato all'istante.

— Sono arrivato a Gerusalemme soltanto avant'ieri sera, rispose Gesù.

Lo sguardo del Rabbì diveniva severo. Egli non sapeva che le dame romane, anche le più austere, non avevano la castità degli occhi. Esse si bagnavano nude nelle Terme miste cogli uomini. Claudia nondimeno osservò il pudore del Nazareno, e come se quello sguardo fisso, acuto come la lama d'un pugnale, la bruciasse o la pungesse, arrossì, e sollecitò Paula a metterle la camicia di cotone a maniche corte. Pyrallis le sostenne il seno, cura inutile, con una cintura.

— Che tempo fa, Rabbì? chiese Claudia per stornarne lo sguardo.

— Quando si vedono i tuoi occhi, o Claudia, rispose il Rabbì con semplicità, non si cura di sapere se il sole brilla, o se si nasconde.

Claudia sorrise. Ella ignorava che quest'uomo, un momento fa così duro, così brutale, così amaro contro i Farisei, si trasfigurava da che scorgeva un fiore, un fanciullo, od una donna. Gesù sprezzava l'uomo. L'uomo feriva la sua squisita sensibilità, il tatto voluttuoso dei suoi nervi. Per contro il fiore lo incantava, il fanciullo lo inteneriva, la donna riempiva la [113] sua anima di ineffabile soavità. Il profeta si cangiava allora in poeta; la voce si mutava in un canto; l'uomo che brancolava sulla terra, navigava per i cieli. Il Rabbì colla forza della sua volontà, aveva infranto la sua ruvida corteccia di Ebreo, e pulendo la sua anima, le aveva dato uno splendore dolce e squisito.

— Sei tu ammogliato, Rabbì?

— No, rispose Gesù. La donna è troppo elevata per me, perchè io possa innalzarmi fino a lei.

— Rabbì, riprese Claudia, non allogarla però così alto che la si trovi relegata nella solitudine.

Marcia arrivò colla tunica e la porse a Polla. Questa prese quel vestito di lana di Mileto, tessuto di cotone, dalle maniche serrate nell'alto, aperte dal gomito ai polsi ove un braccialetto od un cordone di seta le serra, tutta ricamata in azzurro, al collo, al petto e nei lembi.

— Hai mai assistito alla toeletta d'una donna, Rabbì? chiese ridendo Claudia.

— Sovente?

— Sovente!

— Sì: a quella delle tigri nel deserto. E ti assicuro, bella signora, che desse non sono meno lente, meno ricercate, meno difficili, quantunque meno civettuole, che la moglie d'un procuratore della Giudea.

— Hanno esse specchi ed unguenti?

— Altro che! hanno il ruscello e la saliva, e quelle piote terribili come i vostri spilletti, che sono ad un tempo un oggetto di ornamento ed un'arma.

In quel punto Drosa presentava la palla o mantello che finiva l'abbigliamento. Il panneggiamento di questo vestito è la parte più difficile della teletta d'una donna. L'è tutta una scienza, che esige la conoscenza [114] dell'architettura, della pittura, del gioco delle ombre e della luce, che deve arrotondire, armonizzare, rilevare, rivelare tutte le membra della donna, non nascondere alcun movimento del corpo e fonderli tutti dolcemente. Claudia prese la palla dalle mani della schiava, e presentandola al Rabbì, gli disse sorridendo:

— Poichè sei così esperto nella civetteria delle tigri, io, che sono pure civetta, sarei ben lieta vedere come desse t'hanno insegnato ad aggiustare questo arnese.

Il Rabbì, con una condiscendenza squisita e delicata, prese il mantello, lo posò sulla spalla dritta di Claudia, ne fece passare un lembo sotto il braccio sinistro, lasciando nuda la spalla ed il braccio, e mentre le due estremità scendevano fino ai garetti, diede per di dietro un tal giro di pieghe al corpo del mantello, che provocò un grido di sorpresa di Claudia, la quale si guardava negli specchi. La si sarebbe detta nuda, talmente il busto, il basso dei reni, le anche erano soavemente disegnate.

— Affè di Dio! Rabbì, disse Claudia ridendo, mi comprerai una tigre, per aggiustarmi la stola. Sono divenuta difficile.

E fece segno alle sue schiave, che la lasciarono sola col Rabbì.

Allora la scena cangiò. Nè Claudia, nè Gesù, non erano più gli stessi.

[115]

XXV.

Claudia indicò un seggio al Rabbì e principiò a passeggiare per la stanza d'un passo agitato.

— Sai perchè t'ho fatto chiamare? sclamò ella.

— Quando si domanda del medico, rispose tranquillamente il Rabbì, è segno che si è ammalati.

— Potresti forse aver ragione. Ma dov'è il mio male?

— Dove tutte le donne han male: al cuore.

— Quando c'è un cuore! Sì, tutte le donne sono prese di là, ora perchè non le si amano, ora perchè le si amano poco o troppo, talvolta perchè esse amano. È malattia d'amore la mia? in quale categoria mi poni tu?

— Quando si è bella come sei tu, giovane, ricca, possente come sei tu, di rado una donna si lagna dell'altrui amore. Che la si ami o no, ognuno s'affretta a circondarla d'un'atmosfera d'amore alla temperatura ch'ella desidera. Dunque, Claudia, tu ami.

— Io amo. Che vuoi tu che faccia una donna a ventiquattro anni se non ama?

— Ami, e sei gelosa.

Claudia s'arrestò, e prendendo le mani del Rabbì gridò:

— Sì, sono gelosa, gelosa da morirne.

Il Rabbì afferrò le mani che Claudia gli presentava [116] e le serrò, quantunque ella a quel contatto ardente volesse ritirarle. In pari tempo, il Rabbì inchiodò su di lei le sue larghe, calde, penetranti pupille, simili a due raggi di fiamma, e Claudia accasciandosi sulla persona cadde sopra un seggio. Il Rabbì si avvicinò ancora alla sua fronte e chinandosi su di lei, la guardò con maggiore intensità ancora. Claudia chiuse gli occhi. Dopo un istante, il Rabbì si allontanò. Claudia si rialzò. Questa scena non durò che alcuni minuti.

— Che ho io dunque? disse Claudia, allungando le braccia, — sono affranta, ho creduto di morire.

— L'aria di questa stanza è troppo calda, osservò il Rabbì aprendo la finestra; la tua emozione ti ha dominata.

— Che ti diceva io or ora?... Ah! M'è stato parlato della tua potenza. Ti credono un Messia, e tu ti spacci per figlio di Dio.

— Tu non mi credi?

— Figlio di Dio? perchè no. Enea lo era, Alessandro, Cesare lo erano; non so quanti altri re, conquistatori, e maghi lo sono stati. Siilo tu pure. L'opera che vuoi compire lo esige. Ti è egli stato detto, che io vi do' aiuto?

— L'opera alla quale io lavoro, o Claudia, mi è stata ordinata da mio Padre.

— Io non mi occupo di colui che ordina, ma di colui che deve obbedire. Tu vieni per rovesciare Roma. In nome di chi vieni tu a tentare un'impresa nella quale Alessandro e Cesare soccomberebbero? Quali sono le tue forze? Con chi e con che vuoi tu surrogarle?

— Claudia, ti hanno male informata sul mio conto. Il mio regno non è di questo mondo. Io non vengo [117] a rovesciar Roma. Io vengo a dare al mondo ed a Roma stessa ciò che alcuni Romani gli rifiutano: l'eguaglianza dinanzi Dio[13]. Alessandro, Cesare, Augusto, Tiberio fallirebbero in questa impresa, perchè vorrebbero imporla, mentre occorre indicarla, e lasciarla compiersi da sè sola. La mia forza, è la verità; è questo popolo, di cui si è fatto finora una cosa, e di cui io desidero fare un uomo. Io pongo Dio al posto di Roma.

— Se questo è tutto ciò che tu proponi, puoi ritornartene in Galilea: Pilato non ha d'uopo di chiamare nuove legioni. Rabbì, sai che sei qui con una complice?

— Io non conosco complici; conosco dei messaggieri della mia parola, dei credenti nella mia missione.

— Rabbì, tu parli già da padrone. Ciò non basta. Che hai tu fatto, che puoi tu fare? M'è stato detto che hai guarito degli ammalati, e dato del pane a degli affamati. Rabbì, per sollevare il popolo ebreo come una marea spaventevole, e sommergere questo pugno di Romani che lo schiacciano, Esculapio stesso sarebbe impossente. Occorre un Gracco, un Cesare, un Mario, un Silla, od un Dio: perfino un Catilina.

[118] — Donna, non affrettarti a giudicare l'operaio prima di veder l'opera. Tu non hai la fede.

— La fede si prova, Rabbì: giacchè io non conosco nulla di così incredulo, che la credulità. Manifesta il tuo potere, ed allora....

— Allora il figlio di Dio sarà disceso al livello di Simone, il mago di Sichem. Gli è per domandarmi dei miracoli, come la plebe, che m'hai chiamato?

— Non hai detto tu stesso che io era ammalata? Ebbene, tutte le azioni della mia vita non tendono che ad uno scopo. Se io ti domando dei miracoli, è che non ti considero come un mio schiavo, il filosofo Filottete.

— Claudia, tu hai d'uopo di una spiegazione e non d'un miracolo. Tu nascondi un segreto nel fondo della tua anima. Tu ami tuo marito, ma lo disprezzi; e ti fai violenza e ti torturi per non farti indovinare. Tu credi che Pilato t'abbia sposata per ambizione, e non per amore. Non puoi comprendere che egli abbia potuto amarti, conoscendo le tue costumanze alla corte di Tiberio, ma non sapendo che tu ti disonoravi per ottenere la libertà di tua madre.

— Rabbì, Rabbì, gridò Claudia, chi ti ha detto tutto ciò?

— Tu stessa.

— Mai, mai io non te n'ho confidato una parola.

— La parola non apprende nulla a coloro che leggono nel cuore.

— Se tu hai questo potere spaventevole, Rabbì, sei più di Dio.

— Mio Padre, che mi ha inviato, m'illumina. Tu sei dunque gelosa.

— Allora dimmelo, mio marito mi ama egli?

— Hai tu un amante, Claudia?

[119] — No.

— Se tu avessi un amante, ameresti tuo marito?

— Certo che no.

— Ebbene...

— Ebbene?

— Pilato ha una ganza.

— Tu menti, gridò Claudia, balzando come una tigre sul Rabbì, scuotendolo pel braccio.

— Sai tu chi è la sua amante, Claudia?

— Lo saprò, e la ucciderò.

— Io te la denunzio: è mia sorella.

— Che!

— Pilato l'ha comperata da un miserabile parente la fece portar via, e la nascose agli occhi del mondo. Ella lo ha amato.

— Ah! Disgrazia su loro. È essa bella?

— Non so. Ma non vi sono donne belle, ove sei tu.

— Allora ella si è servita d'un filtro. Conosci tu i filtri, Rabbì?

— Ne conosco uno che è irresistibile: il candore.

— Rabbì, disse Claudia con ansietà, tu leggi nella mia anima; tu mi denunzii Pilato; mi denunzii tua sorella: chi sei tu? che cosa vuoi tu?

— Io sono l'inviato di mio Padre, quello che porta la luce. Voglio insegnarti a perdonare. Poichè, se tuo marito ti amasse, cosa farebbe? perdonerebbe le tue colpe. Ove eri tu? che facevi tu, quando tuo marito trovava il suo letto vedovo, e sognava di sua moglie riposante in un talamo adultero?

— È vero.

— Ebbene, ecco ciò che io vengo ad insegnare al mondo. Roma ti dice: Uccidi tuo marito, uccidi la sua amante: io dico: Perdona, come desideri di essere perdonata.

[120] — Io non perdonerò mai.

— Ah! tu mi chiedevi qual'è la forza che sommergerà Roma? Eccola: il rifiuto del perdono. I popoli la misureranno come ella li ha misurati.

— Che importa a me di Roma? Non vieni tu dunque per dire a questo popolo vile: insorgi e schiaccia questi insolenti stranieri che ti schiacciano? Non te li do io forse in mano? Rinunzi tu già al mandato accettato di chiamare alle armi gli ebrei? Io non vedo che una cosa io, e non voglio che una cosa: quella donna. L'uomo, lo tengo.

— Io non rinunzio a nulla, rispose il Rabbì; attendo la mia ora.

— Rabbì, ov'è tua sorella? Voglio vederla.

— Claudia, io non ti ho svelato un delitto: ti ho indicato una sventura. Soffoca la tua sete di sangue. Se uccidi tuo marito, il tuo amore per lui si cangierà in una veste di fuoco che ti consumerà per tutta la vita. Se fai perire la povera vittima, l'amore di tuo marito per lei, diviene immortale. Vuoi tu punirli? Dimentica e perdona.

— Rabbì, sono Romana, io. Mi vendico delle ingiurie che mi vengono fatte. Questa religione del perdono è la religione degli schiavi, i quali non hanno diritto ad avere dell'onore. Rabbì, tu che leggi negli animi, devi leggere nella natura: indicami un filtro. Io voglio che egli mi ami. Fino ad ora, ho sofferto in silenzio, pensando ch'egli pure soffrirebbe del mio disprezzo, della sua solitudine, del vedovaggio al quale io lo condannava. Poichè io sperava, lavoravo a soddisfare la sua ambizione, e vederlo allora ai miei piedi. Tu hai posto un aspide nel mio cuore. Egli ama altrove. Egli si rifà altrove del mio disprezzo. La vittima dunque sono io. La condannata [121] alla solitudine, sono io; egli mi deride forse. Si delizia nella braccia d'un'altra. Impossibile. Bisogna ch'egli m'ami: bisogna che quella donna sparisca dal mondo.

— Ne prenderà un'altra; ne ha di già forse un'altra.

— Taci; vuoi dunque rendermi pazza? Che vuol egli? Vuol essere prefetto della Siria, delle Gallie, della Spagna, imperatore forse, che so io? Ebbene Rabbì, all'opera. Poni fuoco ai quattro angoli di Gerusalemme; incendia la Giudea; sii re degli Ebrei.... e dammi di che comperargli Cesare, che vende perfino se stesso. Va, predica, tuona, fulmina; l'ora è propizia. Pilato è assente. Io ti do tutto in mano, comando, palazzi, torri, fortezze, legioni; consegnami tua sorella. Tu esiti?

— Ti compiango.

— Rifiuti? allora saprò ben trovarla da me. Cneus Priscus è riescito in cose più difficili di codesto. Indicami almeno un filtro per addormentare il mio cuore. Che Messia sei tu dunque? Canidia, la saga del monte Esquilino, m'avrebbe di già soddisfatta. Vuoi dell'oro?

— Claudia, la pace non è nel delitto, ma nella verità. Hai mai chiesto a tuo marito se egli ti amasse?

— Quel miserabile sarebbe capace di dirmi che mi adora. Non mi ha egli sposata, togliendomi dal bagno di Tiberio? Arrossirei di rivolgergli una domanda simile.

— Gli hai mai detto che lo amavi?

— Vorrei piuttosto mozzarmi la lingua coi denti.

— Come vuoi tu dunque conoscere il vero, se fai a te d'intorno le tenebre?

— Rabbì, va, tu sei un povero allocco! Io ti chiedo un filtro, e tu mi porgi dei consigli; ti domando una [122] malìa, e tu mi dai delle parole; ti dico, solleva il tuo paese! e mi rispondi che attendi la tua ora; domando di veder tua sorella, e mi consigli di assicurarmi se Pilato mi ami.... Donde vieni tu dunque, vaneggiatore? Non basta di aver scoperto, Dio sa come, uno dei miei secreti. Non basta proclamarti figlio di Dio: bisogna provarlo.

— Claudia, Dio non fa i miracoli per soddisfare la curiosità degli oziosi, come il tuo cuoco fa delle leccornie per solleticare il tuo palato, ma per manifestare i suoi eletti, ed indicare ai popoli la giustizia e la verità. Tu mi vorresti complice d'un'atrocità; io vorrei innalzarti alla luce della carità. Tu mi hai chiamato, io sono venuto: ma per consolarti per illuminarti, per ricordarti il tuo dovere di donna che solo può ricondurti il marito, e sottrarti all'infamia. Tu sei sorda, e domandi dei miracoli, e mi spingi alla ribellione. Io non opero pegli uni o pegli altri, Claudia; io mi voto e sacrifico per tutti. Nè il tuo aiuto, nè la tua opposizione, non possono influire sopra i passi del figlio dell'uomo: io sono l'eletto, io sono la volontà di mio Padre. Tu ardi dal desiderio di vedere Gerusalemme nel sangue. Ahimè! la vedrai.

— Rabbì, tu farnetichi. Un'ultima parola ancora, perchè, fin qui, abbiamo divagato. Ecco la situazione. Amo mio marito. Sono gelosa e dubito. Io cospiro contro il mio proprio paese per saziare l'ambizione di Pilato. Ti ho chiamato per conoscerti, dopo che hai accettato di divenire il capo dell'insurrezione della Giudea; per vedere colui che si addimanda figlio di Dio, e fa dei miracoli; per conoscere da te, se i miei dubbii e la mia gelosia sono fondati; per avere da te, uomo dei prodigi, un qualche [123] cosa, onde farmi amare, o cessare di amare. Tu non m'hai soddisfatta in nulla.

— Me ne dispiace.

— Ciò m'importa poco. Sono stata maturata dalla disgrazia, in mezzo alle feste ed ai piaceri, alla corte dell'imperatore del mondo. Non mi pasco di frasi, che il mio lorarium[14] farebbe rientrare a colpi di verghe nella gola del mio filosofo, se per caso ei se ne permettesse di simili. Voglio delle risposte categoriche a domande precise. Pilato m'ama egli?

— Non gli ho mai parlato. Nol so.

— Perchè dunque m'hai svelato che tua sorella era la sua amante?

— Perchè, a quest'ora tutta Gerusalemme forse lo sa; perchè iersera, dinanzi un gran numero di persone, ho denunziato ciò; e perchè io non mentisco giammai.

— E perchè in questo caso, rifiuti tu la tua opera per soddisfare il mio amore?

— Perchè io insegno la parola di Dio, e non sono nè un'infame profumiera, nè una saga, nè un giuocoliere.

— Perchè mi nascondi tua sorella, poichè tutti la conoscono?

— Perchè uccideresti una vittima e non una colpevole, e perchè mio Padre mi ha ordinato di stigmatizzare il peccato e perdonare al peccatore.

— Sta bene. Ed ora, accetti tu la parte di messia che ti fu offerta?

— Io non accetto una parte come un istrione; io compio la volontà di mio Padre. Se gli altri cooperano [124] meco, tanto meglio; io non sono strumento di alcun partito. Io sono ciò che voglio, ed ignoro ciò che altri vogliano.

— Basta così, replicò Claudia dopo alcuni istanti di silenzio. Io saprò ciò che ora tu mi taci. Tu poi saprai ciò che si vuole da te, e tu dirai ciò che io voglio. Ma rifletti bene a questo: in cima di tutto ciò havvi un abisso.

— L'ho compreso fin dal primo momento.

— Tu sai dunque che ti sei cacciato in una trama le cui braccia t'hanno serrato, le cui ruote t'hanno afferrato. Bisogna ora andar avanti, o essere stritolato. Tu sai troppe cose. Hai promesso. Hai principiato. Una parte della strada ti fu appianata; non t'appartieni più: sei nostro, o devi perire. Lascia lì codesto Padre la di cui missione affermi di compire, e la cui voce dici di ascoltare. La voce che tu devi ascoltare è la nostra: è la mia. Tu sei un porta-voce e non una voce. Hai principiato a spacciarti per messia, e per figlio di Dio, per tuo proprio conto; devi finire pel conto nostro. Se dei miracoli sono necessarii, te ne appresteremo dei belli e pronti, e tu li farai. Se si crede conveniente di dichiararti figlio di Davide o di Giove, troverai la tua genealogia tutta in ordine. Hannah ti farà discendere dal cielo sopra un carro di fulmini, se gli pare opportuno. Non inquietarti di nulla. Se hai del Messia, del tuo, usane; se no, te ne daremo del nostro. Ma sta in guardia contro le velleità intempestive. Resistere, gli è perire. Addio.

— Claudia, mio Padre ti perdonerà poichè tu non sai ciò che tu dici, nè ciò che insulti. Ma tu hai parlato di tutto, tranne del tuo secreto.

— Quale?

[125] — Eccolo; tu tradisci i traditori.

— Cosa intendi tu di dire?

— Tu spingi alla rivolta, per ischiacciarla. Hai tutto preparato a questo scopo; e quando la sarà domata dirai a Cesare: Pilato ti ha salvato una grande provincia dell'impero, merita una ricompensa; dagli il governo della Siria. Sejano ti ha dato questo consiglio in prezzo di ciò ch'io non voglio dire, la vigilia della tua partenza da Roma.

— Tu sai tutto ciò? gridò Claudia impallidendo.

— Di più ancora, continuò il Rabbì. Tu desideri i tesori del Tempio e della tomba di Davide, di cui la sommossa t'offre l'occasione d'impadronirti, onde comperare l'assenso di Tiberio se egli resiste; corrompere le legioni, se lo puoi, e in qualità di nipote d'Augusto, rovesciare l'infame di Capri.

— Rabbì, disse freddamente Claudia dopo aver riflettuto, tu ne sai troppo, troppo. Ne sono però contenta; poichè tu devi comprendere, che chi ha penetrati misteri simili, deve per forza o per elezione, esser complice e partecipare ai benefici, o morire. Or ora ti credevo un ciarlatano; adesso ti credo un mago. M'hai tenuta un momento in tuo potere, poco fa, quando m'hai annientata sotto il tuo sguardo. Ho sentito che mi strappavi qualcosa dall'anima[15]. Sia [126] pure. Se hai osato tanto, gli è che pensavi di servirmi, e che io t'avrei aiutato. Il patto è suggellato: silenzio, e va avanti. Mi dirai dopo il prezzo che esigi: è già accordato. Hai compreso?

— Il mio premio è nel cielo; la terra non ha per me che una croce. Addio.

Così dicendo, Gesù escì.

Prese la via di Bethania.

Una folla di pensieri d'ogni natura lo opprimeva. Si sarebbe potuto crederlo imprudente nella sua conversazione con Claudia. E non pertanto, tutte le parole avevano una ragione ed un intento.

Il Rabbì aveva rimarcato che l'ufficiale di Claudia aveva impedito agli ufficiali del Tempio di arrestarlo. Sapeva che con i preti, i farisei, il sanhedrin, era impossibile ogni riconciliazione, e che per lui non c'era più grazia. Gli restava una sola probabilità di salute e di resistenza: farsi scudo della moglie del procuratore. Lo tentò. Colpì lo spirito di Claudia, strappandole prima, svelandole poi, il suo secreto. Ma egli non domò punto quel carattere temprato negli intrighi della corte di Tiberio. Il Rabbì si trovò più che mai preso nella cospirazione, e più che mai minacciato. Questo sopraccarico di peso lo minacciava. Egli aveva chiuse tutte le porte dietro di sè, e dinanzi a sè: l'abisso lo assorbiva.

Il giorno era molto avanzato quando giunse a Bethania. Egli camminava col dosso curvo, la testa bassa, lo spirito distratto, quando sulla soglia della casa di Lazzaro, sentì le sue ginocchia avvolte fra [127] due braccia, e vide ai suoi piedi una donna che gridava:

— Pietà, fratello! pietà.

Riconobbe Ida.

Questa vista finì di abbatterlo, poichè sapeva il terribile pericolo che minacciava quella giovine disgraziata.

— Cosa vuoi da me? sclamò il Rabbì. Fuggi, sparisci dalla terra, infelice, se la terra ha ancora un angolo da ricoverarti.

Ida s'ingannò sul senso delle parole di suo fratello, che pensava alle minaccie di Claudia.

— Fratello, rispose, io non vengo a chiederti una misericordia che non puoi avere per me. Io vengo a dirti alla mia volta: fuggi, fratello, lascia questa città maledetta ove si cospira la tua morte.

— Lo so e ci resto, replicò il Rabbì. Che vuoi, allora?

— Ciò che io voglio? ma io son dunque meno di una straniera per te? Tu che hai avuto una parola di grazia per la donna adultera, una parola di tenerezza per la donna di Samaria, una parola di perdono per la peccatrice di Magdala, una parola di pietà per la fanciulla pagana di Tiro, non hai dunque nulla per la figlia di tua madre, che peccò perchè amava? Fratello, se sono nell'abisso, a chi il compito di farmene uscire? Fratello, nel mio ritiro, ho seguito tutti i tuoi passi, mi son fatta ripetere tutte le tue parole; io credo in te: salvami. Tutti m'hanno abbandonata.

— Che posso io fare per te, figlia del dolore? L'avvoltoio ha il suo nido, la volpe la sua tana, il sciacallo il suo buco, la tigre la sua caverna; il figlio dell'uomo non ha un sito ove riposare il suo capo. [128] Posso io domandare l'ospitalità nella casa dell'onore, per la figlia della colpa?

— Devo dunque perdermi, od uccidermi?

— Non c'è in tutto il mondo per te, che un solo rifugio: le braccia di tua madre. Ch'ella ti perdoni, ed io t'assolvo. Ma il pericolo è imminente.

— Che venga dunque, che ricada su me; ma tu, salvati, o fratello.

Il Rabbì rialzò sua sorella, sempre alle sue ginocchia, e baciandola in fronte, le disse con voce molto commossa:

— Va, povera fanciulla, va e non peccar più.... Dio conterà le tue lagrime, se piangi; e ti sarà molto perdonato perchè hai molto amato.

Ida gettò le braccia al collo del Rabbì, e gli coprì il viso di lagrime e di baci. Una grossa lagrima navigò negli occhi di quell'uomo severo, cui la disgrazia provava, e, come una perla d'una corona, la lasciò cadere su quella bella giovine testa condannata.

— Nasconditi, figliuola, soggiunse il Rabbì; domani ti cercherò un ricovero, e che Iddio ti dia pace. Fra due settimane tua madre arriva pel paschah.

Ida abbracciò di nuovo suo fratello, e ritornò a Berachac ove io l'attendeva fin dal mattino.

[129]

XXVI.

Non tenterò di descrivere lo stato del mio animo. Se non divenni pazzo, gli è forse perchè il destino sapeva che la mia ragione doveva ancora essere utile a qualcuno. Dopo che il Rabbì ebbe colpito sua sorella dello stigmata indelebile di ganza di Pilato, Gamalial mi trascinò via da Berachah, ed io seguii gli altri come trasportato da un uragano. Mi ritrovai nella mia dimora, nel mio letto, senza avere coscienza di nulla, e, cosa strana, m'addormentai d'un sonno stupido e pesante, come se fossi stato affranto dalla fatica. Ma all'indomani, i primi raggi dell'alba versarono nella mia stanza tutti gli spasimi che possono straziare un cuore agitato da cento diverse passioni. La vergogna, il rimorso, l'amore, il desiderio, il pentimento, il dispiacere, l'orgoglio, un inferno, il caos, mi mordevano da qualunque parte mi volgessi. Presi, e rigettai venti risoluzioni una dopo l'altra; volevo uccider Ida, uccider me, sfidare la società, sposarla, assassinare Pilato, violare Claudia per vendicarmi del marito, gettarmi ai piedi d'Ida, supplicarla di perdonarmi, di accettar la mia mano. Le perdonavo tutto, e tutto dimenticavo.

Avvolto in questo turbine d'idee, senza volerlo, senza saperlo, mi ritrovai a Berachah. Il mio turbamento aumentò quando Febea mi disse che Ida era [130] uscita con Noah, e che suo marito mi aveva riportato tutti i regali che io le aveva dati. Eravamo passati forse gomito a gomito sulla via, senza che me ne fossi accorto. Mi lasciai cadere sull'orlo della vasca della fontana, nel cortile, ed attesi. Attesi fino alla notte, e tutto questo giorno scorse come un'ora. Febea mi offrì da bere, da mangiare; io non le chiedeva altro che: Ida è ritornata? Ma passò l'ora ottava, passò la nona. Febea stessa cominciò ad essere inquieta. Alla decima, ascese sulla torre. Nessuno sulla strada, nè da vicino, nè da lontano. All'undecima, vi salì ancora. Mi trascinò seco dubitando della serenità della sua vista. Nessuno. Ella ora mi domandava cosa poteva esser avvenuto della sua padrona, di suo marito, di Noah, in questa lunga lunga giornata, dopo la tempesta del dì innanzi. Io era come istupidito. Non so neppure se non sorrisi. Finalmente all'ora dodicesima, quando il sole era già tramontato, Febea mi gridò dall'alto della torre, che arrivavano. Ella li scorgeva appena, lontano, lontano, ma il suo cuore li indovinava. Il mio li sentiva avvicinarsi; perocchè galoppava a soprassalti, come un cavallo vizioso. La notte era scesa, quando Ida entrò nella corte. Noah la seguiva, Febea la precedeva con una lanterna, Thorix chiudeva la porta.

Ida mi passò vicino. La luce della lanterna mi rischiarava pienamente. Mi guardò, impallidì anzi, e tremò, ma non volle vedermi. Restai inchiodato al mio posto. Non un suono si potè articolare nella mia gola. La seguii degli occhi, la vidi sparire nella casa, e restai nelle tenebre. Credetti di sognare. Io mi chiedeva se era una visione che traversava il mio spirito. Potei restare così durante un quarto d'ora. Finalmente, sentii una mano di donna che mi guidava [131] sotto il portico. Era Noah. Nel vestibolo c'era una luce, e vidi nel fondo Ida traversare per passare nella sua stanza da letto.

— Giuda, mi disse Noah, devi comprendere che ti è impossibile riveder Ida. Ognuno dei tuoi passi è ormai per lei un oltraggio. Nulla tu puoi dire ch'ella possa udire; e niente ella può dirti che non sia umiliante per lei.

— È vero ciò che tu dici, osservai io. Ed è singolare che io non l'abbia pensato.

— Ritirati dunque, Giuda, e cessa di pensare ad Ida.

— Eppure, le dissi, io veniva ad annunziarle che ad onta di tutto, io la prendo per isposa.

— Giuda! sclamò Noah, possa tu dir il vero! Ma se ciò è veramente reale, attendi, per apprenderlo ad Ida, di esser ben rimesso dell'uragano d'ieri sera.... Che festa ieri sera! una fidanzata, degli invitati, dei regali degni d'una regina! Ed ora qual silenzio, qual tristezza, che tenebre! Non fa nulla, Giuda, ascoltami: vi sono due vie sicure per arrivare al cuore di Ida. Metto da parte la prima, quella di Pilato.....

— Oh! mi vendicherò di lui!

— Io t'indico la seconda: quella di suo fratello. Che il Rabbì dica a sua sorella: Accetta Giuda, ed ella.... ne sono sicura, Giuda, ella anche ti amerà. Ma Ida corre un pericolo.

— Quale, gridai io?

— Nol so; ma è il Rabbì stesso che glielo ha detto; egli le cerca un ricovero.

— Fino a che io vivrò, Ida non correrà alcun pericolo.

— Dio lo voglia. Infine, Giuda, mi permetti di rivolgermi a te in caso di pericolo? Noi siamo sole. Moab ci ha abbandonate.

[132] — No: quella nobile creatura tentò di uccider Pilato, non so perchè, quantunque mel pensi, e avanti di partire per Sichem, Pilato lo ha condannato a morire.

— Oh! nascondiamo ad Ida questo disastro. Ella è di già troppo abbattuta. Io conto dunque su di te.

— Più ancora che sopra suo fratello; ma io veglierò dalla mia parte.

Io ignorava ciò che era accaduto fra il Rabbì e Claudia. La notte era avanzata. Le porte della città erano state chiuse. Mi diressi verso Bethania per interrogare Gesù, e passare la notte in quel villaggio, fuori di Gerusalemme. Arrivai alla casa di Lazzaro, nel momento istesso che Gionata, il figlio di Hannah, la lasciava. Egli aveva portato al Rabbì un messaggio di suo padre. Lo trovai molto agitato. Il cerchio che lo attorniava si faceva sempre più stretto. Egli mi raccontò ciò che era successo al Tempio in quella mattina, poi la scena avvenuta fra lui e Claudia, meno alcuni particolari che mi doveva dire più tardi, e che io ho già raccontati.

Dopo la partenza del Rabbì, Claudia aveva fatto chiamare Hannah, e gli aveva ingiunto di affrettare gli avvenimenti. Hannah le aveva fatto conoscere ciò che il Rabbì aveva detto e fatto nel Tempio, e la decisione presa dal sanhedrin. Gli affigliati alla cospirazione non s'erano opposti all'ordine d'arresto; perchè desideravano, anzi, di avere il Rabbì sotto il loro assoluto potere per renderlo più dolce, piegarlo alle loro volontà, deciderlo ad accettare le loro dottrine, ed agire secondo i loro desiderii. Claudia aveva consigliato allora, di avere con lui un colloquio decisivo, di metter bene la questione, dirgli chiaro ciò che si voleva da lui, ciò che gli si chiedeva, ed obbligarlo [133] ad una professione di fede netta e finale. Hannah inviò suo figlio a portare questo invito al Rabbì.

Io conosceva quegli uomini. Sapevo che ciò non poteva condurre che ad una rottura aperta, nella quale il Rabbì sarebbe stato spezzato senza misericordia, e caricato di tutti i torti. Fino a lì, io aveva agito per la cospirazione, non curandomi veramente se un rabbì o due vi sarebbero stati schiacciati. Ora che la sorte del mio amore s'appoggiava sulla testa di Gesù, egli mi diveniva prezioso sotto tutti i punti di vista. Gesù aveva accettato l'invito di Hannah, ma aggiornandolo di una o due settimane.

Egli voleva attendere che i suoi compatriotti della Galilea fossero venuti a Gerusalemme per la festa del paschah, quantunque avesse poco a sperare dalla loro protezione. Ma i provinciali, in una capitale ove sono come forestieri, s'intendono meglio fra loro, che nelle città native. Poi queglino delle altre provincie arriverebbero nel medesimo tempo, ed in quei giorni di festa, i partiti in Gerusalemme si sentivano meno padroni del solito. Non si sarebbero forse permessa una brutalità contro il Rabbì, se ne avevano pure l'intenzione.... Io divisi l'opinione del Rabbì, e per esser più sicuro, lo consigliai a lasciar Gerusalemme la notte istessa, ed a ritirarsi presso uno dei miei amici ad Efraim, grosso villaggio dalla parte del deserto della Giudea, poche ore (otto o nove miglia) al nord di Gerusalemme, presso Salem, alla sorgente ove egli si era separato dal Battista. Gli promisi di cercare di saper tutto, di scandagliare gli animi, apprendere od indovinare i progetti, e di andare a trovarlo.

Il Rabbì accettò il mio consiglio. Cenammo molto [134] bene, grazie alle buone sorelle di Lazzaro, ed a Lazzaro stesso, quantunque infermiccio, avendo avuto il giorno prima un accesso dell'implacabile sua malattia: il mal caduco. Due ore innanzi giorno, il Rabbì lasciò Bethania, ed io l'accompagnai fino al momento in cui l'alba principiò ad imbianchire il cielo. Allora lo lasciai e ritornai a Gerusalemme. Ero appena coricato, quando uno schiavo di Claudia venne a dirmi che la sua padrona mi chiamava, all'istante stesso, al palazzo d'Erode.

Sospettai della causa di questa chiamata così pressante e così mattutina. Non mi affrettai dunque troppo. In guisa che, quando arrivai, alla ora quarta, la trovai già vestita, e vidi nella corte una lettiga per lei, portata da otto giganti della Cappadocia, ed un cavallo tenuto in pronto per me.

— Giuda, mi disse ella, vado a trovare la tua fidanzata; tu m'accompagnerai, o meglio, mi precederai per annunziarle la mia visita.

Queste parole, dette col sorriso sulle labbra, l'aria tranquilla e graziosa mi gettarono in una costernazione spaventevole. Il Rabbì mi aveva prevenuto. Che fare? Claudia certamente mi vide impallidire. Ricomposi però il mio viso ad un sorriso riconoscente ed intravedendo, con un colpo d'occhio, il pericolo delle varie risoluzioni che potevo prendere, mi decisi ad accompagnarla, o meglio a condurla a Berachah. Ero deciso, nella peggiore ipotesi, ad ucciderla, se avesse tentato qualsiasi violenza contro di Ida. Poi, a dir il vero, ero contento nel fondo, che Claudia conoscesse l'infamia di suo marito, e ch'egli la tradiva.

Pilato aveva raggiunto Pomponius Flaccus a Sichem; poichè il governatore della Siria, avendo appreso dal suo procuratore della Giudea che gli Ebrei [135] si preparavano ad un movimento, aveva preso delle misure per schiacciarli immediatamente. Dopo aver inviato a Pilato alcuni rinforzi ne conduceva seco ancora. Ei voleva consultare il procuratore su l'essenza e l'estensione della cospirazione. Pilato aveva quindi lasciato Gerusalemme due giorni prima, avvegnachè ferito. E fu fortuna per lui, perchè se si fosse trovato a Gerusalemme, Claudia l'avrebbe ucciso nel primo impeto. Non avendo sotto la sua mano questa vittima, Claudia pensava disfarsi dell'altra cui Cneus Priscus aveva scoperta, e col raffinamento o meglio col delirio della vendetta, desiderava avermi seco. Partimmo.

Una mezza coorte di cavalieri ci seguiva.

Un'ora dopo, eravamo a Berachah.

La nostra presenza destò nella casa un profondo spavento. Ciò si comprende. Cosa veniva a fare la moglie di Pilato dalla amante di Pilato? Il nome di Claudia, in oltre, era circondato da quelle voci misteriose e terribili che pesavano sopra l'infame ritiro di Capri.

Claudia andò dritto al tablinum, come se fosse entrata nella sua casa. Potevo appena seguirla, tanto ella camminava presto. Non una parola era stata scambiata fra noi durante la strada. Il suo sguardo stillava l'odio.

Quando Noah andò a prevenir di questa visita la sua padrona, Ida tremò da capo a piedi. Forse, se fosse stata nella casa propria, ella avrebbe dimostrato un po' più di sicurezza. Ma nella casa di Pilato, ella si sentiva sotto il peso d'un'accusa che la schiacciava. Laonde, ella si fermò alla porta del fondo del tablinum, e le mancò la forza di avanzare. Ida restava lì, immobile, senza respirare, il cuore che le trasaliva, [136] il viso bianco come l'alabastro, allorchè Claudia, entrando dalla porta dell'atrium la vide. Quelle due donne scambiarono uno sguardo, pronto come il lampo, prodigioso, luminoso, possente come lui. Ida portò le sue mani sugli occhi, poi le unì sul suo petto, sclamando involontariamente, vinta, trascinata da un impulso irresistibile:

— Dio mio! com'è bella!

Claudia udì questo grido e rallentò il passo. Si avvicinò tuttavia, e considerò Ida dappresso.

Il contrasto fra le due donne era assoluto. Claudia trascinava i sensi come un uragano, e passava: Ida penetrava nell'anima come un raggio di luce, e vi si cristallizzava. L'una era la bellezza che vi strappa i baci dal fondo della vita; l'altra era la bellezza che v'inizia in una vita nuova piena di inebbriamenti ignoti: l'amore dal cervello. Quando Claudia ebbe esaminato Ida con quella terribile curiosità, in cima alla quale sta una questione di vita o di morte, ella le chiese con voce lenta e sorda:

— Confessa ciò che hai fatto per farti amare da Pilato.

Non so che risposta attendeva questa Romana, che era stata mischiata a tutte le opere tenebrose delle saghe, delle maghe, dei bertoni, delle cortigiane, che mettevano l'amore nella potenza infernale dei filtri e dei veleni. Ida che non conosceva punto di quelle infamie, rispose ingenuamente:

— Ho amato; ma non sono stata amata.

— Come! non sei stata amata? sclamò Claudia.

— Ahimè! no. Io non sono stata per lui che il cuore ove veniva a riposarsi dei suoi cordogli, e non il cuore a cui veniva a cercare la consolazione e la gioia.

[137] Claudia lasciò sfuggirsi dal petto un sospiro che risuonò in tutta la sala. La tigre era disarmata e rientrava gli artigli.

— Non menti, fanciulla?

— Oh! vorrei ben mentire! replicò Ida. Se mentissi, tu non saresti là, ed io non morirei di dolore.

Claudia sedette, e attirando Ida presso di sè, continuò:

— Dimmi chi sei. Raccontami come l'hai conosciuto, e ciò che è avvenuto fra voi. Dimmi perchè ti ha lasciata: dimmi tutto, tutto, i più minuti ragguagli, le più semplici parole, tutto ciò che ti concerne, tutto ciò che lo riguarda.

— Ho poche cose a dirti, rispose Ida. Nol so, ma quando si ama, la vita è così variata, così tempestosa e così semplice nel tempo stesso...

— Donde vieni?

— Sono nata in un villaggio della mia bella Galilea, a cui penso sempre. Vi sei stata? Dei fiori da per tutto, la vigna dai grappoli violetti, l'arancio dai frutti d'oro, il fico, il melagrano, la palma, l'ulivo, e all'intorno le montagne azzurre, il cielo risplendente, la terra che sorride. Dio mio! che mi sia permesso di rivedere quell'angolo della terra della mia infanzia e di morirvi.

— Morirvi?

— Oh sì! morirvi. Io mi chiamo Mirjam; Ida è il mio nome di dolore. I parenti di mia madre, poveri discendenti della razza di Davide, avevano emigrato, come tanti altri, al tempo della carestia, dalla misera Betlemme alla ricca Galilea, ove i Greci ed i Romani fanno vivere il popolo, dandogli da lavorare. Mia madre aveva una sorella maritata, colla quale doveva dividere la meschina eredità che lasciava suo padre. [138] Non aveva che sedici anni quando si unì, secondo le nostre leggi, a suo zio più vecchio, più povero di lei, e che non amava. Nostro padre ci nudriva del suo lavoro di carpentiere. La nascita di mio fratello maggiore, conosciuto ora col nome di Rabbì della Galilea, diede causa a delle querimonie di gelosia, e a dei sospetti ingiuriosi fra mio padre e mia madre[16]; e fu perciò che i miei altri fratelli non amarono mai Gesù, il quale invece amò più mio padre che mia madre.

— Comprendo, disse Claudia.

— Io, continuò Ida, venni per l'ultima, più amata [139] di tutti, la sola che Gesù amasse. Mio padre, costretto dal suo lavoro, si assentava sovente dal villaggio, e correva i borghi e le cascine dei contorni, ed anche più lungi, a Seforis, sul lago di Genesareth. Ma egli lavorava molto e guadagnava poco. E la famiglia era numerosa, perchè mia madre, molto bella, gli aveva dato parecchi figliuoli. Egli sperava di esser aiutato dal suo primogenito, cui inviò a Seforis onde imparare il mestiere, di cui egli non faceva che la parte più grossolana. Fu ingannato nella sua aspettativa. Gesù non amò l'arte sua. Restava delle ore intiere sotto gli alberi, dinanzi il suo banco alla porta della casa nel nostro giardinetto, le braccia incrociate, gli occhi rivolti al cielo; e quando il padre rientrava la sera non trovava nè tavole piallate, nè casse o panche costrutte. Allora accadevano delle scene fra i miei fratelli che lavoravano molto, e mio padre che non sapeva rimproverare Gesù, e mia madre che voleva framettersi. La conclusione di quelle risse era che all'indomani Gesù spariva dalla casa, e restava assente delle settimane, dei mesi, un anno intiero. L'ultima volta, otto anni fa, non si vide per tre anni.

— Ma dove andava egli? domandai io.

— Chi lo sa? Dappertutto, poichè ho inteso dire da mia madre che era stato in Babilonia, a Roma, in Grecia, nelle Indie, a Menfi, in ogni sito. Ma quando ritornava non portava che alcuni rotoli di carta, i quali sparivano essi pure dalla casa all'indomani. Questi viaggi, la frequentazione continua dei partigiani di Giuda di Gamala, il messia galileo, lo allontanarono sempre più dal suo mestiere di carpentiere, aumentarono la discordia nella famiglia, quando egli era a Nazareth. Però Gesù, sia solo, sia con mio padre, correva coi suoi utensili per le valli di Zebulon, [140] Issachar e Neftali, per cercarvi lavoro; mentre io conduceva sulla collina a pascere le capre e le pecore, e che mia madre, alzandosi col sole, andava a comperare i legumi ed i frutti al mercato, preparava i nostri alimenti — una zuppa di lenti, o un pezzo di carne — filava, o tesseva per vestirci, cantava il suo salmo all'ora nona, veniva alla fontana colle altre donne del villaggio, coll'urna sulla spalla, e ritornava per ispazzare la piccola corte, stender per terra i nostri materassi, e attenderci per cenare.

— E perchè hai tu abbandonato questa vita così semplice e così dolce di cui tua madre ti dava l'esempio? domandò Claudia.

— Tel dirò. Cinque anni fa, mio padre morì. Io aveva allora tredici anni. Gesù era assente da alcuni mesi. I miei fratelli mi detestavano e mi battevano, appunto perchè Gesù mi amava. Mia madre non riusciva a proteggermi; mia sorella mi maltrattava ancor più dei fratelli, chiamandomi scioperata, infingarda. Eppure io non poteva filare e cucire in casa, e custodire fuori la greggia, nel medesimo tempo. Trovavano che mangiavo più pane che non ne guadagnassi. Finalmente, Gesù riapparve una sera nella casa paterna, più cupo, più silenzioso, più strano che mai. La morte di mio padre lo alzava al grado di capo della famiglia. Egli non si curò di questo diritto. Restò alcuni mesi a Nazareth. Ma venne il paschah e mia madre manifestò il desiderio di andare a Gerusalemme, tanto più che sua sorella che era maritata in quella città con un legionario, l'aspettava. I miei fratelli e la sorella l'accompagnarono. Restai sola a casa con Gesù. Egli mi aveva insegnato a leggere ed a comprendere il greco, che tutti parlavano intorno a noi. Mi accompagnava [141] sovente alla montagna, dietro le nostre capre e le nostre pecore. Ai campi, e' non era più lo stesso uomo. Comprendeva il linguaggio dei fiori, comprendeva ciò che si dicevano gli uccelli, ciò che il cielo e le stelle cantavano. Mi attirava allora sulle sue ginocchia, passava le sue mani nei miei capelli, sentivo circolare nelle mie vene una fiamma, e poi mi addormentavo sul suo seno.

— Ah! sclamò Claudia che forse si risovveniva.

— Quando mi risvegliavo, continuò Ida, trovavo il suo sguardo vellutato e materno che avviluppava il mio viso come di uno strato di nuvole; ma io mi trovava così affaticata come se avessi fatto lunga strada e se avessi lavorato a lungo. Una affezione profonda mi attaccava a mio fratello. Non avevo altra volontà che la sua. Egli mi leggeva nell'animo. Io comprendeva i suoi pensieri. Apprendevo tutto ciò ch'egli voleva. Mi pareva identificarmi sempre più in lui. Avevo quattordici anni. L'anima mia era pura come le nostre notti di primavera. Però io principiava a risentire dei brividi incogniti. Mi sentivo attirata da Gesù come lo è la foglia secca dalla fiamma. Gli raccontai la strana sensazione che mi turbava: lo confessai anche a mia madre. All'indomani Gesù non era più a Nazareth.

— Tu amavi dunque tuo fratello? sclamò Claudia.

— Sì, e no. Ho amato di poi. Il sentimento che il Rabbì m'ispirava era diverso: era più che l'amore che si risente per la propria madre, e meno violento di quello con cui c'incendia un amante. Questi vi mette il fuoco nelle vene: allora io vi sentiva scorrere i raggi dell'aurora. Ma ciò finì bentosto. Mia zia mi chiamò a Gerusalemme, e mia madre fu ben contenta di allontanarmi. Mi congiunsi alla carovana [142] che andava a Gerusalemme pel paschah. Quel movimento tutto nuovo per me mi colmò di gioia. Le vecchie ed i vecchi sopra gli asini ed i cammelli; i giovani camminando loro vicino; i ragazzini correndo di gruppo in gruppo, giuocando coi cani, cogliendo le bacche e le corolle selvatiche, querelandosi, prendendo qua un buffetto, e là una ciambella. Per non passare per l'impura Samaria, paese di pagani, prendemmo la via del basso Giordano all'est, a traverso il Gilead e l'Ammo, fermandoci presso un pozzo al tramonto del sole, accendendo un fuoco di rami per cuocere una cenetta di legumi bolliti, frumento arrostito e fritto in un po' d'olio, e qualche fette di poponi e di cocomeri. Ripassammo il Giordano a Bathabara ove il Battista battezzava, sotto Gerico, camminammo dal piano alla città sotto i verdi datteri, e di là arrampicandoci da una collina ad un'altra, alla vetta superiore dopo l'inferiore, traversando passaggi rocciosi del deserto, e le nude montagne, arrivammo a Sion, avendo nelle mani i rami di mirto e di ulivo, e alla bocca il canto del schemah.

— Felici ricordi, sclamai io.

— Presso Bethania, continuò Ida, la compagnia si divise. Quelli che avevano degli amici a Gerusalemme, discesero il monte degli Ulivi e passarono il Cedron, gli altri si ricoverarono nei casolari dei dintorni, sotto le tende nelle capanne di foglie chiamate succoth, come Giacobbe nel paese di Canaan, coprendo così l'Oliveto, il Mizpeh, il Gibeon, il Rephaim, mescolati, tutti in una, asini, capre, cammelli, pecore, uomini, donne e fanciulli, correndo dalla mattina alla sera alle fontane di Siloam e di En-rogel. I Galilei, come al solito, si fermarono al [143] monte degli Olivi. È là che un messo di mia zia venne a cercarmi. Ella era ammalata.

— Che età avevi allora? le chiese Claudia.

— Te l'ho già detto, quattordici anni. Non ti parlo della vita passata con mia zia, donna stizzosa, inquieta, piena di bile, sempre malcontenta. Dopo diciotto mesi, ella morì, e sei mesi dopo avvenne la mia catastrofe.

— In che maniera? sclamò Claudia. Non nascondermi nulla.

— Perchè lo nasconderei? Andavo ogni giorno ad attingere l'acqua alla fontana del Dragone, l'urna sulle spalle come le altre figliuole. Sembra che Ponzio m'avesse incontrata tre o quattro volte, ed infatti mi ricordo che un Romano a cavallo mi aveva seguita talvolta dalla fontana alla casa di mia zia. Ma ci sono tanti Romani che vanno e che vengono a Gerusalemme, che me n'ero appena accorta. Una notte io dormiva d'un sonno profondo, sognando delle montagne di Nazareth, quando mi sentii ravvolgere in una coperta, al punto quasi di soffocarmi. Fui rapita così, e posta in una lettiga che partì al passo di corsa. Mi dibattei, gridai. Mi sentiva morire: l'aria mi mancava. Finalmente udii aprire e poi chiudere una porta della città. Allora la coperta che mi avviluppava fu aperta e mi trovai nelle braccia di Noah. Un'ora dopo, ci depositavano qui, a Berachah.

— Pilato ti attendeva? domandò Claudia.

— Oh! no. Non venne per la prima volta che quattro o cinque giorni dopo. Io non comprendeva nulla di quanto m'era accaduto. Credevo sognare, vedendomi circondata di tanto lusso, e di tanta ricchezza. Noah si asteneva affatto dal darmi alcuna [144] spiegazione. Cosa si vuole da me? io domandava, chi è l'incantatore che mi culla in questi splendori? Una sera il mago si fece vedere.

Claudia trasalì, e divenne scialba. Ida continuò senza accorgersene; imperciocchè, assorta nella sua vita passata, ella raccontava o meglio dipingeva, dimenticando quasi che noi fossimo lì ad ascoltarla.

— Questa stanza era stata illuminata vivamente. Noah mi aveva quasi a forza indossato dei vestiti ricchissimi che io sdegnava, come immodesti. Mi aveva acconciati i capelli con dei fiori. Io non riconosceva più me stessa e vergognavo. Ero dunque qui, ammirando i bei fiori posti in questi vasi, allorchè la porta s'aprì, e vidi entrare uno sconosciuto, che mi disse chiamarsi Cajus.

— Era Ponzio?

— Sì. Era molto triste. Credo che non mi guardò neppure. Mi chiese se trovassi questa dimora convenevole abbastanza per me, se avevo a lagnarmi di qualche cosa o di qualcuno. Gli raccontai il mio rapimento e gli chiesi d'esser ricondotta ai miei parenti. Perocchè, lo ripeto ancora, io non comprendeva per qual ragione ero stata gettata in mezzo a quelle ricchezze. Non mi rispose, e mi lasciò. Ritornò due o tre giorni dopo.

— Anche la sera?

— Sì, anzi io non l'ho mai veduto che di sera. Arrivava la notte, e partiva avanti il giorno. Qualche volta solamente è partito verso l'ora sesta. Questa volta pure ei sembrava molto oppresso. Si sarebbe detto che si rimproverasse ciò che aveva fatto, e che avesse rimorso di ciò che aveva intenzione di fare. Il nostro colloquio non fu lungo. Noah era lì. Io mi chiedeva: Chi è egli! che cosa vuole? In breve, [145] questo sistema di silenzio e di riserbo non si alterò punto durante due mesi, ma le parti stavano per cangiare. Io principiava a provare un interesse inquieto, una simpatia insinuante, una compassione che mi turbava, per quest'uomo che mi sembrava così buono e così infelice. Mi rassegnavo ad una sorte che non comprendevo ancora, ma mi proponevo di conoscere il dolore misterioso che torturava questo sventurato e di alleviarlo.

— E l'hai penetrato codesto misterioso dolore?

— Mai. Egli ha rinculato innanzi a qualunque spiegazione; ed anzi, quando gli facevo delle domande su tale soggetto, egli accorciava la sua visita, e restava più lungo tempo senza venire. Ora non vi è nulla di più traditore per una donna, che la compassione. Essa cova, si trasforma, scava, rode; poi un bel giorno, scatta e trovasi amore. Gli è ciò che mi avvenne. A capo di sei mesi, io era pazza di passione.

— E lui?

— Sempre lo stesso: triste, freddo, pensieroso, qualche volta irritato, altre tenero per cortesia; ma il suo aspetto calmo, la faccia cupa, l'aria triste, lo scoraggiamento della vita, il suo abbattimento sinistro e tenebroso, riprendevano sempre il disopra. In uno di quegli accessi di passione, terribili e sconosciuti, che aveano tutte le forme, dalla disperazione fastidiosa allo stordimento dell'ebbrezza, io soccombetti.

Claudia balzò in piedi e si slanciò sopra Ida. Io la presi per le mani e la feci di nuovo sedere. Ida si levò anch'ella ed indietreggiò.

— Continua, continua, balbettò Claudia passando le sue mani sul proprio viso pallido, al punto che pareva non avesse più goccia di sangue nelle vene.

[146] — Ponzio....

— Chiamalo Cajus, gridò la romana.

— Restò otto giorni senza vedermi. Ma....

— Ma?

— Era divenuto mio amante.

— E ti amava?

— Non mi ha mai amata, te l'ho già detto. Si sarebbe creduto, alla collera ch'ei vi poneva, che ognuno dei suoi baci, fosse una vendetta contro qualcuno. Per conto mio, l'adoravo. Avrei dato la vita per vederlo sorridere. I suoi trasporti amorosi andarono così a salti per un anno. Passava da una frenesia di passione ad una frenesia di pentimento e di malinconia. Sovente apriva le braccia per abbracciarmi, poi mi respingeva, mi calpestava sotto i suoi piedi, mi batteva. Finalmente, o si scioglieva in lagrime, o in baci, oppure fuggiva vergognoso, disprezzandomi e disprezzandosi, odiando il cielo ed il mondo.

— Claudia, dissi io, non comprendi tu dunque questi parossismi di follia di tuo marito.

— Glieli spiego adesso, replicò Ida interrompendomi. Dacchè sei arrivata qui, o Claudia, non ho veduto tuo marito che sole tre volte. La prima, la sera stessa del tuo arrivo a Gerusalemme, egli ha pianto sul mio seno, da commuovere le pietre, e si è contorto su questo pavimento di marmo come un serpente ferito. La seconda volta, mi ha divorata in una esplosione frenetica di lascivia; ma io sentivo che quelle strette, quelle morsure, quei baci, quelle carezze, si abbattevano su di me e s'inspiravano altrove. L'ultima volta egli venne a dirmi: Addio, Ida. Io ti lascio: io amo mia moglie.

— Che? gridò Claudia stringendo Ida nelle sue braccia. Egli te l'ha detto?

[147] — Cento volte in quella triste sera: amo mia moglie! Mi ha lasciata svenuta, morente nella mia stanza, e non l'ho più riveduto.

— Mai più?

— Mai più. Non ho ricevuto sue notizie che per questa lettera che mi portò Giuda. Vedila.

Ida prese da un armadio la lettera di cui ho già parlato e la diede a Claudia. Questa la divorò degli occhi; poi stringendosela al petto, sclamò;

— Ti perdono tutto. Ma odimi, figliuola: guai a te se tu lo rivedi giammai. Maritati, fuggi, nasconditi. Se vuoi del denaro, ti arricchirò; se vuoi traversare il mare, ti darò una trireme; ma ricordati bene questo: guai a te, guai a te, se lo rivedi ancora.

E ciò dicendo, Claudia partì fuggendo di Berachah senza punto curarsi di me. Arrivata al palazzo d'Erode fece montare a cavallo una coorte, balzò ella stessa sopra un cavallo, ed immediatamente partì al galoppo per Sebaste, andando incontro a Pilato.

Riguardai Ida. Sembrava pietrificata dall'esplosione della Romana, si trovava annientata nel cuore donde sentiva schiantar quell'amore che si sforzava di tenervi rinchiuso. Non osai dirle nulla. Presi la sua mano ardente dalla febbre, e vi lasciai cadere una lagrima. Poi partii alla mia volta per andar a raggiungere il Rabbì di Nazareth.

[148]

XXVII.

Io aveva accompagnato Gesù fino alla fontana di En-Shemesh, in quel vallone selvaggio che è a poche ore da Bethania. Egli aveva continuato la sua strada per Gerico, strada tante altre volte percorsa da lui in condizioni più sorridenti di spirito. Aveva dormito nell'albergo che si trova a mezza strada, di cui ho già parlato (che si chiama oggi Khan Hudjar) e all'indomani di buon'ora, traversando la città delle Palme, aveva continuato la sua strada, passato il guado del Giordano a Bathabara e cercato un relativo ricovero nella Perea, Stato di Antipas.

Il Giordano, nel suo corso inferiore, divide la provincia romana della Giudea, dalla provincia semi-indipendente della Perea, come nel suo corso superiore separa la Galilea dalla Traconitide. Erodiade non amava il Rabbì di Nazareth meglio che il Battista; ma Antipas conservava rancore contro Pilato, a causa della carneficina di Galilei da costui fatta al tempo della sommossa per l'offerta, considerando la propria autorità conculcata dal supplizio dei suoi sudditi. Il Rabbì, perseguitato in una provincia romana, poteva dunque sperare una tal quale protezione nei dominii di questo principe a causa di questo risentimento. Gesù per altro non si fermò nella Perea, e fece una rapida corsa a traverso la Galilea e la Samaria.

[149] Mano mano che gli avvenimenti precipitavano, e divenivano più cupi, il Rabbì voleva formarsi un'idea sempre più chiara della sua posizione. Aveva gettato il suo scudo, come il reziario davanti il mirmillone. E' si sapeva ora designato, condannato, messo a caccia. La sola probabilità di salute che gli restava era la protezione del popolo di queste provincie; popolo il quale, odiando i Romani e l'aristocrazia di Gerusalemme, poteva prendere una attitudine tale da consigliare ai suoi nemici la sommissione od una tregua. Nel viaggio intrapreso dal Rabbì, avanti la festa del Purim, per lo stesso scopo di esplorazione, egli non aveva scorto alcun sintomo che potesse incoraggiarlo, o dargli qualche speranza. Volle ciò malgrado visitar nuovamente quei paesi, poichè l'ora di giuocare la sua ultima posta gli pareva arrivata.

Aveva sete di speranze e d'incoraggiamenti.

Quando io venni a raggiungerlo a Bathabara, ei non era ancora di ritorno; ma i suoi discepoli lo aspettavano sotto le capanne del fiume. Io lo attesi altresì, ma a Gerico, andando ogni mattina ad informarmi se fosse arrivato.

Una mattina finalmente lo incontrai. Mi parve profondamente abbattuto. Pure non manifestò nissuna idea di indietreggiare, o di cangiar proposito. Lo scongiurai ancora una volta di lasciar per il momento la parte di moralista e di umanitario da lui scelta, e di seguire l'istinto della nazione che domandava un capo politico. Egli mi rispose che i messia che l'avevano preceduto «erano dei ladri e dei briganti,» e che egli non conosceva altra salvezza, ed altra possibilità di riescita, che nell'assorbimento del popolo in Dio.

Vedendolo allontanarsi da Gerusalemme, onde evitare la spiegazione alla quale era stato invitato, la [150] gente del Tempio ed i Farisei non lo tennero per sdebitato malgrado la sua fuga. Lo fecero cacciare dai loro segugi, che lo snicchiarono al guado del Giordano, a cavallo fra i due Stati, potendo in pochi minuti cercare un asilo dall'una o dall'altra parte del fiume. Essi lo tenevano dalla parte del paese romano. Bisognava dunque comprometterlo nella Tetrarchia. Antipas, o meglio Erodiade, non aveva che una sola corda sensibile — quella che il poco abile Battista aveva toccata, e ne era stato colpito di morte.

Gli agenti del tempio domandarono quindi al Rabbì, se un uomo poteva scacciare sua moglie per qualsiasi cagione.

Le scuole di Hillel e di Shammai avevano già posata tale questione; ma il Tetrarca della Galilea l'aveva risolta, e guai a chi si fosse avvisato contraddirlo.

Il Rabbì fiutò la trappola, e con quell'ammirabile tatto ch'egli aveva per istornare un'importuna interpellanza, colla squisita finezza che sapeva mettere nelle sue risposte, quando non rispondeva bruscamente, o motteggiando, egli disse:

— Il marito e la moglie non formano che una sola carne.

Una circostanza venne allora ad accelerare la catastrofe.

L'amico del Rabbì, Lazzaro di Bethania, giaceva nel suo letto gravemente infermo e le sorelle di lui lo mandavano a chiamare per venirlo a rilevare. Lazzaro era epilettico. Ma questa volta la malattia si era complicata di segni pericolosi; imperciocchè, dopo che l'accesso era passato, Lazzaro era restato rigido e freddo come una barra di ferro. (L'accesso epilettico era stato seguito dalla catalessia). Questi sintomi [151] avevano allarmato le due donne. Quando il loro messo raccontò al Rabbì lo stato dell'ammalato, egli non se ne mostrò inquieto. Vide in quel fatto un'occasione felice, al contrario, per la sua glorificazione.

— Non è mortale la malattia di Lazzaro, osservò egli; ma per la gloria di Dio, il figlio di Dio vi potrà attingere altresì la sua gloria.

Il messaggero riportò questa risposta.

Ora il Rabbì, che nella sua posizione pericolosa si afferrava ad ogni bricciolo di speranza, riflettè sulla stranezza della malattia del suo amico. Un'idea gli passò per la mente. Perocchè due giorni dopo la partenza del corriere, egli annunziò ai suoi discepoli che andava «a svegliare il suo amico che dormiva!»

Il Rabbì aveva un'influenza imperiosa sopra la complessione accasciata e nervosa del suo ammalato. Bastava accarezzarlo della sua mano amica, o semplicemente avvilupparlo del suo sguardo profondo e gioioso, per far sì che Lazzaro sentisse un sollievo alle sue sofferenze e si addormentasse nella calma. Laonde, il Rabbì era onnipotente in quella casa di Bethania. Allorchè il messaggiero delle due sorelle fu di ritorno con la sua risposta di consolazione, Lazzaro peggiorava. Poi, il giorno stesso che noi lasciavamo il Giordano per risalire a Gerusalemme, egli ebbe una crisi fulminante, dopo la quale le sue membra s'irrigidirono, la respirazione cessò, la sua pelle s'agghiadò ed i suoi occhi divennero vitrei.

Le due sorelle lo credettero morto.

L'ebreo è il solo popolo del mondo forse che non abbia il culto della morte. La morte per l'ebreo è una contaminazione. Abramo, che doveva a Sara delle compiacenze le quali rasentavano l'infamia, appena la vide morta, gridò: Seppellite la mia morta [152] lungi dai miei sguardi. Giacobbe si diede appena il tempo di mettere una pietra sulla tomba di Rachele e continuò il suo viaggio colle sue gregge. Tiberiade è una città impura per gli Ebrei, perchè è costrutta in parte sopra i sepolcri di generazioni sparite dalla memoria degli uomini. L'ebreo scaccia il morto dalla dimora dei viventi, lontano, nei sinistri burroni, in preda allo strazio delle iene e dei cani. Nè fiori, nè alberi, nè ricchi monumenti, come appo i Romani. Un buco nella roccia è la tomba d'un re. Il Rabbì chiamava i suoi nemici dei sepolcri.

Le due sorelle di Lazzaro, trovandosi dunque sole con quel cadavere, elleno che erano forse di già noiate di quel vivente collerico, inquieto, rabbioso, irritabile, egoista come tutti gli ammalati, si affrettarono a sbarazzarne la casa.

Lazzaro aveva vicino alla sua dimora una grotta, la quale poteva servire al bisogno da cantina, da stalla, o da sepolcro, protetta contro le intraprese dei cani e delle bestie feroci da una pietra appoggiata alla sua entrata. Marta e Maria avvilupparono il loro fratello in un sudario, l'attorniarono di coperte e lo deposero in quello speco.

— Se Lazzaro è morto definitivamente, dissero a sè stesse, e' resterà nella sua tomba; se non è che semplicemente caduto in letargia, come cento altre volte, non avrà che a respingere la pietra della chiusura ed uscire.

L'operazione del sequestro del corpo di Lazzaro compiuta, i vicini, gli amici, principiarono a venir a visitare le due sorelle per consolarle. Maria, la vaneggiante, conversava con loro, mentre Marta, la massaia, prendeva cura nel giardino dinanzi l'uscio, dei cani, delle pecore, dei colombi, e dei polli.

[153] Verso la sera del secondo giorno da che avevamo lasciato Bathabara, Marta era occupata nel giardino in queste faccende, quando ci scorse da lungi e riconobbe il Rabbì.

Si precipitò al suo incontro, e gli raccontò tutti gli incidenti della morte del fratello. Il Rabbì si turbò e sospirò. Marta lo lasciò e andò ad annunziare secretamente il di lui arrivo alla sorella. Maria non seppe nascondere la sua gioia. Diede in un grido ed accompagnata dai vicini che le facevano visita, si avanzò verso il Rabbì che mi parve terribilmente preoccupato. Maria gli raccontò allora altri particolari della malattia, altri sintomi della morte. Gesù volle vedere, e si diresse verso la grotta. Egli intravedeva in questa avventura — l'ho già detto, ed egli stesso l'aveva detto — un'occasione di attestarsi in maniera strepitosa come figlio di Dio «a causa del popolo che lo circondava, e che poteva crederlo inviato da Dio[17].» La pietra della porta tirata da banda, vedemmo Lazzaro coricato, la testa verso l'apertura. Il Rabbì allungò la mano sopra di lui, la tenne lungamente su quella testa e su quel petto, poi pregò, gli occhi rivolti al cielo. Infine, sclamò:

— Grazie, Padre! tu m'hai ascoltato.

Allora, indirizzandosi a Lazzaro, gli gridò con voce possente:

— Lazzaro, alzati e vieni fuori.

Lazzaro si alzò come dal suo letto, senza dare alcun segno di stupore nè di riconoscenza, e rientrò tranquillamente in casa. I suoi amici, che lo avevano creduto morto, portarono a Gerusalemme la notizia che il Rabbì di Nazareth l'aveva risuscitato.

[154] Questa notizia non poteva a meno di giungere alle orecchie di Hannah e di Caifa. Essi seppero così che il Rabbì era di ritorno a Gerusalemme, e che veniva coll'intenzione la più determinata di provocarli. Hannah pensò che il Rabbì venisse altresì per avere con noi quella conferenza cui non ha guari aveva evitato partendo precipitosamente. All'indomani, benchè giorno di sabbato, Gionata figlio di Hannah ascese a Bethania per ricordare a Gesù l'impegno preso di incontrarsi coi delegati dei partiti.

Lazzaro, avendo ancora d'uopo di riposo, Gesù aveva accettato a desinare da Simone il lebbroso, invitandovi i suoi discepoli. Questi, sempre poltroni, non avrebbero voluto lasciar partire il Rabbì dalla Perea, dicendogli: Essi ti lapideranno. Ma uno di loro, ed io stesso, avendoli fatti vergognare di tanta vigliaccheria, essi avevano accompagnato il maestro, anticipando così di una settimana il loro arrivo per la festa. Seguirono dunque il Rabbì dal lebbroso.

Questa audacia lambiva la demenza nella sfida che il Nazareno portava ai Farisei.

La lebbra era appo gli Ebrei ed in tutta la Siria una malattia orribile, prodotta sovente da vizii infami. E considerata quindi come un castigo di Dio. Essa era però più frequentemente occasionata dalla mancanza di cure, dal sucidume, e dalla stranezza di un clima ardente e secco. Si riteneva dunque un lebbroso come un uomo colpito dalla collera di Dio; ed i libri sacri e la legge orale erano stati relativamente indulgenti classificandoli come morti: morti dinanzi la legge, i diritti civili e le consolazioni del Tempio. Un lebbroso non poteva entrare nè in una sinagoga, nè da un amico, nè in un pubblico uffizio, in nessun sito insomma ove altri uomini si riunissero. [155] Era obbligato di portar nudo il capo, i vestiti fatti in certa maniera particolare, e di color giallo come le prostitute, e di gridare, quando passava per le vie: «Fate attenzione, un impuro!» Come un cadavere, egli non poteva restare una sola notte dentro le mura di Gerusalemme. Lo si scacciava fuori dalle porte della città nell'Hinnon e Giosafatte, nella valle della Gehenna e dei cadaveri, riducendolo a disputare un buco ai cani ed alle bestie feroci. Ecco perchè il ricco Simone aveva la sua abitazione nel borgo di Bethania.

Ora, un lebbroso non era soltanto una persona maledetta, ma la sua vista faceva orrore.

Il Rabbì accettò da pranzo presso questo contaminato: prima, perchè egli non ne sentiva per nulla la ripugnanza, poi perchè sfidava la legge di Mosè, e non ne divideva le viste sul capitolo delle impurità. I discepoli accompagnarono il loro maestro, perchè e' non avevano volontà propria, perchè avevano l'abitudine di sedersi a qualunque tavola che lor offrisse da mangiare ad ufo, e perchè il pranzo di quel ricco disgraziato prometteva d'esser sontuoso: buona fortuna che loro accadeva raramente.

Il Rabbì, per conto suo, non sapeva mai ciò che mangiasse. Per lui una radice d'erba ed uno storione avevano il medesimo valore. Ma i suoi discepoli gustavano il lauto vivere, sopra tutti il piccolo Giovanni, che era addimandato il figlio della folgore, e che avrebbe dovuto esser chiamato il figlio della pentola. Il Rabbì ignorava il valore del danaro e la distinzione della proprietà. Non era avaro di ciò che possedeva, ma non faceva complimenti neppure per imporsi altrui con un'ospitalità sovente incomoda e costosa. Ci trascinò quindi con lui alla tavola di Simone.

[156] Quando vidi quest'uomo, indietreggiai spaventato. Credetti trovarmi con un leone reso deforme. Il suo viso era lucido come uno specchio. Il suo alito infettava l'atmosfera. Il corpo coperto da tubercoli scagliosi e grossi screpolava ad intagli come la pelle di un elefante. La grossezza delle vene rendeva la pelle callosa. Nessun pelo sul viso. I rari capelli che sbucciavano sul suo capo erano divenuti bianchi. La pelle del capo si divideva essa pure in tagli molteplici e irrigiditi. La faccia era coperta da escrescenze dure, appuntite, bianche alla cima, verdastre alla base. Quando respirava mostrava una lingua irta di tubercoli come grani d'orzo. Delle volatiche coprivano le dita, i ginocchi, ed il mento. Le pomette delle guancie rosse e gonfie; gli occhi di un colore di rame, oscurati, velati sotto le profonde rughe cagionate dalle sopracciglia contratte; le labbra tumide; il naso carico di sarcosi nerastre; i denti neri, le orecchie floscie, allungate come quelle dell'elefante; in tutto il corpo, delle ulcere che davano un umore nero e fetido, le nuove rodendo le vecchie... tale era Simone.

Quando vidi quel mostro spaventevole, protestai di non aver fame, d'esser ammalato, d'aver bisogno d'aria, e restai nel giardino. Io vi passeggiava quando entrarono, uno dopo l'altra, Maria di Magdala e Gionata.

Maria non potendo più a lungo tollerare l'assenza prolungata del Rabbì, aveva preso una singolare risoluzione, seguendo del resto il precetto di costui.

Aveva venduto la sua piccola casa di Magdala. Del prezzo che ne aveva ricevuto, aveva comperato da un profumiere di Tiberiade una fialetta di essenza [157] di nardo, e precedendo la compagnia dei Galilei, si recava al paschah. Maria sapeva ove il Rabbì alloggiava, ed era venuta a raggiungerlo. Sia che l'orribile puzza del sito le avesse ispirato tale idea, o che avesse un progetto preparato, vedendo il Rabbì addossato al lebbroso, ella si avvicinò a lui e gli versò sui capelli i profumi del suo vaso.

Il Rabbì se ne andava in broda di giuggiole a questi atti di deferenza e di delicatezza. Amava anche gli odori e i profumi, e molto i fiori; ma sopratutto si mostrava tenero delle profusioni che si usavano per la cura della sua persona. Ciò aveva un non so che d'aria regale; ed egli si spacciava per figlio di Davide. L'atto fastoso di Maria lo inebbriò. Tanto più ch'ella si mise ad asciugargli i piedi con la sua splendida capigliatura, dopo averglieli profumati alla foggia romana. Ora questa prodigalità di profumi non ebbe lo stesso successo appo i discepoli, che appo il loro maestro. Simone, che conosceva il valore del denaro e sapeva che da una settimana io riempiva una borsa che m'era stata confidata vuota, brontolò senza ritegno; poichè quel villano era franco nella sua rustichezza. Le osservazioni sopra questo spreco di odori continuavano, allorchè si avanzò Gionata. Egli aveva assistito col sorriso sulle labbra alla scena di Maria; ed il Rabbì lo aveva osservato.

Gionata espose il messaggio di suo padre. I discepoli del Rabbì parvero contenti di questo atto del sagan, perchè lo presero per un ossequio di deferenza, forse di sommissione, e si videro quasi collocati sui gradini di quel trono nelle tribù d'Israele cui il Rabbì aveva promesso a ciascuno di essi. Se la madre di Giacomo e di Giovanni, quella piccola e petulante mestatrice seccante che aveva chiesto al [158] Rabbì un posto più considerevole pei suoi figli, fosse stata lì, avrebbe pianto di gioia. Gesù invece si turbò; io impallidii. Noi indovinammo quale sarebbe stata la conclusione della conferenza. Ma l'aria offesa che mostrò Gionata del trovarsi in un simile luogo, quantunque si fosse fermato sulla soglia della corte interna, il contegno pressante manifestato dai discepoli, il mancare di buone ragioni per evitare questa esposizione dei suoi principii, cui si aveva diritto di chiedergli poichè egli insegnava nel tempio, impedirono a Gesù di rifiutare o protrarre il convegno. Accettò dunque, e la riunione fu fissata pell'indomani in casa del sagan, all'ora ottava.

L'ora era avanzata, e temendo di trovar chiuse le porte della città, io discesi con Gionata a Gerusalemme.

All'indomani di buon mattino, Gesù si presentò al Tempio. Bar Abbas si recò da Ida.

Il Rabbì, da alcuni anni, insegnava sotto i portici di Salomone; e mai la polizia del Tempio, od i dottori del gran Consiglio, non gli avevano opposta la più piccola difficoltà; benchè, in ogni tempo, i suoi precetti fossero stati contrari alle leggi di Mosè, ed all'insegnamento dei successori di Hillel. Il sanhedrin era il solo giudice delle dottrine che si professavano, e solo aveva il diritto d'accordare il permesso di predicarle. Questa volta, siccome la lotta fra i partiti ed il Rabbì aveva cominciato, taluni degli anziani avendolo trovato a parlare in pubblico, gli chiesero, in virtù di quale autorizzazione egli esponesse i suoi principii.

Una lunga esperienza non li aveva corretti dall'interrogare il Rabbì, il quale aveva l'abilità suprema di confonderli con una buona ragione, o di sfuggir loro [159] con un motteggio o con un'altra interrogazione. Come sempre, il Rabbì si burlò di essi. Egli chiese loro:

— Cosa pensate voi di Johanan, il Battista? Era desso un uomo od un inviato del cielo?

Un gran numero dei discepoli del Battista circondavano in quel momento Gesù. A quella domanda gli anziani tacquero sulle prime, poi, incalzati dal Rabbì, risposero che non ne sapevano nulla. Essi avevano indovinato l'agguato. Se avessero risposto che il Battista era un uomo, i suoi discepoli, lì presenti, potevano maltrattarli e gettar loro delle pietre; se rispondevano che veniva dal cielo, il Rabbì avrebbe sclamato: Allora perchè non l'avete ricevuto?

Con un così fino casuista, la discussione diveniva terribile. Ciò malgrado, i Sadducei vennero a molestarlo colla dottrina della risurrezione, a cui non credevano, non trovandola nei libri di Mosè. I Sadducei gli chiesero dunque, celiandolo:

— Una donna ha avuto sette mariti; a quale di costoro apparterrà essa nel giorno della resurrezione?

Il Rabbì rispose scaltramente:

— Nel giorno della risurrezione, non vi saranno più nè mariti, nè mogli, ma sarete tutti degli angeli di Dio nel cielo.

I Sadducei, come gli anziani, se ne andarono indispettiti, e odiandolo più che mai.

I Zeloti, o a meglio dire i discepoli di Giuda di Gamala, vollero scandagliarlo alla lor volta. La questione che gli proposero era capitale.

L'ebreo paga due sorte di tributi: la tassa di Dio e la tassa di Cesare. La tassa del Tempio — mezzo siclo — era stata per molti anni discussa fra i Sadducei ed i separatisti. Questi ultimi avevano finalmente fatto decidere dal sanhedrin che la era forzosa, [160] e che la si doveva pagare al primo del mese di nizan. Questo fondo serviva a comperare le legna da brucio, l'incenso, il pane azzimo, ed a pagare i familiari del Tempio. Il popolo aveva vinto in questo sopra l'aristocrazia che vi era renitente. La tassa di Cesare invece era acconsentita dai Sadducei, e contestata dai separatisti. L'aristocrazia sapeva che il governo costa; che se il popolo non paga, le classi ricche sono responsabili dinanzi alla legge. Il gran sacerdote Ioazar, secondato da Hillel e dai Farisei moderati, aveva persuaso il popolo di pagare questo denaro per ogni testa (ottanta centesimi), ed il popolo aveva pagato — tranne i Galilei che consideravano quella tassa come un segno di schiavitù, e come un'offesa a Dio, mettendo Dio e Cesare all'istesso livello.

Da questo punto di vista, i Zeloti proponevano al Rabbì una questione capziosa, chiedendogli se si doveva pagare la tassa di Cesare. Rispondeva di no? avrebbe avuto a fare con Pilato. Rispondeva di sì? abbassava Dio al livello di Tiberio.

Il Rabbì, quantunque in apparenza semplice e ingenuo, scoprì la perfidia. Egli si fece mostrare una moneta ove stava l'effigie di Cesare, e rispose senza rispondere:

— Rendete a Cesare ciò che è di Cesare.

E lasciò il Tempio.

In quell'istesso momento Bar Abbas si presentava da Ida.

— Ah! ah! sclamò egli entrando nel tablinum, sono io, il tuo caro barba, io Gesù Bar Abbas, ex-legionario romano, fulmini ed allegria! Devi esser stata bene in allarme della mia lunga assenza, fanciulla mia. Ma cosa vuoi? io mi sono ingolfato nella vita pubblica che mi assorbe, mi divora, mi consuma: io mi voto alla [161] patria. Gerusalemme non ha che due cose necessarie e due meraviglie: il Tempio e me. Consolati dunque, cara Miriam, eccomi qui.

— Ero già bella e consolata, rispose Ida.

— Ne sono incantato, abbagliato, sorpreso. Non abbiamo più quelle ubbie per il capo, eh! Abbiamo fatto un bel bucato di tutte quelle grandi passioni, quelle nostre disperazioni? Tanto meglio, bambina mia, tanto meglio. Io ne perdeva la pace, il sonno e l'appetito.

— To'! ed io che volevo offrirti da mangiare.

— Mangiare! l'è questo il più bel verbo che esista in tutte le lingue umane. Offrimi dunque; te lo permetto. Mangiare gli è sempre a proposito, sia che arrivi come compenso del passato, sia che lo si prenda come previdenza per l'avvenire, sia che lo si presenti come una gentilezza del momento; e tanto più, carina mia, che io non mi ricordo troppo bene se ieri ho coniugato quel verbo al tempo presente. Mi dispiace solo di non poterti ricompensare con delle buone notizie.

— Che c'è dunque? sclamò Ida, non troppo spaventata però perchè conosceva bene suo zio.

— Ma! gli è lui. Ho forse io altri soggetti di angustie in questo mondo? è tuo fratello. Quel giovane è il mio verme roditore. Finirà coll'uccidermi dal dispiacere.

— Che ha fatto dunque? Corre forse nuovi pericoli? è ritornato a Gerusalemme?

— Per bacco, ieri; e ne ha già fatto una delle sue solite. Figurati che se n'è andato a pranzare da un lebbroso di villaggio, accompagnato da quei mascalzoni che lo seguono ovunque, con un'aggiunta di donne equivoche.

[162] — Non è vero.

— Sta attenta, che non è poi tutto. Del resto, il proprio figlio del sagan, e Giuda da Kariot che erano lì, che l'hanno veduto, mi hanno raccontato la cosa. Prima di tutto, siccome quei villanzoni hanno soppresso l'uso di lavarsi le mani avanti pranzo, per dar lo gnorri ai Farisei, puoi immaginarti che fondo di gamella doveva restare, d'un lebbroso e quindici provinciali che tuffavan le mani nell'istesso piatto! Erano lì tutti a sguazzar nella broda, ed il Rabbì succhiava un'ala d'oca con lenti al burro pimentato — intingolo squisito, sai, Mirjam! Te ne farò mangiare la prima volta che m'inviterai a pranzo. Il Rabbì succhiava dunque tranquillamente la sua ala, pensando al regno dei cieli, allorchè una certa pettegola di mia particolare conoscenza, irruppe nella sala. Arrivava dritto dritto dal suo paese — da Magdala, sai — portando la sua casa ed il suo giardino in una fiala d'alabastro, con dentrovi non so quale malvagìa di sugna. Non disse nè buon giorno, nè buona sera. Cavò fuori il suo vaso da sotto la tonica e crac! lo ruppe sul capo del Rabbì. Ah! belloccia mia, non puoi immaginarti di che odore delizioso — cosa dirti? di costoletta arrostita, di minestra all'aglio, di rosmarino, che so io! — si riempì la casa. Ed eccoti il Rabbì inondato da quell'untume che gli scorre da per tutto.... Guarda, ne aveva tanto colato perfino ai piedi che Maria — la si chiama così — principia ad asciugarli coi suoi capelli che sono magnifici.

— Tu menti, sclamò Ida; il Rabbì non l'avrebbe permesso.

— Gli è precisamente quello che si dicevano fra loro quei furfanti dei suoi discepoli. Imperciocchè e' avrebbero preferito vendere quell'odore prezioso, e [163] mangiarlo in un bel desinare al paschah. Il Rabbì udì i loro brontolamenti, e disse loro: Tacete, branco d'infingardi! C'è stato dei paschah fino ad oggi e ce ne sarà anche per l'avvenire, lo avete fatto e lo farete, fino a che non sarete impiccati; per me questo è l'ultimo.... Stropiccia, Maria, stropiccia, figliuola mia! I tuoi capelli sono dolci come il più fino lino dell'Egitto, ed io ne basisco di diletto.

— Tu menti: mio fratello non avrebbe mai detto questo.

— Questo o qualcosa di simile. Io divido le opinioni degli scienziati riguardo alle traduzioni libere. Il fatto sta che il figlio del sagan venne via scandalizzato da Bethania, e che jeri sera ebbe luogo da Hannah una riunione onde chiamare Gesù a render conto della sua condotta. Tu comprendi che io difesi la libertà dei desinari, dei lebbrosi, delle mani sporche, degli odori e delle profumatrici; ma fui nella minoranza. Fu adottata la decisione, malgrado la mia ben nutrita eloquenza — la sola cosa che io mi abbia sempre ben nutrito, — di mandare una intimazione al Rabbì. Ciò è stato fatto, ed oggi egli comparirà davanti i delegati dei partiti riuniti in casa del sagan.

— Vogliono dunque perderlo ad ogni costo?

— Ad ogni costo? Di' pure per niente, poichè e' non ci spendono nulla per perderlo. Egli si perde da sè solo, quell'indiavolato. Questa mattina infatti si è presentato al Tempio, ed ha ricominciato.... Io l'ho incontrato sui gradini del Moriah. Me gli sono avvicinato pulitamente, perchè ho appreso le belle maniere a corte, nelle legioni, e nel contatto quotidiano dei grandi personaggi. Ma egli, che arriva sempre dalla sua provincia, mi ha accolto coi soliti complimenti: [164] di infame, canaglia, miserabile e che so io! Ha una lingua fiorita, mio nipote. I Farisei e gli Scribi ne sanno qualche cosa, perocchè i nomi più teneri che loro dà, sono quelli di «briganti, ladri, razza corrotta, razza adultera, razza di vipere, sepolcri imbiancati, ciechi, conduttori di ciechi, ignoranti ipocriti, figli del demonio, insensati, pazzi....[18]» Ma io non m'imbestio; lavoro, anzi, a migliorare la sua educazione. Gli rispondo: ascoltami, nipote; rifletti, Rabbì; fa attenzione, profeta; ma guarda, messia; degnati di ascoltarmi, figlio di Dio; te ne supplico, Dio d'Israele.... A questo e' diventa più pieghevole, ed allora parliamo di te.

— Di me?

— E di chi vuoi tu dunque che parlassimo? Io non chiedo certo un posto nel regno di tuo fratello. È troppo alto nel cielo. Peste! deve farci troppo caldo o troppo freddo; non so troppo che. Allora egli mi dice: Uomo...... Sì, uomo: del resto egli chiama donna tua madre. Mi dice dunque: Uomo, va da Mirjam ed annunziale che ho bisogno di parlarle. So che il convegno d'oggi deciderà della mia sorte. Ho talune cose a comunicare a mia madre, cui Mirjam sola può riportarle. Che la venga in casa di Hannah; la vedrò avanti e dopo il mio incontro coi principi del Tempio.

— Tutto ciò non è vero, osservò Ida.

— Sciocca! Credi che se fosse vero te lo ripeterei? son proprio pagato per questo! Parlo dunque per guadagnare un po' d'appetito, e tu puoi andare o restare, venire con me o presentarti sola, credermi o no.... Ti avrò sempre distratta dai tuoi cupi pensieri. [165] Hai mille ragioni per non credermi più. Mangiamo dunque.

Però Ida si ricordava che l'ultima volta Bar Abbas le aveva annunziato che il Rabbì correva grandi pericoli, e che questi le aveva confermato esser vero. Si ricordava che il Rabbì le aveva detto, l'ultima volta che lo aveva visto, che ella non poteva ritrovare il perdono che sul seno di sua madre! E se il Rabbì la chiamava veramente per confidarle qualcosa per questa madre! Che interesse poteva avere Bar Abbas per farla andare da Hannah, grande personaggio che godeva d'una eccellente riputazione[19]?

— Non è un nuovo agguato che mi tendi? gli diss'ella. Ciò che mi riporti sarebbe la verità?

— La verità? ohibò! Non mi prendono più a queste bazzecole. Una volta sola in vita mia ho voluto dir la verità e ne zoppico ancora. Avevo veduto, veduto coi miei proprii occhi, fuggire il tribuno della mia legione. Ne lo rimprovero: mi scocca un calcio col suo zoccolo ferrato e mi spezza una tibia. E da questo viene, che secondo voi altri insolenti della famiglia, io zoppico, mentre tutto il mondo dice che io cammino con molta grazia. Dopo di allora, mai più verità. Quindi, non stare ad andare. Non tengo poi mica tanto a render servizio al Rabbì.

[166] — Gli è impossibile: mio fratello non avrebbe dato una simile missione a te.

— Hai proprio ragione: la sorella del re del cielo! Peste! Scusami, principessa. Chi sono io? Un vecchio legionario, un compagno d'armi di Tiberio, un allegro compare che tutti i guerrieri ed i cinedi di Gerusalemme piangeranno, quando sarò morto, coprendosi di ceneri — se hanno di che far fuoco; — che tutti i delicati della città sospireranno, quando avrò finito di divertirli, lacerandosi gli abiti — se saranno nudi. Bah! tutto ciò non basta per recare un messaggio alla figlia del carpentiere di Nazareth. Non parliamone più, e grazie. Credo che m'avevi offerto da mangiare, se non m'inganno anche in questo.

— Avrai tutto quello che vorrai, se Noah ha per di là qualche cosa, ma dimmi se veramente mio fratello mi chiama.

— Egli ti chiama, ma la non è mica una ragione perchè tu vada. Il sagan ha potuto venire da te senza pericolo, ma tu non puoi andare da lui. Come dunque? in un palazzo di principe, in mezzo alla città, in pien giorno, tu, ragazza pura ed innocente, andresti ad esporti ad un agguato di tuo zio, quel brigante che ti ha già venduta una volta! No, piccola mia, resta, resta, tuo fratello è un vaneggiatore, avrà bene abbastanza da pensare a sè stesso, stanne sicura. Io sarò nel consiglio, e lo difenderò, perchè io sono un vile senza dignità. Dunque fa conto che non ti abbia parlato di nulla, e mangiamo.

— Potrò almeno condur meco Noah?

— Conduci teco Noè, l'arca, e tutte le sue bestie — compresi Thorix e Febea che sono più vecchi delle piramidi. Ti prevengo però che costoro resteranno nella corte; imperciocchè un uomo come il sagan non [167] ha l'abitudine di trovarsi con degli schiavi. Vieni dunque con me, o vacci sola colle tue schiave ed io vi aspetterò alla porta; oppure non andare affatto e credi che io voglio ingannarti; insomma fa ciò che vuoi. Io non vedo e curo al mondo che una cosa: la mia nobile persona.

— A che ora il Rabbì si recherà in casa di Hannah?

— Alla settima, credo.

— Ebbene vi andrò. Tu m'aspetterai alla grande porta. Vi hanno delle situazioni che assorbono come l'abisso.

— Che famiglia tragica è la mia, ed io, che lo sono così poco! L'utilizzo come posso, in fede mia! Ma gli è mestieri che mi metta in picca di eloquenza, a far sudare un rabbì del Gran Collegio.

— Ma dov'è Gesù? Perchè non lo vedrei io nel Tempio?

— Perchè egli non è nel Tempio, ove gli ufficiali lo arresterebbero, ma in casa il sagan, il quale gli dà un asilo fino al momento che si sarà spiegato.

— Chi devo domandare alla porta del palazzo?

— Poichè t'aspetto io?

— Ma se volessi andarci sola?

— Allora chiedi del re Salomone, o del profeta Elijah, e che la peste ti stermini.

All'ora sesta, Bar Abbas se ne stava alla porta d'Hannah almanaccando sui suoi quarantamila sesterzii.

[168]

XXVIII.

Uscendo dal Tempio, il Rabbì della Galilea si recò da me e pranzò. Avemmo ancora un lungo colloquio insieme ed io mi sforzai di tracciargli il quadro il più vero, il più vivente della situazione, di ciò che i partiti esigevano, di ciò che la nazione aspettava, e di ciò che noi, promotori della rivolta, speravamo. Egli mi rispose per monosillabi vaghi; mostrandosi perfino incredulo che fossimo stati noi che gli avevamo reso favorevole il popolo, l'avevamo messo in evidenza, fatto risaltare le sue parole ed i suoi atti. Rientrò in sè stesso, si ravvolse nel silenzio e nella tristezza, e prese a riflettere. Egli sentiva che andava incontro ad un duello, nel quale avrebbe trovata la morte; giacchè Gamaliele, il figlio del rettore del Gran Collegio, il suo rivale, a cui era stato dato l'incarico d'interrogarlo e di rispondergli, non era uomo da scompigliare con una parabola o da abbagliare con un tratto di spirito. Io non turbai il Rabbì nel suo raccoglimento fino all'ora settima. A quel momento solo uscimmo insieme per recarci dal sagan.

Incontrammo Hannah alla sua porta. Usciva. Claudia l'aveva fatto chiamare, scongiurandolo di accorrere da lei immediatamente, avendo a fargli delle grandi comunicazioni. Ella e Pilato erano ritornati in quella stessa mattina dal loro viaggio. Hannah ci pregò di [169] entrare, poichè eravamo attesi, ed egli aveva permesso di principiare la conferenza senza di lui.

Nell'assenza del sagan, Caifas, il grande sacrificatore, presiedeva la riunione. Non era molto numerosa. Oltre Caifas, c'era il vecchio Simeone, Gamaliel, Menahem arrivato la vigilia, Eliseo governatore del palazzo d'Antipas, il vecchio Jeù per gli Esseniani, Gionata il figlio di Hannah, Polus il terapeuta, un membro della sinagoga di Alessandria, inviato da Filone al gran collegio, ed io. Di maniera che tutti i partiti erano rappresentati.

Hannah ci aveva riuniti nel suo grande gabinetto di studio, nella parte più remota del palazzo ove egli si ritirava per meditare, o per spogliarsi della gravità delle sue funzioni. Un andito separava questo gabinetto da un piccolo appartamento addimandato uccidi-pensieri, mobigliato come quello d'un re assiro, ed ove egli celebrava dei misteri ben diversi da quelli del sancta sanctorum. All'estremità di quell'andito s'apriva una porta sporgente all'angolo più appartato del giardino, nel cui muro un altro uscio dava sopra una delle vie più deserte di Gerusalemme. Lo si chiamava l'uscio degli intrighi, dal quale un servo muto lasciava uscire, ma non lasciava entrar chicchessia, se non presentando una tessera convenuta. All'altra cima dell'andito trovavasi un piccolo gabinetto scuro, a tre uscite, l'una che immetteva nel piccolo appartamento, l'altra al gabinetto delle meditazioni, e la terza comunicava coll'andito, di rimpetto la porta donde si usciva nel giardino.

Il Rabbì non condusse seco veruno dei suoi discepoli, onde essere più franco nell'esposizione delle sue idee. Quegli uomini non lo comprendevano giammai[20]. [170] Finchè era restato in mia casa, il Rabbì mi era sembrato estremamente inquieto, a causa di questa intimazione di spiegarsi. Ma entrando nel gabinetto del comitato, egli ritrovò la più completa serenità di spirito, e la sua figura così pronunziata, il suo sguardo così potentemente mobile, presero un'aria di dolcezza infinita.

— Mi avete chiamato a questo convegno a porte chiuse, diss'egli, non so con quale scopo. Io ho parlato nelle vie, ho insegnato nelle sinagoghe e nel Tempio per degli anni, qui, ed in tutta la Palestina. Dovreste dunque sapere ciò che voglio, e chi sono.

— Sì, rispose Gamaliele, noi ti abbiamo lasciato per lungo tempo la libertà più completa d'insegnare e di agire, benchè avessimo il diritto ed il dovere di chiuderti la bocca fino dalla prima ora, benchè tu ci avessi colmati d'ingiurie e condannate le nostre dottrine. Ciò deve provarti che noi non abbiamo nessun risentimento contro di te; che professiamo la tolleranza di tutte le opinioni. Ma ogni cosa ha un limite: quello che la forza maggiore impone alla volontà. «Posti fra l'impazienza dei nostri connazionali e la vigilanza del demonio straniero, fra le seduzioni del paganesimo e ciò che noi crediamo si debba soltanto all'Eterno, noi siamo addossati al dovere di esigere delle dichiarazioni formali da ogni qualunque pretendente al titolo di messia. Noi siamo obbligati a dedicarci alla sua missione superiore, se porta agli occhi nostri le condizioni volute di successo; nel caso contrario, a prodigargli le rimostranze e gli avvertimenti; e dopo ciò, si dia pure codesto pretendente per capo, per profeta, per figlio di Dio, o per Dio stesso, se resiste alla legge e alla nostra autorità, sovrana ancora, siamo obbligati a [171] punirlo[21].» Ecco lo scopo della spiegazione alla quale t'invitiamo.

— Potrei declinare la competenza morale, e forse politica — io sono suddito di Antipas — della vostra giurisdizione d'esame; ma non lo fo e mi vi sottometto senza resistenza. Soltanto vi chiedo perchè, dopo una longanimità così prolungata, mi chiamate voi a quest'ora onde rendervi conto delle mie parole, dei miei errori, della mia missione? Cosa volete voi, voi stessi, Sadducei, Farisei, Terapeuti, Esseniani, Erodiani, partigiani di Giuda di Gamala, Antiochiani? Vi siete voi posti d'accordo sopra una dottrina comune per erigervi a giudici di una dissidenza? Io non rifiuto di spiegarmi: al contrario; ma desidero avere alla mia volta delle spiegazioni.

— Noi siamo qui per chiederne, e non per darne. Abbiamo i nostri titoli per interrogare; quali sono i tuoi per intimarci di dirti ciò che vogliamo? Non abbiamo soffocata la tua voce fin dalla prima ora, è vero; gli è questo un delitto? Sino a tanto che tu ti sei spacciato per figlio di una vergine, della razza di Davide, messia; noi non abbiamo detto nulla. Hai voluto importi come un Osiride, un Adone, un Budha, un Ormuzd, un Mythra o non so qual'altra divinità dell'India, della Fenicia, e dell'Egitto. Noi non abbiamo temuto questa importazione di idoli nel nostro paese. Spetta ai figli di Erode ed ai Romani lo inquietarsi di codesti discendenti di Davide. Anche noi attendiamo il liberatore del nostro paese. Hai fatto dei miracoli. Atalide figlio di Mercurio, Esculapio, Ercole, Gabienus, Policrate, Anfione, Eres, Orfeo, le figlie del [172] grande sacerdote Anius, le sacerdotesse di Diana, di Feronia, d'Irpicus, Simone di Samaria, Apollonio di Thiane, Augusto, tutti i medici, tutti i ciarlatani, tutti i sacerdoti delle religioni straniere, il cavallo Pegaso, il pesce Oannes che predicava sulle rive dell'Eufrate, tutti costoro ne hanno fatto, ne fanno altrettanti e così miracolosi come i tuoi[22]. Noi ti abbiamo lasciato continuare i tuoi prodigi.

— Li avete calunniati.

— Ne abbiamo riso. Hai predicato la risurrezione, che non si trova nei libri di Mosè; ma ti sei attribuita la massima d'Hillel: «Fa agli altri ciò che vorresti si facesse a te stesso;» hai abbracciato la dottrina dell'eguaglianza stabilita da Platone, e prima di lui, da Gesù figlio di Sirach, da Aristobulo, e da Pitagora; hai anche accettato «la legge orale trasmessa da Mosè a Giosuè, e da questi agli anziani che la comunicarono ai profeti, e da questi ai dottori delle grandi sinagoghe, come pure le tre sentenze emanate da questi ultimi: Siate lenti nel giudicare; moltiplicate i discepoli; e fatevi bastione della legge.» Allora, se tu hai stimatizzato il ridicolo dei nostri bigotti e dei nostri zelanti, se hai trasgredito diverse delle nostre pratiche, se, nell'interesse del tuo proselitismo, ci hai calunniati, abbiamo chiusi gli occhi, perchè tu rispettavi il fondo della legge.

— L'ho poi violata forse?

— L'hai straziata; hai bestemmiato. Ci hai domandato un giorno: per quale delle tue buone opere noi ti minacciavamo? Non è per nessuna buona opera, nè per alcun precetto di buona giustizia e di [173] buona morale; ma perchè, essendo uomo, osi farti Dio[23]. Ora, la nostra legge è precisa. Il signore ha detto: «Io sono Iehovah, l'eletto, l'eterno, il primo e l'ultimo; io non trasmetto a nessuno nè il mio nome, nè la mia gloria.... Non c'è stato alcun Dio avanti di me.... Non ce ne sarà dopo di me.... Non ne esiste alcuno con me.... Io sono l'eletto che crea la luce e le tenebre, che dà a volta a volta la pace o l'avversità.... Gli è a me solo che appartiene la vita eterna; io solo sono il Dio forte, il Dio giusto, il Dio liberatore, redentore, salvatore....»[24]. Non è questa la legge?

— È la legge.

— Ora, la legge soggiunge: «Se dunque sorge in mezzo a noi un profeta o un sognatore che faccia qualche segno o miracolo, e che il segno o miracolo di cui egli avrà parlato si compie; s'egli vi propone nel tempo stesso d'introdurre qualche altro dio, che voi non conosceste mai, e di servirlo; voi non ascolterete le parole di codesto profeta o sognatore. Iehova, il vostro Dio, colui che vi ha levati dalla casa della schiavitù, vi mette alla prova per vedere se lo amate con tutto il vostro cuore, con tutte le vostre forze.... Ma cotesto profeta o sognatore morrà, e la mano del popolo tutto si porterà su di lui»[25]. È questa la legge?

— È questa.

— Ebbene, tu non ti sei proclamato Dio soltanto nella Galilea, nelle sinagoghe, sotto i portici, e nelle [174] corti del tempio, tu sei venuto perfino a predicarcelo nelle sale del tesoro pubblico[26]. È ciò vero?

— Sì. Ma cosa avete voi detto quando il re Erode alzò dei templi ad Augusto, quando Antipas Erode alzò dei templi a Tiberio; quando alla sua volta furono alzati dei templi ad Erode stesso, e quando furono tutti ammessi come Dii?

— Le città ove sono stati commessi questi sacrilegi, sono greche, o romane: tu ti sei proclamato Dio nel tempio stesso di Iehovah. Come Ebrei, come fedeli alle leggi di Mosè, come dottori della legge, come sacerdoti del tempio, come anziani, come membri del sanhedrin, possiamo noi permettere simili profanazioni? Ora tu ci chiedi ciò che noi vogliamo e se siamo d'accordo per condannare la tua dottrina.

— Ve lo chiedo ancora.

— Io ti rispondo. Siamo credenti e cittadini. Come credenti, i principî che ci separano sono rari, quantunque non fossimo d'accordo sopra diversi particolari della dottrina. Ma queste sono piccole varianti di zelo; sono pratiche del culto; interpretazioni della legge; è il progresso stesso di questa legge nei suoi rapporti col tempo, ed i cangiamenti che vi hanno apportato le nostre disgrazie, ed i nostri successi; è l'importazione di alcuni principii che i nostri fratelli di Babilonia, d'Egitto, della Grecia hanno richiesto onde far concordare la legge e la scienza; è il rigore degli Esseniani, o la troppa tolleranza dei Sadducei.... Ma tutto ciò non cangia punto il carattere del nostro patto, e le leggi organiche della nostra fede. Tu sei esseniano nel fondo; ma fossi tu sadduceo [175] come Hannah, o fariseo come me, noi vivremmo sempre in pace nella stessa città, pregheremmo allo stesso altare, insegneremmo dalla stessa cattedra. Il Tempio e la sinagoga sono abbastanza grandi per abbracciare queste gradazioni, ed abbastanza illuminati per tollerarne le differenze. Noi siamo adunque d'accordo quanto basta per dirti unanimemente: tu bestemmii.

— Lo siete pure come cittadini?

— Meglio ancora.

— Eppure io credeva che il Sadduceo volesse restar attaccato al testo della legge di Mosè ed alla giustizia, ch'egli respingesse le forme esterne del culto, le credenze riportate dall'Oriente, ed importate dall'Egitto e dalla Grecia — gli angeli, lo spirito, la resurrezione; — ch'egli limitasse alla tomba il patto di Dio col suo popolo; mentre il Fariseo ammette la legge orale all'istesso titolo che il Pentateuco, sviluppa secondo i tempi la legge di Mosè e l'adatta alle circostanze, lascia allo spirito una estrema libertà per interpretarla, ordina delle pratiche esterne, onde salvare dal naufragio la nazione e la legge, fa pompa di zelo, si adorna di filacteri, pone ai suoi vestiti una lista rossa più larga degli altri, per distinguersi dai Greci e dagli Arabi, crede alla risurrezione, ed alla giustizia dopo la morte, secondo le opere.

— Sia pure. Ma queste sono sempre dissidenze e non bestemmie.

— La legge che ammette delle dissidenze non è più la legge. Poi, io pensava che il Sadduceo riconoscesse la libertà assoluta dell'uomo, contento della sua parte sulla terra, non domandando nè temendo nulla, al di là; mentre il Fariseo insegna che Dio agisce a traverso l'uomo, e che la libertà umana ha dei [176] limiti naturali. Avevo sempre visto il Sadduceo poco ambizioso, rassegnato al dominio romano, amante delle scienze e delle arti coltivate in Grecia ed in Egitto, quantunque poco premuroso di vederle adottate nel suo paese, senza zelo, disprezzante la folla, amante lo straniero, inclinato ai piaceri, desideroso di esser in buona vista di Dio e di Cesare, conservatore, tollerante, indifferente; mentre il Fariseo usa di tutti i mezzi onde restare partito dominante, attende un messia, si barcamena fra le idee ed i partiti, soddisfa le esigenze straniere, carezza l'opposizione nazionale, fa rispettare la legge, nel tempo stesso che mantien desta nei cuori la speranza di una vicina liberazione, e non soffocando gl'istinti popolari e non si lasciando sommergere dagl'impazienti, prepara i mezzi di resistenza, e previene una catastrofe dall'Occidente, simile a quella che venne dall'Oriente, e che perdette i nostri padri.

— Sì, è vero. E poi?

— Poi? Voi siete dunque d'accordo altresì cogli Antiochiani che lavorano ad effettuare un compromesso fra il culto di Mosè ed il culto greco[27]; cogli Erodiani che vogliono farsi il tratto di unione fra il Moriah ed il Campidoglio, trovando che il messia è venuto, e che fu Erode, opponendosi all'insurrezione nazionale, e consigliandovi di pagare il tributo a Cesare?

— Ciò non è, ma fosse pure, tutto codesto non è un diniego della legge.

— Chi si scosta dalla legge, la nega. Voi siete dunque d'accordo col terapeuta che adora forse ancora quella regina cæli, che tiene una così grande [177] parte nei misteri dei templi egizii e fenicii[28], che si considera un cittadino più del cielo che di questo mondo, che abbandona i suoi beni, che personifica l'opera di Dio e la creazione a mo' degli Ebrei orientali, in un Adamo qualunque, che si affatica ad incarnare in una manifestazione reale i precetti dei libri sacri, che vive nell'isolamento, sobrio come la cicala che si nutre del suo canto monotono, mantenendo il silenzio, il più umile di loro essendo il più stimato; perocchè egli considera la schiavitù come contraria alla legge di natura, ed alla volontà di Dio?

— Ma chi, chi fra noi si chiama figlio di Dio, e Dio? Ecco la questione.

— Lo siete voi dunque? Ecco ancora la questione. Ma dite, dite, Sadducei, Farisei, Erodiani, Antiochiani, siete voi d'accordo con quei risanatori (terapeuti) e con quegli Esseniani, che hanno libri, dottrine, dogmi, misteri, una cabala propria che comunicano ai soli adepti secondo il grado d'iniziativa? Odiate voi pure la guerra e la servitù? adorate voi Dio nell'anima, e non con dei sacrifizii? praticate voi la comunità dei beni, la castità, il ritiro, la cura degli afflitti del corpo e dello spirito, studiando le virtù delle piante, delle terre, dei minerali, delle forze della creazione? istruite voi, vestite voi, nutrite voi dei fanciulli? proclamate voi l'immortalità dell'anima? inviate voi le vostre offerte al Tempio senza andarci voi stessi?

— Tutto ciò è nelle nostre dottrine.

— Sì, so bene che il vostro Hillel ha detto: Amate la pace, amate gli uomini, amate lo studio della [178] legge; ma le vostre dottrine hanno esse come l'essenianismo la triplice base dell'amore di Dio, l'amore dell'uomo, l'amore della virtù? L'uomo è desso anche per voi sotto l'assoluto dominio di Dio? Credete voi la preghiera più necessaria che il sacrifizio, il combattimento ed il giuramento inutili? Ditemi, siete voi dunque tutti d'accordo come credenti e come cittadini? avete voi dunque abbandonato codesti principii che costituivano fino ad ora le vostre dissidenze? formate voi un solo corpo per respingere da voi una dottrina, che non accetta tutte le vostre, e giudicare l'uomo che l'insegna, come si giudicherebbe un traditore verso Dio e verso la natura?

— Rabbì, ancora una volta, non spostare l'accusa che noi portiamo contro te. Tu hai professato, puoi professare ancora le dottrine che meglio ti piacciono; nessuno ti metterà ostacolo. Ma tutto ci ordina di falciare dalla radice la pullulazione di nuovi dii. Le differenze che ci dividono, non colpiscono il cuore della legge. Te l'ho già detto: qualche grado di zelo più o meno nelle pratiche del culto, dei rigori di principii, alcuni cangiamenti di forma, un soffio di vita nuova ispirata qui da Zoroastro, là da Pitagora, altrove da Zenone; una rassegnazione al dominio straniero più o meno paziente, la dottrina della vita oltre la tomba.... tutto ciò non cangia per nulla l'unità del popolo di Dio, la cui missione è sempre stata la ricostituzione dell'unità umana. Tu invece vuoi separarci.

— Sì, lo voglio.

— Lo confessi. Infatti, noi sappiamo che tu hai detto ai tuoi discepoli: «Se alcuno non vi riceve o non ascolta le vostre parole, scuotete la polvere dai vostri piedi, partendo da quella casa o da quella città, [179] ed io vi assicuro che saranno trattate con più severità che gli abitanti di Sodoma e Gomorra. Poichè, non crediate che io sia venuto a portar la pace sulla terra. Io sono venuto a portar la spada, a metter il fuoco sulla terra: ed il mio desiderio è ch'essa bruci. Io porto la separazione, la divisione tra il figlio ed il padre, tra la figlia e la madre; i servitori d'un uomo saranno i suoi nemici; chiunque ama suo padre o sua madre più di me, suo figlio o sua figlia più di me, chi non odia suo padre, sua madre, sua moglie, i suoi figli, i suoi fratelli, le sue sorelle, la sua stessa vita, non sarà mai mio discepolo»[29].

— Io ho detto tutto ciò.

— Tu hai predicato queste selvaggie dottrine perchè tu ti sei alzato rimpetto a Iehovah come suo eguale per dare un nuovo patto al suo popolo. Ebbene, in presenza dello sconvolgimento del mondo politico che Roma ora compie, noi vogliamo conservare l'unità del mondo morale, per non essere completamente assorbiti.

— Sì, gridò con forza il Rabbì, io mi proclamo Dio[30]. Sì, io porto la separazione sulla terra. Sì, io porto un nuovo patto. Se il genere umano si componesse di uomini eletti come voi, la parte di Dio nel mondo, Dio stesso sarebbe superfluo. Ma io miro ai popoli. Ora, qual'è la legge che si è imposta ai popoli e che ha creato delle nazioni, che non abbia [180] avuto l'aria di un'ispirazione di Dio? Mosè non si faceva egli dare le sue tavole da Dio stesso? Numa, che creò Roma, non si faceva egli soffiar le sue leggi da una potenza soprannaturale? Come Mosè e come Numa, io detto una nuova legge. Bisogna che Dio intervenga, e che Dio parli. Io porto una separazione nel mondo, ma gli è il mondo che io separo dalla vostra legge. Mosè vi aveva comandato di riconoscere lo straniero come fratello; voi ne avete fatto un impuro. Il pagano e l'ebreo erano figli dell'istesso Dio per Mosè; voi avete rigettato questo fratello come il delitto e la maledizione. Oggi Rachele, Zipporah, Ruth sarebbero maledette; Giuseppe che aveva sposata la figlia d'un prete egiziano, e Salomone la figlia d'un re d'Egitto, sarebbero espulsi dalle vostre sinagoghe. La vostra legge ha due pesi e due misure. Se il Siriaco perde il suo cammello non può reclamarlo all'Ebreo che lo ha trovato; e l'Ebreo può riprendere colla forza il suo, se l'ha perduto. Se l'Ebreo uccide un Greco, può cercare un asilo a Kedesh, a Sechem, a Hebron; se il Greco uccide un Ebreo, è considerato come degno di morte. Una simile legge è iniqua; io me ne separo. Vi porto un nuovo patto....

— Ma tu non hai insegnato un solo precetto che non sia stato ordinato avanti di te dai nostri padri della sapienza. Mosè, Antigone di Soco, Gesù figlio di Syrah, i profeti, Hillel, Schemaya, Abtalion, il Ietzira, il Zohar, il Battista, gli Esseniani, Giuda bar Bethyra, Jonathan bar Uziel... i nostri rabbini di Gerusalemme e di Alessandria, ed altrove Sakya-Muni, Joe, Confucio... tutti hanno proclamato prima di te, le leggi dell'amore e dell'eguaglianza. Qual è codesto nuovo patto che tu porti? Cosa c'insegni di nuovo?

[181] — Niente. Ma gli altri hanno insegnato, io voglio praticare; gli altri hanno detto: Ciò è buono! io dico: ciò è dovere! Gli altri hanno detto: Credete; io dico: Fate.

— Piuttosto che dire: Fate! sarebbe meglio fare. Tu sei stato educato nella tua infanzia alle scuole esseniane che non fanno mostra d'insegnare, ma praticano. Tu hai veduto nella tua infanzia, nel tuo paese di Galilea, altri dottori che non hanno sprecato la loro voce a ripetere delle dottrine, ad ingiuriare altrui, ma che hanno agito: Giuda di Gamala ed i suoi adepti, i quali, per l'amor della patria, sono morti a migliaia a migliaia sul campo di battaglia e sulla croce. Ecco i dottori che noi veneriamo; ecco i messia che noi ammettiamo. Il mondo si rigenera per l'azione. Quando vediamo in Germania cadere Arminio, Sacrovir nelle Gallie, Tacfarinas nell'Africa, Giuda di Gamala in Galilea, tutti per istrappare il loro paese a questo abbominevole Polifemo di Roma che divora e digerisce popoli e nazioni, noi non abbiamo neppure uno sguardo da gettare ai ribiascicatori di vecchie parabole. Se tu non avessi fatto che questo, non avresti ora l'onore di occupare l'attenzione del gran Consiglio, e dei partiti della Giudea. Ma tu hai un'altra ambizione; noi abbiamo un altro scopo.

— Ma, non mi avete voi mandato a cercare nella Galilea? Non mi avete voi invitato a venir a spiegare la mia opera in Gerusalemme?

— Noi abbiam mandato a chiedere un Giuda di Gamala, e non una melensa parodia di Osiride. Noi avevamo veduto che la bordaglia ti ascoltava, come la ascolta sempre queglino che attaccano l'ordine stabilito dei fatti e delle idee. Noi abbiamo creduto nostro dovere di legalizzare questa forza che commoveva [182] il popolo, e farla convergere alla salvezza della nazione. Ma tu hai tentato d'isolarti; hai sconosciuto i sentimenti, le passioni, i bisogni dei tempi, l'istinto della nazione. Sull'altare che noi avevamo innalzato per un nuovo Giuda Maccabeo, tu hai provato di collocare te stesso sopra un Mosè postumo; e quando ti abbiamo chiesto: chi sei tu? e cosa vuoi? hai risposto con delle ingiurie, con degli equivoci, o con delle inezie che nulla spiegavano.... È d'uopo che ciò finisca. Roma ci spia, e diffida di codesti taumaturghi che si danno come figli di Dio, e figli di Davide, che eccitano le turbe, ed avvolgono i loro progetti nelle nuvole del regno di Dio. Ancora una volta, chi sei tu? cosa vuoi?

Il Rabbì di Nazareth stava per rispondere, allorchè Hannah tutto sconvolto ed esterrefatto entrò nella stanza. Egli si avvicinò a Caifas e gli disse di rientrare nel suo palazzo, poichè egli aveva veduto una grande folla innanzi la sua porta e sospettava che fosse succeduta qualche disgrazia.

Caifas uscì immediatamente. Allora Hannah ci disse che Bar Abbas aveva ucciso Justus, e che egli ignorava la causa di questo delitto.

Questa notizia produsse un istante di diversione alla discussione. Ma Hannah avendo preso il posto di Caifas, l'attenzione si riportò tosto sopra il Rabbì della Galilea, cui Gamaliel costringeva ad una rivelazione definitiva. Infatti il Rabbì, dopo essersi raccolto un istante, rispose:

— Io sono il figlio dell'uomo nel senso dei vostri profeti. Sono Ebreo. Il mio padre terrestre, carico di figliuoli e povero, mi confidò dall'infanzia alla sollecitudine degli Esseniani[31]. All'età di cinque anni, [183] io apparteneva come ogni ebreo, alla legge. A dieci, fui iniziato ai regolamenti ed alle ordinanze. A tredici, io compivo i precetti come gli altri figli del popolo di Mosè. Avrei potuto ammogliarmi a diciotto o a vent'anni. Fui circonciso, presentato al Tempio, e ricevuto come figlio della legge. Portai la mia offerta al Tempio; osservai le feste e mangiai l'agnello pasquale come ogni altro individuo della Giudea. Frequentai la sinagoga, ove fui istruito, ove fui rischiarato sopra la legge; e come ogni altro compiuti i tredici anni, presentai i miei dubbi nelle discussioni pubbliche del Kaal (assemblea). Come Daniele, le mie osservazioni, a quell'età, furono rimarcate[32]. A trenta anni principiai come tutti i miei concittadini ad occuparmi dell'interpretazione della legge, della tradizione, e della cabala[33]. Nella mia infanzia ascoltai la voce dei miei maestri e di Menahem, che diceva: Amate; e la voce di Giuda il Golonite che diceva: Non più padroni; distruggete lo straniero. E vidi migliaia di questi figli della Galilea appesi alla croce dei Romani. Quando all'età prescritta dalla legge, io principiai l'insegnamento, il popolo che udì la mia parola, quelli che videro le mie opere, mi chiamarono figlio di Davide, messia, profeta, figlio di Dio, figlio unico di Dio... Essi l'avevano detto!

— E tu lo ripeti e lo confermi? disse Gamaliele.

— Il fatto rivela l'uomo, rispose il Rabbì. Voi trovate [184] che la mia dottrina è stata insegnata prima di me? La verità è eterna: gli agenti di Dio possono dunque averla intravista. Ma questa parola dei miei predecessori è stata come la pioggia caduta sopra la pietra: è restata infeconda. Io sono in mezzo a voi come la pietra di paragone. Il cielo mi separa dai Sadducei; la terra dagli Esseniani; la nozione della patria, dai Goloniti; l'intelligenza della legge, dai Farisei. Voi tutti, giudicate l'atto; io, interrogo l'anima. Il vostro Dio non è il mio. Il vostro Iehovah è collerico, geloso, severo, e lungo nei suoi castighi; egli cammina nella tempesta; si manifesta con dei terremoti; scaccia Adamo; annega un mondo intero; distrugge popoli e città. Il mio è un padre; là ove il vostro punisce, egli perdona.

— Rabbì, Dio è lo stesso ovunque, o non è più Dio.

— Voi ve lo fabbricate a vostra similitudine. Mosè è il vostro legislatore. Egli è stato legislatore degli atti: io sono il legislatore delle anime. Voi proibite l'assassinio; io proibisco di più: la collera, e l'odio. Voi proibite l'adulterio: io proibisco più di ciò, il desiderio impuro. Voi proibite lo spergiuro: io proibisco l'istesso giuramento. Voi ponete come base del dritto il taglione; io pongo il perdono. Io vengo ad ordinarvi la carità, la riabilitazione del caduto, la mansuetudine. Voi avete degli schiavi; io vengo a ridirvi: gli uomini sono fratelli. Io predico la solidarietà umana; la glorificazione del debole e dell'abbietto: la supremazia dell'interno sull'esterno; la ricompensa dell'opera dopo la vita. Io ordino la communanza dei beni per mezzo della carità. Io vengo ad appianare la via del cielo che voi avete seminata di bronchi e sbarrata di abissi. Io riconosco la perfettibilità della legge, che voi avete cristallizzata nella [185] durezza. Se Dio vede il cuore, a che le pratiche esterne del culto? Dio assorbe l'uomo. Voi arrestate il progresso crescente dell'opera e della dottrina di Mosè; io gli do l'impulsione della vita coll'amore e la libertà del cuore e dell'anima. Io aggiungo la fede al precetto; la passione alla sua propagazione. Io porto la libertà morale.

— V'è bisogno d'un Dio per ciò?

— Sì; Dio solo può ciò. Dio purificato dalla sua paternità, si allarga, si stende, penetra ovunque. Io sono la coscienza di Dio, e ve lo rivelo. Io predico il regno di Dio, il regno dell'amore, della paternità di Dio, che aspira il mondo nel suo alito di benedizione, di bontà, di perdono. Non più intermediarii fra l'uomo e Dio. Il mio culto è quello della purezza del cuore, della fraternità, della reciprocità umana, della dolcezza. Io porto la calma interna. Voi vi preoccupate dell'eccezione: io guardo l'universalità. Voi appoggiate la piramide dell'umanità sulla punta; io la pianto sulla base. Voi considerate le classi: io innalzo il popolo. Ed ora, se la legge nuova che io proclamo, non per gli Ebrei soltanto, ma per il mondo, è un delitto, io sono colpevole.

Queste parole del Rabbì furono seguite da un profondo silenzio. Esse avevano colpito la commissione. Gamaliele però, che sembrava il più pensieroso, rispose:

— Rabbì, bisognerebbe anzi tutto metterti d'accordo con te stesso e fissare la tua dottrina. Un giorno tu dici che sei la spada, il fuoco, che porti la divisione nel mondo; all'indomani ti proclami il servo il più umile, l'agnello, l'apportatore del ramo d'ulivo, ed assicuri che il tuo giogo è soave. Un giorno tu chiami i Gentili ed i Samaritani cani e porci, un altro spalanchi [186] per loro le porte del regno dei cieli, e degni fare per loro dei grossi miracoli. Un giorno accarezzi lo straniero come Mosè; all'indomani lo respingi come noi; lo fuggi. Tu eviti le sue città, dopo aver bevuto l'acqua alla giarra delle sue donne. Cosa vuoi dunque? Questa dottrina di circostanza, non ce ne impone. Israele non manca di dottori. Ma gli è questo forse ciò che ci occorre? Come! tu hai udito l'ardente parola di Giuda di Gamala, hai veduto i suoi compagni attaccati alla croce lungo le vie, vedi la guarnigione romana alla porta del Tempio del tuo Dio, che dico? di tuo Padre! e tu vieni a spacciarti come il Messia delle anime, il Cristo del perdono, ed unisci nell'istesso abbraccio, la vittima ed il carnefice? Come! quando un popolo intero attende col fremito dell'impazienza l'uomo che in nome di Dio lo chiami alla libertà ed alla indipendenza, tu osi dirgli: Hai torto, rendi a Cesare ciò che è di Cesare, obbedisci, taci; tu poni in ridicolo i Farisei, e tu condanni i Zeloti? E storni la corrente delle anime dalla patria, per sparpagliarle nel cielo? Come! quando questi Esseniani i cui principii sono contrarii alla guerra; quando questi Sadducei i cui interessi li invitano alla pace; quando questi Erodiani da cui la riconoscenza e la propria salvezza esigono la continuazione del dominio straniero sopra il suolo nazionale; quando tutti i partiti infine si sollevano, cingono una spada, proclamano giunta l'ora della risurrezione, tu vieni, chiamato da noi, tu vieni a dirci: Io sono Dio, e vi ordino di amare i Romani? Davvero, Rabbì, tu hai ragione: tu non sei di questo mondo, non sei di questo tempo, non sei di queste contrade! E noi dovremmo autorizzare il tuo apostolato della codardia, e permettere l'assassinio di questo popolo? Sì, il nostro Dio [187] è il Dio di Mosè, il vendicatore, fino a che non avremo una famiglia. Egli sarà il padre, quando potremo chiamarci fratelli. Pilato, gli è dunque tuo fratello, o Rabbì? Rimetti nel fodero codeste tue dottrine, che sono quelle dei popoli liberi ed indipendenti. Esse non possono essere per noi: noi siamo gli schiavi dello straniero. Tu predichi l'uomo; noi cerchiamo dei cittadini. Tu ti atteggi a Cristo; noi cerchiamo un generale. Tu ti proclami Dio; noi abbiamo d'uopo di un tribuno che gridi al popolo: Sollevati, Dio lo vuole!

— Io non sono nulla di tutto ciò, gridò il Rabbì.

— Allora sei condannato, rispose Gamaliele.

— Voi volete dunque la guerra.

— Noi vogliamo che tu sii l'eco della nostra voce, il braccio della nostra volontà, la parola della nostra bocca: un uomo-strumento, e non un uomo-Dio.

— Eppure io sono l'uomo-Dio.

— Non spingerci ad esser severi, Rabbì.

— Mio Padre ordina, io obbedisco. Il mio sangue ricadrà sul vostro capo.

— Sia.

Un grido e uno strepito di lotta si fecero in questo momento udire dietro la porta del gabinetto che serviva di comunicazione fra questa stanza e l'appartamento segreto di Hannah. Questi si precipitò per vedere cosa accadesse, mentre noi restammo uniti, fortemente scossi dalle ultime parole del Rabbì.

Ma che avveniva dunque, dietro quel gabinetto?

Ida, accompagnata da Noah, si era recata alla pretesa chiamata di suo fratello, comunicatale da Bar Abbas. Le due giovani donne avevano trovato Bar Abbas alla porta. Egli aveva lasciato Noah nella corte, e condotta Ida nell'appartamento uccidi-pensieri, ove Hannah li attendeva, divorato d'ansietà. Alcuni minuti [188] dopo, Justus venendo alla riunione, nel traversare la corte aveva scorta e riconosciuta Noah. Corse a lei. Noah gli raccontò come Gesù aveva chiamato sua sorella, e come Bar Abbas l'aveva condotta negli appartamenti del sagan, ove il Rabbì doveva incontrarla.

Justus sapeva già che il sagan ardeva di una passione frenetica per la giovine, e che Bar Abbas gliel'aveva venduta. Ora, egli l'amava non meno ardentemente del sagan, ed aveva vent'anni. Un lampo gli rischiarò lo spirito. Il sagan aveva appena indirizzato alcune parole alla giovinetta che Justus, il quale sapeva ove trovarlo, si presentò tutto trafelato, ed annunziò ad Hannah che Claudia lo richiedeva all'istante.

Se la bella e terribile Romana gli avesse domandato una libbra della sua carne, Hannah gliel'avrebbe forse accordata con meno rammarico, che quest'ora cui egli scorciava dalla sua vita per lei. Era impossibile però di rifiutarsi, od indugiare. Claudia non sapeva attendere. Era arrivata nella mattina, e d'altronde poteva avere a fargli qualche grave comunicazione, utile a conoscersi avanti di prendere una determinazione sul Rabbì di Nazareth. D'altra parte, Ida era ora in casa sua, in suo potere; valeva meglio trovarsi da solo a solo con lei, di notte, sbarazzato da ogni altra preoccupazione, e da quegli uomini che a due passi di distanza, decidevano del destino del loro paese.

Egli sospirò, e si decise ad obbedire.

Justus entrò dalla porta del gabinetto oscuro nella sala di riunione. Hannah pregò Ida di attendere il suo ritorno ed il momento di vedere suo fratello. Egli uscì dalla porta del giardino. Bar Abbas, che [189] aveva consegnata sua nipote, ne aspettava il prezzo, nella stanza vicina — vestibolo che conduceva alla scala secreta.

Un quarto d'ora era appena passato dalla partenza di Hannah, quando Bar Abbas udì nella camera da letto del sagan, la voce di sua nipote, ed uno strepito di lotta, e di mobiglie rovesciate. Credendosi giuntato da Hannah, egli aprì la porta, ed entrò per impedire la deteriorazione della sua mercanzia, prima di averne palpato il prezzo. Restò stupidito. Invece di Hannah, vide Justus che stava compiendo la più odiosa violenza sopra la fanciulla, che si dibatteva eroicamente. Preso pel collo da Bar Abbas, Justus gli diede un colpo di pugnale. Ma vedendo alla sua volta luccicare sul suo capo il coltello di Bar Abbas, fuggì. Bar Abbas, colpito soltanto nel mantello, lo inseguì a traverso il vestibolo, lungo la scala secreta, nella corte, fuori della porta, e raggiuntolo nella strada lo freddò di botto con un colpo di coltello, che entrando dalla spalla, gli traversò il polmone. Justus cadde, senza profferir parola: ma dei soldati romani che passavano, arrestarono Bar Abbas e lo tradussero al pretorio.

Ida, restata sola, spaventata, lacerata, vergognosa, non sospettando punto dei progetti del sagan, nel quale non scorgeva anzi che un protettore, temendo di restare in quella stanza, perdendo il capo, stravolta, aprì la porta del gabinetto. In quel momento la voce di suo fratello dalla stanza vicina la colpì. Ogni suo sospetto si dissipò. Si rannicchiò nel gabinetto oscuro, ed ascoltò, aspettando la fine.

Nel frattempo, Hannah si presentava a Claudia. Ella non l'aveva fatto chiamare, ma mostrò piacere [190] di vederlo. Il sagan le raccontò ciò ch'era avvenuto dopo la partenza di lei, e le disse che doveva lasciarla per assistere all'interrogatorio di Gesù.

— Vengo teco, sclamò Claudia.

— È impossibile, rispose il sagan; le nostre leggi proibiscono che una donna, una straniera, assista alle deliberazioni del consiglio delegato dal sanhedrin.

— Da quando in qua, sagan, objettò Claudia, le leggi sono state un ostacolo alla curiosità di una donna? Io voglio vedere, ascoltare, sapere, e decidere da me stessa. Volevo appunto provocare codesta deliberazione, e dare le mie disposizioni. Sono contenta che ciò si trovi fatto più presto che io non pensava.

Tutte le scuse, tutti i dubbi, tutte le difficoltà del sagan non riescirono che ad infiammare il desiderio di Claudia, ed a svegliare i suoi sospetti. Bisognò cedere. Soltanto ella acconsentì ad ascoltare senza vedere, ed Hannah la condusse per la porta segreta del giardino e pel piccolo andito, al gabinetto oscuro ove stava Ida.

Per via egli aveva appreso la sorte di Justus.

Ida, udendo la voce del sagan nell'andito, ebbe vergogna di lasciarsi sorprendere, origliando alle porte. Uscì dunque immediatamente dal gabinetto, ove Claudia s'installava e passando pel quale Hannah entrava nella sala ove noi eravamo col Rabbì e Gamaliel, chiudendo la porta. Il sagan non aveva traversato il suo piccolo appartamento per non svelare a Claudia la presenza d'Ida. Questa aspettò un momento, restò un istante alle scolte, e non udendo più nulla cedette all'invincibile interesse che le ispiravano le mortali lotte di suo fratello col gran Consiglio, [191] e s'insinuò di nuovo nel gabinetto. Claudia vide entrare in quella oscurità un'altra persona e non si mosse. Ma quando il Rabbì ebbe detta la sua ultima parola, quando Gamaliele rivelò la cospirazione contro i Romani, che covava in tutta la Palestina, Claudia pensò che quella persona misteriosa, sopraggiunta lì, a fianco di lei, ne sapeva di già troppo. All'ultima frase del Rabbì, un grido soffocato, o piuttosto un sospiro prolungato sfuggì dal petto della fanciulla. Claudia allora l'afferrò pel braccio e le dimandò:

— Chi sei tu?

— Ah! mi fai male, gridò la sorella di Gesù.

Claudia si ricordò quella voce, e aprendo la porta dell'andito, trascinò seco Ida, e la riconobbe.

— Sei ancora tu? ruggì la terribile romana. Per chi sei tu qui? perchè tremi tu?

Ida perdette la testa. Vedendo quel viso pallido dall'emozione, quelle labbra tremanti, quegli occhi fiammeggianti ribaditi su lei, la Galilea si sentì svenire. Poi senza sapere ciò che dicesse, credendo addolcire la collera di quella donna la cui mano le bruciava la midolla delle ossa, rispose:

— Per Pilato.

— Muori allora, gridò Claudia, cavando dalle sue treccie il suo terribile spillone.

Hannah fermò il braccio omicida. Ida si sottrasse alla stretta di Claudia, e vedendo aperta la porta del giardino fuggì. Una spiegazione corta, netta, cruda, irrevocabile, ebbe luogo all'istante fra Claudia ed il sagan.

— Spezzatemi codest'uomo, gridò Claudia, parlando di Gesù.

— Ma noi l'abbiamo chiamato, gli abbiamo preparato [192] la strada, l'abbiamo alzato nell'anima della folla...

— Ne avevamo bisogno allora; ora è inutile.

— Occorrono però dei riguardi....

— Nessuno.

— Il consiglio non l'ha ancora giudicato, esso non ha ancora deciso....

— Ho giudicato e deciso io. Schiacciatelo.

— Bisogna ucciderlo allora.

— Che lo si uccida.

— Ma il movimento che abbiamo provocato?

— Esso m'è inutile oggimai: soffocatelo, o Pilato lo soffocherà nel sangue.

— Bisogna dunque spegnere quest'anima del popolo che avevamo risvegliata?

— Sull'istante, se si può.

— È irrevocabile?

— Inesorabile.

— Tu rinunzi dunque a tutte le visioni così dolcemente carezzate?

— Ne carezzo una più dolce ancora: Ponzio mi ama ed io l'amo.

— Era dunque per questo che...

— Che? credevi forse ch'e' fosse per te e per i tuoi Ebrei?

Hannah vedeva chiaro alla fine. Entrò precipitosamente nella sala ove noi eravamo, esitanti su ciò che dovessimo fare, sulla condotta che avevamo a tenere verso il Rabbì. Hannah ci ascoltò appena, poscia sclamò:

— «Una parte considerevole del popolo crede senza esitare a tutti coloro che gli promettono la liberazione, e che si autorizzano di pretesi segni o miracoli. Che il Consiglio si mostri dunque attento e risoluto, [193] imperciocchè, se noi lasciamo fare, i Romani che guatano l'occasione, che sono preparati, verranno e distruggeranno la città, il Tempio, la nazione intera. Per quanto rigorosa sia tale necessità, vale meglio che un capo ribelle, che un uomo solo perisca, anzi che il popolo d'Israele tutto intero[34]».

[194]

XXIX.

Lasciando la casa di Hannah, il Rabbì di Nazareth erasi recato da me. Un sentimento di delicatezza lo allontanava ormai da Bethania. Lazzaro, spaventato delle conseguenze di un interrogatorio al quale gli agenti del sanhedrin l'invitavano, per ispiegare la sua singolare guarigione, era sparito, consigliato forse dalle sue sorelle, le quali temevano lo scandalo a proposito del seppellimento precipitoso del loro fratello. Si affaticavano esse a dare una tinta miracolosa alla scena di Lazzaro. Il sanhedrin usava del suo diritto andando al fondo delle cose.

Io aveva avuto un colloquio con Hannah, dopo che tutti erano partiti, ed egli mi aveva raccontato ciò che fra lui e Claudia era intervenuto. Avevamo quindi fisso il piano di condotta definitiva che le circostanze c'imponevano.

Claudia, con una parola, distruggeva i nostri progetti, o piuttosto li aggiornava. Essa cangiava in un intrigo di palazzo il movimento di rigenerazione, che noi avevamo lentamente elaborato, preparato, maturato e condotto alla vigilia di manifestarsi alla luce del sole.

Il Rabbì, che doveva essere una forza impulsiva, diveniva inevitabilmente una vittima, sia che indietreggiasse, sia che avanzasse.

[195] Rinnovai in quella sera i miei sforzi appo di lui, onde deciderlo ad abbandonar la partita per il momento e ad allontanarsi da Gerusalemme. Gli dissi tutto quello che l'amicizia mi consigliava. Gli dichiarai francamente ciò che il mio dovere di cittadino mi imponeva. Non gli nascosi che le truppe romane ci circondavano e riempivano le fortezze Antonia, Mariamne, Phasaelus e David; che nuove legioni accampavano a poca distanza dalla città; che Pilato sapeva tutto, e spiava il momento per schiacciarci; che Pomponius Flaccus desiderava una rivoluzione nella Palestina, onde estirparne gli ebrei agitatori, e ridur tutti alla mendicità. Gli dissi che Hannah andava a dar contrordine ai cittadini di Sion, i quali dovevano principiare il movimento nel giorno del paschah, che Jehu andava ad imporre la calma agli Esseniani; che Menahem annunziava di già ai suoi, che l'affare era rimesso ad altra epoca; che io stesso doveva recarmi da Antipas, all'indomani al suo arrivo, e consigliargli di far restare nel fodero le spade dei suoi Galilei... Non gli nascosi nulla; gli parlai da fratello, come parla un uomo che conosce il mondo ad un uomo che lo conosce male, un uomo calmo ad un esaltato. Non riescii a nulla.

Avverso sempre alla parte di Messia bellicoso, l'unica che in quel tempo potesse avere un senso ed una probabilità di successo, il Rabbì s'inebbriava di fede nella sua parte di rigeneratore della legge. Ci opponeva sempre il suo delirio dell'annientamento, dell'assorbimento del popolo in un delegato o vicario di Dio — a noi, classi nobili, classi ricche, classi sacre, che volevamo una repubblica oligarchica! Carezzava la visione d'essere una specie di Faraone sacro sotto l'immanenza di Dio. Voleva abbattere la [196] gerarchia del Tempio e degli ordini sociali. Noi, invece, volevamo innalzar tutto ciò a potere supremo — autorità nell'alto, libertà nel basso, e non più Romani; mentre il Rabbì non sdegnava di dare al suo Dio umanizzato la guardia di Cesare. Gesù mi ascoltò attentamente. Ma, o non mi credette, o gli sembrò opportuno di emanciparsi completamente da noi. Forse egli confidò nelle sue proprie forze, o gli parve che fosse troppo tardi per dare addietro, o contò sopra un concorso imprevisto, incognito a noi. Comunque sia, la sera egli diè ordine ai suoi discepoli di sobillare le masse, ed intrattenere nelle idee della rivolta i Galilei ed i provinciali che venivano alla festa. Egli poi partì la stessa notte, solo per andar incontro alle carovane della Galilea e della Perea che si recavano a Gerusalemme per la via del Giordano. I suoi discepoli che si consideravano già come assisi su quei dodici troni delle tribù d'Israello cui Gesù aveva loro promesso, lo incoraggiarono nella sua ostinazione. Il mio buon senso sembrava loro una viltà. Esaurii il resto di ragioni che la conoscenza degli uomini e delle cose mi suggeriva, poi li abbandonai al loro destino, preoccupandomi soltanto ormai di attenuare la loro caduta, senza venir meno ai miei doveri di cittadino.

Debbo soggiungere che avendo incontrato Noah nella corte di Hannah, ed avendo appreso che Ida era dal sagan, l'avevamo cercata, l'avevamo trovata in una via recondita dietro il giardino, e che l'avevo alla perfine decisa ad accettare un ricovero momentaneo nella casa un dì abitata da Maria, ed ora vuota, onde sottrarla agli attentati ad alle ricerche di Claudia, la quale, vedendosela sfuggire, le aveva gridato dietro:

[197] — Ti ritroverò!

La sera seguente, Antipas e la sua corte arrivarono nel bel palazzo del sobborgo di Bezetha. Egli sembrò incantato di vedermi; imperciocchè con me e' si spogliava della sua maestà e diveniva un allegro compare. E' si affrettò a mostrarmi i suoi pappagalli, le sue scimmie, i suoi nani, le dotte bestie che aveva acquistate dopo la mia ultima visita a Tiberiade, e che conduceva seco, mescolati tutti insieme, querelandosi continuamente e stuzzicandosi reciprocamente.

— Quando avrò annesso la Giudea e la Samaria alla mia tetrarchia, diss'egli, allogherò tutte queste curiosità nella fortezza Antonia, ed i miei sudditi andranno a vederle. Bisogna pur far qualche cosa per il popolo, al postutto.

— Qualche volta, non sempre osservai io: ciò gli darebbe delle cattive abitudini.

— Inoltre, Giuda, continuò egli, sono innamorato pazzo della figlia di mia moglie. Dal giorno che quella piccina alzò il suo piede al livello del mio naso, io ho le traveggole e non ci vedo che stelle. Quella povera Erodiade fa ciò che può e ciò che non può per distrarmi, non mi rifiuta nulla, si presterebbe a tutte le mie fantasie. Ma io le ripeto quel verso d'un poeta latino cui Ifide, il mio nuovo buffone, mi ha recitato: Teque, duos putas, uxor, habere cunnos[35]?

— Spero che Erodiade non comprenda il latino.

— Le donne sanno per istinto tutte le lingue. Ma vediamo, Giuda, ragazzo mio, parliamo un po' del regno di Davide. Codesto Davide mi umilia. Custodire capre, tirar pietre, far versi, suonar l'arpa, rapire [198] delle donne, poi piangere sui loro baci... non è roba da re, codesta? Io sono il successore di Salomone. Io non fabbricherò un altro tempio al mio popolo; quello che abbiamo c'imbarazza di già mica male. Ma rallegrerò i miei sudditi regalandomi il doppio di mogli e di favorite, che non possedette il re della sapienza. Ti mostrerò che corona mi son fatta preparare e che mantello reale. Io invero, mi vi trovo molto ridicolo. Ma darò ordine al mio popolo di trovarmi sublime; e vedremo. Che diavolo! si ha un popolo alla fin fine per fargli fare ciò che si vuole. Che ne pensi tu?

— Esattamente ciò che ne pensi tu, principe mio.

— Ho anticipato di tre giorni il mio arrivo qui perchè desidero mostrarmi al mio popolo. Ho studiato diverse pose le più favorevoli alla mia persona; ma non sono ancora fisso nella scelta. Il mio damo Teseo vorrebbe che mi mostrassi a tavola. L'idea mi seduce. Vi sto molto bene. Poi ciò indica l'abbondanza, ciò dà pazienza al popolo che ha fame. Bisogna pure aspettare che il suo re abbia pranzato, che abbia digerito... diamine!...

— E contentarsi dei resti, se ne resta. Parli d'oro, o principe.

— Gli è precisamente ciò che mi dice il mio liberto Pallas. Ma, un'idea! Qui, non ci sono che io che mi abbia delle idee. E il tuo Rabbì di Nazareth? Egli non accettò la mia intimazione di venire alla casa Dorata. Codesta gente a parole ha sempre delle fantasie stralunate. Ciò non pertanto, se ha lavorato per me, bisogna bene che lo incoraggi. Che posso fare per lui? Ci pensavo per via. Lo nominerò mio fattore ordinario di miracoli, per cullare allegramente i miei riposi.

[199] — Non hai d'uopo di far nulla, principe. Questo ingrato, questo grullo ha preso la strada falsa. Egli ha rifiutato di servirci.

— Codesti Rabbì sono tutti gli stessi: incorreggibili! Giuda, figliuolo mio, ricordami di proclamare, un di questi giorni, che, nel mio regno, è proibito di pensare. Pensare, è cosa malsana per un popolo. La gente che vaneggia, che si nutrisce male, è intrattabile. Ti devi ricordare di quel Giovanni che si rimpinzava di radici e di grilli. Che ritorni in Galilea il tuo Rabbì, allora: lo farò alloggiare nella gabbia delle scimmie.

— Infrattanto bisogna fare ancor meglio, principe mio: bisogna ordinare ai tuoi sudditi di restar tranquilli, di mangiar sobriamente il loro agnello, e ritornarsene in Galilea. La danza che tu sai è aggiornata all'anno prossimo. Pilato fa suonare una certa ridda ai suoi musici che irrigidisce le gambe. Il Romano sa tutto.

— Malannaggia! Ci saria del pericolo per me qui? Rifletti, Giuda, che al mio ritorno il mio istrione Agesilao deve recitare una nuova tragedia di Eschilo.

— Pilato non oserà intraprendere nulla se non gli si dà l'occasione. Ma bisogna ordinare alle tue genti che venivano preparate per un festino di spade, di rassegnarsi ad aspettare un'ora più propizia. Qualunque cosa accada, che restino impassibili. Credo che il Rabbì di Nazareth li farà provocare....

— Che vi si freghi, che vi si freghi codesto gnocco che ha disdegnato di venire a divertirmi un po' alla Casa Dorata.

— L'è dunque inteso. I nostri progetti sono tutti rimessi all'anno venturo. Pilato ne circonda colle sue legioni, come gli ardiglioni avviluppano l'istrice.

[200] — Eppure! questo ritardo mi secca. Avevo progettato di far danzare Salomè dinanzi al sanhedrin. Volevo dare al popolo di Gerusalemme lo spettacolo di una balena meccanica che inghiotte un Giona maschio e rece un Giona femmina, che pappa un Giona femmina e depone un Giona maschio. Que' piccoli mariuoli, che cantavano così bene ora l'inno in mio onore, sono capaci di trovarsi rauchi l'anno venturo. Avevo fatto comperare per la mia entrata in Gerusalemme la corazza autentica che Giulio Cesare portò nel suo trionfo, dopo Farsalia. L'anno venturo avrò preso dell'adipe e non potrò più metterla: di già la mi pigia le costole. Che diavolo farò delle cinquecento volpi che volevo porre in libertà nella corte dei Gentili del Tempio, perchè portassero al deserto la notizia della mia esaltazione al trono di Salomone? Ma poichè la dev'essere così.... Cenerai meco questa sera, Giuda. Voglio la tua opinione sur un pasticcio che il mio cuoco babilonese ha inventato testè. Ho dei dubbi pel capo che questo scienziato mi dia a mangiare i miei nani disossati. Me ne manca sempre qualcuno, e mi dicono che sono le scimmie che l'hanno divorato.

Per non desolare Antipas, cenai con lui guardandomi bene, ad ogni modo, di gustare quel suo pasticcio sì sospetto. Partendo però, mi assicurai che ai suoi impazienti giovanotti, i quali, secondo la promessa, venivano per battersi, avesse dato l'ordine positivo di restar tranquilli per questa volta, e di non cedere ad alcuna seduzione da qualunque parte loro venisse. Hannah, Jehu, Menahem passarono la stessa parola d'ordine, e la fu ventura.

L'arrivo degli stranieri per la festa principiò all'indomani.

[201] Il paschah era stato fondato in commemorazione della partenza degli Ebrei dall'Egitto. La notte in cui l'angelo del Signore doveva fare il giro e macellare in Menfi il primogenito degli uomini e delle bestie, ogni ebreo aveva ricevuto l'avviso di scegliere un capriolo od un agnello, maschio e senza macchia, di ucciderlo e di tingere del suo sangue con l'issopo la soglia della porta; di arrostire la vittima, e sul cader della notte riunirsi tutti, maschi e femmine, gli abiti succinti, i sandali legati, pronti a mettersi in cammino, prendendo in fretta un pezzo della carne arrostita, del pane azzimo e delle erbe amare. Dopo quella fuga dall'Egitto, ogni ebreo, in qualunque punto della terra si trovasse, ha osservato questo anniversario. Chiunque lo poteva, doveva recarsi al Tempio in Gerusalemme, uccidervi un agnello e pagare la decima ai preti.

Gerusalemme traboccava quindi di forastieri e di provinciali dall'8 di Nisan fino al 24.

Non vi si veniva soltanto per compiere un atto di pietà ma altresì per farvi degli affari. La fiera soppannava la festa. Vi si vendevano derrate, si prendeva a prestito denaro, si scambiavano i prodotti, si combinavano matrimonii, si rendeva o si pagava ciò che s'era mutuato o comperato l'anno precedente; e chi non aveva nè devozione da soddisfare, nè mercanzia da trafficare, veniva per divertirsi. La folla attirava d'ogni parte i giuocolieri, le cortigiane, gl'istrioni, i giuocatori, gli oziosi: si offriva e si comperava il piacere, il lusso, il divertimento — musica, ballo e salmi inclusi. Tutte le case di Gerusalemme si riempivano di ospiti o di avventori. Le pubbliche piazze rassomigliavano ad accampamenti. Le alture che circondano Gerusalemme si coprivano di tende e [202] di capanne fatte di rami; uomini, donne, ragazzi, fanciulle, bestie cornute e bestie da soma, si mescolavano e fraternizzavano. Le ombre della notte nascondevano i misteri più strani, più dolci, più inaspettati. I Galilei si riunivano sul monte degli Ulivi. I viaggiatori del piano di Sharon si attendavano sul monte Gihon. I pellegrini di Hebron occupavano la pianura di Rephaim. Altri piacevansi far capannelli in altri punti. Tutto il mondo giudeo si accalcava intorno al Moriah, ed aveva gli occhi rivolti al Tempio — questo cuore della forte razza ebraica, che fu l'ultima cui Roma spezzò.

I pagani, greci o latini, si recavano anch'essi al paschah, ma per godere dello spettacolo di tutti questi viaggiatori — felice diversione alla monotonia abituale delle nostre città, ove le feste ed i divertimenti erano così rari.

I discepoli del Rabbì avevano influenzato i Galilei. Questi provinciali si piacevan bene a tartassare nel loro contado il Rabbì, ma malgrado tutto, essi ringalluzzavano di vederlo brillare a Gerusalemme. Non sembrava lor vero di far mentire il ribobolo: «Cosa può venire di buono dalla Galilea?» Il Rabbì poi era andato incontro alla carovana che, partendo dalla Perea e dalla Traconitide, paese popolato dai discepoli del Battista, e da altri siti, preferiva la via più lunga e meno sicura del Giordano e delle gole di Gerico, a quella della Samaria, paese da pagani, piamente odiato. Il Rabbì s'era mischiato ai suoi compatriotti, accarezzando i fanciulli, dicendo una saggia parola ai vegliardi, una dolce parola alle donne.

I ricchi viaggiavano sui muli, i poveri sugli asini, le donne sui cammelli, l'uomo di guerra e di governo a cavallo. Il Rabbì, a mo' dei più poveri, viaggiava a [203] piedi. Ma bentosto e' si addomesticò con tutti, ed attirò a sè tutte le simpatie. Quando egli arrivò sulla cima del monte degli Ulivi, l'8 di nisan (sabato 28 marzo), i suoi discepoli, che avevano già data l'imbeccata alle loro conoscenze di Gennezareth, gli andarono incontro con vive grida, e gli resero conto del risultato delle loro pratiche. Il Rabbì parve contento e rassicurato. Lo era egli veramente? Ne dubito. Perocchè egli che metteva come idea madre della sua dottrina l'elevazione della plebe, la disprezzava forte, o piuttosto ne aveva una pietà vicina al disdegno. Non contava dunque su lei. E' non rinunziava però ai benefizi dell'imprevisto, della versatilità delle masse, di un caso fortunato. Laonde e' si ostinò più che mai a tentare un colpo di mano, un colpo di stato contro lo statu quo di Gerusalemme[36]. Si passò la notte a preparare un entusiasmo spontaneo che doveva scoppiare a punto fisso, all'ora determinata, quando i nuovi arrivati si recherebbero al Tempio l'indomani.

L'indomani infatti, due o tre ore dopo il levare del sole, il Rabbì in mezzo ad un gruppo amico di discepoli e di partigiani del Battista, si mise in cammino.

[204] Questa compagnia aveva qualcosa di così solenne, di così specifico, un aspetto così determinato e così misterioso nell'istesso tempo, che colpì tutte le menti. Gli indifferenti le tennero dietro dicendo: Andiamo a vedere. Svoltando la cima del monte degli Ulivi, la città di Gerusalemme si offrì ai loro sguardi. Il sole la bagnava interamente. Un cielo puro come una goccia d'acqua della fontana di Siloam la copriva; un aer caldo l'avviluppava. La primavera circolava già nelle viscere della natura. Gli uccelli cantavano e gorgheggiavano. I fiori si aprivano. L'albero si pavesava di un ricco adornamento per la danza dell'amore, di foglie e fiori. La mammola arrischiava la sua umiltà, affacciandosi timidamente fuori del suo cespuglio. Gli insetti svolazzavano nell'aria come gli sprazzi di un arcobaleno polverizzato. Tutto era bello, era soave, era ricco. La vita sbocciava e si schiudeva all'impazzata. Rimpetto, il Sion ed il Moriah sfrangiavano, tagliavano l'azzurro del cielo, circondati, trincerati dai burroni dei Gihon, dell'Hinnom, di Giosafatte. Lo strepito confuso della vita come il mormorio d'uno sciame d'api, arrivava fino a loro. Intorno alla città in festa, un accampamento improvvisato, esso pure in festa, agitato da movimento febbrile. Ai loro piedi il letto del Cedron secco, pietroso, trascinantesi sopra uno strato di sabbia bianca e rosea traverso i giardini, le tombe, le nude roccie, gli speroni della montagna, taglianti il deserto fino al mare Asfaltide. Quel filo di acqua non mormorava; la frana era cupa; i fianchi delle roccie erano scarni. A mezza via dal monte degli Ulivi al Cedron, la piccola masseria di Gethsemani. Affatto in giù ove il letto del torrente s'apre e sbadiglia, un tappeto di verdura, la fontana di Siloam sì spopolata e le sue torri cadenti.

[205] Al di là della triste vallata, si rizzava la collina di Moriah, coperta dal Tempio, e dirupata — muro di marmo di cui da lungi si potevano contare i massi di pietra enormi, mossi dalla volontà di Salomone, livellati dal genio Tiriano, rialzati in fretta da Nehemia, colonne di porfido e di serpentino, capitelli di bronzo, il tutto coronato dall'edifizio di Erode il Grande. Di fronte i portici di Salomone sui quali colonne di marmo sopra colonne di marmo, la corte dei Gentili, la corte degli Israeliti, la corte delle donne, la corte dei preti, e, come guglia di queste terrazze a gradini, il Tempio, il Santo dei Santi col suo frontone ed i suoi tetti laminati d'oro.

Alla diritta del Tempio, unita alle sue corti da una colonnata, torreggiava la fortezza Antonia, centro della vita e della forza romana, aggrottando il ciglio, spiando il Tempio, e tenendo mezza città sotto il suo corruccio. Più lungi, alla diritta dell'Antonia, sulla stessa sommità della collina dei santi monumenti, ma separato da un fosso naturale, e da mura non compiute, il bel sobborgo di Bezetha, popolato di giardini, di palazzi, di monumenti, in mezzo ai quali splendeva il palazzo di Antipas.

Ai lembi di questo primo piano della città si abbassava la valle dei mercanti che separa il Moriah da Sion, traversata dal ponte Zystus. Al di qua, il palazzo dei Maccabei; e sopra il Sion, più alto ancora del Tempio cui domina, la città di David colle sue vecchie mura, i suoi palazzi, le sue torri, la grande sinagoga, il palazzo di Erode — ora pretorio, — il palazzo di Caifa e di Hannah, le torri d'Ippicus, di Phasælus, di Mariamne; e più lungi ancora l'alta fronte del monte Gareb — uno spicchio di giardini, di brughiere e di tombe.

[206] Questo panorama incantevole e formidabile schierandosi di un tratto dinanzi la vista del Rabbì, che lo considerava ora con altri occhi, lo agghiadò e lo fece impallidire.

— Tutto ciò, fra pochi minuti, o sarà mio, o mi schiaccerà! pensava egli. Ciò mi attira come il mio abisso, o come il mio cielo.

Affrettando il passo, egli principiò a discendere precedendo tutti. Quella stessa vista esaltava anche i suoi discepoli i quali toccavano già della mano la loro preda. Già alcune grida scoppiettavano qua e là. I desiderii cominciarono a ribollire. I più ardenti tagliavano dei rami d'alberi, ed intuonavano dei canti.

Il gruppo ingrossava: il contatto raddoppia la speranza, e dà coraggio all'arditezza. E si avanzavano sempre. Ma alle falde della montagna, alla porta quasi della città, quando il dramma toccava al suo apogeo, sembrò al Rabbì che egli non potesse presentarsi alla testa di quella turba come se la conducesse egli stesso, simile ad un capo di rivoltosi, o ad un porta-bandiera a piedi di un manipolo di contadini. Rizzato sopra una cavalcatura, l'effetto, il significato, la posizione cangerebbero.

— Andate a cercarmi un cavallo, disse egli ai suoi discepoli.

All'istante, Simone e Giovanni si mossero.

Presso la zona del muro orientale della città vi era un podere ed un giardino che si chiamava Bethfagè, con una casa e dei coltivatori. Ogni benestante in Giudea possiede per lo meno un asino. Simone non trovò un cavallo, ma trovò meglio che un cavallo, un'asina ed il suo piccolo. Dimandò al coltivatore di prestargliela; e questi avendo appreso [207] di che si trattasse, prestò l'asina e seguì il corteggio.

Il Rabbì portava ordinariamente la tunica bianca degli Esseniani, ed un mantello azzurro con le onde dell'Asfaltide. Egli era lindo, accurato, civettuolo ed aveva un gran rispetto della sua persona. I suoi discepoli indossavano i colori amati dai Galilei, la tunica bruna o celeste, il mantello ciliegio, color feccia di vino o di robbia. Giovanni, bel giovane di diciotto a vent'anni, pieno di pretese, ricco, vanitoso, si pavoneggiava in un mantello color di robbia; Simone in un mantello feccia di vino. Tutti due si levarono i loro vestiti, e ne addobbarono l'asina. Gli altri discepoli fecero dei loro mantelli una specie di seggio sul quale intronarono il Rabbì. Maria di Magdala e le altre donne seguivano da lungi. Quando questi apparecchi furono finiti, si varcò la porta delle Acque.

Allora i discepoli principiarono a gridare:

— Osanna al figlio di Davide!

— Benedetto sia colui che viene in nome del Signore!

— Osanna al re d'Israello![37].

Erano già nella città.

Il sole segnava mezzogiorno nel cielo.

Gerusalemme aveva 80,000 abitanti. Era l'ora in cui gli affari finivano, in cui il popolo si riscaldava al sole per le vie, in cui si raccontavano gli avvenimenti del giorno e della vigilia, gli aneddoti del Tempio e del palazzo di Erode. Le strade affollate, le case ripiene, le piazze ingombre: tutto pareva favorevole all'impresa. Chi non avrebbe per sentimento, [208] avrebbe seguito per curiosità; chi non si porrebbe alla finestra per applaudire, lo farebbe per vedere. La folla crea l'opera. Il Rabbì ed i suoi discepoli vi contavano.

Ahimè! il loro disinganno fu terribile.

Eccettuate alcune dozzine di biricchini, la folla restò fredda, ironica, motteggiatrice. Ebbero paura, ricordandosi la mischia per l'offerta? O deridevano l'impresa da campanile di quei provinciali? Od obbedivano alla parola d'ordine ricevuta? Fatto sta che nessuno si mise o restò alle finestre, nessuno si mosse, nessuno gridò, nessuno li seguì, nessuno chiese di che si trattasse — eccetto qualche straniero di Sidonia, di Tiro, degli Egiziani o dei Babilonesi — pagani insomma.

— Cosa è codesto? chiedevano costoro.

— Come! non sapete? sclamavano i discepoli: gli è Gesù, gli è il profeta di Nazareth in Galilea.

E si gridava più forte ancora:

— Osanna al figlio di Davide, osanna al re d'Israello!

Passando sul Zistus, incontrarono taluni di buon senso, i quali, vedendo quella misera dimostrazione, consigliarono:

— Rabbì, falli dunque tacere codesti sussurroni.

— Se essi si tacciono, rispose il Rabbì vivamente indispettito, grideranno le pietre.

Il fatto è che nè le pietre, nè gli uomini gridarono; e che il corteggio assottigliandosi di più in più, a misura che l'indifferenza o il motteggio lo colpivano, arrivò molto ridotto al Tempio. Là il coltivatore riprese la sua asina, i discepoli i loro abiti, i Galilei i loro affari, ed il Rabbì si stabilì sotto il portico di Salomone pronto a principiare un sermone.

[209] Gli uditori non vennero.

Il Rabbì si trovò isolato. I suoi discepoli si sparpagliarono sconcertati, disingannati. Un'immensa tristezza piombò sull'anima del maestro. Egli lasciò il Tempio e si rifugiò sotto una qualche tenda in cima agli Ulivi, mormorando: «Dio mio, salvami da questa ora!»

Un'aspra battaglia si combattè la notte nello spirito del Rabbì. Lo scoraggiamento, l'esitazione, la sfiducia principiarono[38], la collera vinse.

Fallito il colpo del dì precedente, all'indomani ne tentò un altro al Tempio.

Il Tempio, durante gli otto giorni che precedevano e seguivano la festa, rassomigliava ad un mercato. Qui, quelli che cambiavano la moneta romana in moneta sacra, agenti dei sacerdoti; là, dei mercanti di tortorelle e di piccioni; più lungi, dei venditori di agnelli e di capretti; altrove, due piccole botteghe di fior di farina e di olio. Tutto questo però limitato alla prima corte, detta dei Gentili, alla quale si scendeva per quattordici gradini. Su quel terreno neutro era permesso comperare e vendere. La corte dei Gentili era separata da quella degli Israeliti da tre file di gradini, ed una balaustrata ad altezza d'uomo, forata da diverse uscite. I mercanti non potevano varcare quella separazione. Accadeva nonpertanto talvolta che, in quei giorni di folla e d'ingombro, i [210] sergenti del Tempio per ordine del gran sacerdote e del capitano lasciassero correre.

Nulla ostante il Tempio non appartenendo ai sacerdoti ma alla nazione, ogni Ebreo vi aveva diritto di polizia, e poteva far rispettare la legge ed i regolamenti.

Qualche poveri venditori di tortore, ed alcuni cambisti, spinti dalla folla cui lo spazio non poteva capire, avevano invaso un poco la corte degli Israeliti. Arrivando la mattina nel Tempio, con lo spirito esaltato ed il cuore esacerbato, il Rabbì osservò questi profanatori. Corse a loro e respingendoli bruscamente, li rigettò al di là della balaustrata, gridando:

— Toglietemi via codesto, e non fate un mercato della casa di mio Padre.

Quella povera gente, che non sapeva se egli avesse o no l'autorità di agire così, o che, sapendolo, riconosceva il suo torto, si ritirò. Ma dalla parte dei sacerdoti che soli si credevano padroni del sito, la sorpresa fu grande. Accorsero. Forse non sarebbero stati dispiacenti di vedere il popolo resistere e rispondere alla violenza con la collera. L'attitudine rassegnata di quei mercanti li sorprese più dell'atto del Rabbì. Allora il capitano del Tempio si limitò ad objettare tranquillamente:

— Con qual diritto agisci tu così? Sei forse Hannah? Sei Caifa? Sei Simeone? Chi sei tu? Chi ti ha data codesta missione?

— Mio Padre, rispose il Rabbì sempre più irritato. Questa è la casa di mio padre, e non la vostra. Distruggete questo Tempio fatto da mani umane, ed io lo riedifico entro tre giorni.

Uno scoppio di risa da un lato, un grido di furore dall'altro, accolsero questo gricciolo di Gesù.

[211] Il capitano si contentò di rispondere freddamente ed in tuono di scherno:

— Si son messi quarantasei anni a costruire questo Tempio. Quanto tempo perduto, poichè tu l'avresti alzato in tre giorni.

Ora, il Rabbì aveva commesso il più impolitico atto della sua vita.

Fino allora, egli aveva offeso i partiti, i sacerdoti, la società ricca e potente. E' feriva adesso il popolo, nei poveri venditori di mercanzie sacre. Egli meditava di confondere i sacerdoti come gente che tirava partito da quella profanazione del Tempio. Il popolo prese l'insulto per proprio conto, e non perdonò mai più all'audace Rabbì. Egli aveva compiuto un fatto, e detto una parola, che avevano colmata la misura.

All'indomani, il sanhedrin si riunì da Caifa per prendere una risoluzione definitiva.

Malgrado ciò, mentre il gran consiglio lo giudicava senza appello, il Rabbì ritornava nel Tempio per continuare la sua polemica contro i Farisei.

Certo, i nostri profeti sono inesauribili in ricchezza di imagini, in parole insultanti, in ingiurie; ma il Rabbì raggiunse l'ideale nelle sue prediche del 10, 11 e 12 nisan. Egli ebbe però un bel fulminare, denigrare, deridere, la folla non lo circondava più. Il popolo non si accalcava più intorno a lui. Il soffitto scolpito dei portici di Salomone assorbiva le sue parole e non ne ripercoteva più l'eco.

Il sanhedrin aveva già emanato un altro ordine d'arresto contro di lui. S'indugiò non pertanto ancora ad eseguirlo, per sottoporre la sua condotta ad un nuovo esame.

Vi erano ormai due fatti capitali che gridavano [212] contro di lui: «1.º Non solamente egli non rispettava il Sabato, ma si faceva eguale a Dio[39]; 2.º al suo entrare in Gerusalemme egli si era proclamato re dei Giudei, figlio di Davide.[40]».

Egli era dunque empio e ribelle, aveva offeso Dio e Cesare.

Il gran consiglio era responsabile davanti Dio della legge di Mosè, davanti Pilato dell'ordine pubblico.

Ora, giammai colpevole non si era presentato con due delitti così grandi, e con delitti così recisamente definiti e provati. La sentenza d'arresto fu pronunziata. Ma come la conseguenza del giudizio conduceva inesorabilmente ad una condanna capitale; come il primo articolo del simbolo fariseo suonava: Siate lenti nel giudicare (estote moram trahentes in judicio); come si pronunziavano sempre a malincuore quelle sentenze che obbligavano il senato a ricorrere all'autorità romana per farle eseguire: e' si metteva sempre un intervallo di ventiquattro ore fra la promulgazione della sentenza e la sua conferma che la rendeva definitiva. Il sanhedrin condannò dunque il Rabbì il terzo giorno, 11 nisan (martedì 31 marzo): ma esso si riunì di nuovo all'indomani, 12, onde dichiarare esecutorio il mandato. Nonostante il consiglio diede ordine di non precipitar nulla, prima perchè quegli uomini erano gente istruita e tollerante, poi perchè si voleva evitare l'occasione di un tumulto, arrestando un Rabbì abbastanza popolare, al momento in cui i suo compatriotti occupavano la città in sì gran numero.

Io ricevetti comunicazione della sentenza dal sagan, [213] e mi recai dal Rabbì onde istruirlo del fatto, e scongiurarlo ancora una volta di allontanarsi. Egli era ancor libero di ritornare in Galilea o in Perea, di andare dovunque e' volesse.

La mia proposizione fu accolta freddamente, sdegnosamente.

Il Rabbì mi riteneva l'autore principale dello scacco del suo ingresso a Gerusalemme. Io non lo era. Ma se il mio dovere di cittadino me lo avesse imposto, io lo sarei stato realmente. Per tutta risposta, il Rabbì m'invitò a cena con i suoi, l'indomani sera, 13 nisan (giovedì 2 aprile). Nella giornata, e' non comparve al Tempio e non discese neppure a Gerusalemme. Delle spie del consiglio lo aspettavano a tutte le porte della città. Si era deciso di non impadronirsi di lui durante il giorno, mentre era in mezzo ai Galilei. In tutto quel dì, io non incontrai alcuno dei suoi discepoli. Scorsi soltanto Maria di Magdala, vestita da donzello. Quel nobile cuore spiava gli spioni del sanhedrin, affinchè il Rabbì si tenesse in guardia.

Andai a vedere Ida, onde avvertirla del supremo pericolo in cui versava suo fratello.

La povera creatura non poteva nulla. Ella non sapeva neppure ove suo fratello si nascondesse. Finalmente giunse la sera.

[214]

XXX.

La giornata era stata pel Rabbì un altro giorno di combattimento. Memorie e paure, dubbi e speranze lo indebolirono; un amore immenso, e un immenso disprezzo, volta a volta e ad un tempo, commossero le sue viscere. La vita, che da lui si accomiatava, spiegava dinanzi ai suoi sguardi tutte le sue feste, tutti i suoi dolci incanti; la morte, come un punto d'interrogazione dell'infinito, che toccava il cielo e la terra, si rizzava dinanzi a lui. Ebbe paura; sperò; cercò di fuggire; si abbiosciò; si rialzò; tremò ancora; si contenne; reagì; e la sera quando scese in Gerusalemme era ancora arrovellato dalla febbre. Uscì dalla capanna, ove aveva passato la giornata con sua madre, e con quelle donne equivoche che lo seguivano ovunque, e che provvedevano alle sue spese[41].

Il sole si coricava dietro il Moriah. Il sanhedrin [215] aveva posto i suoi agenti sorveglianti alle dodici porte delle quattro parti della città affine di seguirlo in qualunque sito egli andasse, e d'impadronirsene nel suo ricovero notturno. Il Rabbì era molto conosciuto dagli ufficiali del Tempio, e da coloro che lo frequentavano. Quindi lo si vide passare per la porta dorata, e lo si accompagnò fino alla casa di Nahum bar Lotan nel quartiere di Ofel, ove Simone e Giovanni gli avevano preparata la cena. La notte scendeva.

Durante tutta la cena, il Rabbì si mostrò molto agitato (egli fu vivamente turbato nel suo spirito, dice Giovanni, XIII, 21). Divagò nei suoi discorsi, per balzi ora pieni di unzione, ora pieni di asprezza. Non mangiò quasi nulla, ma esaminò con uno sguardo inquieto e scrutatore il contegno dei suoi discepoli. I suoi occhi si fermarono sopratutto su di me, carichi di una tal collera, di un tal odio, che io ne rimasi colpito. Che aveva mai contro di me? Alla fine trascinato dalla foga della sua lotta interna, sclamò:

— Uno di voi mi ha tradito.

Questa parola formidabile ci sembrò quasi insensata. Ci guardammo tutti l'un l'altro, non per sorprendere sul viso del traditore le emozioni del tradimento, ma per domandarci se il Rabbì non delirasse. Gli dimandammo tutti, com'era naturale, l'un dopo l'altro: Sono io, Rabbì?

Arrossì e non rispose. Nondimeno m'accorsi che dei sospetti indegni lo esacerbavano contro di me.

Gli sforzi che io aveva fatto per salvarlo, i consigli [216] salutari che gli avevo dati onde metterlo in avvertenza, ed impegnarlo perfino a lasciar Gerusalemme, erano stati interpretati in modo sinistro. Io mi sentiva profondamente ferito, insultato nel mio onore e nella mia lealtà. Rimisi le ulteriori spiegazioni ad un momento di calma, e da solo a solo; imperciocchè i suoi discepoli non comprendevano nulla della situazione degli uomini e delle cose.

Partiti dalla provincia, colle piccole ambizioni del villaggio e le grandi avidità del basso popolo, quei pescatori e quei pubblicani non avrebbero potuto apprezzare l'attitudine dei partiti in Gerusalemme, il contegno delle alte classi rimpetto ai Romani, l'istinto del popolo ebreo in faccia allo straniero. Il Rabbì non aveva egli detto forse quella parola mostruosa, insultante, crudele anche: «Rendete a Cesare ciò che è di Cesare?».

I patriotti della Gallia e della Germania avevano un altro linguaggio.

Uscii dunque dalla sala, senza nascondere il mio sdegno al Rabbì, e gettandogli uno sguardo di provocazione. Egli lo comprese, ma di traverso ancora, poichè mi gridò dietro:

— Fa presto quello che devi fare.

Sorrisi di sprezzo: ma mi sentii colpito di un altro quadrello al cuore. Varcando la porta della strada, incontrai Maria, sempre vestita da uomo. Erano le due ore di notte. Ella mi mostrò due agenti del Tempio accoccolati dietro una casa, gli sguardi inchiodati sulla porta.

— Essi l'aspettano, mi diss'ella.

— Tanto peggio, risposi, io non posso più nulla. Il Rabbì ha le vertigini.

— Ma tu cos'hai? Tu sei furibondo.

[217] — Il peggiore di tutti i supplizii, ragazza mia, è quello di vederci in mezzo a ciechi, che vi credono cieco come loro.

Maria mi prese le mani, e soffocata dalle lagrime mi disse:

— Giuda, ancora uno sforzo: salviamolo suo malgrado.

Questo accento d'un immenso amore, d'una tenerezza infinita ed ingenua mi commosse, e mi calmò ad un tratto.

— Nessuno, le dissi, può revocare la sentenza del sanhedrin, altri che il sanhedrin stesso. Esso nol farà, non lo potrebbe nemmeno, dopo le considerazioni che l'hanno deciso ad emetterla. Vi sono però due uomini che possono ancora salvarlo, se il Rabbì vuole prestarsi a motivare la loro indulgenza; essi sono Hannah e Pilato. Recati nella tua antica dimora a Bezatha ed annunzia alla sorella del Rabbì che suo fratello è perduto, se ella non piega Pilato alla clemenza. Per mia parte, io me ne vo ad agire sul sagan. Poco spero. Però non voglio avere il rimorso di essere stato negligente.

Io le diceva queste parole, allorchè vedemmo il Rabbì ed i suoi discepoli uscir dalla casa, e nello stesso tempo i due uomini appiattati nell'ombra avanzar fuori e seguirli da lontano. Noi pure li seguimmo fino alla porta della Vallata. Maria s'avvicinò al Rabbì e gli disse che gli agenti del Tempio lo spiavano. Egli non le rispose, e continuò la sua strada. Maria l'accompagnò fino al pressoio del monte degli Olivi; poscia, secondo il nostro accordo, ella si recò prima da Ida, e poi venne ad aspettarmi alla porta del palazzo di Hannah.

Il sagan era desolato della sorte del Rabbì. La nostra [218] partita contro i Romani era aggiornata, ma non abbandonata; non potevamo quindi veder un uomo come il Nazareno, che poteva divenire, malgrado tutto, una forza nazionale, perdersi in un momento di allucinazione. Hannah ed io eravamo convinti che egli avrebbe finito col comprender meglio la situazione, e che avrebbe barattato la sua parte di riformatore morale, per quella di agitatore politico. Noi discutevamo dunque ancora sul mezzo di salvarlo, senza oltraggiare nè la legge, nè il gran consiglio, nè la sentenza pronunziata, nè il sentimento popolare, conversavamo ancora sui sospetti che l'entrata del Rabbì in Gerusalemme e le sue parole imprudenti avevano destati in Pilato, quando un membro del sanhedrin venne a raguagliarci di ciò che era accaduto.

Gli agenti del Tempio avevano accompagnato il Rabbì fino a Gethsemani, e si erano assicurati che egli vi passerebbe la notte; poichè i suoi discepoli si erano coricati nella corte, e aggrovigliati nei loro pastrani russavano pacificamente. Uno di questi agenti ne aveva dato notizia a Caifa, il quale aveva fatto immediatamente partire una o due dozzine di guardie del Tempio, armate dei loro bastoni. Ma arrivati sul sito, l'ufficiale che li conduceva aveva osservato alcuni sintomi inquietanti. Anzitutto taluni di quei discepoli avevano delle armi più serie dei bastoni; poi essi erano tutti là, ed una dozzina di uomini validi, di quella provincia di Galilea così battagliera, così rissosa, non doveva lasciare agguantare il suo Messia, figlio di Dio, e Dio, senza opporre una resistenza accanita; finalmente, Gethsemani era ad una mezz'ora dall'accampamento dei Galilei, e si vedeva al chiaro di un'ammirabile luna piena, che vi regnava ancora un gran movimento, e che gli uomini [219] non vi dormivano ancora. Se dunque s'impegnava una lotta, non accorrerebbero probabilmente i Galilei in ajuto dei loro compatriotti? Non considererebbero essi come una vergogna di lasciar arrestare il profeta del loro paese, il loro concittadino, che gli uomini della città, forse per gelosia, si affrettavano a far disparire? Da queste ed altre considerazioni, l'ufficiale che comandava la brigata del Tempio aveva dedotto la necessità di richiedere l'ajuto della forza militare romana, alla quale nessuno avrebbe osato resistere, perocchè ciò costituiva un delitto di lesa autorità di Cesare, ed era inesorabilmente punito.

Caifa, apprezzando queste ragioni, aveva fatto chiedere al comandante della fortezza Antonia un rinforzo, che gli fu accordato senza esitare, e che stava per mettersi in via immediatamente. Questa notizia fissò i nostri progetti. Hannah mi diede un ordine pel comandante della brigata del Tempio, col quale gl'ingiungeva di condurre da lui direttamente il prigioniero. Poi io doveva arrivare fin presso al Rabbì e prevenirlo segretamente d'opporre una negativa assoluta, a tutte le domande che gli sarebbero state indirizzate dal sagan, nel caso che, al momento del suo arrivo, si trovassero con lui altri membri del sanhedrin.

Io non sperava alcun buon risultato da queste pratiche, conoscendo la cattiva impressione che i miei consigli producevano sul Rabbì. Pure non esitai ad incaricarmene. Maria, che mi aspettava, mi indicò il sito ove il Rabbì dormiva quella notte, e venne insieme con me.

La notte era bella ma fredda, ed io scorgeva quella povera creatura tremare sotto la tunica leggera e frusta che aveva potuto procurarsi. Le porte del Tempio, [220] che si aprivano a mezzanotte la vigilia del paschah, stavano per aprirsi; un gran movimento quindi principiava nelle strade.

In tempo di festa, le porte della città non si chiudevano: però, al di là della cinta, tutto era tranquillo. I rumori misteriosi della notte riempivano l'aria; ogni albero, ogni cespuglio, ogni siepe assumeva una forma ed un'attitudine. Il brulichio della lontana vita risvegliava degli strani echi. Camminavamo lesti. Io udiva i battiti del cuore di Maria soffocare il suo respiro accelerato. Non una nuvola nel cielo, non una stella assente; la luna cantava il suo splendore.

Ad una cinquantina di passi dalla cascina, di cui scorgevamo la siepe, si rizzava un gruppo di olivi vecchi ed asserrati. I rami, curvandosi sul suolo, facevano quasi una vôlta sulla strada che da quel sito conduce al pressoio. Là il chiaro di luna filtrava appena, e la terra rossastra pareva scura. Traversavamo quel punto della strada, allorchè ci sentimmo afferrare pel braccio. Maria, vergognando del suo travestimento, fece uno sforzo, e lasciando nelle mani delle guardie del Tempio dei brani della sua veste, se la svignò. Io restai preso. Condotto dinanzi al capo gli mostrai l'ordine del sagan. L'ufficiale lo lesse, e mi disse: Sta bene!

Ma non mi permise di continuar la mia strada. M'accordò soltanto di accompagnarlo.

In quello stesso momento arrivarono i soldati romani.

Ci avanzammo allora alla porta del pressoio.

Le guardie del Tempio circondarono il sito. I Romani si presentarono all'entrata. Le loro armi avevano fatto dello strepito. La porta della cascina si aprì, o meglio si socchiuse, ed una testa si mostrò [221] per vedere ciò che avveniva al di fuori. Seguì un istante di silenzio. Noi stavamo alla porta. In quel momento degli uomini traversarono la siepe per di dietro e scapparono, ascendendo il sentiero che conduceva all'accampamento dei Galilei. Le guardie li inseguirono per qualche tempo, poi furono richiamate dal suono del corno del loro capo.

Erano i discepoli che abbandonavano lestamente il Rabbì e fuggivano! Gesù, che non dormiva, che aspettava forse i soldati, che avrebbe potuto fuggire come gli altri, restò, ed aperta la porta a due battenti, dimandò:

— Non cercate voi forse il Rabbì di Nazareth?

— Sì.

— Son io: eccomi.

I soldati e le guardie che temevano una certa resistenza, sospettarono a bella prima un agguato. Io mi avvicinai al Rabbì, ed a voce bassa, in vecchio ebreo gli dissi all'orecchio[42]:

— Il sagan vuole salvarti: nega tutto se non è solo.

Il Rabbì non mi rispose, e rinculando da me, si avvicinò all'ufficiale romano, e soggiunse:

— Son pronto, andiamo. Ma perchè mi trattate come un malfattore, e venite ad arrestarmi di notte, a mano armata, mentre io era con voi ogni giorno nel Tempio, e che vi era così facile l'impadronirvi di me?

Questa tranquillità, questa spontaneità sedussero [222] il centurione romano. E' diede ordine di mettersi in cammino conversando col Rabbì che gli camminava vicino, preceduto dalle guardie del Tempio, e seguito dai Romani. Per nulla sorpreso dell'accoglimento che avevo ricevuto dal Rabbì, lo precedetti dal sagan. Era la mezzanotte. Hannah ci attendeva ed era solo. Potevamo dunque parlare liberamente.

— Rabbì, gli disse il sagan, dopo aver licenziato le guardie all'anticamera, e facendolo sedere, tu sai di che ti accusa il sanhedrin?

— Per nulla.

— Tu hai detto: «Io sono il pane disceso dal cielo; nessuno è asceso al cielo, se non quegli che ne è disceso; quegli che è venuto dall'alto, è al disopra di tutti.... Io sono disceso dal cielo, vengo da Dio, e ritorno da mio Padre; tutto ciò che il Padre fa, il figlio fa pure; come lui, come il Padre, il figlio ha la vita in sè stesso. Mio Padre ed io siamo la medesima cosa; chi vede me vede anche mio Padre[43].» Tu dunque ti sei fatto Dio?

— Io mi son fatto Dio.

— Hai detto ad un ammalato a Cafarnaum, continuò Hannah: «I tuoi peccati ti sono perdonati.» Tu hai per tal modo usurpate le attribuzioni di Dio, che solo può perdonare i peccati. Tu dunque sei empio davanti la legge ebrea, ed hai meritato la morte per lapidazione.

— Ho perdonato i peccati, rispose il Rabbì.

— Hai detto altrove, riprese il sagan. «Il mondo è giudicato; i principi di questo modo saranno [223] scacciati[44].» Tu ti sei fatto proclamare re, figlio di Davide, ed hai tentato di far insorgere Gerusalemme. Sei dunque colpevole dinanzi a Cesare, e condannato ad essere crocifisso.

— Sono pronto.

— Noi vogliamo salvarti: aiutaci a trovarne il mezzo.

Il Rabbì fu colpito da questa proposizione: arrossì, impallidì, la sua respirazione divenne affannosa. Egli era in procinto di piegare, ed abbandonarsi a noi. Un sospetto gli traversò lo spirito. Dubitò d'un tranello, e serbò il silenzio. Il sagan lo comprese, ed aggiunse:

— Noi abbiamo intrapreso un'opera che deve o salvare o perdere completamente la nostra patria, perdendoci con essa. La rassegnazione che dimostriamo pel dominio straniero, è finta: noi vogliamo addormentarlo. La soddisfazione che noi delle classi elevate mostriamo per la nostra posizione, sarebbe un'infamia se la non fosse una menzogna. Noi non abbiamo mai, in nessun caso, in nessun tempo, tradito il nostro paese, mancato alla sua chiamata, fallito ai suoi bisogni. Noi cospiriamo del sorriso. Scaviamo un abisso sotto i passi dello straniero, coprendolo di rose. Cesare crede, ed il popolo ebreo pensa, che noi dormiamo nei nostri palazzi, che ci inebbriamo alle nostre tavole, che conduciamo una allegra vita nei nostri giardini, colle nostre mogli e colle nostre favorite; ed invece noi discutiamo in qual modo compiere la perdita del Romano. Per l'essere noi i primi fra i servi, siamo noi meno servi? E noi siamo stati i padroni quando il popolo della Giudea era libero! Noi nol dimentichiamo. Noi vogliamo esserlo ancora, avvenga [224] quello che può avvenire. Il dominio dello straniero è per noi l'incertezza: il padrone cambia; cosa sarà domani di noi? Poi, noi siamo Ebrei, e non Latini. Abbiamo soccombuto quando eravamo deboli; perchè rinunceremmo a divenir forti, e a prendere la rivincita? Ecco l'opera che noi tramiamo in silenzio, lentamente, con precauzione, raccogliendo tutte le bricciole della forza nazionale, sotto non importa qual forma essa voglia rivelarsi e venire a noi. Rabbì, noi non ti respingiamo. È contro i nostri interessi il perderti. Tu puoi esserci utile un giorno, quando avrai meglio compreso l'istinto nazionale, il bisogno, la volontà del paese. Accetta la parte che ti diamo; aspetta l'ora che ti fisseremo; limita il tuo campo d'azione a quello che ti indicheremo, e cerchiamo insieme di farti uscire dalla disgraziata posizione in cui ti sei gettato alla cieca.

Queste parole leali furono come luce pel Rabbì, ma esse furono causa altresì della sua disperazione. Egli riflettè, poi rispose:

— È impossibile. Ciò che tu mi proponi è sempre la morte. La morte naturale, o la morte morale, la morte di domani, o quella di dopo domani, che monta! Tu mi proponi di perire in ogni modo.

— T'inganni.

— Io mi sono rivelato al mondo come l'inviato di mio Padre; ho annunziato alla terra una parola del cielo. Voi mi proponete di dichiarare che ho mentito. Chi mi crederà il giorno in cui verrò a portare un'altra novella? Voi volete salvarmi, vale a dire, voi volete esiliarmi dal suolo della Siria. Poichè ove potrei io vivere senza incontrare uno sguardo che non mi lanci un rimprovero, una coscienza che non m'accusi di aver cercato di sedurre il popolo colla [225] menzogna? Non si dirà ovunque che io sono un ciarlatano? Voi invocate la salvezza della patria. Io non credo alle patrie. Gli uomini, figli dell'istesso Dio, sono fratelli, e la terra appartiene all'umanità. Che m'importa che sia il Romano, il Greco o l'Ebreo che occupa questo angolo del suolo della Palestina, se io trovo in lui un amico, un aiuto, un conduttore, se egli obbedisce alla stessa legge morale, allo stesso Dio? Io non comprendo la politica, la libertà, l'autorità dell'uomo sull'uomo: io comprendo l'eguaglianza di tutti, sotto la supremazia di Dio. Che m'importa che il mio padrone si chiami Tiberio, Erode, Faraone, o Salomone, se è un padrone? Or di padroni io non ne conosco che uno, quegli che assume la rappresentanza di Dio sulla terra e lo imita per la misericordia e la verità. Il Romano non è mio nemico: io non combatto che il malvagio, e colui che si impone alla mia coscienza. Le vostre vanità di classi e di razze non mi toccano punto; io le ignoro: esse sfuggono alla mia intelligenza.

— Rabbì, rispose pacatamente il sagan, non è più il momento di discutere. La mosca non chiede al ragno: perchè mi prendi nella tua ragnatela? Tanto peggio per la mosca se non si sforza di stracciare la tela in cui è presa, e se non cerca di fuggire. Noi ti offriamo di essere con noi, padroni o martiri, come avverrà. Saremmo sciocchi se ti permettessimo di essere contro di noi, di fare diversione al nostro intento per un altro intendimento che disdegniamo di analizzare. Tu non comprendi la patria, non comprendi la nazione, non comprendi la libertà; ammetti lo schiavo; chi sei tu dunque? Tu ci proponi la mostruosa autocrazia di Dio, incarnato in un [226] uomo....[45] Codesto è delirio! Tu non sei degno di vivere.

— Perciò io non lo chiedo punto, disse Gesù.

— Però rifletti ancora, o Rabbì, durante questi pochi minuti che la mia benevolenza ti accorda. Tu hai una madre, una sorella, degli amici, sei ancora giovane, hai uno spirito elevato, un grande tatto, molto sapere e una grande confidenza in te che prende tutte le forme della fede. Un avvenire sorridente ti stende le sue braccia. Se tu scadi oggi, ti rialzerai domani sotto un altro aspetto; le circostanze creano l'uomo. Tu non sarai più il figlio di Dio; ma puoi ancora essere il padre dei Maccabei, che rovescia l'altare dell'idolo, ed uccide il primo infedele. Questa parte ti sembra dunque troppo meschina? Noi avremo dei riguardi per te. Non ti chiederemo conto della divergenza delle tue idee e delle tue dottrine dalle nostre; se ci accordiamo, bene inteso, su questi due punti: rispetto alla legge fondamentale di Mosè: odio ai Romani.

— Odio per nessuno, interruppe il Rabbì: rispetto per nessuna altra legge che quella che i nuovi tempi ispirano al nuovo organo di Dio. Non mi tentate più oltre. La mia situazione non ha uscita per altra porta che quella della tomba. Voi mi uccidete uomo; le mie parole, se ricordate, mi confermeranno come figlio di Dio. Io mi son creato, con l'anima, un deserto intorno a me, un deserto in mezzo alla vita, ai popoli, alle grandi città, agli amici, ai parenti, [227] alle creature che mi amano e che mi è vietato di amare; questo deserto è un supplizio, in paragone del quale le vostre pietre e le vostre croci sono dei baci. Io vi ringrazio di codesta parola franca ed amica che m'avete detta in quest'ora di turbamento e di lotta: voi m'avete deciso nella mia via, e mi avete dato la calma della rassegnazione.

— Rabbì....

— Basta così. Io non posso ascoltar altro; io non posso nulla accordare. Il mio destino è più grande di me: esso mi assorbe.

— Rabbì....

— Finiamo. Il più corto sarà il più dolce.

— Allora tu sei deciso a perire.

— È necessario.

— Sia, e che il tuo sangue ricada sul tuo capo.

Il Sagan prese un quadrato di pergamena e vi scrisse alcune linee, nelle quali diceva in sostanza: che egli aveva interrogato il Rabbì Jesus Bar Joseph di Nazareth, e che l'aveva trovato fellone verso Dio e verso l'autorità di Cesare, e quindi degno di morte. Fece quindi entrare l'ufficiale del Tempio, — i soldati romani si erano ritirati, — e consegnando loro il prigioniero e la sentenza, li inviò da Caifas.

All'alba dell'indomani, 14 nisan (venerdì 3 aprile) il sanhedrin si riunì presso il gran Sacerdote. La calca nel Tempio, in un tal giorno, dispensò Caifas di convocare l'assemblea nel Lishcat-ha-Gazith, ove il gran consiglio teneva le sue ordinarie sedute.

L'interrogatorio non fu lungo. Il Rabbì non negò alcuna delle proposizioni che gli si citavano come da lui sostenute: egli non contestò alcun fatto[46]. Egli [228] fu riconosciuto fellone verso Dio e verso Cesare, come il sagan lo aveva caratterizzato. Non pertanto, avanti di pronunciare la suprema sentenza, Caifas, quasi avesse voluto impegnarlo a ritrattarsi, per risparmiare al consiglio la penosa necessità di una condanna capitale, chiese nuovamente al Rabbì:

— Io ti fo precetto di dichiararci se sei il Cristo, figlio di Dio.

— Io lo sono, rispose Gesù, e voi vedrete venire sulle nuvole del cielo il figlio dell'uomo, seduto alla dritta del Dio onnipotente.

Tutto era detto. La pena di morte fu decretata.

Uscendo da Hannah, ove io non aveva aperto bocca, il Rabbì ebbe vergogna dei suoi sospetti, e mi disse addio! Io gli susurrai all'orecchio:

— Spera, io non lascio la partita finchè mi resta un dado da giuocare.

Non attesi dunque il risultato del giudizio del sanhedrin cui già prevedevo. Mi recai da Claudia. Ma mettendo il piede nel palazzo di Erode vidi, alla porta del pretorio, una donna, ravvolta in denso velo, domandare di Pilato, inviandogli un foglietto di pergamena. Credetti riconoscere Ida.

[229]

XXXI.

Erano ott'ore del mattino[47]. Claudia era appena risvegliata, e Nomas aveva aperto le finestre, permettendo ai primi raggi del sole di nisan (aprile) di venire a folleggiare nel santuario di questa beltà italiana. Nomas mi conosceva, avendomi veduto sovente colla sua padrona, e nella massima intimità. Malgrado tutto ciò, stentai a fare pervenire, ad un'ora così indebita, un piccolo viglietto nel quale la supplicava di ricevermi immediatamente, avendo a parlarle di cose gravi.

Claudia, dopo la effettuazione del suo matrimonio con Pilato, in piena luna di miele, non si copriva più il viso di pappa la notte, onde tener soffice la pelle e fresco il colorito. La sua teletta quindi era meno complicata, e la poteva farsi vedere di buon mattino, non avendo bisogno di levar via l'impiastricciata della notte. Ricevendo il mio viglietto, Claudia mi fece introdurre tosto nel suo gabinetto di teletta, ove venne a raggiungermi alcuni minuti dopo. Io non aveva tempo da perdere in preliminari. Le esposi dunque in poche parole le ragioni che mi conducevano da lei, e l'immenso servizio che le domandavo. [230] Claudia non esitò un momento, perchè il Rabbì l'aveva profondamente colpita. Ella voleva essere sbarazzata di quest'uomo, di sua sorella sopratutto che ella odiava, ma non ne desiderava punto la morte. Voleva anzi inviarlo a Roma con sue lettere, raccomandandolo a Tiberio come un abile indovino.

— Che occorre fare? mi chiese.

— Poca cosa. Ottenere da Pilato che non tenga conto dell'accusa di sacrilegio, e che esigli il Rabbì in qualche città romana della Siria, come punizione del suo delitto politico.

— Pilato può farlo?

— Può tutto, se Pomponius Flaccus non vi si oppone.

— Proverò.

— Ma bisogna far presto. Il tempo stringe. Ascolta! odi tu questo ronzìo nell'aria? Si conduce il prigioniero davanti tuo marito.

— Lo faccio chiamar subito.

— Sarebbe meglio andarci tu stessa. Giacchè, trovandosi in faccia dei delegati del sanhedrin, che gli conducono un prigioniero o gli presentano la sentenza di morte da essi pronunziata è probabile che egli non verrà qui immediatamente. Ora, se egli conferma la sentenza, tutto è perduto.

— Hai forse ragione. Ci corro. Aspettami pochi minuti fuori, onde io mi vesta.

Uscii sulla terrazza che dava sulla piazza, e vidi infatti Gesù, preceduto e seguito dalle guardie del Tempio, da quattro commissarii del gran consiglio, e da uno sciame di curiosi. Essi entrarono nella corte scoperta del palazzo, ove era il bima sul gabbatha, e l'oratore del sanhedrin ne fece avvertire Pilato.

Pilato sapeva già ciò che significava quel rumore, [231] ciò che la commissione desiderava, e chi era il prigioniero che si trascinava innanzi a lui. Ida lo aveva istruito di tutto.

Mentre io pregava Claudia, ella supplicava Pilato.

La donna che io aveva veduta, era Ida.

Pilato, ricevendo il suo viglietto, l'aveva fatta introdurre immediatamente al pretorio — al pretorio a bella posta — non volendo dare a quel colloquio nessun altro significato che una domanda di grazia, e ad Ida nessun'altra attitudine che quella di supplicante. Ma quando la vide, così pallida, inondata di lagrime, affranta di dolore e d'emozioni d'ogni fatta, in disordine di spirito e di vestiti, egli si sentì commosso profondamente, e tutto quel mondo d'amore, di gioia, di consolazioni, di dolcezze che aveva provato durante la sua relazione con Ida, si risvegliò nel suo cuore. Le ricordanze lo battevano in breccia d'ogni lato. E chi sa? ora che aveva gustato il frutto contestato di Claudia; chi sa, dico, se la fanciulla pura e amorosa che aveva abbandonata, non gli sembrasse mille volte preferibile a quella ardente tigre romana, che lo inebbriava, che lo ardeva, ma che lo padroneggiava altresì? Pilato era sole vicino ad Ida, ombra rimpetto a Claudia. E' corse dunque incontro alla giovinetta e fece uscire tutti.

Ida tremava così forte, vacillava talmente, che Pilato la raccolse nelle braccia onde impedirle di cadere svenuta al suolo. Il contatto del petto del suo damo fece l'effetto di un ferro rovente sopra la Galilea. Ella si allontanò di un balzo, e indietreggiò fino alla porta.

Pilato la riprese per le mani, e con l'accento più dolce che potè trovare, con l'espressione più tenera che seppe dare alla sua voce, le chiese cosa desiderasse. [232] Ida con poche parole, male articolate, espose la posizione di suo fratello, il pericolo che egli correva tale quale Maria glielo aveva spiegato, e che Pilato conosceva già pei rapporti dei suoi agenti.

Vi sono delle posizioni inesorabili, che impongono certe delicatezze, cui sembra impossibile obliare o violare. Tale era quella di Pilato rimpetto ad Ida. Egli non l'aveva amata. Ella veniva, ella che l'aveva amato ed era stata abbandonata, a supplicarlo di salvar suo fratello, disonorato da lei, disonorato da lui, ma in pericolo di morte. Tutto vietava all'amante ed all'amata il minimo ritorno verso il passato, la più piccola reminiscenza d'un amore messo allo scarto, e che non poteva in nessuna maniera esser richiamato in scena, in questa circostanza, esso, fomite di voluttà, per assumervi le sembianze della pietà. Non pertanto il cuore, che deride sempre la ragione, non tenne nessun conto di queste convenienze nè dalla parte di Pilato, nè dalla parte di Ida e dimenticando l'una il fratello, l'altro la moglie, si lasciarono andare alle memorie passate. Pilato aveva a spiegarsi; Ida a giustificarsi. Moab aveva gittato in fra di loro un equivoco; Claudia un pericolo; io un pretesto. Tutto ciò era stato in seguito posto in chiaro. Ma essi erano ancora in sul broncio, e si trovavano uno rimpetto all'altro, esigendo non più un ritorno all'amore, che pareva impossibile, ma una restituzione di stima, che era un dovere. Non ho mai conosciuto i particolari di questa scena breve, febbrile, rapida, tenera, piena di passioni, e che sarebbe forse stata coronata da un bacio, se il rumore degli agenti del tempio, non li avesse richiamati alla terribile situazione del momento.

— Sei almeno felice ora? gli domandò Ida con un accento di sensibilità e di tenerezza infinita.

[233] Pilato esitò un momento a rispondere — è lui stesso che me lo disse poi — indi esclamò:

— Come un uomo che dopo aver delibate le aurore profumate della primavera sotto il cielo della Campania, nel golfo di Baia, si trova trasportato, in pien meriggio, sotto il sole di luglio nelle pianure della Siria. Il sole è bello, splendido, ma brucia ed uccide.

— Il mio amore, gli disse Ida, non ebbe che uno scopo: consolarti dei tuoi misteriosi dolori. Conosco ora questo mistero. Nato dalla compassione, quell'amore non poteva essere che puro e santo. Esso lo fu. Io non ho rimorsi. Il tuo abbandono non è che una cessazione di gioia. Ebbene, si prende l'abitudine del silenzio, della solitudine, del dolore. Tutto ciò ha ancora delle ebbrezze, quando si può dirsi: ho fatto del bene. La macchia che io aveva gettata sulla mia famiglia è lavata: essa mi ha ripudiata. Mia madre, la mia stessa madre non ha voluto rivedermi. Ma la mi ha perdonato; ciò mi basta. Io non tengo più a nulla in questo mondo. Posso partire o restare, cadere o rialzarmi, senza che un occhio amico mi segua, che un pensiero s'attacchi a me. La povera mosca ha preso il volo: essa appartiene oramai allo spazio ed alla natura ingannatrice.

— E se io osassi dirti: Ida, spera! sospirò Pilato scosso profondamente.

— Ti risponderei, replicò Ida, che non ne ho più di bisogno. Chi si preoccupa del domani ha d'uopo della speranza — questo fiore avvelenato. Io non ho dimani, e ne sono felice. La notte ha tutte le voluttà di cui quelle del nulla sono le più inebbrianti. Che m'importa come ciò finirà? Il sole è coricato, ed io non aspetto l'aurora.

[234] In quel momento lo strepito della corte richiamò Ida e Pilato alla situazione cui avevano il torto di aver dimenticata. Il tribuno di guardia al pretorio venne ad annunziare a Pilato, che il gran Consiglio gli inviava un condannato. Il procuratore uscì secondo l'uso e si assise sulla bima. Allora Osea figlio di Elah, oratore del sanhedrin, gli presentò la sentenza del Consiglio ed il prigioniero. Pilato lesse la condanna ed esclamò:

— La morte!

— Sì, rispose Osea. Noi abbiamo una legge: secondo questa legge, egli deve morire, perchè si è fatto figlio di Dio[48].

— Ciò non mi riguarda, disse Pilato con impazienza. La spada di Cesare non vendica gli Dei cui Cesare non conosce.

— Ma la spada di Cesare, rispose Osea, punisce queglino che si proclamano re, là ove desso è imperatore. Ora, noi non abbiamo altro re che Tiberio. Se tu ne conosci un altro, assolvi il prigioniero[49].

— Allora io voglio sapere, e scandagliare io stesso la verità. Fate passare codesto uomo nel pretorio, ond'io lo interroghi.

Pilato rientrò nella sala del giudizio ove i soldati romani introdussero il Rabbì. A quella vista, Ida gettò un grido, e si avvicinò a suo fratello; ma questi ritrovandola alla presenza di Pilato, arrossì ed indietreggiò. Ida comprese e cadde ai piedi del procuratore. In quel momento stesso apparve Claudia, e vide Ida in ginocchio, mentre Pilato si piegava per rialzarla, sfiorando delle sue guancie i capelli della [235] fanciulla, respirando il suo alito e dicendole alcune parole di consolazione.

Fu un lampo.

Io seguiva Claudia.

Alla vista d'Ida e di suo marito in quella posizione, così vicini l'uno all'altro, Claudia diede un ruggito che avrebbe spaventato una leonessa.

— Tu ancora? gridò la forsennata. Ah! ti tengo alla fine.

Ed acciuffandola dai capelli, rapendola di un sol balzo, Claudia varcò la sala e sparve dalla porta d'onde eravamo entrati, chiudendola dietro di sè. Questa apparizione sinistra non durò che un momento, ma il terrore s'impadronì di noi tutti. Io volli slanciarmi dietro alle due donne. La porta era serrata a chiavistello. Volli uscire. Il Rabbì mi sbarrava la porta della corte, sulla cui soglia egli restava freddo ed immobile.

Egli mi avvischiava ad un altro disastro.

Pilato profondamente turbato da ciò che era allora accaduto e prevedendo forse l'atto terribile che stava per compiersi negli appartamenti di sua moglie, senza ch'egli potesse impedirlo, passeggiò per alcuni istanti nella sala. Ida, il Rabbì, Claudia si confondevano nel suo spirito velato, e danzavano in una nuvola di sangue. Si fermò finalmente rimpetto al prigioniero, e con una grande veemenza, quasi fuori di sè, gli chiese:

— Chi sei tu?

— Gesù da Nazareth, in Galilea.

— Ma allora tu sei suddito di Antipas Erode, ed egli è qui. Io non posso giudicarti, non voglio giudicarti. Conducete costui dal tetrarca.

Il tribuno Popilius, a cui quest'ordine era dato, [236] escì nella corte col Rabbì, e consegnandolo nuovamente alla commissione del sanhedrin ed alle guardie del Tempio, loro comunicò la risoluzione del procuratore.

Osea riprese il prigioniero, ed uscì brontolando.

Io mi presentai allora da Claudia onde saper qualche cosa della sorte della disgraziata Ida. Nomas mi rispose a nome di Claudia, che questa era nel bagno, e che potevo ritornare più tardi. Interrogai Nomas. Ella sclamò quasi spaventata:

— Domandalo al lorarium.

L'anima ripiena di un nuovo terrore a questa parola sinistra di lorarium — il carnefice — corsi al palazzo di Antipas per provvedere alla sorte dell'altra vittima.

Il Rabbì si trovava già in presenza del tetrarca.

Questi non era ancora alzato; ma vivamente compiaciuto della deferenza che Pilato gli mostrava questa volta, ricevette il prigioniero stando nel suo letto.

Antipas era coricato in un letto di tartaruga ed oro, sulla seta e sulle piume, coperto di porpora ricamata a pietre preziose. Davanti il letto restava lungo disteso il suo leopardo. Sul letto stesso, uno sciame di pappagalli, di piccoli cani, di scimmiotti scambiavano colpi di becco, e colpi di denti, aizzati l'un contro l'altro ora da Antipas ora dai suoi nani, e facendo un diavoleto indescrivibile. All'estremità del letto tenevasi una bella schiava greca che profumava i piedi del tetrarca. Alla testa, una schiava siriaca ancora più bella gli strappava i capelli bianchi. E nello spigolo di dietro, una schiava galla, più bella e meno vestita delle altre due, tingeva le sopracciglia ed i lembi delle palpebre di quell'allegro [237] compare, di già imbellettato come una lupa dei sobborghi di Roma. Una folla di schiavi d'ambi i sessi giravano nella stanza, gli uni per preparargli la teletta del suo alzarsi dal letto, gli altri per porgergli la porzione di suco d'aranci misto al latte caldo, al mele ed al cinnamomo, per la quale il tetrarca rinnovellava le sue relazioni quotidiane col suo stomaco.

— Ah! Ah! sclamò Antipas scorgendo il prigioniero: eccoti qua, Rabbì! Tu vieni questa volta senza essere invitato, eh! Come sei amabile! Arrivi, in mia fede, bell'a proposito. Ho il mio leopardo molto malinconico da ieri in qua, tu devi distrarlo, o se è ammalato, guarirlo. Ti do parola che questa mattina son proprio in vena di vedere dei bei miracoletti. Ho dormito allegramente bene la notte scorsa. E tu, Rabbì? Ora, comprendi, ho una voglia pazza di veder Salomè. Tu puoi mostrarmela in un bicchier d'acqua del pozzo di Giacobbe, che ho là; ma, sta ben attento! non voglio vederla tra addobbi, e tra veli, eh! Non voglio che tu mi giunti e mi mostri invece la maga d'Endor. Io voglio veder Salomè, tale quale, precisa com'è, intendi? Nasca, ragazza mia, fa attenzione, m'hai levato un capello nero. Ah! sei lì anche tu, Giuda! farai colazione con me allora, bello mio. Aveva ragione io, quando ti diceva che il tuo Rabbì mi aveva l'aria di un selvaggio. Gli parlo, gli dimando un miracolino ch'è proprio nulla, che il mio filosofo fenicio spiccerebbe colla stessa facilità che tu inghiotti una ciliegia.... Ne avrai questa mattina delle ciliegie, Giuda: n'ho ricevuta la primizia da Alessandria. Ma rispondi dunque, Rabbì. Perchè diavolo me lo conducete dunque, qui, se egli non trova nulla per distrarmi e se non fa nulla per divertirmi?

[238] Una speranza mi luccicò nell'anima. Gli dissi dunque:

— Gli è, principe mio, che il re dei Giudei è di cattivo umore perchè i suoi sudditi gli hanno mancato di rispetto. Ripara il mal fatto. Dagli un mantello di porpora, e rimandalo via col migliore dei tuoi cammelli; ed egli andrà al tuo ritorno al palazzo di Tiberiade, a mostrarti più prodigi che non ne fecero mai i maghi di Faraone.

— Darei volentieri il mantello al mio re, ma non posso rimandarlo, poichè codesto piccolo procuratore romano me l'ha lanciato qui, non so perchè.

— Perchè l'assassino del Battista, rispose il Rabbì, assassini pure il figlio dell'uomo.

— Eh! eh! tu canti bene, Rabbì. È l'istesso tuono, e il salmo ha lo stesso stile. Ma io non amo i plagiarii. Ti perdonerei piuttosto di cantar falso, che il cattivo ribiascicar di quell'altro.

— Tetrarca, disse allora Osea, che comprese la mia astuzia e temeva la frivolezza d'Antipas, il procuratore romano t'invia questo prigioniero, condannato a morte dal gran Consiglio della Giudea, perchè tu confermi la sentenza, poichè quest'uomo è tuo suddito. Egli ha bestemmiato Dio, usurpato i diritti di Cesare: si è proclamato re e Dio.

— Sei modesto, Rabbì. Poichè eri in vena, valeva meglio proclamarti Cesare di un tratto e marciare sopra Roma alla testa delle tue legioni....

— Di angeli, interruppe Osea: l'ha detto.

— Se la è così, Rabbì, io ti conduco meco, subito, libero, festeggiato, se mi presti una o due delle tue legioni, per dare una correzione a quel birbo del mio ex suocero Areta, che mi fa guerra, perchè la sua figliuola, color zafferano, non mi piace più. Cosa ne dici? Accetti?

[239] Il Rabbì taceva. Ciò scoraggiava Antipas che amava il rimbecco fosse anche contro di sè. E' soggiunse:

— Rabbì, mi hanno raccontato tante cose di te, e tante tue parole, che io ti farei re degli Ebrei senza esitare, se fossi imperatore dei Romani. Intanto fa qualche cosa per me. Ho un dente smosso, e diversi capelli bianchi. Erodiade non si rassegna a ciò, e Salomè dà la berta ai miei cinquant'anni. Liberami da queste noje. Che diamine! se tu puoi far passare i demoni dai corpi delle donne in quelli dei maiali — hai dei demoni proprio compiacenti — ebbene puoi bene raffermare il mio dente, e regalarmi una capigliatura bionda. Ti chiederò poi da solo a solo un'altra cosa — e se puoi riescire in ciò che non potei ottener da alcun filtro, ti dò la Perea.

Il Rabbì volse il capo con disgusto, e mormorò una parola di disprezzo che non intesi bene. Antipas vedendo allora che non c'era nulla da cavare da quell'ostinato, sclamò:

— Andate ad impiccarlo, se vi aggrada, codesto vostro re degli Ebrei, sia egli o no mio suddito. Voi lo vedete! egli non è neppur buono a guarire i miei calli. Gratta, Calliope, gratta, piccina mia, tu mi solletichi deliziosamente i piedi.

— Principe, osservai io nuovamente, non permettere che si giustizii un tuo suddito fuori dei tuoi dominii. Se il Rabbì è colpevole, giudicalo a Tiberiade.

— Che! che! Cosa vuoi che io faccia di codesto bruto silenzioso lungo il mio viaggio? Poi bisogna rendere a Pilato la gentilezza usatami, non fosse che per insegnargli che non si perde mai ad esser convenevole coi principi. Conducete, conducete via subito codesto rustico, che non si degna neppur di rispondermi, e di fare un miracolo da quattro soldi.

[240] Osea non chiedeva di meglio, poichè egli sembrava poco rassicurato sul leggero contegno del tetrarca. Egli preferiva l'asprezza di Pilato.

Quando Antipas aveva detto che darebbe un mantello di porpora a Gesù, il suo liberto s'era affrettato a spogliare il Rabbì del suo mantello azzurro, cui trovava di sua convenienza. Ma il tetrarca non avendo poi realizzato il suo proposito, il Rabbì se ne tornò colla sua sola tunica bianca.

Era passato il mezzogiorno quando ritornammo al palazzo d'Erode.

Mentre il Rabbì ricompariva dinanzi a Pilato, io mi recavo da Claudia.

Maria fu la sola fra gli amici e i discepoli di Gesù che assistette all'interrogatorio.

Pilato riapparve sulla bima, di molto cattivo umore. Egli credeva essersi scaricato sul tetrarca d'un giudizio che gli pesava, a causa di Claudia, e d'Ida. Poichè, qualunque fosse stata la sua sentenza, essa ferirebbe una di quelle due donne ch'egli amava.

— Il tetrarca, disse Osea, non vuole confermare la nostra condanna. D'altronde non ne ha precisamente il diritto. Il delitto è stato commesso sopra un suolo di tua e di nostra giurisdizione: noi soli abbiamo il diritto di condannare.

Pilato alzò le spalle con un atto di sprezzo e di impazienza, ed indirizzandosi al Rabbì, gli disse bruscamente:

— Li ascolti? Tu sei dunque re degli Ebrei, tu?

— Questa domanda viene da te, oppose il Rabbì, ovvero tu ripeti ciò che gli altri dicono di me?

— Sono forse Ebreo io? I tuoi compatriotti ed il tuo sanhedrin ti conducono da me, come colpevole. [241] Che hai fatto dunque? È egli vero che hai tentato di conquistare questo regno?

— Questo regno? Apprendi dunque, agente di Cesare, che il mio regno non è di questo mondo. Se lo fosse, la mia gente avrebbe combattuto per me, m'avrebbe tolto alle mani degli Ebrei, e ti avrebbe ridotto all'impotenza. Ma, lo ripeto, il mio regno non è di questo mondo.

— Così, tu sei veramente re, allora?

— Tu l'hai detto, rispose Gesù, io sono re. Gli è per questo che io nacqui, gli è per questo che sono venuto al mondo. Io debbo attestare la verità. E chiunque è nel vero, ascolta la mia voce.

— Ma cosa dunque è la verità[50]?

Il Rabbì non rispose più. Osea sclamò:

— Come? tu cerchi ancora la verità, ufficiale di Cesare? Non ha egli detto chiaramente che egli è re degli Ebrei?

— Precisamente perchè egli lo ha detto così chiaro, io ne dubito. Se fosse colpevole, egli avrebbe negato. Egli è dunque pazzo. Io non posso condannare alla croce un uomo che ha perduto la ragione.

— Fa attenzione, procuratore! disse Osea. Quest'uomo non è nè pazzo, nè visionario. Egli è rivoluzionario. Tu ci offendi, se non vendichi la bestemmia contro il nostro Dio. Non ha egli detto perfino che se demolissimo il Tempio, egli lo ricostruirebbe entro tre giorni?

— Vado a farlo flagellare allora per farvi piacere, ripetè Pilato. Ogni altro castigo mi sembra enorme.

— Enorme! mormorò Osea. Procuratore, sta attento. [242] Interroga tutta Gerusalemme che l'ha veduto, quattro giorni fa, entrare nella città accompagnato dai suoi compatriotti che gridavano: Osanna al figlio di Davide, Osanna al re degli Ebrei! Se un fatto simile fosse accaduto a Roma, Tiberio l'avrebbe egli tollerato? La nostra fedele città non ha ceduto alla tentazione, ed ha lasciato passare la sommossa. Ora noi non vogliamo, noi che siamo responsabili dell'ordine nella nostra città, che la notizia ne sia portata a Cesare, e ch'egli ne prenda pretesto per aggravarci di nuove tasse. Noi abbiam fatto il nostro dovere. Abbiamo preso, condannato, e presentato al tuo tribunale il colpevole d'un tentativo d'insurrezione contro l'imperatore; noi ci scaricheremo presso di lui con una ambasciata. Noi non abbiamo alcuna sete di sangue; ma tu resti responsabile delle conseguenze.

— Io non temo le vostre accuse contro di me. Cesare mi conosce. Ma io non voglio creare fra noi dei nuovi appigli di dissapori. Voi volete che quest'uomo, che questo vaneggiatore sia condannato alla croce? io lo condanno. Ma siccome tutti gli anni, alla festa del paschac, io fo grazia ad un condannato, vi propongo di farla al Rabbì. Ho in questo momento quattro condannati a morte fra le mani: costui, un ladro d'Emmaus, l'esseniano Moab che ha tentato di assassinarmi, e Gesù Bar Abbas che ha assassinato Justus. Scegliete.

— Gesù, Gesù! gridò la gente che riempiva il tribunale.

— Ve l'accordo, disse Pilato sorridendo. Popilius, libera quest'uomo.

— Non costui, non costui, replicò la folla, Gesù Bar Abbas.

[243] Pilato impallidì, e fissò il Rabbì. Questi sorrise tristemente. Pilato rientrò nella sala del giudizio, e dettò la sentenza.

In quel momento, io entrai pure nella sala.

Io era inorridito di ciò che avevo veduto.

Maria attendeva al di fuori.

[244]

XXXII.

Scorgendomi da lungi Claudia, mi gridò con voce piena di gioia.

— Ah! vieni a cercar notizie della piccola Ebrea! Ne avrai. L'ami molto dunque?

— Claudia, non c'è nella lingua umana una parola che esprima quanto io l'ami.

— Ne sono felice, allora.

Claudia aveva trascinato Ida pei capelli, fino al suo appartamento, dopo aver chiuso a chiave la porta della sala del giudizio, che metteva in comunicazione questa stanza del palazzo di Erode cogli altri appartamenti. I suoi schiavi, i suoi ufficiali della corte avevano indietreggiato dinanzi la leonessa che portava la preda nel suo covo, e l'avevano lasciata passare, silenziosi e spaventati. Claudia, arrivata in una delle sue stanze, aveva fatto chiamare il lorarium, e mostrandogli quella cosa svenuta ed affranta stesa a terra, gli aveva detto: «Pei miei pargoli, all'ora ordinaria». Il detto era già conosciuto da quell'esecutore dell'alta e bassa giustizia che appendeva pei capelli le schiave nude, e le flagellava fino alla morte.

Il lorarium era un Lucano, di una piccola città [245] detta Grumentum, omicciattolo tutto muscoli, tutto pelo, dal viso atroce e dall'anima annegata nel sangue, di forza erculea, coraggioso come un lupo affamato. Quest'uomo prese a mezzo corpo la giovinetta svenuta e la portò via. Claudia entrò nel suo gabinetto di teletta.

Io arrivai al momento in cui i misteri delle lozioni e degli unguenti erano ultimati.

Claudia aveva preso il suo secondo pasto. Dopo di questo, ella aveva l'abitudine, quando il tempo era bello, di recarsi nei giardini del palazzo, e di gironzare, cogliendo fiori a bracciate ed assistendo al pranzo dei suoi pargoli.

I pargoli di Claudia erano le murene.

In una immensa vasca di marmo bianco dalle sabbie muscose, ella ne nutriva diverse centinaja cui aveva fatto venire dalla baja di Puteolis che produce le più belle.

La murena è un serpente di mare, lungo due, qualche volta tre braccia, dalla testa e coda appuntite, dal corpo sviluppato, coperto di una pelle viscosa color giallo scuro tigrata di chiazze nere. Questo pesce è avidissimo di sangue e di carne; ed i Romani per regalarlo d'una leccornia, e renderlo più saporito, gli gittavano di tempo in tempo uno schiavo.

Claudia, come i suoi compatriotti, aveva un vivaio di questi pesci, e prendeva un singolare piacere nell'andarli a vedere, quasi ogni giorno, all'ora del pasto, divorare un montone, quando la non aveva a servir loro una delle sue schiave. Questa volta preparava loro una festa imperiale.

Ella mi attendeva per farmi partecipare al suo divertimento.

[246] Sull'orlo del bacino erano state preparate due sedie, e quattro schiavi liburniani, quattro giganti, si tenevano in piedi dietro di esse per farci onore.

Claudia non volle lasciarmi aspettare. Mi prese per mano, e senza dir motto mi condusse nel giardino. Quando scorsi che la mi conduceva verso il sito della vasca delle murene, un brivido mi corse per tutte le membra, tremai ed impallidii. Non osai dirigerle una domanda. Claudia fe' sembiante di non avvedersi di nulla.

Quando fu giunta vicino al bacino, sedette e mi fece segno di sedere. Poi con un movimento del capo diede un ordine al lorarium, che stava ritto all'estremità opposta del vivajo.

Le murene che conoscevano l'ora del loro pasto, brulicavano, saltabellavano nell'acqua, guizzando da ogni parte, accorrendo ad un piccolo scoppiettìo della lingua di Claudia, appello a cui ella le aveva abituate.

— Sono graziose, non è vero? mi disse l'atroce Romana: vedrai come all'opera sono ancor più gentili.

Non risposi verbo. Il mio cuore scoppiava. Allora Claudia volgendosi verso di me, l'aspetto sarcastico e la voce severa, soggiunse:

— Ebreo, la prima sera che mi hai veduta, a cena, hai osato appoggiare le tue labbra sopra un riccio dei miei capelli. Ho cercato a lungo la maniera d'esprimerti il piacere che ne provai. Ho trovato l'equivalente del tuo bacio. Gioia per gioia.

Il lorarium apparve portando Ida nelle sue braccia. Volli alzarmi. Le otto mani degli schiavi liburniani che stavano dietro la mia sedia m'inchiodarono immobile. Volli parlare; un mondo di maledizioni, d'ingiurie, [247] d'imprecazioni, di parole di disprezzo, si precipitò sulla mia lingua: ma questa restò paralizzata. La mia vita scoppiava nei miei occhi.

Il lorarium portò Ida presso al vivajo, e con un sol colpo di mano le strappò tutti i suoi vestiti, e la mise a nudo. Ella gettò un grido che arrivò a Dio nel cielo. Claudia la contemplò impallidendo — ed aveva ben ragione di divenir pallida. Fece un nuovo segno. Il lorarium afferrò la fanciulla, le legò i piedi, e la lanciò nella vasca.

Quarant'anni sono scorsi da quest'avvenimento. Ho assistito a tutti i disastri che possono colpire un uomo; nulla ormai mi commuove. Eppure descrivendo questa scena, il mio vecchio sangue s'agghiaccia ancora nelle mie vene.

Appena il corpo d'Ida cadde nel bacino, quelle centinaja di serpenti, come in un sol gruppo, si scagliarono sopra di lui. Ida si rialzò, e tentò di star in piedi. L'acqua la copriva fino al petto. Cominciò a strappar colle sue mani le murene che, come enormi sanguisughe, le si attaccarono con la bocca tutta aperta, formando un disco armato di succhiatoj, e la morsero. Le sue mani scivolavano su quei corpi glutinosi, il cui contatto e la cui vista le cagionavano più orrore che il suo sangue stesso, il quale scorreva da ogni parte sulla sua carne che era maciullata. Ella non gridò. Un gemito sordo, profondo, inarticolato, sfuggiva a sua insaputa dalla sua gola, col suo respiro rantoloso. Per una murena che riesciva a staccarsi dal corpo con un lembo di carne, dieci se le slanciavano alle braccia, al petto, al collo. Gli occhi dilatati schizzavano dalle orbite. I muscoli del viso si contorcevano come quelli d'una isterica. Le murene sprofondavano le loro teste acute nel [248] suo corpo, e l'allacciavano, come potevano, delle loro spire poco flessibili.

Ida ricadeva e spariva sotto l'acqua per un istante; poi si rilevava. Il suo collo, le sue guancie erano state invase e morsicate. Si sarebbe detta una testa di Medusa. Le mani, le braccia erano avvinghiate di quegli orribili mostri. Era divenuta una sola piaga: l'acqua arrossava. In quel punto una murena le saltò alle labbra. Ida piegò. Altre le si appresero agli occhi. Gettò un grido; fece uno sforzo supremo per sbarazzarsi da quelle morse viventi, da quei ferri divoratori, riuscì a sbrattarne per un istante ancora il suo bel viso, orribilmente lacerato, poi vacillò e si abbiosciò.

Io la vidi spasimar sotto l'acqua, aggrapparsi alla sabbia, mordere i rettili che la mordevano. Poi i suoi movimenti rallentarono, cessarono. Ella s'irrigidì, si agghiadò, ed un istante dopo il suo corpo non era più che uno scheletro. Feci uno sforzo per fuggire.

Claudia era scomparsa. Gli schiavi liburniani non mi ritennero più. Il lorarium restava sempre ritto ed impassibile all'altra estremità del bacino. E gli uccelli cantavano; le api ronzavano; le farfalle andavano a zonzo; l'aria era profumata dai primi baci della primavera. Dei fiori delle ajuole, dei verdi ramoscelli sugli alberi, e dinanzi a me la sola donna che io ho amata, divorata! Fuggii, e non so come mi trovai nella sala del giudizio, ove caddi annichilato.

La voce dello scriba che leggeva la sentenza del Rabbì, mi scosse. Corsi a Pilato e con voce sorda gli dissi:

— Tua moglie ha assassinato la sorella; non uccidere il fratello.

[249] — Come! cosa vuoi dire?

— L'ho veduta io stesso, vengo di là, dalla vasca delle murene.

— Ah! la sciagurata! sclamò Pilato coprendosi il viso colle mani.

— Salva almeno quest'uomo, continuai.

— Nol posso, diss'egli disperato: queste tigri attendono la loro preda. La legge è inesorabile.

— Ma gli uomini sanno ridersene, quando vogliono.

— Che posso fare?

— Chi è il centurione che incarichi dell'esecuzione?

Pilato mi guardò fisso, poi disse:

— Sta bene: sarà Lentulus.

Ed uscì sul bima e lesse la sentenza che condannava Gesù a morire per la croce.

Io uscii con Pilato, ed osservai che uno dei commissarii del sanhedrin era uno dei miei amici, Giuseppe di Ramatha. Gli dimandai:

— Non hai tu un giardino presso il Golgotha.

— Sì, perchè?

— Reclama a Pilato il corpo del condannato.

— Cosa vuoi che me ne faccia?

— Te lo dirò, reclamalo.

Quando Pilato ebbe letta la sentenza, ed era per rientrare nel suo palazzo, Giuseppe gli disse:

— Questo condannato non ha parenti. Io ti chiedo il suo corpo per dargli una tomba.

— Prendilo, rispose Pilato, e si schivò.

I commissarii del sanhedrin consegnarono il prigioniero alle guardie romane.

Vidi allora il Rabbì, fermo fino a quell'istante, vacillare e quasi svenire.

[250] Non c'era tempo da perdere. Erano quasi le due ore, ed alle sei, ora in cui principia il sabato, tutto doveva esser finito, il supplizio compiuto, i suppliziati seppelliti. Gli altri prigionieri furono tirati della prigione. Moab e Zabdi mostrarono una grande tranquillità. Bar Abbas, graziato, principiò a sgambettare nella corte, e dire e fare mille buffonerie agli Ebrei che avevano ottenuto la sua grazia.

Furono cavate tre croci dai magazzini del pretorio, ed ogni condannato prese la sua. Il Rabbì avendo protestato che non aveva la forza di portare il suo legno, si pagò un contadino che s'incaricò della bisogna. Insorse contestazione tra Osea e lo scriba del pretorio a proposito della scritta che doveva essere affissa alla croce del Rabbì.

Lo scriba passò oltre, ed il corteggio si mise in cammino. Mi avvicinai a Gesù e gli susurrai all'orecchio: spera!

Egli sorrise di nuovo tristemente.

Era di costume di dare a bere ai condannati, prima di attaccarli alla croce un certo vino aromatizzato che li stordiva. Se il condannato non aveva nè un parente nè un amico per offrirgli questo beveraggio, se nessuna donna pietosa della città non compiva quest'opera di carità, il fisco somministrava il vino.

Prevedendo come il processo del Rabbì sarebbe terminato, io aveva fatto comporre un vino fortemente narcotizzato, di cui bastavano alcune lacrime per dare l'immobilità cadaverica del coma. Mandai Maria a prender codesta droga a casa mia, e col cuore lacerato dal dolore, seguii i condannati.

Quel povero affettuoso Moab mi commoveva. Egli mi chiese d'Ida. Gli risposi, per non rendergli più [251] amari i suoi ultimi istanti, che sua madre la conduceva seco a Cafarnaum.

Il supplizio doveva aver luogo al sito ordinario, sul Golgotha.

Partendo dal palazzo d'Erode, la strada era corta. Passando sotto la torre di Davide, uscimmo dalla porta Genath, e traversammo i boschetti di mandorli, ed i giardini che coronano la fontana di Hezekiah. Sul Gareb, fuori della porta, stava il monumento del grande sacrificatore Giovanni; a pochi passi, il piccolo giardino del mio amico Giuseppe di Ramatha; ancora un po' più lontano, la piccola altura del Golgotha, arida, nuda, di pietra bianca calcare. Tutto ciò al nord-ovest della città. Su quel rialzo di terreno, venivano suppliziati i ladri, gli assassini, i pirati, gli empii, i traditori, i rivoltosi, i falsi profeti, ed i falsi rabbì.

Il Rabbì di Galilea andava a frangervisi come falso messia, empio, ribelle.

La sua condanna era sopratutto politica.

Giuseppe mi aveva presentato al centurione come colui a cui egli doveva consegnare il cadavere concesso da Pilato, ed aveva posto a mia disposizione il suo giardino, il giardiniere e sè stesso.

Egli aveva probabilmente indovinato le mie intenzioni.

Ascendendo il colle dei supplizi, Maria mi raggiunse col fiasco del vino narcotizzato. Le indicai allora Lentulus, un uomo da quarantacinque a cinquant'anni, dal viso bitorzoluto, il naso rosso, il cranio calvo, le labbra pendenti, gli occhi infuocati e lagrimanti — in una parola, il campo di battaglia ove tutti i vizii avevano fatto ressa, e lasciato le loro ruine.

[252] Io non poteva agire direttamente su quel Romano.

I miei tentativi avrebbero avuto l'apparenza di una grossolana corruzione, e sarebbero certamente andati a vuoto. Lasciando agire Maria, tutto ciò ch'ella otterrebbe, e non importa a qual prezzo, per non importa qual mezzo, acquistava il sembiante di una tenera seduzione, di una profonda affezione pel condannato, di una faccenda di cuore, che giustificava nell'istesso tempo e chi la intraprendeva e chi cedeva, ed aveva un grande valore morale. Maria, d'altronde era ancora così bella, aveva la voce così dolce, il viso così carezzevolmente seducente, la parola così penetrante, il fascino così assoluto, che nessuno avrebbe avuto il coraggio di condannare il legionario voluttuoso se avesse subìto una malìa, a cui lo stesso austero Rabbì di Nazareth non avrebbe potuto sottrarsi.

Maria comprese la sua parte, e l'accettò con quella specie di sublime abnegazione della sua persona che ella metteva in tutte le sue azioni.

Quella donna era un cuore.

Allora io mi diedi a consolare gli ultimi momenti di quell'altra nobile creatura, Moab, sempre dirigendo Maria con gli sguardi e con monosillabi nella nostra lingua, che nè il centurione nè i suoi soldati, Siri e Fenici del resto, non intendevano.

Arrivati al sito dell'esecuzione, i condannati deposero le loro croci. I fori per riceverle erano bell'e pronti, poichè, per disgrazia, Gerusalemme non mancava mai di supplizii. Ma questi supplizi erano quasi tutti ordinati dalle autorità romane, ragione per cui il popolo, che suole amare questi drammi sanguinosi e commoventi, li lasciava di frequente compiere nella solitudine.

[253] Il popolo protestava così contro l'oppressore straniero.

Poche persone infatti si trovarono presenti al Golgotha. E ciò ancora per la ragione che erano circa le quattro, e che il sabato principiava alle sei, e che bisognava terminare i grandi preparativi della festa del paschah, e riempire i proprii doveri verso il Tempio. I commissarii del sanhedrin avevano abbandonati i condannati, dal momento in cui Pilato aveva confermato la loro sentenza, e ne aveva assunto la esecuzione.

I tre condannati furono spogliati nudi, secondo l'uso. Maria si avvicinò al Rabbì per fargli bere il vino preparato. Il Rabbì si opponeva. Maria con un segno degli occhi lo decise, ed egli ne inghiottì uno o due sorsi. Non era abbastanza, ma non era neppur poco. Moab ed il suo compagno Zabdi bevvero senza rimorso.

Il Rabbì era agitato da un'inquietudine straordinaria. L'aspetto della morte lo spaventava. Ebbe delle debolezze che mi sorpresero. Si lamentò degli uomini e di Dio. Forse non aveva torto. Nessuno dei suoi discepoli lo assisteva. Alcune donne galilee, che un tempo gli avevano manifestato tanto attaccamento lo contemplavano ancora da lungi, mezzo nascoste dietro i mandorleti. Io mi mostrava sollecito piuttosto per Moab, Maria fu eroica; perocchè ella sentiva gli spasimi doppi soffrendo ad un tempo per lei e pel Rabbì.

Maria ottenne, dopo aver scambiato qualche parola con Lentulus, che non si traforassero con chiodi i piedi del Rabbì, ma le mani soltanto. Ottenne ancora che gli si ponesse sotto ai piedi una tavoletta solida per sostenere il corpo, e fra le gambe un ceppo fortemente [254] conficcato nel tronco della croce per farvelo sedere e diminuire così lo strazio delle mani.

Lentulus accordò tutto, pigolando intorno a Maria come un vecchio colombo. In dieci minuti ella ne aveva fatto il suo schiavo.

Quando tutto fu pronto, il Rabbì si coricò sulla croce. Gli si legarono fortemente i piedi alle cavicchie. Egli inforcò il più comodamente che potè, il piuolo, e tese le mani. Il Rabbì gettò un grido acuto quando i chiodi gliele traversarono. Di natura eminentemente nervosa, sentiva vivamente il dolore. Maria gl'innondò il viso di lagrime, dicendogli dolci parole.

Il Rabbì non rispose motto. La lotta interna gli si dipingeva sul viso, crispava la sua fronte, offuscava volta a volta, o faceva fiammeggiare il suo sguardo.

Quando egli si fu convenientemente adagiato sul suo altare di morte, lo si rizzò dolcemente onde non iscuoterlo troppo; si lasciò scorrere l'estremità inferiore della croce nel suo buco e la si consolidò con dei coni. Prendendo la posizione verticale, un'onda di sangue colorò il viso di Gesù. Ma gli era piuttosto un effetto dell'emozione morale, che del dolore materiale. Una febbre intensa s'accese immediatamente nel suo sangue. Poco dopo, e' chiese da bere. Imbevvi una spugna nel vino speziato, e la portai alle sue labbra. Il Rabbì bevve, e dieci minuti dopo cadde in una specie di coma così completo, così potente, che Maria ed io tememmo per un momento che la forte dose di narcotico, che doveva alleviare i suoi spasimi non l'avesse invece avvelenato.

Erano scorse le quattr'ore della sera.

I pochi curiosi che avevano assistito all'esecuzione [255] erano rientrati in città. Una dozzina di soldati ed il loro capo, Maria ed io, restavamo soli sul Golgotha intorno ai crocifissi. Maria sollecitava Lentulus ad abbreviare la faccenda e Lentulus sembrava più premuroso ancora di lei. Ma se il Rabbì mostrava tutti i sintomi della morte, gli altri due condannati parevano ancora rigogliosi di vita. Si fece loro inghiottire il resto del vino aromatizzato onde stordirli e finirli. Il tempo stringeva.

Erano le cinque ed alle sei tutto doveva essere terminato, le croci abbattute, i cadaveri seppelliti per non contaminare il sabato del Signore, il più solenne di tutto l'anno. Fu mestieri ricorrere al crurifragium ordinario. Fortunatamente, i due altri suppliziati principiavano essi pure a cadere come il Rabbì nell'annientamento della morte. Lentulus diede l'ordine di frangere le gambe e le braccia di Moab e di Zabdi. L'ordine fu eseguito.

Da un'ora, Gesù non dava più segno di vita. I soldati si accinsero ad abbassare le croci. Non si usarono molti riguardi nel rovesciare le croci dei due disgraziati a cui nessuno s'interessava. La croce del Rabbì invece fu coricata dolcemente per di dietro; ed io m'affrettai a tagliare le corde dei piedi, mentre due soldati levavano i chiodi delle mani.

Lentulus, avvegnachè fosse inebbriato dagli sguardi di Maria, non dimenticava interamente la sua responsabilità. Allontanò dunque i suoi soldati, e fece che si occupassero dei due altri suppliziati. Questi furono trasportati, morti o no, sull'orlo del cocuzzolo che domina quasi a picco la orribile valle dell'Hinnon, e vi furono precipitati. I cani, gli avvoltoi, i lupi, le aquile, le iene ne fecero la loro pasqua. Il cadavere del Rabbì mi fu confidato. Lentulus affrettò [256] la sua partenza — sei ore erano vicine, — promettendo a Maria di ritornare, appena spicciato il suo rapporto a Pilato.

Mentre io asciugava le qualche goccie di sangue che zebravano il corpo di Gesù, Maria ed il giardiniere di Giuseppe da Ramatha stendevano un lenzuolo nel quale lo avvolgemmo per meglio portarlo.

C'era in un angolo di quel giardino una grotta, nella quale il giardiniere riponeva i suoi utensili, ed ogni sorta di oggetti che ingombravano il sito. Noi ripulimmo quella cellula e vi deponemmo il corpo. Il giardiniere fu mandato via. Ciò che restava a fare Maria lo avrebbe compiuto.

Lentulus ci raggiunse un'ora dopo, portando dei cordiali ed alcuni vestiti, di cui l'astuto compare prevedeva la necessità.

Maria fu sublime fino all'ultimo istante.

Il terzo giorno, ella sparse la voce fra i discepoli del Rabbì che questi era risuscitato.

Ciò era necessario onde assicurare il successo di quanto avevamo fatto, l'impunità di Lentulus, l'oblio di Pilato, e calmare le coscienze timorose dei membri del sanhedrin, che avevano creduto oltraggiata la legge e dovevano crederla vendicata.

Pilato ed Hannah seppero però da me la verità.

I discepoli, la cui vergognosa vigliaccheria non aveva scuse, tribolarono Maria, chiamandola visionaria, quando ella annunziò loro che il corpo del Rabbì «era stato tolto della sua tomba, e che non si sapeva punto ove lo si fosse messo[51]

[257] E' non credettero mai — quei semplicioni! — alla resurrezione del loro maestro.


Tre mesi dopo, mia sorella vedova, Noah, il mio amico ed io c'imbarcammo a Joppa per Taranto.

[258]

XXXIII.

Tre anni sono scorsi dagli ultimi avvenimenti che ho più su raccontati.

Siamo a Roma.

Un giorno, andando alle Terme, incontrai Pilato, il quale, avendo finito i suoi dieci anni di potere, ritornava a Roma.

Io aveva allora ventisei o ventisette anni.

Avevo adottato il costume greco, e passavo per un cittadino di Rodi. La mia barba era cresciuta, la vita elegante della gioventù d'Antinoo che io menava aveva profondamente alterato i miei lineamenti. Malgrado ciò Pilato mi riconobbe e mi venne incontro.

La sua prima parola fu pel mio amico. Un sospiro doloroso sfuggì dal mio petto. Mi dimandò di visitarlo. Gli risposi di affrettarsi poichè le ore di quel disgraziato erano contate. Pilato non fece neppur un'allusione a sua moglie. Il nome solo di Claudia mi dava i brividi. Pilato mi confidò ch'egli non voleva vivere a Roma, ove ad ogni momento si urtava a memorie che l'oltraggiavano, e che partiva tra pochi giorni per la Spagna, per il suo bel paese d'Hispalis (Siviglia) ove andava a fissare la sua dimora con i suoi due figliuoli.

[259] All'indomani, Pilato venne a trovarci.

Era tempo.

Avevamo una piccola casa sul monte Esquilino con un bel giardino sul di dietro.

Era il principio di maggio, all'ora quarta. Una giornata splendida; il sole era in festa. L'aria ripiena di canti e di profumi; la terra dei fiori. Sotto un piccolo portico che copriva il ballatoio dei gradini del giardino, sopra dei cuscini, avviluppato di coltri giaceva un ammalato. Noah se ne stava dietro di lui, e mia sorella di fronte avendo alle mani una coppa con non so che cervogia.

Il mio amico moriva di consunzione.

Aveva voluto vedere il sole per l'ultima volta e spirare guardando il cielo.

È sì triste morire fissando un soffitto di legno!

Da tre anni, il mio amico deperiva. Era sempre malinconico, sovente cupo. Non sorrideva più. Parlava pure raramente, evitando ogni memoria del passato. Non volle vedere nessuna delle sue antiche conoscenze. Solo Maria di Magdala gli scrisse tre o quattro volte, implorando che la lasciasse venire a raggiungerlo a Roma. Il mio amico, vivamente commosso, profondamente tocco, le rispose, ma le ingiunse di restare nella Siria. Un uomo però fu da lui ricevuto: un certo Saul da Tarso, uomo di spirito elevato, ma panneggiato di roffia ed entusiasta. Costui vide due volte il mio amico e conversò con lui da solo a solo lungamente. Poi più nessuno, più nulla. Il mio amico viveva in una tomba in mezzo al mondo vivente.

Egli non godeva della creazione che per buffi; talvolta un'alba splendida, talvolta un tramonto malinconico, talvolta un chiaro di luna inebbriante, un [260] fiore di qui, di là una carezza di quella buona Noah o una dolce parola della mia eccellente sorella, la quale l'amava come la mi amava — vale a dire come dieci madri! Ora il momento fatale era arrivato. L'olio della lampada era consumato fino all'ultima goccia: la vita era usata.

Io aveva chiamato dei medici greci ed asiatici. Nessun d'essi non aveva trovato la benchè minima cosa per involare un'ora alla clepsidra del tempo. Avevo comperato dei filtri alle sagas; i loro beveraggi avevano invece forse affrettata la catastrofe. Il mio amico si era prestato a tutto per compiacermi, ma fino dal primo giorno, mi aveva dichiarato che la sua vita era stata estinta, e che lo smagamento ed il disinganno lo uccidevano.

Il disinganno! Quanti grandi spiriti non furono spenti da questa spaventevole ed incurabile malattia!

Il mio povero amico non era più riconoscibile. Del suo sembiante così accentuato, non restavano più che gli occhi, quantunque il loro splendore così mobile, così potente, così diverso, fosse estinto.

Le sue mani erano agghiadate, il pallore della sua fronte principiava a divenir livido. Il suo cuore non si udiva più battere. Il suo alito si spegneva. La morte lo invadeva. Pure riconobbe Pilato, quando questi, entrando, venne a porsi dinanzi a lui. L'amico mio sentì un lampo di vita traversargli la persona. I suoi occhi brillarono, aprendosi in tutta la loro grandezza. Potè dire, tentennando leggermente del capo: Grazie! Poi l'immagine d'Ida rizzandosi forse nella sua anima, e' s'offuscò, nascose il viso nel seno di Noah, e vi restò assorbito per due minuti. Pilato non osò aprir bocca.

[261] Il mio amico sapeva ciò che quest'uomo, brusco ma buono, aveva fatto.

Finalmente il mio amico alzò il capo e lo rivolse verso il sole.

— Dio mio! come la luce è bella! e' sclamò!

E restò coi grandi occhi aperti fissi sul cielo.

Ma poco a poco noi vedemmo quegli occhi oscurarsi, le pupille restringersi, le palpebre ricadere. Un soffio leggero si sprigionò dalla sua bocca, questa si rischiarò d'un sorriso, la testa s'inchinò sul suo petto....

Egli era morto.

[263]

NOTE

Nota A.

Il Talmud, capitolo VI, Sanhedrin, parla della lapidazione di un Gesù di Nazareth convinto di magia, di seduzione e di corruzione dei suoi correligionari. Al capitolo seguente si trova menzionato un altro Gesù figlio di Pandira e di Maria, crestaia, moglie di Studa, ovvero di una certa Stada moglie di Papus, figlio di Iehuda. Questa Maria era di Lydda e visse circa 70 anni dopo Maria, madre del Gesù dei cristiani. Gli è questo il Gesù che, ci dice Raban Maur, i Giudei maledicevano in tutte le loro preghiere come empio, figlio di un empio, il pagano Pandera, e dell'adultera Maria. Infine, un terzo Gesù, dugento anni circa innanzi il Cristo, aveva, dicono gli Ebrei, istituita l'idolatria della croce. (Disputat. R. Jachiel cum Nicol. apud Wagenseil Tela ignea Satanae, p. 16 ad 21. — Raban Maur, lib. contra Judaeos, n. 40, apud Chifflet, Int. scriptor. veter. de fid. cathol., p. 333).

Il libro del Toldos Jeschuà dà molti altri ragguagli. Eccone un estratto.

Wagenseil, ove noi gli abbiamo attinti, avverte che Raymond Martin, nel suo Pugio fidei, ne aveva già dato dei brani alquanto diversi da quelli che egli pubblica. Ma le citazioni di questo libello fanno stomaco. Le tralascio per ciò, come pure tralascio di riassumere l'Istoria di Jeschua di Nazareth di J. J. Huldrie, che si può leggere in Potter, Hist. du Christ, ed altri documenti [264] curiosi pubblicati a Lipsia da Constantinus Tischendorff: Evangelia apocrypha, ecc. Traduco invece dal Fabricius: Codices apocryph. novi Testam., i brani seguenti del Protoevangelio attribuito a S. Giacomo. Le anime pie me ne sapranno forse grado.

VIII.

Maria era come una colomba allevata nel tempio del Signore e riceveva il suo nutrimento dalle mani di un angelo. Quando ella ebbe dodici anni, si tenne (nel tempio del Signore) un consiglio di sacerdoti, dicendo: Ecco che Maria ha dodici anni nel Tempio del Signore, che le faremo, onde allontanare la paura che la santificazione del Signore nostro Dio non sia maculata? Ed i sacerdoti dissero a Zaccheria: Principe dei sacerdoti, presentatevi all'altare del Signore e pregate per lei; e quello che Dio ci avrà manifestato, noi lo faremo. Ed il principe dei sacerdoti avendo rivestita la sua lunga tunica a dodici campanelli, entrò nel santo dei santi, e pregò per lei. Ed ecco che l'angelo del Signore si presentò dicendogli: Zaccheria, Zaccheria, esci e convoca i vedovi del popolo e ch'essi portino ciascuno una verga[52], e la sarà donata in guardia per moglie a colui a cui Dio avrà mostrato un segno. Ora, dei banditori pubblicarono questo avviso in tutte le regioni della Giudea, la trombetta del Signore suonò[53], e tutti accorsero.

IX.

Ora, Giuseppe avendo gittata la sua accetta, uscì loro davanti, ed essendosi assembrati, e' se ne tornarono [265] al gran sacerdote dopo aver preso le loro verghe. Il gran sacerdote ricevendo queste verghe dei suoi banditori, entrò nel Tempio e pregò. L'orazione terminata, prese le verghe ed uscì. Allora le rese ad ognuno di loro, ma alcun segno non apparve. Giuseppe ricevè l'ultima verga, ed ecco che una colomba scappa fuori da essa e vola sul capo di Giuseppe. Ed il gran sacerdote gli dice: Voi siete scelto dalla sorte divina per prendere in guardia in casa vostra la vergine del Signore. E Giuseppe si scusa dicendo: Ho dei figli e son vecchio, ed ella è giovane; quindi temo addivenir ridicolo agli occhi dei figli d'Israello. Ma il gran sacerdote risponde: Temete il Signore vostro Dio e risovvenitevi quali grandi cose fece Dio[54] contro Dathan, Abiron e Corè, e come la terra si aperse e li ingoiò a causa della loro contraddizione. Temete dunque Iddio adesso, Giuseppe, onde queste cose non avvengano in casa vostra. Giuseppe atterrito, ricevè la vergine e le disse: Maria, ecco che io prendovi nel Tempio del Signore e vi lascio a casa. Vado per esercitare la professione di carpentiere (e ritornerò a voi). E che il Signore vi conservi (ogni dì).

X.

Ora, e' si tenne un consiglio di sacerdoti dicendo: Facciamo un velo (o tappeto) pel Tempio del Signore. Il principe dei sacerdoti disse: Fatemi venir delle vergini senza macchia, delle tribù di Davide. Si misero in cerca. Ne trovarono sette. Il principe dei sacerdoti si risovvenne di Maria, anch'ella della tribù di Davide e non per anco contaminata. Il principe disse: Tirate a sorte a chi di voi filerà del filo d'oro (di amianto) e di lino sottile (e di seta) e di giacinto, e di scarlatto, e della vera porpora. E Zaccheria si ricordò di Maria della tribù di Davide; e la vera porpora (e lo scarlatto) [266] cadde a lei per sorte, ed (avendoli ricevuti) se nè tornò a casa. Ora in quel tempo Zaccheria perdè la parola[55]. Samuele prese il suo posto fino a che Zaccheria non ricominciò a parlare. Maria avendo ricevuto la porpora (e lo scarlatto) filò.

XI.

Ed avendo preso un'anfora, uscì ad attinger l'acqua[56]. Quand'ecco una voce che le dice: Vi saluto, piena di grazie[57]; il Signore è con voi; voi benedetta fra tutte le donne. Maria guardò a dritta ed a manca per scorgere donde quella voce venisse. Poi tutta tremante tornò a casa e lasciò l'anfora, ed avendo presa la porpora, si assise alla sua sedia per lavorare. Ed ecco che l'angelo del Signore se le presenta e le dice: Non temete, Maria, voi avete trovato grazia appo il Signore. Ed ascoltandolo, Maria pensava fra sè: Concepirò per il Dio vivente e partorirò come ogni donna che genera? E l'angelo: E' non sarà così, Maria! lo Spirito Santo verrà su voi e la virtù di Dio vi coprirà della sua ombra. Ed ecco perchè il santo che da voi nascerà[58] sarà chiamato il figlio del Dio vivente. Gli darete il nome di Gesù, perchè sarà desso che salverà il suo popolo dai peccati di lui. Ed ecco pure che la vostra cugina Elisabetta ha concepito un figliolo nella sua vecchiezza, e questo è il sesto mese per lei che era addimandata sterile, perciocchè tutto quanto io vi dico, non sarà impossibile per Dio. E Maria: Ecco la serva del Signore; che sia fatto secondo la vostra parola.

[267]

XII.

Ed avendo terminato la porpora e lo scarlatto, li portò al gran sacerdote. E' la benedisse e disse: O Maria, il vostro nome è magnificato e sarete benedetta in tutta la terra. Maria avendo concepita una grande gioia, se ne andò ad Elisabetta sua cugina e picchiò alla porta. Elisabetta, intendendola, accorse, aperse e le disse[59]: Donde dunque mi capita questa fortuna che la madre del mio Signore venga a me? imperciocchè quello che è in me, ha trasalito e vi ha benedetto. Ora[60] Maria ignorava ella stessa questi misteri di cui l'arcangelo Gabriele le aveva parlato. E guardando il cielo le disse: Chi sono io perchè tutte le generazioni mi dicano così avventurata? Ma di giorno in giorno il suo ventre ingrossava, e, presa da paura, Maria se ne tornò in sua casa e si nascose dai figli d'Israele[61]. Ella aveva sedici anni quando questo mistero s'operò.

XIII.

A capo del sesto mese, ecco che Giuseppe ritornò dai suoi lavori di carpentiere, ed entrando in casa sua vide incinta Maria. Col viso abbattuto (e' si gettò per terra e pianse amaramente) dicendo: Di qual fronte oserò guardare io il Signore Iddio? quale preghiera farò io per questa piccola creatura che ricevei vergine dal Tempio del Signore Iddio e non l'ho guardata? Chi mi ha ingannato? Chi ha fatto questo male in casa [268] mia? Chi ha cattivata e sedotta la vergine? Non mi è avvenuta una storia simile a quella di Adamo? perchè all'ora della sua gioja il serpente entrò, trovò Eva sola e la sedusse? Sì, sì, simile cosa emmi arrivata. E Giuseppe risorse di terra, ed avendo presa Maria, le disse: O voi che eravate così gradita al Signore, perchè avete voi fatto ciò ed avete obliato il vostro Dio, voi ch'eravate stata allevata nel santo dei santi? Perchè avete voi avvilita l'anima vostra, voi che ricevevate il vostro nutrimento dalle mani degli angeli?[62] Perchè avete fatto ciò? Ma ella piangeva amaramente dicendo: Io sono pura; io non ho conosciuto alcun uomo. E Giuseppe di rimando: E donde vi viene dunque codesto che avete nel seno? Maria rispose: Il Signore mio Dio è vivente: io ignoro donde questo mi venga.

XIV.

E Giuseppe, affatto interdetto, persisteva nel suo pensiero: Che mi farò io di lei? Poi dicevasi in fra sè: Se nascondo il suo peccato, io sarò trovato colpevole nella legge del Signore[63]; se la denunzio agli occhi dei figli d'Israello, temo che ciò non sia giusto e che non trovino che io consegno il sangue innocente ad un giudizio di morte. Che farò dunque di lei? Certo, io l'abbandonerò di nascosto. La notte lo sorprese. Ed ecco che l'angelo del Signore gli apparisce in sogno dicendogli: Non temere di ricevere codesta giovinetta, perocchè ciò che è nato in lei è dello Spirito Santo: ella partorirà dunque un figliuolo, e tu gli darsi il nome di Gesù, perchè sarà desso che salverà il suo popolo dai suoi peccati. Giuseppe si alzò dopo questo sogno, e glorificò il Dio d'Israello che avevagli fatto questa grazia. E tenne seco la fanciulla.

[269]

XV.

Ora, lo scriba Annas venne a Giuseppe e gli disse: Perchè non avete voi assistito all'assemblea? E Giuseppe: Ero stanco del viaggio e mi sono riposato il primo dì. Ed essendosi vôlto, lo scriba vide Maria incinta. E' se ne andò correndo al prete, e disse: Giuseppe, che voi avete garantito, ha peccato gravemente. Ed il prete: Cosa è dunque? E lo scriba: Ha contaminata la vergine che aveva ricevuta dal Tempio, ha celate le sue nozze e non le ha dichiarate ai figli d'Israele. Il principe dei preti rispose: Giuseppe ha fatto ciò? E lo scriba Annas a ripetere: Mandate dei ministri e la troveranno incinta. I ministri andarono infatti e trovarono vero il detto dello scriba. Essi condussero con loro Maria e Giuseppe al giudizio. Il prete disse: Maria, perchè avete voi fatto ciò? perchè avete voi avvilita l'anima vostra ed avete obliato il Signore vostro Dio, voi ch'eravate stata allevata nel santo dei santi, che avevate ricevuto il vostro cibo dalla mano dell'angelo, che avete udito i suoi misteri (ed avete palpitato di gioia alla sua presenza): perchè avete voi fatto ciò? Ma ella piangeva amaramente dicendo: Ne attesto il Dio vivente! sono pura alla presenza del Signore, non giacqui con uomo. Il prete disse a Giuseppe: Perchè avete voi fatto ciò, voi? E Giuseppe: Il Signore Dio è vivente (ed il suo Cristo[64] è vivente) perchè io sono puro di lei. Ed il prete di nuovo: Non dite una falsa testimonianza[65] ma il vero: voi avete nascoste le sue nozze e non manifestate ai figli d'Israele; e non avete inclinata la vostra testa sotto la mano onnipotente[66] affinchè la vostra razza fosse benedetta. Giuseppe si tacque.

[270]

XVI.

Il prete riprese: Restituite la vergine che avete ricevuto dal Tempio. Giuseppe ruppe in lagrime. Ed il prete: Vi farò bere dell'acqua del convincimento[67] ed il vostro peccato sarà manifesto ai vostri propri occhi. Ed il prete avendo preso di quell'acqua, ne diede a bere a Giuseppe e lo mandò nelle montagne e ne ritornò sano. (Ne diede a bere anche a Maria cui mandò pure nelle montagne donde ritornò sana anch'ella.) E tutto il popolo ammirò che il peccato non si fosse in loro manifestato. Il prete disse: Dio non ha manifestato il vostro peccato, io non vi giudico. E li rimandò assoluti. Giuseppe avendo ricevuto Maria, se ne ritornò a casa gaudioso e glorificando il Dio d'Israello.

XVII.

Ora, si pubblicò un decreto di Augusto Cesare per fare iscrivere tutti coloro che erano a Bethleem[68]. Giuseppe disse: Avrò cura di far iscrivere i miei figliuoli, ma che farò di questa giovinetta? (Come la iscriverò io?) la iscriverò come mia moglie? (Ella non è mia moglie perchè l'ho ricevuta dal Tempio per conservarla) come mia figlia? Ma tutti i figli d'Israele sanno ch'ella non lo è. Che ne farò io dunque? Sicuro, il giorno del Signore, farò come il Signore vorrà. E Giuseppe sellò un'asina e la fece cavalcare su quella. Ora Giuseppe[69] e Simone seguivano a tre miglia. E Giuseppe [271] volgendosi vide che Maria era triste e disse tra sè: forse ciò che è in lei l'affligge. Poi volgendosi una seconda volta la vide ridere, e soggiunse: Cosa è Maria, che la vostra faccia è ora gaia, ora malinconica? E Maria a Giuseppe: Gli è che io veggo dinanzi agli occhi miei due popoli[70], l'uno che piange e geme, l'altro che sussulta di gioia e ride. Giunti a mezza via, Maria gli disse: Scendetemi dall'asina, quegli che è in me fa ressa per uscire. Giuseppe la discese dall'asina e le disse: Ove vi condurrò io poichè il luogo è deserto? Ora, Maria disse ancora una volta a Giuseppe: Conducetemi, portatemi via, quegli che è in me fa estremamente premura. E subito e' la portò via.

XVIII.

E trovando quivi una caverna, ve la fece entrare e la lasciò in custodia a suo figlio, mentre egli andava in cerca di una levatrice ebrea nelle regioni di Bethleem. Ora, come Giuseppe era in cammino, egli vide il polo, o il cielo a fermarsi, l'aria tutta interdetta, e gli uccelli del cielo arrestarsi a metà del loro corso. E guardando la terra, scorse una pentola di carne preparata, e degli operai assisi a tavola, le mani nella pentola; e masticando, e' non masticavano nulla, e quei che portavano le mani al capo non vi prendevano nulla, que' che le presentavano alla bocca non vi portavano niente, ma le facce di tutti erano intente verso il cielo. Ed ecco che delle pecore si erano disperse (non avanzavano punto), ma stavano ferme. Ed il pecoraio levando la mano per percuoterle della sua verga, la mano restò tesa in alto. E guardando nel torrente, vide il muso dei becchi approssimato alla verità dell'acqua ma non bere; (infine, ogni cosa, in quel momento, stornata dal suo corso).

[272]

XIX.

Ed ecco che una donna, scendendo dalla montagna, gli dice: Vi dimando, uomo, ove andate voi? E Giuseppe: Cerco una donna levatrice ebrea. Ed ella: Siete d'Israele, voi? Sì, risponde Giuseppe. E colei: Chi è dunque la donna che partorisce nella caverna? — È la mia fidanzata. — Non è dunque la vostra moglie? — E Giuseppe: Non è mia moglie, ma Maria, allevata nel santo dei santi al Tempio; la mi cadde in sorte, ed ha concepito per lo Spirito Santo. — E la levatrice a riprendere: È ciò vero? — Venite e vedete, sclamò Giuseppe. La levatrice andò con lui. Si fermò innanzi la caverna. Ed ecco un nugoletto luminoso ombreggiava la caverna. La levatrice gridò: Oggi l'anima mia è stata magnificata, poichè i miei occhi hanno visto delle cose stupende ed il salvamento è nato in Israello. Ora, di un tratto il nugoletto penetra nella caverna, e con esso una sì grande luce che gli occhi non la potevano tollerare. Poco a poco però la luce si moderò, di guisa che si potè scorgere il bambino che prendeva le mammelle di sua madre, Maria. La levatrice gridò: Questo di oggidì è un gran giorno per me, perchè ho visto un così grande spettacolo. Ella uscì dalla caverna ed incontrò Salomè a cui disse: Ho un grande spettacolo a raccontarvi; una vergine ha concepito colui che la natura sua non comporta (e questa vergine è restata vergine). E Salomè: Per il Signore Iddio vivente! se io non esamino la sua natura, non crederò che la ha partorito.

XX.

La levatrice entrò e disse a Maria: Coricatevi, perchè una grande prova si prepara per voi. E quando Salomè l'ebbe toccata nel luogo proprio, uscì gridando: [273] Sventurata me, empia e perfida, perchè ho tentato il Dio vivente, ed ecco che la mia mano (bruciante di fuoco) cade dal mio braccio. Poi ella si genuflettè innanzi a Dio e disse: Dio dei padri nostri, sovvengavi di me, perchè io mi sono della razza di Abramo, di Isacco e di Giacobbe; io non mi disonorerò innanzi ai figli d'Israello; ma restituitemi ai miei parenti; perchè voi sapete, Signore, che gli era in vostro nome che io adoperavo tutte le mie cure (e le mie vocazioni) e da voi ricevevo la mia ricompensa. Allora l'Angelo del Signore si presenta a lei e dice: Salomè, Salomè, il Signore vi ha esaudita; presentate la vostra mano al bambino e portatelo; egli sarà per voi salute e gioia. Salomè si avvicinò e lo portò, dicendo: L'adorerò perchè è desso il gran re nato in Israello. Ed avendo portato l'infante, di un tratto Salomè fu guarita, e la levatrice uscì dalla caverna giustificata. Ed ecco che una voce le dice: Non annunziate le grandi cose che avete viste fino a che il bambino non entri in Gerusalemme. E Salomè si ritirò giustificata.

[274]

Nota B.

Ciò che segue è estratto dal Vangelo di Nicodemo, o attribuito a questo discepolo, che attestò principalmente la passione e la resurrezione del rabbì di Nazareth. Egli non è naturalmente d'accordo con Giuda. Noi avremo date per tal modo le due versioni; il lettore sceglierà, secondo il suo spirito.

I.

Perchè Annas, e Chaiphas, e Summas, e Batam, Gamaliel, Judas, Levi, Nephtalim, Alessandro e Ciro, e gli altri Giudei vennero verso Pilato, a proposito di Gesù, accusandolo di parecchie cattive azioni e dicendo: Noi sappiamo che Gesù è figlio di Giuseppe il carpentiere, nato di Maria, ed e' dice ch'è figlio di Dio[71], e re, e non solo dice ciò ma vuole abolire il sabbato[72] e la legge dei padri nostri. I Giudei gli dicono: Noi abbiamo per legge di non guarire altrui in dì di sabbato; ora, egli ha guarito zoppi, sordi, paralitici, leprosi, ciechi, demoniaci, per mezzo di cattive pratiche. Pilato disse loro: Come, per mezzo di cattive pratiche? Essi risposero: Sì, egli è mago, ed è per mezzo del principe dei demoni ch'egli scaccia i demoni e che [275] questi gli sono tutti sommessi[73]. Pilato osservò: Non è possibile cacciar via i demoni per mezzo dello spirito immondo, ma per la virtù di Dio[74]. I Giudei gli risposero: Noi preghiamo Vostra Grandezza che lo facciate comparire innanzi al vostro tribunale e lo interroghiate. Ora, Pilato, chiamando un cursore gli domandò: Per qual modo si può condurre il Cristo qui? Il cursore uscì, lo riconobbe, l'adorò, e stese per terra un mantello ch'ei portava al braccio, dicendo: Signore, camminatevi sopra, entrate, perchè il governatore vi chiama. Ma i Giudei, vedendo ciò che il cursore aveva fatto, se ne lamentarono a Pilato dimandandogli: Perchè non gli avete voi fatto intimazione per usciere anzi che per un cursore? Questi, vedendolo, lo ha adorato, ha steso il suo mantello per terra. Pilato chiamò il cursore e chiese: Perchè avete voi fatto ciò? Ed il cursore: Quando mi mandaste di Gerusalemme ad Alessandria[75], io vidi Gesù cavalcare un'umile asina e gli Ebrei a gridargli dietro: Hosanna! tenendo dei rami nelle loro mani; poi altri spiegavano le loro vesti sulla via e dicevano: Salvateci voi che siete nel cielo, benedetto sia colui che viene nel nome del Signore. I Giudei gridarono dunque contro il cursore osservando: Gli è vero, i figli degli ebrei gridavano in ebreo; ma voi, che siete greco, come mai comprendevate la lingua degli ebrei? Il cursore rispose: Interrogai qualcuno dei Giudei chiedendo: Cosa dunque quei figliuoli gridano in ebraico? e' me lo spiegò dicendo: gridano Hosanna! ciò che vuol dire: Signore rendete santo, ovvero Signore, salvate. Pilato obbiettò loro: E voi, perchè attestate voi le parole che quei fanciulli dissero? in che il cursore ha peccato? E' si tacquero. Il governatore ordinò al cursore: Uscite, e di qualunque maniera siasi, fatelo entrare. Il cursore uscì, fece come la prima volta e disse: Signore, entrate, il governatore vi appella.

Gesù entrò e si avvicinò ai portastendardo che tenevano i loro pennoni. Le loro teste s'inchinarono ed adorarono Gesù. I Giudei gridarono sempre più, contro [276] i portabandiera adesso. Ora Pilato disse ai Giudei: Voi non approvate che le sommità degli stendardi si siano curvate da sole ed abbiano adorato Gesù. Ma come gridate contro i portabandiera perchè si sono bassati e l'hanno adorato? Essi risposero: Noi abbiamo visti i porta insegne curvarsi ed adorare Gesù. Pilato chiamò costoro e chiese: Perchè avete voi fatto ciò? I portainsegne risposero: Noi siamo pagani e servitori dei tempj; come potevamo noi adorarlo? Ma come noi tenevamo i nostri pennoni, questi si sono inclinati e lo hanno adorato. Pilato disse ai capi della sinagoga: Scegliete voi stessi degli uomini forti, ch'essi tengano gli stendardi, e vediamo se questi si curvano da sè soli. Gli anziani dei Giudei vedendo dodici uomini ben vigorosi, diedero loro gli stendardi e li fecero comparire avanti al governatore. Pilato ordinò al cursore: Fate uscire Gesù e fatelo rientrare come vorrete. Gesù ed il cursore uscirono dal pretorio. Pilato chiamò i primi porta insegne, giurando loro per la salute di Cesare, che se e' non tenessero fermi gli stendardi quando Gesù entrerebbe, farebbe loro tagliare la testa. Ed ordinò che Gesù rientrasse. Il cursore fece come la prima volta e pregò Gesù di camminare sul suo mantello. Gesù entrò, camminò su quello, e gli stendardi si curvarono e l'adorarono.

II.

Pilato, vedendo ciò, fu preso da terrore, e volle alzarsi dal suo seggio. Ma come e' pensava a ciò fare, la sua sposa, che era lontano, mandogli a dire: Non vi mischiate di codesto giusto[76]; perocchè io ho molto sofferto in sogno la scorsa notte, a causa di lui. I Giudei, udendo ciò, dissero a Pilato: Non vi avevamo noi prevenuto ch'egli è mago? Ecco che egli ha mandati dei sogni a vostra moglie. Pilato chiamò Gesù e gli disse: Udite voi ciò che e' depongono contro di voi? e voi [277] tacete? Gesù rispose: S'e' non avessero facoltà di parlare, non parlerebbero. Ma perchè ciascuno ha il potere di parlare, bene o male, essi vedranno. Gli anziani dei Giudei dimandarono: Cosa vedremo noi? La prima cosa che abbiamo visto di voi, gli è che voi siete nato dalla fornicazione. Poi, che alla vostra nascita, i fanciulli di Betleem sono stati trucidati. In terzo luogo, che vostro padre e vostra madre Maria se la svignarono in Egitto perchè non avevano confidenza nel popolo. Qualcuno dei Giudei presenti, che pensavano bene, soggiunsero: Noi non diciamo che egli è nato dalla fornicazione; codesto discorso non è vero, perchè il matrimonio fu compiuto, come lo attestano persone stesse della nostra nazione. Annas e Caiphas dissero a Pilato: Bisogna ascoltare la moltitudine che grida ch'egli è nato dalla fornicazione ed è mago. Coloro che negano ciò, sono suoi proseliti e suoi discepoli. Pilato domandò a Annas ed a Caiphas: Quali sono codesti proseliti? Risposero: E' dicevano or ora ch'erano pagani, ed eccoli di un tratto divenuti giudei. Elièzer, Asterius, Antonio, Giacomo, Cyrus, Samuel, Isaac, Phinees, Crispus, Agrippa, Annas e Giuda risposero a volta loro: Noi non siamo proseliti, ma figli di Ebrei ed attestiamo la verità, perchè abbiamo assistito al matrimonio di Maria. Ora, Pilato, volgendo la parola ai dodici uomini che avevano ciò detto, disse: Ve ne scongiuro per la salute di Cesare, è costui nato dalla fornicazione? ciò che voi dite è vero? Essi risposero: Noi abbiamo per legge di non giurare perchè ciò è peccato; ma che costoro giurino essi per la salute di Cesare che noi abbiamo mentito, e noi ci dichiariamo colpevoli di morte. Annas e Caiphas osservarono: Codesti dodici non ci crederebbero; ma noi sappiamo che il rabbì è nato dal delitto ed è mago. Egli dice inoltre esser figlio di Dio e re, ciò che noi non crediamo, e perfino temiamo di udire. Pilato fece uscire tutti, eccetto i dodici che attestavano non essere il rabbì nato da fornicazione, fece tirar da parte anche costui, e dimandò loro: Per quale ragione i Giudei vogliono far morire Gesù? I dodici risposero: Il loro zelo proviene da che il rabbì guarisce in giorno di sabbato. E Pilato: Gli è dunque per un'opera buona che vogliono dargli la morte? Sì, signore, sclamarono i dodici.

[278]

III.

Pilato uscì allora dal pretorio e disse agli Ebrei, con grande collera: Prendo la terra a testimonio, che io non trovo colpa in questo uomo. I Giudei risposero: Se e' non fosse un malfattore, non ve lo avremmo menato qui. E Pilato: Prendetelo dunque e giudicatelo secondo la vostra legge. I Giudei fecero osservare: Non ci è permesso di mettere alcuno a morte. Pilato disse ai Giudei: La vostra legge vi dice dunque: non uccidete[77]: non è lo stesso di me? Ed entrando per la seconda volta nel pretorio, Pilato fece venir Gesù solo e gli chiese: Siete voi il re dei Giudei? Gesù rispose: Dite voi ciò da voi stesso o altri ve lo hanno detto di me? Pilato sclamò: Sono Giudeo io forse? La nazione ed il principe dei sacerdoti mi vi hanno consegnato. Cosa avete voi fatto? E Gesù: Il mio regno non è di questo mondo; se lo fosse, i miei ministri avrebbero resistito e non sarei stato gittato ai Giudei; ma ora il mio regno non è qui. Pilato chiese: Voi siete dunque re? Gesù rispose: Voi dite che io sono re. Poi soggiunse: Io sono nato in ciò, sono nato per ciò, per ciò son venuto, vale a dire, per rendere testimonianza alla verità; e chiunque appartiene alla verità ode la mia voce. Pilato chiese: Cosa è dunque la verità? E Gesù: La verità è del cielo. La verità non è dunque sulla terra? osservò Pilato. E Gesù: Fate attenzione che la verità è sulla terra fra coloro che mentre hanno il potere di giudicare, si servono della verità e rendono giuste sentenze.

IV.

Pilato lasciò Gesù nel pretorio, uscì fuori verso i Giudei e disse loro: Io non trovo una colpa sola in [279] Gesù. I Giudei gli rammentarono: Egli ha detto[78]: Io posso distruggere il Tempio di Dio e rifabbricarlo in tre dì. Pilato domandò: Di qual Tempio parla desso? I Giudei risposero: Di quello cui Salomone edificò in quarantasei anni[79]; ed egli ha detto che egli può distruggerlo e rialzarlo in tre dì. Pilato replicò: Io sono innocente del sangue di quest'uomo; voi vedrete. Ed i Giudei: Ebbene, che il suo sangue sia su noi e sui nostri figliuoli. Pilato chiamò gli anziani e gli scribi, i preti ed i leviti ed in segreto disse loro: Non fate ciò: io non ho trovato nulla degno di morte nella vostra accusa in quanto alla guarigione dei malati e la violazione del sabbato. I preti ed i leviti risposero: Per la salute di Cesare, se qualcuno ha bestemmiato[80] è degno di morte. Ora, costui ha bestemmiato contro il Signore. Il governatore fece uscire una seconda volta i Giudei dal pretorio e richiamando Gesù, gli disse: Che ho a fare di voi? Gesù rispose: Come sta detto. E Pilato: Come è dunque detto? Gesù gli apprese: Mosè ed i profeti hanno annunziato la mia passione e la mia risurrezione. Quando i Giudei appresero ciò ne furono grandemente irritati, e sclamarono: Volete voi dunque udire più oltre le bestemmie di codesto uomo? Pilato disse: Se questo discorso vi sembra una bestemmia, prendetevelo, citatelo alla vostra sinagoga e giudicatelo secondo la vostra legge. I Giudei risposero: La nostra legge decide che se un uomo pecca contro un uomo egli merita ricevere quaranta colpi meno uno[81]; ma se ha bestemmiato contro il Signore, di essere lapidato. Pilato soggiunse: Se questo discorso è una bestemmia, giudicatelo voi stessi secondo la vostra legge. I Giudei continuarono: La nostra legge ci ordina di non uccidere alcuno[82]. Noi vogliamo [280] ch'egli sia crocifisso, perchè è degno della croce. E Pilato: Non è bene che sia crocifisso; ma castigatelo e rinviatelo[83]. Ora il governatore guardando al popolo giudeo che lo circondava vide taluni piangere. Ei disse al principe dei sacerdoti: Tutta la moltitudine non desidera la sua morte. Gli anziani invece osservarono: Noi e tutta la moltitudine non siamo venuti qui che per domandare ch'egli muoia. E Pilato: Perchè morrebbe egli? Ed essi: Perchè si dice figlio di Dio e re.

V.

Ora, un certo Nicodemo, giudeo, si presentò innanzi al governatore e disse: Vi prego, giudice misericordioso, che vogliate ascoltarmi un istante. Pilato rispose: Parlate. E Nicodemo: Sono io che ho detto agli anziani, agli scribi, ai sacerdoti, ai leviti ed a tutta la moltitudine dei Giudei nella sinagoga: che vi volete da quell'uomo? egli fa parecchi prodigi, buoni e gloriosi, tali che alcun uomo sulla terra non ne fece mai nè ne farà; licenziatelo e non gli fate alcun male. Se egli è Dio[84], i suoi prodigi sussisteranno; se è uomo, saranno dissipati. Avvenne lo stesso quando Mosè, inviato di Dio in Egitto, fece dei prodigi che Dio gli aveva ordinato di fare innanzi a Faraone re d'Egitto. Vi erano Jannés e Membrés,[85] maghi. Essi rifecero per gl'incanti i prodigi fatti da Mosè, ma non tutti; ed i prodigi fatti per malìa, non essendo di Dio, come voi sapete, voi scribi e farisei, perirono in una a coloro che li avevano fatti ed a coloro che li avevano creduti[86]. Lasciate dunque andare codesto uomo, perchè i prodigi di cui lo accusate sono di Dio, ed e' non è degno di morte. I Giudei risposero a Nicodemo: Voi siete [281] divenuto suo discepolo e parlate per lui. Nicodemo replicò: Ed il governatore è anch'egli divenuto suo discepolo? eppure, egli parla in favore di lui, egli che tiene la sua dignità da Cesare. I Giudei fremettero, intendendo queste parole, mostrarono i denti a Nicodemo e dissero: Ricevete da lui la verità ed abbiatevi il vostro possesso col Cristo. Nicodemo riprese: Sia pure così, e ch'io lo riceva come voi dite.......

IX.

E Pilato facendo venire Nicodemo ed i dodici uomini che avevano detto che Gesù non era nato dalla fornicazione sclamò: Che farò mai, poichè si dichiara una sedizione nel popolo? E noi: Non sappiamo; che coloro che eccitano la sedizione veggano essi stessi. Pilato fece ritornar la moltitudine una seconda volta e parlò: Voi sapete che è vostro costume, il giorno degli azzimi[87] che io metta in libertà un prigioniero. Ho un prigioniero insigne[88] omicida, chiamato Bar Abbas, e Gesù che chiamasi Cristo nel quale non trovo alcun delitto di morte. Quali di questi due volete voi che io grazi? Tutti gridarono: Liberate Bar Abbas. E Pilato: Che farò allora di Gesù detto il Cristo? Ed essi: Che sia crocifisso. Poi gridarono di nuovo[89]: Pilato, voi non siete l'amico di Cesare se voi lo assolvete, perocchè egli ha detto esser figlio di Dio e re: volete voi che sia re costui e non Cesare? Allora Pilato pieno di collera sclamò: La vostra nazione è sempre stata ribelle e voi vi siete mostrati nemici a coloro che vi fecero del bene. I Giudei risposero: Chi sono coloro che si sono mostrati favorevoli a noi? E Pilato[90]: Il vostro Dio che vi ha tirati dalla dura schiavitù degli Egiziani.............

[282]

XI.

Il centurione, ritornando al governatore, gli riferì tutto ciò che era accaduto. E quando il governatore ebbe ciò appreso, ne fu afflitto; e riunendo tutti i Giudei in una volta disse loro: Avete voi visti i segni comparsi nel sole e tutti i prodigi avvenuti mentre Gesù moriva? I Giudei ciò udendo, risposero: L'eclissi è arrivato come di antico costume. Ora tutti queglino che lo conoscevano si tenevano di lontano, allo stesso modo che le donne che avevano seguito Gesù dalla Galilea, e guardavano le cose. Ed ecco un certo uomo di Arimathie, chiamato Giuseppe[91], discepolo anch'esso ma di nascosto per paura dei Giudei, eccolo venire al governatore e pregarlo di permettergli di togliere il corpo di Gesù dalla croce. Il governatore il permise. Nicodemo arrivò portando seco un miscuglio di mirra e d'aloe di circa cento libbre. Essi discesero piangendo, il corpo di Gesù dalla Croce, lo avvolsero in pannolini con aromi, secondo l'uso di seppellir dei Giudei, e lo misero in un monumento nuovo che Giuseppe aveva fatto costruire tagliandolo nella pietra, ove alcun uomo non era stato mai messo. Poi rotolarono una grande pietra alla bocca della caverna.

XII.

I Giudei ingiusti, apprendendo che Nicodemo aveva dimandato e seppellito il corpo di Gesù, lo cercavano con gli altri dodici uomini, che avevano detto Gesù non esser nato dalla fornicazione, e gli altri che avevano attestato le buone opere del rabbì. Tutti si erano celati per paura, tranne Nicodemo, che si mostrò loro quando entrarono in sinagoga.......

[283]

XIII.

Come tutti ammiravano queste cose, ecco un dei soldati di guardia al sepolcro che dice nella sinagoga: Mentre noi guardavamo il monumento di Gesù, un tremuoto ha scossa la terra[92] e noi abbiam visto l'angelo di Dio. Egli ha rimossa la pietra del monumento, vi si è assiso sopra, ed il suo sguardo somigliava al fulmine, le sue vestimenta sembravano neve. Noi siamo divenuti come morti di paura. E l'abbiamo udito dire alle donne, ravvicinate al sepolcro: Non temete; so che cercate Gesù crocifisso; egli è risuscitato qui come aveva predetto. Venite, osservate il sito ove l'avevano allogato, ed andate a dir subito ai suoi discepoli, ch'egli è risuscitato da morte, che vi precederà in Galilea, e che sarà quivi che lo rivedrete, come egli vi aveva promesso. I Giudei fecero venire tutti i soldati che avevano guardato la tomba di Gesù, e chiesero: Chi sono codeste donne a cui l'angelo ha parlato? Perchè non le avete arrestate? I soldati risposero: Non sappiamo chi fossero quelle donne; ma essendo noi divenuti come morti per paura dell'angelo, come potevamo arrestarle? Ed i Giudei: Pel Dio vivente, noi non vi crediamo. Ed i soldati: Voi avete udito e visto Gesù fare di sì grandi miracoli e non credeste; come potreste creder voi? Voi avete detto molto bene: Pel Dio vivente! sì, il Signore è veramente vivente. Noi abbiam saputo che avete rinchiuso Giuseppe, che aveva seppellito Gesù, rinchiuso in una camera di cui avevate suggellata la toppa, e che, aprendola, non ve lo avete più trovato. Restituiteci Giuseppe cui avete custodito in una camera e noi vi restituiremo Gesù che noi abbiamo custodito in un sepolcro. I Giudei risposero: Vi daremo Giuseppe, dateci Gesù. Giuseppe è nella sua città di Arimathia. Ed i soldati di rimando: Se Giuseppe è ad Arimathia, Gesù è in Galilea come abbiamo [284] udito dall'angelo annunziarlo alle donne. I Giudei, udendo ciò, temettero e si dissero: Coloro che ascolteranno questi discorsi crederanno in Gesù. Essi raccolsero dunque molto danaro e dandolo ai soldati soggiunsero: Dite che come voi dormivate la notte, i discepoli di Gesù sono venuti e vi hanno rubato il corpo. E se ciò sarà raccontato a Pilato noi risponderemo per voi e vi metteremo in sicurtà. I soldati ricevendo i danari dissero ciò che i Giudei avevano ordinato ed i loro discorsi si divulgarono ovunque.

XIV.

Ora, un certo sacerdote chiamato Phinies, e Ada maestro di scuola, ed un levita per nome Agèe vennero di Galilea a Gerusalemme e dissero al principe dei sacerdoti ed a quanti erano in sinagoga: Il Gesù che avete crocifisso lo abbiamo veduto noi assiso fra i suoi undici discepoli parlar sulla montagna degli Olivi[93].

················

Ma Annas e Caiphas consolandoli dissero: Dobbiamo noi creder forse i soldati del sepolcro di Gesù? I suoi discepoli li hanno pagati per rubare il corpo e farli dire che l'angelo aveva rimossa la pietra dal monumento. Non si deve credere in alcun modo a codesti stranieri, che hanno ricevuto da noi pure dei denari: ed han ripetuto i nostri detti. Essi sono fedeli o a noi o ai discepoli di Gesù.

FINE DEL SECONDO ED ULTIMO VOLUME.

NOTE:

1. S. Matteo, Cap. XII. S. Luca, Cap. XI.

2. La madre di Giovanni ed i fratelli di Gesù erano i più ingordi al bottino, secondo i Vangeli.

3. S. Marco, cap. III. S. Giovanni, cap. VII, VIII, X.

4. I tories, come li chiama il signor W. H. Dixon nel suo eccellente libro intitolato The holy land, che con molto frutto ho consultato sovente.

5. Giuseppe, Antich. XI, cap. VI.

6. S. Luca, Cap. X.

7. San Marco, Cap. VIII, S. Gio., Cap. IX.

8. S. Gio., cap. X.

9. Un sanhedrin che pronunciava la pena di morte una volta in sette anni meritava di passare per sanguinario. Rabbì Eliezer aggiunge: «Egli meriterebbe questa qualificazione condannando una volta in 70 anni.» Rabbì Tarfon e Rabbì Akiba dicono: «Se noi fossimo stati membri del Senato non avremmo giammai condannato a morte nessuno.» Ma Simon figlio di Gamaliel, rispose: «Non sarebbe ciò un abuso, e non avreste voi temuto di moltiplicare i delitti in Israello?» Mischnà, Trattato delle pene, cap. I.

10. S. Gio., cap, X.

11. Vedi Böttiger, La teletta di una dama romana.

12. Parietes tyriis et hyacintinis et illis regiis velis quæ vos operose resoluta transfiguratis, pro pictura abutuntur. Tertull., de Hab. mul., cap. V.

13. «Quale vita sarebbe sufficiente per narrare tutti i benefizii dell'eguaglianza?... Nell'universo, essa produce l'insieme; nelle città, la democrazia ben regolata, sì differente dall'oclocrazia ove la moltitudine ignorante ed appassionata vorrebbe comandare; nel corpo, è la salute; nelle anime, l'onestà e la virtù. L'ineguaglianza invece, è la causa prima del male che si fa quaggiù». Filone. Della creazione del principe, ecc. Il precetto dell'eguaglianza non era quindi stato evocato e predicato da Gesù pel primo.

14. Schiavo che infliggeva i castighi del padrone agli altri schiavi.

15. Herder: Del redentore degli uomini secondo i nostri tre primi Evangelii; Del figlio di Dio, salvatore del mondo, secondo l'Evangelio di San Giovanni; Paulus: Commentario degli Evangelii; Vita di Gesù; Schleiermarcher: Dogmatica Lezioni sulla vita di Gesù: — citate da Strauss; — Hase: La vita di Gesù, — e diversi altri scienziati tedeschi spiegano la parte taumaturga della vita del Nazareno mediante mezzi naturali, Paulus sopratutto. Hase invoca anche il magnetismo «questa forza misteriosa che si svolge dalle viscere della natura per agire sulla vita ammalata.» Giuda non ne sapeva tanto; egli racconta senza spiegare.

16. Gli Evangelii e gli autori della vita di Gesù hanno raccontato le cause e le ragioni di questi sospetti, Mirjam ripeteva ingenuamente: Nonne repetita est in me historia Adami?.... Munda sum, nullum virum cognovi. Dixit autem Ioseph: Et undenam est ergo quod habes in utero? Et respondit Maria: Vivit dominus meus quod non scio unde mihi est. Proto Evangelio di S. Giacomo. Fabric. I, pag. 23. Ispirata da questo non scio, l'opinione mondana acquistò di buon'ora una grande estensione, poichè la traccia n'è restata in uno scritto ebraico abbastanza reputato, quantunque ripieno di puerilità, e di insulsaggini da satirico, voglio dire il Sepher Toledod Jeschri, ovvero Libro degli atti di Gesù, tradotto in latino e confutato da Wagenseil nella raccolta intitolata Tela ignea Satani (Vedi alla fine del volume la nota A). Origene parla pure di questo fatto, e dice: Videamus an non cæci fuerint auctores hujus fabula? de virgine deprehensa cum juvene Panthera in adulterio et a fabro repudiata. (Contra Celso, lib. I). Nell'evangelio di Nicodemo (Fabric. Aport. t. 1) gli anziani dei Giudei dicevano: Noi sappiamo che sei nato da un commercio illecito. Altri rispondevano: Nos non dicimus natum esse ex fornicatione. Hic sermo vester non est verus, quoniam desponsatio facta est. Et responderunt: Omnis multitudo audienda est quæ clamat fornicatione natus est.

17. S. Giov., Cap. XI, v. 42.

18. Salvador, Gesù Cristo e la sua Dottrina. Tomo II, pagina 146, ediz. del 1864, Parigi.

19. Ananus era l'uomo il più giusto ed il più venerabile; la sua alta nascita e la sua dignità ricevevano un maggiore splendore dalla sua affabilità, e dalla cura che prendeva di farsi eguale ai più infimi. Amava con passione la libertà ed il regime popolare. Il bene pubblico aveva il passo sopra i suoi interessi privati. Faceva grande stima della pace, e non dubitava che la Giudea non dovesse perire, a meno di venire ad un compromesso onorevole coi suoi dominatori. Giuseppe, Guerra giudaica, lib. IX, cap. V.

20. In fatto gli Evangeli sono ripieni di questa dichiarazione.

21. Salvador: Gesù Cristo e la sua dottrina, volume II, cap. XXIX.

22. Vedi Voltaire: Estratto dei sentimenti di Giovanni Meslier, cap. II. Dizionario Filosofico, articolo Miracoli.

23. S. Giovanni, cap. X, vers. 33. Sed cum homo sis, teipsum facis deum.

24. Deuteronomio, cap. XXXII, vers. 39. Isaia, cap. XLIII, vers. 10, 11, cap. XLV, vers. 5-22.

25. Deuteronomio, cap. XIII.

26. In gazophilario. S. Gio., cap. VIII, vers. 2-20.

27. Libro dei Maccabei, cap. IV, vers. 9, 10, 14, 15.

28. Geremia, cap. XLIV.

29. Matteo, X, vers. 34-37. Luca, XII, vers. 49-53. Id. c. XIV, vers. 31, 33, 25, 26.

30. Strana coincidenza! Uang-mang sosteneva nella China l'istessa parte del Rabbì di Nazareth a Gerusalemme, all'istessa epoca. Vedi il curioso libro di Giuseppe Ferrari; La China e l'Europa parte 3.ª, Cap. 1.º

31. Salvador, Tom. I, cap. III, pag. 270.

32. Giuseppe dice di sè stesso nella sua biografia «che a quattordici anni egli era tanto oltre nello studio dei libri sacri, che i sacrificatori ed i principali personaggi non esitavano a consultarlo sull'interpretazione delle leggi.»

33. Mischnà, Sentenze dei padri, cap. V. Salvador, Storia delle Istituz. di Mosè, lib. VII, cap. V.

34. Giov. cap. XI.

35. Questo verso infame fu indirizzato da Marziale a sua moglie.

36. «Reimarus, dice Strauss (pag. 362), ha voluto vedere nell'entrata trionfale un attentato politico, mediante il quale Gesù, aiutato dal popolo, avrebbe voluto impadronirsi del potere. Altri son giunti perfino a contestare la realità dell'episodio, deducendolo dalla profezia di Zaccaria.... Gli è ben possibile che Gesù, il quale non pretendeva declinare assolutamente la parte messianica, ma che teneva a combattere il concetto regnante del messia bellicoso e terribile, si sia realmente appoggiato del testo di Zaccaria per presentarsi al popolo come il principe clemente della pace.» Strauss, Nouvelle vie de Jésus, t. 1.

37. Luca, cap. XIX; Giov., cap. XII.

38. Renan si dimanda perfino «s'e' non si ricordò delle chiare fontane della Galilea, ove egli avrebbe potuto rinfrescarsi; la vigna ed il fico sotto cui avrebbe potuto assidersi; le giovanette che avrebbero forse consentito ad amarlo... e se non pianse di non esser restato un semplice artigiano di Nazareth». Pag. 378-379.

39. Aequalem se fecisse Deo. Giov., cap. V, v. 16-18.

40. Luca, cap. XIX; Giov., cap. XII.

41. «Lo si vedeva continuamente circondato da uomini e da donne poco commendevoli... Agli occhi degli anziani del popolo questa circostanza era aggravata da una anomalia: che, a trent'anni, il maestro di Nazareth non era ammogliato... Nè essi approvavano di più le sorgenti d'onde egli attingeva i suoi mezzi giornalieri di esistenza». Salvador, tom. II, pag. 146. Et iter faciebat per civitates et castella; et cum illo mulieres multae: et Maria quae vocatur Magdalena... et Johanna uxor Tusae... et Susanna et multae aliae quae ministrabant ei de facultatibus. Luca, cap. VIII, v. 2-3.

42. Ecco ciò che nella storia maligna degli evangelisti fu cangiato in un bacio, e divenne la sorgente di tutte le assurdità, messe perfettamente in chiaro dagli storici di Gesù Strauss e Renan.

43. Giov., cap. III, v. 13, 31; cap. V, v. 19, 26; cap. VI, v. 51; cap. VIII, v. 42; cap. X, v. 30; cap. XIV, v. 8, ecc.

44. Giov., cap. XII, v. 21.

45. Innocenzo III ha definito il papa con queste parole: Vicarius Jesu Christi, successor Petri, Christus Domini, Deus Phardonis, citra Deum, ultra hominem, minor Deo, major homine. — Serm., De Consacr. Pontif.

46. «Ho parlato apertamente al mondo; ho insegnato nella sinagoga e nel Tempio ove si recano tutti gli Ebrei; non ho mai nulla detto in secreto. Perchè ti rivolgi a me? Domanda a coloro che mi hanno udito, ciò che ho detto. Essi lo sanno.» S. Giovanni, cap. XVIII, vers. 20-21.

47. Per essere più chiaro, traduco, per questo capitolo, le ore ebraiche, in ore come noi le contiamo oggidì.

48. Giov., cap. XIX, v. 7.

49. Idem., cap. XIX, v. 12-15.

50. Giov., cap. XVIII, v. 33, 34, 35, 36, 37, 38. Vedi pure la nota B.

51. Giov., cap. XX, v. 2; Luca, cap. XXIV, v. 11. Et visa sunt illis sicut deliramentum verba ista et non crediderunt illis.

52. Num., cap. XVII.

53. Levit., cap. XXV, v. 9.

54. Num., cap. XVI.

55. Luc. cap. I, v. 20.

56. Genes., cap. XXIV, v. 15.

57. Luc., cap. I, v. 28.

58. Levit., cap. I, v. 35.

59. Levit., cap. I, v. 43.

60. Id., cap. II, v. 33-50.

61. Id., cap. I, v. 24.

62. Luc., cap. VII.

63. Deut., cap. XXII, v. 13.

64. Samuel., cap. XII, v. 3-5

65. Esod., cap. XX, v. 14.

66. Piet., Epis., cap. V, v. 6.

67. Num., cap. V, v. 18.

68. Luc., cap. II, v. 1.

69. Marco cap. VI, v. 3. Questo Giuseppe è altresì nominato Josè, ed i quattro fratelli di Gesù sono Giacomo, Giuseppe, Giuda e Simone.

70. Genes., cap. XXV, v. 23.

71. Matt., c. X. v. II; Marc., c. XV. v. 2; Luca, c. XXIII, v. 2.

72. Matt., c. XII; Luc., cap. XIII, v. 18; Giov., cap. V, v. 18.

73. Matt., cap. IX. v. 34, e cap. XII, v. 14; Luca, cap. X, v. 17.

74. Matt., cap. XII, v. 13; Luca, cap. II, v. 2.

75. Act., cap. IV, v. 6.

76. Matt., c. XXVII, v. 19.

77. Esod., cap. XX, v. 15.

78. Giov., cap. II, v. 20.

79. Si trova lo stesso numero nel vangelo di San Giovanni, cap. II, v. 20, quantunque Salomone l'abbia fabbricato in soli sette anni, lib. III. Reg., c. VI, v. 38, e sia stato riedificato da Erode in nove anni e mezzo. Gius., Antich., lib XV, cap. XIV.

80. Levit., cap. XXIV, v. 16; Deut., cap. XIII, v. 10.

81. II, Corint. cap. XI, v. 24.

82. Esod., c. XX, v. 15.

83. Luca, cap. XXIII, v. 16.

84. Atti, cap. V, v. 38.

85. II, Timot, cap. III, v. 8, si legge Jambres.

86. Atti, c. V, v. 37.

87. Giov., c. XXIII, v. 39.

88. Matt., c. XXVII, v. 16.

89. Giov., c. XIX, v. 12.

90. Atti, c. VII.

91. Giov., c. XIX, v. 38.

92. Matt., c. XXVIII, v. 2.

93. Matt., c. XXVIII, v. 16.

DEL MEDESIMO AUTORE:

Le notti degli emigranti a Londra L. 1 —
Il sorbetto della regina (Seconda Edizione) 1 —
Il Re prega 3 —
Il Concilio 1 —

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (Sakya-Muni/Sakya-Mouni, Jeschua/Jeschuà e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.