The Project Gutenberg eBook of Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo IV Author: Carlo Botta Release date: June 6, 2014 [eBook #45904] Language: Italian Credits: Produced by Carlo Traverso, Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by The Internet Archive) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK STORIA D'ITALIA DAL 1789 AL 1814, TOMO IV *** Produced by Carlo Traverso, Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by The Internet Archive) STORIA D'ITALIA DAL 1789 AL 1814 SCRITTA DA CARLO BOTTA TOMO IV CAPOLAGO _presso Mendrisio_ Tipografia Elvetica MDCCCXXXIII STORIA D'ITALIA LIBRO DECIMOQUARTO SOMMARIO Nuova confederazione in Europa contro la Francia. Spedizione d'Egitto. Presa di Malta. Buonaparte sbarca, e prende piede in Egitto. Battaglia navale di Aboukir. Accidenti di Napoli. Garat, ambasciadore di Francia presso al re Ferdinando. Suo discorso al re. Effetti prodotti nel regno dalla vittoria conseguita dagl'Inglesi ad Aboukir. Il re Ferdinando si risolve alla guerra contro la Francia: si muove contro lo stato Romano, e se ne rende padrone. Brutta condotta dei Napolitani a Roma. Accidenti in Cisalpina: trattato d'alleanza fra le due repubbliche. Trouvé, ambasciadore di Francia in Cisalpina. Suo discorso d'ingresso al direttorio Cisalpino; riforma violentemente la constituzione data da Buonaparte: mali umori prodotti da quest'operazione. Scritti pubblicati contro di Trouvé, e di Rivaud, che gli era succeduto. Sette, e congregazioni politiche nate in Italia pei cambiamenti fatti in Cisalpina. Ma tempo è oramai, che ci alziamo a descrivere alcune maggiori cose, per cui mutossi inopinatamente lo stato d'Europa, quel dell'Africa turbossi, le Ottomane spade chiamaronsi ad insanguinar l'Italia, ed il dominio di questa combattuta parte d'Europa passò da Francia a coloro, che di nuovo la combatterono. Concluso il trattato di Campoformio, si riposava la Francia in pace con tutte le potenze del continente, ed oltre a ciò aveva per alleate la Spagna, il Piemonte, la Cisalpina e la Olanda. Le vittorie conseguite, il nome de' suoi generali, il valore e costanza dei suoi soldati, avevano dato timore a tutti i principi, massimamente all'imperatore d'Alemagna, che era stato battuto da più forti percosse, ed aveva sofferto maggiori danni. Per la qual cosa, quantunque tutti vedessero mal volontieri confermarsi in Francia, vale a dire nel centro dell'Europa, principj contrari alla natura dei governi loro, contenuti dal timore, nissuno ardiva di muoversi, ed aspettavano tempi migliori. Perciò la Francia, non avendo nissun sospetto vicino al continente, poteva voltar tutte le sue forze contro l'Inghilterra. A ciò fare ella si trovava molto ben provveduta. Abbondava di navi da guerra proprie, di capitani di mare, e di marinari eccellenti, e di più poteva aggiungere alla sua tutta la marinerìa della Spagna e dell'Olanda, sue alleate. Il pericolo dell'Inghilterra era gravissimo tra per questo, e per le cose tutte di Francia, d'Olanda, e di Spagna tanto vicine che si ritrovavano in potere del suo nemico; i porti d'Italia alla medesima signorìa obbedivano. I soldati di terra, ed i generali dell'esercito, che si potevano imbarcare per la fazione, erano per fama, e per valore egregi. Già si spargevano voci della spedizione contro l'Inghilterra, già si facevano concorrere le navi, sì grosse che spedite, nei porti più vicini, e già Pleville-Leplay, ministro di marina, e ammiraglio di Francia, andava sopravvedendo le coste, che prospettano l'Inghilterra. Era il governo di Francia desideroso di fare questa spedizione per tenere sempre più gli animi sospesi, e per impiegare generali, e soldati vittoriosi, usi alle guerre, e che non avrebbero mai quietato nella pace, e volentieri si sarebbero messi a tentar novità con pericolo dello stato: al che si sapeva, che fra tutti Buonaparte era inclinato; il direttorio aveva avuto sentore dei tentativi fatti presso al vincitore d'Italia dai confederati per rimettere i Borboni, e delle promesse, e delle speranze da lui date su di questo disegno. Nel che si vedeva, che o volesse attenere le promesse ai principi, o le volesse usare per se, era ugualmente pericoloso al direttorio. In questa condizione di tempi i ministri d'Inghilterra, Pitt principalmente, guida allora, e indirizzatore dei consigli di quel reame, conobbero il pericolo, in cui erano, tra per le forze del nemico, ed ancora per esservi nell'Inghilterra medesima non pochi, che avendo accettato i principj della rivoluzione Francese, e desiderando di porgli in opera nella patria loro avrebbero potuto secondar i Francesi, e cooperare alla ruina, e sovvertimento dell'antico stato. Però avendo potentissima occasione di muoversi, si mettevano all'ordine per ovviare a tanto precipizio, tentando con ogni sforzo di accendere un novello incendio di guerra sul continente, con stimolar di nuovo le potenze alle cose di Francia. Ciò amavano meglio, che le speranze incerte e lontane di Buonaparte. Per commovere adunque novellamente tutto il mondo, comandavano ai loro ambasciatori e ministri presso i potentati d'Europa, e massimamente a quello presso l'Austria, che con efficaci parole esponessero il pericolo, che sovrastava a tutti gli antichi governi, se la repubblica Francese mettesse ferme radici e si confermasse, se quei principj sovvertitori di ogni buon governo prevalessero; allegassero le rovine d'Italia e d'Olanda; rappresentassero la Svizzera recentemente contro ogni fede assalita, con crudeltà invasa, con avarizia spogliata; dimostrassero, già d'ogni intorno, ad onta della pace giurata, romoreggiare all'Austria le armi tiranniche, i principj perturbatori, le grida degli scapestrati libertini. A che dar tempo a chi previene il tempo? questo essere il momento d'insorgere, che le cose erano tenere; l'aspettare, essere eccidio manifesto: però rendersi necessario il fare senz'altro indugio ogni sforzo per ispegnere quei mostri, che minacciavano di voler tutto divorare. Quest'erano le esortazioni dei ministri d'Inghilterra: offerivano al tempo stesso denari, ed ajuti di genti. A queste instigazioni rispondeva l'Austria, che troppo più che si convenisse, erano state debilitate le sue forze nell'ultima guerra, troppo più esauste le sue finanze, troppo più l'inimico si era fatto grosso, massime in Italia, perchè ella potesse subito, e sola sul continente venire ad un cimento tanto pericoloso colla Francia; che non ostante si offeriva ad insorgere di nuovo, ed a correre all'armi, se la Russia consentisse a voler anch'essa venire efficacemente a parte della contesa e la spalleggiasse con pronti ajuti. Aggiungeva che nell'opera della Russia consisteva tutta l'importanza del fatto. La Russia tentata rispondeva, perchè ella, così come l'Austria, stimava miglior partito il farsi strada coll'armi proprie che lo stare alle speranze di Buonaparte, che s'accosterebbe volentieri alla lega, quando l'Inghilterra l'assicurasse della Turchìa: temeva, che muovendo le armi contro la Francia, la Porta Ottomana si muovesse contro di lei. Gl'Inglesi allora, ed a questo fine tentarono il governo Ottomano. Rispondeva il sultano, che per l'antica unione della Porta con quel paese non voleva muovere le armi contro la Francia, nè collegarsi con loro che le muovevano; perchè poco temevano gli Ottomani dei principj Francesi, e che poco loro importava, che la Francia vivesse in repubblica o monarchìa. Non potendo adunque i ministri d'Inghilterra con questi stimoli, e promesse venir a capo dell'intento loro di seminar nuove discordie, ed importando alla salute dell'Inghilterra, che nascessero presto nuove turbazioni, si voltavano ad altre arti, sperando di ottenere dalla Francia stessa contro di se medesima quello, che non avevano potuto conseguire da' suoi nemici. A questo fine mandavano agenti a posta a Parigi con le mani piene d'oro, i quali dicevano al direttorio, ed a tutti che avevano autorità nelle cose, che per verità e' bisognava trovar nuove occupazioni ai soldati, acciocchè non se ne stessero oziosi con pericolo di novità nello stato; che e' bisognava trovar nuovo pascolo all'ambizione dei generali, massime di Buonaparte, che allora si viveva in Parigi con la mente volta a cose nuove; ma che la spedizione contro l'Inghilterra non era impresa da doversi fare, perchè un generale, e soldati, che acquistassero vittoria di un paese così importante, così ricco, e così vicino alla Francia, qual era l'Inghilterra, avrebbero poscia potuto facilmente farsi padroni del governo stesso di Francia; che perciò ponendo anche l'esito felice della spedizione d'Inghilterra, sovrastava un gran pericolo, anzi il più grande di tutti; che pertanto era d'uopo voltare i pensieri altrove, e verso paesi più lontani, ma però di molta importanza, perchè in questo caso la fama delle cose fatte sarebbe meno pregiudiziale, e ad ogni modo avrebbe il governo tempo di assicurarsi contro i tentativi di generali e soldati vittoriosi: pensassero bene, quanto già loro fosse molesta la fama, e la grandezza di Buonaparte per le vittorie d'Italia, e qual sospetto darebbe loro, se la potente Inghilterra vincesse. A queste cose astutamente soggiungevano, che pareva, che l'Egitto fosse paese, dove acconciamente si potesse mandare l'esercito, contrada ricca, poco dipendente dalla Porta, a cavallo tra l'Asia e l'Europa. Quai vantaggi pel commercio di Francia, quai progressi per la civiltà, quali speranze per le Indie, se a Francia accadesse di farsi padrona dell'Egitto? Speravano gli autori di queste insinuazioni, che l'assaltare la Francia l'Egitto avesse ad essere per lei cagione di nimicizia col sultano, la qual nimicizia era il fondamento principale di tutte queste nuove macchinazioni. Questi discorsi andavano molto a versi del direttorio. Ma da un'altra parte i medesimi agenti andavano tentando l'animo di Buonaparte con dirgli, che l'impresa d'Inghilterra non era di così facile esecuzione, come forse si aveva concetto nell'animo, e come pareva a prima giunta, per gli ordini antichi, e tanto radicati in quel regno, per la forza del suo navilio, per l'altezza d'animo di tutta la nazione a non lasciarsi così di leggieri conquistare dai Francesi, nazione sua emola; pensasse al lagrimevole fine di Hoche; considerasse, che la conquista dell'Inghilterra ingelosirebbe il direttorio, e lo farebbe facilmente precipitare in partiti pericolosi, e funesti alla fama, ed all'essere suo; che sarebbe in paese più lontano assai meglio posto in propria balìa per operare con più libertà; che pure un tal paese s'appresentava alle menti loro, la cui conquista ecciterebbe tanto grido in Europa, e tanto lustro aggiungerebbe al suo nome, quanto veramente la conquista dell'Inghilterra, e che quest'era, a parer loro, l'Egitto. Piacque la proposta al giovane capitano, il quale, sebbene fosse giusto e sagace estimatore degli uomini e delle cose in ogni altra faccenda, sentiva ciò non ostante un poco del romanzesco, quando si trattava di guerra, e di gloria militare. Aveva egli già in quel tempo voglia, e proposito di disfar il governo del direttorio, cioè quello degli avvocati, come diceva, e siccome impaziente e subito in tutte le sue azioni, gli pareva ogni momento mille anni, che non venisse all'esecuzione. Nondimeno la guerra d'Egitto gli gradiva molto a motivo del romanzo, ed a questa accomodava finalmente l'animo dicendo, che un governo, che pure aveva di fresco concluso una pace gloriosa, non poteva così facilmente essere distrutto. Sperava, che mentre egli conquistasse l'Egitto, e facesse vieppiù chiaro il suo nome per una impresa tanto straordinaria, sarebbe nata o qualche turbazione in Francia, o qualche guerra fuori, che avrebbe dato occasione ai popoli di desiderarlo, e che intanto la memoria di quel beneficio della pace data così recentemente dal direttorio si sarebbe debilitata. Ma gli agenti d'Inghilterra, e quelli, che da loro si erano lasciati o sedurre o ingannare, persuadevano con efficaci parole al direttorio, che per l'occupazione dell'Egitto non si sarebbe la Porta tenuta offesa, nè la concordia fra i due stati interrotta. Adducevano, che poca era la dipendenza dell'Egitto dalla Porta; che i Mamalucchi, nemici irreconciliabili del governo Ottomano, ne erano i veri e reali signori; che contro di questi dovevano i Francesi protestare di voler voltar le armi; che si poteva far credere alla Porta, che l'occupazione dell'Egitto sarebbe momentanea, e necessitata solamente dalla guerra, che la Francia aveva con l'Inghilterra; che la provincia sarebbe di nuovo rimessa in potestà della Porta con molta maggior divozione di prima per la distruzione dei Mamalucchi, e che finalmente si potevano rappresentare ai ministri Ottomani molti vantaggi commerciali per la presenza dei Francesi in Egitto. In tale forma accordate le cose s'incominciava a disporre gli animi in Francia ad un'impresa tanto straordinaria. Vi si parlava dell'Egitto, come di una terra promessa, della prosperità del commercio, della scoperta delle antichità, dei progressi della civiltà, del cacciamento degl'Inglesi dall'Indie, della padronanza di quelle ricche sponde del Gange. Allignavano facilmente questi pensieri in Francia: perchè la nazione, animosa per indole propria, era a quei tempi talmente accesa, che qualunque più alto e difficoltoso fatto le pareva di facile esecuzione, e la difficoltà stessa le era sprone e speranza. Taleyrand leggeva all'Instituto uno scritto composto con singolare eleganza e maestrìa, con cui dimostrava e l'importanza dell'Egitto, e l'utilità della sua possessione. Si dava voce, ch'egli stesso fosse per esser mandato ambasciatore straordinario presso alla Porta Ottomana per ispiegar bene a quel governo i pensieri della Francia rispetto alla spedizione d'Egitto, e per mantener tuttavia salva l'antica concordia fra i due stati. Furono anche spediti dispacci indirizzati a lui a Costantinopoli, come se già fosse partito, ed avviato a quella volta. Intanto con grandissimo apparato si provvedevano le cose necessarie alla spedizione. Concorrevano sì da Francia che da Italia, uomini, navi, armi e provvisioni di ogni sorte a Tolone, dove si era condotto Buonaparte per soppravvedere e sollecitare. Era egli poco innanzi stato tratto membro dell'Instituto, e con tale qualità ne' suoi dispacci s'intitolava, volendo conciliarsi gli animi degli scienziati, e dei letterati di Francia, che aveano grande autorità nelle faccende, e si mostravano molto invidiosi del dominio militare. Voleva altresì, che gli uomini si persuadessero, che quantunque soldato, ed uso alle guerre, era non ostante protettore della civiltà, e di chi la fomenta. Ciò importava anche alla spedizione in un paese, antico fonte del sapere. Imbarcaronsi pel medesimo fine alla volta dell'Egitto molti scienziati di chiaro nome in Francia. Ma l'Inghilterra dall'un de' lati favoreggiando Buonaparte, e sollecitando le sue passioni più vive, dall'altro nutrendo gli smisurati desiderj, ed i sospetti del direttorio, aveva riuscito ad un fine molto utile per lei, quello di metter discordia tra Francia e Turchìa, d'abilitar la Russia ad unirsi coll'Austria, di aprir l'occasione all'ultima di levarsi a nuova guerra, di sviare da' proprj lidi una gran tempesta, di privar la Francia de' suoi migliori capitani e soldati, di avventurare in mari lontani il potente navilio Francese, ed insomma di fare in modo che l'Europa tutta si turbasse di nuovo con grandissimi movimenti. Questa fu una delle opere più memorabili di Guglielmo Pitt. Salpava l'armata Francese, che portava con se tante sorti, avviandosi verso Levante. Pareva ai repubblicani, ed era veramente l'isola di Malta molto opportuna al dominio d'Africa e d'Europa. Massimamente poteva la sua possessione facilitare a chi l'avesse, la conservazione dell'Egitto, ed i traffichi del commercio del Levante, ai quali allora mirava, come a cosa di somma importanza, la Francia. Era oltre a ciò manifesto, che chi fosse padrone di Malta, ed avesse forze considerabili sul mare, poteva facilmente turbare Sicilia e Napoli. Grande fomento, e scala già davano a questo disegno l'essersi i repubblicani fatti padroni di Roma, ed il romoreggiare, che vi facevano con tanto strepito per mezzo di quei principj, coi quali si sforzavano di persuadere che i re fossero detestabili, le repubbliche desiderabili, le rivoluzioni felici. Da Roma potevano facilmente sommovere con le parole, sovvertire con la forza gli stati di terraferma di Napoli, da Malta la Sicilia. Già fin dai tempi d'Italia aveva Buonaparte applicato l'animo alla conquista di Malta. I suoi agenti, fra i quali il primo in questa macchinazione, e il più principale fu Regnault di San Giovanni d'Angely, uomo d'ingegno vasto, di cuore astuto, e di parlatura molto spedita, l'avevano reso sicuro, che con seicento mila franchi si poteva aver l'isola. Nè è da passarsi sotto silenzio, che i cavalieri di Malta, in ciò molto degeneri dai loro antecessori, attendevano piuttosto al vivere agiatamente, usando le ricchezze loro in mezzo ai cristiani, che al combattere virilmente sulle navi contro i Turchi. Per la qual cosa, oltre l'efficacia del denaro, infame per chi lo dà e per chi lo riceve, si prevedeva, che l'isola non avrebbe fatto una forte resistenza a chi l'assaltasse. Così Buonaparte accostandosi a Malta, tanto forte propugnacolo, e che con tanto valore aveva retto contro tutte le forze di Solimano imperatore dei Turchi, andava ad una impresa certa; che senza dubbio in tanta pressa per la fazione d'Egitto, non si sarebbe, senza una tale sicurezza arrischiato a tentare un fatto, che gli poteva riuscire lungo e difficile. S'appresentava sul principiar di giugno in cospetto della contaminata Malta la repubblicana armata. Portava forti armi, e corruttele ancor più forti. Aveva Buonaparte condotto con se alcuni antichi cavalieri, che abbandonata l'isola, si erano poco innanzi condotti ai soldi dei repubblicani, e loro ajutavano all'eccidio della loro antica compagnìa. Avevano pratica col cavaliere Bosredon di Ransijat, segretario del tesoro dell'ordine, tocco dalle nuove opinioni. Chiedeva il generale repubblicano l'entrata sotto pretesto di far acqua: gli fu risposto, entrasse, ma con due navi solamente. Finse di averla per male, e sbarcato nella cala San Giorgio, servendogli di guida i fuorusciti Maltesi, assaltava le opere esteriori delle fortificazioni. Fu debolissima la difesa; nè i cannoni entro i luoghi loro, nè le munizioni piene, nè i soldati confidenti; che anzi essendo stata fra di loro seminata discordia da coloro, che s'intendevano coi Francesi, combatterono debolmente e scompigliatamente, temendo di essere traditi. La Valletta poteva ancor tenersi per la fortezza del luogo, ancorchè le difese non fossero apprestate; ma da una parte le corruttele operavano, dall'altra le femmine, i fanciulli, i fuggitivi di ogni grado e di ogni condizione, che dalle campagne si erano ricoverati in città all'apparire del nemico, facevano un gran terrore. Convocava Ferdinando Hompesch, gran maestro, la dieta dei cavalieri, ma non piena, perchè nè i più vecchi furono chiamati, senza dei quali nissuna deliberazione d'importanza, secondo gli statuti dell'ordine, si poteva fare, nè i più valorosi, nè i più fedeli; perchè nè il balìo di Tigny, nè Gurgeo, nè Clugny, nè Tillet, nè Bellemont, nè Loras, nè La Torre San Quintino, nè La Torre del Pino con altri di più chiaro nome, comparvero, non avendo avuto invito dal gran maestro. Indotti i più, piuttosto dalle speranze che dai timori, deliberavano di domandar tregua; poi giunto presso il gran maestro Marmont, si risolvevano del tutto alla dedizione sotto la mediazione di Spagna. Convennero le due parti nei seguenti capitoli; i quali chi vorrà considerare, facilmente si persuaderà, che se fu ignobile la resa per le sue cagioni, non fu meno brutta la capitolazione pei premj, che vi si stipularono. Rimettessero i cavalieri dell'ordine di San Giovanni Gerosolomitano ai Francesi la città ed i forti di Malta, rinunziando in favore della repubblica di Francia alla proprietà, ed alla sovranità ch'essi avevano su quell'isola, e su quelle di Gozo e di Comino; usasse la repubblica la sua autorità presso il congresso di Rastadt, perchè il gran maestro, sua vita durante, conseguisse un principato almeno uguale a quello ch'ei perdeva, e di più essa repubblica si obbligasse a dargli per sostentazione della sua vita, una pensione di trecentomila franchi annui, e due anni anticipati della pensione per compenso del suo mobile; avessero i cavalieri Francesi dalla repubblica una pensione di settecento franchi, i sessagenari di mille; facesse la repubblica ufficio presso la Ligure, la Cisalpina, la Romana, e l'Elvetica, perchè i cavalieri Liguri, Cisalpini, Romani, e Svizzeri ottenessero la medesima provvigione; conservassero i beni propri in Malta; procurasse la repubblica presso tutti i potentati d'Europa, che i beni dell'ordine fossero conservati ai cavalieri di ciascuna lingua; la religione si serbasse salva, ed intatta. Il dì dodici giugno furono posti in poter dei Francesi i forti Emanuele, e Tigny, il castello Sant'Angelo, le opere della Bormola, della Cottonara, e della città vittoriosa. Il tredici, i nuovi signori presero possessione del forte Ricasoli, del castello Sant'Elmo, delle opere della Valetta, e di Floriano. Trovarono due navi da guerra, quattro galere, dodici centinaja di cannoni, munizioni in copia. Fecero il gran priorato di Malta, ed altri cavalieri dell'ordine adunati in Pietroburgo una solenne protesta contro la dedizione, tacciando Hompesch d'improvvidenza, di viltà, e di perfidia, e ritirandosi dall'obbrobrio, in cui affermavano essere meritamente incorsi Hompesch medesimo, Ransijat, San Tropez, ed altri dei loro compagni. Venuto Buonaparte in possessione di un'isola tanto importante, vi creava un governo temporaneo, di cui fe' capo Bosredon di Ransijat. Poi veniva agli esilj ed alle espilazioni. Bandiva i cavalieri dall'isola, e fra di loro Hompesch, che se n'andò in Germania a vivere una vita ignorata, poichè onorata non la poteva più vivere. Ordinava Buonaparte, usando in questo l'opera del chimico Berthollet, che s'involassero gli ori, gli argenti, e le pietre preziose, che si trovavano nella chiesa di San Giovanni, ed in altri luoghi dipendenti dall'ordine di Malta, eccettuati solo quelli, che fossero necessari alla celebrazione dei riti, e così le argenterìe degli alberghi, e quella del gran maestro; gli ori, e gli argenti si convertissero in verghe, ed ogni cosa si serbasse pei servigi dell'esercito. Quasi al tempo stesso l'isola di Gozo s'arrendeva al generale Reynier, mandatovi a posta da Buonaparte. Poscia il generalissimo, partendo dall'espilata isola con tutta l'armata, si avviava ai suoi destini d'Egitto. Lasciava Malta al governo di Vaubois, tanto onorato uomo, quanto valoroso soldato. Vi lasciava anche quel Regnault ambidestro, tanto favellatore egregio, quanto amministratore superbo. La più rara suppellettile, e fra questa la spada del gran mastro, e le bandiere dell'ordine, poste sulla fregata la Sensibile, s'incamminavano alla volta di Francia. Ma incontrata la nave dagl'Inglesi, fu presa, e le preziose conquiste condotte in Inghilterra. Erano sulla fregata Baraguey d'Hilliers, ed Arnault: accusò Arnault della perdita della nave la viltà dei forestieri. Nel che è da sapersi, che questi forestieri altro non erano, che galeotti napolitani liberati da Buonaparte dalle galere di Malta, e posti da lui, non so con qual decoro, a governar la Sensibile. La conquista di Malta, tanto conforme alle sorti fino allora continuate della repubblica di Francia e di Buonaparte, empiè di maraviglia l'Europa, di timore l'Austria, di spavento Napoli. Solo gl'Inglesi, che avevano il navilio intero, e d'invitta fama, non se ne sgomentarono; anzi dimostrando animo maggiore, quanto più grave era il pericolo, si preparavano al gran contrasto. Giunto Buonaparte sui lidi Egiziani, e con tutta felicità sbarcatovi, s'impadroniva di Alessandria: poscia con pari felicità procedendo s'insignoriva dei luoghi più importanti e più forti di quella contrada. Non è disegno nostro il descrivere l'Egiziana guerra, siccome quella, che troppo è lontana dalle cose d'Italia. Solo ci piace raccontare, poichè per lei si cambiò lo stato d'Italia, e fu avvenimento tanto grave per tutta Europa, la battaglia navale di Aboukir. Avevano gl'Inglesi, come abbiam narrato, notizia anticipata della spedizione d'Egitto, ed avuto anche presto avviso della partenza dell'armata da Tolone, siccome quelli che stavano molto all'erta, con tanta celerità la seguitarono, che arrivarono alle bocche del Nilo prima dei Francesi; nè avendogli trovati, si erano andati aggirando pel Mediterraneo con isperanza d'incontrargli, e di combattergli. Nè ciò venendo loro fatto, tanto sicura notizia avevano dell'intento dei Francesi, di nuovo voltavano le vele verso le egiziane spiaggie. Correva il giorno primo d'agosto destinato dai cieli ad una delle più aspre, e più terminative battaglie, che il furore degli uomini abbia mai fatto commettere, e di cui vi sia memoria nei ricordi delle storie, pieni per altro di tanti spaventevoli accidenti. Viaggiava con l'armata Britannica il vice ammiraglio Nelson, al quale dall'ammiraglio San Vincenzo era stato commesso il carico di cercare, e di combattere l'armata Francese, ed a piene vele solcava il mare verso Alessandria d'Egitto, quando tra le una e mezzo, e le due ore meriggiane del sopraddetto giorno scopriva l'armata di Francia sorta in sull'ancore nella cala d'Aboukir, ed ordinata alla battaglia. Scoversero al tempo medesimo i Francesi la vegnente armata nemica, e questa e quella sollevando gli animi all'importanza del fatto, che stavano per commettere a difesa e gloria delle patrie loro, si preparavano al cimento. Noveravansi nell'armata Inglese tredici navi, ciascuna di settantaquattro cannoni, ed erano quest'esse: la Vanguardia, nave capitana, su cui sorgeva Nelson, l'Orione, il Culloden, il Bellerofonte, il Golia, il Zelante, il Minotauro, la Difesa, l'Audace, il Maestoso, il Presto, ed il Teseo. A questi si trovavano congiunti il Leandro di cinquanta cannoni, e la fregata la Mutina di trentasei: insomma mila e quarantotto cannoni. Tutto questo navilio governavano meglio di ottomila eletti marinari. Erano nell'armata di Francia una nave grossissima, stanza dell'almirante, nominata l'Oriente, tre di ottantaquattro, il Franclino, il Tonante, il Guglielmo Tell, nove di settantaquattro, il Guerriero, il Conquistatore, lo Spartano, l'Aquilone, il Popolo sovrano, il Felice, il Timoleone, il Mercurio, il Generoso, con la Diana, fregata di quarantotto, la Giustizia, fregata di quarantaquattro, l'Artemisia, e la Seria, ambedue di trentasei: insomma mila e novanta cannoni per armi, circa diecimila e novecento marinari per governo; imperciocchè i Francesi sono sempre soliti ad empiere le loro navi di maggior numero di gente. Aveva il supremo governo di tutto questo fiorito navilio l'ammiraglio Brueys, capitano delle faccende navali espertissimo, e d'animo non minore della sua perizia. Si era egli, dopo di avere svernato con parte delle suddette navi nel porto di Corfù, condotto a Tolone per alla fazione d'Egitto, avendo Buonaparte in lui preso somma confidenza. Ma la condizione delle due armate era l'una dall'altra molto diversa. Veleggiava per l'alto mare la Inglese, mentre la Francese sorta sull'ancore sprolungava il lido da maestro a scirocco. Accresceva la sua sicurezza l'isoletta di Aboukir, ma però un po' troppo lontana, per potere con molta efficacia difendere il passo; era posta a capo della fila, e munita di artiglierìe. Alcune più piccole navi provvedute di bombarde, e che fra le altre erano fatte stanziare, davano maggior nervo all'armata. Questo modo di combattere aveva eletto l'ammiraglio della repubblica per non privarsi del tutto degli ajuti di terra, e perchè prevaleva per la grossezza delle navi, e pel numero dei combattenti. Le quali condizioni essendo per lui migliori, non voleva esporsi al pericolo, che in una battaglia a vele, ed in tutto navale, nel qual modo di combattere tra armata ed armata sogliono gl'Inglesi, per la precisione e prestezza delle mosse, avere il vantaggio, si pareggiassero. Poi, usando i Francesi di trarre con le artiglierìe loro nel corpo delle navi nemiche, era manifesto che i tiri meglio sarebbero aggiustati, e maggior colpo farebbero, scagliati da navi sull'ancore, che da navi sulle vele. Così egli si prometteva una probabile vittoria, poichè i suoi soldati essendo animosissimi, non aveva, in tale modo combattendo, cagione di temere che il coraggio loro venisse sopraffatto dalla maggior perizia degl'Inglesi. Spirava il vento da maestro, volgendosi un poco verso tramontana-maestro. Non così tosto l'ammiraglio Inglese scoverse l'armata Francese, che diè il segnale della battaglia, ordinando alle navi, che s'accostassero tutte al nemico, chi più presto, il meglio. Dalla parte sua Brueys fe' salire incontanente i marinari delle navi minori sulle maggiori, e sprofondava un'ancora di più, acciocchè le sue navi fossero più ferme, e i suoi si persuadessero, che quello era il luogo, in cui per loro abbisognava o vincere o morire. Egli poscia si pose co' suoi migliori ufficiali a velettare sulla gabbia dell'Oriente, sito pericolosissimo, perchè gl'Inglesi usano di tirare in alto nelle vele, e nel sartiame. Si scagliavano gl'Inglesi con impeto grandissimo contro l'antiguardo, e contro il mezzo dell'armata nemica, i quali con tutte le artiglierìe di poggia fulminando, ferocemente gli ributtarono, non senza aver loro recato danni gravissimi. In questo primo incontro le artiglierìe dell'isoletta ajutarono non poco l'opera delle navi. Tornarono gl'Inglesi all'urto un'altra volta, e sarebbe stata la battaglia più lunga e più pericolosa per loro, poichè Nelson si ostinava in voler dar dentro al petto dell'armata nemica, che se gli scopriva per poggia, se al capitano Foley del Golìa non fosse avvenuto l'audacissimo pensiero di ficcarsi, girando attorno alla punta dell'antiguardo Francese, tra il lido e l'armata nemica, donde ne avveniva, che i Francesi, perdendo il vantaggio di poter essere assaliti solamente da una parte, cioè da poggia, potevano, fra due tempeste di fuoco e di palle trovandosi, essere fulminati da ambe le parti, cioè da poggia, e da orza. Pensollo, e fecelo anche con ardire, e perizia inestimabile Foley. Consideratasi dagli altri l'importanza di questa mossa, che tanto vantaggiava le sorti degl'Inglesi, il Golìa fu prestamente seguitato dal Zelante, dall'Orione, dal Teseo, dall'Audace, e finalmente dalla Vanguardia, vascello almirante. Nè così tosto erano per tal modo trapassati a orza dei repubblicani, che, gettate le ancore, incominciavano a trarre con una furia incredibile. Al tempo stesso le altre navi Inglesi, poichè non potevano esser molestate dalle navi del mezzo e del retroguardo nemico, che sull'ancore più dietro erano sorte, si arringavano a poggia delle Francesi, e con furiosi tiri le tempestavano. Così tutto l'antiguardo Francese, e parte della mezza fila, che erano il Guerriero, il Conquistatore, lo Spartano, e l'Aquilone, combattuti da ambi i lati travagliavano grandemente, quantunque sulle prime con molto valore si difendessero. Ma sopraffatti da quella prepotente forza, rotti, fracassati, disalberati, ed incapaci di muoversi a volontà, non che mareggiare con disegno, si arrenderono. Il vento in questo, che continuava a soffiare da maestro, sospingeva il fumo di tante artiglierìe sulla mezza schiera, e sul retroguardo Francese, e tutto, qual foltissima nebbia, l'ingombrava, nebbia, che solo era rotta dai foschi lumi delle tiranti artiglierìe. Era lo spettacolo orrendo; i Francesi, che si trovavano in terraferma, ansj del fine, che tanto grave era per la patria loro, ascesi sui luoghi più alti, prospettavano l'augurosa battaglia. Così la specola, e le torri d'Alessandria, così i terrazzi, e le logge di Rosetta, e la torre di Abul-Maradur, distante un tiro di cannone da questa città, erano piene di repubblicani, paventosi a quello che vedevano, ed a quello che udivano. Al tempo stesso gli Arabi si erano sparsi sul lido, condotti parte dalla contentezza di vedere i repubblicani, cui molto odiavano, in sì grave pericolo, parte dalla speranza di avergli a svaligiare, quando cercassero di ricoverarsi a terra. Pareva, che non si potesse aggiungere terrore ad uno spettacolo già tanto spaventevole pel rimbombo di tante e sì grosse artiglierìe. Eppure una nuova scena si scoverse piena ancora di maggiore spavento. S'era fatto notte; il Bellerofonte s'attaccava con l'Oriente. Ma questa enorme mole con un fracasso orribile lo teneva lontano, e tanto lo conquassava, che poco più sarebbe andato a fondo. Sopraggiungeva in questo mentre l'Alessandro, che trovatosi più vicino ad Alessandria aveva tardato ad arrivare, e si metteva tosto a bersagliare ancor esso l'Oriente. Il Leandro, che era stato compagno all'Alessandro, giuntosi col medesimo, assaltava il Popolo sovrano, ed il Franclino. Poi altre navi Inglesi si avvicinavano ai vascelli Francesi, che tuttavia combattevano, poichè, vinta la vanguardia, era fatto loro facoltà di girsene ad assaltare le navi della fila mezzana. Così l'Oriente, ed i suoi due vicini il Franclino ed il Tonante, si trovarono ad un tempo stesso bersagliati da tutte parti. L'ammiraglio Brueys, che in tanto estremo accidente aveva compito tutte le parti di esperto ed animoso capitano di mare, ferito prima nel capo e nella mano, fu finalmente da una palla diviso in due a mezzo il corpo. Casabianca, capitano dell'Oriente, ferito gravemente ancor egli, era stato costretto a lasciare l'ufficio. In mezzo a quel tumulto ecco gridarsi sull'Oriente, ch'egli ardeva. Nè v'era modo a spegnere; le trombe rotte, le secchie fracassate, gli uomini fuor di mente toglievano ogni speranza. La scheggia, e le palle Inglesi continuavano a tempestare. Ardeva l'Oriente, tanto bella e tanto potente nave, ed ardendo spargeva fra quelle tenebre tutto all'intorno un funesto chiarore. Davano opera gl'Inglesi ad allontanarsi, perchè nella finale ruina di quella mole smisurata temevano l'ultimo sterminio. Infatti verso le dieci della sera con un rimbombo, che parve più che di grossissimo tuono, e con un incendio, come quando il cielo di nottetempo pare tutto acceso da non interrotte folgori, scoppiò. Successe a tanto caso, per lo spavento e per lo stupore, per ben dieci minuti un subito ed alto silenzio. Le navi così vicine come lontane, ravviluppate da fumo, da tizzoni, da rottami d'ogni sorte, non si vedevano, nè senza fatica poterono preservarsi dalle circondanti fiamme. Poi le artiglierìe rincominciarono lo strazio, massime dal canto degl'Inglesi, che non volevano, che l'opera della distruzione della flotta Francese restasse imperfetta. Continuossi per tal modo a trarre sino alle tre del seguente giorno, momento, in cui fu forza far tregua, perchè la stanchezza prevalse al furore. Quando poi incominciò a raggiornare, quanto si scoperse diverso l'aspetto delle cose da quello, ch'era stato prima che la battaglia incominciasse! Due flotte per lo innanzi fioritissime, acconce, preste, piene di gente allegra ed intera, risuonanti di grida liete, e festose, ora rotte, lacere, tarde, sanguinose, arse, piene di morti, di moribondi, di gemiti spaventosi e compassionevoli. Nissuna reliquia dell'arso Oriente; la fregata la Seria gita a fondo mostrava solo la cima degl'infranti alberi; le navi Francesi, il Guerriero, il Conquistatore, lo Spartano, l'Aquilone, il Popolo sovrano, ed il Franclino disalberate, ed in poter d'Inghilterra; il Felice, ed il Mercurio dato di fianco negli scogli; il Tonante privo di tutti i suoi alberi, l'Artemisia in fiamme, il Timoleone gito di traverso. Solo intere si osservavano le due navi del retroguardo il Guglielmo Tell ed il Generoso, con le due fregate la Diana e la Giustizia. Degl'Inglesi il Bellerofonte casso di tutti i suoi alberi, un altro in pari stato, uno col solo artimone, tutti laceri e fracassati, ma non tanto che non potessero ed armeggiare, e mareggiare. Si scagliavano contro il Felice, il Mercurio, il Tonante, ed il Timoleone naufraghi, e se gli prendevano. Poi facevano forza d'impadronirsi del Guglielmo Tell, del Generoso, e delle due fregate superstiti; ma tutte queste navi, spiegate prestamente le vele, e preso dell'alto, andarono a salvamento, la prima governata da Villeneuve, capitano che era stato della fregata la Giustizia, a Malta, la seconda a Corfù. Quest'ultima, strada facendo, si prese il Cavallo marino, grossa nave d'Inghilterra, e lo condusse con se nel porto dell'isola. Era il Generoso al governo di la Joailles, capitano, se mai alcuno fu al mondo, di estremo valore, e le cose che fece con quel suo Generoso sono piuttosto incredibili, che maravigliose. Pure era di cortese tratto, e di facile e mansuetissima natura. La Giustizia, fregata la più veloce corridora di tutto il navilio Francese e forse del mondo, si salvò facilmente; la Diana, più tarda, difficilmente. Non poterono gl'Inglesi seguitare le fuggenti navi, perchè avevano le proprie rotte, e sdruscite dalla battaglia. Dei Francesi, chi fu raccolto dagl'Inglesi, chi fuggì verso Alessandria sui leggieri palischermi. Ma quelli che si gittarono al lido, venuti in mano degli Arabi, furono con ogni strazio condotti a morte: quegli scogli strani grondavano Francese sangue. Dei Francesi mancarono in questa battaglia tra morti, feriti e prigionieri circa ottomila, fra i quali i morti sommarono a quindici centinaja. Furono i feriti e i prigionieri dall'ammiraglio Inglese, sotto fede di non guerreggiare contro l'Inghilterra fino agli scambi, liberati, e mandati in Alessandria. Perdettero gl'Inglesi fra feriti ed uccisi circa novecento soldati, fra i quali molto desiderarono un Wescott, capitano del Maestoso. Fu accagionato Brueys, come si usa nelle disgrazie, anche da Buonaparte, dello avere stanziato troppo più lungamente che si convenisse su per quelle spiagge infedeli. Scrisse anzi il generalissimo, che questo soprastamento aveva fatto l'ammiraglio contro i suoi ordini, poichè, come allegò, gli aveva comandato, che si ritirasse tosto a Corfù. Altri al contrario scrivono, avere voluto Brueys, che conosceva il pericolo, partirsene per Corfù, ed essere stato impedito da Buonaparte, che gl'impose di restare, perchè non voleva privarsi del sussidio della trasportatrice armata innanzi che avesse fermato con vittorie di momento il piede in Egitto. Ciò non mi ardirò di affermare, non avendone alcuna testimonianza certa. Bene non si può scusare Brueys dello aver lasciato l'adito aperto, perchè gl'Inglesi si potessero recare a ridosso della sua armata; poichè, quando a lui si scoperse il nemico, o doveva, salpando tostamente, e dando le vele al vento, condursi a combattere in alto mare, o se fermo sull'ancore voleva combattere, esplorar bene le acque frammesse tra la sua vanguardia e il lido, e trovatele profonde a dar passo a navi grosse da guerra, mettersi in altro sito, o serrarle con altri avvisamenti; poichè si vede, che l'esser passati per quello stretto ad orza dell'armata Francese, diè del tutto agl'Inglesi vinta una battaglia, che altrimenti sarebbe stata per loro assai pericolosa e dubbia. Dall'esito di lei nacquero altre sorti in Europa. La rivoluzione di Roma, e la presa di Malta, per cui i repubblicani si erano acquistati grandissima facilità di perturbare il regno di Napoli, avevano dato cagione di temere al re Ferdinando, che il governo di Francia avesse fatto pensieri sinistri anche contro quella estrema parte d'Italia; nè era certamente verisimile, che la smania d'innovare e di spogliare i paesi, che tanto sfrenatamente aveva turbato Genova, Milano, Venezia, Roma, fosse per arrestarsi ai confini dello stato Romano. Ciò non isfuggiva al direttorio, e per tal motivo aveva timore, che il re di Napoli facesse qualche risoluzione precipitosa contro di lui. Pertanto, siccome quello che voleva temporeggiare per vedere quale via fosse per pigliare la spedizione d'Egitto, e qual effetto partorirebbe sui principi d'Europa, e sul governo Ottomano, aveva mandato ambasciatore a Napoli Garat, letterato di molto grido in Francia, per rendere il re persuaso, che l'amicizia della Francia, verso di lui era sincera e cordiale. Ma il fatto stesso era contrario alle parole, perchè sebbene Garat fosse di dolce e pacifica natura, aveva ciò non ostante molto capriccio sulle rivoluzioni di quei tempi, parendogli, che all'ultimo avessero a produrre qualche gran benefizio all'umanità. Era anche in questo un altro particolare, per cui il direttorio, se avesse avuto animo più civile, o Garat mente meno illusa, avrebbero dovuto, quello non dare, questo non accettare il carico di Napoli, dove regnava Carolina d'Austria. Certo è bene, che il suo arrivo dispiacque grandemente alla regina; e da un altro lato i novatori molto si confortavano nei pensieri loro di mutar lo stato, perchè egli aveva nome di essersi mescolato nella rivoluzione di Francia. Favellava Garat nel suo ingresso al re parole di pace, di filosofia, di umanità. Favellava per verità molto tersamente, siccome accademico. Disse, che era mandato per conservar la pace fra i due stati; che il direttorio della repubblica Francese così trattava con le altre nazioni d'Europa, come reggeva i Francesi; cioè con la giustizia, e che gli alti fatti, di cui suonava l'Europa, ciò dimostravano. Continuava, avere la repubblica Francese, allorchè più era potente e più gloriosa, dato la pace a' suoi nemici, quando già vinti ed inermi offerivano, non più ostacoli, ma frutti; l'independenza, e la libertà (queste cose io rapporto per dimostrare ai posteri o la semplicità, o la illusione di Garat) essere state recate a nazioni tra folgori, che parevano avere a recar loro il giogo della conquista, trattati essere stati fatti con potenze nemiche del nome repubblicano; essere questa tolleranza politica il segno di pace per le attuali generazioni d'Europa; mostrarlo la moderazione nella forza, di quella forza, che di per se stessa s'arresta, dove non è più che una giustizia invincibile, che pianta avanti a se termini, che niuna cosa che al mondo sia, potrebbe opporgli. Poscia l'ambasciadore chiamava il re virtuoso e buono, l'Inghilterra schiava dentro, tiranna fuori, la Francia libera, clemente e felice, la repubblica onnipotente per la libertà, savia per le disgrazie: per tutte queste cose rappresentare averlo mandato il direttorio. Finalmente parlava al re di filosofia, di volcani, di lave, di globi sconquassati in questi termini: «Non già perchè io mi sia andato ravvolgendo sotto i portici, dove si usa la ambizione e si cerca il favore, il direttorio mi ha inviato con mandato straordinario presso di voi; che anzi piuttosto io non vissi mai, che nelle silenziose campagne, ne' licei, e sotto i portici della filosofia; e quando le rivoluzioni, ed una repubblica a voi mi mandano con comandamenti, che possono tornare in pro di molti popoli, la fantasia mi rappresenta quei tempi antichi, in cui dal grembo delle repubbliche della Grecia partendo filosofi, che solo un nome si avevano acquistato, perchè avevano imparato a pensare, su questi medesimi lidi, su questo continente stesso, su queste isole erano venuti recando i desiderj loro per la felicità degli uomini: fecervi parecchi del bene, tutti vollero farvene: nè voti, e desiderj disformi da questi io avere posso, nè il direttorio della Francese repubblica m'intimava. Debbono questi voti, e questi desiderj inspirati essere a tutte le potenze da tutte le voci, che hanno efficacia negli uomini, debbonlo in nome del cielo, debbonlo in nome della natura; e parmi, o re, che in questi luoghi, dove voi regnate, fra gli accidenti più stupendi del cielo e della terra, su questo suolo, ammasso magnifico di reliquie dalle rivoluzioni del globo conservate, vicine a questi volcani, le cui bocche sempre aperte, e sempre fumanti rammentano quelle lave ardenti che buttate hanno, e di nuovo butteranno, parmi, dico, o Sire, che, o che in repubblica si viva, o sotto l'obbedienza di un re, l'uomo dee, più che in altro luogo, amare di raccomandare ai posteri per qualche beneficio fatto agli uomini una vita tanto fugace, e tanto incerta». Questo così solenne e squisito parlare teneva l'ambasciadore Garat ad un re, che secondochè egli narrava, d'altro non si dilettava che di pesca, di caccia, e di lazzaroni. Ferdinando, che non s'intendeva di queste squisitezze accademiche, stava come attonito, e non sapeva come uscirgli di sotto. Fatto il complimento al re, se n'andava il giorno seguente, che fu il nove di maggio, l'ambasciatore a complir con la regina, favellandole dei desiderj di pace del direttorio, dei pensieri buoni, e delle virtù di Giuseppe, e di Leopoldo, suoi fratelli, come se le riforme fatte nello stato politico da questi due principi eccellenti, ed anzi gli ammaestramenti pieni di umanità, e di dolcezza dati alle genti dai filosofi Francesi, che l'ambasciatore chiamò maestri di Giuseppe e di Leopoldo, avessero che fare con le sfrenatezze dei repubblicani di Francia a quel tempo. Queste cose sapeva, e queste sentiva Garat, perchè nissuno più di lui ebbe i desiderj volti a pro degli uomini; ma non s'accorgeva, perchè forse l'ambizione il trasportava, che quando regna la tirannide, migliore e più onorevole partito è per un filosofo di ficcarsi in un deserto, che comparire, qual messo di tiranni. Intanto si passava dai complimenti ai negoziati, ingannandosi le due parti a vicenda; perchè, contuttochè le dimostrazioni fossero pacifiche da ambi i lati, nissuna voleva la pace, ed ambedue aspettavano il tempo propizio per correre all'armi: nè il direttorio voleva lasciare quelle Napolitane prede, nè il re di Napoli poteva tollerare, che la democrazìa sfrenata romoreggiasse a' suoi confini. Sapeva il direttorio, che il re si era molto sdegnato, dappoichè Berthier, e l'incaricato d'affari a Napoli l'avevano richiesto con insolente imperio, che cacciasse da' suoi regni tutti i fuorusciti Corsi, licenziasse il ministro Acton, desse il passo ai soldati della repubblica per Benevento e Pontecorvo, che volevano occupare a benefizio, come dicevano, di Roma; si confessasse il re feudatario della repubblica Romana, ed a lei pagasse, come al papa, il solito tributo annuale, e soddisfacesse finalmente senz'altra mora, dei soldi corsi di detto tributo. Negava il re le superbe proposte, solo consentiva a non più ricettare i fuorusciti. Il direttorio, volendo mitigare l'amarezza, e lo sdegno concetto da Ferdinando per le insolenze de' suoi agenti, aveva dato carico a Garat di racconciar la cosa. Perlochè si venne ad un accordo, pel quale si stipulò, che i Francesi ritirerebbero parte delle loro genti dai confini Napolitani, che la repubblica Romana desisterebbe dalle sue richieste, che Benevento e Pontecorvo, per amor della pace, si depositerebbero in mano del re: ma il re, non si fidando delle dimostrazioni d'amicizia più sforzate che spontanee, di coloro che contro la fede data o conquistavano per forza, o sovvertivano per inganno, aveva con ogni più efficace modo armato il suo reame. Ordinava, che di cinque regnicoli uno andasse soldato; che ogni cinque frati o monache dessero, vestissero, ed armassero un soldato; che ogni chierico provvisto d'un beneficio di mila ducati d'entrata parimente fornisse un soldato; richiedeva finalmente i baroni del regno, perchè levassero al modo stesso, ed assoldassero un grosso corpo di cavallerìa. Queste provvisioni recate ad effetto non senza qualche calore dal canto dei popoli, accrebbero il numero dell'esercito sino in ottanta mila soldati. E siccome il dispendio per mantenere un'oste sì numerosa era gravissimo, così il governo aveva posto mano nelle rendite ecclesiastiche, accresciuto certi dazi, e perfino raccolto le argenterìe delle chiese non del tutto necessarie alla celebrazione dei riti religiosi. Già le truppe si avviavano ai confini, e un gran corredo di artiglierìe si era mandato a guernire le fortezze, principalmente quelle dell'Abruzzo. Quantunque poi l'ambasciatore Garat non cessasse d'inculcare al direttorio, che i soldati Napolitani, per bene armati e bene vestiti che fossero, sembravano piuttosto gabellieri o frodatori, che buoni soldati, non se ne stava il direttorio senza apprensione, trovandosi privo in Italia de' suoi migliori soldati, e del suo miglior capitano, e non sapendo a qual partito sarebbe per appigliarsi l'Austria, che di nuovo diventava minacciosa e renitente. Garat, o che solo volesse scoprire le vere intenzioni del re, o che credesse intimorirlo, siccome quegli che aveva la mente molto accesa sulla potenza della sua repubblica, gl'intimava, non senza le solite parole superbe, che disarmasse, e riducesse l'esercito allo stato di pace. Confidava, che Ferdinando sarebbe calato a condiscendere, perchè reggeva allora, fra gli altri ministri, lo stato il marchese del Gallo, che aveva indole propensa pei Francesi, e siccome uno dei negoziatori del trattato di Campoformio, si conghietturava, che avesse pensieri favorevoli alla pace. Dispiacquero e la domanda, e la forma di lei: se ne dolse il Napolitano governo al direttorio addomandandolo del richiamo di Garat. Aggiunse, o vero si fosse o supposto, che egli si era mescolato coi novatori, dando loro promesse, o stimoli troppo poco convenienti alla qualità di ambasciadore. Attribuiva verisimile colore alle allegazioni la domanda fatta dall'ambasciadore, perchè si liberassero i carcerati per delitti di stato. Il direttorio, che non era ancora ben sicuro delle cose d'Egitto e d'Europa, richiamava Garat, mandando in iscambio Lacombe San Michel, repubblicano assai vivo, ma più cupo, e non tanto favellatore, quanto il suo antecessore. Era il suo mandato, che temporeggiasse ed accarezzasse; poi quando fosse venuto il tempo, fortemente insistesse, perchè Napoli cessasse da ogni preparamento ostile, e si rimettesse nuovamente nella condizione di pace. Dal canto suo il re, che non vedeva fra tante cupidigie e tante fraudi altra salute per lui, che le armi, non solo non cessava da loro, ma ogni giorno vieppiù le aumentava. A questo, dopo avute le novelle d'Egitto, tanto più volentieri, e più pertinacemente si risolveva, quanto più gli era ignoto, che la Francia era contro di lui molto sdegnata per aver fatto solenni dimostrazioni di allegrezza alla fama della vittoria acquistata dagl'Inglesi ad Aboukir. Parve, che Napoli tutta, e tutto il regno in quel trionfo Inglese trionfassero, tanti furono i rallegramenti e le feste. La nappa stessa Inglese in tanto ardore fu inalberata da quei popoli comunemente, e tutti esclamavano, essere giunto il tempo della vendetta Napolitana, e della rovina Francese. Ferdinando stesso era andato ad incontrar sul mare Nelson vittorioso, quando se ne venne a Napoli per racconciar le navi rotte nella battaglia, ed il condusse al suo palazzo a guisa di trionfatore fra l'accolta moltitudine, che non cessava di gridare, _viva Nelson, viva l'Inghilterra!_ Poi gli fece copia, a racconcio delle navi, delle sue armerìe ed arsenali. Come queste cose sentisse la Francia repubblicana, ciascuno sel può pensare. Pure se ne stava aspettando, serbando l'ira e la vendetta a tempi più favorevoli; ed anche l'infortunio di Aboukir l'aveva se non intimorita, fatta più cauta. Così era in Napoli volontà di guerra, ed era anche in Parigi, ma più coperta. In questo mezzo tempo le macchinazioni Inglesi avevano sortito l'effetto loro, perchè l'invasione dell'Egitto, siccome gl'Inglesi avevano avvisato, la vittoria di Nelson, e medesimamente le esortazioni delle corti Europee presso al Divano avevano per modo operato, che la Porta Ottomana si era scoperta nemica alla Francia, e le aveva intimato la guerra. Accidente tanto grave cambiò ad un tratto le condizioni di tutta Europa, e spianò la strada ad una nuova confederazione contro la Francia. Erano l'esercito Italico, ed il suo capitano, l'uno e l'altro tanto formidabili, in paese lontano senza speranza di poter tornare a soccorrere la patria loro nei campi di Europa. La guerra di Turchìa con Francia toglieva il timore, che la prima potesse adoperarsi in favore della seconda ed apriva l'adito sicuro alla Russia di correre in aiuto dell'Austria. Stipulavasi anche per le medesime cagioni, e per maggiore sicurezza della Russia, un trattato di pace, e d'alleanza tra lei e la Turchìa. Già le schiere Moscovite s'incamminavano alla volta di Germania: Paolo imperatore si versava con tutto l'empito suo contro Francia. Si sapeva oltre a ciò, che gl'Italiani erano sdegnati per le esorbitanze dei repubblicani; che gli Svizzeri erano molto più, e si sperava, che lo sdegno di questi popoli fosse per riuscire di non poco aiuto alla guerra. Quella vasta mole repubblicana, che il terrore aveva fondato, cessato il terrore, s'accostava alla sua ruina. Tutte queste cose non erano ignote a Ferdinando, e considerato oltre a questo, che tutte le genti Francesi, che allora erano in Italia raccolte insieme, non sommavano gran pezza al numero delle sue, e che i repubblicani già inferiori di numero, erano dispersi quà e là nei presidj della Cisalpina, dello stato Veneto, del Piemonte, e della Romagna, credè di poter chiarire l'animo suo senza pericolo, e di poter far la guerra da se con frutto contro la Francia, senza aspettare il tempo, in cui gli altri suoi confederati, principalmente l'Austria e la Russia, avrebbero potuto venire in suo soccorso. Aveva anche udito le novelle, che per la lega fatta tra la Russia e la Turchìa, le flotte confederate, passati i Dardanelli, arrivavano alle fazioni dell'Jonio contro gli occupatori delle isole Veneziane poste in questo mare. Gli pareva altresì da non doversi lasciar raffreddare la fama della vittoria d'Aboukir, e la presenza del vincitore Nelson, che col suo consiglio, e con la sua forza si dimostrava pronto ad aiutar l'impresa, grandemente il confortava a cominciarla. Accrebbero questi desiderj le novelle, che gl'isolani di Malta si erano ribellati ai Francesi, e tolto loro l'uso della campagna, gli avevano sforzati a ritirarsi alle fortezze. Alla risoluzione medesima inclinava Napoli pensando, che se facesse da se, coglierebbe maggiori frutti della vittoria, perchè la cupidigia di aver Fermo con alcune altre terre della Marca, e la speranza di aversi a liberare dalle pretese della santa sede pel benefizio della sua ristaurazione in Roma, non gli erano ancora uscite di mente. Finalmente aveva testè udito, che i Francesi, che si erano accorti dei moti di Napoli, e dei nuovi pensieri dei principi contro di loro, erano venuti nell'antica deliberazione del direttorio di farsi signori della Toscana, e di porre anche le mani addosso al gran duca, se a tale estremo gli accidenti gli sforzassero. Nè si dubitava, che i repubblicani assaliti quasi all'improvviso, e innanzi che avessero tempo di provvedersi, avessero presto a cedere del tutto le terre Italiane. Il re risolutosi del tutto alla guerra, domandava ai Francesi quello, a che sapeva che ei non potevano consentire, e questo fu, che sgombrassero da tutti gli stati pontifici, e l'isola di Malta, sulla quale pretendeva ragioni di sovranità, in poter suo rimettessero: chiamava l'una e l'altra occupazione novità fatte, violazioni manifeste delle condizioni stipulate, e dei confini accordati nel trattato di Campoformio. Il direttorio, contuttochè si vedesse in pericolo di guerra imminente colle principali potenze d'Europa, rispose risolutamente, non poter consentire alle domande, giudicando benissimo, che l'inchinarsi a tali condizioni era peggio che perdere tre battaglie campali. Per la qual cosa pubblicava Ferdinando da San Germano, perchè già si era condotto ai confini con tutte le sue genti, un manifesto, pel quale mostrandosi sdegnato per la occupazione dello stato Romano e di Malta, bandiva al mondo, aver preso le armi per allontanare dai suoi dominj ogni danno e pericolo, per restituire il patrimonio della chiesa al suo vero e legittimo signore, per ristorarvi la cattolica religione, per cessarvi l'anarchia, le stragi, le rapine: protestava al tempo stesso, non volere muover guerra contro alcun potentato, ma solo provvedere alla sicurezza, ed all'onore della religione; lui stesso, diceva, essere venuto co' suoi invitti soldati a così santa opera, proteggerebbe i buoni ed i virtuosi, accorrebbe con affetto paterno i traviati che si volessero ridurre al buon sentiero, ed a penitenza; dimenticassero, inculcava, ogni ingiuria, spegnessero ogni desiderio di vendetta, imitassero la reale comportazione, solo intenta a far fiorire nuovamente la religione, la quiete, e la giusta libertà di tutti. Esortava finalmente i capi d'ogni esercito estero a ritirarsi incontanente dal territorio Romano, ed a non ingerirsi più oltre negli accidenti di questo stato, la cui sorte per ragione di vicinanza, e per altri legittimi motivi principalmente interessava la sua regia potestà. Dalle parole trapassava tosto ai fatti: partito l'esercito in tre parti marciava alla volta delle Romane terre. Era venuto per consigliare il re sulle faccende di guerra il generale Austriaco Mack, mandato a questo fine dall'imperatore Francesco. Fu suo disegno in questa mossa, sapendo che i Francesi erano dispersi in alloggiamenti lontani fra di loro, e sperando che i popoli tumultuerebbero in favor dei Napolitani, di occupare un gran tratto di paese. Confidava, che gli avversarj sarebbero stati circondati, e presi senza molto sangue. Perlocchè aveva Mack in tale modo ordinato l'assalto, che la più grossa schiera condotta da lui medesimo, avendo con se il principe ereditario di Napoli, per la strada degli Abruzzi, se ne gisse contro Fermo, e se la fortuna si mostrasse favorevole, a porre il campo sotto Ancona, terra munita di una cittadella forte, ma con presidio debole, perchè una parte era stata mandata a rinforzare Corfù minacciato dalle armi Ottomane e Russe. Era suo intento, che questa schiera tagliasse il ritorno ai Francesi verso la repubblica Cisalpina. L'altra colonna guidata dal re, che aveva con se per moderatore Colli, aveva carico di far impeto direttamente contro Roma serbata espressamente al trionfo di Ferdinando. Ma pensiero di colui, che aveva ordito tutta questa macchina militare, era altresì di tagliare la strada ai Francesi per la Toscana. Fu quest'opera commessa ad una terza schiera sotto i comandamenti del generale Naselli: la parte più grossa di lei posta su navi Inglesi e Portoghesi governate da Nelson s'incamminava ad occupar Livorno. Ma perchè ella non fosse troppo distante dalle genti che accennavano a Roma, si era dato opera, che la minor parte, che obbediva al conte Ruggiero di Damas, fuoruscito Francese, radendo i lidi verso Civitavecchia, se n'andasse ad occupare quei luoghi della Toscana, che portano il nome di Presidj. Per tal modo ordinato il disegno si mandava ad esecuzione. Il generale Championnet, nelle mani del quale stava allora il supremo governo dei repubblicani in quelle parti, aveva con se poca gente, nè certamente bastevole a far fronte a tanta moltitudine, se i soldati Napolitani fossero stati pari a' suoi per perizia e per valore; conciossiachè non avesse con lui, che cinque reggimenti di fanti, uno di cavalleggieri, uno di dragoni, due compagnie di artiglieri, numero forse che non sommava a dieci mila soldati. Erano per verità con lui alcuni reggimenti Italiani, ma ei faceva sopra di loro poco fondamento. Il dì ventitrè novembre i Napolitani si muovevano al destino loro: già la schiera guidata da Ferdinando, scacciate le poche genti repubblicane, che le si pararono avanti, s'avvicinava a Terni. Mandava Championnet domandando a Mack, qual ragione muovesse i Napolitani alla guerra contro Francia. Rispondeva con troppo maggior alterigia che se gli convenisse, che l'esercito di sua maestà Siciliana occupava il territorio Romano sovvertito, ed usurpato dalla Francia contro la fede dei capitoli di Campoformio; che il nuovo stato di Roma non era consentito nè dal re, nè dall'imperatore, suo alleato; però andrebbe avanti, non commetterebbe ostilità, se non se gli resistesse; se sì, commetterebbele contro chiunque, e qual fosse il nome che si avesse. Replicava modestamente Championnet, la repubblica Romana essere sotto la tutela della Francese, e difenderebbela. Intanto non vedendosi, pel piccol numero de' suoi soldati sparsi in luoghi lontani, pari al resistere a tanta piena, nè a custodire tanta larghezza di paese, raccoglieva i suoi e gli mandava, lasciando un sufficiente presidio in Castel Sant'Angelo, a far capo grosso a Civita-Castellana. Ma udendo, che i Napolitani erano stati ricevuti in Livorno, sebbene con protesta della neutralità violata per parte dei magistrati del gran duca, che Viterbo e Civitavecchia si levavano a rumore, che Ruggiero di Damas arrivava sui confini fra lo stato ecclesiastico e la Toscana, soprattutto sentendo che Mack, sebbene valorosamente, e non senza grossa strage dei regj combattuto dal generale Lemoyne, si era impadronito di Fermo, e già accennava ad Ancona, fece pensiero di ritirarsi più in su per le rive del Tevere, e piantò i suoi alloggiamenti in Perugia, perchè temeva, che il generale Napolitano gli tagliasse le strade dell'Apennino, per cui poteva avere il suo ricovero sulle terre della Cisalpina. A Perugia poi raccoglieva tutte le sue sparse genti, e vi trasferiva anche il governo Romano, che aveva abbandonato, per la forza di quell'accidente improvviso, la sua sede, lasciando Roma sicura preda dei regj. Trovarono qualche aderenza di popoli nello stato pontificio, come era succeduto a Viterbo, ed a Civitavecchia. Ma generalmente poco si muovevano, o tepidezza verso l'antico governo del papa, o odio innato contro i Napolitani, o non cessata paura delle armi repubblicane, che sel facessero. Che anzi in alcuni luoghi, come a Terni, i paesani combatterono virilmente in favor dei Francesi, e diedero loro campo di ridursi a salvamento. Entrava Ferdinando trionfando in Roma il dì ventinove di novembre. Il seguitavano i suoi soldati in bellissima mostra; il circondavano i primi capi in magnifico arnese. Il popolo, che sempre si precipita cupidamente sotto i nuovi signori, tratto piuttosto dalla novità, che dall'amore, gli fece feste, e rallegramenti di ogni sorte: le Romane e le Napolitane grida miste insieme erano un singolare spettacolo. Si rallegravano dell'essere liberati da quel vivere tirannico e soldatesco, e si auguravano, certo molto leggermente, tempi migliori; perciocchè non andò gran pezza, che si accorsero come si può cambiar di signore, e non di servitù. S'incominciava intanto a trascorrere in vituperj ed in fatti peggiori dei vituperj, contro coloro che avevano seguitato il governo nuovo, chiamandogli il popolo, o mosso da se, od incitato da altri, Atei e Giacobini. I vituperj poi, ed i mali trattamenti trascorrevano, come suol avvenire in simili casi, dai nocenti agl'innocenti, e si manomettevano i Giacobini per odio pubblico, i non Giacobini per odj privati. Non parlo dell'atterramento degli alberi della libertà, e della ruina a furia di popolo del monumento eretto in Campidoglio all'ucciso Duphot; perciocchè avesse pur voluto Dio, che a queste opere piuttosto oziose che dannose si fossero rimasti, ma s'incominciava a far sangue, e a demolir case. S'interpose Ferdinando, e fe' cessare i tumulti, creando una milizia urbana, e confidandola ad un cavaliere Gennaro Valentino. Instituì oltre a ciò un governo temporaneo d'uomini probi ed autorevoli, che furono i principi Borghese, Aldobrandini e Gabrielli, il marchese Massimi, ed un Ricci. Ma siccome i popoli, massimamente il Romano, non stan fermi che alle provvisioni, così Ferdinando calava il prezzo del pane; il che fece una grande allegrezza. Intanto Roma si spogliava; nè meglio la città veneranda trattarono i Napolitani che i Francesi, quantunque gli uni e gli altri si chiamassero col nome di liberatori. Portarono le logge del Vaticano dipinte da Raffaello, risparmiate, ed anche rispettate dai Francesi, lungo tempo le vestigia della barbarie delle soldatesche Napolitane. Nè i quadri si risparmiarono, nè le statue, nè i manoscritti sfuggiti alla rapacità degli agenti del direttorio. Da tante enormità nacque, che il popolo cominciò a desiderar Francia contro Napoli, e che molti fra i partigiani del papa diventavano partigiani Francesi. Tali furono le opere Napolitane in Roma; ma poco durarono, perchè era fatale, che in quella nobile, e sventurata Roma, un dominio insolente in brevissimo giro di tempo sottentrasse ad un dominio insolente; i quali accidenti saranno per noi raccontati nel progresso di queste storie. Era costume del direttorio di Francia, per sovvertire i paesi, di accarezzare e fomentare i desiderosi di novità, o che tali fossero per fin di bene, o per fin di male; ma conseguita la mutazione, i suoi agenti più accarezzavano i cattivi che i buoni, perchè trovavano i primi più arrendevoli, e meglio inclinati a servire ai desiderj loro. Tanto più poi vezzeggiavano i cattivi, e trasandavano i buoni, quanto più erano lontani i pericoli. Ma quando sovrastava un tempo forte, tosto si davano a far le chiamate ai buoni, perchè questi per la virtù loro avevano volti in lor favore gli animi dei popoli, il che era fondamento di potenza. Da un'altra parte gli amatori veri di libertà tanto più vivi si dimostravano, quanto più il paese loro aveva sembianza d'indipendente, perchè il resistere alla tirannide pareva loro vano, ed il non servire alla indipendenza, vile. Questi adunque sorgevano, quando era data al loro paese, se non in fatti, almeno in parole, la indipendenza, sperando di trovar modo di acquistarla vera e reale. Quindi i dominatori, mettendosi in sospetto, usavano di ritrarre lo stato dalle mani loro, ponendolo in balìa di coloro, che, o più vili o più prudenti essendo, si accomodavano facilmente alle voglie dei forestieri. Quindi nasceva, che assai più dei partigiani della potestà regia, assai più dei fautori dell'aristocrazìa, e della oligarchìa stessa, che per altro abborrivano, o fingevano di abborrire, gli agenti del direttorio, odiavano gli amatori dell'indipendenza. Queste cose si vedevano manifestamente in Cisalpina, dove essi allontanandosi dagl'indipendenti, si accostavano ai novatori avidi di denaro e di dominio, ed anche agli aristocrati, perchè sapevano che a questi, purchè e' siano guarentiti, ed abbiano sicurezza contro gl'impeti e le insolenze popolari, poco importa chi abbia il reggimento supremo in mano. Per bene intendere queste cose, e' bisognerà incominciarle dal loro primo principio. Aveva il direttorio di Francia fino a questo tempo dominato in Liguria, ed in Cisalpina per la conquista; volle quindi dominare per l'alleanza, condizione peggiore della prima, se gli sfrenati modi non si cambiano, perchè quella comporta per se ogni cosa, questa dovrebbe avere moderazione e regola. Stipulossi a Parigi il dì ventinove di marzo, per forza dall'ambasciatore ordinario di Cisalpina Visconti, volentieri dall'ambasciatore straordinario Serbelloni, un trattato d'alleanza fra le due repubbliche, Francese e Cisalpina, i cui principali capitoli furono i seguenti: che la repubblica Francese riconosceva come potenza libera e indipendente la Cisalpina, e le guarentiva la sua libertà, la indipendenza, e l'abolizione di ogni governo anteriore a quello, che attualmente la reggeva; che vi fosse pace ed amicizia perpetua fra ambedue; che vi fosse alleanza, e che la Cisalpina stesse, così per le difese come per le offese, a favore della Francia; che la Cisalpina avendo domandato alla Francese un corpo, che fosse bastante a conservare la sua libertà, indipendenza, e quiete, e così pure a preservarla da ogni insulto da parte de' suoi vicini, si era convenuto fra le due repubbliche, che la Francese manterrebbe nella Cisalpina, per tanto tempo per quanto non fosse altrimenti convenuto, ventiduemila fanti, duemila cinquecento cavalli, cinquecento artiglieri sì da piè che da cavallo, e che per questo la Cisalpina pagasse alla Francese ogni anno diciotto milioni di franchi, ogni mese un milione cinquecentomila franchi; che obbedissero queste genti, e così ancora quelle della Cisalpina ai generali Francesi. L'ambasciatore Visconti, siccome quelli a cui pareva, che questo trattato significasse tutt'altra cosa piuttosto che alleanza ed indipendenza, non gli voleva consentire. Ma ebbe ad udire dal ministro di Francia il suono di queste parole, che la repubblica Francese avendo creato la Cisalpina, poteva anche distruggerla, se volesse. Il che era verissimo, ma certamente nè generoso, nè consentaneo alle belle parole, nè conducente a indipendenza. Perciò Visconti non istette ad aspettar altro, e sottoscrisse il trattato. Arrivato quest'accordo in Cisalpina, vi sorse uno sdegno grandissimo: i consigli legislativi nol volevano ratificare. Scriveva pubblicamente Berthier, che da Roma se n'era venuto a Genova per andarsene alla spedizione d'Egitto, che quel trattato era la salute della Cisalpina, se ella il ratificasse. Altri sottomano insinuavano, che se ratificasse, sarebbe ingrandita, se ricusasse, spenta. Queste promesse e queste minacce operarono di modo che i consigli ratificarono, non senza però molti discorsi contrari, e molta discordia. Gli amatori dell'indipendenza se ne sgomentarono, molti mali umori nascevano nella repubblica. S'aggiunse che i due quinqueviri Moscati e Paradisi, e nove dei consigli legislativi, che più vivamente degli altri si erano versati al trattato, avevano ricevuto sforzata licenza dal direttorio di Francia. Di più si fe' dire e stampare, che fossero fautori dell'Austria, e nemici della Francia; delle quali allegazioni si può dire, che è dubbio, se siano o più ridicole, o più false. Ma la persecuzione non si rimase alle parole; perchè alcuni degli oppositori furono anche carcerati. Si conturbavano le menti a questi eccessi; si temevano cose peggiori. In mezzo a questi mali umori arrivava in Cisalpina mandato dal direttorio in qualità di ambasciatore di Francia, Trouvé, giovane di spirito, e che faceva professione di amare la libertà. Si sollevarono gli animi al suo arrivo, comparendo per la prima volta un ministro di Francia presso quello stato nuovo, ed ognuno si stava ansiosamente aspettando, che cosa portasse. Gl'indipendenti ne auguravano bene pel fatto stesso; gli aristocrati quieti si rallegravano ancor essi, perchè speravano, che un reggimento più regolato gli preserverebbe dalle improntitudini dei libertini. Fu l'ingresso di Trouvé al direttorio Cisalpino molto pomposo. Parlò nel suo discorso della Francia magnificamente, della Cisalpina amorevolmente. Piacque soprattutto agl'indipendenti il principio del suo favellare, che fu con queste parole: che veniva in nome della grande nazione a salutare l'indipendenza della repubblica Cisalpina. Poi continuando affermava, che era venuto per adempire presso a lei un carico onorevole, e caro all'anima sua, quello cioè di giungere all'ammirazione verso gli eroici fatti, l'amore che inspira la pratica delle virtù; che tal era il desiderio, tale il bisogno del governo Francese, che a questo generoso fine per comandamento di lui, ed in adempimento della sua tenerezza paterna indirizzerebbe egli tutti gli sforzi, tutti i pensieri suoi. Allontanassero pertanto da loro, come egli allontanava da se, le dimostrazioni vane di un'astuta politica, che adula per corrompere, che accarezza per uccidere: allontanassero le sottigliezze, allontanassero le ingannatrici promesse, le seduzioni, la duplicità; animi aperti e leali, confidenza vicendevole, giustizia sincera, probità incorrotta, unione inalterabile fra i magistrati le due repubbliche congiungessero; congiunzione, continuava vieppiù nella sua poesia infuocandosi il giovane ambasciatore, congiunzione gloriosa e toccante; congiunzione giurata sull'ara della patria per difendere i principj della ragione, e per dilatare il culto della libertà. Queste belle poesie, che coprivano brutti fatti, giravano a quei tempi. Rispondeva all'ambasciatore di Francia con pensieri adulatorj, e lingua Italiana sucidissima il presidente del direttorio Constabili: il linguaggio stesso disvelava la debolezza degli animi, la servitù dello stato. Scriveva sulle prime, cioè il dì trenta maggio, Trouvé a Birago, ministro degli affari esteri della Cisalpina, invitandolo ad operar per modo che il governo Cisalpino facesse risoluzioni vigorose contro i fuorusciti Francesi, che si erano ricoverati sul territorio Cisalpino: gli mandava indizi sopra alcuni di loro: voleva, che a termine del capitolo decimoquinto del trattato d'alleanza fra le due repubbliche, essi fuorusciti fossero arrestati, onde il direttorio di Francia gli potesse bandire, e confinar ne' luoghi, che stimerebbe; accusava, quelli di aver combattuto contro la loro patria nelle legioni parricide, come le chiamava, di Condè, questi, di spandere fra i Cisalpini novellamente liberi le dottrine della schiavitù, di calunniare i repubblicani Francesi, e di far sorgere contro di loro il fanatismo, il pregiudizio, e tutti gli odj possibili: voleva finalmente, che il ministro della Cisalpina pubblicasse la sua lettera, affinchè tutti i fuorusciti sapessero, che la legazione Francese dichiarava loro una guerra, la quale non avrebbe termine, se non quando i medesimi cessassero di contaminare la terra della libertà. Rispose il Cisalpino ministro all'ambasciadore di Francia, che il direttorio Cisalpino purgherebbe la terra della libertà da quegli uomini immorali, come gli qualificava, contaminati, ed ipocriti. Brutto principio di legazione era certamente quello, che s'annunziava con un'opera inumana, e brutto principio ancora di governo libero era quello che la secondava. Ma ben altri pensieri che questi nodriva l'ambasciadore nella sua mente e per se, e per comandamento di chi il mandava. Aveva il direttorio osservato, che la vivezza dei libertini era stata cagione, che i popoli Cisalpini, che sono generalmente di natura quieta e savia, si fossero messi in mal umore. I medesimi libertini, siccome quelli, dico i sinceri, che senza freno parlando accusavano continuamente di prepotenza e di ladroneccio gli agenti del direttorio di Francia, operavano, che l'odio contro i Francesi moltiplicasse ogni giorno. Tenevano nei due consigli, massimamente in quello dei giovani, il predominio, e le proposte che vi si facevano, ed i decreti che vi si pigliavano, indicavano molta ardenza negli animi. Già insospettiva la Francia, che sapeva, che la smoderatezza può dare contro ogni cosa, ed ella non voleva che si desse contro di lei. L'opposizione tanto gagliarda, che era sorta nei consigli contro il trattato d'alleanza, accresceva ancora maggior colore a questi pensieri e sospetti, dimodochè divenne certo pel direttorio, che se non domava quei partigiani tanto risentiti di libertà e d'independenza, la sua superiorità in Cisalpina sarebbe sempre stata incerta e vacillante. Infatti si vedeva, che il medesimo spirito d'opposizione, che nei consigli ed in una parte del direttorio si era manifestato, si radicava anche nei magistrati subalterni, ed ognuno gridava libertà ed independenza, con tali grida accennando non più ai Tedeschi, che ai Francesi. Parve, che fosse arrivato il tempo per Francia di aggravar la mano e di porre il freno, perchè per la pace fatta con l'imperatore d'Austria essendo passata la stagione di fomentar le rivoluzioni in Lombardia, pensava, che alla sicurezza sua in Italia, così in pace come in guerra, si appartenesse di farsene un appoggio, introducendovi un vivere più quieto, e che più piacesse ai più ricchi, e notabili cittadini. Per la qual cosa Trouvé, usando così i cattivi, come i buoni, sì veramente che favorissero i suoi disegni, fece in sua casa un'adunanza segreta, in cui si esaminarono i cambiamenti da farsi nella costituzione Cisalpina. Ajutavano questo moto principalmente Sopransi, antico ministro di polizia, per vendicarsi del direttorio che l'aveva licenziato, Adelasio quinqueviro, e Luosi, ministro della giustizia. A loro si accostavano Aldini di Bologna, Beccalozzi di Brescia, Villa di Milano, Martinelli, ed Alborghetti di Bergamo, uomini meno odiati dall'Austria, che amati dai Francesi. Era il progetto di ridurre la constituzione a forma più aristocratica con diminuire il numero dei membri dei consigli, e così ancora quello dei dipartimenti, e dei membri dei magistrati distrettuali. Si voleva altresì accrescer forza al direttorio, perchè si era non senza ragione osservato, ch'egli si trovava nella constituzione molto impari ai due consigli, e quasi schiavo loro. Con questo si voleva frenare la libertà della stampa, e serrare i ritrovi politici, per la quale e pei quali i pensieri buoni si facevano cattivi per la esagerazione, i cattivi peggiori per l'impeto. Certamente questa riforma era da lodarsi, e sarebbe piaciuta ai buoni, se al tempo medesimo si fosse data la independenza alla Cisalpina; ma con la servitù ogni legge è cattiva, e le peggiori sono le buone, perchè portano con se la menzogna, e fan credere che vi sia ciò che non v'è. Ebbero i democrati ardenti avviso del disegno da un Montaldi rappresentante, che chiamato alle congreghe segrete, nè appruovandole, aveva svelato ogni cosa al consiglio dei giovani. Il romore fu grande; le parole nei ritrovi non ancora chiusi, gli scritti nelle gazzette non ancora frenate, furono in gran numero. Grande impressione massimamente fece nel pubblico una orazione che sotto il nome supposto di Marco Ferri, fu composta, data secretamente alle stampe, e sparsa copiosissimamente in ogni parte della Cisalpina da un giovane Piacentino, che aveva già stampato in Milano molte cose con non poca lode. Grave, e forte orazione era questa: «E donde in te, uomo da nulla (sclamava rivoltosi al giovane Trouvé il giovane Piacentino) donde in te, piccolo straniero, barbaro per l'Italia, la podestà di tante e sì gravi cose a dispetto nostro operare nella nostra repubblica? Dal tuo direttorio? Ma come mai il direttorio Francese munito ti avrebbe di così tirannica autorità, di una autorità, che in nessun tempo, in nessun caso mai non fu delegata ad ambasciadore presso popolo amico? Come potrebb'ei contraddire a se stesso, e detestare nella Cisalpina quello statuto, cui con tanto fervore, con tanta severità protegge, e difende nell'ampio recinto di sua giurisdizione? Come vorrebbe rapire in un istante a repubblica sorella l'independenza, che, pochi mesi sono, le ha guarentita con solenne trattato, e che tu, pochi dì fa, con sue patenti lettere, e in apparato quasi trionfale a salutar sei venuto? Chi oserà mai accagionare quei gravissimi quinqueviri dell'atroce e vile perfidia d'avere occultamente preparata la violazione di un trattato nell'atto medesimo, che di adempirlo fan pubblica testimonianza; di un trattato, che ottenuto avendo la sanzione dei legislatori di Francia, non può senza il loro consenso essere alterato, come non senza il previo concerto coi direttori Cisalpini? Chi potrà mai credere, che quel tuo governo, il quale non ha ricevuto che la delegazione di eseguire le leggi in terra Francese, e sopra cittadini Francesi, usurpar voglia in paese straniero, ed alleato l'autorità elettorale, legislativa, esecutiva, tutta insomma la sovranità nazionale? Li Cisalpini sono troppo giusti per recare a que' supremi governanti sì grave ingiuria. No, non è vero, che fidata abbianti la missione di rovesciar lo statuto, per cui esistono eglino medesimi: l'hanno difeso contro Europa tutta: come nol faran trionfare di pochi oscuri oligarchi? «Sei tu, novello Lisandro (benchè solo in male, e peggio a te s'attagli siffatto nome) che vuoi poterti dar vanto di avere ricostituita una repubblica in estranio paese, tu, che nel tuo proprio non meritasti mai di sedere fra i settecento cinquanta, che le ordinarie leggi sanzionano. Che altro infatti dimostra il giro tortuoso de' tuoi clandestini maneggi? Per riverire, qual inviato di Francia, l'independenza Cisalpina, ti recasti con pubblica magnifica pompa al palagio nostro direttoriale, e il dì venti pratile andrà chiaro nei fasti della nostra repubblica; per colpire oggi di morte questa independenza, ti rintani nella più secreta parte del tuo alloggiamento; vi chiami un ambizioso, e ribelle congedato ministro, un deputato adolescente, e tal altri da te compro o ingannato; e con questi soli tenti, e disponi il tenebroso lavoro. Nè sa nulla il supremo governo, nulla li ministri, nulla il senato legislatore, nulla il popolo. Ma la patria vigilanza s'adombra e bisbiglia, va in traccia dell'ambasciadore, e il cospiratore ritrova. «Questa è dunque la fede, l'amicizia, la fraternità, che di Francia ne apporti? questi li modi e le forme, onde la prima ambascerìa Francese presso la novella repubblica condisci, ed onori? Questa la libertà, la prosperità, che in Italia pretendi? Qual vasta materia di dire per que', che mai non posero ne' tuoi fidanza! Diranno, che voi non prometteste libertà agli Italiani, che per più agevolmente dominargli e spogliargli; che oggi sotto pretesto di riforma, gli caricate di nuove catene, onde viemmeglio continuare ad ismungergli, a dissanguargli; che l'oro, non la libertà, è l'unico idolo vostro; che quella, d'ogni virtù maestra e fonte, non è fatta per voi, nè voi per ella; infine, che la libertà Francese sta tutta nelle parole, e negli scritti, negli ululati di furibondi tribuni, e nelle declamazioni di perversi impudenti sofisti. Ma v'è di più. Quei cangiamenti, che di tua despotica possanza, e con tanta leggerezza effettuare intendi nello stato politico della Cisalpina, saranno l'infallibil segnale della caduta della stessa repubblica. Questo primo funesto esempio ne trarrà altri dopo di se. Ciò sta in principio, ma sta molto più, se si badi al carattere dei dominatori di una nazione. Nulla è durevole in Francia, dove signoreggiano soltanto foga di novità, ambizione di dominio, furore di parti, disorbitanze. Offeso in tal guisa l'Italiano nell'opposto suo carattere, insultato così, ed isvilito, non avendo potuto ancora riconoscersi, ordinarsi come a lui si conviene, sviluppare il suo genio, e le sue forze, non potrà che abbandonarsi al primo conquistatore, che si parrà a lui d'innanzi. Non è nei modi, che tu, di frivoli maestri più frivolo allievo, apparasti sulla Senna, che le antiche repubbliche Italiane stabilite, ed assodate si sono. Giudicane, se capace ne sei, dalla loro durata a traverso dei secoli. Più di quattordici ne contava la Veneta. Che è ella divenuta in due giorni nelle mani de' tuoi? Ti vanta adunque di poter tu fortificare la repubblica Cisalpina....! Per indole natìa, per l'esempio de' tuoi, per la forza pretoriana onde sei cinto, forse potrai distruggere; edificare, consolidare non mai: non si consolida distruggendo». Sentì molto gravemente Trouvé il fatto, e condottosi in pompa al direttorio, il richiedeva con parole aspre ed imperiose dell'arresto dell'autore dell'orazione, per avere, come diceva, insultato la repubblica di Francia. Gli fu risposto, non trovarsi in Milano i caratteri di tale stampa, esser venuta di fuori; cercherebbero, farebbero, non dubitasse: ma se la passarono con parole, perchè il direttorio non ancora riformato amava il moto dell'oratore. Intanto rimostrarono i consigli legislativi, rimostrò il direttorio, mandando anche un uomo a posta a Parigi. Vi andò eziandio espressamente il generale Brune, che era succeduto a Berthier, per rimostrare, perchè gli piacevano i governi più popolari, e faceva professione di amatore ardente di libertà. Tutto fu indarno; Trouvé, al quale il direttorio, massimamente Lareveillere-Lepeaux, per cui passavano principalmente le faccende d'Italia portavano molta affezione, mandava ad effetto le accordate deliberazioni. La notte dei trenta agosto chiamava in sua casa centodieci rappresentanti, che non erano la metà di tutti: leggeva la nuova constituzione, e le nuove leggi. Le appruovarono, chi per amore, chi per forza, perchè aveva intimato loro, che tale era risolutamente la volontà del direttorio di Francia, e che se non l'accettassero di buon grado, l'avrebbe eseguita per forza. Nonostante alcuni ricusarono, e sdegnati si ritirarono. Il giorno seguente l'opera si recava ad esecuzione. Le soldatesche circondavano la sede dei consigli, ributtavano con le bajonette i rappresentanti non eletti dalla riforma; cacciavano dal direttorio Savoldi e Testi; vi surrogavano Sopransi e Luosi: i rappresentanti renitenti scacciati dai consigli; Fantoni, Custodi, Borghi, amatori vivissimi di libertà, e capi degli altri, posti in carcere. La forza predominava. Fece Trouvé la nuova constituzione, e finalmente dichiarò, parendogli di avere operato abbastanza, e bene solidato l'imperio Francese in Lombardia, rimettere di nuovo l'autorità legislativa nei consigli. In tale guisa venne fatta una riforma negli ordini della Cisalpina, buona in se, viziosa pel modo. Ed ecco una scena: una gran turba seguitava Ranza gridando, _che vuol Ranza, che scartafaccio è quello_? Lo scartafaccio era la constituzione disfatta da Trouvé, che Ranza vestito a lutto andava a seppellire nel campo del Lazzaretto. Brune, che era tornato a Milano, si mostrava scontento. Il direttorio, che lo voleva mitigare, richiamava Trouvé, dandogli scambio con Fouché. Attribuiva anche facoltà al generale di far mutazioni, non negli ordini stabiliti dall'ambasciatore, ma nelle persone impiegate. Rimetteva in carica i democrati più vivi; fora lungo e fastidioso il raccontare come e quali. Le assemblee popolari, che chiamavano i comizi, accettavano la constituzione di Trouvé. I democrati non se ne potevano dar pace. Ma tra l'accettare e il non accettare non era differenza, la forza forestiera reggeva lo stato. Non piacquero al direttorio nè Fouché nè Brune, l'uno e l'altro, come credeva, troppo ardenti in quelle bisogne, e già si vedeva apparire la nuova confederazione contro Francia. Mandava a Milano Joubert in vece di Brune, Rivaud in vece di Fouché, strano inviluppo d'uomini e di leggi tante volte mutate in pochi mesi da chi reggeva il mondo con la forza, e la forza col capriccio. Non si mescolava Joubert nelle riforme; perchè da uomo generoso e magnanimo com'egli era, rispettava la independenza altrui, ed aveva grandi pensieri sopra l'Italia. Rincominciava Rivaud l'opera di Trouvé. La notte dei sette dicembre cingeva con soldatesche il corpo legislativo, che stava deliberando sulle macchinazioni che si ordivano. Poi la mattina le bajonette straniere cacciavano a forza i legislatori eletti da Brune, rimettevano in carica di direttorio Adelasio, Luosi, e Sopransi cacciati da lui. Fu imprigionato Visconti, frenata la stampa, serrati i ritrovi: minacciaronsi i fuorusciti Napolitani di espulsione, i democrati Cisalpini di carcere, se non moderassero le lingue, e gli scritti. Divenne Rivaud padrone della Cisalpina. I democrati lo volevano ammazzare, e pingevano sui loro scritti contro di lui non so che coltello di Bruto; ma e' non fu nulla. In questa guisa la Cisalpina tra la rabbia dei democrati, le speranze degli aristocrati, la prepotenza delle soldatesche forestiere, il timore di tutti, se ne stava aspettando i nuovi assalti dell'Austria. Delle raccontate mutazioni fatte in Cisalpina per modo sì violento levarono un grandissimo romore in Francia coloro, che o sedendo nei consigli legislativi, o con le stampe addottrinando il pubblico, contrastavano al direttorio. Luciano Buonaparte, fratello del generale, servendosi dei principali pensieri dell'orazione di Marco Ferri, ne fece una al consiglio dei cinquecento, la tirannide del direttorio, e la violenza da lui usata in Cisalpina con gravissime parole detestando. Questi discorsi si tenevano dagli opponenti piuttosto per odio del direttorio che per amore della libertà, per la maggior parte di loro, e fra tutti il primo Luciano, macchinavano già fin d'allora di mutare lo stato, cambiar la constituzione, spegnere il direttorio, e chiamare alla somma delle cose il generale Buonaparte. Così costoro, che per amore della libertà, come dicevano, odiavano e laceravano di continuo gli avvocati sedenti in direttorio, non avevano poi paura di un soldato arbitrario e vittorioso, al quale tanto volentieri concorrevano tutti i soldati di Francia. Rispondevano per parte del direttorio Merlin, e Lareveillere-Lepeaux a fine di giustificare le sue opere in Cisalpina, che la Cisalpina non aveva mai avuto una constituzione legittima, perchè quella, che le aveva dato Buonaparte, non era mai stata accettata dal popolo; ch'ella era solamente un'ordinanza militare, non una vera e legittima constituzione; che i Cisalpini si dovevano solamente riputare magistrati militari instituiti col solo fine di governar il paese a tempo, e fino agli ordini definitivi; che del rimanente la Francia aveva conquistato col suo sangue la Cisalpina, e però aveva il diritto di farne il piacer suo. Erano certamente queste risposte vere, ma sarebbero state più sincere, e non meno oltraggiose per la Cisalpina, se fossero state confessate prima, e quando la necessità non stringeva; perchè se la Cisalpina era mera conquista, governata solamente alla soldatesca, e sottoposta ad un espresso dominio militare dalla parte della Francia, non si vede che cosa volessero significare le voci d'independente, che le si davano dal direttorio, i saluti fatti alla independenza Cisalpina dall'ambasciatore Trouvé, quel mandare e ricevere ambasciatori a quasi tutti, e da quasi tutti i potentati d'Europa, come la Cisalpina faceva, e quel lamentarsi del medesimo direttorio Francese, che l'Austria non l'avesse voluta riconoscere, nè da lei accettato, nè a lei mandato ambasciatori. I cambiamenti fatti per forza di soldatesche nella repubblica cisalpina ai tempi del supremo dominio di Trouvé, di Brune e di Rivaud, così comandando il Direttorio di Francia, diedero molto a pensare ai Cisalpini e generalmente a tutti gl'Italiani. Si persuasero facilmente che la Francia tutt'altra cosa voleva piuttostochè l'independenza loro, e che dalle parole in fuori, che erano veramente magnifiche, essi erano destinati a servitù o d'Austria o di Francia. Allora s'accorsero che era per loro diventato necessario, seppure liberi e independenti volevano essere, il camminare con le proprie gambe, e por mano essi stessi a quello che per opera dei forestieri non potevano sperar di acquistare. Surse in quel punto principalmente una setta la quale, contraria del pari ai Francesi che ai Tedeschi, dagli uni e dagli altri voleva liberare l'Italia, col fine di darle un essere proprio e independente. Perlochè si unirono i capi in Milano, i principali dei quali erano i generali Lahoz, Pino e Teuillet, e con questi Birago di Cremona, con alcuni altri sì di Cisalpina che di altre parti d'Italia. Restarono d'accordo che a questo scopo s'indirizzassero tutti i pensieri. Deliberarono che le voci d'independenza si spargessero fra i popoli, che si tirassero nell'unione quanti corpi di genti assoldate si potessero; che a questo medesimo fine si facesse una intelligenza coi Romani e coi Napolitani, e che ad ogni caso si formasse un'accolta di genti in Romagna, perchè quindi, o nei circonvicini e piani paesi si spargesse, o sul dorso degli Appennini si ritirasse, secondochè gli accidenti richiederebbero. Per nutrire il disegno, ordinarono adunanze segrete, che fra di loro corrispondevano, e la cui sede principale era in Bologna; e siccome da Bologna, come da centro, queste adunanze si spandevano, a guisa di raggi, tutto all'intorno negli altri paesi d'Italia, così chiamarono questa loro intelligenza Società dei Raggi. Questo tentativo era contrastato da coloro fra gli amatori della libertà e dell'independenza, i quali, memori dei servigi fatti loro dai Francesi che gli avevano liberati, alcuni dal carcere, altri dall'esilio, ed altri anche da peggio, e persuasi che senza l'aiuto di Francia era impossibile resistere ad un tempo stesso alla parte che in Italia desiderava l'antico stato ed all'armi austriache, mal volentieri sopportavano che, per acquistare un'independenza dubbia, si volesse non solamente scostarsi dai Francesi medesimi, verso i quali protestavano gratitudine, ma anche voltar l'armi contro di loro, ove le occorrenze dei tempi il volessero. Fra questi ultimi più di tutti insisteva Cesare Paribelli, il quale era stato mandato da Milano in Romagna ed a Napoli per consultare su di queste faccende coi novatori del paese. Pure, essendosi col tempo viepiù scoperto che il Direttorio di Francia aveva l'animo troppo contrario alla libertà ed all'independenza d'Italia, questi medesimi, e Paribelli principalmente, erano venuti a volere l'independenza contro e a dispetto di tutti. Queste cose si tramavano, e già i semi se ne spargevano; ma vennero poco dopo i tempi grossi e le rotte dei Francesi, per le quali, soprabbondando una estrema forza di genti settentrionali, tutti questi intendimenti diventarono vani. Nondimeno le operazioni di Lahoz, che in progresso si racconteranno, furono come immediato effetto, così piccola parte di questa vasta macchinazione. A questo modo, independenti misti con servili, novatori con perseveranti, repubblicani forestieri, che desolavano le terre italiane, uomini boreali, che s'apprestavano a desolarle, componevano a questo tempo i dolori ed i terrori della miseranda Italia. LIBRO DECIMOQUINTO SOMMARIO Infelice condizione del re di Sardegna. Ginguené ambasciadore di Francia a Torino. Suo discorso al re; sua opinione sul governo regio del Piemonte. Gli amatori della repubblica si adunano sui confini, e tentano di far rivoluzione. Generosi lamenti di Priocca, ministro del re, sui casi presenti. Battaglia di Ornavasso, in cui i repubblicani Piemontesi sono vinti dalle truppe regie. Guerra tra Genova ed il Piemonte. Brune e Ginguené sforzano Carlo Emanuele a dar loro la cittadella di Torino. Indulto del re a favor degl'insorti. Fatto lagrimevole della Fraschea. Schifosa mascherata fatta da alcuni Francesi in Torino, e grave pericolo che ne nasce. Ginguené richiamato: sue qualità. Il direttorio di Francia, non si fidando del re di Sardegna, si risolve a torgli lo stato, e manda a questo fine il generale Joubert. I Francesi s'impadroniscono del Piemonte, sforzano il re a lasciarlo, e vi creano un governo provvisorio. Atto d'abdicazione del re. Sua continenza mirabile nell'andarsene. Lodi del ministro Priocca. Manifesto di guerra del direttorio contro il re. Generosa protesta di Carlo Emanuele, data in cospetto di Cagliari di Sardegna. Io sono nel presente libro per raccontare il martirio del re di Sardegna. Nella quale narrazione si vedrà, quanto possa l'abuso della forza contro il debole, e come non abbia incresciuto al più potente, non solo di usare la forza soverchia, ma ancora di aggiungervi la fraude, colorandola con le dolci parole di lealtà, e di santa osservanza dei patti. Si vedrà, come uomini, per ogni altra parte di dottrina e di virtù compiti, si siano fatti, per le illusioni dei tempi, stromenti di sì condannabili eccessi. Racconterò dall'altro lato uomini ridotti all'ultimo caso mostrare più animo, e maggiore virtù, che non quelli ai quali obbedivano quasi tutte le forze d'Europa; e se qualche contentezza si pruova nello scrivere storie, questa è di poter purgare dalle calunnie di tempi perversi gli uomini eccellenti. Il re di Sardegna serrato da ogni parte dalle armi di Francia, aveva posto l'unica speranza nella sincerità della sua fede verso il direttorio, non che nel più interno dell'animo non desiderasse altre condizioni, perchè impossibile è che l'uomo ami il suo male, ma vedeva, che era del tutto in potestà dell'oppressore il sovvertire i suoi stati, prima solo che l'Austria il sapesse. Così la repubblica di Francia voleva la distruzione del re, sebbene s'infingesse del contrario, ed il re voleva serbar fede alla repubblica, quantunque altri desiderj avesse. Reggeva il Piemonte il re Carlo Emanuele quarto, principe religiosissimo, e di pacata natura, ma che trasportando i precetti della religione nelle faccende di stato, era poco atto a destreggiarsi in un secolo tanto rotto, e sregolato. Sedevano appresso ai potentati d'Italia, come ambasciatori o ministri della repubblica Francese, Ginguené a Torino, Trouvé a Milano, Garat a Napoli, Sottin a Genova. Erano Ginguené e Garat avversi ai governi, presso a cui erano mandati, e desideravano la mutazione, ma non la procuravano apertamente, mentre Sottin non s'infingeva contro il sovrano del Piemonte da quel suo nido di Genova. Principale secondatore di mutazioni si mostrava Brune, a questo tempo generale dei Francesi in Italia, sì per se, e sì per gli stimoli dei fuorusciti Piemontesi, che gli stavano assiduamente ai fianchi. Questi, non contraddicendo i repubblicani di Francia, padroni del paese, fulminavano senza posa sì dalla Liguria, che dalla Cisalpina contro il re Carlo Emanuele; il che giunto ai mali umori, che già erano gonfiati in Piemonte, partoriva effetti tanto più forti, quanto più parevano essere aiutati dai Francesi. Oltre a questo l'ambasciador Cisalpino Cicognara, che sedeva in Torino, giovane di singolare ingegno, e di natura generosa, vedeva molto volentieri coloro che desideravano la mutazione, e dirizzava le cose secondo le opinioni dei tempi, in pro sì della Cisalpina particolarmente, che dell'Italia universalmente; onde i novatori prendevano novelli spiriti. Consultavano coll'ambasciator Cisalpino massimamente coloro, che volevano cambiare gli ordini politici in Piemonte per unirlo alla Cisalpina, o che si volesse fare di tutta l'Italia una sola repubblica, come alcuni bramavano, o che si preferisse di farne due, dell'una delle quali sarebbe capo Milano, dell'altra Roma; imperciocchè questi pensieri appunto cadevano negli animi dei novatori Italiani. In mezzo a tutti questi umori era arrivato l'ambasciatore Ginguené in Torino. Era Ginguené uomo di tutte virtù, ma molto incapriccito in su quelle repubbliche, non vedendo bene alcuno se non negli stati repubblicani. La filosofia l'aveva allettato, e la forza straordinaria di quella sua repubblica gli faceva una sembianza di felicità e di libertà, come se la felicità e la libertà potessero vivere negli stati disordinati e soldateschi. Ma l'orgoglio che nasce dalla potenza, massime negl'ingegni vivi, fa di queste illusioni, ed anche delle peggiori. La paura ancora operava qualche cosa in una fantasia tanto vivace; imperciocchè, siccome Ginguené si era molto nodrito degli scrittori Italiani, e specialmente di Machiavelli, così egli si era dato a credere, che l'Italia fosse piena di Machiavelli e di Borgia, ed aveva continuamente la fantasia spaventata da immagini di tradimenti, di fraudi, di congiure, di assassinj, di stiletti, e di veleni. Stimava, che la sincerità, e la lealtà fossero solo in Francia; nè le insidie, ed i tradimenti di Buonaparte, e del direttorio in Italia, quantunque fossero tanto manifesti, l'avevano potuto guarire. Con questi spaventi in capo, veduto prima il ministro Priocca, in cui scoverse, come diceva, non so che di perfido al ridere, faceva il suo primo ingresso al re. Solito alle accademie, solito ai discorsi al direttorio, e del direttorio, poichè l'età fu ciarliera oltre ogni credere, si aveva Ginguené apparecchiato un bello e magnifico discorso, non considerando, che quello non era uso di corte in Torino, e che se gli apparati di lei sono magnifici, il re se ne vive con molta modestia. Traversate le stanze piene di soldati bene armati, e di cortigiani pomposi, entrava Ginguené in abito solenne e con una sciabola a tracollo, nella camera d'udienza, dove si trovò solo col principe. Stupì l'ambasciator repubblicano in vedendo tanta semplicità nel sovrano del Piemonte. Avrebbe dovuto, siccome pare, deporre il pensiero di recitare il discorso, perchè e le adulazioni, ed i rimproveri erano ugualmente, non che intempestivi, inconvenienti. Pure, ripreso animo, così favellava al re. «Sire, il direttorio esecutivo della repubblica Francese, desiderando nodrire la buona amicizia testè introdotta tra la Francia ed il governo Piemontese, mi manda a vostra maestà. Porto con me da parte del direttorio fede, lealtà, rispetto ai trattati, rispetto all'ordine pubblico, rispetto al diritto delle genti. Spero trovare nei ministri, ed in tutti gli agenti di vostra maestà i medesimi sentimenti. Un operare sincero ed aperto solo conviensi ai governi veri. La nazione, che per le sue vittorie acquistò il nome di grande, non ne conosce alcuno diverso da questo. Ella fa della doppiezza e dell'astuzia nei negoziati la medesima stima, che della viltà nelle battaglie. Ella lascia con disprezzo i gabbamenti, e le machiavelliane fraudi a quei vili governi corrotti, e corrompitori, che da sei anni turbano l'Europa con le loro macchinazioni, e comprano a peso d'oro l'umano sangue. Quali frutti raccolto hanno dai perfidi consigli le docili potenze? Io non sono già, o Sire, per irritar quelle ferite, che il tempo solo, la pace, e la concordia possono saldare. Solo ho intento di dire, parlando a vostra maestà, a tutti i governi, che, come ella, sonsi ricondotti a consigli pacifici, che la prosperità loro, che la loro gloria, nella costanza e nella sincerità loro verso la Francese repubblica sono massimamente ed unicamente riposte. Piacemi sperare, o Sire, che quanto io dico, sia conforme all'animo di vostra maestà. Sarà per me gran ventura, se la mia condotta, ed i miei principj conosciuti nelle tempeste che turbarono la mia patria, potranno anticipatamente darvi buon concetto di me, se la elezione del direttorio nel mandarmi a vostra maestà le parrà segno delle sue intenzioni verso di lei, e se finalmente nel corso di questa mia tanto onorevole missione, io riuscirommi a dimostrare, che bene ha il direttorio esecutivo posto la sua fede in me, e che non indarno io ho sperato meritare la stima di vostra maestà». Questo discorso, che ritraggo di maggior semplicità, ed è molto più purgato di quello tanto astruso, e tanto lambiccato di Garat al re di Napoli, non sarebbe, se non da lodarsi, se non fossero quelle punture date al governo del re; perchè, salve le precauzioni oratorie, esso niun'altra cosa voleva significare se non questa, che il governo Piemontese non era nè sincero, nè amico della repubblica di Francia, nè scevro dalle corruttele Inglesi. Le quali cose certamente credeva Ginguené, ed ebbele volute dire. Da un'altra parte quale sincerità fosse nelle parole di Ginguené, è facile giudicare. Portava egli opinione, e lo scrisse anche al suo governo, che un governo regio qual era quello di Piemonte, non poteva più lungamente sussistere, essendo posto fra tre repubbliche incitatrici, e che perciò era d'uopo operarvi buonamente una rivoluzione, la quale avrebbe potuto essere senza sangue; che se al contrario si aspettava ch'ella da se medesima nascesse, sarebbe violenta e sanguinosa: pareva a Ginguené, che il re dovesse restar contento della Sardegna. Ora qual fede, e qual lealtà verso il re vi fosse nel voler fare una rivoluzione ne' suoi stati, e cacciarlo dal Piemonte, ciascuno sel vede. Così chi poneva le cagioni, voleva anche gli effetti; e dalla necessità delle cagioni argomentava poi alla giustizia degli effetti. Certamente non era colpa del re di Sardegna, se si era creata una repubblica incitatrice in Francia, e simili, ed ancor peggiori repubbliche avevano i repubblicani Francesi creato in Lombardia, ed in Liguria. Al discorso tanto squisito del repubblicano non rispose il re, non essendo accademico. Bensì venne sull'interrogare del buon viaggio, e della buona salute dell'ambasciatore: poi toccò delle infermità proprie, della consolazione che trovava nella moglie, che era sorella di Luigi decimosesto re di Francia. A questo tratto ripigliando Ginguené le parole, disse, ch'ella aveva lasciato in Francia memorie di bontà e di virtù. Si rallegrava a queste lodi della regina il Piemontese principe, e mettendosi ancor egli sul lodarla, molto affettuosamente spaziò nel favellare delle virtù e della bontà di lei, degli obblighi che le aveva, dei difetti di cui ella l'aveva corretto, massime di quelli della ostinazione e della violenza, della confidenza intiera che aveva in lei, e della pace, e del buon accordo, che, mercè le sue virtù, regnavano in tutta la famiglia. Poi seguitando, addomandava all'ambasciadore, se avesse figliuoli. Rispose del no. Al che il principe, tutto su l'orbezza propria intenerito, rispose, _nè anch'io ne ho, ma mi consolo per la virtuosa donna_. Queste cose io ho voluto raccontare, perchè mi parvero fare un dolce e consolatorio suono in mezzo alle stragi ed ai tradimenti del secolo. Ritirossi dalla reale udienza l'ambasciador di Francia, e sebbene fosse molto acceso sulle opinioni repubblicane di quei tempi, si sentì non pertanto assai commosso ed intenerito a tanta bontà, semplicità, e modestia del sovrano del Piemonte. Pure questo fu il principe, che divenne bersaglio di tanti oltraggi, di tanti furori, e di tante disgrazie. Frequentavano la casa dell'ambasciator di Francia i desiderosi di novità in Piemonte, principalmente quelli, che volendo due repubbliche in Italia, portavano opinione, che il Piemonte dovesse essere unito colla Francia. Nella quale opinione concordavano alcuni nobili delle principali famiglie, o per amore di libertà, o per invidia di potenza verso la casa reale. Stando costoro continuamente ai fianchi di Ginguené, gli rapportavano le più smoderate cose del mondo, mescolando il vero col falso sulle condizioni del Piemonte, e sulla facilità di operarvi la rivoluzione; e siccome questi rapporti andavano a versi delle sue opinioni, così ei se gli credeva molto facilmente. Per la qual cosa sentiva egli sempre sinistramente del governo, e volendo tagliarvi i nervi, insisteva con istanza presso il direttorio, acciocchè sforzasse il re a licenziare i sei reggimenti Svizzeri, che tuttavia conservava a' suoi soldi. Mentre da una parte l'ambasciator di Francia dava animo ai novatori, vedendogli volentieri, e dando facile ascolto ai rapportamenti loro e dall'altra voleva che si disarmasse il re con licenziare gli Svizzeri, i mali semi producevano in Piemonte frutti a se medesimi conformi. Sorgevano in diverse parti moti pericolosi suscitati da gente audace con intendimento di rivoltar lo stato. Il più principale pel numero e pel luogo, ed il più pericoloso si mostrava in Carrosio, terra di qualche importanza, che obbediva al Piemonte, quantunque situata dentro al dominio Genovese, e cinta da ogni parte delle terre della repubblica Ligure. Quivi erano concorsi oltre un migliaio i fuorusciti Piemontesi, sì quelli, che per iscampo loro e per essersi mescolati nelle congiure precedenti, erano stati obbligati a spatriarsi, come quelli che per opinione abborrendo la potestà regia, si erano volontariamente condotti in paesi forestieri. Avevano fatto elezione di questo luogo, parte perchè per lui potevano facilmente insinuarsi nei siti montagnosi del Tortonese e delle Langhe, parte perchè non credevano che il re s'ardisse andar ad assaltargli, stantechè era per lui necessario passare pel territorio Ligure, e parte finalmente perchè i capi loro avevano forti aderenze nel Genovesato, massimamente in Genova. Nè le speranze riuscivano senza effetto: circa due mila soldati Liguri, partitisi improvvisamente dai soldi della repubblica, ed usciti da Genova senza ostacolo, andarono ad ingrossare a Carrosio la squadra dei Piemontesi. Nè dubbio alcuno vi poteva essere sugli incitatori; perchè ed uscirono sotto condotta di un ufficiale Ligure, che poi se ne tornò sicuramente a Genova, ed erano ottimamente forniti di denaro. Al tempo stesso si recitava sulle scene Genovesi una commedia intitolata _Furbo per furbo_, piena di molti strazi e villanìe contro il re, e ad ogni tratto gridavano gli spettatori, _viva la libertà, morte al tiranno Piemontese_. L'inviato che quivi si trovava presente, per lo men reo partito elesse di ritirarsi. Le Gazzette poi di Genova, anche quelle che si pubblicavano sotto l'autorità del governo, continuamente laceravano il re, chiamandolo con ogni più obbrobrioso nome, ed innalzando fino al cielo l'impresa dei fuorusciti di Carrosio. Promettevano altresì, che quello che si tentava dalla parte della Liguria, si sarebbe anche tentato dalla parte della Cisalpina, e con parole infiammatissime pronosticavano la prossima ruina di Carlo Emanuele. Capi principali del moto di Carrosio erano uno Spinola, nobile, Pelisseri, e Trombetta popolani, gente oltre ogni modo ardita, ed intenta a novità. Un Guillaume, ed un Colignon Francesi erano con loro. Nissuno pensi, che uomini incitatissimi abbiano mai pubblicato cose più immoderate contro i re di quelle, che costoro mandarono fuori contro quel di Sardegna. Poi per dar maggior terrore, e per far credere che non si consigliassero con fondamenti falsi, spargevano ad arte voci, che la repubblica Francese loro dava favore, e che appunto coll'intento di far sorgere la rivoluzione in Piemonte, il direttorio aveva scambiato il suo legato, mandando in vece di Miot, uomo, come dicevano, di pochi pensieri e repubblicano tiepido, Ginguené, amatore vivo di repubblica, e d'animo svegliato e forte. Intanto dalle parole passavano ai fatti, e con infinita insolenza procedendo, svaligiavano i corrieri del re con tor loro i dispacci, bruttissimo preludio di libertà. Fatti poscia più audaci dal numero loro, che ogni giorno andava crescendo, marciarono armatamano contro Serravalle, la quale combattuta vanamente, ed assaliti gagliardamente dalle genti regie, se ne tornarono con la peggio. Parecchj altri assalti diedero alla medesima fortezza con esito ora prospero, ed ora avverso. Così la guerra civile ardeva sulle frontiere del Piemonte. Si moltiplicava continuamente il dispiacere, che riceveva il re dalle sommosse democratiche: infatti il prenunzio di romori di verso Cisalpina non riuscì vano: un corpo assai grosso di repubblicani Piemontesi, non senza intesa del governo Cisalpino, e del generale Brune, in Pallanza sul lago Maggiore adunatosi, minacciava d'invasione l'alto Novarese, e faceva le viste di volersi calare, se trovasse l'adito facile, e la fortuna propizia, fino a Vercelli. Reggevano, come capi principali, questo moto, Seras, originario di Piemonte, ma ai soldi di Francia, ed ajutante di Brune, ed un Léotaud Francese con un Lions Francese ancor esso, ajutante di Léotaud. Noveravansi in questa schiera meglio di seicento combattenti, bene armati, e partiti assai regolarmente in compagnìe. Risplendevano fra di loro non pochi giovani ingenui, e di natali onesti. Si scopriva la fortuna favorevole ai primi loro conati; conciossiachè avendo udito, che i regj giunti prima in Arona, poi già arrivati a Stresa, si apparecchiavano a combattergli, si deliberarono di prevenire i loro assalti con impadronirsi della fortezza di Domodossola; nella quale effettualmente, fatto un impeto improvviso, entrarono, non aspettando i regj una così repentina fazione, nè la fortezza essendo all'ordine per resistere. Vi trovarono i repubblicani alcuni cannoni, opportuno sussidio per loro, e se gli menarono per servirsene contro le truppe della parte contraria. Una terza testa di repubblicani armati era discesa da Abriez nelle valli dei Valdesi, e già aveva occupato Bobbio, ed il Villard, moto molto pericoloso perchè accennava a Pinerolo, terra aperta, e poco lontana dalla città capitale di Torino. Trovavasi il governo regio travagliato da tutte le parti, e temeva che il cuore stesso del Piemonte, che tuttavìa perseverava sano, avesse a fare qualche movimento contrario. Amico nissuno aveva, se non lontano, ed inabile ad ajutarlo; i vicini, cioè la Francia, la Cisalpina e la Liguria, sotto specie di amicizia, ordivano la sua ruina. Pure intendeva all'onore, se alla salute più non poteva, e faceva elezione, giacchè si vedeva giunto al fine, di perir piuttosto per forza altrui, che per viltà propria. Pubblicava il re in mezzo a sì rovinosi accidenti un editto, in cui mostrando fermezza d'animo uguale al pericolo, diè a vedere, che maggior virtù risplende in chi serba costanza a difender se stesso nell'avversità, che in chi assalta altrui con impeto nella prosperità. Andava in primo luogo rammentando quanto aveva operato, dalla sua assunzione in poi, pel sollievo dei popoli; si lamentava, che a malgrado di tante sue cure, e di tanta sollecitudine, spiriti sediziosi e perversi avessero il precedente anno volto a ribellione una moltitudine di persone, parte ree, parte imprudenti, le quali avevano empiuto il Piemonte di confusione, di terrore e di rapina; raccontava, che mercè della divina provvidenza, e coll'ajuto dei sudditi fedeli erano stati frenati i turbatori ed interrotto il corso alle indegne opere loro; che non ostante avevano trovato ricovero in grembo alle potenze vicine, donde avendo raccolto nuovi partigiani, novellamente s'attentavano di correre le province conterminali; che egli aveva mandato contro di loro truppe a sufficienza; ma perchè meglio i sudditi fossero tutelati, voleva, che tutte le città, che tutti i comuni, di concerto coi giudici regj, e sotto guida dei governatori, e dei comandanti delle piazze ponessero le armi in mano a tutti gli uomini dabbene ed affezionati, acciocchè, ove d'uopo ne fosse, potessero congiungersi con le genti regie, e correre insieme alla difesa comune; che sapeva altresì, e di certa scienza novellamente affermava, che ogni giorno riceveva tanto da parte dei generali, quanto da quella degli agenti del governo Francese, dimostrazioni non dubbie di buona amicizia; che finalmente con la sua reale sopportazione consigliandosi, offeriva perdono a chi pentito de' suoi errori se ne volesse tornare al suo grembo paterno. Non ignorava il re, che la rabbia e la ostinazione delle opinioni politiche non lasciano luogo alle persuasioni. E però facendo maggior fondamento sulle armi, che sulle parole, aveva mandato sul lago Maggiore parecchj reggimenti di buona e fedele gente, affinchè combattessero i novatori dell'alto Novarese, e ritogliendo dalle loro mani Domodossola la restituissero al dominio consueto. Medesimamente mandava truppe sufficienti per difendere le frontiere verso la Liguria contro gl'insulti dei Carrosiani. Pinerolo si empiva di soldati, per frenare e spegnere l'incendio sorto nelle valli dei Valdesi. Ma il fondamento di tutto consisteva nel modo, in cui la repubblica di Francia sentirebbe tutte queste Piemontesi sommosse; perchè, se ella le fomentava, era impossibile il resistere. A questo fine insisteva fortemente il ministro Priocca presso a Ginguenè, acciò dichiarasse, qual fosse veramente negli accidenti presenti l'animo del governo Francese. Ragionava egli, e certamente con molto fondato discorso, che importava al re, che il direttorio si risolvesse sulle sorti Piemontesi; poter bene, allegava, resistere a questi nuovi insulti, ma non potere più lungamente sussistere nella condizione in cui era; rendersi perciò necessario, o che la Francia gli desse mezzi d'esistenza, o che a modo suo ne disponesse: «Se è destinato dai cieli, diceva, che noi abbiamo a cessar di essere una potenza, se il corso delle cose, se la forza degli umani accidenti a ciò portano, che noi abbiamo ad essere spenti, noi preferiamo, noi anzi domandiamo, che una nazione grande, potente, e nostra alleata sia quella, che giudichi il destin nostro, ed eseguisca essa stessa quello, che abbia giudicato, piuttostochè vederci minacciati dai nostri stessi sudditi, che è indegnità insopportabile, piuttostochè vederci consumare appoco appoco, e languire in uno stato tale, che la morte non è peggiore». Questi estremi lamenti della cadente monarchìa Piemontese non sono certamente segni di animo doppio, e non sincero; che anzi la sincerità è tale, che non solamente induce persuasione nella mente, ma ancora muove vivamente il cuore. Rispose Ginguenè con sincerità e con parole degne, non di lui, ma del direttorio: che il governo Francese a modo nissuno fomentava quei movimenti; che l'animo suo verso il re era sempre il medesimo; ch'ei voleva adempire lealmente le condizioni dei trattati; che se un nemico esterno assaltasse il re potrebbe egli far capitale delle bajonette Francesi, ma che nel presente caso si vedevano sudditi volere la distruzione del suo trono; che per verità i suoi soldati avevano prevalso nei primi assalti; che sei mila fuorusciti Piemontesi, a cui stava a cuore la libertà, e che bramavano la vendetta, privi di ogni cosa necessaria al vivere, si aggiravano sull'estreme frontiere del regno; che si adunavano in grembo di nazioni libere; che quivi si accordavano ai disegni loro, e che coll'armi in mano assaltavano il re. Conviensi forse alla Francia implicarsi in tale faccenda? Certamente non conviensi. Ha la Francia armi potenti in Lombardìa, ed in Liguria: se in queste due repubbliche nascessero moti contrari al governo, se questo di per se non fosse abile al resistere, e richiedesse di ajuto la repubblica Francese, accorrerebbe ella certamente in soccorso di lui, e dissiperebbe i ribelli. Ma quando Piemontesi amatori di libertà si adunano per conquistarla, e per far la loro patria libera, volere che i Cisalpini, i Liguri, od i Francesi a loro si oppongano, è cosa del tutto sconveniente e vana. A questo dire aggiungeva Ginguenè rimprocci sul modo, con cui il governo Piemontese reggeva i suoi popoli, favellando degli abusi che gli scontentavano, dei rigori usati, dell'angustia delle finanze, del caro dei viveri, della insopportabile gravezza delle imposizioni. Concludeva, che i moti di sedizione non portavano con se alcun pericolo, se niuna radice avessero nella propensione dei popoli; ma che bene era da temersi, che i Piemontesi, la nobiltà in fuori, desiderassero esito felice alla impresa dei sollevati: che però, esortava, preoccupassero il passo, e prevenissero la rivoluzione col dare spontaneamente al popolo tutto quello, che si prometteva dalla rivoluzione. I rimproveri dell'ambasciadore sul mal governo del Piemonte erano, come di forestiero, inconvenienti; che la Francia poi non fosse obbligata a mantenere lo stato quieto al re, era falso, perciocchè a questo si era solennemente obbligata nel trattato d'alleanza. In mezzo a tante angustie del governo regio, Ginguené, come se desiderasse torgli non solo la forza, ma ancora la mente ed il tempo di deliberare sulle faccende più importanti, non cessava di travagliarlo con importune richieste, muovendolo a ciò fare, parte i comandamenti del direttorio, parte i propri spaventi. Chiedeva perciò, ed instantemente ricercava Priocca, operasse, che il re cacciasse da' suoi stati i fuorusciti Francesi, ed ancora proibisse, sotto pena di morte, gli stiletti e le coltella. Voleva altresì, e minacciava il re, se nol facesse, che disperdesse i Barbetti, che infestavano le strade, ed assassinavano i Francesi. Alle due prime richieste rispondeva Priocca, che quanto ai fuorusciti Francesi, desiderava sapere, se la Francia, e l'ambasciador suo intendessero, ch'e' fossero perseguitati, o che la qualità loro di fuorusciti fosse certificata in giustizia, o ch'ella avesse nissun fondamento legale, e solo fosse effetto dell'odio personale, dell'invidia e delle fraudi; desiderava sapere, se volessero parlare di una emigrazione di fatto, o di una emigrazione di dritto. Se di fatto, e' bisognava che l'ambasciadore si risolvesse a rendersi complice di tutti gli atti d'ingiustizia e di violenza commessi da agenti subalterni per interesse o per vendetta contro un numero infinito di Savoiardi e di Nizzardi. Non di tutti parlerebbe il ministro; solo rammenterebbe il conte Selmatoris, nato in Cherasco di Piemonte, impiegato ai servigi militari, ed in corte del re da più di trent'anni, il quale stato solo in tutto il tempo della sua vita quindici giorni nello stato di Nizza, era stato scritto nella lista dei fuorusciti di quel paese. Rammenterebbe altresì il cavaliere di Camerano, il quale, chiuso dall'ottantaquattro in poi nell'ospedal dei matti di Torino, era stato ancor esso nella lista fatale notato. Osservava oltre a ciò Priocca, che il trattato di pace, lasciando al re la facoltà di conservare a' suoi servigi i Savoiardi ed i Nizzardi, aveva riservato alla repubblica Francese il diritto di addomandar l'allontanamento di coloro, che si rendessero sospetti. Ora vorrebbesi forse, insisteva, che tali stipulazioni guardassero indietro, o statuire il principio, che ogni qualunque denunzia senza pruove faccia un uomo sospetto? E potrebbe ella forse, questa valorosa e virtuosa nazione, imputare a delitto ad un ufficiale del re l'aver guidato contro di lei soldati, che poco dopo ella credè potere far compagni delle sue fatiche e delle sue vittorie? Finalmente, concludeva, la giustizia è il primo dovere delle grandi nazioni; ella è anzi bisogno, non che dovere, se esse non vogliono rimanersi alla triste gloria di dominar con la forza, e col terrore. Ora la giustizia domanda, anzi comanda, che non s'incrudelisca contro persona per accuse meramente date da chi è mosso da brama detestabile di vendetta, o da sete vile d'interesse. Rispetto agli stiletti ed alle coltella, affermava Priocca, non potersi i portatori di tali armi pel solo fatto del portarle punire colla pena di morte, senza una considerabile alterazione nel corpo delle leggi, e che nè la giustizia, nè la umanità permettevano, che per solo termine di polizia e di prudenza, si usasse il mezzo estremo della morte. Se si punisce di morte colui che portava un'arme, qual pena si darebbe ad un omicida? Bene si maravigliava Priocca, che queste atroci dottrine si professassero, e l'uso loro anche con minacce s'inculcasse da coloro, che continuamente avevano in bocca parole di filosofia e di umanità. Certamente non erano queste le dottrine di Beccaria. Quanto agli assassini dei Francesi, allegava il ministro, che se gli autori ne fossero conosciuti, sarebbero incontanente castigati, e che a questo fine si era ordinato a tutti i magistrati sì civili che militari, che la sicurezza e la vita dei Francesi diligentemente preservassero; ma che sapeva bene l'ambasciatore, ed era anche vero, che intieramente non si potevano impedire gli effetti dei risentimenti particolari suscitati dagl'insulti, e dalla cattiva condotta dei Francesi; che il mutare la natura degli uomini, ed il fare che non si risentano alle ingiurie, è cosa del tutto impossibile. Così affermava Priocca, che il governo regio, per quanto stava in lui, fosse molto vigilante a render sicuri i Francesi in Piemonte, e quello che diceva, anche sel faceva. Ma bene debbe far maravigliare ognuno, che secondo gli umori, od alla prima favola raccontata all'ambasciator di Francia dai democrati, che gli andavano per casa, tosto ei si movesse a domandare, anche con termini molto imperativi, la liberazione degl'incolpati. Agitavasi la causa di un Richini, detto per soprannome Contino, capo di Barbetti, il quale accusato di grassazione contro un commissario Francese, che viaggiava da Torino a Susa, era stato arrestato per ordine regio, e tuttavia era sostenuto nelle carceri del senato a Torino. A costui fu suggerito da alcuni democrati, che se ne stavano carcerati con lui, un bel tratto, e questo fu, che affermando cose orribili ordite per suo mezzo dal governo regio contro i Francesi, l'avrebbero eglino scampato dal pericolo. Nè fu la risoluzione sua diversa dal consiglio; perchè testimoniò per iscritto, che il re defunto Vittorio Amedeo, il principe reale di Piemonte stato, dopo la morte di Vittorio, assunto al trono, ed il duca d'Aosta, figliuol secondogenito di Vittorio, gli avevano comandato, che se ne andasse nel contado di Nizza e nella riviera di Genova, e quivi avvelenasse tutti i fonti, ai quali necessariamente andassero ad abbeverarsi i Francesi; che quello, che gli era stato imposto, aveva mandato ad effetto; che per questo era sorta una grande mortalità così nei Francesi, come nelle bestie loro. Aggiunse questo Contino, che se n'era andato parecchie volte, per ordine espresso dei tre principi, ad arrestar i corrieri sulle strade, e che aveva da essi principi avuto la facoltà più ampia di ordinare sul colle di Tenda bande d'uomini armati col fine di assassinare i Francesi; ma che i principi medesimi per far vedere, che non l'avevano mosso a tutte queste enormità, l'avevano fatto carcerare, ed ordinato che se gli facesse, come affermava, un processo simulato. Io mi sento muovere a grandissima maraviglia, pensando che un ambasciatore di Francia, uomo del rimanente civile e buono, soffocata in lui la prudenza dall'illusione, non abbia abborrito dall'udire, credere, e rapportare, come fece, al suo governo calunnie tali contro principi religiosi e pii. Certo un deplorabile fantasma era quello, che gli occupava la mente. Il seguito fu, che Ginguené a nome del direttorio richiese solennemente il re, che gli desse Contino, ed il re gli satisfece dell'effetto, dandogli incontanente, e senza difficoltà l'uomo accusato d'assassinio di un Francese: vergognosa vittoria per un governo, ed un ambasciatore di Francia. I terrori di Ginguené erano anche fomentati dalle esorbitanze dei democrati più ardenti, i quali, veduto che i Francesi a tutt'altro pensavano che alla libertà d'Italia, si erano deliberati a voler camminare da se, ed a fare un moto contro i nuovi signori, tacciandogli di tirannide e d'oppressione. Questa gente audacissima, prese occasione di un lauto desinare dato dall'ambasciator di Francia a tutti i ministri, che si trovavano alle stanze di Torino, si misero a dire le cose più smodate, che uomo immaginar si possa. Nè contenti alle parole, mandarono attorno uno scritto, che fu portato da Cicognara a Ginguené. Egli era espresso in questa forma: «Popoli della terra, e voi massimamente patriotti, ed amici sinceri della libertà e dell'umanità, ascoltate le mie voci. Ha la Francia accettato e dichiarato i dritti degli uomini in presenza dell'Ente supremo; ella ha punito il tiranno, che a loro voleva opporsi; ella ha rovesciato il suo trono, ella ha disperso tutte le forze dei confederati d'Europa, che erano accorsi in suo ajuto. Tutti questi miracoli ella gli ha fatti, perchè ha trovato dappertutto uomini, che e conoscevano la giustizia della sua causa, e non esitarono a dichiararsi per lei contro la tirannide. Si era la Francia conciliato l'amicizia loro, dichiarandosi l'amica di tutti i popoli, e promettendo di ajutar quelli, che, com'ella, portassero odio ai tiranni. Popoli della terra, la Francia ha mentito. Il solo scopo ch'ella si è proposto, è quello dell'interesse; ella non ha in nissuna stima i popoli, i tiranni soli le stanno a cuore. Ella se ne sta tranquillamente rimirando le carnificine dei patriotti, e si rallegra del trionfo dei dispoti. Gli agenti, che manda presso a loro per compiacere al loro orgoglio, e per istringere gli empj nodi della loro amicizia, in vece di vestirsi a lutto per la morte degli amici per la libertà, celebrano feste scandalose, e bevono nelle medesime coppe dei tiranni. Il sangue di coloro, che amici della libertà si protestano, scorre a rivi, e dilaga sovra una terra fatta per esser emola della patria loro. Ciò non ostante e' non si risolvono ad abbandonarla. Gli splendori del trono gli rendono spettatori insensibili dell'orribile ecatombe immolata a piè della tirannide. E col nome di amici dei popoli si chiamano! Col nome di amici dei popoli si chiamano essi, cui la guerra civile con tutte le sue orribilità non turba, essi, che l'oro dei tiranni corrompe! Popoli della terra, ascoltate le voci di un uomo, che è spettatore di tante sceleragini, e che ne pruova un dolore orribile. Ardete le dichiarazioni frodolente dei diritti dell'uomo, ch'eglino vi hanno portato. Chiudete gli occhi alla luce, che risplende dal tempio della libertà, fate lega coi vostri tiranni, servite ai capricci loro, abbracciate sinceramente la causa loro, o perirete. La Francia non atterra più troni; essa gli difende: essa vuol fare ammenda dell'insulto fatto alla tirannìa: con una mano opprime i popoli, ai quali per suo proprio interesse dà la libertà, dall'altra tutela i tiranni, che divorano i popoli servi. Le spoglie degli uni e degli altri appena bastano a saziare l'immensa sua cupidigia. Popoli, ancora un lustro, e non vedrete più nella deserta Europa, salvo che in Francia, che tiranni e ruine». Questo scritto tanto impetuoso e sfrenato, e principalmente diretto contro Ginguené, avrebbe dovuto farlo accorto, se non avesse avuto la mente inferma, del cammino, a cui si andava con quegli amatori di libertà, e quale speranza di governo buono da loro si potesse aspettare. Intanto tutta l'ambascerìa di Francia n'era mossa a romore. Ginguené prese contegno con Cicognara, a cui si era sempre dimostrato amico, ed egli a lui. Poi parendogli cosa d'importanza, ne scriveva al direttorio, con molta instanza pregandolo, operasse efficacemente col direttorio Cisalpino, affinchè Cicognara avesse presto lo scambio a Torino, ed in ciò andarvi la salute di Francia. L'ecatombe mentovata nello scritto fu questa. Eransi, come già abbiam narrato, i Piemontesi nemici al nome reale adunati sotto la guida di Seras e di Léotaud sulle rive del lago Maggiore, e già condottisi fin oltre Gravelona, marciavano contro i regj che loro venivano incontro. Erano stati armati, e forniti d'abiti, d'armi e di munizioni con secrete provvisioni del governo Cisalpino. Si noveravano nell'esercito regio circa quattro mila soldati descritti sotto le insegne dei reggimenti di Savoja, della Marina, di Peyer-Im-Off, di Zimmerman, e di Bacman. Le due parti si preparavano alla battaglia. Si combattè tra Gravelona ed Ornavasso. L'ala sinistra dei repubblicani, donde poteva venire il più grave pericolo, pareva fatta sicura dal fiume Toce, insino al quale ella si distendeva; ma siccome tutta l'importanza del fatto dipendeva dal vietare il passo del fiume ai regj, vi aveva Léotaud, per maggior sicurezza, collocato una compagnia di gente eletta, granatieri massimamente. Cominciavano i feritori alla leggiera una battaglia sparsa; poi le genti più grosse l'ingaggiarono per modo, che a mezzo giorno tutte le schiere menavano molto valorosamente le mani. La rabbia era uguale da ambe le parti, siccome di guerra civile, ma l'impeto maggiore da quella dei repubblicani. Questo era cagione, che i regj, quantunque fortemente resistessero, perdevano del campo, e pareva la fortuna inclinare del tutto a favore dei loro avversarj. Tanto bene ordinato era questo moto, sebbene avesse in se qualche cosa di tumultuario, e tanto era l'ardore, che animava a cose nuove quei giovani repubblicani! Mentre in questo modo si mostrava la fortuna favorevole agli sforzi dei novatori, ecco levarsi il grido, che i regj, aspramente urtata e rotta la compagnia guardatrice della Toce, avevano varcato il fiume, ed assaltavano, fremendo, le squadre repubblicane alle spalle. Nè era senza verità il grido spaventevole; imperciochè sei compagnìe di granatieri dei reggimenti di Savoja, e della Marina, con gagliardìa estrema combattendo, avevano e sbaraglialo i guardatori del varco, e passato il fiume, e già assaltavano alle terga i repubblicani. Questa mossa fe' del tutto prevalere i regj; i repubblicani assaliti da fronte e da dietro, e sopraffatti dal numero soprabbondante degli avversari che su quel forte punto si erano spinti avanti con grande sforzo, andarono in rotta; nè fu più possibile ai capi di rannodargli, ancorchè Léotaud in questa bisogna virilmente si adoperasse. Cencinquanta repubblicani perirono nella fazione; quattrocento vennero vivi in mano dei vincitori. Cento furono uccisi soldatescamente in Domodossola, tornata, subito dopo la battaglia, in poter dei regj. Perì, fra gli altri, Angelo Paroletti, giovane di costume angelico, e d'ingegno maraviglioso. I superstiti furono condotti nel castello di Casale, dove si fecero loro i processi militarmente; trentadue condannati a morte. In questo mezzo tempo arrivarono novelle importanti da Parigi. Mancava al cupo ravviluppamento dei tempi, che si accagionassero dal governo di Francia i re, e specialmente quel di Sardegna, di essere loro medesimi gli autori delle ribellioni. Aveva Ginguené con instanti parole descritto al suo governo i supplizj del Piemonte. Il direttorio, che poteva meramente intromettersi per umanità, amò meglio mescolarvi le accuse e l'inganno. Scriveva il dì diciotto maggio Taleyrand a Ginguené, che i moti d'Italia, quelli sopratutto, che erano sorti in Piemonte, mostrandosi con sembianza minacciosa e molto pericolosa, era venuto il direttorio in una risoluzione definitiva; che sapeva il direttorio di certa scienza, che si era ordita una congiura col fine di far assassinare tutti i Francesi in Italia; che sapeva ugualmente, che moti sediziosi si fomentavano a questo fine in ogni parte, acciocchè soccorsi di Francesi essendo addomandati al tempo medesimo in luoghi diversi, le loro forze per la spartizione s'indebolissero, e fosse per tal modo fatto abilità agli assassini di uccidergli. Sapeva finalmente, che non contenti al dare compimento a sì scelerato proposito, volevano ancora imputarlo a coloro, che si credevano amici della Francia, affinchè la morte loro si rendesse più sicura. In tanta complicazione, come diceva, di preparati delitti, faceva Taleyrand sapere a Ginguené ciò, che il direttorio aveva risoluto per salvare e l'Italia e i Francesi e gli amici della repubblica, dai mali che loro sovrastavano; gl'intimava pertanto, che si appresentasse al governo del re, della orribile conspirazione favellando tanto evidentemente tramata dalle potenze straniere, e nemiche della Francia, e dimostrasse, volere il governo francese risolutamente, ch'ella e per cagioni e per pretesti intieramente fosse diradicata; volere, che prima di tutto, offerisse il governo del re indulto leale ed intiero a tutti i sollevati, sì veramente che le armi deponessero, ed alle case loro ritornassero; volere, che il re adoprasse le sue forze contro i Barbetti, che desolavano quelle infortunate regioni, ed usasse tutti i mezzi per fare, che le strade tra Francia ed Italia fossero libere e sicure. A queste condizioni, e per allontanar il timore che le repubbliche Cisalpina e Ligure turbassero il Piemonte, interporrebbe il direttorio la sua autorità, perchè si mantenessero in quiete. Ordinerebbe anzi a Brune, che apertamente, ed espressamente comandasse ai sediziosi, che dissolvessero le bande loro e si ricomponessero nel riposo. Caso importante, ed urgentissimo essere, aggiungeva il ministro di Francia, le anzidette condizioni, perchè tanti giudizj arbitrarj, tanti supplizj crudeli contro uomini ragguardevoli per virtù e per dottrina, e che solo parevano essere stati condotti all'ora estrema, perchè erano amatori della repubblica Francese, non permettevano che si frapponesse indugio. Se il governo Sardo non accettasse le condizioni offerte, si renderebbe manifesto, essere lui, non più vittima, ma complice delle sedizioni, cui fomenterebbe in segreto, fingendo di temerle in palese. Del rimanente badasse bene Ginguené a non chiamare mai i sediziosi, patriotti, ma sì sempre amici della Francia. Nel che io non saprei giudicare, se vi sia derisione o fraude; perchè se i sediziosi erano incitati dall'Austria e dall'Inghilterra, come si dava sospetto, non si vede come si potessero chiamare amici della Francia; e da un'altra parte, se veramente era la Francia amica del re di Sardegna, come tutte le parole espresse suonavano, non si comprende, come ella chiamasse suoi amici i ribelli, che con le armi in mano apertamente combattevano l'autorità e la potenza del re. Fece Ginguené molto efficacemente il dì ventiquattro di maggio l'ufficio. Vi aggiunse di per se parecchie parti, che furono quest'esse; che si cacciassero i fuorusciti, che attivamente si punissero gli uccisori dei Francesi, che con pena di morte si proibissero le coltella e gli stiletti, che si castigassero quei preti, che seminavano odj contro una nazione amica. Ma parendo all'ambasciatore, che lo sforzare il re a perdonare ai ribelli, ed il chiamare amici di Francia coloro, che macchinavano contro il suo stato, fors'anche contro la sua vita, non bastassero a constituirlo in compiuta servitù, voleva, ed instava presso al direttorio, che la Francia dovea avere piena ed assoluta autorità in Piemonte, che per propria sicurezza ella doveva sforzare il re a cambiare tutti i suoi ministri, ed a richiamare il conte Balbo da Parigi. Su questo punto principalmente insisteva l'ambasciatore: affermava, essere il conte l'agente di tutta la confederazione d'Europa in Parigi, spargervi, e spandervi denari in copia, seminarvi corruttele in ogni parte, rendere co' suoi dispacci il re sicuro, scrivere a Torino, che badassero a stare coll'animo riposato, che i rigori usati e da usarsi sarebbero approvati a Parigi, che gli agenti di Londra, e di Vienna, benchè fossero d'infimo grado, si adoperavano efficacemente contro Francia, e che del rimanente la repubblica rovinerebbe prima del Piemonte. Per tutti questi motivi richiedeva Ginguené, che si rivocasse il conte da Parigi, e che in oltre si eleggesse a sua scelta il successore. Il governo Piemontese stretto da sì vive istanze e mosso da sì gravi minacce, ordinava il dì venticinque di maggio, che si sospendessero sino a nuovo ordine i processi dei non condannati, e si soprassedesse alle pene dei Francesi, che si fossero mescolati nelle ribellioni. Intanto il dì ventisei di maggio alle ore quattro della mattina i fossi di Casale grondavano sangue. Léotaud, aiutante del generale Fiorella, e Lions ajutante di Léotaud, ambidue francesi di nascita, ma non di servizio, con otto altri parte forestieri, parte Piemontesi, che per aver combattuto nella battaglia di Ornavasso, erano stati dannati a morte, soggiacquero all'estremo supplizio. Fu accusato il governo Piemontese, per questo caso, di studiata barbarie; perciocchè diedero veramente a pensare l'ora insolita dei supplizj, e la tardità della staffetta apportatrice a Casale dell'ordinato soprastamento: soffermossi nove ore in Trino. Certamente i condannati erano rei; ma pur troppo atroce fu la deliberazione dello avere a bella posta ritardato le novelle, ed accelerato i supplizj, affinchè la salute arrivasse, quando già morte spaziava. Adunque il sangue, adunque l'ecatombe di Domodossola non bastavano? Bene ciò io debbo dire ai posteri, che questa crudeltà, degna di eterna riprensione, non fu opera di Priocca, ma bensì di chi in queste faccende camminava con più ferocia di lui. Si avvide il ministro in quale taccia incorresse, e perciò scriveva all'ambasciator di Francia, mostrando dolore dell'accidente, accusando il messo di tardanza, e giustificandone il governo. La uccisione massimamente dei due Francesi il travagliava: temeva di qualche subito sdegno di Francia. Per la qual cosa scrivendo a Ginguené spiegava, come il dritto pubblico, ed il dritto naturale avevano sempre voluto, che il giudice naturale di un delitto sia quello del luogo, in cui è il delitto commesso, e che come un Piemontese, che commettesse in Francia un delitto, dovrebbe essere giudicato da giudici Francesi, così un Francese, che commettesse un delitto in Piemonte, doveva esser giudicato da giudici Piemontesi. Levò Ginguené pei due Francesi morti gravissime querele, minacciò il governo Piemontese, scrisse a Parigi, che era oggimai tempo di purgar la Francia dal dire calunnioso, che si faceva, ch'ella tollerasse le carnificine dei Francesi e degli amici loro, per forza dell'oro mandato a Parigi al conte Balbo. Poscia le proposizioni del Piemontese ministro riprendendo circa il diritto pubblico e naturale, affermava, esser vere nei casi ordinari, ma non negli straordinari, e che quello era caso straordinario, da qualificarsi in realtà dritto di conquista, e quasi di guerra aperta sotto nome di pace e d'alleanza: parole verissime, che se giustificavano quello, che la Francia faceva contro il re, giustificavano del pari quello, che si supponeva che il re facesse contro la Francia. Adunque quello era tempo da cannoni, non da discorsi, da manifesti di guerra, non da proteste di amicizia. Disfatto il nido dei repubblicani di Pallanza per la vittoria di Ornavasso, restavano i Carrosiani, che divenivano ogni giorno più molesti; poichè crescendo di numero e d'ardire, sboccavano sovente a far correrìe sui territorj regj, dando loro facile adito i comandanti Liguri per le terre della repubblica. Fra le altre ci fecero una spedizione piena di molta audacia contro Pozzuolo, terra estrema verso le frontiere Liguri, e custodita da un forte presidio. Partiti con una squadra di circa quattrocento soldati al tramontar del sole del dì ventisei d'aprile, e viaggiato tutta la notte, arrivarono il giorno seguente improvvisi sopra Pozzuolo, ed investita la terra, dopo breve battaglia, la recarono in poter loro, con aver fatto prigioni circa quattrocento soldati. Portaronsi i Carrosiani molto lodevolmente in Pozzuolo, e non fecero ingiuria ai soldati cattivi. Poi se ne tornarono a Carrosio, donde di nuovo uscivano spesso a travagliare i confini. Non ignorava il governo Piemontese, che i moti di Carrosio avevano più alte radici, che quelle dei repubblicani Piemontesi, perchè Brune e Sottin, segretamente e palesemente gli fomentavano. Tuttavia, non volendo mancare al debito della conservazione degli stati, si era deliberato a mostrar il viso alla fortuna. Ma prima di venire al mezzo estremo delle armi contro quella sede tanto irrequieta di Carrosio, poichè gli era forza traversare il territorio Ligure per arrivarvi, aveva rappresentato al governo Ligure, che i suoi nemici non avevano potuto condursi a Carrosio senza passare pel territorio della repubblica; che lo stesso facevano liberamente per venir ad invadere il territorio Piemontese, passando eziandio sotto i cannoni di Gavi; che quando potesse aver luogo una vera neutralità, la repubblica, come neutrale, non poteva in questo caso sofferire nel suo territorio i nemici di sua maestà, che ne abusavano per offenderla, tanto meno dar loro il passo libero per venire ad attaccarla, e che doveva o dissipargli essa medesima, o dare alle genti regie quel passaggio stesso, ch'ella dava a' suoi nemici. Rispose la repubblica, che non consentirebbe mai a dare il passo; solo prometteva di reprimere gl'insulti, di prevenire le aggressioni, e di allontanare quanto potesse offendere la buona amicizia delle due parti. Ma queste protestazioni erano vane. Continuavano i Carrosiani ad ingrossarsi, ad ordinarsi, ed a trascorrere alle enormità più condannabili, poichè e continuamente traversavano il territorio Ligure per andar ad assaltare i regj, ed intraprendevano le vettovaglie, che per quelle strade viaggiavano verso il Piemonte, ed arrestavano e svaligiavano i corrieri. Nel che non la perdonarono nemmeno al corriero Ligure, a cui tolsero i pieghi diretti ai ministri regj, ed aprirono quelli dei ministri di altre potenze. Insorgeva con animo costante il re, ed ordinato un esercito giusto il mandava all'impresa di Carrosio sotto la condotta di Policarpo Cacherano d'Osasco, uomo non privo di sentimenti generosi, nè senza qualche perizia militare. Avvertinne il governo Ligure, avvertinne l'ambasciator di Francia, avvisando, che solo fine della spedizione era di cacciare i sediziosi da Carrosio, di ricuperare quella terra di suo dominio, di dar quiete a' suoi stati. Sentì sdegnosamente l'ambasciadore questa mossa d'armi, e rescrivendo al ministro Priocca, intimava, facesse incontanente, se ancor fosse tempo, fermar le genti, che marciavano contro Carrosio, perciocchè non fosse possibile di assaltar questa terra senza violare il territorio Ligure; la quale violazione non poteva non portar con se gravi, e pericolosi accidenti. A questo modo l'ambasciatore presso ad una potenza, non solamente amica, ma ancora alleata, sofferiva pazientemente, che i ribelli di lei passassero pei territorj Liguri per andarla ad assaltare, e non tollerava, anzi si sdegnava, se essa potenza per riacquistare il suo toltole violentemente dai ribelli, attraversasse i medesimi territorj pei quali non avendo altra strada, le era necessità di passare. Il re, stretto da tanti nemici, ed oppresso da chi doveva l'aiutare, non si perdeva d'animo, volendo, che il suo fine fosse, se non felice, almeno generoso. Rispose Priocca allegando la ragione, come se la ragione avesse che fare nel dominio della forza. Spiegava il regio ministro, che a norma dei principj del diritto pubblico, quando un principe è impossibilitato per impedimenti naturali a pervenire ad un territorio che gli appartiene, e che gli è stato tolto, se non col passare per quello, che da ogni parte il circonda, non vi poteva essere dubbio sulla legittimità del passo; e poichè la repubblica Ligure non aveva voluto nè rimuovere le cagioni, nè dare il passo, siccome dell'una e dell'altra cosa era stata richiesta, così a lei, non al re la violazione del territorio doveva imputarsi. I soldati regj, attraversato il territorio Ligure, cacciavano facilmente i repubblicani da Carrosio, e si facevano padroni della terra. Poscia, per maggior sicurezza, munirono di guardie tutte le alture circostanti. A tale atto gli scrittori di gazzette in Genova ed in Milano si risentirono gravemente; le cose che scrissero, sono piuttosto pazze che stravaganti. Un Francesco Serra, figliuolo che fu di Giacomo, avanzò ogni altro con una scrittura tanto esorbitante, ed eccedente ogni modo di procedere civile, che se sola passasse ai posteri, non so con qual nome chiamerebbero l'età nostra. Ma Sottin non si ristava alle parole, anzi accesamente appresso al direttorio Ligure instando, operò di modo che finalmente lo spinse a chiarire il re di Sardegna nemico della repubblica, e ad intimargli la guerra. Brune si rallegrava, che le cose gli andassero a seconda, ed aprissero l'adito a' suoi disegni ulteriori. Non dubitava, che quanto più il re fosse stretto da difficoltà, e quanto più bassa la sua fortuna, tanto meno sarebbe renitente al consentire alla Francia quello, ch'egli aveva in animo di domandargli, e che era piuttosto di estrema, che di somma importanza; proponendosi in tale modo il generale della repubblica di tirare a benefizio di lei la guerra, che fomentava egli medesimo sottomano contro Carlo Emanuele. Mentre Sottin spingeva la repubblica Ligure contro il Piemonte, Ginguené voleva impedire, che egli si difendesse da lei. Esortava con grandissima instanza Priocca a desistere dall'invasione, gravemente ammonendolo degli effetti di questa discordia. Al che il ministro rispondeva proponendo, a fine di prevenire il sangue, e di mostrar desiderio di pace, che Carrosio si sgombrasse dalle genti regie, e si depositasse in mano dei Francesi. Solo domandava, che la repubblica Ligure cessasse le ostilità, e non desse più ricetto a masse armate contro il Piemonte. Non dispiacque all'ambasciadore la proposta, e mandava il suo segretario a Milano per farne avvertito il generalissimo. Ma il governo Piemontese, non aspettate le intenzioni di Brune, volendo, o per amore di concordia, o per timore di Francia gratificare all'ambasciadore, aveva operato, che le truppe si ritirassero da Carrosio, e ritornassero nei dominj Piemontesi oltre i confini Liguri. Per la ritirata dei regj non cessavano le ostilità; anzi i Liguri venuti avanti coi novatori Piemontesi sotto la condotta del generale Siri s'impadronirono, dopo un violento contrasto, della fortezza di Serravalle. Da un'altra parte i Liguri guidati da due capi valorosi Ruffini e Mariotti si erano fatti signori di Loano. I soldati Piemontesi presi in questo fatto furono condotti dai vincitori a guisa di trionfo nel gran cortile del palazzo nazionale di Genova, dove sedevano i consigli legislativi. Sorsero molte allegrezze. Le solite imprecazioni contro i re, massime contro quel di Sardegna, montarono al colmo. Già le ordite trame erano vicine al compirsi, già per far calare il re a quello, che si voleva da lui, gli si facevano suonare intorno mille spaventi. Già Ginguené parlando con Priocca aveva tentato per ogni modo di spaventarlo. Affermava, che in ogni parte apparivano segni di una feroce congiura contro i Francesi in Italia; che già Napoli armava; che già l'imperatore empiva gli stati Veneti di soldati; che in ogni parte si fomentavano sedizioni; che in ogni parte con infiammative predicazioni si stimolavano i popoli contro i Francesi; che questo fuoco covava universalmente in Italia, e che chi l'attizzava, era l'Inghilterra. Non forse doveva muovere a sospetto la repubblica Francese il vedere nella corte di Torino, che si protestava alleata di Francia, non solamente un ministro di Russia, ma ancora un incaricato d'affari d'Inghilterra? che essi potevano dar denari al re, dei quali quale uso egli facesse, ben si sapeva; che i fuorusciti Francesi, che le macchinazioni dei preti, che la parzialità dei magistrati, che il parlare tanto aperto e tanto imprudente contro i Francesi della gente in ufficio non lasciava luogo a dubitare, che qualche gran macchina si ordisse contro Francia. A così gravi accusazioni rispondeva il ministro, non per persuadere l'ambasciador di Francia, poichè sapeva che non era persuadevole, ma per purgare il suo signore delle note che gli si apponevano, che bene si maravigliava, che s'imputassero al re i preparamenti, o veri o immaginari, di Napoli o dell'Austria, poichè sua maestà non aveva alcuna intima congiunzione con Napoli, nissuna con Toscana; che assai freddamente se ne viveva coll'Austria; che di ciò poteva far testimonianza Bernadotte, ambasciatore di Francia a Vienna; che l'Austria aveva in Torino solamente un incaricato d'affari temporaneo, quasi senza carattere pubblico; che quanto alle congiunzioni recondite, e quanto ai corrieri, ed altri mandatari segreti, poteva con una sola parola rispondere, cioè che tutto era falso, e che sfidava l'ambasciador di Francia alle pruove; che ne seguitava, non essere in alcun modo il Piemonte partecipe di quanto accadesse negli stati monarcali d'Italia, ed essere del tutto assurdo, ch'ei partecipasse nelle cose del Nord; che non era mai stato obbligo di niuna potenza di derogare alle amicizie con altre potenze, nè di cacciare i loro agenti, solo perchè con una potenza amica di quella avevano guerra; che risultava dal trattato d'alleanza, avere il re facoltà di conservare appresso a se i ministri delle potenze nemiche della Francia; che la presenza loro in Torino era un mero cerimoniale senza importanza alcuna; che Stakelberg, ministro di Russia, che Jacson ministro d'Inghilterra non avevano forse due volte in un anno fatto ufficj al governo, e questi ancora per cose di nonnulla: che potevano pel Piemonte fare la Russia, e l'Inghilterra così lontane? «Che volesse pur il cielo, sclamava Priocca, che denaro ci potessero dare! che ci verrebbe ad un bel bisogno; il che Ginguené ottimamente sapeva; ma che bene l'Austria e la Russia avevano altri usi a fare del denaro loro, che quello di darlo a chi nulla poteva per loro». Che finalmente per favellare dei fuorusciti, dei preti, dei magistrati, degl'impiegati, o erano falsi i rapporti, od opere d'uomini privati, che siccome dal governo non procedevano, così non potevano ragionevolmente dar fondamento di giudicare sinistramente di lui, nè impedire, ch'ei potesse sostenere in cospetto d'Europa di aver sempre conservato fede inviolata ai trattati; che pertanto il governo regio si trovava innocente di tutti i carichi che gli si davano, non con altro fine, che con quello di perderlo. Concludeva il ministro, che sarebbe stato meglio, e più onorevole per la Francia lo spegnerlo, che il martirizzarlo. Arrivavano per maggiore spavento lettere del ministro degli affari esteri di Francia a Ginguené, che manifestavano uno sdegno grandissimo pei rigori usati, come pensava, contro i sollevati: essere, scriveva il ministro, la crudeltà del governo Piemontese nel suo colmo; i mezzi di dolcezza e di persuasione non potersi più usare; voler riferire al direttorio lo stato del Piemonte; non dubitare, ch'egli fosse per abbracciare i consigli di Ginguené; voler proporre per condizione prima, che si allontanasse il conte Balbo, il quale col rendere sicuro il suo governo, il portava a commettere tutti i delitti, di cui era Ginguené testimonio, ed a credere che sarebbero impuniti. Pure il conte non fu mandato via; perchè o il ministro non propose, il che io credo, o il direttorio non accettò la risoluzione dell'allontanarlo, sicchè continuò a starsene in Parigi insino alla ruina totale del regno. In mezzo a tanti terrori erano Priocca e Ginguené venuti alle strette per negoziare sulle condizioni dell'indulto, che il direttorio per pacificare il Piemonte voleva, che si concedesse ai sediziosi. Avrebbe l'ambasciator di Francia desiderato maggiore larghezza. Ma Priocca, che aveva avuto avviso dal Balbo da Parigi di quanto il governo Francese esigesse, non volle mai consentire ad allargarsi, e convenne con Ginguené nelle seguenti condizioni: che il perdono comprendesse solamente i delitti politici anteriori, e non gli estranei alla sedizione; non guardasse nel futuro, ed in modo alcuno non impedisse il governo di usare la sua potenza a mantenimento della quiete; che in terzo luogo i perdonati si allontanassero dal Piemonte con aver tempo due anni a vendere i loro beni, ed in nissun modo, nè con pretesto alcuno ripigliassero le armi contro il re. Brune, al quale Ginguené aveva annunziato le condizioni dell'indulto, e che evidentemente mirava più oltre, che alla servitù del re verso Francia, non si mostrò contento; che anzi le medesime aggravando, voleva, che si domandasse la consegnazione, quale deposito, in mano dei Francesi, della cittadella di Torino. Voleva inoltre, che il re licenziasse i suoi ministri, che si negoziasse per lo scambio di Carrosio, e pei compensi dovuti alla repubblica Ligure. Quanto alla cittadella, domandassela Ginguené, e se la domanda gli ripugnasse, domanderebbela egli. Per tal modo a quel soldato repubblicano pareva, che lo spogliare il sovrano del Piemonte dell'ultima fortezza, che gli fosse rimasta, che il voltar le bocche dei cannoni della repubblica contro la sua stessa reale sede, che il torgli per forza i servitori più fedeli, che lo sforzarlo a dare un compenso alla repubblica Ligure per avere, lei fomentato i suoi nemici, e corso armatamente contro di lui, fossero cose di poco momento, e da domandarsi con un girar di discorso. Non abborrì l'animo di Ginguené da sì insolente proposta, dalla quale nondimeno avrebbe potuto facilmente esimersi, stantechè il generale, si offriva a far da se. A questa moderazione avrebbe dovuto tanto più volentieri attenersi quanto più gli era pervenuto comandamento espresso da Parigi di non aggravar le condizioni, e di stipularle tali quali il governo gliele aveva mandate. Ma siccome aveva molta fede in Brune, ed era continuamente aggirato dai democrati, consentì a quello, da che ed il carattere suo d'ambasciadore, e la sua qualità d'uomo civile lo avrebbero dovuto stornare. Insistè adunque con apposita scrittura appresso al ministro Priocca notificando, che Brune si era risoluto a non accettar le condizioni. Aggiunse di proprio capo, che i Liguri gridavano vendetta per le ingiurie sì recenti che antiche; che i Cisalpini erano pronti ancor essi a correre ai risentimenti; che dai Liguri e dai Cisalpini avevano i sediziosi soccorsi di consiglio, d'armi e di denaro; che già cresciuti di numero e di forze minacciavano il cuore del Piemonte; che le campagne erano in armi, che il fanatismo spingeva i contadini ad ammazzare i Francesi; che i fuorusciti di Francia, ed i nobili del Piemonte ammassavano genti per correre contro i Francesi, che ogni cosa vestiva sembianza da nemico, ogni cosa mostrava odio irreconciliabile, ogni cosa prenunziava la guerra; che in tale condizione di tempi, e per sicurezza sì del presente che dell'avvenire una sicurtà era necessaria, e quest'era la cittadella di Torino; che questo gran preliminare desiderava la Francia dal Piemonte, utile per ogni lato, dannoso per nissuno; che questa fede del Piemonte appianerebbe la strada a buona concordia; che i democrati armati deporrebbero le armi, vedendo l'indulto guarentito da tale atto; poserebbero la Cisalpina e la Ligure repubblica, e sarebbe la quiete dello stato stabilmente confermata. Quale difficoltà, quale timore potrebbe opporsi a sì sana risoluzione? Forse il timore, che i Francesi di questa nuova condizione fossero per abusare, per non adempire i patti dell'alleanza fin'allora tanto scrupolosamente da loro osservati? Avere testè salvo ed incolume il Piemonte, un grosso esercito repubblicano attraversato questo paese: temere, che i Francesi vogliano abusare della possessione della cittadella contro il governo Piemontese sarebbe far ingiuria alla repubblica Francese; che se i Francesi nodrissero tali pensieri, non avrebbero, per mandargli ad esecuzione, bisogno della cittadella; sperare pertanto, concludeva, sperare l'ambasciatore, sperare il generale, che per l'amore e per la stabilità della pace consentirebbe il re alla consegnazione della cittadella; dal quale atto ne seguiterebbe incontanente, ch'egli con ogni più efficace mezzo, e con intatta fede procurerebbe la pace, e la quiete del Piemonte. Persistettero Ginguené e Brune nel volere la cittadella, sebbene il ministro Taleyrand scrivesse di nuovo all'ambasciatore, che le condizioni non si dovevano aggravare, che la sana politica, la sicurezza, la gloria e gl'interessi del popolo Francese, stante le disposizioni d'animo dei potentati d'Europa verso la repubblica, ciò richiedevano dalla Francia; che per questa cagione, e per avere Sottin trasgredito questi ordini, l'aveva il direttorio richiamato da Genova, e soppresso la carica d'ambasciatore presso la repubblica Ligure. Infatti era stato Sottin richiamato per essersi mostrato troppo acceso nello spingere i Liguri alla guerra contro il re di Sardegna. Alla quale deliberazione del direttorio aveva non poco contribuito con le sue instanze e diligenze il conte Balbo a Parigi. A così strana domanda, si commosse il governo Piemontese, e già certo del suo destino, elesse di favellare onoratamente, giacchè combattere felicemente non poteva contro una forza tanto soprabbondante. Mandò primieramente il marchese Colli a Milano, affinchè facesse opera con Brune, che rivocasse la superba domanda. Poscia Priocca scriveva all'ambasciador di Francia queste parole, che, siccome pare a noi, potrebbero servir d'esempio ai governi ridotti agli estremi casi da chi fa suo dritto la forza. Il terzo capitolo dell'indulto, enunziava, solo fare difficoltà; consentire il re a rinunziarvi, quantunque ei conoscesse essere necessario alla quiete del regno, ed alla sicurtà personale sua, ma rinunziandovi, richiedere il governo Francese, ed i suoi rappresentanti di giustizia; importare massimamente al re il soggetto presente; però richiedere la Francia di giustizia: volere la Francia procurar salute a coloro, ch'ella chiamava suoi amici; consentire il re alla salute loro, consentire anzi, che fossero liberi da ogni molestia: ma volere forse la Francia, che per le trame e macchinazioni di costoro fosse continuamente il Piemonte in pericolo di nuove turbazioni? Fosse la sicurezza del re, suo alleato, insidiata? Non potere volerlo senza ingiuria della giustizia, senza ingiuria della lealtà, senza ingiuria dell'interesse suo: non potere volerlo senza taccia di connivenza nelle opere criminose loro, cosa contraria a' suoi principj, alle sue promesse, ai patti giurati: non volere il re fare alcun male a coloro, che avevano voluto, e tuttavia volevano fargliene, ma dover assicurare la tranquillità del regno, la conservazione del suo governo; avere di ciò non solo dritto, ma dovere; quanto alla repubblica Francese, il vantaggio, ch'ella procurava a' suoi nemici, essere per lei un obbligo di più ad interdir loro in modo positivo ed efficace ogni tentativo ulteriore; volere e domandare, che il manifesto da pubblicarsi per ordine del direttorio da Brune fosse accompagnato da provvedimenti di tal sorte, che ne fossero il Piemonte ed il suo governo fatti sicuri delle loro macchinazioni. Circa il preliminare della cittadella, che l'ambasciador domandava per ordine di Brune, certamente dovere l'ambasciatore medesimo di per se pensare, quanto il re ne fosse stato maravigliato e commosso; sapere essergli questa domanda fatta senza ordine, e contro l'intenzione del direttorio; per questo l'ambasciadore medesimo avere appruovato, che il re mandasse un suo ufficiale appresso al generale della repubblica per farlo capace della falsità dei rapporti, per dimostrare la lealtà del governo Piemontese, per isvelare la perfidia de' suoi nemici; credere il ministro debito suo essere di osservare in poche parole all'ambasciadore di Francia, che l'armarsi delle campagne era falso, che qualche omicidio cagionato in parte dai disordini commessi dai soldati Francesi non pruovava un fanatismo micidiale contro i medesimi; che non conosceva il governo, sebbene attentamente vegliasse, ed ogni cosa sopravvedesse, un armarsi di fuorusciti, e manco ancora di nobili, cosa del rimanente del tutto assurda negli ordini attuali del Piemonte; che primo e principal suo desiderio era di conoscere, per raffrenarle, queste opere ancor più contrarie ai diritti del regno, ed alla quiete del paese, che alla sicurezza dei Francesi; che del resto crederebbe il re far torto a se medesimo, se giustificasse in cospetto del mondo per una condiscendenza tanto decisiva, e tanto eminente le calunnie tanto assurde, quanto atroci, con cui i malvagi il perseguitavano. Brune, che fomentava le sollevazioni contro il re con pensiero di ridurlo agli estremi spaventi, perchè rimettesse in sua mano la cittadella di Torino, non voleva a modo niuno udire, che ella non gli si consegnasse: ed ora spaventando con minacce di nuove ribellioni, ed ora allettando con isperanza di quiete, se si acconsentisse alla sua domanda, perseverava tenacissimamente nel suo proposito. Invano rappresentavano instantemente in contrario i ministri, che in un caso tanto grave, ed in cui il generale non aveva avuto da Parigi comandamento alcuno, si rimetterebbero volentieri in arbitrio del direttorio. Si risolvettero finalmente a consentire, in ciò mostrando una debolezza inescusabile, a quella condizione, che toglieva al re le ultime reliquie della sua dignità, e della sua independenza. E perchè i posteri conoscano qual fosse la natura di quel governo repubblicano di Francia, dirò, che, non che biasimasse e castigasse Ginguené e Brune dello aver trasgredito in un caso di tanta importanza i suoi ordini, lodò, e si tenne cara la cittadella rapita con inganno evidente, e con disubbidienza formale a quanto aveva loro prescritto. Stipulavasi il dì ventotto giugno a Milano fra Brune da una parte, ed il marchese di San Marsano dall'altra un accordo, i principali capitoli del quale erano i seguenti: che i Francesi occupassero il dì tre di luglio la cittadella di Torino; che il presidio Francese di lei non potesse mai passare armato per la città; che il parroco si rispettasse, e liberamente, e quietamente potesse esercitare il suo officio, nè fosse lecito ad alcuno insultare, o cambiare quanto si appartenesse alla religione; che il governo Francese si obbligasse a cooperare alla quiete interna del Piemonte, e nè direttamente, nè indirettamente desse soccorso, o protezione a coloro, che volessero turbare il governo del re; che Brune con atto pubblico ordinasse, e procurasse con ogni mezzo, che in suo poter fosse, che le cose quietassero sulle frontiere del Piemonte; che infine usasse il generale tutta l'autorità, e tutti i mezzi suoi, perchè ogni ostilità da parte della repubblica Ligure cessasse, la Cisalpina da ogni aggressione si astenesse, e la buona vicinanza, e l'antico assetto di cose si rinstaurassero. Per tutto questo si obbligava il re a perdonare agli amici di Francia sollevati, a consentire, che ritornassero a vivere sotto le sue leggi; se a ciò non si risolvessero, potessero godere i loro beni, o disporne a loro talento; che farebbe finalmente ogni opera, perchè il viaggiar per le strade del Piemonte fosse a tutti libero, e sicuro. Per condurre ad effetto l'accordo di Milano pubblicava il re patenti d'indulto a favore dei sollevati. Brune da Milano il dì sei di luglio pubblicava queste cose: che l'Europa conosceva gli accidenti sanguinosi d'Italia; che questa provincia libera dalla guerra esterna, era straziata dalla guerra civile; che le esortazioni del direttorio della repubblica Francese non avevano potuto frenar popolazioni pronte a correre alla discordia, ed al sangue le une contro le altre; che l'esercito Francese cinto da ogni parte da congiure e da guerre civili, aveva dovuto mettersi in guardia; che in tutto questo si vedeva chiaramente l'opera dei perfidi Inglesi, che con ogni delitto, e pur troppo spesso ancora con usare le generose passioni stesse intendevano continuamente a turbare la quiete del mondo; che vedeva la repubblica i suoi nemici, che vedeva ancora in compagnìa loro amici traviati; che voleva torre ai primi la facoltà di nuocere, tornare i secondi ad un quieto e felice vivere; che aveva il re di Sardegna, alleato della repubblica, ad instanza formale del direttorio, perdonato intieramente agli autori delle ultime turbazioni, e per la sicura fede delle sue promesse posto in mano di un presidio Francese la cittadella di Torino; che per tale modo dovevansi spegnere tutte le faci della civil guerra, e che la repubblica, sempre intenta alla pace d'Italia, non sarebbe per tollerare, che di nuovo a sacco ed a sangue questo bel paese si riducesse. Esortava pertanto, ed ammoniva tutti gli amici dei Francesi, che a ciò condotti dalle ingiurie, dalle minacce e dalle persecuzioni della parte contraria, avevano prese la armi per difendere la vita e l'onore, deponessero queste armi, e tornassero alle sedi loro, dove troverebbero sicura e quieta vita. Circa quelli poi, minacciava, che, tenute in niun conto queste solenni ed amichevoli esortazioni, si adunassero a far corpi armati, non dipendenti dagli ordini dell'esercito Francese, o dalle truppe dei governi d'Italia, gli chiarirebbe nemici della Francia, partigiani dell'Inghilterra, autori di sedizioni, e come gente di tal fatta gli perseguiterebbe. Addì tre di luglio entravano i Francesi condotti da Kister nella cittadella di Torino, essendone uscito al tempo stesso il reggimento di Monferrato, che la presidiava. Fuvvi dolore pei fedeli, festa pei novatori, sdegno per chi abbominava le violenze e le fraudi. Le curiose donne, ed i galanti giovani concorrevano volontieri, essendo il tempo bellissimo, a vedere quest'ultimo sterminio della patria loro. Così contro la fede data, e contro ogni rispetto sì divino che umano, viveva il re di Sardegna sotto le bocche dei cannoni repubblicani di Francia. Al fatto della cittadella i ministri di Russia e di Portogallo, e l'incaricato d'affari d'Inghilterra instarono appresso ai sovrani loro per aver licenza di ritirarsi da Torino, allegando essere Carlo Emanuele, non più re di Sardegna, ma servo di Francia, e l'ambasciator Francese, vero e reale sovrano del Piemonte. Comandava il direttorio ai Liguri, per mezzo di Belleville, incaricato d'affari a Genova, cessassero le ostilità: quando no, gli avrebbe per nemici. Obbedirono molto umilmente. Comandava al tempo stesso, per mezzo di Ginguené al re, sotto pena di guerra, cessasse dall'armi. Si uniformava Carlo Emanuele all'intento, non senza però lamentarsi, e protestare con forti e generose parole contro quella insolente imperiosità del direttorio. Cessò intanto la guerra sui confini, solo i regj fecero ancora alcune dimostrazioni per ricuperare Loano, ed altri paesi perduti nella contesa precedente; le quali raccontare sarebbe troppo minuta, e fastidiosa narrazione. Mi accosto ora a raccontare un fatto orribile in se, orribile per le cagioni, e forse ancora più orribile per gli autori. Erano i Piemontesi, nemici del nome reale, tornati a stanziare, ed a far massa in Carrosio, dopochè il re, per gratificare alla repubblica, aveva ritirato le sue genti da quella terra. Quivi ebbero, non che sentore, certo avviso da quelli stessi, che più intimamente assistevano ai consigli segreti di Brune, dell'accordo, che si trattava tra Francia e Sardegna, per la rimessa della cittadella, e per la quiete del Piemonte. Nè parendo loro, che quello fosse tempo da perdere, perchè se seguiva l'accordo, ogni speranza di poter turbare il Piemonte diveniva vana per essere obbligati a risolvere le loro masse, si deliberarono di prevenir il divieto con fare un moto, il quale confidavano, avesse ad allagare, se non tutto, almeno parte considerabile del Piemonte. Era il fondamento di questa macchina, che i repubblicani di Carrosio si muovessero improvvisamente verso Alessandria; gli ufficiali del generale Menard, che comandava a tutte le truppe Francesi in Piemonte, avevano loro dato speranza, che le truppe repubblicane di Francia, che stanziavano in quella città, si accosterebbero loro ad impresa comune contro il re. Non dubitavano, che un moto di tanta importanza, accresciuto dalla fama della congiunzione delle armi di Francia, non voltasse sossopra tutte le province che bevono le acque del Tanaro; il che giunto all'occupazione della cittadella di Torino, persuadeva ai novatori, che anche le province del Po si leverebbero a cose nuove: una compiuta vittoria aspettavano di tutto il Piemonte. Era stato l'indulto pubblicato in Torino il lunedì secondo giorno di luglio, ed il giorno seguente erano i Francesi entrati nella cittadella. La mattina del cinque molto per tempo uscivano i sollevati in numero circa di mille, e passando vicino a Tortona, senza che i Francesi, che presidiavano la piazza, facessero alcun motivo per impedirgli, marciavano alla volta di Alessandria, e già comparivano alla Spinetta alle ore cinque e mezzo della mattina. La fazione sarebbe stata molto pericolosa, se Solaro governatore di Alessandria, non avesse avuto avviso anticipato di quanto doveva seguire. Ma un prete Castellani, il quale per essere intervenuto nelle congreghe segrete dei novatori, era consapevole di ogni cosa, l'aveva fatto avvertito. Per la qual cosa Solaro, che era uomo da saper fare, aveva ordinato un'imboscata alla Spinetta, collocando circa cinquecento buoni e fedeli fanti, e cento cavalli tra la Spinetta e Marengo sotto la condotta del conte Alciati da Vercelli, capitano, siccome molto dedito al re, così anche molto avverso ai novatori. Ebbe il disegno del prudente governatore il suo effetto; imperciocchè uscendo i regj alla impensata dall'agguato, e con repentino remore assaltando ai fianchi ed alle spalle i repubblicani, che a tutt'altra cosa pensavano piuttosto che a questa, gli ruppero facilmente togliendo loro due cannoni, e bestie da soma cariche di non poche munizioni. I soldati regj, salvo nel primo impeto della battaglia, si portarono lodevolmente, non uccidendo gl'inermi e gli arrendentisi: ma si erano a loro mescolati gli abitatori della Fraschea, gente fiera di natura, ed avversa al nome Francese, ed a coloro che l'amavano. Costoro crudelmente procedendo, ammazzavano e spogliavano chiunque veniva loro alle mani. La crudeltà loro era venuta in abbominio agli ufficiali, ed ai soldati regj, che si sforzavano, sebbene con poco frutto, di moderare il loro furore. Nè la barbarie si ristette alla battaglia: nella sparsa e precipitosa fuga essendosi i vinti repubblicani nascosti, chi qua chi là per le selve, pei vigneti, e per le campagne feconde di biade, erano spietatamente ed alla spicciolata uccisi dai Frascheruoli. Ad ogni momento si udivano per quei luoghi folti, spari annunziatori della morte dei repubblicani. Durò ben due giorni questa piuttosto caccia, che battaglia, e piuttosto carnificina, che uccisione. Perirono seicento: morì fra loro uno Scala, giovane di natali onesti e di molta virtù, e che non ebbe altro difetto, se non di opinioni false, ed esagerate in materia di libertà. Fu accusato a quei tempi Brune dello aver suscitato questo moto per far rivoltare gli stati del re. Allegossi, avere lui a bella posta indugiato sino ai sei del mese a pubblicare i suoi ordini per la risoluzione delle masse dei sollevati, mentre a ciò fare già insin dal giorno dell'accordo fatto con San Marsano si era obbligato. Fu accusato Menard dell'avere incitato con promesse di aiuto delle sue genti i sollevati, poi dell'avergli traditi col rivelare al governo regio tutto ciò che macchinavano; cosa troppo enorme e non credibile, neanco di quei tempi, se si considera la natura di Menard. Certo è bene, che gli ufficiali, che stavano ai fianchi sì di Brune che di Menard, spendevano presso ai sollevati il nome loro per far credere, che questi due generali secondassero il movimento che si voleva fare. Quanto a Brune, egli è certo, che con parole forti e sdegnose risolutamente negava ogni partecipazione in questo tentativo. Fu accusato il governo regio dell'avere, dopo di aver per forza consentito all'indulto, in tale modo ordinato gli accidenti, che gli fosse fatto facoltà di versare a suo piacere il sangue a copia, ed affermossi, che il governator d'Alessandria Solaro l'abbia secondato in sì orribile proposito. Della qual cosa gli autori di sì perversa opinione pigliavano indizio da questo, che l'indulto pubblicato ai due in Torino, non fu pubblicato se non ai sei in Alessandria, quando già erano seguite le uccisioni; colpa, dicevano, del governatore, che aveva sete di sangue. Scrissene molto risentitamente Ginguené a Priocca. Rispondeva risolutamente il ministro, che anche alle orecchie sue erano pervenute certe cose pur troppo dolorose, le quali gli avevano dato a conoscere, perchè il picciol corpo dei sollevati si fosse con tanta confidenza condotto tanto avanti, e che se in questa faccenda vi era perfidia, certamente con era dalla parte degli agenti del re; parole terribili, e pregne di cose molto sinistre. Poscia aggiungeva, che troppo infame esorbitanza era quella di calunniare un uomo tanto savio, qual era il governator d'Alessandria, uomo del quale tanto si erano per le sue virtù lodati tutti i commissari Francesi; che pur troppo assurdo era l'imputargli l'indugio della pubblicazione dell'indulto in Alessandria, stantechè negli ordini del Piemonte ai governatori non s'appartiene il fare tali pubblicazioni; che l'unica e vera cagione dell'indugio era nello avere spedito da Torino il manifesto per lo spaccio ordinario, che partiva il mercoldì quattro del mese, giorno appunto precedente a quello, in cui i sollevati si erano mossi al tentativo; che del rimanente, e per certo non ignoravano essi l'indulto, del che si offeriva a dare pruove autentiche ed irrefragabili; che infine non poteva restar capace, come si potesse aver per male, che una popolazione fedele e minacciata d'aggressione avesse prese le armi per la difesa comune. L'occupazione della cittadella di Torino per parte delle genti repubblicane di Francia, che doveva, secondo i trattati e le promesse, essere cagione di concordia fra le due parti, e di sicurtà pel Piemonte, partorì al contrario maggiori sdegni, e per poco stette, ch'ella non facesse sorgere una sanguinosa battaglia tra i Francesi ed i Piemontesi nel grembo stesso della real Torino. Solevano i Francesi sul battere della diana vespertina suonare, accogliendosi sui bastioni di verso la città, ogni giorno le loro arie repubblicane, e non si astenevano neanco da quelle, che tutto il mondo conosceva essere state composte in ischerno, e derisione del re ai primi tempi della rivoluzione. Mescolavansi in mezzo a questi suoni, cosa più vera che credibile a chi non conoscesse i tempi, nella cittadella medesima voci, e motti ingiuriosi al re. Aveva il governo della fortezza l'aiutante generale Collin, il quale, siccome quegli che faceva professione di repubblicano vivo, e teneva pratiche coi novatori, che ad ogni ora lo infiammavano, si mostrava molto indulgente nel permettere a' suoi soldati queste intemperanti dimostrazioni. Ne nasceva, che ogni sera accorrevano da tutte le parti ad ascoltare quelle musiche strane i curiosi per scioperìo, i novatori per disegno, e si faceva calca presso alle mura della cittadella. Il governo, sforzato a provvedere alla quiete ed alla salute del regno, mandava soldati per prevenire ogni scandalo; ma essi, udendo il vilipendio che si faceva del loro sovrano, a grandissima rabbia si concitavano, ed a mala pena potevano frenar se stessi, che non venissero ai fatti. Così all'ire cittadine si mescolavano le ire soldatesche, ed un nembo funestissimo era vicino a scoppiare sul Piemonte. Il marchese Thaon di Sant'Andrea, governatore, aveva con iterate istanze pregato Collin, acciocchè si astenesse da usi tanto pericolosi. Rispondeva il repubblicano, ora negando parte dei fatti, ora allegando, che pure i repubblicani dovevano suonare le loro arie repubblicane, come i regj le regie. Le tresche continuavano, il pericolo cresceva. In questo estremo caso scriveva Priocca a Ginguené il dì quindici settembre, che la sera dei quattordici, oltre la solita musica, si eran fatte sentire parecchie volte dalla cittadella grida indecenti, ed ingiuriose alla persona del re; che il governo guarentiva la quiete di Torino, se non si provocasse il popolo; ma che, se con nuovi stimoli se gli stesse continuamente ai fianchi, se ogni sera se gli desse occasione di far calca, non poteva più promettere alcuna cosa, e l'ambasciadore sarebbe tenuto dei funesti accidenti che ne seguiterebbero. Rispose l'ambasciadore, che non rifiutava il carico, ma che bene si maravigliava dello stile dello scritto; che del rimanente l'aveva comunicato a Collin. Dal che si vede, che i repubblicani di quei tempi, che con solenni scritture chiamavano quasi ogni giorno il governo Piemontese crudele, traditore e perfido, non potevano poi, per la superbia loro, sopportare, che il governo medesimo, le cose col proprio nome chiamando, gli avvertisse, e gli imputasse dei pericoli, ch'essi stessi evidentemente eccitavano. L'intemperanza repubblicana non si rimaneva ai suoni ed ai canti: appunto il giorno dopo delle querele di Priocca, cioè il sedici settembre, o che fosse sola imprudenza giovanile, o disegno espresso, come si credè con maggior probabilità, dei novatori, massimamente di quei più arditi, che dipendevano dal fomite Cisalpino, si venne ad un fatto mostruoso, che riempì di terrore tutta la città, e poco mancò, che di uccisione ancora la riempisse. Verso le ore quattro meriggiane una vergognosa, e schifa mascherata usciva dalla cittadella. Era una tratta di tre carrozze, nelle quali si trovavano femmine vivandiere travestite alla foggia delle dame di corte, ed ufficiali ammascherati ancor essi alla cortigiana secondo gli usi di Torino, con abiti neri, con grandi parrucche, con borse nere ai cappelli, con lunghe spade con l'else d'acciaio, pure nere, e con piccoli capelli sotto braccio, tutto alla foggia della corte; dietro le carrozze lacchè abbigliati parimente all'uso del paese. Perchè poi lo scherno fosse ancor più evidente, precedevano altri uffiziali vestiti in farsetto bianco con bacchette di corrieri: scortavano tutta questa mascherata quattro ussari Francesi, comandati da un ufficiale. Erano fra gli ufficiali mascherati il vicegerente, ed il segretario di Collin. Andavano attorno per tutti i canti, poi si aggiravano su tutte le passeggiate: i corrieri con mazzate, gli ussari con piattonate si facevano sgombrar davanti le brigate. Comparve la mascherata avanti alla chiesa di San Salvario sulla passeggiata del Valentino all'ora in cui il popolo stava divotamente intento alla benedizione, essendo giorno di domenica. Gli ussari, crosciando nuove piattonate, sforzavano, non senza gran romore, i circostanti a scostarsi dalla chiesa: il popolo s'accendeva di sdegno. Posta in tale guisa ogni cosa a romore con uno scherno tanto indecente della corte, e dei costumi nazionali del Piemonte, le maschere imprudentissime ritornavano sotto i viali della cittadella, dov'era la solita passeggiata frequentissima di popolo. Quivi i mascherati a guisa di corrieri, da insolenze gravi ad insolenze ancor più gravi trascorrendo, con le mazze loro abbatterono per terra tre vecchie donne, affinchè fosse sgombrata prestamente la strada alle carrozze della mascherata: al tempo medesimo gli ussari menavano piattonate forti a tutti, che incontravano. La musica concitatrice nel tempo stesso dalla cittadella suonava, e risuonava. Allora non vi fu più modo al furore, che dal popolo passò ai soldati. Erano questi in grosso numero in Torino, o nelle vicinanze; perciocchè il re, per non essere del tutto a discrezione dei repubblicani, aveva raccolto i suoi intorno alla sua regia sede; il che come disegno sinistro gli fu poscia imputato dai repubblicani. Udironsi in questo mentre archibusate, prima rare, poi moltiplicate: il popolo spaventato con una calca incredibile fuggiva; i soldati Piemontesi, cui niun comandamento poteva più frenare, accorrevano a furore; alcuni soldati Francesi restarono uccisi. Lo spavento, il furore, la vendetta occupavano le menti d'ognuno. I Francesi, che alloggiavano nella cittadella, udito il romore delle armi, e dai fuggenti il pericolo dei compagni, precipitosamente già uscivano armati, e pronti a far battaglia contro i regj. Una estrema ruina sovrastava, presente il re, alla reale Torino. In questo punto (tanto fu il cielo propizio in mezzo a quel furioso tumulto, ai fati del Piemonte) il generale Menard, che non per ufficio, ma per accidente si trovava a Torino, veduto, che se più oltre si procedesse, vi andava in quel fatto la salute dei Francesi, la salute dei Piemontesi, correva in mezzo a' suoi, comandava a Collin, che non si muovesse, e con le sue esortazioni, con le sue minacce, con l'autorità del suo grado tanto operava, che fece fermare, e tornare in cittadella i repubblicani, impedì che traessero, soppresse i suoni concitatori, e frenò un impeto, il cui fine, s'ei non fosse stato presente, sarebbe stato funestissimo. Il governatore non tralasciò ufficio, perchè il furore improvviso dei soldati Piemontesi si raffrenasse, e diede ordini, perchè se ne tornassero alle loro stanze. Così fu salvata la capitale del Piemonte dalla generosità di Menard, e dalla moderazione di Thaon di Sant'Andrea. L'ambasciatore di Francia, che nell'ora del tumulto se ne stava villeggiando sopra la collina di Torino, ebbe subito avviso dell'accidente, prima da alcuni uomini fidati, poscia dal governatore, il quale già innanzi che da Menard a ciò fare fosse invitato, gli aveva mandato per sua sicurezza una banda di soldati. Il ministro Priocca il mandava pregando, che ritornasse tosto, della sicurtà di lui, e di tutta la sua famiglia promettendo. Tornato l'ambasciatore la sera del medesimo giorno, da quell'uomo diritto, e dabbene che egli era, quando non era sviato dai soliti fantasmi, si dimostrò molto sdegnato contro Collin, condannando con forti parole la sua condotta, e la schifosa mascherata. Poi per opera di lui fu Collin rimosso dal governo della cittadella, e surrogato Menard, non senza grande contentezza del governo Piemontese, che vedeva ad un uomo rotto e dipendente dai novatori, surrogato un generale, che non amava le rivoluzioni, e non si dimostrava alieno dal favorire la sicurezza del paese. Queste cose faceva Ginguené sano; ma aggirato di nuovo dai novatori, tornò sul suo male, ed ingannandosi novellamente incolpava il governo regio di congiura per ammazzare tutti i Francesi il giorno stesso, che si era fatta la mascherata, come se ella, e le insolenze, e gl'insulti fatti dagli ussari e dai corrieri, che l'accompagnavano, fossero stati opera non di Francesi, ma di gente che gli volesse ammazzare. Ma a queste considerazioni non ristandosi, e trasportando le congiure da coloro che le facevano, in coloro contro i quali si facevano, e troppo facilmente condiscendendo ai desiderj di Brune, di nuovo tormentava Priocca. Addomandava con insolente instanza, che il re licenziasse tutti i suoi ministri, e nuovi ne creasse in luogo loro: voleva specialmente, che togliesse la carica a Thaon di Sant'Andrea, al conte Revello suo figliuolo, governatore d'Asti, l'uno e l'altro qualificando, come Nizzardi, di fuorusciti di Francia. Ancora voleva, che il re dismettesse il conte Castellengo, vicario di Torino, ed un David, impiegato di lui, uomini, secondo che allegava, autori di quella orribil trama di assassinamenti di Francesi. Tacque di Priocca, perchè parlava a lui. Lo sforzare un re non solo independente ma eziandio alleato, ad allontanare da se i suoi servitori più fedeli, con qualificargli anche di capi d'assassini, è un atto di cui solo si trovano esempi nei tempi sregolati, che sono il soggetto delle presenti storie. Essendo caso d'importanza, il ministro Priocca richiese l'ambasciatore di abboccamento; accordaronsi, si farebbe in casa di Francia. Il ministro vi si condusse: si confortava col pensiero di non mancare nè di fede, nè di costanza al suo signore. Incominciò a dire, che, quanto a lui, molto volentieri darebbe luogo, e la sua licenza chiederebbe, se credesse ciò aver a ridondare a soddisfazione dei Francesi, ed a quiete del regno, che a parte delle faccende pubbliche era venuto non richiedente, le abbandonerebbe non mormorante, che nissuno meglio di lui sapeva, quanto dolorosa cosa fosse il servire in quei tempi; che non ostante, non l'amarezza dell'ufficio, ma l'utile della sua patria, e la salute del regno, se ciò richiedessero, il farebbero ritrarre; che costanza aveva sufficiente per sopportar ogni peggior male pel sovrano, ambizione non sufficiente per volere star in carica contro gl'interessi del suo paese; che quanto alle domande d'esclusione, perchè potesse farne proposta, era necessario, che non generali parole, ma fatti precisi si adducessero. Ginguené rispondendo, tornava sulle coltella, sugli stiletti, sugli assassinj: insisteva massimamente sulla necessità di allontanare dai consigli, e dal Piemonte Thaon di Sant'Andrea, e tutti i suoi figliuoli, come fuorusciti di Francia. In questo punto successe un accidente, e fu, che Marivault segretario della legazione, improvvisamente uscendo da una porta segreta, e nella stanza, dove i due ministri Francese e Piemontese negoziavano, entrando con un gran viluppo in mano di coltelli e di stiletti, sulla tavola con irato piglio gittandolo, ed a Priocca rivolgendosi, _guardate_, disse, _se non vi sono coltelli, e se non sono stati distribuiti; poi dite, che le accusazioni sono fondate in aria_. A questo atto del quale, il minor male, che si possa dire, è, che fu una commedia molto ridicola, rise di disprezzo, e di sdegno Priocca: Ginguené prima vergognoso si tacque: poi a Marivault voltosi, gli disse, _andatevene, e portatevene le coltella; che qui non si tratta di coltella_. Portate via le coltella da Marivault, le quali come pruovassero, che il governo Piemontese facesse con ordini espressi ammazzare i Francesi con le coltella sulle strade, Dio solo il sa, ritornarono l'ambasciadore, ed il ministro sul negoziare. La somma fu, che non potè il primo allegare fatti precisi, o pruove del suo dire. Promise non ostante il secondo di farne rapporto; con temperate, ma efficaci parole dolendosi, che di continuo il governo regio, come instigatore, e pagatore di assassini, e la nazione Piemontese, come una banda di assassini si rappresentassero. Parlato col re, rispondeva da parte sua Priocca, che il ministro Taleyrand, favellando col conte Balbo, ambasciatore a Parigi, aveva detto che il governo Francese non desiderava scambio nei capi del Piemontese; che del resto nè Sant'Andrea, nè i suoi figliuoli erano fuorusciti di Francia, e che gli altri magistrati, di cui si addomandava la rimozione, non solamente non erano colpevoli di quanto loro s'imputava, ma che ancora erano stati operatori, che fosse stata in Piemonte salvata la vita a molti Francesi: che perciò il re non voleva far cambiamenti, poichè non gli poteva fare con giustizia. Dalle precedenti narrazioni si raccoglie, che le cose tra l'ambasciatore di Francia, ed il governo del Piemonte erano giunte al punto estremo, nè alcun termine di concordia si vedeva possibile. Continuamente instava Ginguené presso al direttorio per la rimozione del conte Balbo. Da un'altra parte il conte presso al direttorio medesimo continuamente instava, acciocchè chiamasse Ginguené. Questi chiamava Balbo spargitor d'oro, seminatore di corruttele, agente operosissimo, e pericoloso di tutta la lega Europea contro Francia. Balbo chiamava Ginguené uomo buono, e stimabile per le sue qualità private, ma cervello pieno di fantasmi lontani dal vero, corrivo al prestar fede alle folìe, ed alla calunnie dei novatori, accademico importuno, ambasciatore di penna intemperante, e di natura tale che non lasciasse pur respirare un momento quel governo, che avesse a fare con lui. Arrivarono in questo mentre le novelle della mascherata, e della domanda fatta da Ginguené della espulsione dei ministri. Si prevalse destramente, e con molta instanza Balbo dei due accidenti, come già si era prevalso della domanda della cittadella. Per la qual cosa giuntovi eziandio, che Taleyrand sapeva, che la nuova confederazione contro Francia si preparava, ma non era ancor matura, e però voleva allontanar le cagioni di nuovi scandali, prevalse l'ambasciador Piemontese. Fu Ginguené, per decreto del direttorio dei ventiquattro settembre, richiamato dalla sua carica d'ambasciatore. Gli fu sostituito d'Eymar, uomo piuttosto non senza lettere, che letterato, amatore dei letterati, e di natura dolcissima, ma non d'animo tale che si potesse maneggiare con la fermezza necessaria in tempi tanto tempestosi. Desiderava Ginguené, prima di tornare in Francia, visitare l'Italia, perchè già insin d'allora pensava all'opera, che con sì bell'arte, e tanto plauso dei buoni scrisse poi della storia letteraria d'Italia. Brune, che in mezzo agli sdegni ed alle abitudini soldatesche, amava ed accarezzava i letterati, gli offeriva denaro per far il viaggio; ma poco tempo dopo, essendo stato scambiato con Joubert, non potè Ginguené mandar ad effetto il suo intendimento, e tornossene direttamente in Francia. Fu Ginguené uomo, non solo di probità apparente, la quale non è altro che ipocrisìa, ma di probità vera, austera e reale: aveva l'animo benevolo, e volto alla vera filosofia, amatrice degli uomini. La mente sua ornavano le lettere, non poche e superficiali, nè quali si trovano sulle lingue facili dei frequentatori delle compagnevoli brigate; ma vaste e profonde; nè in lui alcuna cosa lodevole, ed egregia si sarebbe desiderata, se in età meno pazza, ed in tempi meno strani fosse vissuto. Ma i tempi l'ingannarono, siccome tanti altri puri e sinceri uomini ingannarono, rimastisi al velame delle cose, non penetranti nella sostanza; imperciocchè amava Ginguené la vera e buona libertà, ma errò col credere che là fosse, dov'era il suo contrario; e siccome fra le altre sue qualità aveva la fantasìa ardente, e l'opinione tenacissima, non solo nell'error suo persisteva, ma in lui vieppiù sempre s'internava, credendo costanza quello, che era ostinazione. Certo, ei fu sincero nel suo inganno, e di esso si dee piuttosto compassionare, che rimproverare. Bene quest'inganno medesimo il fece trascorrere in termini molto biasimevoli contro il governo del re di Sardegna; ed io, che fui suo amico, e che dell'amicizia sua mi onoro e pregio, non ho nè potuto, nè voluto astenermi dal raccontar le azioni sue, come ambasciadore, non secondo l'affezione, ma secondo la verità. Bene altresì dico e protesto, che, se si eccettua la sua ambasciata di Piemonte, Ginguené fu uno degli uomini, dei quali più debbe l'età nostra ed onorata e fortunata tenersi. Già altri fatti si apprestavano all'Italia. Non ignorava il direttorio, che di nuovo contro di lui si collegavano i principi, e si riforbivano le armi d'Europa. Tuttavia, avendo il suo miglior esercito, ed il miglior capitano in lidi lontani, le finanze in condizione povera e sregolata, l'esercito Italico pieno di mala contentezza, se ne andava temporeggiando, e migliori condizioni aspettando; che se di nuovo gli era necessità di correre all'armi, voleva almeno non far la parte di aggressore: aspettava, che lo assaltassero. Dal canto suo l'Austria attendeva, che arrivassero sui campi, in cui si doveva combattere, i soldati di Paolo imperatore. In questo stato dubbio venne ad accelerar le sorti la subita presa d'armi del re di Napoli. Da questo fatto non fu malagevole al direttorio l'accorgersi, che il terrore delle sue armi era molto intiepidito nella mente degli uomini, e che la gran macchina, che si andava apprestando contro di lui, era, più che non aveva creduto, vicina a scoppiare. Non gli pareva dubbio, che il re Ferdinando non si sarebbe deliberato ad affrontare tutta la mole della repubblica di Francia da se solo, se non avesse avuto speranza di pronti e grossi soccorsi. Adunque bene considerate tutte queste cose, e poichè non poteva non far guerra a Napoli, stantechè Napoli la faceva a lui, e dubitando di un subito assalto dell'Austria sulle rive dell'Adige e dell'Adda, perciocchè gli Austriaci occupavano il paese de' Grigioni, deliberossi di assicurarsi almeno alle spalle con impossessarsi del tutto del Piemonte, che fu sempre stimato dai Francesi scaglione opportunissimo a salire alla signoria d'Italia. Inoltre ei si era persuaso, che l'amicizia di Sardegna fosse mal sicura, e dubitava, che ove le genti repubblicane, o venissero alle mani con l'Austria sui territorj Veneti, o s'affrontassero coi Napolitani sullo stato Romano, il re, facendo una mutazione improvvisa desse, coll'accostarsi ai confederati, il crollo alla bilancia. Sapeva il direttorio le ingiurie fatte a Carlo Emanuele, sapeva l'oppressione, sotto la quale era stato tenuto, e il dolore del perseverare in tante molestie; perciò non dubitava, ch'ei non pensasse a risorgere ed a vendicarsi. Alla quale opinione tanto più volentieri si accostava, quanto più il re aveva perduto la speranza, per la forma definitiva data alle repubbliche Cisalpina e Ligure, e per la protezione di Spagna verso Parma, di essere ricompensato della Savoja e di Nizza. Che nel più intimo del cuore il re non amasse il governo di Francia, era cosa piuttosto certa che verisimile, ma che di fatto macchinasse contro di lui, che tutta la sua salute non avesse posta nell'amicizia di Francia, che non fosse fedele ai patti giurati con lei, che alla prima mossa d'arme non fosse per congiungere con debita fede le sue genti a quelle della repubblica, nissuno, che di sana mente sia, sarà mai per affermare. Dalle quali cose conseguita, che quand'anche cauta si potesse stimare la risoluzione, che fece il direttorio di dichiarar la guerra, e di torre lo stato al re di Sardegna, certamente non si potrà affermare, che non sia stata iniqua, perchè questo principe nè ruppe fede a Francia, nè era per romperla, nè nissuna congiunzione segreta aveva con Napoli; e manco ancora con l'Austria. Mentre con maggiori dimostrazioni di fede e di amicizia era l'ambasciadore Balbo accarezzato da tutti i ministri, e massimamente da Taleyrand in Parigi, mandava il direttorio il generale Joubert in Italia con ordine di spegnere la potenza della casa di Savoja, e di far rivoluzione in Piemonte. Joubert sul suo primo arrivare, vedendo, che i tempi stringevano, non frappose indugio al mandar ad effetto ciò, che gli era stato commesso. Ma prima di venirne ad una deliberazione del tutto ostile, mandava a Torino l'aiutante generale Musnier con ordine di richiedere il re, che desse incontanente i diecimila soldati, ai quali era obbligato per trattato d'alleanza, e gli mandasse a congiungersi coi Francesi, ed oltre a ciò che rimettesse in mano di lui l'arsenale di Torino, domanda di estremo momento, per essere l'arsenale situato nella città stessa, e vicino alla cittadella. Rispose, che darebbe incontanente i diecimila soldati: mandò il giorno stesso della richiesta gli ordini, perchè si adunassero; spedì un ufficiale a Milano, perchè consultasse col generalissimo intorno al modo del marciare dell'esercito Piemontese verso il Francese, e del vivere, e del servire insieme l'uno con l'altro. Quanto all'arsenale, si espresse, non poterlo consegnare, perchè la domanda non era conforme al trattato d'alleanza; avere spacciato a Parigi un uomo a posta, affinchè questo emergente si accordasse col direttorio. Non contentandosi Joubert delle risposte, e di quali si sarebbe contentato non si vede, si risolveva a mandar ad esecuzione quello che gli era stato comandato. L'importanza del fatto in ciò consisteva che la possessione della cittadella si rendesse sicura in mano dei repubblicani. Perlocchè il generalissimo vi mandava a governarla il dì venzette novembre il generale Grouchy in iscambio di Menard, che era stimato od abborrente per natura da sì gravi ingiurie, o non alieno dal favorire gl'interessi del re. Aveva Grouchy da Joubert il mandato di fortificar vieppiù la cittadella, di fornirla di munizioni, di moltiplicar le artiglierie sulla fronte che guarda la città: sperava, che col terrore potrebbe indurre il governo Piemontese a venire a qualche accordo. Mirava il direttorio a far rinunziare il re di per se stesso, senza che si venisse all'esperimento delle armi. Ora che dirà la posterità di quello sdegno di Ginguenè, solo al pensare, quando addomandava la cittadella di Torino che il re potesse sospettare, che i Francesi fossero per abusare della possessione di lei contro di lui, e di quel gridare, e di quel lamentarsi che faceva, che un tale sospetto era un insulto fatto alla lealtà Francese? Non sapeva egli, che il direttorio non aveva fede, e che i Francesi obbedivano al direttorio? Perchè ingaggiar lealtà di Francia, quando la lealtà di Francia non dipendeva dai Francesi? Ma dubitando, che l'apparato della forza non bastasse a muovere l'animo di Carlo Emanuele, si usò anche l'astuzia. Per la qual cosa non sì tosto era Grouchy giunto a Torino, che con tutte le arti procurava di sapere per mezzo dei democrati del paese, e di quanti altri potesse adescare, quali fossero le intenzioni del re e del ministri, e sopratutto quali mezzi di difesa avessero. Nè abborrirono gli agenti del direttorio, sapendo quanto Carlo Emanuele fosse dedito alla religione, dal tentar mezzi insoliti di seduzione con volersi insinuare presso al suo confessore, affinchè l'esortasse alla rinunziazione. Nè solo l'abdicazione procuravano, ma volevano, che il re per l'atto stesso della rinunzia ordinasse ai Piemontesi, ed a' suoi soldati, che non si muovessero, ed obbedissero al governo temporaneo che sarebbe instituito. Riuscì il generale di Francia, che sul suo primo giungere si era tenuto nascosto, a procacciarsi segrete intelligenze con uomini di importanza, poichè a lui non solo concorrevano cupidamente gli amatori di cose nuove, ma ancora alcuni nobili che avevano cariche, si facevano rapportatori di quanto sapessero della corte, e dei ministri. Ma il tentativo della confessione non ebbe effetto per la rettitudine del confessore. I nobili subornati gettavano in corte parole dei pericoli che sovrastavano, delle minacce dei Francesi, dell'impossibilità del resistere, della necessità del venirne ad una risoluzione terminativa. Tutti questi maneggi erano indarno, perchè, se non altro, la religione confortava Carlo Emanuele. Moltiplicavansi intanto le bocche da fuoco contro la città: il terrore cresceva; chiamava il governo i reggimenti sparsi a difendere Torino, ed eglino con presti passi accorrevano: i fati sovrastavano; e chiamavano a rovina e la reggia, e i popoli, e Piemonte. Già i repubblicani ordinati da Joubert marciavano a distruggere un re tante volte assalito con ingiurie, di cui con fraude avevano occupato la fortezza difenditrice de' suoi tetti, e dei suoi penetrali stessi, ed al quale altro fondamento non restava, consolativo, ma insufficiente, che la fede del soldati, e la divozione dei popoli. Pubblicava Joubert il dì cinque decembre queste parole: «La corte di Torino ha colmo la misura, ed ha mandato giù la visiera: da lungo tempo gran delitti ha commessi; sangue di repubblicani Francesi, sangue di repubblicani Piemontesi fu versato in copia da questa corte perfida: sperava il governo Francese, amatore della pace, con mezzi di conciliazione rappacificarla, sperava ristorar i mali di una lunga guerra, sperava dar quiete al Piemonte con istinguere ogni giorno più la sua alleanza con lui: ma fu Francia vilmente ingannata delle sue speranze da una corte infedele ai trattati. Per la qual cosa ella comanda oggi al suo generale di non più prestar fede a gente perfida, di vendicar l'onore della grande nazione, e di portar pace, e felicità al Piemonte: per questi motivi l'esercito repubblicano corre ad occupare i dominj Piemontesi.» Nel mentre che Joubert così parlava, Victor e Dessoles raunatisi colle schiere loro nelle vicinanze di Pavia, ad Abbiategrasso, ed a Buffalora, passato il Ticino, si avviavano a Novara, nella quale entrarono per uno stratagemma militare di soldati nascosti in certe carrette. Presa Novara, spingevano le prime squadre insino a Vercelli. L'aiutante generale Louis s'impadroniva di Susa, Casabianca di Cuneo, Montrichard di Alessandria, sorprendendo in ogni luogo i soldati regj, facendone prigionieri i governatori. Avuta Alessandria, Montrichard s'incamminava ad Asti, donde spingendosi più avanti, andò a piantar gli alloggiamenti sulla collina di Superga, che da levante signoreggia la capitale del regno. In questo mezzo tempo ordinava Grouchy, che gli ambasciadori di Francia e della Cisalpina si ricovrassero nella cittadella; il che tostamente eseguirono, tolte prima dalle loro case le insegne delle loro repubbliche. Poi penuriando la cittadella di munizioni, massimamente di proietti, poichè intenzione dei repubblicani era di voltar sottosopra, e d'incendiare Torino, se l'esercito francese fosse obbligato di rendersene padrone per forza, operarono di modo che si trasportassero di nascosto dall'arsenale nella fortezza armi e munizioni di ogni genere, procurandosi in tale modo le armi del re per combatterlo e distruggerlo. Era di non poca importanza pei repubblicani, che in loro potere recassero Chivasso, terra munita di un forte presidio, e per cui Victor doveva passare per venirsene da Vercelli a Torino. A questo fine, e per obbedire al generalissimo, mandava Grouchy segretamente una colonna di buoni soldati, i quali arrivati inopinatamente sopra Chivasso, ed aiutati dai soldati di nuova leva, che quivi per accidente alloggiavano, l'occuparono facilmente. Rovinava tutto ad un tratto, e per ogni parte lo stato del re, usando i repubblicani per sorpresa contro di lui gli estremi della guerra, quantunque ancora il governo loro non l'avesse dichiarata. Intanto si continuava nelle dissimulazioni. Scrivevano al governatore di Torino assicurandolo, che quanto si faceva, solo si faceva per modo di cautela, e che se per questo si attentasse di por le mani addosso ad un solo amatore di libertà, o Francese o Piemontese che si fosse, incendierebbero la città, e farebbero, che di lei pietra sopra pietra non restasse. Il governo pubblicava un manifesto, con cui esortava gli abitatori a starsene quieti, chiamava i francesi gli alleati più fedeli che si avesse, affermava che niuno niuna cosa aveva a temere da loro. Mentre si appiccava questo manifesto sui muri, ecco giungere le novelle, che già erano prese Novara, Susa, Chivasso, Alessandria, che già Torino era stretto da ogni parte da gente nemica, che già le truppe regie sorprese, ed assaltate all'impensata, erano state disarmate, e poste in condizione di prigioniere. Vide allora il re, che ogni speranza era spenta, che i fati repubblicani prevalevano, ch'era perduto il regno, che mille anni di dominio nella sua reale casa erano giunti al fine. Restava, poichè perdeva la potenza, che non perdesse l'onore; volle che i posteri sapessero, che periva innocente. Pubblicava adunque Priocca il dì sette decembre quest'ultime parole: «Dopochè col manifesto di ieri, pubblicatosi dal governatore di questa città, si son fatte note al pubblico per ordine di Sua Maestà le dichiarazioni del generale Francese, comandante nella cittadella, e le intenzioni della Maestà Sua sempre pacifiche ed amichevoli verso i Francesi, è venuto a notizia di essa Maestà, che vari corpi di truppe Francesi siensi impadroniti di Chivasso, Novara, Alessandria e Susa, con aver fatto prigionieri gli rispettivi presidj di regia truppa. Sì fatto avvenimento non può ad altro attribuirsi, che ai sospetti calunniosamente insinuati dai nemici di Sua Maestà nell'animo dei Francesi, onde far loro concepire il vano timore, che declinando la Maestà Sua dalla fedeltà dovuta ai pubblici trattati, abbia potuto entrare in concerti opposti agl'interessi della repubblica Francese. Sua Maestà ha dato mai sempre al governo Francese le più autentiche e notorie pruove di esatta fede nell'osservanza dei patti con esso stabiliti. Guidata costantemente dalla mira di allontanare maggiori calamità dai suoi amatissimi sudditi, ha sempre mai aderito alle richieste della repubblica Francese, ora di tratte di generi, ora di vestiari, ora di munizioni per l'esercito d'Italia, sebbene oltrepassassero le sue obbligazioni, e riuscissero di sommo aggravio al regio erario: per assicurare la tranquillità dello stato, ha consentito a porre in mano dei Francesi la cittadella di Torino: invitata a fornire all'esercito Francese la parte di truppe stipulate nel trattato d'alleanza, vi si è dichiarata pronta nel giorno stesso della richiesta, ha dato senza ritardo gli ordini opportuni per la riunione della parte suddetta, ed ha spedito un ufficiale presso al generalissimo di Francia per concertare con lui intorno al modo di regolarne le mosse ed il servizio: nè ha tralasciato di spedire a Parigi per trattare colà sull'altra domanda statale pur fatta della rimessione dell'arsenale, a cui non credette di dover aderire, come non appoggiata al trattato d'alleanza, non meno che sopra vari altri oggetti di comune interesse. Mentre si aspetta l'esito dei negoziati presso il governo Francese, e presso il suo generale in Italia, si prendono dai Francesi stanzianti nella cittadella di Torino le più valide risoluzioni di difesa verso la città medesima, si ritira nella cittadella l'ambasciadore della repubblica, facendo togliere dal suo palazzo lo stemma della medesima, si arresta un regio corriere proveniente da Parigi con dispacci diretti alla legazione di Spagna, ed ai ministri di Sua Maestà; e finalmente si occupano colla forza le città di Novara, Alessandria, Chivasso e Susa. Sua Maestà vivamente commossa da sì inopinati eventi, ma sempre intenta ad allontanarne dei più funesti, non ha tralasciato di tentare ogni via di trattato coll'ambasciatore, sì per mezzo de' suoi ministri, sì col prevalersi dei buoni uffizi di una corte amica, ed ha perfino spedito un uffiziale al generalissimo, onde tentare ogni mezzo di arrestare i progressi delle calamità minacciate. Sua Maestà conscia a se stessa di non aver mancato ai sacri doveri di fedeltà verso gli amici, e di amore verso i suoi sudditi, vuole che sia a tutti nota la sua leale e sincera condotta, e la protesta che fa al cospetto di tutti, di non avere dato motivo alle disavventure, che sovrastano agli amati suoi sudditi, alla fedeltà ed all'affezione dei quali essa corrisponde mai sempre con affettuosa tenerezza». Così parlava un re di Sardegna venuto in forza altrui, ma anche queste generose querele, e queste giuste difese gli vennero poco dopo interdette, ed anzi imputate a delitto da chi non solo abusava della forza propria, ma ancora si sdegnava della ragione altrui. Intanto, perchè si venisse a conclusione, si moltiplicavano le arti e gli spaventi: si parlava, che a nissun'altra condizione sarebbero i Francesi contenti, che all'abdicazione. Cedessi al fato, nè v'era modo di ostare, giacchè Carlo Emanuele era chiamato a distruzione dal suo alleato. L'atto di abdicazione fu accordato, e stipulato il dì nove di decembre in Torino, per parte della repubblica dal generale Clauzel, e per parte del re da Raimondo di San Germano, personaggio di molta, anzi di unica autorità appresso di lui. Non si soddisfecero i repubblicani di torgli lo stato, ma vollero anche amareggiarlo, obbligandolo a ritrattarsi pubblicamente del manifesto del giorno sette, ed a mandar Priocca in mano loro nella cittadella, come sicurtà di non resistenza, e come testimonio di ritrattazione. Vollero eziandio, essendosi persuasi che il duca d'Aosta fosse mosso da avversioni eccessive contro di loro, e capace di venire a qualche tentativo d'importanza, che anch'esso sottoscrivesse l'abdicazione. Per questa cagione si legge sul fine dell'atto, dopo il nome di Carlo Emanuele, quello di Vittorio Emanuele con queste parole: _io prometto di non dare impedimento all'esecuzione di questo trattato_. Fu in buon punto pel re, e per tutta la sua famiglia, che Grouchy, e Clauzel con tanta pressa lo avessero sforzato alla rinunzia; conciossiacosachè aveva il direttorio comandato, che fossero condotti in Francia, compiacendosi nel pensiero di mostrare ai repubblicani, come a guisa di trionfo, un re e molti principi debellati e cattivi. Ma Taleyrand, al quale se piacevano le opere astute, non piacevano le giacobiniche, aveva mandato a Joubert, innanzi che spedisse gli ordini del direttorio, che sforzasse presto il re alla rinunzia, non imponendo la condizione della cattività dei reali. Dal che ne seguitò, che già avevano fatto la rinunzia, e già erano arrivati a Parma, quando pervenne a Joubert gli spacci per la cattività loro. Clauzel, che aveva richiesto sui primi negoziati la persona del duca d'Aosta, come ostaggio per la osservanza dei patti, e qualche timore del suo nome, udite le rimostranze del re e della regina, facilmente se ne rimase: il che fu cagione, che il re il presentasse della celebre tavola di Gerardo Dow, in cui è dipinta con tanta maestria la idropica. Accordossi nell'atto dell'abdicazione, che il re rinunziava alla sua potestà, e comandava ai Piemontesi, che obbedissero al governo temporaneo da instituirsi dal generale di Francia: comandava altresì a' suoi soldati, che come parte dell'esercito Francese si sottomettessero al generale medesimo; che il re disdiceva il manifesto del giorno sette, e mandava il suo ministro Damiano di Priocca nella cittadella; che il governatore della città si conformasse alla volontà del comandante della cittadella; che fosse sicura la religione, sicure parimente le persone e le proprietà; che i Piemontesi, che desiderassero spatriarsi, il potessero fare liberamente con facoltà di portarsene il loro mobile, e di vendere gli stabili, e che i Piemontesi fuorusciti, che volessero ripatriarsi, medesimamente il potessero fare, e ricuperassero tutti i diritti loro: potesse liberamente il re con tutta la sua famiglia ritirarsi in Sardegna: finchè in Piemonte fosse, si conservassero i suoi palazzi e le sue ville libere; gli si dessero i passaporti, e scorta mezza Francese, e mezza Piemontese; se il principe di Carignano eleggesse o di rimanersi in Piemonte, o di andarsene, sì liberamente il potesse fare, con godersi, o con disporre de' suoi beni; incontanente si suggellassero gli archivi, e le casse dell'erario: non si accettassero nei porti della Sardegna le navi delle potenze nemiche alla Francia. Creava Joubert governo, che per modo di provvisione, ed insino a tanto che i tempi permettessero un assetto definitivo, reggesse il Piemonte. Vi chiamava per un primo decreto Favrat, Botton di Castellamonte, San Martino della Motta, Fasella, Bertolotti, Bossi, Colla, Fava, Bono, Galli, Braida, Cavalli, Baudissone, Rossi, Sartoris; poi per un secondo Cerise, Avogadro, Botta, Chiabrera, Bellini. Erano uomini d'onorate qualità, ed i più splendevano egregiamente o per dottrina, o per virtù, o per altezza di cariche, o per nobiltà di natali, e molti per tutte queste qualità insieme; nè erano certamente degni di governare in tempi sì miseri la patria loro ridotta in forestiera servitù. Che se l'ambizione guidava alcuno di loro, bene non indugiarono a conoscere, quanto fosse amaro il servire altrui; perciocchè in breve, non per colpa propria, ma dei tempi, perdettero presso i compatriotti loro la confidenza, presso i forestieri l'amicizia: tempi funestissimi, in cui si distruggevano i governi antichi per rabbia, si corrompeva l'onorato nome dei buoni per compagnìa. Grouchy, conseguita una tanta mutazione, sforzava i soldati Piemontesi a giurare in nome della repubblica Francese: il che fecero piuttosto sbalorditi dal caso, che per volontà deliberata. Aggirati da accidenti tanto insoliti, e comandati dal loro signore, non si erano mossi ad alcuna impresa. Solo il reggimento dei cacciatori di Colli, che aveva le stanze al Parco, mezzo miglio lontano da Torino, voleva sdegnosamente correre a dar l'assalto alla cittadella, e l'avrebbe anche fatto, se i capi non avessero frenato quell'impeto più lodevole che considerato. Poco stante arrivava nella cittadella il generalissimo Joubert, il quale continentemente portandosi, non volle udire le proposte di regali, che i repubblicani erano venuti offerendogli. Bensì diedero trecento mila lire di Piemonte ad un certo Roccabruna, che era suo aiutante, repubblicano assai focoso, siccome ne faceva professione, ma che sotto quel titolo feudatario di Roccabruna altri non era, che un certo Matera Napolitano. Damiano di Priocca andava a porsi in cittadella in potestà dei repubblicani. Ma quali fossero più degni di compassione del carcerato, o dei carceratori, giudicheranlo gli uomini diritti e dabbene. Scrivelo anche la storia, che, come la giustizia gl'innocenti dai rei, sebbene a passo lento, così i buoni dai tristi distingue, ed ai posteri secondo le opere loro raccomanda. Sarà Priocca, finchè fia in pregio la virtù fra gli uomini, lodato e celebrato, come esempio di quanto possano un animo forte, una mente sana, una sincerità singolare, ed una fede inalterabile. Sogliono le repubbliche o adulare, o calunniare, o uccidere i loro cittadini grandi. Sogliono le monarchìe, ogni cosa al re riferendo, soffocare la fama e le opere egregie dei servitori magnanimi. Ma non potranno tanto o una invidia consueta, o una prudenza ingrata, che non passi Priocca ai posteri, non solo lodato, ma ancora amato e riverito, come uno degli uomini, dei quali l'Italia e l'umanità più si debbono pregiare. Servì senza ambizione lo stato; tollerò senza abiezione il carcere e l'esiglio, e quel che più degno è di lode, questo è, che sopportò con equalità d'animo la calunnia; e mentre nei tempi che seguirono, i suoi persecutori corsero, per amor dell'oro e della potenza, agli allettamenti altrui, se ne visse e morì Priocca oscuro, modesto, temperato, e contento in Pisa, ancorchè fosse stato più volte chiamato alle ambizioni da chi tanto poteva, e tanto amava tirar dietro a se, come mezzo di potenza, gli uomini venerandi. Non fu da noi conosciuto Priocca nè per beneficio, nè per ingiuria, nè mai il volto suo vedemmo; ma bene abbiamo tanto conosciuto l'animo di lui, che l'essere nati nel medesimo paese, che egli, ci rechiamo a parte di gloria. Abbandonava il re, abbandonavano i reali di Piemonte la gloriosa sede degli antenati loro. Era la notte fra le nove e le dieci della sera, oscura e piovosa; occupava la città un alto terrore: scendevano al lume dei doppieri le scale, ed usciti dalla porta, che dà nel giardino, e quivi in carrozza montati per l'altra porta, che è tra le due del palazzo e del Po, alla strada maestra di verso Italia pervenivano. Lasciava il re nelle abbandonate stanze per una continenza, che mai non si potrà abbastanza lodare, e per debito di religione, come protestava, le gioie preziose della corona, tutte le argenterie, e settecento mila lire in doppie d'oro in oro. Alcuni fra i principi piangevano; il re e la regina mostravano una grandissima costanza. Scortavangli ottanta soldati a cavallo Francesi, altrettanti Piemontesi: gli accompagnarono insino a Livorno, di Piemonte. Corse fama, e fu anche affermato, che o per timore volontariamente, o perchè fossero dai cieli serbati a tanta indegnità, a ciò costretti dai soldati repubblicani, acconciassero ai cappelli loro le nappe di tre colori; ma io non lo posso dir per certo; certo è bene, che i valletti, mentre la real famiglia scendeva le scale del palazzo, andarono cercando a tutta fretta le nominate nappe. Condussersi gli esuli principi in Parma, poi in Firenze: quivi furono accolti dal gran duca, come si conveniva al grado, alla parentela, ed alla disgrazia. Fu suggellato il palazzo reale dal commissario del direttorio Amelot, e dall'architetto Piacenza, architetto del re. Ma alcuni giorni dopo, rotti i suggelli da uomini rapacissimi, furono portate via le gioie, e le altre suppellettili preziose, alle quali Carlo Emanuele per la sua illibatezza e sincerità aveva, partendo, portato rispetto. Così ruinò la casa reale di Savoja. Non so ora, se mi debba raccontare l'intimazione di guerra fatta il dì dodici decembre dal direttorio, quando già la guerra non solo era stata fatta, ma anche terminata con la distruzione dell'autorità regia in Piemonte. Accusò il direttorio con isfrenatissime parole le coltella, i veleni, gli assassinj; disse, che il re di Sardegna s'intendeva con quel di Napoli; tacciò di perfidia la corte per non avere, come affermava, pubblicato in tutti i suoi stati il trattato di pace; allegò che favorisse ed incitasse i fuorusciti, ed i preti non giurati a macchinare contro la repubblica; che con modi orribili ed immani facesse assassinare i Francesi con coltella e con stiletti; che facesse uccidere i Francesi implicati nel moto di Domodossola, dopo promesse di perdono; che il duca d'Aosta, qual altro vecchio della montagna ordinasse e pagasse sicari, acciocchè amazzassero i Francesi: che il governo del re facesse avvelenare i fonti a morte certa dei Francesi; che insultasse i Francesi; che imprigionasse gli amici della repubblica; che chiamasse all'armi i soldati provinciali quando Napoli assaltava Roma; che quasi assediasse la cittadella; che munisse d'artiglierie i monti, che la signoreggiano. Le quali furibonde querimonie in quale conto si debbano tenere, facilmente potrà giudicare chi attentamente avrà letto il presente libro di queste mie storie. Partito il re da Livorno di Toscana in sull'entrare del novantanove, arrivava il dì tre di marzo in cospetto di Cagliari. Quivi vistosi in potestà propria, e considerato, che le deliberazioni generose, e magnanime nascono anche, e finalmente piene di comodità e di profitto, volle fare manifesto a ciascuno, e pubblicò solennemente, che l'onore della sua persona, l'interesse della sua famiglia e de' suoi successori, e così medesimamente le sue congiunzioni di amicizia con le potenze amiche, da lui, come di un debito sacro, richiedevano, che altamente, ed in cospetto di tutta Europa protestasse contro gli atti, per forza dei quali era stato costretto ad abbandonare i suoi territorj di terraferma, ed a rinunziare per un tempo all'esercizio della sua potenza. Dichiarava ed affermava, fede e parola di re, che non solamente non aveva mai violato, neanco menomamente i trattati fatti con la repubblica Francese, ma che anzi tutto al contrario, gli aveva con tale scrupolosità, e con tali dimostrazioni di amicizia e condiscendenza osservati, che di gran lunga aveva ecceduto gli obblighi contratti con la repubblica; che era notorio a ciascuno che egli ogni pensiero, ed ogni cura aveva continuamente posto, perchè ogni cittadino Francese, e principalmente i soldati, che o ne' suoi territorj stanziavano, o per loro passavano, fossero da tutti rispettati e sicuri, perchè coloro, che gl'insultassero, fossero frenati, e puniti, e perchè anzi si calmassero gli sdegni di coloro, che mossi da giusto risentimento per oltraggi ricevuti dai soldati licenziosi fossero trascorsi contro di loro ad atti violenti. Protestava medesimamente ed affermava, fede e parola di re, contro ogni scritto, ovunque fosse pubblicato, per cui venisse ad insinuarsi, che sua maestà avesse avuto intelligenze segrete con le potenze nemiche alla Francia; che in pruova di cotesto si riferiva, e con intiera fede si riposava, non solamente sui rapporti mandati al governo Francese, e su quanto i suoi generali avevano detto, e scritto più volte, ma eziandio sulle sincere testimonianze che i ministri, e i rappresentanti delle potenze, che sedevano in Torino, avevano mandato alle loro rispettive corti; che poteva vedere, e giudicare facilmente ognuno per se, e solo dai fatti noti a tutto il pubblico, che l'avere aderito a quanto gli fu imposto dalle superiori forze della repubblica, solo era temporaneo, ed altro fine non poteva avere, se non quello di allontanare dai suoi sudditi in Piemonte quelle calamità, che una giusta resistenza avrebbe partorito, essendo stato il re oppresso da un assalto improvviso, assalto, che non avrebbe mai dovuto aspettarsi da parte di una potenza sua alleata, e nel momento stesso, in cui per richiesta di lei aveva posto le proprie forze nel grado della più profonda pace. Mossa da tutti questi motivi si era sua maestà risoluta, tostochè in poter suo fosse, di far nota a tutte le potenze d'Europa l'ingiustizia del procedere dei generali ed agenti Francesi, e la nullità delle ragioni addotte nei manifesti loro, e d'invocare altresì al tempo stesso la sua rintegrazione nei dominj de' suoi maggiori. Questi lamenti e proteste del re, quando il confessare l'intelligenze avute coi nemici della Francia, se fossero state vere, gli sarebbe stato utile, e conducevole alla rintegrazione, dimostrano, non solamente sincerità, ma ancora grandezza d'animo. Così acquistava lode nella disgrazia, mentre la prosperità fruttava infamia al direttorio. Accoglievano i Sardi, come ben si conveniva, con dimostrazioni di rispetto e d'amore l'esule stirpe d'Emanuele Filiberto. LIBRO DECIMOSESTO SOMMARIO Guerra nello stato Romano. I Napoletani cacciati da Championnet. Mack, generale dei regj, si ritira, e fa un suo principale alloggiamento a Capua. Il re Ferdinando si ritira in Sicilia. Le provincie tumultuano contro i Francesi, Napoli stessa si muove a furia di popolo contro di loro. Feroci battaglie tra i Francesi ed i lazzaroni. I Francesi entrano in Napoli. Continente condotta di Championnet: crea a Napoli un governo provvisorio; è richiamato dal direttorio, e perchè: gli vien surrogato Macdonald. I popoli delle province si muovono quasi universalmente contro i Francesi. Mossa importante del cardinal Ruffo. Guerra terribile, crudele, e sanguinosa. Rivoluzione di Lucca. Accidenti gravi del Piemonte: domanda la sua unione alla Francia. Scherer surrogato a Joubert nel supremo grado dell'esercito d'Italia, e perchè. Nuova guerra. Scherer vinto da Kray a Verona, poi a Magnano. I Russi sotto la condotta di Suwarow arrivano in Italia ad ingrossar gli Austriaci. Moreau subentra a Scherer, e combatte infelicemente a Cassano: si ritira prima ad Alessandria, poi sul territorio Ligure oltre gli Apennini. Milano in poter dei confederati. Moti incomposti dei Piemontesi. Suwarow arriva in Piemonte, e vi crea un governo provvisorio. Presa della cittadella di Torino. I repubblicani d'Italia o sono carcerati, o si ricoverano in Francia: benevolenza dei Francesi verso di loro. Mentre la sede antica dei re di Sardegna diveniva preda dei repubblicani, più abili a sconvolgere, che ad ordinare, le sorti della parte meridionale d'Italia imprudentemente, e forse temerariamente tentate dal re di Napoli, partorivano accidenti insoliti e terribili. Non aveva il generale Mack trovato nello stato Romano quel seguito, che si era concetto colla speranza, poichè l'essersi ritirati, ma intieri, non rotti, i Francesi, e la fama ancor fresca del loro valore, davano timore che, ove fossero ingrossati, si precipitassero di nuovo alle offese con danno estremo di coloro, che troppo vivamente si fossero scoperti contro di loro. Nè ignoravano i popoli, che sebbene un odio grande ai nuovi repubblicani si portasse, non pochi erano, che con le ricchezze, con le esortazioni, e con tutta l'opera loro gli secondavano: il che faceva che ognuno credesse, che la parte loro fosse maggiore di quello, che era veramente. Ne nasceva altresì, che i Francesi erano, per mezzo degli aderenti, ottimamente informati di quanto più importava loro sapere per la salute dell'esercito. Il terrore poi concetto per le infelici pruove fatte contro i medesimi in parecchie parti d'Italia, massimamente il caso spaventoso di Verona, teneva sospeso l'animo di ognuno, impediva che si movesse cosa alcuna contro i repubblicani, e frenava i popoli desiderosi di prorompere. Nè potevano persuadersi facilmente, che le truppe Napolitane, di cui si conoscevano piuttosto i vanti che i fatti, fossero abili a resistere a genti tanto riputate per esperienza e per valore: la troppo facile vittoria, essendosi i Francesi ritirati piuttosto volontariamente, che per battaglie infelicemente combattute, aveva allontanato dai Napolitani ogni occasione di mostrare ciò, che potessero contro quei campioni formidabili della repubblica, per modo che era la fama dei repubblicani intatta, quella dei regj dubbia. Per la qual cosa dalla occupazione dei territorj in fuori, acquistati piuttosto senza contrasto, che per forza, la riputazione e la probabilità della vittoria stava tuttavia dal canto dei vincitori audacissimi d'Italia. Si aggiungeva, che sebbene i Romani odiassero i Francesi, non amavano però i Napolitani, e pareva loro di uscire da una servitù abbominata per sottentrare ad un'altra forse non meno odiosa. Nè il procedere dei Napolitani era atto a rattemperare gli odj; perchè oltre le parole al solito gonfiamente lanciate, il che irritava la Romana natura assuefatta a mirar al reale, non al vano, i fatti erano piuttosto da conquistatori provocati, che da amici chiamati, e l'Italia andava a sacco e da chi pretendeva liberarla con parole di libertà, e da chi pretendeva liberarla con parole di conservazione. Tutte queste cose non erano nascoste a Mack, e però argomentando, che la guerra era piuttosto incominciata di nome che di fatto, e che se con qualche fazione importante, in cui si venisse al sangue, non dimostrava che le mani fossero tanto forti, quanto le lingue pronte, il tempo avrebbe presto condotto una mutazione di fortuna, si deliberava ad andar all'incontro delle armi repubblicane. Del che tanto maggiore necessità gli sovrastava, quanto Championnet raccoglieva genti in fretta, e continuamente s'ingrossava. Avendo adunque avuto avviso, che con felice navigazione era Naselli sbarcato a Livorno, e Ruggiero di Damas ad Orbitello, si muoveva a tentare la fortuna delle battaglie. Siccome poi credeva, se prosperamente nei primi incontri combattesse, di trovare, se non maggiore inclinazione di popoli, almeno maggiore sicurtà di governo nella Toscana, provincia suddita a principe Austriaco, elesse di far impeto contro l'ala destra dell'esercito Francese, che governata dal generale Macdonald, da Terni si distendeva fin verso Nepi, Civitacastellana, e Monterosi. A questo partito dava anche favore il pensare, che Naselli, e massimamente il conte Ruggiero venivano alla volta sua per la strada del littorale, coi quali desiderava, ed era punto principale della sua impresa, il congiungersi. Nè era di poca importanza il moto della città di Viterbo, che a furor di popolo si era scoperta contro i Francesi. Marciava Mack, divisi i suoi in cinque schiere, il dì cinque decembre, da Baccano contro i repubblicani, mentre al tempo stesso ordinava un moto verso Civitaducale, per tener in rispetto i Francesi da quella banda. Prevaleva di gran lunga di numero, conducendo quarantamila soldati contro un nemico, che se arrivava agli ottomila, non gli passava, poichè in questo numero consisteva l'ala destra dei repubblicani. Sboccava la prima schiera Napolitana verso Nepi, la seconda, insistendo sull'antica via Romana, verso Rignano, la terza verso Santa Maria di Falori, schiere tutte destinate a combattere sulla destra sponda del Tevere. La quarta aveva il carico d'impadronirsi di Vignanello per guadagnare la terra d'Orta, e quivi varcare il fiume. Finalmente per fare un po' di spalla a destra a tutte queste genti, la quinta schiera dei regj marciava contro a Magliano, e già aveva traversato il Tevere al passo di Ponzano. I Francesi, sentita prestamente la venuta del nemico, non si fermarono ad aspettarlo, ma siccome quelli, che stimavano se stessi da quegli uomini valorosi che erano, e tenendo in poco conto le genti Napolitane, uscirono incontanente ad incontrarle. I capi poco dubitavano della vittoria, perchè oltre il provato valore dei soldati, sapevano, che gli assalti dei Francesi, per la natura pronta della nazione, sono sempre più fortunati che le difese. Non fu l'esito diverso dalle speranze. Kellerman, figliuolo del vecchio generale di questo nome, e giovane commendabile per valore e per bontà, contuttochè sulle prime trovasse un duro incontro, ruppe la prima Napolitana schiera, cacciolla insino a Monterosi, e quivi rompendola di nuovo tagliava a pezzi i valorosi, disperdeva i codardi. Non procedettero con maggior riputazione le cose dei Napolitani dall'altre parti: il colonnello Lahure ruppe la schiera di Rignano, sebbene sulle prime avesse perduto del campo; perchè Macdonald con pronti ajuti soccorrendolo, lo ebbe tostamente abilitato alla vittoria. S'incontrava la schiera che giva all'assalto di Santa Maria di Falori in una squadra Polacca capitanata dal generale Kniazewitz, e che aveva con se una legione Romana, che aveva alzate le bandiere della repubblica. Polacchi e Romani valorosissimamente combatterono: i Napolitani andarono in volta, non senza grave perdita d'uomini, d'armi, e di bagaglie. Il generale Maurizio Mathieu affrontava, così avendo ordinato Macdonald, la quarta schiera, la quale cedendo si ricoverava nella terra di Vignanello forte per sito, e cinta di buone mura. Si difendevano i Napolitani virilmente, sapendo, che questa fazione era di grandissima importanza; erano anche ajutati dai terrazzani, nemicissimi del nome Francese. Ma Mathieu tanto fece con le armi e con le minacce, che sforzava i Napolitani a lasciar la terra libera al vincitore. Entraronvi i Francesi trionfando, non senza qualche licenza, come di gente vincitrice, ed irritata. Acquistato Vignanello, correva Mathieu ad assicurare il ponte di Borghetto. Restava la quinta schiera, che camminava verso Magliano, ma udite le infelici novelle delle compagne, se ne tornava, senza aver combattuto, per Ponzano, al principale alloggiamento dell'esercito regio. Così pel valore delle sue genti, e per l'arte egregia, con la quale le mosse, venne fatto a Macdonald di variare lo stato della guerra, e di riuscir vincitore da un assalto molto pericoloso. Bene si può biasimare Mack dello aver diviso i suoi in tante parti, convenendogli piuttosto, siccome a quello che aveva l'esercito molto più grosso, il marciare unito; perciocchè con un solo sforzo avrebbe vinto, mentre con molti perdè. Ma voleva Mack mostrar sempre in tutte le sue cose un'arte molto squisita e non gli andavano a grado le mosse semplici. Così nella propria perizia ravviluppandosi, ed impacciandosi, si esponeva ad un più gran numero di casi fortuiti, ed apriva un maggior adito alla fortuna. Ma, non ostante le battaglie combattute infelicemente dal generale Napolitano sulla destra riva del Tevere, la guerra non era ancora vinta; perchè da una parte il conte Ruggiero di Damas venendo da Orbitello si avvicinava, dall'altro rimanevano ancora sulla sponda sinistra del fiume ai Napolitani genti superiori per numero ai loro nemici. Per la qual cosa Mack, non disperando ancora delle sorti, si accingeva a fare un nuovo sforzo sulla sponda medesima, il cui fine era di rompere la schiera di mezzo di Championnet: il che avrebbe disgiunto le due ali Francesi, di cui la destra guidata da Macdonald insisteva tra il mare ed il Tevere, e la sinistra militava sotto la condotta di Duhesme oltre l'Apennino, tra questo monte e le spiagge dell'Adriatico. Ebbe il generale Francese sicuro e pronto avviso dell'intento del suo avversario. Laonde per resistere a quel nuovo impeto, e non si commettere se non con vantaggio alla fortuna, ristringeva i suoi ed affortificava con nuove genti i luoghi di Contigliano e di Magliano. Poi fe' ritirare Macdonald da Civitacastellana, solo lasciato un presidio nel forte a Borghetto, affinchè quivi validamente difendesse il passo del fiume. Finalmente chiamava il generale Lemoine, che oltre l'Apennino sotto il freno di Duhesme combatteva contro il cavaliere Micheroux, generale del re, ad occupare Civitaducale, e Rieti, la prima, città del regno, la seconda, dello stato Romano. Pensier suo era in questo, che Lemoine tempestando sulla destra di Mack, gli troncasse il suo pericoloso pensiero di spartire in due l'esercito repubblicano. Dal canto suo Mack aveva per primo fine, spingendosi avanti, di acquistare Terni, il che sarebbe stato il compimento del suo disegno. Con questo intento, mandata una colonna ad occupare Civitacastellana, avviava grosse squadre ai monti di Buono, a Cantalupo, ad Aspra, e già faceva le viste di assaltare Otricoli, fazione, per la posizione dei luoghi, di grandissima importanza. Aveva poi il suo alloggiamento principale, e come quasi primario fondamento alla vittoria, sul monte di Calvi. Le cose succedevano a prima giunta prosperamente ai Napolitani; conciossiachè, sebbene per opera di Mathieu fossero stati cacciati da Magliano, che già avevano conquistato una loro schiera di gran polso, sotto guida del generale Moesk, si era, cacciatone di forza i Francesi, impadronita di Otricoli, e già faceva correre da suoi cavalleggieri la strada per a Narni. La guerra diveniva pericolosa pei Francesi. Ma non perdutisi punto d'animo, si risolvevano al combattere, e provarono tostamente, che nelle battaglie più può l'ardire che la prudenza; poichè Mathieu, per comandamento di Macdonald, assaltò furiosamente i Napolitani in Otricoli, e quantunque valorosamente vi si difendessero, gli vinse con perdita di due mila soldati, di cinquecento cavalli, di otto cannoni, e di tre bandiere. Diedero in questo fatto pruove di singolar valore i Polacchi, e fu ferito gravemente in una gamba un Santacroce, principe Romano, che combatteva per la repubblica. Ritirossi Moesk colle reliquie de' suoi a Calvi, dove per la fortezza del sito si poteva sostenere, e fare ancor dubbia la vittoria. Ma lo stesso Mathieu, già vincitore di tanti fatti per valore di questa Napolitana guerra, mandato da Macdonald, vincitore ancor esso dei fatti medesimi per perizia, occupate le eminenze, che stanno a sopracapo alla terra, e minacciato aspramente Moesk, se non si arrendesse, il costringeva, ajutato anche dalla presenza di Macdonald sopraggiunto in quel frangente, alla dedizione. Questo fatto ruppe ad un punto tutte le speranze che Mack aveva concette di poter durare nello stato Romano, e lo fece accorgere, che niun altro scampo gli restava, che quello di ritirarsi con presti passi nel regno. Già il re, udite le sinistre novelle, ed abbandonata Roma, si era avviato, prima a Caserta, poscia a Napoli: Mack, raccolti più prestamente che potè tutti i suoi, andava a Capua, in cui sperava di difender Napoli, giacchè non aveva potuto difender Roma nè a Calvi, nè a Cantalupo. Entrarono i Francesi vittoriosi in Roma, donde diciassette giorni prima erano partiti non vinti. Tornaronvi i consoli ad occupare le perdute sedi. Le cose dei Napolitani non avendo fatto sulla destra del Tevere quella resistenza, che il conte Ruggiero aveva sperato, gli era divenuto impossibile di congiungersi con la sua schiera sinistra: le rotte sulla sinistra gli tagliavano ogni strada a potersi congiungere col grosso dell'esercito, e niun altro scampo gli lasciavano, che quello di aprirsi il passo per forza, o di conseguirlo di queto dal vincitore, o di retrocedere per andarsi a rimbarcare in Orbitello. Rifulse in sì estremo accidente la virtù del conte; poichè non isgomentatosi punto, se ne continuava a marciare con settemila soldati da Baccano verso Roma. Championnet attonito a caso tanto improvviso, mandava il suo ajutante Bonami a sapere, che cosa volesse dir questo. Gli fu risposto dal conte, che voleva passare o per amore, o per forza per ritornare nel regno; ed ottenuto un indugio dal nemico per trattare un accordo, avvisando che Bonami non aveva dato tempo per altro motivo, che per far accorrere nuove genti, levava, più tacitamente che poteva, il campo, incamminandosi più che di passo alla volta di Orbitello. Giunto alla Storta, vi fu il suo retroguardo combattuto dai repubblicani: ma difesosi virilmente, acquistava facoltà del continuare a ritirarsi. Calava intanto a far le sue condizioni più pericolose Kellerman da Borghetto. Incontratisi repubblicani e regj a Toscanella, si travagliavano con un conflitto molto aspro. Il conte, contuttochè fosse ferito gravemente da una scheggia in una gamba, continuava a combattere valorosamente; i Napolitani incoraggiti dall'esempio del loro capo, si difendevano anch'essi con molta costanza: nè si spiccarono dalla battaglia, se non quando per l'arrivo delle cavallerìe di Kellerman, era diventata troppo disuguale. Intanto non aveva omesso il conte, mentre col retroguardo arrestava l'impeto dei repubblicani, di accostarsi vieppiù coll'antiguardo, e col grosso della schiera, ad Orbitello. Queste due squadre nella cercata terra essendo giunte, tostamente vi s'imbarcarono sulle navi Napolitane, che quivi le attendevano. Restava, che si conducesse a salvamento il retroguardo, che era furiosamente seguitato dai Francesi; ma non così tosto il conte col retroguardo medesimo (imperciocchè sebbene molto patisse della sua ferita, aveva sempre in mezzo a quest'ultima parte del suo esercito combattuto) vi entrava, che chiuse le porte sul viso al nemico, faceva le viste di volersi difendere. Si appiccava intanto una pratica tra di lui e Kellerman, per la conclusione della quale fu fatto abilità al conte d'imbarcarsi con tutte le sue genti, solo lasciando in mano dei Francesi le artiglierìe. Bello e lodevole fatto del conte Ruggiero fu questo, e che dimostrò, che se i buoni soldati fanno i buoni generali, ancora e molto più i buoni generali fanno i buoni soldati. Viterbo vinta ed occupata dal vincitore, pagò le pene dello aver anteposto lo stato antico e dispotico, allo stato nuovo e tirannico. Ciò non ostante non vi furono vendette esorbitanti, ed il giovine Kellerman vi si portò più moderatamente che i tempi non comportavano. Riconquistata Roma, ed atterriti i Napolitani, pensava Championnet ad assicurarsi, e ad ampliare la vittoria; ed ancorchè non avesse un esercito bastante pel numero dei soldati a conquistare il regno, tuttavia, considerato il loro valore, l'efficacia della fresca vittoria, il terrore dei nemici, e la forza delle opinioni favorevoli, che da lungo tempo e largamente vi si erano sparse, e che ora più potentemente operavano per la vicinanza dei Francesi, e per la sconfitta dell'esercito regio, si risolveva a tentar l'impresa. A questo fine era necessario il debellare Capua, ultimo propugnacolo di Napoli per la fortezza della città, per la profondità delle acque del Volturno, e per avervi Mack adunato tutte le genti, ancora forti, se non per valore almeno pel numero. Adunque il generale della repubblica spartiva i suoi in due principali schiere, delle quali la sinistra governata da Macdonald, correndo pei luoghi superiori e più vicini agli Apennini, doveva, là dove è meno grosso per la prossimità de' suoi fonti, varcare il Garigliano ai passi del Castelluccio e di Caprano, e al tempo stesso dare facoltà alle genti di Duhesme e di Lemoine di congiungersi con lui a sforzo comune contro Capua. La seconda schiera sotto la condotta di Rey, radendo il lido, s'incamminava verso Terracina, con pensiero di acquistare, strada facendo, Gaeta per una battaglia di mano, poi comparire sotto le mura della desiderata Capua. Nè l'esito fu diverso del disegno; perchè e Macdonald e Rey, superati tutti gli ostacoli, arrivavano alla destinata oppugnazione sulle sponde del Volturno. Ai passi stretti e forti di Fondi e d'Itri fecero i Napolitani debole resistenza: a Gaeta, piazza forte per sito e per arte, e con un presidio di più di tremila soldati, con provvisioni e munizioni abbondanti, niuna. Vennero a Gaeta in poter dei vincitori circa cento pezzi di cannoni, piatte per ponti, barche armate, e barche annonarie provviste, e vettovaglie in copia. Precipitavano a gran rovina le cose del regno, non essendosi mostrato in sua difesa valore nissuno, se si eccettua il caso del conte Ruggiero. Duhesme e Lemoine, ai quali andava avanti, come speculatore ed apritor di strade, quell'arrisicato condottiere Rusca, sui sinistri gioghi dell'Apennino insistendo, travagliavano più per gli assalti improvvisi delle popolazioni mosse a romore, ed armate di ogni sorte d'armi, che per le battaglie delle genti regolari. Principalmente nelle contrade del Tronto, e verso Teramo, i paesani mossi a romore, e condotti dai preti, infestavano le strade, davano addosso agl'isolati, ed impedivano le comunicazioni tra l'una parte e l'altra dei repubblicani. Ciò ritardava l'impeto dei Francesi, che da questa parte non poterono seguitare di pari passo le genti vincitrici di Championnet, e di Macdonald. Tuttavia appoco appoco prevaleva il valore regolato. Lemoine acquistava Aquila, dove trovava munizioni da bocca in abbondanza. Poi si conduceva a Sulmona, dove mettono capo tutte le strade dell'Abruzzo, con intenzione di aspettar quivi Duhesme, che più vicino correva le sponde dell'Adriatico. Grave intoppo ai disegni di Duhesme era Pescara, città, che con la sua fortezza situata in luogo eminente domina tutto il pian paese all'intorno, e la sola strada a riva il mare, per la quale possono passar le artiglierìe. Questa era la principale piazza dei Napolitani su quei lidi, sì per l'importanza del passo, e sì perchè difende la foce del fiume Pescara, che si distende a guisa di porto. Due mila soldati la presidiavano; ma non fecero miglior pruova dei difensori di Gaeta; perchè, come prima i soldati leggieri della repubblica si mostrarono sulle alture che stanno a sopracapo al ponte di Pescara, e le altre truppe a Pianella ed a Civita di Penna, il comandante pensò alla dedizione, dando in mano dei Francesi quel luogo tanto forte per arte e per natura, e tanto importante alla sicurezza del regno. Vi trovarono i vincitori armi, e munizioni in copia. Acquistata Pescara, procedeva Duhesme a congiungersi per la strada di Popoli con Lemoine a Sulmona, donde varcato il sommo giogo dell'Apennino, condussero entrambi tutta l'ala sinistra sotto le muraglie di Capua. Così non solo erano in veemente movimento le cose di Napoli, ma ancora cominciavano a precipitare a manifesta rovina. Naselli, lasciato Livorno, perchè oltre le sconfitte dei regj, aveva udito che Serrurier con una mano di soldati della repubblica già aveva occupato Lucca, e si apparecchiava ad andarlo a combattere, imbarcate le genti sulle navi apprestate, veleggiava alla volta del Garigliano. Non erano senza fortezza i nuovi alloggiamenti di Mack. Posto il campo col grosso de' suoi nella pianura di Caserta, per modo che fosse abile a difendere il passo del Volturno, aveva fatta Capua sicura con un presidio di diecimila soldati. Tra per questi, e le genti del campo, aveva ancora un novero di combattenti superiore a quello dei Francesi, e se avesse avuto o migliori soldati, o più fedeli capitani, o minore capriccio in una certa squisitezza d'arte, che gli faceva sempre moltiplicare i casi fortuiti con allargar troppo il campo, poteva ancor tenere la fortuna in pendente. Bene l'evento dimostrò, che Capua si poteva difendere, e si perdè non per forza, ma per accordo. Ma già i casi di Napoli diventavano più forti di tutte queste condizioni unite insieme. Il ritorno tanto subito del re, le novelle sinistre che ad ora ad ora pervenivano, l'aver perduto in più breve tempo quello, che in breve tempo si era acquistato, le dedizioni tanto importanti d'Aquila, di Pescara, e di Gaeta, l'avvicinarsi continuo del nemico al cuore stesso del regno, i soldati o dispersi, o fuggitivi, che per escusazione propria magnificavano le cose, l'arrivo stesso di Mack in Napoli, venutovi per consultare sulle ultime speranze, rinnovando la memoria delle vittorie dei francesi in Italia, e il terrore delle armi loro rinfrescando, avevano prodotto un grande abbattimento d'animo in chi sapeva, rabbia e disperazione in chi non sapeva. Titubavano i consiglieri di Ferdinando sul partito, che fosse a prendersi, alcuni propendendo ad armare il popolo, altri opinando ch'egli avesse tostamente a ritirarsi oltre il faro. Intanto il volgo, fattesi alcune instigazioni, anche da parte del governo, si armava da se: la città fra il terrore ed il furore aveva un aspetto molto sinistro, e, come si usa in simili casi, le voci popolari già accusavano di tradimento i ministri. S'incominciava a por mano nel sangue degli avversari o veri o supposti del governo regio, poi si trascorse in quello degli amici. Un Alessandro Ferreri, corriero per gli spacci, mandato con lettere a Nelson, che con alcuni suoi vascelli stanziava nel porto di Napoli, restò ucciso a furia di popolo sul molo; il suo cadavere sanguinoso tratto a forza sotto le finestre della reggia, fu mostrato al re, gridando orrendamente i feroci uccisori, e l'invasata moltitudine, che gli accompagnava, _muojano i traditori, viva la santa fede, viva il re_. Già non vi era più freno. L'orrore concetto per la fresca uccisione del corriero aveva persuaso a Ferdinando, che, tralasciando anche la forza Francese, che si avvicinava, non poteva più rimanersi a Napoli con dignità, nè fors'anche con sicurezza. S'aggiunse che Mack, non confidando di poter far guerra felice con quei soldati, che per altro quanto potessero valere aveva dimostrato l'esempio del conte Ruggiero, consigliava un accordo. Tutte queste considerazioni, e forse più ancora il timore di qualche congiura per opera dei novatori, essendo la rabbia loro grandissima pei sofferti supplizj, fecero prevalere la sentenza di coloro, che consigliavano, che il re si ritirasse in Sicilia. Fatta la deliberazione, si mandò tosto ad esecuzione, non senza terrore e confusione, come suole in simili accidenti; l'ultima notte del novantotto, s'imbarcarono sulle navi Inglesi e Portoghesi, che erano sorte nel porto, il mobile più prezioso dei palazzi di Caserta e di Napoli, le gioje della corona, il tesoro di San Gennaro, in cui erano meglio di venti milioni coniati, ed oro, ed argento vergati in quantità: a queste ricchezze s'aggiunsero le singolarità più preziose di Ercolano. Imbarcati i denari e le suppellettili, creava Ferdinando suo vicario il principe Pignatelli con facoltà amplissime, anche di concludere un accordo coi Francesi, col consentire all'occupazione di Napoli, purchè la città salva ed incolume si conservasse. S'imbarcava Ferdinando la notte medesima sulla nave di Nelson con Acton, Hamilton, ed i cortigiani. Il giorno seguente, non avendo ancor salpato pei venti contrarj, sorse uno spettacolo miserabile; poichè, fatte uscir prima le navi Napolitane, sì grosse che sottili, che potevano mareggiare, fece Nelson appiccare il fuoco alle altre, fra le quali campeggiava il Guiscardo grossa nave di settantaquattro cannoni. Arsero in cospetto del re, che di non lontano luogo rimirava il fumo ed il fuoco, che le proprie sue forze consumava. Si abbruciarono anche con disegno espresso le barche armate della costa di Posilippo, ed i magazzini dell'arsenale: la rabbia civile consumava le opere egregie della pace. Fu nella città desolata dolore e terrore per la partenza della reale famiglia. Il volgo sollevato mandò deputati a pregar Ferdinando, affinchè restasse proferendo le sostanze e le vite a difesa ed a conservazione sua, ma fu negata ai deputati la presenza di lui dagl'Inglesi. Nulla più restava da trasportare e da ardere: la dolorosa flotta salpava il dì due gennaio, infelice pell'aspetto terribile di Napoli, che ancora agli occhi dei naviganti appariva, più infelice pei venti avversi e le tempeste, che poco dopo la percossero. Fu lungo e travaglioso il tragitto: accrebbe la mestizia ed il dolore la morte del principe Alberto, figliuolo del re, fanciullo di sette anni, che in mezzo alle furiose burrasche rendè l'ultimo spirito nel grembo stesso della già tanto addolorata madre. Finalmente le sbattute e travagliate navi afferravano Palermo: le dimostrazioni amorevoli dei Siciliani, mitigarono l'amarezza concetta per l'esiglio, e per la fresca orbezza del morto figliuolo. Accrebbe una calunnia l'infelicità della madre, poichè trovo scritto, che la regina avesse, partendo, comandato, che si armasse il volgo a furia, che Napoli s'incendesse, che anima vivente, che sopra la condizione di notajo fosse, non vi restasse. Bene mostrò soverchia asprezza Carolina ai tempi, che seguirono, ma che abbia ordinato una immanità tanto barbara, non è da credersi, se non da coloro che si lasciano tirare dalle passioni estreme, e dall'amore detestabile delle parti. La partenza del re fu in mal punto per l'infelice regno, perchè già la fortuna si dimostrava più propizia alle sue armi. Erano, non senza gravi difficoltà per le popolazioni armate, che loro contrastavano il passo, Duhesme e Lemoine giunti al campo sotto le mura di Capua. Intanto le popolazioni medesime, principalmente quelle dell'Abruzzo superiore, e dell'antico Sannio, crescevano di numero, di forze e di furore, e già facendo in ogni luogo suonare le armi e le grida di vendetta, niuna cosa lasciavano sicura alle spalle dei francesi. La rabbia loro era incredibile, e commettevano contro i repubblicani, che viaggiavano alla spicciolata, atti di ferità più bestiale, che inumana. Dei venuti in mano loro, alcuni furono vivi tagliati a pezzi, altri legati agli alberi a fuoco lento arsi, altri gettati a furia a rompersi sugli scogli, altri precipitati nelle profonde valli, altri orribilmente mutilati e lasciati vivere di una vita peggiore che la morte. A tali atti applaudivano con forsennate grida le turbe furibonde. Già Itri, Fondi e Sessa erano in poter dei sollevati; già San Germano si muoveva a stormo; già Teano, alloggiamento principale di Championnet, era stato assaltato e preso; già Piedimonte sul sommo giogo dell'Apennino pericolava; una massa di popoli incitatissimi s'avvicinava al Garigliano, e non lasciava alcuna speranza ai repubblicani in picciol sito oramai ristretti. Mandava Championnet ad incontrarla Rey, il quale avendo combattuto più valorosamente che prosperamente, fu fatto tornare con grave perdita frettolosamente nel campo. Il prospero evento aggiunse nuova furia a quelle genti sdegnate e crudeli: spintesi avanti assaltarono il ponte, che i Francesi avevano fabbricato sul fiume, sel presero, e più oltre procedendo nel parco di riserva rapirono le artiglierìe, fracassarono i carretti, trasportarono quante munizioni da guerra poterono. Per tale guasto le cartucce di provvisione vennero mancando ai Francesi: già le vettovaglie mancavano, nè v'era modo di andar alla busca per pascere l'esercito, perchè i sollevati inondavano le campagne; il vigore delle menti con gli stromenti di difesa mancava. Da un altro lato la popolosissima Napoli si muoveva, apprestandosi a correre al Garigliano in ajuto di Capua, e dell'esercito che ancora la difendeva. Nè è da passarsi sotto silenzio, che la virtù dei Francesi, oltre il suono delle armi dei sollevati, che romoreggiavano tutto all'intorno, incominciava a indebolirsi per un'infelice pruova testè fatta contro Capua. Avendo dato Macdonald un furioso assalto alla piazza, ne era stato respinto con danno gravissimo. Fu anzi in questo abbattimento ferito Mathieu da una palla, che gli guastò il braccio per modo che non potè più militare in tutta questa Napolitana guerra. Ciò dava loro a temere, che i soldati Napolitani incominciassero ad agguerrirsi. Si aspettavano d'ora in ora alla foce del Garigliano le genti tornate da Livorno, che dando animo e forza alle turbe stormeggianti sulla destra del fiume, avrebbero fatto un pericoloso assalto a tergo dei Francesi, mentre sboccando Mack da Capua, gli avrebbe assaliti in viso. Per la qual cosa con un esercito a fronte, che si ostinava a voler difendere una città, ed un passo tanto abili ad esser difesi, con gli Abruzzesi ed i Campani alle spalle, con la poderosa Napoli in cospetto, rimaneva ai Francesi poca speranza di salute; nè solo della perdita dell'impresa per loro si trattava, ma della vita stessa fra sdegni tanto frenati. La debolezza del vicario Pignatelli, per non usare parole più gravi, aperse improvvisamente una via di scampo ai Francesi, che già incominciavano a disperarsi. S'aggiunse il poco animo di Mack, il quale dimostrò, quando la fortuna già risorgeva, abiezione uguale a quell'eccessivo ardimento, che aveva scoperto, quando con le fresche e fiorite schiere assaltava lo stato Romano. Perì Napoli per mano di coloro, ai quali maggior debito pesava di difenderla. Arrivavano in quell'ora tanto pregna di dubbio avvenire pei Francesi agli alloggiamenti di Championnet il principe di Miliano, e il duca di Gesso, che mandati dal vicario venivano chiedendo un accordo. Mostrò sulle prime Championnet qualche durezza, conosciuta la timidità di chi reggeva Napoli, e volendo mostrare abilità al combattere. Ma infine pregato da coloro, che dovevano minacciare, venne ad un accordo con loro, del quale le principali condizioni furono, che si sospendessero le offese sino alla ratificazione delle due parti: se una ricusasse di ratificare, rincominciassero le offese dopo avviso anticipato di tre giorni; Capua si consegnasse in mano dei Francesi: l'esercito di Francia occupasse il paese alla destra dei laghi Napolitani sino alla foce dell'Ofanto; si serrassero i porti alle navi nemiche della repubblica; non si riconoscessero le opinioni; pagasse il re alla repubblica dieci milioni di tornesi, cinque in cinque giorni, e cinque in dieci; fossero aperte le strade ad ambe le parti pel commercio. Non piacque quest'accordo a nissuna delle parti, perchè il re negò la ratifica, e mandò Pignatelli tornato in Sicilia pel sollevamento di Napoli, che or ora racconteremo, nella fortezza di Girgenti. I Napolitani, sottili estimatori, come gente Greca, delle cose, affermarono, essere stata un'insidia di Acton, nemico di Pignatelli, dell'averlo messo, partendo, in quella vertigine, acciocchè vi perisse. Mostrossi il direttorio sdegnato contro Championnet, come di accordo vile. Ma piacque il trattato, come riscatto e come insidia, a Championnet; perchè con quello e salvava l'esercito, e si procurava abilità d'intendersela coi novatori per far del tutto sovvertir Napoli, e convertirlo in repubblica. Infatti aveva con se alcuni fuorusciti Napolitani, il principale dei quali era il conte Ettore Caraffa, signor d'Andria e di Ruvo, giovane di spiriti ardenti, di pensieri vasti e smisurati, e strumento molto atto a turbare il regno. Questi incominciarono a tener pratiche segrete coi loro compagni di Napoli per modo che il generale Francese era per l'appunto informato di quanto alla giornata vi avvenisse. Non riposavano essi mai, godendone Championnet, repubblicano sincero, ora magnificando la potenza dei Francesi, e l'impotenza del resistere, ora preponendo la repubblica al regno, ora con vivi colori dipingendo la crudeltà di Carolina, la superbia di Acton, l'imbecillità, come la chiamavano, del re. Mali semi sorgevano; si aspettava la occasione. Pignatelli o non sapeva, o non poteva, o non voleva rimediare: un accidente grave e funesto era imminente. Una cagione, che dipendeva dal trattato della tregua, fe' trascorrere le acque mosse, ma in verso contrario: i vesuviani spiriti eran prossimi a prorompere. Un Arcambal, commissario Francese, era andato a Napoli per levarvi il denaro pattuito, e già i carri si apprestavano. Ciò venne a luce; il volgo se ne accorse. Spargevansi voci, che il popolo era tradito, che si voleva dar Napoli ai Francesi, le condizioni dell'accordo tenute a bella posta segrete, diventavano palesi: si accusava Mack, si accusava Pignatelli di tradimento: il mal umore nasceva in ogni parte. S'incominciò a mormorare, poi a gridare, poi a minacciare, si trascorse finalmente agli sdegni, e sorse in tutta la città fra i lazzaroni un tumulto, ed un rumore incredibile. Uscivano furibondi dai nascondigli loro, correvano per le contrade e per le piazze, s'armavano a vicenda, l'un l'altro stimulavano, tutti gridavano: _muojano i traditori; viva San Gennaro, viva la santa fede, viva il re_. Avidi di far sangue già facevano pruova di manomettere Arcambal, e lo avrebbero anche fatto, se per opera di alcuni Napolitani affetti ai Francesi non avesse trovato modo di porsi in salvo. Fece Pignatelli qualche provvisione per frenare quel cieco impeto per mezzo dei soldati, e della guardia urbana. Ma altra medicina era richiesta a tener i lazzaroni, ed il rimedio fu peggior del male, perchè il volgo vieppiù inferocito a quel ritegno, trascorse in maggior furore, chiamando a morte e Pignatelli, e Mack, e i soldati, e tutti che governavano. Nissuno pensi, che un'avviluppata simile a questa sia stata mai in alcuna città mossa a furore nelle faccende più gravi dello stato, e nelle più ardenti ire civili. I lazzaroni occupavano i castelli Nuovo, Sant'Elmo, e del Carmine: indi correvano all'armerìa, dove, prese e distribuite fra di loro le armi, s'indirizzavano a opere maggiori. Pignatelli e Mack pensarono, che quello non fosse più tempo da starsene a Napoli, e fuggirono il primo in Sicilia, il secondo all'alloggiamento di Championnet. La guardia urbana fu disarmata. Dell'esercito, che da Capua consegnata ai Francesi se ne veniva alla volta di Napoli, parte sbandatosi, cercò ricovero in mezzo ai Francesi, parte sotto il governo del duca di Salamandra, si unì alla plebe commossa, gridando: _viva la patria, viva Napoli, viva il re_. Fatti più arditi dal numero e dall'impeto, assaltarono rabbiosamente la guardia Francese al ponte di Rotto, e parte la ruppero, parte l'uccisero. Protestò Championnet per questo fatto, che i Napolitani avessero rotto la tregua, ed aperto l'adito all'ostilità, come se il tendere insidie, com'ei faceva, col tramare per mezzo dei novatori di far ribellare lo stato, e volgerlo a repubblica, non fosse peggior rompimento della tregua, che il violarla apertamente con le armi. Fuggiti Pignatelli e Mack, una licenza senza freno dominava Napoli sconvolta. In ogni parte erano assalti, depredazioni, incendi, e morti. Fulminavano i cannoni dai castelli, fulminavano ai capi delle strade. Fra le grida dei moribondi, fra le minacce degli uccisori si udivano, cosa che ad ognuno recava maggior terrore, _viva San Gennaro, viva la santa fede_. Durò gran pezza il tumulto spaventevole. Stanco finalmente di far bottino e sangue, l'impazzato volgo s'avvedeva, che bisognava pensar ad altro, perchè il disordine ammazzava se, e l'ordine gli altri: s'avvisarono dunque di creare un capo, che gli ordinasse e difendesse. Elessero il principe Moliterni, figliuolo del principe di Marsiconuovo, giovane ardente, e che aveva dato segni di valore nelle fazioni di Capua contro i Francesi. Poichè fu eletto, gli facevano intorno le più pazze grida del mondo, ed ei se la godeva, perchè era ambizioso, ed aveva altre mire. Prima cosa, diede opera a piantar certe forche smisurate in parecchj luoghi con minaccia, che impiccherebbe chiunque si muovesse senza suo ordine. Poi creava ufficiali municipali, e capi del popolo, ed attendeva con manifesti e con bel comparire in pubblico a calmare quegli spiriti infieriti, e a dar qualche sesto alle cose. Ed ecco spargersi subitamente voce, marciare i Francesi contro Napoli; già essere giunti ad Aversa. Infatti Championnet, saputo il tumulto, ed i preparamenti fatti a' suoi disegni de' suoi partigiani, ed un altro accidente di tutti questi più efficace, che si racconterà poco appresso, non volendo trasandare la occasione, si avviava velocemente verso la commossa città. Fu Moliterni a parlamento con lui nei campi d'Aversa. Riportonne, che il generale di Francia non voleva udire proposta alcuna d'accordo, se prima non se gli dessero in mano i castelli, e non si togliessero le armi a chi non fosse soldato. Qui non è bisogno aggiunger parola, perchè per poco stette, che non facessero Moliterni a pezzi, e l'avrebbero anche fatto, se non si fosse schivato, gridandolo a furore assassino e traditore. Nè volendo più udire capo di sorta, meno ancora Moliterni, tornarono in sul saccheggiare, ed in sull'uccidere più fieramente che prima. Uccisero il duca della Torre, uccisero suo fratello, Clemente Filomarino, ambi rispettabili per ingegno e per virtù, maltrattarono con infami improperii Zurlo, ministro che era stato delle finanze. Nè più guardavano ai forestieri che ai nazionali: trucidarono un ufficiale di marina Inglese, trucidarono un fuoruscito Tolonese: facevansi della barbarie gioja. Un forestiero venuto loro in sospetto, alla porta di una bottega mani e piedi inchiodarono, e sì a colpi di scuri e di bajonette il martirizzarono. Lacombe San Michele, ambasciadore di Francia, essendo chiamato a morte dal popolo furioso, fu nascosto, e salvato da alcuni amatori del nome reale, che più risguardarono all'umanità che alle opinioni. I popoli sommossi penetrano bene la natura degli uomini, ai quali hanno dato il governo di se stessi, perciocchè il sospetto aguzza l'intelletto, e raddoppia l'attenzione. Certo è, che Moliterni non secondava più le intenzioni del popolo, tendendo i suoi andamenti ad affidare Napoli alla presenza ed al patrocinio dei Francesi, verisimilmente perchè credeva, che quello fosse il solo modo di salute che restasse. Per arrivare a questo suo fine, poichè nell'abboccamento di Aversa Championnet gli aveva affermato, che non entrerebbe, se prima non gli fosse assicurata la possessione del castel Sant'Elmo, aveva introdotto in questa fortezza molti de' suoi aderenti, e molti ancora che parteggiavano per la repubblica; ed inoltre armandone quanti più gli venne fatto di armare, gli aveva distribuiti nei luoghi più opportuni. Trovo consegnato nei ricordi delle storie, che, essendosi di ciò prima indettato con Championnet, abbia propagato ad arte la opinione fra l'acceso volgo, che era necessario andare ad assaltar i Francesi che venivano contro Napoli, con dire, che il picciol numero loro sarebbe facilmente oppresso dalla sopravvanzante moltitudine del popolo. Avvisavano Championnet e Moliterni, che il vincere i lazzaroni in Napoli tanto numerosi, coraggiosi, ed arrabbiati sarebbe stato piuttosto impossibile che difficile; perchè ogni casa sarebbe diventata per loro una fortezza, ed il sapere le strade era per loro di grandissima importanza, e le città, e le abitazioni proprie sono più patria, e con maggiore animo si difendono, che le campagne e le abitazioni aliene. Il combattere poi in paese piano ed aperto faceva ai Francesi, quantunque fossero in picciol numero, le condizioni migliori, perchè avevano qualche nervo di cavallerìa, artiglierìe meglio ordinate, più perizia di battaglie. Come era ordito il disegno, così riuscì l'effetto. Usciva il popolo più impetuoso, che esperto di battaglie, a combattere contro i Francesi, che per la speranza di Sant'Elmo, e di trovare in Napoli una parte forte in favor loro, ordinati si avvicinavano. S'affrontarono le due parti tra Aversa e Capua; ne seguitava una mischia molto tremenda. Prevalevano i Francesi per le armi e per l'ordine, prevalevano i Napolitani pel numero e pel furore. Durò per ben tre giorni con variati eventi la battaglia. Le artiglierìe di Francia fulminando in quelle spesse squadre, vi menavano uno scempio orribile, ed atterravano le file intere. Rimettevansi i lazzaroni, e più aspramente di prima menavano le mani, cercando di avvicinarsi, e di venire alle strette col nemico, per fare con lui una battaglia manesca. Le artiglierìe gli guastavano da lontano, le bajonette da vicino; ma le morti non gl'intimorivano, anzi piuttosto gl'infierivano. Nei due primi giorni ruppero parecchie volte i repubblicani; ma questi, come destri, e sperimentati soldati, tosto si rannodavano. Nè la notte arrecava riposo; perchè se al chiaro più si udivano le grida dei combattenti, al bujo più si udivano quelle degli straziati; e pure neanche di notte si perdonava alle ferite ed alle morti. Accresceva il terrore, che in tutti i villaggi circonvicini un suonare di campana e martello spesseggiava senza intermissione, ed i contadini accorrevano in folla variamente armati in ajuto dei cittadini combattenti. Non era guerra in un sol luogo, ma guerra dappertutto e dappertutto si versava sangue o per uccisioni agglomerate fra corpi grossi, o per uccisioni spicciolate fra masse vaghe ed erranti, e fra guerrieri isolati. Continuavano a Napoli le carnificine; vi si aggiungeva furore a furore. Fumavano al tempo stesso le incenerite terre dell'Abruzzo, del Sannio, e della Campania, che la rabbia di guerra, e la soldatesca rabbia avevano agli ultimi e più miserandi casi ridotte. Nuovi vespri siciliani, e nuove vendette di vespri siciliani si agitavano. Un Proni assassino guidava le genti arrabbiate, i curati coi crocifissi le animavano; solito costume dei civili furori, e delle popolari guerre. Fumava Castelforte arso da Rey: mescolavavisi alle fiamme il Napolitano sangue sparso dal capitano Francese, perchè tal era stata la resistenza, e tale la ostinazione dei difensori, che gli abbisognò prender d'assalto non solamente le mura, ma le case ad una ad una, dalle quali piovevano palle, sassi, travi, acqua, ed olio bollenti. Grondava sangue l'egregia Isernia per opera di Monnier irritato pel valore più che umano, col quale i terrazzani, ajutati dalla gente venuta dal contado, l'avevano difesa; d'assalto presa, fu sottoposta a quanto di più crudele, e di più empio sogliono pruovare le infelici città prese d'assalto; ma qui le abbominevoli cose furono anche maggiori, perchè era una guerra tra gente stimata nemica di Dio, e tra gente stimata assassina: nascevano opere da una parte e dall'altra più che di barbari. Le Caudine Forche superate con singolar valore ed arte da Broussier, tiepide ancor esse di sangue paesano ed estero, attestavano le battaglie valorosamente combattute da ambe le parti, ma più felicemente, che nell'antichità, dagli esteri, più infelicemente dai paesani. In questa guisa travagliavano al tempo medesimo gli Abruzzi, il Sannio, la Campania, e la popolosa Napoli. Città incenerite, turbe uccise, superstiti addolorati, un calpestìo di guerra tremendo tra Capua e Napoli, e dove mancavano le forze, suppliva il furore. Non mai i Francesi si trovarono ridotti a sì duro passo, nè mai con tanta valenzìa sostennero un urto di guerra. Infine un buon consiglio fece sopravvanzare i repubblicani. Championnet mandava Lemoine, e Duhesme a ferire con truppe fresche, strigatesi testè dagl'impacci dei monti, il fianco destro dei combattenti lazzaroni, i quali, affievoliti dalla fatica e dalla strage, andarono in volta, sparsi e sanguinosi riparandosi in Napoli. Mentre nel raccontato modo si combatteva, Moliterni recatosi in mano, non solamente il castello di Sant'Elmo per mezzo de' suoi fidati, ma ancora quello dell'Uovo, vi aveva inalberato il vessillo tricolorito in segno di pace e di possessione verso Championnet. Spediva anzi a lui uomini a posta, perchè accordassero il modo di rimetter in poter suo la città. Tentò anche il castello del Carmine; gli fu sdegnosamente risposto dal presidio. Ma quando i lazzaroni superstiti alla passata uccisione videro sventolare su quei due forti le odiate insegne, tosto tornarono su i furori, e di nuovo prese le armi, si accingevano a voler impedire ai francesi la possessione. Facevano esortazioni, parte feroci, parte ridicole, ordinavano processioni di San Gennaro, si armavano, si rannodavano, s'incitavano: da capo ricominciarono a dire, che non temevano nè santi, nè diavoli, nè Francesi, e che non volevano repubblica, e che l'avrebbero veduta. Nè si rimasero alle minacce; perchè assaltato impetuosamente Capochino e Capodimonte, ne ebbero a viva forza cacciati i Francesi, che poi tornati più forti rincacciarono di bel nuovo i lazzaroni. A porta Capuana succedeva una battaglia asprissima, prima colla peggio dei Francesi, poi colla peggio dei Napolitani: magnifici edifizj incesi a bella posta per necessità dai Francesi. Facevano anche forza di entrare verso il palazzo reale per la protezione dei castelli Sant'Elmo, e dell'Uovo; ma i lazzaroni essendosene accorti, contrastavano con grandissima gagliardìa il passo. Pendeva tuttavìa in bilico la fortuna, quando ecco calare dai castelli Moliterni con le sue genti, ed assaltar alle spalle coloro, che loro capo l'avevano creato. Seguitava un durissimo combattimento fra i popolani ed i repubblicani, finchè questi superarono del tutto gli avversarj, cinti e bersagliati da tutte le bande. Allora i Francesi, benchè i lazzaroni ancora in quest'ultimo frangente fortificassero le strade con isteccati, e combattessero dalle case con ogni sorta d'armi, si fecero forzatamente strada sino al palazzo reale, e l'occuparono. Poco poscia un'altra squadra di Francesi preceduti da novatori del paese, s'introdussero per forza nella contrada principale di Toledo, e se ne fecero signori. Tuttavìa combattevano ancora sparsamente i lazzaroni con pericolo di sacco e d'incendio: il castel del Carmine appresentava un duro intoppo a superarsi. Per risparmiare il sangue, e terminar totalmente quelle moleste battaglie con altro che con armi, uomini astuti, per suggerimento dei novatori, insinuarono ai lazzaroni, che saria bene mandar a sacco il palazzo del re. A tale suono quegli uomini privi di tanti compagni uccisi, e straziati essi medesimi da tante ferite ricevute in difesa del re (io narro cose strane ma vere) si calarono, e rinunziando alle armi, misero in preda le reali spoglie. Alcuni dei Francesi fra i più perduti, che alla guardia del palazzo se ne stavano, si mescolarono coi rapitori Napolitani nella medesima infamia. Restava, che il castello del Carmine cedesse. Si venne all'assalto, perchè il presidio non volle mai udire parole d'accordo. Ostinatamente vi si difesero; pure infine il forte cesse in poter dei repubblicani: la sanguinosa Napoli tutta era in potestà loro. Ma rimarrà eterna memoria dello sforzo fatto da un popolo forte, il quale, ancorchè fosse privo di capi, per poco non metteva a distruzione un esercito famoso per tante vittorie, e l'avrebbe anche fatto, se alla forza non si fossero congiunte le insidie. Il generale della repubblica fatto sicuro dell'acquisto di Napoli per l'occupazione dei castelli, mandava al pubblico, ch'egli frenava i suoi soldati, desiderosi di vendicare il sangue dei compagni morti nelle battaglie combattute contro gente prezzolata; che sapeva, essere i Napolitani un popolo buono, e che bene nel cuor suo si doleva degli strazj sofferti da lui: però rientrassero in se stessi, esortava, deponessero le armi nel Castelnuovo, e con questo conserverebbe la religione, le proprietà, e le persone salve ed intatte: al tempo stesso arderebbe le case, e darebbe a morte coloro, che contro i Francesi usassero le armi: se la tranquillità tornasse, dimenticherebbe il passato, e restituirebbe la felicità a quelle ridenti contrade. Partorì questo manifesto l'effetto, che Championnet se n'era promesso; Napoli fu ridotta in tranquillo stato, perchè tutti quietarono, chi per timore dei Francesi, e chi per timore del volgo. Ma siccome non bastava mettere in calma la metropoli, ma ancora abbisognava ordinare lo stato, seguendo Championnet il suo talento repubblicano, creava un governo, a cui chiamava venticinque persone, la più parte assai risplendenti o per dottrina, o per virtù, o per natali, o per tutte queste qualità congiunte insieme. I più amavano la libertà con animo sincero e benevolo. Alcuni, essendosi mescolati nelle congiure precedenti, erano stati dannati dal governo regio o all'esilio, o al carcere, o forse più ancora odiavano l'antico stato che amassero la libertà. Del rimanente uomini tutti, dico i Napolitani, sinceri d'opinione, continenti da quel d'altrui, e quanto degni di esser vissuti ai tempi antichi, tanto inabili a governar la nave dello stato in tempi tanto tempestosi. Furono quest'essi: Abbamonti, Albanese, Baffi, Bassal Francese, Bisceglia, Bruno, Cestari, Ciaia, De Gennaro, De Filippis, De Rensis, Doria, Falcigni, Fasulo, Forges, Laubert, Logoteta, Manthoné, Pagano, Paribelli, Pignatelli-Vaglio, Porta, Riario, Rotondo. Partironsi, secondo il solito, in congregazioni, le quali avevano la potestà esecutiva, mentre tutti insieme collegialmente uniti usavano la legislativa. Fu diviso il regno, pure secondo il solito costume servile, in undici spartimenti. Chiamaronsi della Pescara con Aquila capitale, del Garigliano con San Germano, del Volturno con Capua, del Vesuvio con Napoli, del Sangro con Lanciano, dell'Ofanto con Foggia, del Sele con Salerno, dell'Idro con Lecce, del Brendano con Matera, del Grati con Cosenza, della Sagra con Catanzaro. Fatti gli spartimenti, crearonsi i distretti, poscia i municipj, ogni cosa a norma delle fogge Francesi: tutto questo chiamossi repubblica Partenopea. Sono i Napolitani, siccome Greci, di natura molto acuta, trascorrenti nelle astrazioni, e misuratori delle cose secondo l'immaginazione, non secondo la realtà. Se si aggiunge la qualità molto favellatrice, sarà facile far concetto in quante reti ed andirivieni s'inretino e s'impaccino, sì che vogliano il bene, e sì che vogliano il male. Il persuadergli ed il ravviargli non è cosa agevole; perchè più ciò fare t'ingegni, e più si ravviluppano nelle astrattezze, e nel loicare, e finiscono con avvilupparvi anche te. Ora pensi il lettore, se sottilizzassero, e se oltre portassero quei principj politici di filosofia Francese, i quali starian forse bene fra uomini migliori di noi, ma in questa età, sono, pur troppo, come bei colori su legni fradici. Compiacevano a se stessi con immagini lusinghevolissime: la repubblica di Platone pareva loro non solo possibile, ma ancora non sufficiente; una maggior perfezione sognavano, e si promettevano. In queste chimere i migliori, ed i più sapienti avevano più capriccio degli altri. Cirillo, Conforti, Logoteta, Russo, e più di tutti Mario Pagano, dei quali e di molti altri compagni loro non si potrà mai tanto ammirare la virtù, nè piangere la fine, che non meritino molto più, erano nel sognare queste felicità singolarissimi. Nè le donne si rimanevano: la virtuosa, dotta, e sventurata Eleonora Fonseca Pimentelli risplendeva fra le prime, e, siccome donna, spandeva attorno di se raggi più soavi dell'amorevolezza comune. I più belli, i più cortesi, i più colti spiriti con esso lei conversavano, e già virtuosi, a maggiore virtù per le esortazioni ed esempio suo si accendevano. Platone dominava: dolcissimi affetti da sì copiosi fonti in ogni parte scorrevano e s'insinuavano. Io mi sento muovere ad una compassione grandissima pensando, che un sì felice immaginare, un sì pietoso desiderare, un sì giocondo ammaestrare s'abbattessero in un campo pieno di ire tanto sfrenate, di strazi tanto crudeli, di latrocinj tanto violenti, di uccisioni tanto disumanate. Parmi, quanto l'esile creatura umana immaginar può, che Dio avrebbe dovuto fare i buoni esenti dal contatto dei malvagi, e lasciar questi straziarsi da se: certo la funesta mescolanza mi spaventa. Sognava nella sanguinosa Napoli Pagano misero la felicissima repubblica: i lazzaroni intanto saccheggiavano, e gli Abruzzesi con le armi, con le mani, e perfino coi denti i Francesi laceravano, e con pari furore i Francesi gli Abruzzesi straziavano. Nè i romori tanto detestabili, che d'ogni intorno risuonavano di tradimenti, di morti e di rapine, potevano svegliare dal dolce sonno quegli uomini benevoli. Argomentavano sottilmente del bene e del meglio, quando il male ed il peggio signoreggiavano, e più s'accendevano nelle speranze, quando e più vi era luogo a disperazione. Non s'avvedevano, che il predominio era dei ladri e dei tiranni, e che i ladri ed i tiranni, gridando libertà, di loro e della libertà si ridevano. Ed essi pure con la mente occupata, come di malattia dolce ed incurabile, non se ne accorgevano, e traevano dietro alle utopìe. Età strana e feroce, che produsse i buoni per perdergli, i tristi per fargli trionfare. Queste cose abbiamo vedute in tutte le parti della desolata Italia, ma nella gigantesca Napoli più che in tutte. Là più santi corpi si ruppero, là più grossi rivi di sangue scorsero. La posterità ne avrà pietade e spavento insieme: gli uomini odierni o non sentono, o ridono, od applaudono, e pazzo chi vuol seminar fra di loro semi salutiferi. I frutti soavi son diventati veleni per l'infausta terra. Così il gridare virtù fia creduto bugia, il gridare vizio fia creduto verità, e la scorza civile, che ci copre, ben cela schifosi aspetti. Se un benigno risguardo del cielo non ci salva, il dispotismo fia stimato rimedio, perchè non si è saputo nè ordinare, nè usare, nè sopportare la libertà, ed a questo dolce fiore concorsero in troppo gran numero insetti pestiferi. Di tale benevolenza, e di tali errori furono segnate le operazioni del governo nuovo di Napoli. Ma prima di raccontar le cose da lui fatte, necessario è per noi il descrivere, come Championnet operasse per solidare l'impresa nel regno. Era egli uomo dabbene, il che è qualche cosa più che uomo ingegnoso; perciocchè l'ingegno suo era piuttosto sufficiente che grande; ma come buono si rimetteva facilmente nell'opinione dei buoni, o di coloro che buoni riputava. Laonde, volendo far di Napoli altro che quello, che si era fatto di Roma, intendeva non solo a fondare la nuova repubblica, ma ancora a farle sostegno, non della forza, ma dell'amore. Chiamato il popolo a parlamento nella chiesa di San Lorenzo, bandiva solennemente in nome del governo Francese, e della grande nazione la libertà e l'independenza degli stati Napolitani, rinunziava ad ogni ragione di conquista, solo si riservava la facoltà di mettere per una volta tanto una contribuzione militare per dare a' suoi soldati i soldi corsi di sei mesi. Fu la contribuzione di settantacinque milioni, compresi dieci per la sola città di Napoli e contado; taglia assai grave, ma che avrebbero i popoli portato volentieri, se non fossero al tempo stesso stati costretti a dare il vitto ed il vestito a quei medesimi soldati, che già pagavano. Sapendo poi, quanto importassero in quei popoli ardenti le opinioni attinenti a religione, mandava una guardia d'onore a San Gennaro, e detto a chi l'aveva in custodia, ch'ei desiderava, che il santo facesse il miracolo, il santo il faceva, e i lazzaroni applaudivano, sclamando, non esser poi vero, che i Francesi fossero empj, come la corte aveva fatto spargere; nè mai si sarebbero risoluti a credere, che la volontà di Dio non fosse, che i Francesi stanziassero in Napoli, poichè in presenza loro si scioglieva il sangue del santo. Non ometteva il cardinale Zurlo Capece, arcivescovo di Napoli, a ciò esortato dal governo, e il faceva anche volentieri, di confortare con lettere pastorali i popoli ad obbedire alle nuove potestà, la libertà e l'egualità, come conformi ai precetti del vangelo, lodando e raccomandando. Queste cose mitigavano le opinioni contrarie, e vieppiù confermavano la quiete. Championnet mostrava in tutti i suoi discorsi, ed in tutti gli atti desiderio di alleggerire ai Napolitani il peso del forestiero dominio, e di fondare nel regno una repubblica libera e indipendente. Aboliva il governo i diritti feudatari, ed i fidecommessi, e preparava per mezzo della congregazione legislativa la constituzione, che avesse a reggere la repubblica. Fu questa constituzione opera principalmente di Mario Pagano, ed in mezzo alla imitazione servile degli ordini di Francia vi si vedevano alcuni ordini nuovi di non poca importanza, e di utilità evidente. Fuvvi principalmente la potestà censoria commessa ad un tribunale di cinque, il cui carico fosse di vegliare, acciocchè i cattivi costumi si correggessero, i buoni si conservassero; fuvvi anche l'eforato, a cui doveva appartenersi la facoltà di veder, che la constituzione in tutte le sue parti salva ed intatta si conservasse, che i magistrati oltre i limiti delle potestà concedute dalla constituzione non trascorressero, quelli che trascorressero alla debita moderazione richiamasse, e gli atti oltre i limiti da loro emanati annullasse, che le riforme della constituzione dimostrate necessarie dall'esperienza al senato proponesse; di modo che l'atto annullato per decreto degli efori, quand'anche fosse legge promulgata dal corpo legislativo, nissuno più obbligasse, ed il corpo legislativo stesso obbedisse; gli efori solo quindici giorni all'anno sedessero, ed il seder di più fosse caso di stato; niun altro maestrato esercitar potessero; stessero in grado solo un anno; fossero eletti dal popolo in ogni spartimento della repubblica, ed uno per ispartimento, e non più si eleggesse. Potessero essere eletti all'arcontato, che era la potestà suprema per l'esecuzione delle leggi, se non dopo cinque anni, dappoichè erano usciti dall'eforato; al corpo legislativo, se non dopo tre: usciti, il titolo di eforo mai non portassero. Sono questi ordini dell'eforato degni di molta lode, ed atti ad impedire nelle repubbliche, ed anche nei governi regj, che hanno qualche parte di repubblica, molte gare e sovvertimenti civili. Certamente, ove fossero confermati dall'autorità del tempo, potrebbero arrecar grande giovamento agli stati liberi. Degni anche di commendazione furono gli ordini proposti per le scuole pubbliche, i quali, mutati i soggetti d'insegnamento, potrebbero utilmente accettarsi anche nelle monarchie. Queste cose trovava Mario Pagano nel suo ingegno; il resto, il copiava dalla constituzione Francese, dando in tal modo a conoscere e la capacità della sua mente, e la servilità dei tempi. Nè debbe essere passato sotto silenzio il ragionamento, che si leggeva preposto al modello della constituzione; opera in cui tutto l'acume dei Greci ingegni si discopriva, atti sempre a pruovare principj astratti con astrattezze maggiori. Le astrattezze lusingavano gli uomini, le realtà gli sdegnavano; colpa, parte di Championnet, parte del governo, parte dei tempi. Era Championnet come abbiamo narrato, di natura buona, ma non aveva nervo tale, che potesse frenare i suoi, già avvezzi alla licenza negli stati Romani e Cisalpini: onde gl'insulti alle persone, anche ai magistrati, massime municipali, e le tolte violente erano frequenti. I popoli si sdegnavano. A questo si aggiungevano le intemperanze dei democrati più ardenti. I baroni, come aristocrati, siccome gli chiamavano, erano scherniti con dileggi aminti, o provocati con ingiurie, il che gl'inimicava, e siccome quelli che avevano una grande dipendenza sì per le loro ricchezze, e sì per l'effetto degli antichi ordini feudatari, procuravano con arti e con istigazioni nemici potenti e numerosi alla nuova repubblica. Nè solo con inconvenienti dicerie si provocarono i baroni, ma nelle tasse sforzate, che per soddisfare ai conquistatori il governo metteva, erano con brutti arbitrj aggravati, come se la opinione, e non le sostanze si dovessero tassare. Nè altra libertà di stampa vi era, se non quella d'inveire contro gli aristocrati. Aveva il governo mandato nelle provincie per far capaci le popolazioni dei vantaggi del nuovo stato, gli amatori più vivi. Questi per leggerezza, e per fissazione conforme alla stagione, trascorrevano pur troppo in ischerni ed in minacce contro gli aristocrati, e contro i preti. Spesso ancora, stimando che nei casi straordinarj le facoltà straordinarie si dovessero usare, commettevano atti arbitrarj, ora privando altrui degl'impieghi, ora della libertà, cose tutte da far rovinare facilmente ogni più forte stato, non che uno tanto tenero sui principj come era il Napolitano. Seguitava a tutte queste un'altra peste, ed era quella dei ritrovi politici, in cui giovani Infiammatissimi, ed invasati delle nuove opinioni, si adunavano a ragionare pubblicamente di cose appartenenti allo stato. Nè i mali prodotti in Francia da simili ritrovi gli rendevano savi, perchè con la medesima veemenza parlavano. Bene ogni speranza di salute è spenta, ed il fondare uno stato buono impossibile, quando i cittadini son giunti a tale che l'amore della patria collocano nelle esagerazioni; perciocchè la natura delle cose è inflessibile e resiste, e se si può vincere, solo si può col vezzeggiarla, non con l'assaltarla. Ne seguitava, che, per le immoderate cose che si dicevano in quei ritrovi, i popoli si alienavano. Peggio poi, che non era cosa che gli energumeni, violenti in tutti i paesi, violentissimi in Napoli, non dicessero, per stravagante ed eccessiva che si fosse, contro il governo proprio, e contro coloro che il componevano. Il che toglieva agli uomini dello stato con la riputazione anche la potenza. Eppure era vero, che eglino erano per dottrina, per virtù, e per amore di patria dei più ragguardevoli del regno. Adunque queste moleste e brutte improntitudini dimostravano, il che non solamente si vide in Napoli, ma ancora in tutta Italia, che non l'amore della libertà, ma l'amore della potenza muoveva coloro che le facevano. Fatto il moto contro il governo antico per ambizione, volevano anche fare il moto contro il nuovo per l'ambizione medesima, e dove questa ambizione cupidissima fosse per arrestarsi, non si può affermare, se non forse là dove un solo di questi uomini sfrenati, spenti tutti gli altri, acquistasse il dominio. Quando prevale il costume che gli uomini più eccellenti sono stimati perfidi, vili, corrotti e tirannici, solo perchè occupano le cariche dello stato e tengono i magistrati, ogni libertà diviene impossibile, e lo stato è preda degli ambiziosi. Questa è stata la principale infezione della moderna Europa, e che fu ed è cagione che la libertà non vi si possa fondare, e non so, se i posteri più rideranno di lei per le sue pazzìe, o più la compatiranno per le sue disgrazie. Tal era la condizione del governo Napolitano che odiato dagli aristocrati, biasimato dai democrati, oppresso dai Francesi, non aveva modo nè di riputazione nè di forza per operare, non che il bene della repubblica, alcun bene che fosse. Restava ai reggitori di Napoli un solo conforto, e quest'era la presenza di Championnet, sempre pronto, per quanto fosse in lui, a frenare la licenza de' suoi, ed a secondare gli sforzi di coloro, che più avevano in animo l'ordinare un buono stato, che il signoreggiarlo. Accadde, che il direttorio di Francia, il quale sapeva, che i guerrieri erano soliti a fare a modo loro, non a modo suo, aveva mandato a Napoli, per soprantendere ai frutti della conquista, una commissione civile, di cui era capo quel Faipoult, già mescolato nelle rivoluzioni Genovesi. Come prima ei giungeva a Napoli, stimando, che, quanto ai diritti di conquista ed alle esazioni, Championnet fosse stato troppo indulgente, pubblicava un editto, con cui dannando quanto il generale avea fatto, come se oltre i limiti della sua autorità fosse trascorso, affermava, che niun altro magistrato che la commissione civile aveva potestà di por le tasse, e che chi le pagasse in tutt'altra cassa, che in quella della commissione, male pagherebbe. Ad atto tanto ardito contro un capitano vittorioso non si sarebbe mosso Faipoult, se non avesse saputo, che già il direttorio cominciava a portar mala volontà a Championnet. Poscia più oltre procedendo ordinava, che in proprietà di Francia erano caduti per diritto di conquista tutti i beni appartenenti alla famiglia reale, spiegando, che in esso diritto cadevano non solamente quanto il re possedeva, come palazzi, ville, cacce e simili, ma ancora i beni Farnesiani, che erano di proprietà privata di Ferdinando, quei dell'ordine di Malta, i Costantiniani, i Gesuitici, quei destinati alle pubbliche scuole, i beni stessi dei banchi, che altro non erano che un deposito del denaro dei particolari, e tutte le casse pubbliche, e fino anche i decorsi delle contribuzioni. Così da Napoli si richiedeva un gran dispendio per l'esercito, e al tempo stesso gli si toglieva ogni fonte di rendita, per cui potesse supplire. Sdegnossi gravemente Championnet all'ardimento del commissario, e lo cacciava soldatescamente da Napoli. Era discordia tra i Francesi, discordia fra i Napolitani: tutti venivano in dispregio: il terrore delle armi solo sosteneva lo stato. Preparavasi in questo mentre un accidente molto grave contro i Napolitani. Era Championnet venuto in disgrazia del direttorio, perchè non contento allo aver rincacciato dallo stato Romano i Napolitani, avesse subitamente, non aspettati nuovi comandamenti, invaso il regno; le cose non essendo ancora rotte con l'Austria, e tenendosi ancora per gli Alemanni la fortezza di Ebrestein, forte propugnacolo di Alemagna, desiderava il direttorio di temporeggiare. A questa cagione dei tempi presenti se ne aggiungeva un'altra molto potente dei tempi futuri, ed era che Championnet si apparecchiava a fare una spedizione in Sicilia per torre al re quell'ultima parte de' suoi dominj; della qual cosa sperava poter venire facilmente a capo, sì per la poca forza che Ferdinando aveva in Sicilia, sì pel terrore impresso dalle sue armi, massime in su quel primo giungere, e sì finalmente per la efficacia delle opinioni, che credeva, che anche oltre il Faro si fossero introdotte. Le dimostrazioni di Championnet contro di quell'isola non erano segrete, e già aveva mandato soldati in Calabria sotto colore di combattere certe bande di regj, che scorrazzavano il paese. Questo intento toccava certi tasti molto reconditi. Il ministro Taleyrand voleva, che si facesse ai Borboni il minor male che si potesse. Fors'anche intrinsecamente nodriva il desiderio di vedergli ristorati in Francia. Alcuni suoi parenti, ricoverati in Sicilia, lo tenevano, siccome corse fama, con avvisi segreti bene edificato verso la famiglia reale di Napoli, ed instantemente gli raccomandavano il re Ferdinando. Per la qual cosa egli, che molto acconciamente sapeva far queste cose, accennando col direttorio in un luogo col pretendere il motivo, che bisognasse frenare quello spirito ambizioso di Championnet, e battendo veramente in un altro, aveva operato che il direttorio rivocasse il generale. A questa medesima risoluzione cooperarono i desiderj di Macdonald, che dopo l'invasione del regno, in cui aveva combattuto tanto egregiamente, ed acquistata principalmente Capua, se ne viveva in poca concordia col generalissimo; e siccome quegli, che uomo valoroso era, ambiva molto, e forse troppo di mostrarlo. Lasciate le sue squadre vincitrici, partiva Championnet libero da Napoli; ma, arrestato fra Napoli e Roma, fu condotto, prima nella cittadella di Torino, poi in Francia: il volevano processare sì per le anzidette cagioni, e sì per aver cacciato Faipoult. Prese Macdonald il governo supremo dei Francesi; tornò Faipoult in Napoli ad estenuare i miseri Partenopei. Mentre si travagliava con poco frutto nella capitale per la repubblica, moti di grandissima importanza accadevano nelle provincie. Non amavano i baroni il nuovo stato, manco ancora i Francesi, e siccome tutti avevano bande di bravi, che da loro dipendevano, uomini audacissimi, ed alcuni facinorosi, le spingevano a tentare rivoluzioni contro coloro che dominavano. Gli ecclesiastici, che non ignoravano, che sebbene fossero vezzeggiati in quei primi principj del governo, erano da lui veduti malvolentieri, con le maggiori persuasioni che potessero, promuovevano le inclinazioni contrarie. Molti soldati vecchi del re, non essendosi voluti accomodare al dominio dei nuovi signori, si erano ritirati nei luoghi più lontani ed inaccessi: quivi attendevano a fomentare discordie e sollevazioni. A questi si accostavano molti altri uffiziali e soldati dell'esercito regio, i quali dopo di essersi dimostrati pronti a servire i repubblicani, da loro non curati, o per necessità per la penuria dell'erario, o perchè non se ne fidassero, si erano sdegnosamente partiti, e condottisi nelle province, quivi con le parole incendevano, e con la presenza animavano le popolazioni ad insorgere. Tutti questi erano anche confortati da qualche corpo di gente armata, che dopo l'occupazione di Napoli, o si erano ritirati interi, od erano mandati dalla Sicilia appunto coll'intento di sostenere quei moti, che si manifestavano sulla terraferma in favore della potestà regia. A questi motivi tanto potenti si aggiungevano i romori che correvano delle armate Turche e Russe, che dovessero fra breve arrivare nell'Adriatico con grossi soccorsi di genti da sbarco in favore dei regj. Era vero infatti che, conclusa la pace tra la Russia e la Turchìa, aveva un'armata Russa passato i Dardanelli, e congiuntasi con quella del gran signore si era impadronita di tutte le isole Veneziane dell'Arcipelago o dell'Ionio, aveva posto assedio alla principale di Corfù, e principiava a mostrarsi sulle spiagge del regno. Questi ajuti parte veri, parte ancora esagerati dalla fama, mirabilmente infiammavano i popoli a proseguire i disegni, che già avevano concetti. Tanto era l'odio che si portava al nuovo stato, che popoli cattolici, condotti da vescovi e da preti, volonterosamente si univano a genti scismatiche e maomettane per ispegnerlo. Dimostravano quanto fossero deboli nelle province i fondamenti del governo nuovo i successi avuti nelle terre d'Otranto e di Bari da alcuni fuorusciti Corsi, che sulle prime avevano maggior desiderio di fuggire, che di combattere; conciossiachè trovavansi eglino in Taranto ad aspettare un vento propizio per Corfù o per Trieste, quando vi fu bandita la repubblica e per timore se ne fuggirono per la strada di Monteasi alla volta di Brindisi. A Monteasi, detto ad una donna che gli alloggiava, per procurarsi miglior servizio, essere con loro il principe ereditario, spargevasene la voce, un Girunda contadino, uomo di seguito nella terra, gli secondava, la provincia si levava a romore, tutti gridavano; _viva il re_, _muoja la repubblica_. Arrivavano questi Corsi, piuttosto portati dalle spalle dei popoli, che da se, a Brindisi, dove il supposto principe dava ordini; i popoli gli obbedivano, come se principe fosse. S'imbarcava per la Sicilia, promettendo di andare dal re suo padre, perchè mandasse genti soccorritrici alle fedeli popolazioni. Lasciava, come esecutori de' suoi comandamenti, due suoi generali, come diceva, i quali altri non erano che due oscuri Corsi per nome Boccheciampe, e de Cesare. Si fermava il primo nella terra di Otranto, sottomessa la città principale di Lecce; se ne giva il secondo a far tumultuare la terra di Bari, soggiogate in sul correre Martina ed Acquaviva, terre, che si erano scoperte favorevoli alla repubblica. Insomma il moto fu d'importanza: accorrevano buoni, e cattivi, nobili, plebei, laici, ecclesiastici, e da un accidente fortuito nasceva un gran fondamento a far risorgere in quelle parti l'autorità del re. Quasi al tempo stesso sbarcava con poche genti a Reggio di Calabria il cardinale Ruffo, al quale il re aveva dato facoltà amplissime, chiamandolo suo vicario. Il secondavano il preside della provincia Winspear, e l'uditor Fiore. Scrivono alcuni, che il cardinale desse anche a voce, che fosse fatto papa. Ciò dissero di lui, perchè lo credevano capace di dirlo. Questo debole principio in poco spazio di tempo cresceva a dismisura, e produceva un moto, che fu cagione di accidenti di grandissimo momento. Primieramente nella ulteriore Calabria, per le aderenze che la sua famiglia vi aveva, trovava il cardinale molto seguito: poi qualche nervo di truppa reale gli si aggiungeva, e finalmente chi voleva il re, o le vendette, o il sacco, a lui cupidamente si accostava. Guadagnò prima le campagne, poscia le terre aperte, finalmente le murate, e tanto crebbe la sua potenza, che presi Mileto, Monteleone e Catanzaro, riduceva in poter suo tutta la Calabria ulteriore. Il cardinale Zurlo Capece, arcivescovo di Napoli, lo scomunicava, ed egli scomunicava l'arcivescovo. Nè contenendosi nelle parole, anzi seguitando il corso favorevole della fortuna, assaltava Cosenza, capitale della Calabria citeriore, e quantunque ella fosse una forte sede di repubblicani, dopo una battaglia assai feroce, se ne impadroniva. Prese, non senza una ostinata difesa, Rossano, prese Paola, bellissima città di Calabria, la prese, e l'arse per l'animoso contrasto fattovi dai repubblicani; quest'era la pessima delle guerre civili. Ruffo prevaleva; il terrore l'accompagnava, e gli dava in mano tutte le Calabrie insino a Matera. Quivi si congiunse con de Cesare, sommovitore della provincia di Bari. Tumultuando le Calabrie, non si mostravano le province, anche le più vicine a Napoli, più quiete: gente sfrenata guidata da capi ancor più sfrenati commettevano, sotto specie di voler rinstaurare il governo regio, e difendere la religione, atti della più eccessiva barbarie. Uno Sciarpa antico soldato, uomo tanto audace, quanto feroce, aveva posto a romore le rive del Sele, tempestando fin sotto alle mura di Salerno, non che gl'importasse del re, ma, siccome quegli che si gettava volentieri ai partiti estremi, disprezzato dai repubblicani, ai quali si era offerto, si vendicava della repubblica sotto nome di affezione al governo regio. Fecero i Lucani quanto per loro si era potuto, per impedire la congiunzione di Sciarpa con Ruffo, ma si sforzarono indarno, perchè niun soccorso arrivava loro da Napoli; così le sommosse si dilatavano. Dalla parte della Campania era sorto in Sora un moto pericolosissimo, suscitato specialmente da un Mammone Gaetano, prima mulinaro, poi capo dei sollevati di Sora. Commise costui opere indegnissime. Uccise con palle soldatesche più di cento prigioni fatti in guerra, saccheggiò, ed incese più terre, che tutti gli altri capi delle sollevazioni insieme; aveva carceri orribili, inventava tormenti nuovi, e nuove fogge di morti: per avvezzarsi al sangue, come se bisogno ne avesse, beveva salassato il sangue proprio, si pasceva in cospetto di teschi sanguinosi, beveva in un cranio: si dilettava di lamenti d'uomini tormentati, purchè repubblicani fossero ed anche qualche volta, ancorchè repubblicani non fossero, e cercava pretesti per isfogare l'incredibile sua barbarie: questi erano gli stromenti, che ajutavano Ruffo a riporre in seggio il re. Dall'altra parte dell'Apennino incrudeliva Proni con le sue Abruzzesi bande, risorto a nuovo furore, perchè Duhesme e Lemoine si erano condotti sotto le mura di Capua e di Napoli. Ma la più pericolosa e più importante sommossa, dopo quella del cardinale, ardeva nella Puglia, sì perchè era molto grossa per se, sì perchè a lei si erano congiunti gli Abruzzesi, sì perchè alle Pugliesi rive avevano adito le armate Russe, Ottomane ed Inglesi, e sì finalmente perchè la Puglia per la feracità delle sue terre nodrisce la popolosa Napoli. A questo modo, non ostante la gloriosa vittoria di Championnet, da Napoli in fuori, e da alcune rare terre nelle provincie, in cui i repubblicani si difendevano piuttosto con valore smisurato, che con isperanza di vincere, tutto il paese si era commosso a favore dal re, quantunque i modi, che si usavano, non fossero degni nè del re, nè di alcun altro governo che sia al mondo. Pressavano massimamente le cose della Puglia per motivo delle vettovaglie. Inoltre diminuivano i Francesi per tanto ardimento dei popoli, continuamente di riputazione, ed ogni giorno più si rendeva necessario, che con qualche nuovo e segnalato fatto mostrassero, che non era cessato in loro per le delizie di Napoli il valore, e che da quella opinione si riscuotessero, in cui erano venuti, che se san bene resistere e vincere gli eserciti giusti ed ordinati, non sanno parimente resistere e vincere, quando vengono alle mani con popoli sollevati. Per la qual cosa erasi deliberato Championnet (queste cose accadevano prima della sua partenza), a fare due spedizioni, una contro la Puglia, massime contro San Severo e Trani, dove erano le adunate più forti dei sollevati, l'altra contro la Calabria, quella principalmente per vincere, questa per contenere. Commetteva la prima alla fede ed al pruovato valore di Duhesme, che era suo aderente molto affezionato, la seconda al generale Olivier, dedito a Macdonald, emolo di Championnet. Accompagnava Duhesme, da parte del governo Napolitano con una legione Napolitana, ma con le compagnie ancor non piene, il conte Ettore di Ruvo, che già sopra abbiam nominato, giovane d'incredibile ardire, d'animo feroce, e capace di tentare qualunque più difficile e pericolosa impresa. Già fin quando era ancora in Napoli lo stato regio, si era il conte Ettore mostrato amante di novità, e mescolato in varie congiure, ancorchè fosse maggiordomo del re, e suo padre primo maggiordomo di corte. Era nemicissimo di Medici, aveva fatto stampare in Napoli la constituzione di Robespierre. Scoperte le sue trame, le quali anche poco ascondeva, per la sua natura animosa e temeraria, fu carcerato in castel Sant'Elmo per opera di Medici; ma una fanciulla, figliuola di un ufficiale del presidio, innamoratasi di lui, il calava con corde per le mura del castello, poi pel monte molto dirupato. Ricoverossi in casa di alcuni suoi parenti in Portici; poi per sentieri rimoti ed ermi arrivava a salvamento in Milano. Quivi, siccome quegli che molto entrante era ed animoso, piacque ai Francesi, e venne in grazia con Joubert, che conosciuta l'indole del giovane, giudicò, che fosse stromento potente a turbare, quando che fosse, le cose di Napoli. Infatti quando Championnet si mosse alla spedizione, Joubert mandò con lui il conte Ettore, e per mezzo suo fu facilitata la conquista del regno, massimamente quella della capitale. Ora il governo Napolitano, conoscendo la natura indomabile e irrequieta di quest'uomo, che sempre pasceva l'animo di pensieri smisurati, e si mostrava più inclinato a comandare che ad obbedire, il mandava con Duhesme in Puglia, dove erano le sue terre, sotto colore che trovandosi in paese proprio, e pieno di parenti e d'amici, vi facesse gente. Fecevi gente in verità, e per pagarla, poichè ai mezzi non guardava, ma solo al fine, e neanco se questo fosse giusto o no, che ciò poco gl'importava, pose taglie, e fece depredazioni incredibili, non considerando nè come, nè contro chi, o repubblicani, o regii che si fossero: soldati e denaro per pagargli, questo solo voleva. Il governo aveva qualche sospetto di lui: eppure era egli il solo uomo capace di puntellare quello stato cadente: l'avrebbe anche fatto, ma forse per se, non per la repubblica. Pure da cosa nasce cosa, e primo pensiero dei repubblicani doveva esser quello di tener lontano il re. Accompagnava Olivier per alla volta della Calabria uno Schipani, piuttosto repubblicano ardente, che buon soldato, e non di natura tale, che potesse star a fronte dell'audace Sciarpa, e dell'astuto ed animoso cardinale. Se le guerre con le parole si vincessero, avrebbe questo condottiere repubblicano potuto vincere; ma altro è parlare in aringa, altro veder in viso il nemico, non ch'ei non avesse animo, che anzi era coraggiosissimo, ma non conosceva le guerre. Partivano Duhesme ed il conte Ettore: marciavano cauti per paura d'agguati e d'assalti improvvisi in un paese sollevato: marciavano spigliati e divisi per ispazzare largamente il paese: con loro, e con ciascuna schiera marciavano le diete, o vogliam dire i consigli militari, sempre pronti a dannare a morte gli autori delle sollevazioni. Molti presi furono, ed incontanente uccisi. Così dall'un cauto Duhesme ed il conte Ettore incrudelivano coi supplizi contro i regj, dall'altro Sciarpa, Mammone e Ruffo incrudelivano anche coi supplizi contro i repubblicani. Le ire erano crudeli, le vendette terribili; le ire chiamavano le vendette, le vendette le ire. Era disegno del generale Francese, prima, di pacificar il paese tra Napoli e la Puglia, poi di andar a disfare quella testa grossa di regj a San Severo. Aveva con se preti e vescovi, che predicavano per la repubblica, gli avversari avevano preti e vescovi, che predicavano pel re: il fanatismo religioso si mescolava alla rabbia civile. Marciava Duhesme spartito in tre colonne, una per Avellino, Ariano e Bovino alla volta di foggia: l'altra per Arienzo, Benevento e Troia a Lucera: la terza, che era il retroguardo, per la strada di Arienzo, Benevento, Ariano e Bovino a Foggia. Troia, Lucera e Bovino, deposte le armi, si davano in potestà dei repubblicani. Foggia, che abbondava di repubblicani, lietissimamente riceveva i Francesi. Barletta e Manfredonia, che assaltate dai regj pericolavano, furono preservate. Ma tumultuavano tutti i popoli all'intorno per le speranze di San Severo, nè altre terre possedevano i repubblicani che quelle, in cui avevano le stanze. Perlocchè si deliberava Duhesme ad andare all'assalto di San Severo, perchè, distrutto quel nido principale, sperava, che gli altri si sottometterebbero. Erano i regj in San Severo grossi di dodici mila combattenti fra soldati vecchi, e gente collettizia. Prese le stanze sopra un monte fecondo di ulivi, dominavano tutta la pianura sottoposta, che avevano assicurata con cavalleria e cannoni piantati contro la stretta, che alla pianura medesima apriva l'adito. Accorgendosi i regj che i repubblicani si distendevano a sinistra per assaltargli di fianco ed alle spalle, si calarono con grandissimo ardire, ed attaccarono con loro una sanguinosissima battaglia. Da sì sfrenati sdegni credevano alcuni dover sorgere il governo regolato del re, ed il governo libero della repubblica. Durò lunga pezza la battaglia con grave uccisione da ambe le parti, perchè il valore era uguale nei due eserciti nemici, e se prevalevano i regj di numero, prevalevano i repubblicani di perizia. Infine andarono i primi in volta per lo scontro più efficace delle genti regolari, e già al punto stesso il generale Forest arrivava loro alle spalle. Allora fuvvi piuttosto carnificina che uccisione, perchè i regj avviluppati e rotti male si potevano difendere, ed i repubblicani con una rabbia incredibile intendevano ad ammazzare. Tre mila sollevati vi perdettero la vita: tutti, o la più parte, l'avrebbero perduta, se una moltitudine di donne e di fanciulli in abito squallido e lugubre, miserando spettacolo, non fosse venuta a chiedere umilmente ed instantemente al vincitore la vita dei padri, dei mariti e dei figliuoli loro. Piegavasi Duhesme a misericordia, quantunque fosse molto sdegnato, e comandava che cessassero le ferite e le morti. Senza questa pietà nuova, intenzione era di ardere San Severo, nel che aveva anche per confortatore il conte di Ruvo, perchè ed era San Severo sede principale della sollevazione, ed avevano i San Severini, per la rabbia delle opinioni, ucciso alcuni preti ed il vescovo stesso, perchè parteggiavano pei Francesi e per la repubblica; ma il fatto parve a Duhesme troppo orribile, essendo San Severo terra grossa e fiorita, però se ne rimase mosso anche dai pianti e dalle preghiere degli abitatori. La fama della vittoria di San Severo ridusse ad obbedienza le contrade vicine, il monte Gargano, i monti Liburni, Corvino e Lecce stessa: aperse anche le strade per Pescara, cosa di molta importanza pei Francesi. Restava in poter dei regj la città di Trani, con la quale ancora consentivano Andria e Molfetta. Le nimichevoli inclinazioni erano tenute vieppiù vive dalla vista delle navi Russe e Turche, che correvano l'Adriatico. Avrebbe desiderato Duhesme acquistare quelle terre alla repubblica; ma dappoichè licenziato Championnet, aveva Macdonald assunto il governo, non solo Duhesme era stato richiamato dalla Puglia, ma ancora gli fu comandato che ritirasse le genti appresso a Napoli. Le quali cose saputesi dai regj, inondavano di nuovo la provincia, e tagliavano le strade della Puglia a Napoli. Solo Foggia continuava a tenersi, per la forza dei repubblicani che vi erano dentro: pure era in pericolo di perdersi, se non si soccorreva. Fu ben forza allora, se non si voleva che Napoli affamasse, il pensare a riconquistar le terre perdute, ed a rompere quella testa di regj, che si era adunata in Trani. Era Trani, come anche Andria, munita con fortificazioni vecchie e nuove: le porte, eccetto una sola, murate, e chiuse con un fosso ed un parapetto, le contrade rotte, e serrate con fossi e con isteccati, le case merlate, le porte abbarrate, pieno tutto d'uomini armigeri, rabbiosi e risoluti al difendersi. S'incominciava l'assalto da Andria; in tale modo Broussier, al quale era commessa la cura di tutta questa impresa, l'ordinava. Doveva il conte Ettore, che era intento in questo fatto per esser Andria sua patria (le cose che fece, e che disse quest'uomo tremendo, secondo l'impeto delle sue cupidità, e tirato da fini smisurati, non si potrebbero raccontare così facilmente), assaltare con la sua legione, e con pochi Francesi la porta Comozza, Ordonneau quella di Barra, Broussier quella che accenna a Trani: ad estremo pericolo era per succedere estrema barbarie. Incominciò la battaglia con furor civile da ambe le parti; gli assalitori combattevano con egregio valore, ma con non minor animo si difendevano gli assaliti; nè i primi facevano frutto di momento. Già venivano alle scale, cimento per essi molto pericoloso, quando il tirar di un obice atterrava la porta di Trani. Precipitaronvisi i Francesi condotti da Broussier; a loro si accostavano i Napolitani condotti dal conte Ettore, ed i soldati stessi di Ordonneau, che avevano fatto infelice pruova delle loro armi per la ostinata resistenza dei difensori alla porta di Barra; fattosi da tutti insieme un impeto, entrarono sforzatamente. Continuarono ciò non ostante a difendersi furiosamente da tutte le case i regj, scagliando dai tetti e dalle finestre ogni sorte di armi sopra gli odiati repubblicani. Ogni casa era fortezza, i difensori più che uomini. Non venne la città intieramente in poter dei repubblicani, se non dopo che tutte le case, le contrade, le piazze furono piene di cadaveri e di sangue. Nè tante morti, nè tanto sangue bastarono: non fu contento il destino, se non alla distruzione totale della misera terra. Irritati i vincitori dalla resistenza, dalle ferite proprie, e dalla morte di tanti compagni, fecero quello da che avrebbero dovuto abborrire, e che quantunque sia solito a vedersi nelle guerre civili, e nelle piazze prese d'assalto, non iscusa per questo, anzi accusa la barbarie degli uomini. Seimila Andriotti furono in poco d'ora mandati a fil di spada, la città intiera data alle fiamme; i vecchi, le donne, i fanciulli soli, e neanco tutti, furono risparmiati. Le ceneri e le ruine d'Andria attesteranno ai posteri, che gl'Italiani non son vili nelle battaglie, e che la umanità era del tutto sbandita dalle guerre civili di Napoli. Forestieri antichi, forestieri moderni, e talvolta i paesani stessi straziarono l'Italia, e se ella è ancor bella, certamente non è colpa degli uomini. Trani tuttavìa si teneva pei regj, nè lo sterminio d'Andria l'intimoriva. Città con bastioni, con un forte, con ottomila difensori usi alle armi, ed accesi dalla rabbia civile e religiosa, pareva piuttosto atta a pigliarsi per assedio, che per assalto. Ma il tempo stringeva, ed i repubblicani, sì Francesi che Napolitani, erano pronti a qualunque più pericolosa fazione. Andavano all'assalto di Trani nel seguente modo ordinati da Broussier. I Napolitani da una parte, una banda di Francesi dall'altra facevano le viste di dare la batterìa sui fianchi, mentre Broussier conduceva i suoi a dare il vero assalto all'altra parte della terra. Ma i regj, essendosi accorti del disegno, si assembrarono grossi ad aspettarlo al luogo destinato. Ardeva la battaglia, e succedevano molte morti, senza frutto alcuno per l'esito del fatto, da ambe le parti. In questo mezzo tempo i difensori, tutt'intenti a tener lontani dalle mura gli assalitori, indebolirono le difese di un fortino situato a riva il mare: della quale occasione prevalendosi tosto i repubblicani, se n'impadronirono, e voltarono i suoi cannoni contro la città. Questo grave accidente sconcertò le difese: già i repubblicani, non senza però molto scempio loro, perchè si sforzavano contro una tempesta assai fitta di palle, saliti sulle mura facevano inchinar la fortuna a loro favore. Tuttavia i regj continuavano a difendersi ostinatamente, essendo, come in Andria, ogni casa ed ogni contrada fortezze. Sarebbe stata ancor lunga e sanguinosa la battaglia, se Broussier non avesse avvisato di far salire, rotte le porte delle prime case, i suoi sopra i terrazzi, che coronano per l'ordinario le case in quei paesi. Per tale modo di terrazzo in terrazzo andando, dall'alto all'imo combattendo, i repubblicani sforzavano i regj a sgombrare successivamente le case, e già da quei luoghi sublimi si avvicinavano al grosso forte di Trani. Come poi accosto a lui furono giunti, si attaccò fra di loro ed i difensori che dai luoghi superiori del forte combattevano, una battaglia strana e quasi aerea. Sparso molto sangue in una pertinacissima difesa, i regj, assaliti donde non aspettavano, abbandonavano il forte, e si davano a correre alle navi, che nel porto erano allestite, per fuggire. Ma nemmeno in questo trovarono scampo; poichè Broussier, avendo preveduto il caso, aveva armato alcune navi, che vietarono loro il passo. Alcune delle regie furono prese per assalto, altre andarono a traverso sulla spiaggia. Chi fuggiva sul lido era senza misericordia, e remissione alcuna ucciso dai trionfanti repubblicani. Fu la bella città di Trani, come Andria, data al sacco ed alle fiamme: de' suoi abitatori, quelli, che o portavano, o potevano portar armi, mandati a fil di spada; carnificina orribile di guerra civile, nè fia l'ultima che noi avremo a raccontare. Quietava, ma non del tutto, la Puglia per queste vittorie; nuove adunazioni di genti regie si facevano a Bitetto ed a Rutigliano, non molto minacciose pel presente, molto per l'avvenire. Schipani mandato a combattere i sollevati, ed a sopire le cose di Calabria, non solo non vi fece frutto, ma ancora vi nocque, perchè e conflisse infelicemente, ed irritò con parole ed atti repubblicani molto estremi le popolazioni, non che troppo incrudelisse, ma perchè troppo provocasse. Prese sul primo impeto Rocca di Aspide e Sicignano; ma assaltata la terra di Castelluccio, forte pel sito, e per la pertinacia di chi la difendeva, ne fu risospinto con grave perdita di soldati e di riputazione. Per questo infelice caso non gli giovarono gli sforzi di Campagna, Albanella, Controne, Postiglione, e Capaccio, terre che parteggiavano fortemente per la repubblica, e fu costretto a ritirarsi. I sollevati di questa provincia ebbero facoltà di unirsi con le bande del cardinal Ruffo, sicchè, pochi luoghi eccettuati, le Calabrie e la terra di Bari sollevate a romore impugnavano coll'armi in mano la recente repubblica. Nè i Francesi potevano porvi rimedio, perchè non si fidando degli Abruzzi, nè della Campania, e nè anco della città stessa di Napoli, nè bastantemente forti di numero essendo, pensavano piuttosto a mantenersi nella capitale, che a conquistare le provincie. Schipani, tentate invano le Calabrie, se ne giva a far guerra contro i sollevati di Sarno, che più vicini a Napoli tumultuavano. Vi fece opere repubblicane secondo i tempi; esortava, confortava, esaltava il governo della repubblica, e per passatempo ardeva i ritratti del re e della regina dove gli capitavano alle mani. Ma fu lasciato dire, e i popoli gridando viva il re, lo combatterono per guisa che fu costretto ad andarsene. Vi si condussero i Francesi; saccheggiarono Lauro, poi se ne tornarono ancor essi, non vinti, ma più inviperiti i Sarnesi ed i Lavriani. Si unirono questi ai sollevati delle vicine contrade di Salerno, e di già una grandissima necessità stringeva la capitale del regno. Accresceva il pericolo l'avere gl'Inglesi occupato, non senza un valoroso fatto di Francesco Caracciolo, che gli combattè per molte ore, le isole d'Ischia e di Procida, che, per esser situate alle bocche del golfo di Napoli, ne danno la signorìa a chi le tiene. Così ardeva la sollevazione contro il governo nuovo nella maggior parte del regno, e s'incominciava a temere, che l'impresa di Championnet fosse stata più imprudente che audace. Opere di estrema barbarie furono commesse da ambe le parti alla Fratta ed a Castelforte, perchè prima i regj poscia i repubblicani vi uccisero spietatamente ogni corpo vivente, e le case, e gli edifizj tutti distrussero ed arsero. Guerra crudelissima era questa, siccome portava la qualità dei tempi, l'indole ardentissima degli abitatori e la natura sempre estrema delle opinioni politiche e religiose. Si vedevano padri combattere contro i figliuoli, figliuoli contro i padri, fratelli contro i fratelli, e perfino mariti contro le mogli, e mogli contro i mariti. Nè i preti si ristavano; perchè preti repubblicani, combattevano contro preti regj, preti regj contro preti repubblicani, e la croce, ed il vessillo di Cristo l'uno contro l'altro cozzavano nelle sanguinose battaglie. Pretendevano questi e quelli parole di vangelo alla impresa loro, gli uni chiamandolo pieno di precetti democratici, gli altri affermando, che quel dettato divino aveva statuito, niun'altra cosa essere al mondo, che chiesa e Cesare, e quello che della chiesa non è, essere, non del comune, ma di Cesare. Per atterrire chi atterriva, Macdonald mandava fuori addì quattro marzo un aspro e furioso decreto, nuovo esempio del quanto le rivoluzioni stravolgano gli uomini. Incominciato con dire, sapere, che uomini prezzolati dagl'Inglesi, e dai furti di una corte infame e perfida, correvano le città e le campagne per traviare il popolo, e stimolarlo alla ribellione, e che preti fanatici ordinavano trame per ispegnere il governo, ed ammazzare i repubblicani, veniva ordinando, che ogni comune che si sollevasse, sarebbe tassato soldatescamente e soldatescamente trattato; che i cardinali, gli arcivescovi, i vescovi, gli abati, i parochi, e tutti gli altri ministri della religione, fossero tenuti personalmente dei tumulti e delle ribellioni; che ogni ribelle preso coll'armi in mano fosse incontanente fatto passar per l'armi; che ogni prete, o ministro della religione che fosse arrestato in qualche unione di sollevati, fosse anch'egli fatto morire senza processo; che fosse autorizzato il governo ad arrestare i sospetti; che chi denunziasse, o facesse arrestare un fuoruscito Francese, od un agente dello scaduto re di Napoli, avesse una larga ricompensa, ed il suo nome non si palesasse; che similmente chi un magazzino segreto di armi sì da fuoco che bianche denunziasse, si ricompensasse; che quando battesse la raccolta, ognuno tostamente si ritirasse; che in caso di terrore improvviso le campane non si potessero suonare, e ne andasse la vita a chi le suonasse, ed essere a ciò tenuti tutt'insieme i preti, i religiosi, e le religiose; che chi spargesse false novelle, fosse punito come ribelle, e chi le propagasse, come sospetto si arrestasse e si esiliasse; che a chi fosse dannato a morte, si sequestrassero e confiscassero i beni sì mobili che stabili a benefizio delle repubbliche Francese e Napolitana; che ogni licenza di cacciare si intendesse abolita, e chi fosse trovato con un fucile da caccia, come ribelle fosse punito; che di nuovo egli protestava, e confessava di portar rispetto alla religione ad al culto, e prometteva, che sotto la protezione vivrebbero sì i suoi ministri, come le proprietà e le persone; che infine i magistrati eseguissero questi suoi comandamenti, ed i parochi gli leggessero dal pulpito. Nè contento a questo pubblicava il generalissimo Macdonald il dì nove del medesimo mese un manifesto molto eccessivo contro il re per animare i popoli a difendersi contro le truppe ed i sollevati regj; imperciocchè il re aveva fatto sapere, che fra breve sarebbe tornato nel regno. Il pericolo delle sollevazioni popolari contro i governi repubblicani instituiti in Italia, e contro i Francesi, si accresceva vieppiù dalle sommosse, che nate ora in un luogo ed ora in un altro travagliavano lo stato Romano. Tumultuavano i popoli di Terni e dei luoghi vicini, ed impedivano le strade fra Terni e Spoleto, e quantunque il generale Grabruschi co' suoi Polacchi si affaticasse per sottomettergli, non poteva venirne a capo, perchè spenti in un luogo pullulavano in un altro, e già Rieti pericolava. Civitavecchia si era ribellata contro i nuovi signori; durò un pezzo il generale Merlin a sottometterla, ancorachè con palle infuocate la combattesse. Stroncone, e Alatri parimente romoreggiavano; Orvieto anch'esso aveva fatto mutazione, ed ostinatissimamente si difendeva contro i repubblicani. L'incendio si dilatava: ogni luogo era o mosso con le armi impugnate, o poco sicuro anche nella quiete. Non ostante i pericoli, che correvano, il direttorio di Francia, o non curandogli, o facendo sembianza di non curargli, si era risoluto a far mutazioni nel governo di Napoli. Sapeva, che il commissario Faipoult non era grato all'universale, e che Championnet sul suo primo giungere non aveva ordinato le cose per modo che nè per l'opinione nè per la forza potessero partorire quegli effetti ch'egli desiderava. Si aggiungeva, che le grida, le vociferazioni, le calunnie di coloro che ambivano le cariche, contro quelli che le avevano, e principalmente contro i membri del governo, avevano fatto perder loro, od almeno ai più, ogni riputazione. Tutto questo considerando il direttorio, aveva mandato a Napoli un uomo pratico e dabbene, acciocchè riordinasse ogni cosa, e con le virtù sue rattemperasse gli sdegni produtti dalle insolenze dei precedenti commissari ed agenti, rimedio buono, se fosse stato accompagnato dalla libertà, non in parole, ma in fatti, e se fossero stati lontani i pericoli. Arrivava in Napoli Abrial, commissario del direttorio, il quale prevalendosi dei buoni si sforzava di consolare gli uomini afflitti dai tempi tristi. Tentò riforme nelle finanze, e fecene delle lodevoli. Gli ordini giudiziali molto migliorava; gli ordini politici, non avendo il mandato libero, stabiliva a modo di Francia, non avuto alcun riguardo al modello della constituzione proposto dalla congregazione Napolitana, e di cui abbiamo sopra parlato. Creò fra gli altri un direttorio, imitazione servile. Ma quel che l'ordine aveva in se di cattivo correggeva con le persone. Chiamovvi Ercole d'Agnese, Ignazio Ciaia, Giuseppe Abbamonti, Giuseppe Albanese, e Melchior Delfico, uomini tutti migliori dei tempi, e di non ordinaria virtù. Certamente, se i fatti non fossero stati tanto contrari, e se una nuova piena non fosse venuta a sobbissare l'Italia dal settentrione, avrebbe questo buon Francese corretto in Napoli quanto il soldatesco furore, e la civile cupidigia vi avevano guasto e corrotto. Diede egli pruova notabile, tacendo le altre, dell'animo suo civile, quando Macdonald mandava i suoi soldati a ridurre agli ultimi casi Sorrento, patria di Torquato Tasso, che in quelle Sarniane e Salernitane rivoluzioni si era levata a romore contro i Francesi; imperciocchè operò col generale che la casa dei discendenti della sorella del poeta, quando la terra fosse presa d'assalto, salva ed intatta si conservasse. Diè molto volentieri Macdonald, ed a modo di generosa gara con Abrial, ordini accomodati al comandante della fazione, acciocchè l'effetto seguisse. Fra le uccisioni, gl'incendj e le ruine dell'infelice Sorrento, pruovarono i discendenti del cantore di Goffredo, quanto potessero in animi civili la memoria, ed il rispetto verso quel principal lume dell'Italiana poesia. Vollero riconoscere la conservata salute, offerendo a Macdonald, perchè non sapendo di Abrial, a lui la riferivano, il ritratto del Tasso dipinto dal vivo, come si crede, da Francesco Zuccaro. Il ricusava Macdonald, facendo certa la salvata stirpe dell'autore primo del benefizio, ed essa, l'immagine del poeta salvatore ad Abrial offerendo, pagava con segno di gratitudine unico al mondo un immenso beneficio. L'accettava di buon animo Abrial, e molto caro se lo serbava, e tuttavia serba, dolce e pietosa conquista; e volesse pure il cielo, che i repubblicani di Francia non altre conquiste che di questa sorte avessero mai fatte in Italia! Il piacer non dura nello scrivere le storie dei nostri tempi. Restava, che i due fiori d'Italia, dico Lucca e Toscana, si guastassero. Di Lucca dirò adesso, di Toscana più sotto. Entrava sul principiar dell'anno in Lucca accompagnato da quattrocento cavalli Serrurier, che tornava dalla Toscana: tosto si pubblicava le solite lusinghe dell'esser venuto non per distruggere il governo, ma per fare, che si portasse rispetto alle persone, alle proprietà, ed alla religione, come se queste cose non si rispettassero in Lucca, e bisogno avessero di soldati forestieri, perchè si rispettassero. Il fine primo, ma non primario, dell'invasione Lucchese era il pretesto di due milioni di franchi, che dai Lucchesi si richiedeva, pei servigi dell'esercito: poi si voleva venire alla mutazione del governo, benchè le parole suonassero in contrario; nè pareva, nè era cosa possibile, che in mezzo a tante romorose democrazìe una quieta aristocrazìa si conservasse. Già Lucca era serva, poichè l'antico governo stesso non poteva più pubblicare ordine alcuno, se non appruovato da Serrurier: quest'era il rispetto che si portava all'independenza. Miollis succedeva a Serrurier; poi i repubblicani vi s'ingrossavano. Infine, stimolata dalla presenza loro, verso la metà di gennajo tumultuando la parte democratica, condotta da un Cotenna, addomandava l'abolizione della nobiltà e l'instituzione dello stato popolare; non v'era modo di resistere per le insidie cittadine e forestiere. Si restrinsero i nobili per consultare, piuttosto atterriti che deliberanti, e cedendo al tempo, stanziarono, che fosse abolita la nobiltà, che il popolo Lucchese riassumesse la sovranità, che dodici deputati si eleggessero per ordinare una constituzione democratica secondo il modello di quella, che reggeva Lucca prima della legge Martiniana. Furono eletti Giacomo Lucchesini, Paolo Garzoni, Cosimo Bernardini, Alessio Ottolini, Lelio Manzi, Vannucci, Pellegrino Frediani, Rustici, Pio Poggi, Paoli, Samminiati, Francesco Burlamacchi; la maggior parte nobili, che non erano alieni dal voler ritrarre lo stato ad una forma repubblicana più larga, ma conforme piuttosto agli ordini Lucchesi che ai Francesi. I democrati pazzi non vollero udire parole Italiche; però fecero accettare le forme Francesi. Nacquero adunque nella mutata Lucca, come in Francia, a Milano, a Genova, a Roma, i due consigli col direttorio. Incominciossi a dar mano a spogliar l'erario di denaro, le armerìe di armi, i granai di vettovaglie, in poco d'ora i frutti dell'antica e mirabile provvidenza Lucchese furono dissipati e guasti: le vettovaglie si mandarono in Corsica ad uso dei presidj, le artiglierìe, sopra tutt'altre bellissime, a far corpo con quelle dell'esercito Francese, massime ad assicurare il golfo della Spezia. Lucca serva principiò a parlare con lingua servile, e non so, se sappiano più di adulazione, o di sconcio di lingua Italiana gli atti del governo Lucchese di quei tempi. Quindi vi sorsero le parti, perchè chi voleva vivere Lucchese, e chi unito alla Cisalpina. Si arrosero le solite tribolazioni di dover vestire, pascere, alloggiare, pagare i soldati forestieri, che andavano, e venivano, o stanziavano, ora Liguri, ora Cisalpini, ora Francesi, con molte altre molestie, accompagnature insolenti del dominio militare. Brevemente la fiorita ed intemerata Lucca divenne sentina di mali, e ne fu desolata. Questo le fecero i repubblicani, prima per darla in preda a se stessi, poi per darla in preda ai re. Instituitosi dal generale di Francia in Piemonte, dopo l'espulsione del re, un governo ch'io non so con qual nome chiamare, poichè nè monarcale nè aristocratico era, e manco ancora democratico, si conobbe tostamente, che le recenti mutazioni non erano a grado dei popoli. I soldati massimamente non vi si potevano accomodare, perchè ed erano avversi per le passate instigazioni ai soldati Francesi, e questi, in grado di vinti tenendogli, non gli trattavano di compagni. La qual cosa gli muoveva a sdegno grandissimo. Si aggiungevano le solite insolenze, che infiammavano a rabbia un popolo poco tollerante delle ingiurie. Vi era adunque in Piemonte quiete apparente, e sostanza minacciosa. Parve principalmente a tutti cosa enorme lo spoglio fatto, come già abbiam narrato, non da Piemontesi, del palazzo del re coll'averne rotto i suggelli. Venne il governo, per non aver potuto impedire un fatto sì grave, in voce di quello che era veramente, cioè di servo d'altri, e fu tolta fede alle sue parole. Il suo buon concetto diminuiva anche l'avere mandato in sul primo sorgere, i capi di famiglia della primaria nobiltà, come ostaggi, a Grenoble. Mandovvi fra gli altri Priocca, mandovvi quel Castellengo, vicario di polizia in Torino. Priocca se ne viveva molto modestamente nella capitale del Delfinato; Castellengo, per istinto, spiava ogni cosa, ed il bene ed il male, e più ancora il male che il bene, investigatore assiduo di mercati, di taverne, di bische e di ritrovi sì pubblici che privati; uomo veramente di abilità singolare nel conoscere gli uomini fu costui, ed i repubblicani ebbero torto a non vezzeggiarlo; ma essi erano meri partigiani, e dello stato non s'intendevano. Grande scapito poi alla riputazione di chi reggeva aveva recato la faccenda dei biglietti di credito, perchè prima promise di non risecarne il valore, poi il risecava dei due terzi, il che fu grave ferita a coloro che gli possedevano. Bene, e necessario era il farlo; poichè il debito dello stato era tanto enorme, che lo spegnerlo, o diminuirlo in altro modo, si vedeva impossibile: ma quell'aver detto di non voler fare quello, che pochi giorni dopo fece, il rendè disprezzabile. Questi biglietti erano una perpetua molestia, perchè scapitando sempre del loro valore, anche ridotto, la fede dei contratti si contaminava, le casse dell'erario accettandogli al valor legale, ne venivano a scapitare della differenza. Per ajutarsi dei beni ecclesiastici a spegner questi biglietti, il governo gli vendeva, ma il mezzo non bastava per ritornare questa molesta carta all'intera riputazione, e sempre disavanzava. Non si omisero, ma indarno, vari altri rimedi: infine si voltarono, come lettere di cambio, ai ricchi, massime a quelli che si erano dimostrati più accesi in favore dell'antico stato, ed essi erano per legge obbligati ad obbedirgli con pagarne la valuta, e si compensassero coi beni della nazione. Riuscì di qualche efficacia il temperamento, ma sopravvennero nuove mutazioni, e non ebbe se non debole effetto. Sobbissava il Piemonte pei debiti, nè poteva bastar alle spese. S'aggiunse la voragine intollerabile dei soldi, del vestito, del cibo, delle stanze, dei passi pei soldati forestieri. Rovinava a precipizio lo stato: in tre mesi, sebbene si estremassero le spese pei servigi Piemontesi, si spesero tra in pecunia numerata ed in sostanze, meglio di trentaquattro milioni. A qual fine si andasse, nissuno il sapeva; il mancar di fede era inevitabile: si prevedeva, che altro fra breve non sarebbe rimasto ai Piemontesi, se non le terre, e queste ancora incolte; se non le case, e queste ancora guaste. La desolazione e la solitudine erano imminenti. Quest'erano le finanze: lo stato politico non era migliore. Già abbiamo detto in parte ciò, che rendeva il governo poco accetto. Seguitava, che i municipali di Torino, imitando in questo quei di Parigi ai tempi della rivoluzione, l'emolavano, e traevano con se molto seguito. A questo erano stimolati da alcuni repubblicani Francesi in grado, i quali si lamentavano di non aver avuto dal governo Piemontese quelle ricompense, che credevano esser loro dovute; del che i loro aderenti del paese aspramente si dolevano, tacciando il governo d'ingratitudine. I musei intanto, e le librerìe si spogliavano: rapivasi la tavola Isiaca, rapivansi i manoscritti di Pirro Ligorio, e quanto si credeva poter ornare il magnifico Parigi a detrimento della scaduta Torino. In mezzo a tutto questo mandava il governo l'avvocato Rocci, ed il conte Laville deputati a Parigi, perchè ringraziassero il direttorio della data libertà, il tenessero bene edificato, ed esplorassero qual fosse il suo pensiero intorno alle sorti future del Piemonte. S'appresentarono anche per mandato espresso al conte Balbo, perchè si era udito dei denari mandati dal re al suo ambasciadore, del conto del ricevuto denaro richiedendolo. Rispose, al re solo potere e volere render conto; nè volle riconoscere le mutazioni fatte in Piemonte. Fu l'intromessione del conte Balbo molto utile al re in Parigi, nè bisogna giudicare dell'operato dall'evento; perchè i tempi troppo furono contrari, e se corruppe alcuno con denari, il che non è da lodarsi, maggior biasimo meritano coloro, che si lasciarono corrompere. Non era alieno il conte dall'amare un reggimento più largo, ma più per ragione che per indole, perchè per questa amava piuttosto i reggimenti stretti: non credeva una moderata libertà biasimevole, ma detestava con tutti i buoni il modo, col quale in Francia si era voluto recare ad effetto. Del resto uomo d'ingegno non mediocre, letterato di valore, dotto anche in materie scientifiche, affezionato alle lettere Italiane, amico ai letterati, amatore del giusto, conoscitore della natura umana, erano in lui tutte le parti, che in chi s'ingerisce nello stato si richieggono, se non forse una grande pertinacia non le guastava, quando però non si voglia credere, ch'ella, come spesso la sperienza dimostra, sia anche una delle buone. Questa tenacità medesima usava nella comune vita, e perciò le sue affezioni, come le avversioni, fondate o no, erano indomabili. Abolivansi i fedecommessi, abolivansi le primogeniture, facendo di ciò vivissime istanze i cadetti delle famiglie nobili, ma la esecuzione fu sospesa dal direttorio di Francia per opera del conte Morozzo, che si era condotto espressamente a Parigi. Abolivansi anche i titoli di nobiltà, e furono arsi pubblicamente sulla piazza del castello. Intanto le sette, per l'incertezza delle sorti Piemontesi, si moltiplicavano, e s'inasprivano. Chi voleva esser Francese, chi Italiano, chi Piemontese. I primi argomentavano dalla servitù delle repubbliche Italiane, dalla potenza della Francia, dalla vicinità dei luoghi; i secondi dalla bellezza del nome Italiano, dalla lingua, e dai costumi; i terzi dall'antichità, e dalla fama dello stato Piemontese, dagli ordini suoi tanto diversi da quei di Francia e d'Italia, dal suo esercito tanto valoroso, che si conveniva conservare col proprio nome. Si viveva in queste incertezze, quando arrivava da Parigi l'avvocato Carlo Bossi, uno degli eletti al governo. Risplendeva in Bossi una natura molto nobile, benevola, amica all'umanità. Per questo gli piaceva la libertà, perchè gli pareva, che al ben essere dell'umanità conferisse. Ciò nondimeno per la qualità dell'animo amava egli piuttosto il tirato. Aveva a vile la loquacità, e le sfrenatezze dei democrati di quei tempi, perchè s'accorgeva, siccome quegli che nelle faccende di stato era di giudizio finissimo, e forse unico al mondo, ch'esse non potevano condurre a niun governo buono, e manco ancora al libero. Del resto, quantunque alcuni amatori di libertà l'avessero per sospetto, parendo loro ch'egli amasse piuttosto il comandare che l'obbedire, se si vuol fare stima di lui, come uomo privato, nissuno amico più tenero de' suoi amici, nissun uomo più retto, o più generoso di lui si potrebbe immaginare. Non dirò del suo ingegno piuttosto mirabile che raro, perchè è noto a tutta Italia, e gli scritti suoi ne faranno ai posteri perpetua testimonianza. Egli adunque avendo avuto l'intesa da Joubert, da Taleyrand e da Rewbell, uno dei quinqueviri, di ciò che il direttorio voleva fare del Piemonte, e parendogli che miglior consiglio fosse l'essere congiunto con chi comandava, che con chi obbediva, si era deliberato a proporre in cospetto del governo il partito dell'unione colla Francia. Seguì tosto l'effetto, perchè avendo favellato con singolare eloquenza, e confermato il suo favellare con raziocinj speciosissimi, perciocchè nell'una e nell'altra parte valeva moltissimo, vinse facilmente il partito, non avendovi nissuno contraddetto, perchè alcuni non vollero, altri non seppero, stantechè la proposta era inaspettata. Accettatosi dal governo il partito dell'unione, furono tentati al medesimo fine i municipali di Torino. Vi aderirono volentieri. La deliberazione della capitale fu di grandissima importanza, perchè essendo conforme a quella del governo, facilmente tirava con se tutto il paese. Si mandarono commissari nelle province a far gli squittini per l'unione. I popoli non l'intendevano, e certamente ripugnavano. Ma l'autorità del governo, e la presenza dei Francesi facevano chiarire i magistrati in favore. I più sospetti di avversione allo stato presente si scopersero i primi favorevolmente: vescovi, abbati, canonici, preti, frati sottoscrissero la maggior parte per il sì: parve partito vinto generalmente. Mandavansi a Parigi per portar i suffragi Bossi, Botton di Castellamonte, e Sartoris, uomini di celebrato valore, e di gran fama in Piemonte; ma vissuti discordi in Parigi, produssero discordia nella patria loro. Questa risoluzione del governo, lo scemò di riputazione, perchè il popolo non amava l'imperio dei forestieri; gl'Italiani si adoperavano per farlo vieppiù odioso. Fantoni, poeta celebre, che all'alito delle rivoluzioni sempre si calava, udito di quel moto Piemontese, si era tosto condotto nel paese, e quivi faceva un dimenare incredibile contro il governo, e contro la sua risoluzione, qualificandola di tradimento contro l'Italia. Insomma tanto disse e tanto fece, che fu forza cacciarlo in cittadella. Certamente Fantoni amava molto l'Italia, ma egli era un cervello così fatto, che se fosse stato lasciato fare, il manco che le sarebbe accaduto, fora stato l'andar tutta sottosopra. La risoluzione di volersi unire a Francia fu, non cagione, ma occasione di un moto più feroce e ridicolo, che nobile e pericoloso nella provincia d'Acqui. Vi si spargevano voci, non già per ispirito Italico, ma per avversione allo stato nuovo, che unirsi a Francia era un perdere la religione, che grandi eserciti marciavano a liberare l'Italia dai Francesi, che in ogni lido seguivano sbarchi di gente nemica a Francia. Rivalta, terra piena d'uomini armigeri, si levava a romore, cacciava il commissario; per poco stette, che non l'uccidesse. Strevi seguitava con maggior furore, ed atterrato l'albero della libertà, ed oltraggiati i municipali, mostrava desiderio di cose nuove. Il comandante d'Acqui, Plaizat, con cencinquanta cacciatori, soldati nuovi ed inesperti, vi andava per frenar quel tumulto, e vi restava ucciso; i soldati disordinati si ritiravano. Vi andava per calmarlo Della Torre, vescovo di Acqui; i paesani lo volevano ammazzare. La ritirata dei soldati Francesi diede animo a quelle popolazioni non consideratrici del pericolo, al quale si mettevano; un medico Porta le instigava, Vigone, Riccaldone Alice, Moirano aiutavano i tumultuosi: una moltitudine disordinata, ed armata in varie e stravaganti forme, s'impadroniva di Acqui e del suo castello; creava a voce di popolo, e fra uno schiamazzo incredibile un intendente, un comandante ed i magistrati municipali. Arrestava i giacobini, ma, ricevuto denaro, gli liberava. Le più strane cose si dicevano da quelle genti ignare ed infiammate. La conquista di tutto il Piemonte, e la cacciata dei francesi pareva loro il manco che potessero fare. Ed ecco, che si ode uno fra di loro più impazzato degli altri gridare, doversi conquistar Alessandria. Porta, aiutato da un Laneri scritturale, scriveva lettere circolari ai comuni, affinchè per raccor gente suonassero campana a martello; onde il sinistro suono si udiva tutto all'intorno. L'arciprete Bruno, che non voleva, che nella sua parrocchia di Montechiaro a tal estremo si venisse, fu barbaramente ucciso da' suoi parrocchiani. Partiva quell'informe ammasso di gente male armata, e peggio disciplinata per all'impresa d'Alessandria. Strada facendo sollevava a romore i comuni; quei, che non si volevano levare, saccheggiava. Nizza della Paglia resistè, come terra più grossa, e non gli lasciava entrare. Comparivano otto in dieci mila sollevati sotto le mura d'Alessandria; il medico Porta precedeva senz'armi in atto di voler venire a parlamento, sperando che si facesse dentro dal popolo qualche movimento in suo favore. Ma il comandante della piazza, che aveva a tempo avuto notizia del fatto, a ciò esortato dal marchese Colli Alessandrino, capitano di molto valore, mandava fuori quaranta soldati Piemontesi, che primieramente arrestarono Porta; poi con le sciabole tirando di piatto e di taglio, ma più di piatto che di taglio, dissiparono fra breve tutta quella imbelle moltitudine, non assueta alle ordinanze, nè stabile in campagna. Intanto, mentre già l'impresa era perduta, si spargevano liete novelle fra i sollevati in Acqui: che Alessandria fosse presa, la cittadella conquistata, che tutto l'Alessandrino, che tutto il Tortonese in favor loro si muovevano. Suonavano le campane a festa, cantavano l'inno delle grazie: gridavano, _viva Acqui, viva Strevi, viva la nostra faccia_, e qualche volta, _viva il re_. Già pareva loro, che il mondo non gli potesse più capire, e si promettevano la mutazione di ogni cosa. Credutisi sicuri mettevano a ruba le case dei gallizzanti, o stimati tali, sotto pretesto di cercar armi nascoste. In questo mezzo, e quando più si persuadevano di essere in possessione della vittoria, un rumor cupo, poscia voci più aperte incominciavano a torre al falso l'apparenza del vero, ed al vero l'apparenza del falso. Chi lo disse il primo, fu messo per la peggiore. In fine, romoreggiando già le armi Francesi e Piemontesi da vicino, la verità si apriva l'adito: allora prevalendo nei sollevati il timore al furore, e vedutosi da loro, che quello non era tempo da aspettare, si sbandarono, non senza però aver dato una seconda mano di sacco alle case dei benestanti, massime degli ebrei. Arrivavano i soldati della repubblica, prima condotti da un Flavigny, comandante d'Asti; poi in numero più grosso da Grouchy. Flavigny incese Strevi; Grouchy accompagnato dall'avvocato Colla, commissario del governo, pose a taglia Acqui; arrestò gl'intinti ed i sospetti: ma non fe' sangue. Porta fu fatto morire col supplizio soldatesco in Alessandria. Mostrossi Grouchy continente; Colla ed Avogadro, cui il governo aveva dato carico di assestar le cose disordinate dalla sollevazione, continentissimi. Flavigny non ebbe risguardo, che Acqui già fosse stato saccheggiato dai sollevati: il suo nome sarà perpetuamente udito con isdegno in quella travagliata città. Così finì la informe abbaruffata degli alti Monferrini; dopo il fatto, tutti dicevano, non esservisi trovati. Avuto il suffragio dell'unione, e conoscendo il direttorio di Francia, che il governo del Piemonte, per aver perduto la riputazione, gli era divenuto uno stromento inutile, vi mandava Musset con qualità di commissario politico e civile, affinchè ordinasse il paese alla foggia Francese. Arrivato, tutte le ambizioni e di nobili e di plebei si voltavano a lui, ed ei si serviva dei gallizzanti, temeva degl'Italici. Fece i soliti spartimenti del territorio, creò i tribunali, i magistrati distrettuali e municipali, secondo gli ordini usati in Francia. Per riordinar le finanze tanto peggiorate chiamava a se Prina, che molto, ed anche troppo se ne intendeva. S'ingegnava di sopire le passioni accese, perchè era uomo buono, ma l'incendio era troppo grave; già nuovi nembi, che s'ingrossavano verso settentrione, dando nuovi timori, e svegliando nuove speranze, infiammavano viemmaggiormente le passioni già tanto accese. Così come abbiam raccontato, eran condizionati Napoli e Piemonte. Genova e Milano meglio si mantenevano per aver governi più ordinati, ma più la prima che il secondo, perchè l'amor dell'adulazione verso i forestieri vi era minore. Roma era straziata continuamente da uomini avari, e da importune mutazioni in chi governava. Dappertutto erano, per imprudenza, apparecchiate le occasioni alla tempesta che già si avvicinava ai confini d'Italia. Le arti, le instigazioni e le offerte dell'Inghilterra, delle quali abbiamo parlato in uno dei precedenti libri, partorivano gli effetti che da loro si erano aspettati, e già tutta Europa novellamente si muoveva a' danni della Francia, e dei nuovi stati ch'ella aveva creato. Aveva l'Austria mandato un forte esercito in Italia, alloggiandolo sulle sponde dell'Adige e della Brenta. Al tempo stesso, maneggiandosi nascostamente, aveva operato che la parte, che nei Grigioni inclinava a suo favore, la chiamasse sotto colore di preservar il paese dall'invasione dei Francesi. Vi aveva pertanto mandato nuovi battaglioni per occupar quelle montagne, per modo che le sue prime guardie si estendevano, da una parte sino ai confini della Svizzera, dall'altra sino a quei della Valtellina. Aveva dato motivo a questa deliberazione dell'imperatore e dei Grigioni l'occupazione fatta dai Francesi della Svizzera, dalla quale potevano facilmente, ove le ostilità si rinnovassero, correre contro il Tirolo, e gli stati ereditari da una parte, contro lo stato Veneto dall'altra. Possente freno a questo disegno pareva che fosse, ed era veramente il paese dei Grigioni, posto, come cittadella naturale, incontro agli Svizzeri, ed a difesa del Tirolo, e che accenna ugualmente in Italia. Omessi i generali vinti, commetteva l'imperatore Francesco il governo militare a pruovati capitani, a Bellegarde nei Grigioni, a Melas in Italia: era con lui Kray, guerriero che si era acquistato buon nome nelle guerre Germaniche, e molto amato dai soldati. In tale guisa l'Austria si preparava alla guerra. Ma il fondamento principale di tutta l'impresa erano i soldati di Paolo imperatore, che, già lasciate le fredde rive del Volga e del Tanai, marciavano alla volta della Germania, ed erano destinati a fare cogli Austriaci uno sforzo contro l'Italia. Conduceva questi soldati tanto strani il maresciallo Suwarow, capitano uso per l'incredibile suo ardimento a rompere piuttosto che a schivare gli ostacoli di guerra. A tutta questa mole, già di per se stessa tanto grave, si aggiungevano le forze marittime dell'Inghilterra, della Russia e della Turchìa, le quali l'Adriatico dominando, ed il Mediterraneo correndo, potevano effettuare sulle coste d'Italia subiti trasporti, e sbarchi, abili a disordinare i disegni dei capitani della repubblica. Nè, come abbiam veduto, era l'Italia sana rispetto ai Francesi, perchè infiniti sdegni vi erano raccolti sì per la contrarietà delle opinioni attinenti allo stato, od alla religione, e sì per le offese recate dal nuovo dominio. Dall'altro lato era intento del direttorio di far la guerra con tre eserciti, dei quali il primo condotto da Jourdan avesse carico, varcato il Reno, di assaltare la Baviera, che si era accostata alla lega, il secondo governato da Massena negli Svizzeri facesse opera di cacciare gli Austriaci dai Grigioni, d'invadere il Tirolo, e camminando avanti, di dar la mano a Jourdan dall'una parte, dall'altra a Scherer in Italia. Era stato preposto alle genti Italiche il generale Scherer, vincitore di Loano. Questo terzo esercito, spingendosi anch'esso avanti, doveva, passate le Alpi Giulie e Noriche, congiungersi coi due precedenti per conquistare gli stati ereditari, e Vienna capitale. Aveva con se congiunti i Piemontesi ed i Cisalpini. Joubert, che era per lo innanzi generalissimo, e molto capace per l'ingegno, l'ardire, e l'esperienza, di governar questa guerra, amico a Championnet, e, come egli, nemico dei depredatori, scontento a non potergli frenare, aveva chiesto licenza. Il direttorio, che riteneva in tutte le cose le solite sospizioni, temendo di lui, e non ancora ben riavuto dalle buonapartiane apprensioni, molto volentieri gliel'aveva conceduta. La licenza di Joubert fe' cader l'animo agl'Italiani amatori degli stati nuovi, perchè si riposavano con intiera fede nel valore, nell'ingegno, e nell'integrità sua, e più ancora l'amavano, perchè il conoscevano amico all'Italia. Compariva Scherer, non senza Parigino fasto; il che rendeva più notabile la semplicità del vivere di Joubert, e lo squallore dei soldati. Ciò fece anche sospettare, che le opere del peculato avessero peggio che prima, a ricominciare; ognuno stava di mala voglia. Non ostante le ostili dimostrazioni, la guerra non era ancor rotta fra le due parti, perchè il direttorio prima di risentirsi dell'avvicinarsi dei Russi aspettava che la fortezza di Erebrestein venisse in poter suo. L'Austria stava attendendo, per non trovarsi a combatter sola, mentre poteva combattere accompagnata, che le genti Russe alle sue si congiungessero. Finalmente dopo un lungo assedio, astretto dalla fame, Erebrestein si dava ai repubblicani. Insorse incontanente il direttorio, e mandò dicendo all'imperator d'Alemagna, che se i Russi non fermassero i passi contro Francia, e dagli stati imperiali non retrocedessero, l'avrebbe per segno di guerra: la corte imperiale diè risposte ambigue, e si temporeggiava per dar comodità ai soldati di Paolo di arrivare. Conobbe l'arte il direttorio, e però si determinava del tutto alla guerra, volendo prevenire quello, che l'Austria aspettava. Per la qual cosa Scherer altro non attendeva per dar principio alle ostilità, che l'udire, che Jourdan e Massena avessero fatto il debito loro sul dorso Germanico delle Alpi. Sentite le novelle del passo effettuato sul Reno dal primo, e dello aver combattuto il secondo prosperamente, non senza però sanguinosissime battaglie, nei Grigioni, sperando che Dessoles e Lecourbe con un corpo di repubblicani scendendo dalla Svizzera il seconderebbero di verso la Valtellina, si risolveva a non più porre tempo in mezzo per assaltar il nemico. Erano i due nemici schierati nella seguente guisa: aveva il generalissimo di Francia il suo alloggiamento principale in Mantova, dove aveva adunato gran copia di munizioni sì da guerra, che da bocca. Assicuravano la sua ala sinistra la fortezza di Peschiera, e la destra la città ed il castello di Ferrara. Erano con lui circa cinquanta mila combattenti, fra i quali i reggimenti Cisalpini e Piemontesi. Oltre a questo altre genti Francesi ed alleate occupavano, e guarentivano i passi situati alle spalle tra il Mincio e le Alpi. Gli Alemanni si erano distesi ad alloggiare in linea parallella all'Adige dalle frontiere del Tirolo Italiano insino a Rovigo; trenta mila combattenti lungo l'Adige, altrettanti sulle sponde della Brenta. Sulla sinistra procurava loro sicurtà la fortezza di Legnago, sul mezzo la città di Verona con tutti i suoi forti: i villaggi di Santa Lucìa e di San Massimo, come antemurali di Verona, erano muniti di trincee e di presidj gagliardi. Quanto alla dritta, che portava maggior pericolo, perchè non vi era fortezza artefatta, e nella sua difesa consisteva l'esito felice di quella guerra, che già manifestamente incominciava ad apparire, conciossiachè, perduti quei luoghi, i Francesi si sarebbero introdotti fra gli stati ereditari e lo stato Veneto, l'aveva Kray fortificata con molte trincee provviste d'artiglierìe nel luogo di Pastrengo presso a Bussolengo. Avevano anche gli Austriaci posto, per facilitare i transiti, e munito quattro ponti sull'Adige, a Parona, a Pescantina, a Pastrengo, ed a Polo. Corpi assai grossi, e distribuiti nei loro alloggiamenti per modo che l'uno potesse facilmente accorrere a soccorrer l'altro, guernivano tutti questi luoghi, uno ad Arquà, terra celebre per esser quivi morto il Petrarca, un altro a Bevilacqua, cinque miglia sopra Legnago, un terzo tra Conselve ed Este, un quarto finalmente a Bussolengo. Credeva il direttorio, avvicinandosi la guerra contro l'Austria, non si poter fidare del gran duca Ferdinando di Toscana, e perciò si era risoluto a cacciarlo da' suoi stati. A questo fine, toccato prima, che avesse dato asilo al papa, e passo ai Napolitani, ed affermato che s'intendesse segretamente coi confederati a' danni della repubblica, Scherer ordinava, che il dominio di Francia s'introducesse in Toscana. Così il direttorio stringeva nelle sue mani tutta l'Italia a quel momento stesso, in cui era vicino a perderla tutta. Partitosi inaspettatamente il generale Gaultier da Bologna, dove aveva le sue stanze, entrava nella felice Toscana, e il dì venticinque di marzo, conducendo con se un grosso corpo di cavallerìa con qualche nervo di fanterìa, e col solito corredo di artiglierìe e di salmerìe, faceva, qual trionfatore, il suo ingresso armato per la porta di San Gallo nella pacifica città di Firenze. Così la sede di civiltà venne occupata da insolite e forestiere soldatesche. I trionfatori disarmavano i soldati Toscani, s'impadronivano delle fortezze, del corpo di guardia del palazzo vecchio, e delle porte. Al tempo medesimo Miollis, assaltata ed occupata Pisa, se ne andava a Livorno, e quivi, disarmate le truppe del gran duca, poneva presidio nei forti, guardie sul porto, mano sui magazzini Inglesi e Napolitani. Un Reinhard, commissario del direttorio, recava in sua potestà la somma delle cose, ed ordinava che i magistrati continuassero a fare gli uffizi in nome della repubblica Francese. Disfatto dai repubblicani il governo Toscano, partiva per Vienna con tutta la sua famiglia il gran duca, e gli fu dato facoltà dagli occupatori del suo stato di portar con se parte del mobile del palazzo Pitti, e alcuni capi di pittura e di scoltura notabili. Il caso strano mosse, non tutti, ma parte dei Toscani: piantarono i soliti alberi sulle piazze, fecero discorsi, gridarono libertà. Pure non si fecero tanti schiamazzi, come altrove. Il dominio dei Francesi in Toscana cominciò da opere spietate. Gli esuli Francesi, o preti o laici che fossero, che sotto il placido dominio di Ferdinando si erano ricoverati, furonne senza remissione cacciati. Restava papa Pio, che vecchio, infermo, ed oramai vicino all'ultimo termine della vita se ne stava assai riposatamente nella Certosa di Firenze. Quest'ultima quiete gli turbarono i repubblicani, sforzandolo a partire alla volta di Parma, poi fin oltre in Francia al tempo stesso della partenza di Ferdinando. Tanto era il timore, che avevano di un'opinione! Partiva il canuto e cadente pontefice, poco conscio di se per l'infermità e per la disgrazia, molto salutato dalle pietose e meste popolazioni. Strada facendo era chiuso nelle fortezze, poi venne serrato in Brianzone, finalmente trasportato in Valenza di Delfinato: quivi concluse nell'esilio una vita, che con tanto apparato di maestà e di potenza aveva incominciato. L'accompagnò sempre lo Spina, che fu poi cardinale, dolce e pietoso officio. Da questo esempio imparino i popoli, quanto siano flusse, e labili queste umane sorti, e che se la libertà può nascere qualche volta dalle guerre, non può mai dal disprezzo delle cose tenute rispettabili per lunga età da popoli intieri. Ad uno spettacolo compassionevole succedeva uno spettacolo orrendo. I Francesi partiti in tre schiere affrontavano valorosamente il dì ventisei di marzo i Tedeschi sulle sponde dell'Adige. Montrichard con la destra faceva forza d'impadronirsi di Legnago; Victor e Hatry con la mezzana, assaltate le terre di Santa Lucìa e di San Massimo, difese esteriori di Verona, si sforzavano di aprirsi il passo a questa città; Moreau finalmente, con cui militavano Delmas, Grenier e Serrurier, aveva carico di vincere, e questo era il principale sforzo, Pastrengo, e Bussolengo, di passar l'Adige, e di riuscire minaccioso sul fianco di Verona, e degl'imperiali. Ad un punto prese tutte le tre schiere andavano alla fazione loro, e già la battaglia ardeva con molta uccisione per ambe le parti da Legnago fin oltre Bussolengo. Al primo romore delle armi era corso il presidio di Legnago governato dal colonnello Skal ad occupar le mura e la strada coperta; le guardie esteriori già si urtavano coi Francesi, ai quali davano favore i fossi, le siepi, e gli alberi che ingombravano il terreno. Si combatteva con grandissimo valore dai Francesi e dai Tedeschi sotto le mura di Legnago, presso Anghiari, ed a San Pietro per alla strada di Mantova. Combatterono i repubblicani felicemente a San Pietro, infelicemente ad Anghiari, con fortuna pari a Legnago; ma la fortezza del luogo sosteneva gli avversarj. Kray, che si era alloggiato con una grossa banda a Bevilacqua, come prima ebbe udito il pericolo, spediva il tenente maresciallo Froelich per soccorrerlo. Urtarono queste genti fresche i Francesi in parecchj luoghi, ma principalmente a San Pietro, dove erano più forti e già vittoriosi, e superata finalmente la forte ed ostinata resistenza loro, gli costrinsero a piegare, ed a ritirarsi oltre Anghiari e Cerea verso il Tartaro. Vinto Montrichard a Legnago con perdita di circa due mila soldati, gli Alemanni si mettevano in punto di perseguitarlo. Ma sopraggiungevano a Kray le novelle, che Victor e Hatry, battute aspramente le terre di Santa Lucia e di San Massimo, si erano impadroniti della prima, e si sforzavano di occupare fermamente la seconda, dalla quale, entrati a viva forza già sette volte, altrettante erano stati risospinti. Restarono feriti in questa ostinata mischia i due generali Austriaci Liptay e Minkwitz. Soprantendeva alla difesa di questi luoghi, e di Verona stessa il tenente maresciallo Keim, buono e valoroso soldato. Così in questa parte stava la battaglia in pendente per l'acquisto di Santa Lucìa dall'un de' lati, e per la conservazione di San Massimo dall'altro. Tuttavia vi si continuava a combattere: un terrore profondo occupava Verona, non sapendo i Veronesi qual fine fosse per avere quel lungo ed aspro combattimento, e molto temendo dei Francesi per le ingiurie antiche e nuove. A questo stato dubbio sotto le mura di Verona s'aggiunse la rotta toccata dalle genti Alemanne sull'ala loro destra, governata dai generali Gottesheim ed Esnitz; il che fece fare nuovi pensieri a Kray, distogliendolo del tutto dal seguitare i repubblicani oltre l'Adige verso Mantova. Era, come abbiam detto, il sito di Pastrengo e Bussolengo munitissimo per molte fortificazioni, che consistevano in ventidue ridotti, in frecce, trincee di campagna, e teste di ponti. Urtarono i Francesi condotti da Delmas e da Grenier, con tanto impeto tutte queste opere, che sebbene gli Austriaci vi si difendessero virilmente, le sforzarono. Il caso fu tanto subito, che questi ultimi non poterono rompere i ponti di Pastrengo e di Polo, per modo che i repubblicani acquistarono facoltà di passar l'Adige, e di correre per la sinistra sua sponda contro Verona, e quella parte degl'imperiali, che aveva le stanze sulla strada verso Vicenza. Al tempo stesso in cui Delmas e Grenier vincevano a Bussolengo, Serrurier più oltre, e più su distendendosi a stanca, aveva cacciato i Tedeschi dai monti di Lazise, in ciò ajutato efficacemente dal capitano di fregata Sibilla, e dal luogotenente Pons colle navi sottili, con le quali custodivano il lago di Garda. Perdettero gli Austriaci in questi fatti cinquemila soldati tra morti e feriti, con mille prigionieri, e sette cannoni. Mentre si combatteva sull'Adige, i Francesi assaltavano Wukassowich sulle frontiere del Tirolo sopra il lago di Garda. Già si erano fatti signori di Lodrone, ed avevano guadagnato molto spazio oltre i laghi d'Iseo e d'Idro. Ma infine vennero in ogni parte respinti, perchè Wukassowich era uomo di valore, conosceva i luoghi, ed in quella proporzione più forza acquistava, che più negli stati ereditarj s'internava. Non così tosto ebbe Kray inteso la rotta della sua ala destra, che, lasciato un presidio sufficiente in Legnago, s'incamminava a presti passi, malgrado della stanchezza de' suoi soldati, a Verona, per preservarla dal gravissimo pericolo che le sovrastava. Vi arrivava il venzette e ventotto, e l'assicurava. Nè contento a questo, mandava Froelich più oltre in ajuto dell'ala sua destra, che pericolava a cagione del passo acquistato dai Francesi sull'Adige. Ma Scherer, forse intimorito per le rotte di Legnago e di Lodrone, se ne ristette, e non fece più alcun movimento d'importanza per usare la vittoria di Bussolengo. I due eserciti stanchi dal lungo combattere, pieni di morti e di feriti, convennero di sospendere le offese un giorno per dar sepoltura ai primi, e cura ai secondi. Continuavano i Francesi in possessione della sinistra riva dell'Adige, ed era forza, o che i Tedeschi ne gli cacciassero, o ch'essi cacciassero i Tedeschi di Verona. Se cadeva Verona, era vinta la guerra pei primi, e Suwarow avrebbe potuto arrivare senza frutto. Se i Francesi erano cacciati dalla riva sinistra, era vinta la guerra per gli Austriaci. Sovrastava adunque agli uni ed agli altri la necessità del combattere, ma più ai repubblicani che ai loro avversarj, perchè se gl'imperiali reggevano contro l'impeto loro insino al giungere dei Russi, ogni probabilità persuadeva, che l'aggiunta di una forza tanto potente renderebbe preponderanti le partite in favor dei confederati. Adunque alle dieci della mattina del trenta marzo, i Francesi condotti da Serrurier, passato sugli acquistati ponti il fiume in grosso numero, assaltarono Esnitz e Gottesheim, ai quali già si era congiunto con genti fresche Froelich. Un'altra parte di repubblicani condotta da Victor si innoltrava verso i luoghi superiori della valle, ed in Montebaldo verso la Chiusa e Rivole, coll'intento di occupare i monti ai quali si appoggiavano i Tedeschi, e di guadagnare la strada di Vicenza. Avevano i Francesi del Serrurier, assaltando con un impeto grandissimo, guadagnato molto campo, e già insistevano sopra Parona, luogo distante ad un miglio e mezzo da Verona. In questo pericoloso momento, Kray mandava fuori ottomila soldati, e partitigli in tre colonne, gli sospingeva ad urtare i Francesi. La prima gli assaliva dalla parte di Parona, la seconda per la strada del Tirolo verso Rivole, la terza lungo le montagne di Mantico. Ne sorse un combattimento molto fiero, in fin del quale prevalsero gli Austriaci, ed i Francesi pensarono al ritirarsi, non senza qualche dissoluzione nelle ordinanze. In questo fatto per frenare l'impeto del vincitore, e dar campo ai vinti di ritirarsi, prestò opera egregia la cavallerìa Piemontese. Restava che si potesse ripassare a salvamento il fiume; una parte passò; ma Kray, avendo occupato i ponti con la cavallerìa, e rottogli per mezzo dei granatieri di Korber, Fiquelmont e Weber, tagliò la strada ai superstiti, che, deposte le armi, vennero in suo potere. Quasi tutta la parte che era salita ai monti, fu in questa guisa superata e presa. Noverarono i Francesi mille soldati tra morti e feriti: dodici centinaja venuti sani in poter delle genti imperiali ornarono il trionfo di Kray. Non conquistarono i Tedeschi alcuna artiglierìa, perchè un solo pezzo aveva con se condotto Serrurier. Perdettero gli Austriaci poca gente, sì per le buone mosse ordinate dal generale loro, e sì per l'ardore inestimabile, col quale andarono all'assalto, e che sopraffece in breve tempo il nemico. Dalle raccontate fazioni si vede, che Scherer aveva con arte lodevole ordinato la battaglia di Verona, ma che fece errore nel non seguitare subitamente l'aura favorevole della fortuna sull'ala sinistra, che era nel primo fatto rimasta vittoriosa; poichè se il giorno medesimo della battaglia, cioè il ventisei, od almeno il ventisette avesse fatto passar il fiume a tutta l'ala medesima, e l'avesse spinta gagliardamente contro il fianco di Verona, se ogni probabilità non inganna, avrebbe rotto Keim, che solo si sarebbe trovato a combattere, ed acquistato la città, innanzi che Kray arrivasse in ajuto con le genti vincitrici di Legnago. Ognuno vede, quali effetti avrebbe partoriti la presa di una città così nobile, e di sito tanto importante, con la sconfitta di due ali degl'imperiali. Non errò dunque Scherer per difetto di arte, ma bensì per mancanza d'ardire tanto più da condannarsi, quanto più quello fu il solo adito, che la fortuna in tutta questa guerra gli abbia aperto alla vittoria. Narrasi, che Moreau lo confortasse al raccontato partito, ma che non vi si volle risolvere. Risultava dalle due battaglie di Verona, che gli Austriaci passavano l'Adige a portar guerra sulla sua destra sponda. Dal canto suo Scherer si era accampato dietro il Tartaro, tra Villafranca e l'Isola della Scala, attendendo a fortificarsi ed a riordinare i suoi: aveva fermato il suo campo principale a Magnano. Ma le sue condizioni divenivano ogni ora peggiori; perchè il nemico incominciava a romoreggiarli sui fianchi ed alle spalle con truppe armate alla leggiera. Wukassowich, sceso dal Tirolo tra il lago di Garda e l'Iseo, minacciava Brescia, oltrechè il colonnello San Giuliano mandato da Wukassowich aveva spazzato tutto il campo tra la destra dell'Adige ed il lago di Garda, per modo che il navilio, che i Francesi avevano sul lago, era stato costretto a cercar ricovero sotto le mura di Peschiera. Da un'altra parte Klenau, partitosi dall'ala sinistra Austriaca con soldati corridori, era comparso sul Po, aveva messo a romore le due sponde, precipitato in fondo le navi Francesi, e costretto i repubblicani a rifuggirsi o in Ferrara, o in Ostiglia. Si trovava adunque il generalissimo di Francia in grave pericolo, ed aveva tanto più forte cagione di temere, quanto il suo esercito scemato per le perdite fatte nelle giornate precedenti, era divenuto di numero inferiore a quello d'Austria. Oltre a tutto questo non isfuggiva a Scherer, che a Suwarow, ritardato solamente dalle piogge insolite, che avevano fatto gonfiare oltre modo i fiumi ed i torrenti, si accostava: il che avrebbe del tutto fatto prevalere il nemico se prima dell'arrivare del Russo non ristorava la fortuna cadente. Ricordavasi delle antiche vittorie, considerava esser quei medesimi Francesi, vincitori di tante guerre, avvertiva, quelle terre medesime, sulle quali insisteva essere state poco tempo innanzi testimonio di tante e sì gloriose loro fazioni. Mosso da tutto questo, nè mancando anche d'animo per se medesimo, si risolveva a cimentarsi di nuovo col nemico, sperando che Magnano avrebbe restituito le cose perdute a Verona. Dall'altro lato il generale Austriaco, non fuggendo il tentar la fortuna da se solo, agognava ancor esso la battaglia, perchè non voleva dar tempo al nemico di riordinarsi, e riaversi dall'impressione delle rotte precedenti, nè lasciar raffreddare l'impeto de' suoi tanto più imbaldanziti dalle vittorie recenti, quanto più le avevano acquistate, mentre era ancor fresca la memoria di tante loro sconfitte. Forse ancora Kray nel più interno del suo animo desiderava una nuova battaglia per operare, che per suo mezzo la guerra fosse del tutto vinta innanzi che arrivassero il generalissimo Melas, ed il forte maresciallo di Paolo. Se tale fu il suo pensiero, come è da credersi, e' bisognerà confessare, ch'egli avesse una gran fede in se medesimo, e nissun dubbio della vittoria; perchè se perdeva coi possenti ajuti tanto vicini, avrebbe meritamente incorso molta riprensione per aversi commesso colle sole armi Austriache alla fortuna. Ivano all'affronto i due nemici divisi in tre schiere, il dì cinque aprile. La destra dei repubblicani guidata da Victor e Grenier marciava all'assalto di San Giacomo: la mezzana governata da Montrichard e Hatry, sotto guida suprema di Moreau, doveva sloggiare l'inimico da' suoi posti tra Villafranca e Verona. La sinistra sotto la condotta di Serrurier aveva il mandato d'impadronirsi di Villafranca e di andarsi approssimando all'Adige. Delmas, soldato animoso, e molto arrischiato, accennava con un po' di antiguardo a Dossobono per fare spalla alla mezzana. Il generale Austriaco col fine di superare il campo di Magnano, e di cacciare i Francesi oltre il Tartaro ed il Mincio, aveva ordinato i suoi per modo che il generale Zopf guidasse la destra, Keim la mezzana, ed il generale Mercatin la sinistra: un antiguardo condotto da Hohenzollern assicurava Zopf, ed un grosso retroguardo di tredici battaglioni sotto guida di Lusignano, non obbligandosi a luogo alcuno, era presto per accorrere ai casi improvvisi, e soccorrere quella parte che inclinasse. Al tempo stesso Kray aveva comandato al presidio di Legnago, che uscisse a percuotere nel fianco destro del nemico, ed a Klenau, che turbasse viemaggiormente le rive del Po. Sorgeva una fierissima battaglia; benchè i Francesi fossero inferiori di numero guadagnavano nondimeno, valorosissimamente combattendo, del campo, e facevano piegar l'inimico. Si vedeva in tutto questo ed il valore solito dei soldati repubblicani, e la perizia dei loro capitani. Serrurier, risospinto prima ferocemente da Villafranca, fatto un nuovo sforzo, e riordinati i suoi, se ne impadroniva. Delmas si spingeva ancor esso avanti; Moreau il seguitava con eguale prudenza e valore. Victor e Grenier sforzavano San Giacomo, e vi si alloggiavano. Volle Kray rompere Moreau con aver fatto girar un grosso corpo a fine di attaccar il Francese alle spalle, ed al tempo medesimo urtava impetuosamente Delmas. Questa mossa ottimamente pensata poteva trarre a duro partito Moreau, s'ei non fosse stato quell'esperto capitano ch'egli era. Ma risolutosi incontanente su quanto gli restava a fare in sì pericoloso accidente, invece di camminare dirittamente, si voltava con grandissima audacia a destra, ed assaltava sul destro fianco coloro, che disegnavano di assaltarlo alle spalle. Per questa tanto bene ordinata mossa gli Austriaci furono rotti, e fugati verso Verona, a cui si accostavano Delmas e Moreau con le altre due schiere compagne: già il terrore assaliva la città. Pareva in questo punto disperata la battaglia pei Tedeschi: ma Kray ordinava a nove battaglioni del retroguardo, che si spingessero avanti, condotti dal generale Lattermann, ed urtassero il nemico, tre da fronte a sinistra, cinque di fianco. Fu questo urto dato con tanto ordine ed impeto, che i Francesi, svelta per forza la vittoria dalle loro mani, se ne andarono rotti in fuga. Così chi aveva vinto con sommo valore, era stato vinto con pari valore. A questo decisivo passo ordinarono Scherer e Moreau un po' di retroguardo, che loro restava, quest'era l'ultima posta, e mandatolo contro il nemico insultante, non solamente ristoravano la fortuna della battaglia, ma ancora rompevano del tutto la mezzana schiera degl'imperali, e fugavano Keim fin quasi sotto alle mura di Verona. Restava un ultimo rimedio a Kray; quest'erano i restanti battaglioni del retroguardo. Se essi fallivano, la fortuna Austriaca era vinta, ed i trionfi dei Francesi ricominciavano su quelle terre già tanto famose per le segnalate fatiche loro. Serraronsi i freschi battaglioni Alemanni, adoperandosi virilmente Lusignano sui Francesi con un incredibile furore. Non piegarono i repubblicani, ma s'arrestarono: nasceva un urtare, un riurtare tale, che pareva che più che uomini tra di loro combattessero. Stette lungo spazio dubbia la vittoria, e già, checchè la fortuna apparecchiasse ad una delle parti, era per ambedue salvo l'onore. Finalmente la tenacità Tedesca prevaleva all'impeto Francese; i repubblicani furono piuttosto che cacciati, svelti dal campo di battaglia. Rotto l'argine, precipitaronsi impetuosamente contro i vinti i vincitori, e ne fecero una strage grandissima. La schiera di Serrurier, che si era conservata intiera, e tuttavia teneva Villafranca, fu costretta a mostrar le spalle al nemico, non senza scompiglio nelle ordinanze, pel caso improvviso, lasciando il fardaggio, le artiglierìe, ed i feriti in poter del vincitore. Non fu fatto fine al perseguitare, se non quando sopraggiunse la notte. Perdettero i repubblicani più di quattromila soldati tra morti e feriti, con tremila prigionieri: rimasero in preda al vincitore diciasette pezzi d'artiglierìa, con salmerìe, munizioni e bagaglie in quantità. Noveraronsi fra i feriti Beaumont, Dalesme, Pigeon e Delmas. Nè fu la vittoria senza sangue per gl'imperiali, perchè desiderarono circa tremila soldati tra uccisi e feriti. Quasi un ugual numero erano venuti come prigionieri in mano dei Francesi, ma la più parte furono riscattati durante la rotta. Mercantin, capitano in molta stima presso gli Austriaci sì pel suo valore, come per la dolcezza della sua natura, fu tra gli uccisi. Morirono altri uffiziali di grado e di nome, fra i quali il maggiore Voggiasi, che avendo combattuto valorosamente nel precedente fatto di Legnago, si era meritato la croce di Maria Teresa. Durò la battaglia dalle ore sei della mattina sino alle sei della sera. Il valore vi fu uguale da ambe le parti, la vittoria utilissima alle armi imperiali. Spianò Kray col suo valore la strada alle vittorie di Melas e di Suwarow. Scherer, scemato il numero de' suoi, e scemato altresì l'animo loro per le sconfitte, dopo di aver fatto alcune dimostrazioni, come se volesse fermarsi sul Mincio, si deliberava a ritirarsi sulla sponda destra dell'Adda, per ivi fare opera, se ancora possibil fosse, di arrestar l'inimico, e difendere la capitale della Cisalpina. A questa deliberazione, piuttosto inevitabile che volontaria, dava motivo la grande superiorità del nemico, accresciuto dalle forze Russe per guisa che sommava a sessantamila combattenti, non noverati quei di Wukassowich e di Klenau, che romoreggiavano sui corni estremi, mentre il suo, tolti i pressidj, ch'era obbligato a lasciare in Mantova ed in Peschiera, ed in altre fortezze di minor importanza, non passava i ventimila. La medesima deliberazione rendevano necessaria i progressi fatti, e che tuttavia facevano Wukassowich e Klenau, il primo verso i monti sulla sinistra dei repubblicani, il secondo sulle rive del Po, dove metteva ogni cosa a romore. Si levavano i popoli a calca al suono delle vittorie Tedesche, e dell'arrivo dei Russi, gente strana, e riputata d'invincibile valore, non considerando, se il dominio Austriaco e Russo avesse a mostrare maggiore benignità, che quello che volevano levarsi dal collo. Ma il presente sempre noja i popoli, mentre il futuro gli alletta, perchè giudicano del primo col senso, del secondo coll'immaginazione. Bene è da condannarsi, che i comandanti Russi ed Austriaci queste mosse popolari in paesi estranei a loro con parole, con iscritti e con fatti suscitassero e fomentassero. Perciocchè nelle sollevazioni dei popoli, e nelle guerre civili ogni più peggior male si contiene, ed ai forestieri; che non possono vincere con le sole armi, l'umanità prescrive che se ne astengano, e che lascino riposare altrui. Le guerre bisogna lasciarle fare a chi ha il carico di farle, non a chi ha il carico di pagarle. Oltre a ciò, siccome gli eventi delle guerre sono sempre dubbj, poco umana cosa è il sollevare i popoli contro coloro, che possono tornare a vendicarsi. Queste sommosse molto ajutavano gl'imperiali, perchè intimorivano gli avversarj, tagliavano le strade, e davano spiatori utilissimi ai nuovi conquistatori. Esse erano più o meno forti, secondo le varie inclinazioni dei luoghi, ma molto romorose nel Polesine e nel Ferrarese. Grandi tempeste ancora si levavano contro i Francesi nel Bresciano e nel Bergamasco: Wukassowich vi trovava molto seguito. Arrivati i Francesi sulle sponde dell'Adda, fiume assai più grosso, e di rive più dirupate che il Mincio e l'Oglio non sono, nel seguente modo vi il alloggiavano. Serrurier con la sinistra custodiva le parti superiori del fiume, stanziando a Lecco sul lago, dove aveva una testa di ponte fortificata, a Imbezzago ed a Trezzo. In quest'ultima terra si congiungeva con la battaglia, o mezzana schiera, alla quale erano preposti Victor e Grenier, e che, sprolungandosi a destra, si distendeva sino a Cassano. Possedeva sulla destra del fiume una testa di ponte con trincee munite di artiglierìe, ed oltracciò le artiglierìe del castello dominavano questa parte. Un grosso di cavalleria (perchè essendo Cassano posto sulla strada maestra per a Milano, i repubblicani presumevano che i confederati avrebbero fatto impeto contro di questa terra), stava pronto, alloggiato essendo dietro a Cassano, ad accorrere, ove d'uopo ne fosse. La destra sotto la condotta di Delmas, si sprolungava lungo l'Adda, con assicurare Lodi e Pizzighettone. Quest'era l'alloggiamento preso dai Francesi sulle rive dell'Adda, in cui giudicarono poter arrestare il corso alla fortuna del vincitore. Intanto una grande mutazione si era fatta nel governo supremo dell'esercito. I soldati repubblicani stimandosi invincibili, perchè non soliti ad esser vinti, avevano concetto un grandissimo sdegno contro Scherer, di tutte le loro disgrazie accagionandolo. I meno coraggiosi si erano anche perduti d'animo, e questo sbigottimento di mano in mano si propagava: l'immagine di Francia già s'appresentava alla mente dei più, e quelle terre Italiane diventavano loro odiose. Le subite ed estreme mutazioni dei Francesi davano a temere ai capi per modo, che dubitavano aver presto a contrastare non solamente col nemico, ma ancora con la cattiva disposizione dei propri soldati. Già si mormorava contro Scherer, ed il meno che dicessero di lui, era, che non sapeva la guerra. Certo, essendo tanto declinato del suo credito, ei non poteva più oltre governar con frutto, e la confidenza ed il coraggio dei soldati per nissun altro modo potevano riaccendersi, che con quello di mutar il capo, e di surrogargli un generale amato da loro e famoso per vittorie. Videsi Scherer queste cose, e conformandosi al tempo, rinunziò al grado, con rimetterlo in mano di Moreau, e con pregare il direttorio, che commettesse in luogo di lui la guerra al capitano famoso per le Renane cose. Piacque lo scambio: Scherer, confidate le sorti Francesi al suo successore, se ne partiva alla volta di Francia. I repubblicani intolleranti di disgrazie l'accusarono in varie guise; ma se la disciplina non era buona, ciò dai cattivi esempi precedenti si doveva riconoscere. Quanto alla perizia nell'arte della guerra, non si vede di quale altro fatto si possa biasimare, se non di non aver corso gagliardamente, e senza posa contro Verona nella giornata dei ventisei, quando, rotta l'ala destra Austriaca, si era fatto signore del passo del fiume. Del rimanente il disegno principale di questo stesso fatto dei ventisei, e così quello dell'asprissima battaglia di Magnano, non sono se non da lodarsi, nè la sua ritirata dall'Adige all'Adda in circostanze tanto sinistre mostra un capitano di poco valore: ma l'aver fatto guerra infelice in Italia in memoria tanto fresca di Buonaparte nocque alla sua fama, ed accrebbe l'impazienza dei repubblicani. Da un altro lato non si debbe defraudare della debita lode Moreau per aver consentito al recarsi in mano il governo di genti vinte, e quando già poca o niuna speranza restava di vincere. Sapeva egli, che il difendere lungo tempo le rive dell'Adda contro un nemico tanto potente, non era possibile: ma andò considerando, che il cedere senza un nuovo esperimento la capitale della Cisalpina, che aveva i suoi soldati congiunti co' suoi, e che era alleata della Francia, gli sarebbe stato di poco onore, ed oltre a ciò voleva, con ottenere qualche indugio, dar tempo al munire di provvisioni le fortezze del Piemonte. In questo mezzo arrivavano alcuni ajuti venuti di Francia, dal Piemonte, e dalla Cisalpina. Per tutto questo deliberossi di voltar il viso al nemico, e di provare se la fortuna fosse più favorevole alla repubblica sulle sponde dell'Adda, che su quelle dell'Adige. Arrivava Suwarow a fronte del nemico, e senza soprastare, si risolveva a combatterlo. Suo pensiero era stato, dappoichè aveva il freno dei collegati, d'insistere sulla destra verso i monti, piuttosto che seguitare il corso del Po, perchè desiderava di disgiungere i Francesi, che combattevano in Italia, da quelli che guerreggiavano nella Svizzera. Per la qual cosa andava radendo le falde dell'Alpi, ed amò meglio tentare il passo del fiume più verso il lago, che verso il Po. Divideva, come i Francesi, i suoi in tre parti: commetteva la prima che marciava a destra al generale Rosemberg, che aveva con se Wukassowich, guidatore dell'antiguardo. Questa parte aveva il carico di aprirsi il varco in qualche luogo vicino al lago. La seconda, cioè la mezzana guidata da Zopf e Ott, doveva far opera di passare in cospetto di Vaprio, e d'impadronirsi di questa terra. Finalmente la terza, che camminava a sinistra, commessa al valore del generalissimo Austriaco Melas, andava porsi a campo a Triviglio contro l'alloggiamento principale dei Francesi a Cassano. Francesi e Russi, nuovi nemici, eccitavano l'attenzion del mondo. Serrurier, dopo di aver combattuto, e respinto con sommo valore i Russi condotti dal principe Bagrazione, che avevano assaltato la testa del ponte di Lecco, aveva, ritirandosi per ordine di Moreau verso il centro, lasciato alcune reliquie di un ponte di piatte rimpetto a Brivio, per cui egli si era trasferito oltre il fiume. La notte dei ventisei aprile Wukassowich di queste reliquie presentemente valendosi, ed avendo riattato il ponte, varcava, e s'insignoriva di Brivio, dove non trovava guardie di sorte alcuna. Nè noi possiamo restar capaci, come in tanta vicinanza del nemico, ed in tanto sospetto di una battaglia imminente, i Francesi non abbiano riguardato questo passo importante con un gagliardo presidio. Passato, correva Wukassowich la vicina contrada, e non trovava vestigia di nemico, se non se ad Agliate, ed a Carate. Ciò non ostante molto pericolava la sua squadra, se le altre non avessero passato nel medesimo tempo. Andava Suwarow accompagnato da Chasteler generale dell'imperator Francesco, capitano audacissimo e di molta sperienza, sopravvedendo i luoghi per trovar modo di passare all'incontro di Trezzo. Pareva anche agli ufficiali, che soprantendevano l'opera delle piatte, e del passare i fiumi, il varcare impossibile per la rapidità e profondità delle acque, e per la natura rotta e scoscesa delle grotte. Tuttavia non disperava dell'impresa Chasteler; però fatto lavorar sollecitamente i suoi soldati nel trasportar le piatte e le tavole necessarie, tanto s'ingegnò, che alle cinque della mattina del ventisette mandava a pigliar luogo sulla destra un corpo di corridori, che vi si appiattavano, senza che i Francesi se ne accorgessero, e poco poscia passava egli stesso con tutte le genti della mezza schiera armate alla leggiera. Parve cosa strana a Serrurier, il quale, udito del passo conseguito da Wukassowich, marciava per combatterlo, e si trovava a Vaprio. Ma da quell'uomo valente ch'egli era, raccolti subitamente i suoi, anche quelli che erano stati fugati da Trezzo, ingaggiava la battaglia col nemico, non ben ancor sicuro della possessione della destra riva. Piegava al durissimo incontro l'antiguardo dei confederati, e sarebbe stato intieramente sconfitto, se non arrivava subitamente al riscatto con tutta la sua schiera l'Austriaco Ott. Si rinfrescava la battaglia più aspra di prima tra Brivio e Pozzo. Mandava Victor alcuni reggimenti dei più presti in aiuto di Serrurier, il quale valorosissimamente instando, già era in punto di acquistare la vittoria, quando giungevano in soccorso di Ott le genti di Zopf, e facevano inclinar la fortuna in favor degli alleati; perchè dopo un sanguinoso affronto cacciarono i Francesi da Pozzo, e gli misero in fuga. Un colonnello Austriaco fu morto in questo combattimento, il generale Francese Baker fatto prigione. Ingegnossi Grenier di raccozzare a Vaprio le genti rotte, ma indarno, perchè assaltato dagli Austriaci e Russi fu rotto ancor esso, ed obbligato a ritirarsi frettolosamente. Era accorso Moreau in questo pericoloso punto, ma la sua presenza non valse a ristorare la fortuna della battaglia. Per questa fazione fu Serrurier respinto all'insù, ed intieramente separato dall'altre parti dell'esercito. Mentre nel raccontato modo si combatteva fra le due schiere superiori, Melas più sotto non se n'era stato ozioso. Avevano i Francesi con forti trincee munito una testa di ponte sul canale Ritorto, pel quale avevano l'adito libero sulla riva sinistra. Melas, che sebbene fosse già molto innanzi con gli anni, era nondimeno uomo di gran cuore, assaltava col fiore de' suoi granatieri questa testa di ponte; ma vi trovava un duro intoppo, perchè con estremo valore ostarono i Francesi, ed anzi parecchie volte il ributtarono. Infine dopo molto sangue e molte morti, superava tutti gl'impedimenti, e si rendeva padrone del passo del canale Ritorto. Restava a superarsi, opera molto più difficile, la testa del ponte sull'Adda molto fortificata. Quivi fuvvi il medesimo furore per l'assalto, il medesimo valore per la resistenza. Ma crescevano ad ogni momento i soldati freschi ai confederati, per modo che spingendosi avanti sui cadaveri dei loro compagni, che quasi pareggiavano il parapetto, con le bajonette in canna superarono il passo, e fecero strage del nemico. Moreau, che in questa orribile mischia si era mescolato coi combattenti, comandava a' suoi, che, abbandonato e rotto il ponte, si ritirassero. Ciò mandarono ad effetto, aspramente seguitati dal nemico. Ebbero comodità di rompere, non tutto, ma solamente una parte del ponte: sulla opposta riva attendevano a riordinarsi. Ristorava prestamente Melas il ponte, ed una nuova, ed ugualmente aspra battaglia ingaggiava coi repubblicani, che animati dalla presenza e dai conforti del loro generalissimo virilmente si difendevano. Ma già la fortuna più poteva che il valore; già tutte le schiere superiori erano o separate, o volte in fuga, e già, oltre la schiera di Melas passata a Cassano, una novella squadra, che aveva varcato a San Gervasio, urtava i Francesi per fianco: già Moreau medesimo era in pericolo di esser preso dai vincitori, che il cingevano d'ogn'intorno. Altro consiglio non gli restava se non quello di partirsi prestamente con tutte le sue genti, lasciando intieramente la vittoria in poter di coloro, che l'avevano acquistata. Ma questa risoluzione non era facile a condursi ad effetto, perchè gli Austriaci vincitori da ogni parte baldanzosamente instavano. Pure pel disperato valore de' suoi soldati, che amavano meglio perdere la vita, che il loro capitano, Moreau si riscattava da quel duro passo, e perduta intieramente la battaglia, e lasciato Milano sicura preda ai confederati, gli parve di condurre a presti passi l'esercito sulla destra sponda del Ticino. Melas e Suwarow si ricongiunsero a Gorgonzola. Da quanto si è fin qui raccontato si vede, che nissuna speranza di salute restava a Serrurier. Fu assaltato dai due corpi riuniti di Rosemberg e di Wukassowich. Si difendeva con un valore degno di lui e de' suoi soldati; e sebbene il combattimento fosse tanto disuguale pel numero, tanto fece, che si condusse intero a Verderia, e quivi affortificatosi con molta prestezza ed arte attendeva a difendersi. Ma essendosi finalmente accorto dal continuo ingrossar del nemico, dell'infelice successo della battaglia sulle altre parti, e tempestando da tutte le bande le artiglierìe nemiche sopra uno spazio assai ristretto, chiese i patti, e gli conseguì molto onorevoli. Gli ufficiali avessero la facoltà di tornarsene sotto fede in Francia, i soldati fossero i primi ad avere gli scambi. Combatterono in questo fatto con molta fede e valore i reggimenti Piemontesi condotti dal generale Fresia. Serrurier e Fresia furono trattati umanamente dai vincitori. Un presidio lasciato in Lecco sotto il colonnello Soyez, imbarcatosi sul lago, e giunto con prospera navigazione a Como, arrivava a salvamento sulle rive del Ticino; difficile, e coraggiosa impresa. Mancarono in questa battaglia di Cassano, che fu una delle più aspre e sanguinose che si siano vedute, dei Francesi meglio di due mila uccisi, ed altrettanti feriti: cinque mila prigioni vennero in poter del vincitore; tra questi Serrurier, Baker e Fresia. Furono scemati gl'imperiali di tre mila soldati o morti, o feriti. Molte armi e bandiere conquistate accrebbero l'allegrezza loro. Più di cento cannoni venuti in poter loro attestarono massimamente la grandezza della vittoria. Errarono, come è evidente, i Francesi in questa battaglia, prima per aver troppo disteso le ali loro, poi per negligenza nel sopravvedere: il che diè comodità a Wukassovich ed a Chasteler di passare a Brivio ed a Trezzo; del resto combatterono col solito valore. Debbonsi lodare i confederati di un valor pari, di molta destrezza, e di maggior audacia nell'aver passato. Tuttavia, se non era Chasteler, che prestamente accorse in ajuto dei passati con genti fresche, la cosa si sarebbe ridotta dal canto dei confederati in gravissimo pericolo, e probabilmente la loro audacia sarebbe stata stimata temerità. La vittoria di Cassano, che compiva quelle di Verona e di Magnano, e faceva tanto crescere il nome imperiale in Italia, recò in poter degli alleati tutta la Lombardia, ed il Piemonte. In tanta disuguaglianza di forze militari, ajutate dalle inclinazioni dei popoli, non si comprende come i Francesi si siano risoluti a lasciare tanti presidj nelle fortezze dei paesi abbandonati, era evidente, che sarebbero stati costretti a capitolare, atteso massimamente che le più non erano difendevoli lungo tempo. Mantova sola poteva, e doveva guardarsi, perchè abile a sostenersi, e ad aspettare i sussidj di Francia, e quanto portassero i destini da Napoli per opera di Macdonald. Se dopo le rotte di Verona e di Magnano, si fossero chiamati i presidj a congiungersi colla parte principale avrebbero potuto combattere del pari, e tenere in pendente la fortuna. Ma avendo voluto combattere spartitamente, furono anche spartitamente debellati, colpa o di soverchia confidenza in se stessi, o di poca avvertenza dei loro generali. Le genti Russe più affaticate delle Austriache per lungo viaggio, si riposarono dopo la battaglia. Fu perciò commessa la cura a Melas di condurre quelle dell'imperatore Francesco in Milano già vinto prima che occupato. Importava altresì, che un paese Austriaco fosse dagli Austriaci ritornato alla consueta obbedienza. Vivevasi in Milano con grandissima sospensione di animi, perchè i reggitori della repubblica, con tutti gli addetti ed aderenti loro, non avevano altra speranza in tanta mutazione di fortuna, che quella di salvarsi esulando in Francia. I partigiani del governo antico sollevavano gli animi a grandi speranze, e si promettevano nella depressione altrui l'esaltazione propria. Ognuno pensava od a fuggire la tempesta che sovrastava, od a farla fruttificare in suo pro. Gli amatori del governo imperiale buoni compassionavano i repubblicani, stimandogli piuttosto fanatici che malvagi, i cattivi gli volevano perseguitare, i pessimi denunziare, i profligati calunniare. Questi umori covavano. Era un gran fatto, che la sede di una repubblica riconosciuta dalla maggior parte dei potentati d'Europa, e che poc'anzi pareva, a tanti gloriosi gesti, ed alla forza dei Francesi appoggiandosi, che fosse per durare molti secoli, ora con tanto precipizio cadesse, ed al nulla si riducesse. Il pensare da una parte agli ordinamenti sì civili che militari, che vi regnavano, alle pompe che vi si spiegavano, ai discorsi che vi si facevano, agli scritti che vi si pubblicavano, ai trionfi che vi si menavano, alle imprese ed alla militare gloria di Buonaparte che vi risplendevano; dall'altra alla sembianza, ch'ella, non che fra pochi dì, fra poche ore avrebbe, dee soprapprendere con maraviglia e con istupore qualunque uomo, anche di quelli che più sono avvezzi a considerare queste umane vicissitudini. Sapevano i capi della repubblica, quale ruina sovrastasse, ma le cattive novelle si celavano al volgo, ed inorpellate cose si dicevano, ora di vittorie francesi, ora di alloggiamenti insuperabili da loro fatti, ora di fiumi impossibili a varcarsi, ora di mosse maestrevoli e sicure eseguite dai repubblicani, ora di una apprestata per arte, e prossima ruina di tutte le genti imperiali: questa fama nutricavano diligentemente, e con ogni studio. Con questo falso corrompevano il vero; i popoli si confondevano. In su questo, ecco arrivare a porta Orientale dalla parte di Cassano soldati repubblicani alla sbandata, carri di feriti, fastelli di munizioni e di bagaglie, armi sanguinose, ogni cosa retrograda. Principiava il popolo a fare discorsi ed adunanze; la sera cresceva il terrore degli uni, l'ansietà degli altri. Partivano; scortati da qualche squadra di cavalleria alla volta di Torino i direttori della repubblica Marescalchi, Sopransi, Vertemati-Franchi, e con loro quasi tutti coloro, che, o nei gradi fossero, o no, avevano maggiormente partecipato del governo repubblicano. Portò il direttorio con se denaro del pubblico, di cui una parte mandava a Novara: venne poco dopo in poter degli alleati. Rimase in Lombardìa Adelasio, uno dei quinqueviri, avendo trovato grazia appresso agl'imperiali per aver loro svelato i depositi dei denari, e degli archivj della repubblica. Degli altri repubblicani Italiani che fuggivano, e con loro le donne ed i figliuoli, che erano uno spettacolo compassionevole, i più se ne partivano poveri, perchè ai ladronecci avendo mostrato piuttosto sdegno che imitazione, potevano meglio essere accusati d'illusione che di vizj. Nè il duro dominio, di cui erano stati testimonj e vittime, nè le Tedesche grida che loro suonavano alle terga, gli svegliavano dal lusinghevole sonno; che anzi varcando miseri, esuli, e squallidi le Alpi durissime, andavano ancora sognando la loro felice repubblica, sì forte era la malattia, che gli occupava. Quanto a quelli che non avevano sognato, le stesse Alpi in cocchi dorati coi depredatori della patria loro varcavano. Arrivava il vincitore Melas il dì ventotto aprile in cospetto della città. Gli andavano all'incontro sino a Cressenzano, l'arcivescovo, ed i municipali. Poco dopo entrava trionfando, accorrendo il popolo in folla, e con lietissime grida salutandolo. Udivansi le voci: _Viva la religione, viva l'imperatore Francesco secondo_. Cresceva ad ogni momento la calca; pareva, che tutta la città si versasse a vedere, ed a salutare i soldati, e le insegne dell'antico signore. La sera si accesero i lumi alle case, si fecero cantate, balli, fuochi d'allegrezza: dimostrazioni tutte, che si erano fatte per lo innanzi ad ogni novella di rotte Austriache. La bontà del popolo Milanese risplendette in questo importante fatto: non fece ingiuria, nè minaccia ad alcuno. Ma quando arrivò la gente del contado, s'incominciarono le persecuzioni contro i giacobini, o veri o supposti, e andò a sacco il palazzo del duca Serbelloni. Per frenar il furore di quest'uomini facinorosi in paese tanto riputato per la dolcezza degli abitatori, l'amministrazione temporanea, che si era creata, esortava il popolo ad astenersi da ogni ingiuria, ed a non contaminare con insolenze e persecuzioni l'allegrezza comune. Avvisava inoltre, che chi non obbedisse, sarebbe castigato. Volendo Melas, ed il commissario imperiale Cocastelli dare maggior nervo a queste esortazioni, avvertivano, che al governo solo s'apparteneva la punizione de' rei, e che chi s'arrogasse vendette private, o turbasse il pubblico, sarebbe senza remissione punito militarmente. A questo modo si frenarono in Milano le intemperanze popolari. Solo, poco tempo dopo, si udì il mal suono, che erano stati arrestati alcuni dei capi dello stato repubblicano, che poi si mandarono carcerati alle bocche di Cattaro. Fu questa, non so se cautela o castigo, cagione di grave dolore e terrore, perchè i presi erano uomini ragguardevoli per dottrina e per virtù. Si sentiva tosto un'altra voce sinistra, che le cedole del banco di Vienna avessero a spendersi come contante: parve enorme in quel fiorito paese, in cui era ignota la peste delle carte pecuniarie. Incominciossi a temere delle persone e degli averi: ciò contaminava l'allegrezza recente. Arrivava intanto Suwarow; il guardavano come un nuovo uomo: disse all'arcivescovo, essere venuto a rimettere la religione in fiore, il papa in seggio, i sovrani in onore. Si maravigliavano i popoli a tanto amor del papa: si taceva che fosse scismatico. Soggiunse ai municipali venuti a fargli riverenza, che gli vedeva volentieri; che solo desiderava, che come suonavano le parole loro, così avessero i sentimenti. Dal che si vede, che Suwarow vecchio se ne intendeva. Restavano a compirsi da Suwarow due imprese, secondo che il consigliasse il procedere dell'avversario: quest'erano, o di premere a destra per disgiungere i Francesi d'Italia da quei della Svizzera, o d'incalzare sulla stanca, passando il Po, per impedire la congiunzione di Macdonald con Moreau. Sulle prime, non ben certo della risoluzione del generale di Francia, accennava all'una parte ed all'altra, mandando dall'un lato Wukassowich grosso ad invadere il Novarese ed il Vercellese, dall'altro Rosemberg, grosso ancor esso a romoreggiare sul Vogherese. Così aspettava a pigliare deliberazioni più risolute, secondo che insegnassero gli andamenti del nemico. Dal canto suo Moreau, essendo ridotto il suo esercito a quindici mila combattenti, aveva considerato, che senza pericolo di estrema ruina, non poteva starsi a difendere la fronte del Ticino, siccome quella che era troppo estesa, e non corroborata da alcuna fortezza. Pertanto si era risoluto ad abbandonarla, portandosi più indietro. Ma a quale parte gli convenisse condursi, stava in dubbio; perchè o doveva ancor egli pensare al tenersi accosto all'Alpi per consentire con Massena, che continuava a combattere aspramente in Isvizzera, o al piegarsi sulla destra del Po per dar la mano a Macdonald, al quale aveva mandato ordine, che da Napoli partendo, e prestamente viaggiando venisse a congiungersi con esso lui sulle sponde della Trebbia. Elesse questo secondo partito, nè perchè non si sia deliberato a condursi direttamente a Genova, passando il Po tra Pavia e Voghera, a noi non appare, se forse non fu per dar animo con la sua propinquità ai comandanti delle fortezze assediate di sostentarsi. Per la qual cosa visitato Torino, e quivi informatosi diligentemente, se le strade da Genova a Piacenza fossero praticabili per le artiglierìe, nè temendo di essere seguitato così presto, perchè i grossi torrenti del Canavese si erano per le pioggie smisurate gonfiati strabocchevolmente dietro a lui, e le strade ne erano soffocate, conduceva l'esercito nei contorni d'Alessandria, alloggiandolo in un sito molto forte. L'ala sua destra era assicurata da Alessandria e dal Tanaro, la sinistra da Valenza e dal Po. Per tal modo non abbandonava del tutto le pianure, e si teneva la strada aperta verso gli Apennini. Per la quale deliberazione del capitano di Francia fu necessitato Suwarow a fermare la guerra tra la destra del Po, e la catena di quei monti. Erano cinte d'assedio dagli alleati Peschiera, Pizzighettone, il castello di Milano, e Mantova. Ma non indugiarono lungo tempo ad arrendersi Peschiera ed il castello, fatto leggiere difese; Pizzighettone si tenne più lungamente, infine un caso fortuito di una conserva di polvere, che accesa da una bomba, aveva intronato tutta la terra, diè causa di dedizione ai difensori. Rimanevano in favor dei Francesi Mantova, intorno alla quale, siccome piazza di maggiore importanza, Kray si affaticava, e con Mantova tutte le fortezze del Piemonte. Ingrossati gli alleati dai corpi che avevano oppugnato le fortezze conquistate, e fatti arditi dalle sollevazioni dei popoli in loro favore, si accostavano a Moreau coll'intento di cacciarlo per forza da quel forte nido, in cui si era ricoverato. Ma credendo, che egli fosse più debole, o i Francesi più perduti d'animo, in vece di andar all'incontro con forze grosse ed unite per venirne ad una battaglia giusta, giudicarono di poterlo snidare con dimostrazioni parziali, e con romoreggiarli all'intorno. Passarono i confederati, massimamente Russi, il dì undici maggio, il Po a Bassignana; i Francesi, essendo andati ad urtargli, gli ruppero, e tuffarono nel fiume. Ripassaronlo più grossi il giorno seguente, ed assaltarono virilmente i repubblicani; ma essi più virilmente ancora resistendo, rimasero superiori, ed uccisero gran numero d'imperiali; i superstiti cacciarono nel fiume. Nè quale utilità avessero questi assalti particolari, io non lo so vedere, perciocchè, quando puoi vincere con tutte le forze, non ti devi mettere a pericolo di perdere con una parte. Dall'altro lato Keim, acquistato Pizzighettone, era venuto ad ingrossare Rosemberg sulla destra del Po, e fatto forza contro Tortona, facilmente la recava in suo potere, essendosi i Francesi ritirati nel forte. Tentata invano l'ala sinistra di Moreau, avvisarono i confederati di far pruova, se minacciando sulla destra, il potessero sforzare alla ritirata. A questo fine si appresentarono molto grossi a San Giuliano, che accenna a Marengo, luogo vicino ad Alessandria. Ma Moreau, che conosceva l'arte, ed aveva penetrato l'intento del nemico, ricusava il combattere, difendendosi con la fortezza degli alloggiamenti. Ciò fu cagione, che Suwarow pensasse a fare il principale sforzo della guerra sulla sinistra del Po. Della qual cosa accortosi il generale di Francia, usciva, traversata la Bormida, dal suo campo, ed assaltava con impeto grandissimo Keim e Froelich, che avevano le stanze a San Giuliano, ed obbedivano a Lusignano. S'ingaggiava una battaglia molto viva, traendo i Francesi a scaglia, e caricando con la cavallerìa. Avrebbero anche vinto quella pugna, se per caso fortuito non sopraggiungeva con genti fresche Bagrazione, che entrando nella battaglia nel momento, in cui già i confederati piegavano, gli sostenne, ed obbligò Moreau a tirarsi indietro. Ritirossi infatti, ma intiero e minaccioso, tornando nel suo sicuro alloggiamento fra i due fiumi. Fu sanguinosa la zuffa da ambe le parti, ed ambedue si attribuirono la vittoria. Così Moreau dimostrava, che era ancor vivo, e che gl'infortunj presenti non gli avevano tolto nè la mente, nè la fortezza d'animo. Oramai la guerra, che gli romoreggiava tutto all'intorno, lo sforzava a far nuove deliberazioni. Wukassowich, accompagnato da un principe di Roano, conquistato il Vercellese, si era fatto avanti sino alle prime terre del Canavese, e tutto vi metteva a romore. Keim ancor egli tempestava sulla destra del Po, per modo che il generale Francese si trovava spuntato da ambi i lati. Oltre a ciò i popoli del Canavese, condotti da preti e frati si erano levati a calca contro i repubblicani. Mondovì parimente si muoveva contro di loro; Fossano e Cherasco il seguitavano. Ceva incitata da un ufficiale Tedesco di singolare audacia, prese le armi, tumultuava. Alba si sommuoveva, e creato il suo vescovo Pio Vitale, comandante delle armi, si avventava contro i Francesi ed i democrati del paese. Si commisero sotto l'imperio del vescovo atti di grande crudeltà. Asti stesso tanto vicino al campo di Moreau, invaso da contadini armati, e stimolati da alcuni curati, di cui avevano le lettere, vide saccheggiarsi il palazzo municipale, e la chiesa del Carmine da questa plebe sfrenata, che gridava _viva la fede_, _viva San Secondo_! Il presidio Francese non penò poco a cacciargli: pure finalmente gli cacciò, uccidendone un centinajo. Poi venne il generale Meusnier saccheggiando il paese per punirgli, e ne fece per giudizj militari uccidere un altro centinajo. I compagni gli gridavano martiri. Le terre Astigiane grondavano sangue, quasi in sul cospetto di Moreau. Pensava egli alla salute de' suoi: vedendo piena troppo grossa, e che non era più tempo di aspettar tempo, passando per Asti, Cherasco e Fossano, e lasciate ben guardate Alessandria e Tortona, andava a porsi alle stanze di Cuneo, per avere le strade libere verso Francia pel colle di Tenda, e per la valle dell'Argentera. Mandava una grossa banda a castigare Mondovì; come i sollevati a niuna cosa avevano perdonato, che fosse, o paresse, o si supponesse a loro contraria, nemmeno alle donne di coloro che chiamavano a morte, perciocchè crudelmente le svillaneggiavano e stupravano; così i repubblicani parimente a niuna cosa perdonarono, non salvando nemmeno l'onestà dei monasterj delle donne. Preti e frati, capi delle sommosse, dopo di aver ucciso crudelmente i repubblicani, furono essi medesimi uccisi soldatescamente dai repubblicani. In mezzo a questi atroci accidenti, di cui ambe le parti si rendevano ree, Buronzo del Signore, arcivescovo di Torino, mandava fuori, a petizione di Musset, commissario di Francia, lettere pastorali lodatrici del governo repubblicano, e pareggiatrici delle sue massime a quelle del Vangelo. Poi crescendo vieppiù la rabbia dei popoli, pubblicava una pastorale esortatoria, in cui molto amorevolmente citando frequenti passi delle sacre scritture, confortava i popoli a quietare, e ad obbedire ai magistrati. Questi erano veri ufficj di pastore delle anime; ma la rabbia, e la concitazione degli altri cherici erano più potenti delle amorevoli esortazioni dell'arcivescovo: dicevano, che le faceva per forza, e forse era vero; altri il chiamavano giacobino. Da Cuneo il generale della repubblica, lasciatovi un forte presidio, si conduceva, essendo oggimai stremo di genti, sul destro dorso degli Apennini. Partiti i Francesi, ciò fu cagione che l'amministrazione del Piemonte, che Moreau passando per Torino aveva creato di quattro persone, Pelisseri, Russignoli, Capriata e Geymet, in surrogazione di Musset tornatosi in su quei primi romori, in Francia, andasse a far capo in Pinerolo, perchè le valli dei Valdesi, vicine a questa città, ed abitate da popoli quieti e nemici di ogni scandalo, davano un adito sicuro a ripararsi in Francia. Quivi concorrevano tutti i Piemontesi, ed altri Italiani, che avevano più speranza nella fuga, che nella benignità del vincitore. Le cose erano disperate: pure quest'uomini ingannati dalle solite fantasime, con grandissima acerbità sdegnati minacciavano ancora i nemici, ed incitavano i popoli ad armarsi in sostegno della repubblica. Per la partenza medesima dei soldati di Francia si moltiplicavano a dismisura in Piemonte le sommosse popolari. La rabbia politica, il zelo, come pretendevano, della religione, spesso ancora l'amore del sacco, e gli odj privati producevano questi effetti. Sorse ad accrescergli un manifesto mandato da Suwarow ai Piemontesi dalle sue stanze di Voghera, il quale con parole aspre e minatorie spiegava le intenzioni imperiali: che gli eserciti vincitori mandati dall'Austria e dalla Russia in nome del legittimo sovrano del Piemonte verso il Piemonte volgevano il passo; che venivano per rimettere il re sul trono de' suoi augusti antenati, del quale per la perfidia loro l'avevano i suoi nemici detruso; che venivano, perchè la religione trionfasse, perchè il Piemonte da quel duro e tirannico giogo, al quale da' suoi oppressori era stato posto, si liberasse, perchè il mal costume, che essi in tutti i cuori andavano seminando, si spegnesse; che sapevano quale amore, quale fedeltà i Piemontesi portassero all'augusta casa di Savoja, la quale da tanti secoli con tanta gloria e sapienza gli aveva governati; gli esortavano pertanto ad armarsi per una causa nell'esito felice della quale tutta la felicità loro consisteva: pensassero ai loro antenati, quelle armi in mano di nuovo si recassero, che erano state sì spesso vittoriose contro il comune nemico; accorressero sotto le insegne dell'esercito vittorioso, ch'egli reggeva, si unissero, e sarebbero gl'impostori, che per opprimergli gli avevano ingannati, cacciati per sempre dalle terre loro; che alle armi gl'invitava solo pel sostegno della religione; che alle medesime gl'invitava solo per la conservazione delle proprietà: che i due imperatori, ed ei per loro, promettevano protezione, ed assistenza ai fedeli, perdono al deboli, castigo ai scellerati. Si armassero adunque, concludeva, si armassero, ed alle genti imperiali si accostassero: pensassero, quanto fosse pietoso il liberare il Piemonte dalla tirannide acerbissima dei giacobini; ciò da loro richiedere l'onore, ciò richiedere il dovere; non gli rattenessero le false promesse: solo valere il giuramento antico, non quello prestato ad un governo iniquo; le sublimi virtù dei due imperatori abbastanza dimostrare, che la fede sua nel promettere o benignità o castigo, viverebbe santa ed inviolata. Queste parole atterrivano maravigliosamente gli uomini avversi, perchè sapevano, che Suwarow era uomo capace di fare più che non diceva. Dall'altro lato le genti stimolate si sollevavano: atroci fatti seguitavano parole incitatrici. Carmagnola, città vicina a Torino, si levava a romore, ed ammazzava i repubblicani che viaggiavano alla spicciolata: i repubblicani accorsi armatamente da Pinerolo ammazzavano i Carmagnolesi, ardevano le case loro, e davano inesorabilmente a morte i frati, autori della sommossa. Queste cose succedevano a ostro di Torino: a tramontana delle peggiori. Il Canavese, provincia dotata di popoli armigeri e fieri, vieppiù s'infiammava; vi sorgevano opere, parte da commedia, parte da tragedia. Un antico ufficiale in riposo d'Austria, che Branda-Lucioni aveva nome, giudicando che quello fosse tempo da prevalersene, si era fatto capo di villani armati, e già aveva corso sollevando, e depredando il Novarese ed il Vercellese, quando fermatosi in Canavese, pose la sua sede in Chivasso. Le turbe agresti che il seguitavano, erano andate, strada facendo, ingrossandosi: le chiamava masse cristiane. Questo Branda con le sue masse, quando arrivava in una terra, prima cosa, atterrava l'albero della libertà, e piantava in suo luogo una croce: quivi poscia s'inginocchiava, e stava un pezzo orando. Poi trovava il paroco, e si confessava e comunicava. Nè dimenticava la cura del corpo; perchè si dava al desinare, ed usava anche del vino immoderatamente: la massa cristiana vedeva spesso andar a onde il buon uomo. Nè gli importava, che due più che una volta le medesime cose nello stesso giorno facesse, perchè quanti villaggi visitava, tante le ripeteva. S'informava, se nella terra fossero giacobini, ed avveniva, che i giacobini erano sempre i più ricchi: erano messi o a taglia o a ruba. Chi non pagava, predato o carcerato, ma il pagar la taglia mezzo sicuro di riscatto. Due cappuccini aveva per segretari: preti, curati e frati l'accompagnavano con forche, picche, pistole e crocifissi. Frati erano d'ogni sorta e di ogni colore, ed armati in varie e strane guise: un curato accinto di pistole assai ben grosse, custodiva il passo della Stura. I villani seguitando facevano gesti e schiamazzi, parte ridicoli, parte tremendi. Il terrore dominava il Canavese. Non solo chi aveva opinione contraria, ma chi aveva o lite, o interesse contrario con alcuno di quest'uomini fanatici, era chiamato a strazi, a prigionìa, ed a morte. Nè preservava l'età, o la virtù, o l'innocenza; tutti erano da un incomposto furore lacerati. Sonsi vedute donne tratte, per opinioni o vere o supposte, alle ingiurie estreme da uomini sceleratissimi: sonsi veduti magistrati rispettabili legati con corde, e svillaneggiati con ogni obbrobrio da uomini facinorosi, che avevano anticamente, e sotto il governo regio chiamati a giustizia per commessi delitti: sonsi veduti vecchi infermi, o scempiati da queste masse furibonde, o fuggenti con istento la cieca rabbia, che gli perseguitava. Le matte cose, che questo Branda dava a credere alle sue masse, sono piuttosto di un altro mondo, che di questo; perchè diceva, che con bastoni e con pali avrebbe preso la cittadella di Torino, ed elle se lo credevano; che avrebbe preso Francia, e se lo credevano; che Gesù Cristo gli compariva, e se lo credevano; e preti e frati applaudivano, e più applaudivano, nelle meriggiane ore, che nelle mattutine. Credo, che scena simile a questa non sia stata al mondo mai. Intanto il buon uomo si prendeva le taglie, ed attendeva al vino. Infine, prima i preti timorosi, poi i villani sospettosi incominciarono a subodorar l'umore, e diedero mano al mormorare. Brevemente, vedendosi scoperto, si cansò, e temendo, che i generali Russi o Tedeschi, ai quali non piacevano le opere nefande, gli dessero premio secondo i meriti, andava domandando attestati di ben servito a questo ed a quello, massime ai preti: alcuni gliene diedero, o per compassione o per timore; i più gli ricusarono. Il vescovo, e la città di Novara sdegnosamente glieli negarono, fu posto pe' suoi portamenti in carcere a Milano, e vi stette tre mesi. Durerà lungo tempo la memoria di questo Branda in Canavese, come caso di credulità sciocca, e di furore pazzo. Ai tempi che seguirono, e quando i repubblicani tornarono in Piemonte, prevalse fra di loro l'uso, che chi parteggiava, o fosse creduto parteggiare pel governo regio, Branda da questo lepido capo si chiamasse. Intanto le masse sollevate continuavano, nè furono sciolte, se non quando i confederati, fatti più sicuri dalle vittorie, giudicarono, i moti composti essere migliori degl'incomposti. Frattanto Suwarow intendeva l'animo all'acquisto di Torino, perchè essendo città capitale, si stimava che la possessione di lei, facendo risorgere l'immagine del regno, inviterebbe i popoli a tornar all'antica obbedienza. Oltre a questo, importavano agli alleati il suo sito, molto accomodato alla guerra, e la copia delle artiglierìe e delle munizioni, che vi si trovava ammassata. Non aveva potuto Moreau, per la debolezza delle genti, che gli restavano, lasciar in Torino un presidio sufficiente, e dalla guarnigione della cittadella in fuori non vi era forza che potesse preservar la città quantunque fosse cinta di mura forti, ed ordinate, secondo l'arte, a difesa. Ad un recinto tanto largo appena avrebbe potuto bastare contro l'oppugnazione tutto l'esercito, che il generale di Francia aveva condotto oltre i sommi gioghi dei monti. Solo vi era dentro una guardia cittadina, che prima urbana, poscia nazionale chiamata, ed avendo oggimai a noja e le mutazioni e le guerre, e le grida di questo o di quello, intendeva solamente a conservare intatte le proprietà e le persone. Arrivava Wukassowich con genti regolari, e turbe paesane; faceva la chiamata. Rispondeva Fiorella, volersi difendere. L'Austriaco, occupato il monte dei Cappuccini, che dalla riva opposta del Po sopraggiudica la città, e piantatevi alcune artiglierìe, non grosse, ma da guerra sciolta, principiava da quel luogo rilevato a dar la batterìa; rispondevano, ma debolmente le artiglierìe della mura. Non facendo frutto con le palle, provò le bombe, perchè sapeva, che si resisteva piuttosto pel difetto delle armi, e delle genti necessarie ad espugnare, che per la sufficenza del presidio. S'accesero alcune case vicine alla porta di Po; il che fra quello strepito di artiglierìe accrebbe molto il terrore; già le menti commosse credevano approssimarsi l'estremo sterminio. In questo punto la guardia urbana apriva la porta. Entrarono a furia i soldati corridori di Wukassovich; gli accompagnavano, cosa di grandissimo spavento, le turbe informi di Branda-Lucioni. Salvaronsi frettolosamente in cittadella i pochi soldati repubblicani, che alloggiavano in città, dei quali alcuni furono presi, altri uccisi. Già Torino non era più in poter di Francia, ma non era ancora del tutto in poter d'Austria, perchè su quel primo giungere le turbe contadinesche dominavano. Per primo fatto, ed in sul bell'entrare uccisero un Ghiliossi, ufficiale d'artiglierìa molto riputato, il quale, quantunque fosse in voce di amare il governo nuovo, si era mescolato, certo molto imprudentemente, coi circostanti per vedere passare quegli uomini arrabbiati. Scoperto, _oh_, _ecco un giacobino_, dissero, e tosto l'ammazzarono. Il suo cadavere fu lasciato giacere nel sangue lungo tempo, e ad esso con gli scherni e con gl'impropreri insultavano. Le feroci masse ebbre di rabbia e di vino, correvano le contrade, riempiendo l'aria di grida orribili; si promettevano il sacco. Un cavaliere Derossi, colla spada nuda in mano, gli guidava ed animava, e correndo con loro gridava, e faceva che gridassero _Viva il re_, _viva la casa di Savoja_, _muojano i giacobini_. In mezzo a queste grida la moltitudine sfrenata dava il sacco alle case Ferrero e Miroglio, ed al caffè di Scanz, a quelle come di giacobini, a questo per non so quale insegna repubblicana. Derossi faceva minacce a chi affacciatosi alle finestre, non gridasse: _Viva il re._ Mangiari di ogni sorta, e fiaschi di vino si calavano continuamente e so dire, molto volentieri, dalle finestre, perchè non era tempo da esitare. I villani gridavano senza posa, _muojano i giacobini_! _dove sono questi giacobini_? _che ci si diano qua_: _che stiam facendo_, _che non gli ammazziamo tutti_? Giacobini e non giacobini si nascondevano, perchè sapevano, qual discernimento abbia in simili casi il volgo. Insomma Torino pieno di spavento aspettava qualche gran ruina, e se i confederati non fossero stati presti ad accorrere, ed a frenare quegli uomini furibondi, sarebbero forse avvenuti mali peggiori di quelli che si temevano. Premevano gli animi di tutti i pensieri delle cose presenti e future. Quando i tumulti, che avevano conquassato il Piemonte, alcun poco restarono, entrava a guisa di trionfatore il generalissimo Suwarow. Andava in sul giungere nella chiesa metropolitana di San Giovanni per ringraziare Iddio dell'acquistata vittoria. Fu ammesso molto volentieri al bacio della pace, ed alla celebrazione dei divini misteri dall'arcivescovo Buronzo, il quale, dopo di aver lodato alcuni giorni prima la repubblica, ora chiamava nelle sue nuove pastorali il generale Russo, inviato del Signore, novello Ciro. Nè si oppose al vedere certe immagini, che si andavano vendendo, e che il volgo ignaro osservava maravigliando, nelle quali la Russia, l'Austria e la Turchia erano rappresentate con gli attribuiti della Santissima Trinità. Queste cose io narro bene a mala voglia; pure son costretto a narrarle per amor della verità, e perchè i nostri nipoti sappiano, quanto noi siamo stati pazzi. Intanto Fiorella, che governava la cittadella, traeva con le artiglierìe; i confederati traevano contro di lui: era vicino un altro sterminio; i miseri Torinesi tra Francesi, Russi, Austriaci, repubblicani, regj, dalle paure e dai dolori non potevano respirare. Infine le due parti convennero, perchè altrimenti la sede del re ne andava in sobbisso, che i confederati non assalterebbero la cittadella dalla parte della città, ed i Francesi non infesterebbero la città dalla cittadella. Era Suwarow continuamente veduto, e corteggiato dai nobili; i più savi consigliavano la moderazione, gli altri il rigore. Il Russo, quantunque fosse di natura molto risentita, ed anzi acerba, massime in queste faccende di stato, più volentieri udiva i primi che i secondi, perchè giudicava secondo la ragione, non secondo le parzialità del luogo, o i desiderj dì vendetta. Gli pareva, sebbene fosse venuto dall'Orsa, che fosse oggimai tempo di riordinare lo stato, piuttosto che di alterarlo con le acerbità, che generano nuove nimicizie e nuovi sdegni. Chiamava a se il marchese Thaon di Sant'Andrea, e gli dava carico di riordinare i reggimenti del re. Il marchese con un acconcio manifesto esortava i soldati Piemontesi a tornare sotto le antiche insegne, promettendo, che si sarebbero perdonate le trasgressioni, e si aprirebbe volentieri il grembo a tutti gli sviati, che per le difficoltà dei tempi si erano voltati a servire ai governi nuovi, e che prontamente si rimettessero nell'obbedienza: a queste parole senza tardità i soldati si raccoglievano. Poi Suwarow consigliandosi col marchese medesimo, e con gli altri capi del governo regio creava, per dar forma alle cose sconvolte, un governo interinale sotto nome di consiglio supremo, insino al ritorno del re. Riputando poi a proposito di lui il dare la potestà ai più affezionati, vi chiamava il marchese, i capi delle tre segreterìe, i primi presidenti del senato e della camera dei conti, l'avvocato, ed il procurator generale, l'intendente generale delle finanze, il contador generale, ed il reggente il controllo generale; voleva, che i magistrati antichi riprendessero gli uffizi; ordinava, che il consiglio supremo fra le leggi emanate dopo la partenza del re, scegliesse quelle che si dovessero conservare. Grave peso era addossato al consiglio: le cose scomposte oltre ogni credere, massimamente le finanze. Oltre la voragine della guerra, e le molestie, le fraudi, e le rapine degli amministratori degli eserciti Russo ed Austriaco, certamente non più continenti dei repubblicani, quei biglietti di credito laceravano lo stato. Per liberarsene, decretava che si spendessero, e nei pagamenti si accettassero, non a valor di segno nè di editto, ma a valor di cambio, deliberazione giusta in se rispetto ai particolari tra di loro, non rispetto al governo. Parve decreto enorme: gravi risentimenti aveva prodotto la legge precedente, che aveva scemato dei due terzi il valore dei biglietti, ma questa del consiglio, sancita, come si disse, a petizione del conte Balbo, soprantendente le finanze, del valore che solo valessero a valor di cambio, ne partorì dei più gravi. Oltrechè i possessori si trovarono offesi della differenza tra il valore edittale, e quel di cambio, la legge del governo istituito dai Francesi aveva offeso solamente gl'interessi privati, mentre questa offendeva gl'interessi privati ed il buon costume, ed aperse la porta ad abusi innumerabili; imperciocchè s'incominciò a far disegni, ed a negoziare sull'aggio, pessima corruttela dello stato sociale. Grande difficoltà era pure nel provvedere le vettovaglie necessarie alle popolazioni paesane, ed a tante genti forestiere; perchè la vernata essendo stata molto aspra, vi era estrema carestia; e siccome i più forti erano i primi a procacciarsele, così i vincitori, che si chiamavano amici ed alleati, se ne vivevano largamente, mentre gli uomini del paese pativano all'estremo dei cibi necessarj, ed erano tormentati dalle ultime necessità; alcuni se ne morirono di fame. I vincitori pascevano i cavalli coi granelli della saggina o sia meliga, che è il principal cibo dei contadini del paese, ed i Piemontesi affamati ne domandavano invano. Furon visti uomini costretti dalla estrema fame razzolare, crudo ed insolito spettacolo in Piemonte, nello stallatico dei cavalli, e pascersi dei granelli superstiti, miserabili reliquie. A questo si aggiungeva, che se i villani frenati dai capitani, avevano cessato, sebbene non intieramente, dal sacco e dalle persecuzioni, i Cosacchi, i Panduri, e non so qual altra peste di questa sorte, avevano principiato a far da loro. La parzialità pei Francesi era il pretesto, la cupidigia la cagione, la violenza il mezzo, il furto il fine. I Piemontesi non erano sicuri nè in casa, nè fuori; le case andavano in preda, o per forza o per inganno; le ingiurie per le strade, ed anche per le contrade della real Torino si moltiplicavano; varie erano le forme: alcuni rapivano gli orologi di tasca, dicendo, _Jacob, Jacob_, come dir giacobino; e gli rapivano ai giacobini, ed ai non giacobini ugualmente. Toccavano altri i capelli, credendo, che i giacobini gli avessero mozzi, e se venivano, gridavano _Jacob, Jacob_, e mettevano l'uomo per la peggiore: nelle campagne, veduto chi andasse per la strada ai fatti suoi, tosto gridavano _Jacob_, correvano dietro, ed era forza riscattarsi, quando non si poteva fuggire. Io ho conosciuto un repubblicano, che era fatto fuggire su pei monti da una stretta di Panduri, che gli teneva dietro, gridando _fermati Jacob, fermati Jacob, che siam truppe dell'imperatore_. Quella gente zotica si persuadeva, che perchè eran truppe dell'imperatore, il repubblicano dovesse fermarsi; ma ei si dileguava loro davanti con migliori gambe. Insomma la guerra è guerra, i vincitori sono vincitori, ed il ciel guardi gli stati deboli dagli alleati potenti. Non mai il Piemonte fu tanto squallido, quanto ai tempi della presenza degli Austriaci e dei Russi. Non si fece sangue per giudizj civili nè sotto il governo di Joubert, nè sotto quello di Suwarow; ma dominando il Russo, molti partigiani del nuovo stato, fra i quali non pochi virtuosi uomini, furono carcerati, parte per odio, parte per assicurarsi di loro massimamente perchè i repubblicani innanzi che partissero, avevano arrestato, e condotto ostaggi in Francia per sicurezza dei compagni, i capi delle principali famiglie nobili del Piemonte. Il collegio dei nobili di Torino pieno di questi prigionieri di stato: eranvi il conte San Martino, il conte Galli, il conte Avogadro, l'avvocato Colla, il giudice Braida, e con molti altri quel Ranza, che al suono della rivoluzione del Piemonte sua patria, era prestamente accorso da Milano, dove secondo la sua disordinata natura, ma pure con sincerità d'animo, non contento di cosa che si facesse, o di anima che vivesse, scriveva contro tutti senza freno alcuno quanto gli suggeriva la mente sua torbida ed inquieta. Gli scherni che loro si facevano dal popolazzo erano gravi, le minacce ancor più gravi; le medesime carcerazioni nelle provincie. Vedeva il consiglio, che per confermare lo stato del re, principalmente nella capitale, si rendeva necessario l'espugnare la cittadella; perchè non solamente ella era di sicurtà grande alle cose del Piemonte, ma non si giudicava nemmeno onorevole l'avere quel morso in bocca nella sede stessa della podestà suprema: laonde, acciocchè la faccenda camminasse con maggior diligenza, si offerse a far le spese dell'oppugnazione. Il giorno tredici giugno principiarono i confederati a lavorare al fosso, ed alla trincea della prima circonvallazione, che si distendeva dalla strada di San Calvario a quella di Susa, ed era distante solamente a trecento passi dalla strada coperta. Non mancarono gli assediati a se medesimi nel voler impedire colle artiglierìe, che i nemici tirassero a perfezione la trincea. Ma questi con le solite arti affaticandosi, ed ajutati con molto fervore dai contadini, che niuna fatica o pericolo ricusavano, apprestarono le batterìe, e la mattina del diciotto diedero mano a bersagliare la fortezza. Circa cento bocche da fuoco buttavano contro di lei, parte di punto in bianco, parte e molto più di rimbalzo; la quale ultima maniera di trarre fece nella piazza danni e rovine grandissime; perchè siccome lo spazio, per non essere la cittadella molto grande, in cui piovevano le palle, era angusto, così coi salti, coi ribalzi, e coi rimandi loro avevano rotto tutte le traverse, fracassato i carretti, ferito a morte un gran numero di cannonieri: il suolo si vedeva smosso, ed arato per ogni verso. Tiratori Piemontesi abilissimi dalle trincee con grosse carabine molto aggiustatamente traevano, ed imberciavano i cannonieri per le cannoniere: i parapetti in molte parti già squarciati e rotti. Faceva Keim, che da Suwarow aveva avuto carico di quest'oppugnazione, la intimata alla piazza: rispondeva Fiorella, volersi tuttavia difendere. Il bersaglio rincominciava più forte che per lo innanzi, e continuava sino al mezzodì del diecinove. La caserma, i magazzini, la casa stessa del governatore Fiorella ardevano: una conserva di polvere aveva fatto scoppio; le casematte, per esservi trapelata molt'acqua, non offerivano rifugio. Morti erano la maggior parte dei cannonieri, le batterìe scavalcate, i parapetti distrutti; la piazza ridotta senza difese d'artiglierìe. Già la seconda circonvallazione si scavava a gittata di pistola dalla strada coperta, e gli oppugnatori la continuavano con la zappa per modo che già erano vicini a sboccare nel fosso. Il perseverare nella difesa sarebbe stato piuttosto temerità, che valore; perciò Fiorella trattò della resa. Si fermarono il dì venti i capitoli, pei quali si pattuì che il presidio uscisse con gli onori di guerra; che deponesse le armi; che avesse libero ritorno in Francia coi cavalli e colle bagaglie; che desse fede di non servire contro i confederati fino agli scambj; Fiorella, e gli altri ufficiali maggiori fossero, come prigionieri di guerra fino agli scambj, condotti in Germania. Uscirono i vinti in numero di circa tremila. Entrarono i vincitori il dì ventidue. Trovarono trecentosettantaquattro cannoni, centoquarantatrè mortai, quaranta obici, trentamila fucili, polvere, ed altre munizioni da guerra in grande abbondanza; insigni spoglie conquistate in pochi giorni. In così breve spazio di tempo ebbe la sua perfezione l'opera di sforzare la cittadella di Torino, e fu costretta alla dedizione una fortezza, che in una guerra anteriore aveva per ben quattro mesi vinto la contesa contro un esercito assai grosso di Francia. Gli uffiziali d'artiglierìa, ed i cannonieri Piemontesi, che in questo fatto combatterono pel re, fecero opere di egregio valore. Dimostrossi massimamente singolare la virtù di un Ruffini, capitano di non mediocre perizia, e molto dedito all'antico governo. Ottenuta la cittadella, se ne giva Keim ad ingrossare sulle sponde della Bormida Suwarow, al quale la fortuna stava preparando nuove fatiche, e nuovi trionfi. Fecersi in Torino molti rallegramenti civili, militari, e religiosi per la riacquistata cittadella. Ne pigliarono i regj felici augurj. Mandava Suwarow pregando il re, acciocchè se ne tornasse nel regno ricuperato. Ma l'Austria, che aveva altri pensieri, o che era sdegnata per avere lui seguitato sino all'estremo la parte di Francia, attraversava questo disegno: singolare condizione di Carlo Emanuele, che la sua fede verso Francia tanto con lei non gli abbia giovato ch'ella nol rovinasse, e che la sua ruina operata dalla Francia tanto non abbia potuto coll'Austria, ch'ella il rintegrasse. Per la conquista fatta dagli alleati dello stato di Milano, del Piemonte, e delle tre legazioni, ne seguitava, che una moltitudine quasi innumerevole di repubblicani italiani d'ogni sesso, d'ogni grado, e d'ogni età, che si erano scoperti per la repubblica, fuggendo la furia boreale che gli perseguitava, si erano ricoverati in Francia massimamente nei dipartimenti vicini del Montebianco, dell'Isero, delle Alpi alte, basse, marittime, e delle bocche del Rodano. Coloro che si trovavano in maggiori angustie, si fermarono in questi dipartimenti, sperando, che presto la Francia, dalla bassa fortuna in cui era caduta, riscuotendosi, avrebbe di nuovo aperto loro le strade per tornarsene nella patria. I più ricchi o i più ambiziosi, andarono ai piaceri ed alle ambizioni di Parigi. Erano fra tutti diversi umori. I più timidi, deplorando l'esiglio, che riusciva loro insopportabile, e stimando che fosse aver diletto di ingannarsi da loro medesimi il nutrire speranza che la Francia fosse per risorgere, perchè per le rotte d'Italia pareva loro impossibile fermare tanta rovina, considerato massimamente che le sinistre novelle ogni giorno più si moltiplicavano, desideravano di rappattumarsi coi vincitori. I più costanti volevano aspettare qualche tempo per vedere a qual cammino fossero per andare quelle acque così grosse. I più animosi, non dubitando che la vittoria potesse visitar di nuovo le insegne di Francia, facevano ogni opera per stimolarla a non lasciar cadere le cose d'Italia, e con ogni istanza sollecitavano una nuova passata dei repubblicani. Mettevano avanti la ricchezza del paese, l'importanza di lui per la repubblica, la gloria acquistata, le menti sdegnate alle enormità dei confederati, i desiderj rinnovellati di Francia; cose tutte, che accrescevano facilità alla vittoria. Promettevano, si offerivano, la potenza loro oltre ogni ragione magnificavano. Intanto il tempo passava, l'esiglio si prolungava, le speranze scemavano, i bisogni crescevano, il forestiero aere diveniva loro ad ogni ora più grave e più nojoso. In tanto infortunio la Francia gli raccoglieva benignamente; conciossiachè, oltre qualche soccorso, col quale il governo alleggeriva la sventura loro, trovarono nella cortesìa dei Francesi ospitalità tale, che a loro tutte le cose erano in pronto, salvo quelle che la sola patria può dare. Nè in questo pietoso ufficio le opinioni operavano, perchè molti Francesi furono visti, ai quali era in odio la repubblica, avere sollecitamente cura dei fuorusciti, nelle case loro ricoverandogli, e con ogni più amorevole servimento consolandogli. Tutte le terre Francesi, alle quali lo spettacolo degli esuli era pervenuto, nel far loro benefizio emolavano le une alle altre. Chambery, Grenoble, e Marsiglia si dimostrarono per questi benigni risguardi piuttosto mirabili, che singolari. In mezzo al conforto ch'io provo nel raccontare questa Francese umanità, non so s'io mi debba dire una cosa orribile: pure per far conoscere l'età, io non sarò per tacerla, e questa è, che a questi sfortunati Italiani si dimostrarono duri, spietati, ed inesorabili la maggior parte di coloro, che erano carichi delle spoglie d'Italia. Costoro altri fra gl'Italiani non vedevano, se non quelli che avevano tenuto loro il sacco, e gli uni e gli altri in mezzo alle gozzoviglie, dell'Italia e della Francia ridevano. Avrebbero veduto con ciglia asciutte rovinare, e gir sottosopra il mondo, se del mondo pei loro male acquistati piaceri non avessero avuto bisogno. Così il ricco ed il povero, il repubblicano ed il regio, gli amatori e gli odiatori dell'impresa d'Italia davano sulla ospitale terra di Francia, quanto era in facoltà loro, ed amorevolissimamente ai miseri Italiani. Solo coloro che principale cagione erano, ch'eglino fossero caduti in quel caso estremo, e che dall'Italia solamente avevano acquistato quello, che gli metteva in grado di beneficare altrui, pane alcuno, neppure l'amaro, ai depredati offerivano. Che anzi non solamente dalle laute e lascive mense loro gli allontanavano, ma ancora dagli atrj, e perfino dalle porte crudelmente gli ributtavano. Così al tempo stesso si vedeva quanto la umanità ha di più tenero e di più generoso, e quanto l'avarizia ha di più duro e di più spietato: tanto è vero che un sol vizio gli tira a se tutti, ed una sola virtù tutte! Gl'Italiani ricoverati in Francia, dico quelli che si erano acquistato maggior credito nelle faccende, avevano persuaso a loro medesimi, che in tanta tempesta di fortuna grande mezzo a far risorgere l'Italia, e ad ajutare lo sforzo della Francia per ricuperarla, fosse il pretendere il disegno di unirla tutta in un solo stato; perchè non dubitavano, che a questa parola di unità Italica, gl'Italiani bramosamente non concorressero a procurarla. Per la qual cosa volendo trar frutto dall'occasione, si appresentarono, oltre le esortazioni non istampate, e presentate ai consigli legislativi, con una rimostranza stampata, e diretta al popolo Francese, ed a' suoi rappresentanti, la quale favellando della necessità di creare l'unità d'Italia, con queste parole incominciava: «Il tradimento e la perfidia hanno soli dato la vittoria ad un nemico barbaro e crudele. Chi con maggiore efficacia gli favoriva, reggeva allora la vostra Francia. Voi foste, come noi, ingannati, voi, come noi, traditi da coloro, che dell'assoluta potestà dilettandosi, volevano voi tutti in un con la libertà dei popoli precipitare in quell'abisso, che le empie mani loro avevano aperto. Per pochi giorni stette, che gli abbominevoli disegni loro, accompagnati da atroci delitti, non si compissero; per pochi giorni stette, che voi, come noi, più non aveste nè patria, nè leggi. Violando essi i vostri diritti più santi, vendettero a prezzo, come gli spietati padroni vendono gli schiavi loro, la libertà vostra, la libertà dei vostri alleati. Ma ora s'incomincia a sperare. Quanto dolce ai nostri cuori mostrossi la vera ed amichevole ospitalità, che in Francia trovammo, e quanto ella è diversa dalle avare vessazioni degli agenti, dei somministratori, delle compagnìe, che hanno spogliato l'Italia! Gli ajuti da quest'uomini vili non ci vennero, nè noi gli avressimo accettati. Il gittare i nostri liberi sguardi verso la patria nostra, mandare in dimenticanza, se fia possibile, la grandezza dei mali, che da tutte le tirannidi sofferto abbiamo, rintracciarne le cagioni, mostrarne i rimedj, collocare le speranze nella giustizia, nella lealtà dei Francesi, e nei principj che hanno manifestato, pruovare, che i popoli d'Italia debbono essere amici ed alleati naturali della Francia, mostrare che vogliono esser liberi, porre in chiaro finalmente, che l'unità d'Italia è necessaria alla felicità, ed alla prosperità dei due popoli, fia l'argomento dello scritto, che indirizziamo al popolo Francese, ed a' suoi rappresentanti». Dette poscia molte altre cose parte vere, parte di poca entità sull'unità d'Italia, terminavano dicendo: «Se la repubblica Francese finalmente non dichiara l'unità d'Italia, essa non potrà mai purgarsi da quella opinione, in cui è venuta, quantunque ingiustamente, di perfidia nei negoziati, di fraude nei patti, alla quale il direttorio ha dato occasione di sorgere in tutta Europa per mezzo de' suoi agenti tanto perfidi, quanto corrotti. In nome della repubblica Francese osarono essi cacciare con le bajonette il popolo dalle assemblee primarie; in nome della repubblica Francese esclusero dai consigli legislativi i rappresentanti più fedeli, per sostituire ai luoghi loro gli agenti dell'aristocrazìa, i fautori dei tiranni; in nome della repubblica Francese obbligarono ad accettare trattati ingiusti, poi gli violarono; in nome suo il libero parlare, ed il libero scrivere fu spento, in nome suo cacciati dagli uffizj arbitrariamente gl'impiegati, in nome suo rotto, anche di nottetempo, l'asilo sacro dei cittadini, in nome suo tolto loro per forza le proprietà, confuse le potestà civili e criminali: in nome suo dichiarati licenziosi e nemici della libertà coloro, che ancora avevano il coraggio di amare la virtù, e di opporsi ai loro scialacqui ed alle loro depredazioni, in nome suo rifiutarono le armi ai repubblicani, e chiarirono ribelli coloro, che volevano difendere le native sedi contro il tradimento di Scherer, in nome infine della repubblica Francese introdussero la oligarchìa, contaminarono con istudiate corruttele il retto costume, e per tale guisa prepararono le sollevazioni dei popoli sdegnati da tanta oppressione e licenza. La repubblica Francese, che va a gran destino, debbe dimostrare al mondo con fatti, che opera di lei non sono tanti mali prodotti, tanti delitti commessi, e cui ella è debitrice di ricorreggere. Dicelo il popolo Francese ne' suoi scritti indirizzati al corpo legislativo; diconlo aringando i rappresentanti suoi, pieni di sdegno alle disgrazie d'Italia: palesano questi scritti, palesano questi discorsi l'affezione, che si porta all'Italia. Nel loro giusto sperare i repubblicani d'Italia d'ogni ingiuria, e d'ogni danno dimenticandosi, nell'esiglio loro solo sono intenti a ristorare la patria loro, dalle immense sue ruine liberandola. Pruovarono, che la ragione eterna, che la naturale legge richieggono la libertà e la unità d'Italia, e si persuadono, che la giustizia e l'affezione dei Francesi, quello, che la natura vuole, con la volontà loro confermando, s'apprestino ad incamminare a tal destino questa bella, ed infelice parte d'Europa». Onorati e numerosi nomi sottoscritti davano autorità, e valore al discorso. Gravi parole erano queste, e parte ancora vere, e parte ancora eccelse, ma mescolate ancora di non comportabile intemperanza; perchè, se era lodevole e generoso il richiedere dai Francesi la libertà e l'unità d'Italia, bene era da biasimarsi quel voler giudicare il governo Francese, quel volersi intromettere nelle faccende domestiche di Francia, quel chiamar traditore un capitano, a cui mancò piuttosto la fortuna, e forse l'animo in un solo fatto, che la rettitudine e la fede verso la patria. Il direttorio disprezzava queste improntitudini, perchè l'unità della nazione Italiana, come emola, ed essendogli molesta la sua potenza, non gli andava a grado. I rappresentanti anche i più vivi, e che si dimostravano più propensi agl'Italiani, abborrivano ugualmente dall'unità d'Italia, non avendo inclinazione alla sua grandezza; ma di queste cose si servivano nei discorsi ed orazioni loro, per isbattere la riputazione e la potenza del direttorio, ed aspreggiare i popoli contro di lui. Intanto le armi settentrionali viemaggiormente prevalevano; nè era conceduto dai cieli ai gridatori di Parigi, od ai capitani che allora tenevano il campo in Europa per la repubblica, di rintuzzarle, e di restituire alla Francia il dominio d'Italia. LIBRO DECIMOSETTIMO SOMMARIO Guerra in Grecia, e suoi crudeli accidenti. Corfù, e le altre possessioni Ioniche di Venezia conquistate dai Russi e Turchi. Continuazione della guerra in Italia. Avvisamenti di Moreau per resistere ai confederati. Macdonald lascia Napoli per venir a congiungersi con esso lui nell'Italia superiore. Avvenimenti sanguinosi di Roma e di Toscana. Prime battaglie tra Macdonald e gli alleati nel Modenese: le tre battaglie della Trebbia tra Macdonald e Suwarow. Moreau scende al piano, poi si ritira di nuovo ai monti. Oppugnazione, e presa di Alessandria, Mantova e Serravalle. Battaglia di Novi con morte del generalissimo Joubert. Tortona si arrende ai confederati. Guerra nel Piemonte, e presa di Cuneo. La guerra, che insanguinava le terre Italiche, non risparmiava le Greche. Le isole del mare Ionio tolte sotto specie di amicizia dai repubblicani di Francia all'imperio dei Veneziani, vennero per forza d'armi sotto quello dei Turchi e dei Russi. Dominavano i confederati l'Ionio con le armate loro, e già con molta felicità si erano impadroniti delle isole di Cerigo, Zante, Cefalonia, ed Itaca, delle prime con l'opera efficace degl'isolani mossi a tumulto dai nobili contro i Francesi, dell'ultima non senza grave rammarico degli abitatori, ai quali in quei grandi pericoli non rifuggì l'animo dal mostrarsi favorevoli ai repubblicani, e dall'accarezzargli con ogni segno di affezione insino all'ultimo. Bene e meritamente, come pare, fu biasimato dagli uomini periti di guerra il generale Chabot, che reggeva tutti quei paesi nuovamente acquistati alla Francia, del non avere, quando vide avvicinarsi un nemico più potente di lui, ristretto, abbandonando le altre isole, tutte le sue genti in Corfù; perchè all'ultimo a chi rimanesse l'imperio di quest'isola rimaneva quello delle possessioni Joniche. L'avere tenuto le sue forze spartite fu la cagione, che più di mille buoni soldati vennero in poter dei confederati nelle isole poco difendevoli, che abbiamo sopranominate, e Corfù non ebbe per la vastità delle fortificazioni presidio sufficiente al difendersi. Solo il castello di Santa Maura si difendè gagliardamente, e lungo tempo, ma finalmente fu costretto di cedere alla fortuna del vincitore con la prigionia della valorosa guernigione. Pel medesimo errore aveva Chabot munito con presidj i luoghi della terra ferma, che essendo di antico dominio veneziano, erano venuti in mano dei Francesi. Nè alcuno può restar capace, come egli sperasse di potervisi mantenere contro tutta la potenza di Alì, Pascià di Ianina, che già, meno per obbedire ai comandamenti della Porta Ottomana, che per ingrandire se stesso in quel rivolgimento di stati, si era risoluto a combattere i Francesi. Era Alì uomo di perfida e feroce natura: aveva vezzeggiato i Francesi, quando, trovandosi forti, pensava che la forza loro fosse per tornare in sua utilità propria. Ma ora, abbassatasi la fortuna, si era indotto a dar loro l'ultima pinta: o per inganno, o per forza, che sel facesse, non gl'importava. Aveva sperato che i Francesi, quando già erano minacciati, gli avrebbero dato in mano Corfù, perchè poteva spendere molto denaro, e misurava altrui da se stesso. Di ciò aveva anzi mosso parole con Chabot, il quale, siccome quegli che per integrità e per fede verso la sua patria non era a nissuno secondo, aveva sdegnosamente ricusato. Per questo Alì si era apprestato, avendo considerato che le fraudi non fruttavano, a combattere con tutte le forze i repubblicani, che tuttavia tenevano piede nel continente a Butintrò, a Parga, a Preveza, ed a Nicopoli. Ma già la guerra romoreggiava intorno a Corfù; Butintrò, combattuto aspramente dagli Albanesi e dai Turchi di Alì, era stato sgombrato da Chabot, non senza grave perdita di parecchi valorosi soldati. Fu ferito in questo fatto un Petit colonnello, uomo di squisitissimo valore. Fe' anche sgombrare Parga, del che non poco dolore sentirono i Parganiotti, che si erano affezionati ai Francesi, e temevano la ferocia di Alì. Ma già le cose si riducevano alle strette in Corfù, a Preveza, ed a Nicopoli: imperciocchè i confederati comparsi con l'armata nel braccio di mare, che separa l'isola dal vicino Epiro, impedivano i soccorsi, che da Ancona avrebbero i repubblicani potuto mandare, ed avendo sbarcato genti in sull'isola, e piantato artiglierìe sul monte Oliveto dall'una parte, sul monte Pantaleone ed alle Castrate dall'altra, avevano incominciato a battere la fortezza. Al tempo stesso parecchie sommosse sorte nell'isola, principalmente alle Benizze, luogo abbondante di acque chiare e dolci, ajutavano gli assalitori, e travagliavano gli assaliti. In queste sollevazioni si mescolavano volentieri i Corfiotti, accesi in questa disposizione da alcuni nobili, i quali poco amavano il nome Francese, e molto il Russo; nel che procedevano con maggiore affetto il conte Bulgari, personaggio di ottima natura, ricco, e di molta dipendenza nell'isola, e la famiglia dei Capo d'Istria. La religione anch'essa operava efficacemente in quei capi Greci tanto vivaci, e tanto facili a dar la volta. Hanno i Greci la medesima religione che i Russi, e pareva loro, che il dominio Russo importasse per loro il divenire da servi padroni. Fra tutti un grave tumulto contro i Francesi sorgeva nel Mandruccio, sobborgo della città posto sotto tutela del monte Oliveto, a frenare il quale spesero i Francesi molta fatica e molto sangue. Intanto Alì, radunato il suo esercito, in cui si noveravano meglio di undici migliaja di combattenti, la maggior parte a cavallo, si apparecchiava a dar l'assalto a Preveza, e massimamente a Nicopoli, dove era ridotto il maggior campo dei Francesi, circa settecento soldati, fra i quali sessanta Sullioti, e ducento Prevezani. Era questo campo fortificato con alcune trincee, ma ancora imperfette, ad al governo del generale Lasalcette, che udito il pericolo di Nicopoli, vi si era trasferito da Santa Maura, dove aveva le stanze, per non defraudare i suoi in quell'estremo accidente della sua presenza, e del suo esempio. Era fatale, che non pochi valorosi Francesi perissero in istranj lidi, non di buona, ma di barbara guerra, perchè fossero soddisfatti i desiderj smisurati di chi colà gli aveva mandati, ed all'ambizione di cui pareva, che il mondo non potesse bastare. Si avventava Muktar, figliuolo di Alì, contro i Nicopolitani alloggiamenti ferocemente, e più ferocemente ancora ne era dai difensori ributtato. Nasceva nelle barbare schiere uno schiamazzare orribile: gli uni stimolavano gli altri alla vendetta, perchè le armi repubblicane, massimamente la scaglia, avevano di loro fatto molta strage. Le grida e le imprecazioni atrocissime, e le minacce, e l'impeto nuovo, e gli squadroni grossi dei barbari spaventavano i capitani Prevezani, che con le loro genti tenevano il mezzo dell'esercito repubblicano; davansi alla fuga, e fuggendo traevano con se quasi tutti i soldati loro. Questo impensato accidente disgiunse le due ali estreme dei Francesi, e fu lasciato fra di esse uno spazio vuoto. Del quale favor di fortuna subitamente valendosi Muktar, ed Alì medesimo, che in su quel fatto con tutte le genti era sovraggiunto, mettendosi di mezzo, perchè Lasalcette, quantunque avesse voluto, non era stato a tempo di rannodarsi, inondarono tutto il campo, troncando ai loro nemici ogni speranza di salute. Vide quel Greco suolo, già tanto famoso per le battaglie di Augusto e d'Antonio, i medesimi miracoli di valore dall'un canto, maggior barbarie dall'altro; poichè non mai la virtù Francese nelle battaglie si mostrò tanto eminente, quanto in questa, nè mai una scelerata barbarie tanto infierì contro infelici e buoni guerrieri quanto in questo, e dopo questo miserando fatto. Rotti e scompigliati gli ordini dei Francesi dai barbari, che da ogni parte insultavano, era la battaglia ridotta in affronti particolari in cui venti combattevano contr'uno. Perivano i Francesi, ma dopo vendette a cento doppi fatte; perchè in loro quel che non poteva la forza naturale, poteva l'incredibile coraggio. Lasalcette medesimo, ed un Hotte, colonnello della sesta, con le mani loro si difendevano al pari dei gregarj. Combattevasi dai Francesi non per altra cagione che per morire onoratamente, e da uomini forti; ma anche in questo era la fortezza maggior di quel che appare; posciachè, che le generose opere loro venissero raccontate ai posteri, siccome quelle che in terre prive di ogni civiltà si commettevano, era nelle menti loro più che incerto. Adunque combattevano piuttosto per virtù propria, che per lode altrui. Infine fattosi dai Francesi, non quello, ma più di quello, che per la natura umana si può, piuttosto per stanchezza insuperabile, che per libera volontà, si diedero in poter dei vincitori, forse cento soldati, soli superstiti di sì grosso corpo. Lasalcette, e Hotte incontrarono la cattività medesima, nè non ignoravano, che quella gente barbara tra capi e subalterni non avrebbero fatto differenza. Mentre con tanto valore si combatteva alle trincee di Nicopoli, succedeva nella vicina Preveza un fatto non meno del raccontato maraviglioso, e che in se non ebbe nè minore crudeltà dall'un de' lati, nè minor valore dall'altro. Era al governo di Preveza un Tissot, capitano della sesta, con ottanta Francesi. Avendo egli inteso della fiera battaglia che ardeva a Nicopoli, lasciati alcuni de' suoi alla guardia, si era avviato coi restanti al soccorso dei compagni; ma già la fortuna aveva concluso la tragedia di Nicopoli, e già Lasalcette era venuto in poter dei barbari. Di ciò ebbe le novelle Tissot, e la forza del nemico, che d'ogni intorno correva la campagna, gliene dava anche manifesto argomento. Ritraeva il passo verso Preveza, continuamente assalito da torme innumerevoli di Albanesi a cavallo, dalle quali, ristretti i suoi in gomitolo, ed usando l'opportunità dei luoghi, con immenso valore si difendeva. Ma il nemico, che tanto abbondava di soldati corridori, si era condotto a Preveza, dove aspramente combattuta la piccola guernigione lasciatavi da Tissot, e combattuto anche aspramente da lei, si era impadronito di una parte della terra. Giunto il capitano Francese in Preveza tanto fece con la sua debole squadra, che, uccisi quanti Albanesi se gli pararono davanti, e calpestando i mucchi dei cadaveri loro, riusciva sul porto, donde poco lontano discopriva una nave bombardiera della repubblica, ed alcune barche venute da Santa Maura, che gli arrecavano qualche ajuto di genti e di munizioni. Sorgeva nuova speranza in coloro, ai quali niun'altra speranza era rimasta, se non quella di una morte onorata; perciocchè gli Albanesi raccolti a torme inondavano Preveza e le campagne, e troncavano ogni via di scampo. Ma la speranza non fu lunga: succedeva una disperazione tanto più dolorosa, quanto più la speranza era stata viva ed inaspettata. Un Prevezano affezionato a Tissot si offeriva per andar ad avvertire il capitano della nave del pericolo de' suoi compatriotti, acciocchè accorresse prestamente in soccorso, se non per vincere, che ciò era impossibile, almeno per iscampargli. Facevalo il Prevezano, non curando le armi dei barbari, che gli suonavano d'ogni intorno. Ma un Francese, tace la storia il nome di questo piuttosto mostro che uomo, messosi sulla barca del generoso Prevezano, e con questo condottosi alla nave, affermava, avere veduto con gli occhi suoi proprj l'uccisione di tutti i Francesi, nè restar loro altra salute, se non quella di allontanarsi tostamente da quei disumani e sanguinosi lidi. La crudele bugia allignava; la nave bombardiera con le barche Mauritane, voltate le vele, se ne tornava là dond'era venuta. Che cuore fosse di Tissot e dei compagni nel vedere le andantisi vele, non so in quale lingua, nè con quali parole dire adeguatamente si potrebbe. Fatto in quel mortale caso il capitano Francese maggiore di se medesimo, gridava: «Saran dunque, o compagni i nostri giuramenti indarno? Insulteremo noi, quai pusillanimi soldati, alle ombre dei nostri compagni eroicamente morti nelle presenti battaglie? No, noi morrem piuttosto, se vincere non possiamo, e la tomba accorrà coloro, che nel momento estremo hanno onorato la patria loro: lasciamo segni terribili del nostro valore, ed i nemici nostri all'udire le battaglie di Nicopoli e di Preveza, ed al rammentare il nome di Francia stupiscano di maraviglia, e tremino di terrore». Ciò detto, si avventava con furiosissima pinta in mezzo ai barbari; seguitavanlo i compagni; Preveza vedeva una battaglia senza pari. Pochi uomini assaltavano una moltitudine innumerabile, nè solo l'assaltavano, ma la ributtavano, e la cacciavano piena di maraviglia e di spavento. Le contrade, le piazze, i portici di Preveza abbondavano di cadaveri, fumavano di sangue. Datosi dagli animi, che sono instancabili, quanto da loro si poteva dare, incominciavano a mancare i corpi, le cui forze lungamente non possono durare in isforzo estremo. La fame, la sete, la fatica, l'impeto stesso delle volontà avevano dato luogo alla estenuazione, e se non erano rotti gli animi, erano consumate le forze, nè più si combatteva pei repubblicani con tanto ardore. Accortisi i barbari dell'insperato cessamento, tornavano alla battaglia con grida spaventevoli: l'avidità della preda, la rabbia della vendetta gli stimolavano. Vinse la moltitudine fresca contro pochi e lassi. Chi non fu morto, fu preso, e chi non volle andar preso, a tale salse un coraggio indomabile, si uccise da se stesso con le armi tinte del sangue dei barbari; alcuni cercarono la morte, nell'avaro mare gittandosi. Degli ottanta, solo otto col capitano Tissot restarono superstiti, e questi furono tutti dal truculento vincitore dannati a vita tale, che di lei migliore è la morte. Veduti minacciosamente da Alì, erano mandati a strettissima prigione con quattrocento Prevezani, uomini e donne, presi nell'infelice patria loro. Per addolorargli, e per ispaventargli, conducevangli a riva il golfo, perchè quivi vedessero sul sanguinoso campo, dove avevano combattuto, le miserande reliquie dei loro compagni uccisi: cadaveri laceri, membra tronche, teste difformi, e bruttate di sangue, e di fango. Riconosceva, ciascuno con pianti e con querele chi aveva avuto o per parentela, o per amicizia più caro. Godevano i barbari, insultavano, minacciavano, il dolore stesso prendevano a scherno: peggiore governo di loro, affermavano, doversi fare di quello, che dei morti si era fatto; avere ad essere fra pochi momenti le teste loro vive pari a quelle degli ammazzati. Faceva Alì tormentare ed uccidere non pochi Prevezani in cospetto dei Francesi cattivi, ed ei se ne stava mirando, godendo, e compiacendosi delle miserabili grida dei tormentati e dei morienti. Condotti i vinti sulla piazza di Preveza, così ordinando il tiranno, un Albanese scotennava con rasojo le morte teste, poi le salava; poi comandava ai Francesi, che anch'essi così facessero. Ricusarono dapprima per onore e per orrore; ma battiture dolorosissime gli domavano; davansi a scotennare le teste degli uccisi compagni, spettacolo doloroso ed orribile. Gli atti nefandi a questo non si ristavano. I quattrocento Prevezani, legati, e sanguinosi dalle battiture furono condotti nell'isola Salagora, e quivi tutti senza pietade alcuna, nè con più riguardo verso l'un sesso che verso l'altro, nè verso la canuta che verso la verde età, crudelmente uccisi. Le compassionevoli preghiere per perdono, e per grazia di coloro, di cui si laceravano le membra, vieppiù inviperivano la ferocia di quell'aspra, e selvaggia gente, e chi si taceva, era l'ultimo chiamato a morte. Grondò Salagora di sangue umano a rivi, poi biancheggiò, e forse biancheggia ancora di ossa rotte, e di teschi ammaccati. Menavansi a Lorù, grossa terra poco lontana, i prigioni di Preveza e di Nicopoli; poi si avviavano verso l'Arta per alla via di Ianina. Viaggiando, quella torma di disumanati carnefici gli sforzava a portare a volta a volta le teste ancora stillanti sangue degli uccisi amici, e chi ricusava l'orrendo carico, era barbaramente tormentato. Gli Albanesi, quasi a modo di passatempo, straziavano a coda di cavallo Caravella Prevezano: straziato il lasciavano respirare, perchè raccogliesse nuova lena ad essere ritormentato, poi di nuovo sforzavano a corsa, flagellando, il cavallo, e così fra i tormenti ed i respiri il condussero, alzando essi al cielo festevoli grida, ad acerbissima morte. Arrivarono all'Arta, poi a Ianina; si offersero agli occhi loro le teste dei compagni conficcate sui merli dell'atroce reggia di Alì. Da Ianina per la Grecia, e per la Romanìa s'incamminavano a Constantinopoli. Dov'eran le strade più sassose e più aspre, toglievano loro i barbari per diletto le scarpe: dov'erano più assetati, e dove più scorrevano le acque fresche e chiare gli proibivano dal dissetarsi: chi non poteva o per stracchezza, o per fame, o per sete, o per ferite seguitare, tirato a forza sulla sponda dei fossi, vi era inesorabilmente dai crudeli accompagnatori decapitato; i compagni sforzati a portar le teste sanguinose. Sopportarono i miseri Francesi, dico i superstiti, perchè i più perirono, con inenarrabile costanza tormenti tanto insopportabili, Lasalcette, e Hotte i primi. Quando io penso dall'un de' lati alla natura tanto sensitiva dell'uomo, e con quanto amore, e con quanta difficoltà si allevino i figliuoli per fargli adulti, d'altro allo strazio, che gli uomini fanno degli uomini, spesso per nonnulla, spessissimo per cagioni lievi, qualche volta con allegrezza, sempre senza dolore, sto in dubbio, se animali feroci, o uomini io me gli deggia chiamare; che anzi al tutto mi risolvo, ed in questo pensiero mi fermo, che piuttosto uomini, che animali feroci si debbano chiamare, perchè non vedo, che le tigri facciano delle tigri quello strazio, che gli uomini fanno degli uomini; e peggio, che quando essi non possono con le coltella, si lacerano con le lingue. Bene sto sempre in dubbio, a che cosa servono la ragione e la compassione, che solo sono date agli uomini. I lacerati giunti a Costantinopoli, furono, Lasalcette e Hotte, serrati nelle Sette Torri, gli ufficiali ed i gregarj posti al remo sull'Ottomane galere. Intanto l'oppugnazione dell'isola di Corfù si continuava gagliardamente dai Russi e dagli Ottomani. Ogni dì più cresceva il numero degli assalitori: mandava Alì i suoi Albanesi, e genti Turche continuamente arrivavano. Per avere gli alleati occupato le eminenze del monte Oliveto e di San Pantaleone, erano gli assediati ristretti nei forti, e niuna via restava loro per allargarsi nell'isola. Il Mandruccio venuto in poter dei Russi, le Castrate spesso infestate dai Turchi e dagli Albanesi, che calavano dal vicino Pantaleone, San Salvatore venuto spesso in contesa, quantunque sempre valorosamente difeso dai repubblicani. L'assalto di Corfù tirava in lungo, l'oppugnazione diveniva assedio, perchè i Francesi difendevano la piazza virilmente, ed ella è molto forte, ed i Turchi, quantunque assai coraggiosi, non sanno condurre con arte le oppugnazioni delle fortezze. In questo l'ammiraglio di Russia Ocsacow, che governava con suprema autorità la guerra, pensava ad una fazione di non difficile esecuzione, e che di certo gli avrebbe dato la piazza in mano, se avesse avuto, come non dubitava, felice fine. Siede sul fianco della città, e della principale fortezza di Corfù verso tramontana una isoletta, o piuttosto scoglio, che gli uomini del paese chiamano di Vido, e che i Francesi chiamavano col nome d'isola della Pace. Era questo scoglio, siccome pieno di alberi verdissimi, quieto recesso a chi volesse ricoverarvisi a respirare dalle cure cittadine, e dolce prospetto a chi dalla città il rimirasse. Quest'amena sede di riposo e d'ombre aveva tosto ad essere turbata, e straziata dalla rabbia degli uomini. Avevano conosciuto i Francesi, che chi fosse padrone di questo scoglio, avrebbe potuto battere da vicino coll'artiglierìe la cortina della fortezza, e farvi presta breccia. Per la qual cosa, tagliati ed atterrati gli alberi, vi avevano fatto spianate a guisa di ridotti, munite d'artiglierìe sui cinque siti più importanti dello scoglio; perchè sporgendosi oltre il circuito dell'isola, facevano le veci di bastioni. Meglio di quattrocento buoni soldati sotto il governo del generale Piveron erano posti a guardia di questo principale propugnacolo di Corfù. Nondimeno, malgrado dei fatti apparecchi non era luogo, che si potesse tenere lungamente; perchè nè vi era ridotto trincerato, dove la guernigione potesse ritirarsi a contendere il possesso dell'isola, ove il nemico vi fosse sbarcato, nè le batterie erano chiuse di terrati, o di steccati; il perchè, quasi del tutto senza parapetti essendo, lasciavano i difensori esposti al bersaglio dei nemico, che da diverse parti si avvicinasse per andar all'assalto. Avevano anche i cannoni carretti da marina, e però più bassi, e più difficili a governarsi. Lo scoglio di Vido era luogo buono a tenersi da chi, come i Veneziani, essendo forte sull'armi di mare, poteva proibire, che il nemico sicuramente vi si avvicinasse: per questa ragione non l'avevano i Veneziani munito di fortificazioni: ma per colui, che come allora erano i Francesi, fosse privo di naviglio sufficiente, era Vido sito di molta debolezza. Il giorno primo di marzo, datosi il segno dalla nave dell'almirante Russo con due cannonate, tutta l'armata dei confederati si muoveva all'assalto dello scoglio di Vido. Al tempo stesso, per impedire che Chabot mandasse nuove genti a rinforzarne la guernigione, fulminavano contro la piazza con grandissimo fracasso le artiglierìe di San Pantaleone, e del monte Oliveto. Ciò nondimeno venne fatto al generale di Francia di mandare allo scoglio un soccorso di duecento soldati. S'attelavano, sprolungandosi col fianco d'orza da ponente a greco, venticinque navi tra vascelli di fila, caravelle Turche, e fregate contro l'isola, e tutte traevano furiosamente. Era un novero di ottocento bocche da fuoco, il rimbombo delle quali consentendo con quelle dell'isola, della piazza, di San Pantaleone, e del monte Oliveto, partorivano uno strepito tale, che e Corfù tutta ne era intronata, e le vicine coste dell'Epiro orribilmente echeggiavano. Erano i difensori di Vido lacerati dalle palle nemiche, e dalle schegge degli alberi rotti e fracassati. I cannonieri di Francia per essere nudamente esposti al fitto bersaglio del nemico, perchè i parapetti non erano sufficienti, pativano grandemente: i cannoni stessi, rotti i carretti, si trovavano scavalcati. Durò questa fierissima battaglia ben tre ore con danno gravissimo dei repubblicani, con grave degl'imperiali; perchè i primi traevano contro di loro a mira ferma. Finalmente, quando fu giudicato dai confederati, che il guasto fatto dalle artiglierìe nei soldati e nelle armi Francesi, avesse facilmente ad aprir loro l'adito ad un assalto di mano, posti prestamente tutti i palischermi in acqua, e riempitigli di gente, gli mandavano allo sbarco. Approdarono i Russi in numero di quindici centinaja sul destro fianco dello scoglio, che si volge verso la città; i Turchi con Albanesi misti, assai più numerosi dei Russi, sbarcarono sul sinistro, che risguardava verso la bocca settentrionale del porto. Nè così tosto furono sbarcati, che uccisi barbaramente i difensori di due vicine batterìe, se ne impadronirono. I Francesi, visto il nemico dentro, si ripararono ad alcune eminenze, non più per contrastar la vittoria, che già era in mano degli alleati, ma bensì per dar tempo, che quel primo furore degli Albanesi alquanto si calmasse. Gli Albanesi e medesimamente i Turchi, quanti Francesi venivano loro alle mani, a tanti tagliavano la testa, o che si fossero difesi, o che si fossero arresi. Le teste gettavano nei sacchi per portarle a Cadir Bey, vicealmirante delle navi Turche. I Russi per lo contrario si portarono molto umanamente; imperciocchè non solamente non uccisero nissuno fra quelli, che cedendo si erano arresi, ma ancora preservarono molti, che già venuti in mano dei Turchi pochi momenti avevano a restare in vita. Eransi i Russi raccolti, dopo la vittoria, in un grosso battaglione quadrato nel mezzo dell'isola, e quivi quanti Francesi accorsero, tanti salvarono. Furono visti ufficiali Russi, a riscatto di Francesi venuti in mano degli Ottomani, e vicini ad aver il capo tronco, dar denari del proprio ai barbari feroci ed avari. Un vicecolonnello di Russia, di cui la storia con sommo nostro rammarico tace il nome, dato tutto il suo denaro per salvar due Francesi, che i barbari già stavano pronti per decapitare, nè contentandosene essi, cavatosi di tasca l'orologio, il diede loro, e per tal modo scampò da morte inevitabile i due derelitti nemici. Nè in questa pietosa intercessione soli gli ufficiali di Russia si adoperarono, perchè e semplici soldati, e marinari con la generosità medesima ajutarono i Francesi. Videsi in questo fatto una estrema barbarie congiunta con una estrema civiltà, e giacchè guerra era, pensiero consolativo è, che la umanità vi avesse in qualche parte luogo. Piveron preso dai Russi, fu condotto in cospetto di Ocsacow, che molto cortesemente il trattò. Quasi tutto il presidio restò o morto, o preso. La vittoria di Vido portava con se quella di Corfù. Era impossibile, che la piazza fulminata da due parti potesse resistere più lungamente. Perciò Chabot, il quale, piccolo di corpo, ma grande di animo, aveva in tutto il corso della guerra Corcirese fatto pruova di non ordinario valore, sforzato alla dedizione, stipulava con Ocsacow e con Cadir, che Corfù si desse ai confederati con tutte le armi e munizioni; uscissene il presidio con gli onori di guerra; fosse a spese, e per opera dei confederati trasportato a Tolone; desse fede di non far guerra per diciotto mesi contro i confederati; la nave il Leandro, e la fregata la Bruna ai medesimi si consegnassero; Chabot, ed i suoi ufficiali ad elezione sua potessero essere trasportati o a Tolone, o ad Ancona, purchè fra un mese facessero la elezione. Entrarono i Russi per la porta di San Niccolò, ed in bell'ordine procedendo per la contrada principale, andarono a schierarsi sulla spianata, che sta in mezzo tra la città e la fortezza. Gridavano in questo mentre i Corfiotti _viva Paolo primo_, e sventolavano all'aura drappelli Moscoviti. Presidiarono i Russi le fortezze, i Turchi la città. Fuvvi qualche sacco di case di giacobini, ma subitamente represso dai confederati. Era a quei tempi un uomo nuovo, e di umore strano a Corfù, che ve ne sono molti di tal fatta in quei paesi, il quale in odore di santità, e quale eremita sucidamente vivendo in una celletta vicina alla chiesa di San Spiridione, protettore veneratissimo dell'isola, aveva più volte, quando le cose di Francia erano più in fiore, pronosticato, che i Francesi non farebbero lunga vita in quelle terre. Riuscito l'evento parve miracolo: il veneravano come profeta. Il consiglio generale di Corfù convocato dai confederati secondo gli ordini antichi, decretava, che si ringraziasse San Spiridione, e con annua processione si onorasse; si ringraziassero i comandanti Russo e Turco, e l'ammiraglio d'Inghilterra Orazio Nelson; si ringraziassero Paolo primo, Giorgio terzo, Selim terzo. Fu data la somma del governo non solo di Corfù, ma ancora di tutte le isole, e territorj Ionici, ad una delegazione di sei nobili. In tale forma si visse a Corfù, finchè dai confederati vi fu ordinato un governo stabile di repubblica sotto tutela della Porta Ottomana. A questo modo per opera, prima dei Francesi, poi dei confederati, fu alienato per sempre dall'imperio d'Italia all'imperio degli oltramontani, o degli oltramarini, il dominio del mare Ionio, che Venezia aveva saputo conservare per tanti secoli contro tutte le forze dell'impero dei Turchi; il che dimostra quanto siano stati sconsiderati quegli Italiani, che tanto si rallegrarono della ruina dell'antica Venezia. Venuto Corfù in poter dei confederati, divenne ricovero sicuro a coloro, cui cacciava dall'Italia la presenza dei repubblicani. Vennervi le principesse esuli di Francia; vennervi i cardinali Braschi e Pignatelli, il principe Borghese, i marchesi Gabrielli e Massimi, il cavaliere Ricci, e molti altri personaggi, a cui più piacevano l'ozio e la sicurezza di Grecia, che il partecipare delle fatiche e dei pericoli del cardinal Ruffo in Italia. Le flotte Russa e Turca andarono ad altre fazioni nell'Adriatico e nel Mediterraneo, le quali siamo per raccontar nel progresso di queste storie. Il suono dell'armi, e le grida dei tormentati richiamano l'animo nostro agli accidenti d'Italia. Come prima ebbe Moreau il governo supremo dell'esercito Italico, aveva applicato i suoi pensieri al far venire sul campo delle nuove battaglie le genti, che sotto l'imperio di Macdonald custodivano il regno di Napoli. Per la qual cosa aveva speditamente mandato a Macdonald, che partisse da Napoli con tutto l'esercito, solo lasciasse presidio nei castelli, nelle piazze più forti, e con esso lui venisse prestamente a congiungersi. Nè del luogo, in cui avessero i due eserciti a raccozzarsi, stette lungo tempo in dubbio; perciocchè, sebbene per le rotte avute non fosse in grado di sostener la guerra in Piemonte, sperava, che conservandosi in potestà della repubblica le fortezze principali, avrebbe di nuovo acquistato facoltà, quando gli fossero giunti gli ajuti che aspettava di Francia, di mostrarsi nelle pianure Piemontesi; gli pareva, che i luoghi vicini alle fortezze di Alessandria e di Tortona, che tuttavia si tenevano per la Francia, fossero i più opportuni per tornare al cimento delle armi; poichè, oltre l'appoggio di quelle due piazze forti, erano molto propizj a ricevere chi venisse calando dalla Bocchetta, nè lontani a chi scendesse dalle valli della Trebbia e del Taro. Per tutte queste ragioni, già fin quando era passato per Torino per condursi alle stanze, prima di Alessandria, poi di Cuneo, si era totalmente fermato in questo pensiero, che la congiunzione dei due eserciti dovesse effettuarsi nei contorni di Voghera. A questo fine, volendo dar mano più presto che fosse possibile alle genti vincitrici di Napoli, e considerato che Macdonald, per essere le strade del littorale della riviera di Levante troppo difficili, e da non dar passo alle artiglierìe, era necessitato a camminare fra l'Apennino, e la sponda destra del Po, e temendo che fosse troppo debole a sostener l'impeto dei corpi sparsi dei confederati, che prevalevano di cavallerìa, nelle pianure di Bologna e di Modena, aveva mandato Victor con la sua schiera ad incontrarlo sui confini della Toscana, e del Genovesato. Partiva Macdonald, Abrial lo accompagnava, da Napoli, lasciati presidj Francesi, sebbene deboli, nei castelli di Napoli, e nelle fortezze di Gaeta, di Capua, e di Pescara. Grave e difficile carico gli era addossato, ma del pari glorioso, se il portasse a felice fine. Viaggiava con molto disfavore dei paesi per cui gli era necessità di passare, perchè le popolazioni sollevate a cose nuove, stavano in armi, e pronte a contrastargli il passo. Tumultuava il regno sulle sponde del Garigliano, tumultuava lo stato Romano, e da Roma in fuori non vi era luogo che fosse sicuro ai Francesi. Tumultuava la Toscana molto furiosamente, già sì pacifica e dolce. Le strade, che davano il passo da una parte all'altra degli Apennini, specialmente Pontremoli, sito di non poca importanza, erano in possessione dei collegati. Nè egli aveva cavallerìa bastante a spazzare i paesi, a procacciarsi le notizie, a far vettovaglie, a difendersi dagli assalti improvvisi. Nè è dubbio, che l'impresa di Macdonald non fosse delle più malagevoli ed ardue, che capitano di guerra sia stato mai obbligato di fornire. Da un altro lato gli si parava avanti la gloria dell'essere chiamato liberatore d'Italia, e vincitore delle genti Russe fin a quel tempo stimate invincibili. Nè animo gli mancava, nè mente per questo, nè desiderio vivacissimo di far il nome suo immortale. Le vittorie di Roma e di Napoli continuamente gli suonavano nella memoria, e sperava, che la fortuna nol guarderebbe con viso meno favorevole sulle rive del Po, che su quelle del Tevere e del Volturno. Si metteva in via, diviso il suo esercito in due parti. Marciava la destra guidata da Olivier accosto agli Apennini, coll'intento di riuscire per la strada di San Germano, Isola, Ferentino, Valmontone, e Frascati, verso Roma. La sinistra condotta da Macdonald seguitava verso la capitale medesima dello stato Romano la strada più facile della marina. Erano con questa le più grosse artiglierìe, e le principali bagaglie. Fu la prima necessitata a combattere, non senza molto sangue, parecchie volte per condursi al suo destino. San Germano si oppose con le armi, fu preso per forza e saccheggiato. Isola si persuase di poter arrestare con genti tumultuarie soldati regolari, agguerriti e bene armati: assaltarono i Francesi, dopo di aver ricerco gl'Isolani del passo, la terra: si difesero i terrazzani con tale ostinazione, che un accanito combattimento durava già più di sei ore, e non se ne prevedeva il fine. All'ultimo cacciati di casa in casa a viva forza, si ritirarono, lasciando la città in mano degli assalitori, i quali sdegnati all'antica nimistà degl'Isolani, allo aver tratto al messo mandato avanti per trattare l'accordo del passo, ed alla tanto ostinata resistenza, per cui non pochi dei loro erano stati morti, mandarono la terra a ruba ed a sangue. Quanti poterono aver nelle mani, tanti ammazzarono. Entrati nelle case, uccisi prima gli abitatori, facevano sacco. Poi si diedero in sul bere di quei vini generosi, per forma che il furore della presente ebbrezza congiunto col furore della precedente battaglia gli fece trascorrere in opere abominevoli. Nè più davano retta ai loro ufficiali, o generali, che gli volevano frenare, che alla ragione od alla umanità. Sorse la notte: era una grande oscurità, pioveva a dirotta. Gl'infuriati repubblicani, dato mano alle facelle, incesero la città, che in poco d'ora fu da se stessa tanto disforme, che non era più che un ammasso spaventevole di sangue, di fango e di ruine. Così Isola perì per furore, prima proprio, poi d'altrui. Passarono i Francesi a Veroli senza difficoltà, passarono a Ferentino ed a Valmontone; finalmente congiuntisi entrarono il dì sedici maggio nelle sicure stanze di Roma. Quivi Macdonald, dato animo con promesse, e con discorsi di rammemorazione delle cose fatte dai repubblicani di Francia, lasciate, per marciare più spedito, le artiglierìe, e gl'impedimenti più gravi e guernite di presidj le piazze di Civitavecchia, di Ancona e di Perugia, s'incamminava alla volta di Toscana. Era in questa provincia succeduta una mutazione grandissima; eccettuati i luoghi, in cui i Francesi insistevano coi presidj, tutti gli altri si erano voltati in favor degli alleati, con gridare il nome di Ferdinando. Ma questa mutazione si era fatta con tanto tumulto, con tanto furore, e con tanta ferocia, che tutt'altre cose si sarebbero aspettate dai Toscani che queste. La sede principale della sollevazione erano Arezzo, e Cortona, le quali, siccome vicine allo stato Romano, avevano preso animo a far tentativi dai moti, che in lui poco innanzi erano sorti. Il sito le rendeva sicure, essendo poste sopra monti alti, ed erti. Arezzo si era con ogni miglior modo, che alle guerre tumultuarie si appartenga, fortificata; anzi ogni edifizio era fortezza: vedevansi feritoje aperte in ogni muro, i tetti la maggior parte levati, le sommità delle case appianate, acciocchè i difensori potessero insistervi a ferire il nemico; i capi delle contrade muniti di cannoni, ed assicurati con isbarre e con isteccati. Numerose squadre di gente venuta dal contado, e variamente armata custodivano le porte, e curiosamente, e diligentemente esaminavano chi entrava, e chi usciva. Uffizj divini si celebravano ogni giorno nella cattedrale dal vescovo, e dal clero in ringraziamento delle vittorie acquistate dagli alleati, e dai Toscani contro i Francesi. Stava appeso a guisa di trofeo alla volta della chiesa un cappello con gallone in oro, che era stato di un ajutante generale Polacco ucciso nelle vicinanze di Cortona con una coltellata per inganno da un prete, mentre era venuto a parlamento con lui. Muovevansi sospetti ad ogni tratto in mezzo a quei contadini infuriati per voci date, a ragione o a torto, di giacobino, e mal per chi non aveva i capelli in coda, e chi non gli aveva, gli metteva. Ad ogni tratto, e quando più l'ardor gli trasportava, si avventavano alle persone che conoscevano, gridando: «Giur'a Dio, se sapessi, che lei è giacobino, gli passerei il cuore con questo coltello». E sì brandivano il coltello, e facevano l'atto di ferire. Era lo stare cattivo, il viaggiare peggiore. Tuttavia quest'uomini tanto sfrenati contro i Francesi, e contro coloro che avevano o che parevano aver odore di essi, si mostravano obbedientissimi al nome di Ferdinando. Erasi in mezzo a questi tumulti creato in Arezzo un magistrato supremo sotto titolo di suprema regia deputazione, in cui entravano preti, nobili, e notabili. Un cavaliere Angelo Guilichini presidente; uomini nè sfrenati, nè feroci, ma non potevano impedire il furore del popolo: solo s'ingegnavano di dargli regola e legge. Dì e notte sedevano per esser sempre pronti ai casi improvvisi. Facevano disegni di nuove sommosse in favor del gran duca continuamente; traevano a suo nome tutti i magistrati, mandavano ordini alle città tornate a divozione, mescolavano ai contadini sollevati le guardie urbane, ed alle guardie urbane i soldati regolari, che già avevano vestito l'abito, e le insegne del governo ducale; e poichè pensavano a far vera guerra, avevano calato certo numero di campane con intendimento di fonderle ad uso di cannoni. Delle nappe, e dei colori non parlo, perchè fra quelle turbe tumultuarie chi portava l'insegna di un santo, chi di un altro, chi della Madonna, chi del papa, chi dei Russi, chi degli Austriaci, chi del Gran Duca, chi tutte queste insieme; e chi era stato tinto nelle faccende precedenti, più ne portava, col fine di allontanar da se quel nembo tanto pericoloso. Questa fu la mossa di Arezzo, alla quale come quasi un antiguardo, consuonava quella di Cortona. In grave pericolo si mettevano, perchè le cose dei Francesi erano ancora in essere, e potevano risorgere, e Macdonald pensava a passare per la Toscana. Pure Arezzo si salvò, Cortona pagò qualche fio; l'una e l'altra furono cagione, che il nome di Ferdinando risorgesse in Toscana innanzi che i confederati vi arrivassero; proponimento lodevole, ma bruttato da fatti scelerati. Fu Cortona messa a dura pruova. Polacchi venuti da Perugia accorrevano per tornarla a divozione di Francia. Seguì una fiera zuffa a Terontola, dove i Cortonesi erano andati ad incontrargli, poi a Campaccio a piè del monte, perchè i Polacchi prevalendo per arte di guerra, si erano fatti avanti. Infine venne il conflitto sulle mura stesse della città. Tentavano i soldati forestieri di sforzare le porte di San Domenico, e di Sant'Agostino, e di dare la scalata; ma quei di dentro si difesero sì valorosamente, che gli assalitori se ne rimasero, avviandosi a Firenze. Venne poscia una colonna Francese molto forte, che era l'antiguardo di Macdonald. Cortona si arrese con patto, che fossero salve le sostanze e le persone; il che fu loro osservato. Avrebbe desiderato Macdonald, che arrivava verso il finir di maggio a Siena, sottomettere Arezzo, e gli faceva la intimazione. Mandò contro gli Aretini un bando terribile, che passerebbe a fil di spada, che darebbe la città al sacco ed alle fiamme, che rizzerebbe sulla piazza d'Arezzo una piramide con queste parole: _Arezzo punita della sua ribellione_. Ma tutto fu indarno: gli Aretini non si sbigottirono; il Francese non si accinse a domargli, lasciando pendenti le cose loro, perchè non era parata l'occasione di vendicarsi. Era Arezzo città forte, e fuor di strada, ed ei voleva camminar veloce alla impresa. Un Andrea Doria mosse Albiano, terra vicina al Genovesato, a sollevazione contro i Francesi, non senza commettere i soliti atti di crudeltà. Andaronvi i Francesi, saccheggiarono, ed arsero la terra. Simili spaventi succedevano in altre parti della Toscana: ogni cosa sconvolta, e sanguinosa. Marciava spedito al suo destino Macdonald, e perchè non avesse intoppi di ammottinamenti di truppe per mancanza dei soldi, perciocchè da lungo tempo non erano espedite dei loro pagamenti, Bertolio, che come ambasciadore di Francia reggeva a posta sua Roma, e Reinhard, come commissario la Toscana, trovarono molti estremi di raccor denaro. Ordinava Bertolio, con intervento del governo servo di Roma, una tassa sui domestici, sui cavalli, sulle botteghe, sulle porte, un'altra del due per centinajo sui capitali fidecommissarj dichiarati liberi, ed ambe dovessero pagarsi nel termine di dieci giorni; il che come fosse possibile, potranno facilmente giudicar coloro, che hanno conosciuto le ruine dei Romani. Reinhard comandava, che da tutte le chiese, monasteri, e conventi, e dalle sinagoghe, e da altri tempj, di qualsivoglia rito fossero, si togliessero le argenterie superflue, ed il ritratto s'investisse in benefizio dell'esercito. Già si erano espilati i monti di pietà, e solo quando vennero i pericoli estremi, e quando il restituire era paura, non generosità, si erano restituiti i pegni di valuta minore di dieci franchi. Erano a questo tempo le genti dei confederati molto sparse. Una grossa parte attendeva all'oppugnazione di Mantova: Klenau correva il Ferrarese ed il Bolognese, il principe Hohenzollern il Modenese, Otto stava sugli Apennini, massime a Pontremoli, Bellegarde venuto dai Grigioni, circondava d'assedio Alessandria e Tortona, Suwarow e Keim alloggiavano in Piemonte per dar sesto al governo, per ridurre a divozione alcune valli dell'Alpi, e per osservare a che fine volesse Moreau incamminare le sue operazioni o verso Cuneo, o verso la riviera di Ponente. Guerra troppo spicciolata era questa, mentre Macdonald se ne veniva intero da Napoli, e Moreau poteva tornare più grosso da Francia. E' pare anzi certo, che se i due generali Francesi si fossero meglio accordati fra di loro nell'esecuzione del disegno concetto da Moreau, qualche grande infortunio sarebbe venuto addosso ai confederati, e si vede meglio in Suwarow l'arte di ben condurre una battaglia, che di modellare pensieri larghi e lontani di guerra, della quale perizia massimamente debbonsi lodare gli eccellenti capitani. Infatti non fece egli motivo d'importanza per proibire il passo degli Apennini a Macdonald, nel che consisteva tutta la fortuna della guerra. Bastò, che la legione Polacca romoreggiasse intorno a Pontremoli, perchè il debole presidio, che vi stava a guardia, si ritirasse. Nè il generale Russo, avendo le popolazioni amiche, e molta cavallerìa, poteva temere, che i presidi delle fortezze, che ancora si tenevano pei Francesi, gli facessero qualche moto d'importanza alle spalle. Laonde ci poteva sicuramente stare grosso e rannodato per opprimere Moreau e Macdonald là dove si fossero mostrati, e chi vincesse la battaglia, avrebbe anche vinto le fortezze. Gli accidenti posteriori mostrarono, quanto abbia errato Suwarow nello alloggiare tanto spartito. Moreau, dato voce che avesse avuto grossi rinforzi di Francia, e che maggiori ne dovesse ricevere, essendo anche a quel tempo arrivata nel Mediterraneo una flotta Francese proveniente da Brest con qualche battaglione da sbarco, era andato a piantare i suoi alloggiamenti presso a Savona per accennare contro Suwarow in Piemonte; poi speditamente marciando, si era condotto a Genova, verso la quale faceva concorrere le sue genti. Queste mosse apertamente indicavano in Moreau il pensiero di congiungersi con Macdonald, che già era arrivato in Toscana; nè Suwarow le poteva ignorare. Ciò nondimeno ei se ne stava a consumarsi intorno alle fortezze, ed alle montagne Piemontesi. Ma non istette lungo tempo ad accorgersi, che se per valore ei non era inferiore agli avversarj, gli avversarj lo avanzavano per arte, e che aveva a far con capitani, che per perizia nelle cose di guerra erano fra i primi del mondo. Già Victor camminando per la riviera di Levante, appariva vicino a congiugersi con Macdonald, e già gli avvisamenti dei generali di Francia si approssimavano al loro compimento. Macdonald, chiamate a se tutte le genti che stanziavano in Toscana, salvo le guernigioni di Firenze, di Livorno, e di alcuni altri luoghi forti sul littorale, s'incamminava alle accordate fazioni, per le quali si prometteva la liberazione d'Italia. L'ala sua dritta condotta da Montrichard pel passo di Lojano, che sempre era stato tenuto dai Francesi, marciava contro Bologna; la sinistra, conquistato prima dalla legione Polacca di Dambrowski il passo di Pontremoli, si conduceva nella valle del Taro. Victor faceva il suo alloggiamento in Fornuovo, luogo celebre per la vittoria di Carlo ottavo re di Francia sulle genti Italiane governate dal marchese di Mantova. Dambrowski s'incamminava a Reggio. Macdonald, varcato il sommo degli Apennini a Pieve di Pelago, per la strada che da Pistoia dà l'adito a Modena, si era calato col grosso dell'esercito per la valle del Panaro, ed impadronitosi di Venanzio, di Sassuolo, e di altri luoghi posti sul fiume, si era innoltrato per Casinalbo e Salicelta insino al Casino Brunetti a piccola distanza da Modena. Moreau dal suo lato si era ingrossato sulla Bocchetta col pensiero di correre contro Tortona ed Alessandria. Già aveva mandato per dar la mano più verso il piano, e più da vicino a Macdonald, il generale Lapoype con una schiera di Liguri a Bobbio. Queste mosse dei capitani della repubblica diedero che pensare ai generali dei due imperj, e gli fecero accorti, che era loro mestiero, se non volevano che l'Italia fuggisse loro dalle mani, di rannodarsi con molta prestezza; a tale strettezza erano condotte le cose, che un giorno solo d'indugio poteva aprir la occasione di una totale vittoria ai Francesi. Per la qual cosa Kray, che stringeva Mantova, convertita la oppugnazione in assedio, andava a porsi con diecimila soldati a Borgoforte sulla riva del Po, rompendo tutti i ponti. Temeva, che Macdonald, passato improvvisamente, e con forze preponderanti il fiume, non gli guastasse le opere fatte contro la piazza, e la liberasse dall'assedio. Un grosso di queste genti passarono anche il Po per fare spalla a Klenau, ed a Hohenzollern, che erano in pericolo di essere pressati da Macdonald. Il principale sforzo del generale Francese accennava contro Hohenzollern; però Klenau se gli accostava sulla destra. Per tal modo Montrichard colla destra dei Francesi andava a ferire Klenau, il grosso Hohenzollern, Victor, con la sinistra, Otto; e tutto il pondo della guerra si riduceva nei ducati di Modena e di Parma, che calpestati da tante genti, da paesi fioritissimi erano divenuti orridi per la fame e per la miseria. Il ducato di Parma principalmente si trovava molto consumato per le gravi esazioni commessevi da Otto. Ma i raccontati rimedj usati dagli alleati non erano bastanti per distornare la tempesta, perchè Macdonald solo era più forte di Klenau, Hohenzollern, e Otto uniti insieme; Moreau assai più di Bellegarde. Adunque l'importanza dell'impresa era posta nell'esercito proprio di Suwarow, che insisteva in Piemonte. Se lo vide il generalissimo di Paolo, e volendo ricompensare con la celerità l'errore dell'aver troppo spartito le sue genti, si mise senza indugio a correre con prestissimi passi a Piacenza, sperando di poter combattere Macdonald prima che si fosse congiunto con Moreau, e di arrivare a tempo, perchè il Francese non rompesse del tutto le schiere unite dei tre generali Austriaci. Pertanto marciando sulla destra del Po già si avvicinava ai campi famosi per antiche battaglie, e che del pari erano per diventar famosi per pruove di non minor valore date da nazioni venute anch'esse di lontano per ammazzarsi. Intanto fortemente già si combatteva sulle rive del Panaro. Il giorno dieci di maggio succedeva un grosso affronto tra i soldati armati alla leggiera delle due parti. Sulle prime i repubblicani caricarono con tanta forza gl'imperiali, che gli rincacciarono fin oltre Casino Brunetti. Ma trasportati dall'impeto, essendosi troppo inoltrati, furono sì aspramente assaliti ai due fianchi dalla cavallerìa Austriaca, che furono costretti a ritirarsi con grave perdita verso le montagne. Si combattè il giorno seguente con uguale ardore da ambe le parti, sforzandosi Olivier e Rusca di rompere la fronte del nemico per separare Hohenzollern da Otto. La cavallerìa repubblicana condotta dal generale Forest urtò con grande impeto il nemico, e già il faceva piegare, quando il generale Tedesco spinse avanti il reggimento dei fanti di Preiss, guidato da un colonnello molto valoroso, che aveva nome Wedenfels. Questo reggimento diè sì forte carica ai repubblicani, usando la bajonetta, che nol poterono sostenere, e si ritirarono verso le montagne, lasciando la terra di Sassuolo in poter dei Tedeschi. Non erano questi moti di molta importanza, e dimostravano piuttosto un ardore inestimabile di combattere in ambe le parti, che un evento terminativo di battaglie. Ma il dodici giugno fece Macdonald un motivo assai più grosso per isbrigarsi da quei corpi nemici, che sebbene meno grossi de' suoi il molestavano, e gl'impedivano il passo a' suoi disegni ulteriori. Ordiva per tal modo la forma della fazione, che Hohenzollern ne venisse non solamente rotto, ma ancora impossibilitato al ritirarsi. A questo fine, fatto calare la sua sinistra verso Reggio, le ordinava, urtasse il nemico, e si mettesse in mezzo tra Hohenzollern, e Otto; il che poteva agevolmente venir fatto, perchè le genti di Otto si trovavano sparse e lontane. Egli medesimo con la mezza contro Modena dirittamente difilandosi, voleva far opera di romperla, e d'impadronirsi della città. Al tempo stesso, passando con la destra il Panaro, si proponeva di spuntare da questa parte la sinistra degli Austriaci; e di separare per questa mossa Hohenzollern da Klenau. Ma perchè quest'ultimo non potesse accorrere in soccorso del compagno, il faceva assaltare da Montrichard, che già colle sue genti aveva liberato d'assedio il forte Urbano. Per questo Montrichard, muovendo due colonne, una da Bologna, l'altra dal forte Urbano, se ne giva per attaccare Klenau, che aveva le sue stanze a Castel San Giovanni. Fecero egregiamente i Francesi l'opera del loro perito ed audace capitano. Fu la zuffa sostenuta con grandissimo valore dai Francesi e dai Tedeschi, e durò molte ore: i cavalli massimamente andarono alle prese parecchie volte, e sempre se ne spiccarono laceri e sanguinosi. Le fanterie vennero replicatamente alla pruova delle bajonette. Pure i repubblicani superavano pel numero, e se tutto il disegno di Macdonald avesse avuto il suo compimento, era già fin d'allora perduta la fortuna dei confederati in Italia: il che dimostra chiaramente l'errore di Suwarow dell'avere in sì fatta guisa spartito le sue genti. La sinistra ala dei repubblicani riusciva nell'intento; perchè cacciati i Tedeschi, ed occupata la strada, che dà a Reggio, s'intrometteva tra Hohenzollern e Otto. La mezza schiera medesimamente del generale Tedesco, dove egli medesimo combatteva, animando i suoi, fu obbligata a piegare, e lasciare, fuggendo, Modena in potestà del vincitore. Sarebbe stato tutto questo corpo Austriaco, secondo il disegno ordito dal generale Francese, circondato e preso, se Montrichard avesse vinto sulla destra, come Macdonald aveva sulla mezza, e sulla sinistra. Ma Klenau, non aspettando che il nemico venisse a lui, era uscito a combattere, ed aveva rotto i repubblicani, che si difilavano contro di lui da Bologna, sforzandogli a tornarsene sulla sponda destra della Samoggia. Poi si affrontò con l'altra schiera, che gli veniva incontro dal forte Urbano, e trovatala e combattutala a Sant'Agata, la costringeva alla ritirata. L'avrebbe anche condotta a peggior partito, se Macdonald vittorioso dalla sua parte non le avesse mandato genti in soccorso. La resistenza di Klenau fu la salute di Hohenzollern; perchè questi, trovate le strade aperte, si ritirava alla Mirandola; poi non credendosi sicuro sulla destra del Po, venuto a San Benedetto, e quivi lasciato un piccolo presidio, varcava sopra un ponte di barche a San Niccolò per andarsene ad aspettare sulla sinistra quello che i fati portassero. Klenau, vittorioso, poi vinto, si condusse celeremente alle sue prime stanze di Cento; poscia vieppiù dilungandosi andò a posarsi a Vigarano della Mainerba, sito poco distante da Ferrara. Già Ferrara era piena di spavento, e Klenau vi faceva provvisioni d'armi e di munizioni, come se il nemico fosse fra breve per arrivare. Perdettero gli Austriaci in tutte le raccontate fazioni quindici centinaja di prigionieri, e forse pari numero tra morti e feriti. Dei Francesi mancarono tra morti e feriti circa un migliajo; pochi vennero in poter dei vinti. Fu morto il loro generale Forest, mentre virilmente combattendo con la cavallerìa, dava la carica al nemico. Macdonald fu ferito, non da Tedeschi, nè nella mischia, ma da Francesi dopo la vittoria. Militava sotto le insegne Austriache un reggimento di Francesi fuorusciti sotto il nome di cacciatori Bussy. Di questi, cinquanta, dopo di avere egregiamente combattuto, trovandosi separati dai compagni, con animosa risoluzione si deliberarono di aprirsi il varco con le armi in mano a traverso i nemici, che gli circondavano da ogni parte. Laonde impetuosamente urtando quanto loro si parava davanti, rotte le guardie, riuscirono all'alloggiamento di Macdonald, che co' suoi ufficiali, e con pochi soldati se ne stava securamente attendendo alle bisogne della vittoria. Fu forza, che la debole guardia di Macdonald, ed egli medesimo cacciassero mano alle spade per difendersi da un assalto tanto inopinato. Ne seguitava una furiosa baruffa, nella quale restò ferito il generalissimo di Francia. I fuorusciti, che avevano la mira al salvarsi, non al vincere, dando dappertutto segni di un valore incredibile, attraversato il campo dei repubblicani, attraversata Modena, che in mano dei repubblicani già era venuta, ridotti da cinquanta a sette, riuscirono all'alloggiamento Austriaco della Mirandola. Meritarono fra gli Austriaci principal lode di valore il reggimento di Preiss già sopra nominato, e quello di Klebeck, sopra i quali cadde il più grave pondo della battaglia: patirono gravemente i loro soldati. Fu biasimato Macdonald, anche da uomini periti della guerra, del non avere dopo la vittoria, varcato il Po, corso contro Mantova, prese le artiglierìe, rovinato le opere degli assediatori, e fatto di modo che si levassero dalla piazza. È vero, che tutte queste cose gli potevano agevolmente venir fatte; anzi Kray, presentendo la tempesta, già aveva avviato verso Verona le artiglierìe più grosse del campo di Mantova. Ma la vittoria di Francia non consisteva nell'allargar l'assedio, e nell'impedire agl'imperiali la ricuperazione di questa piazza, bensì era posta nel vincere Suwarow; il qual fine non si poteva conseguire, se non coll'insistere sulla destra del Po, e con la congiunzione con Moreau. L'operare spartitamente sarebbe stata la ruina dei Francesi, come per poco stette, che il medesimo operare non fosse la ruina degli alleati. Per la qual cosa a noi pare, che Macdonald meriti di essere lodato, non che biasimato della risoluzione presa di correre, dopo la vittoria conseguita, piuttosto verso Parma che verso Mantova. Era la sorte d'Italia in pendente, e doveva fra breve giudicarsi, se più potessero Moreau e Macdonald con le armi della repubblica, o Suwarow con quelle dei due imperi d'Austria e di Russia. Marciava celeremente Macdonald per unirsi a Moreau; Moreau mandava, come già fu per noi narrato, una squadra di Liguri sotto il governo di Lopoype a Bobbio, perchè servisse di scala alla congiunzione. Egl'intanto si apparecchiava a sboccare con tutto il suo esercito dalla Bocchetta per andar all'incontro di Macdonald. Suwarow marciava a gran passi da Torino per trovare o Moreau, o Macdonald, innanzi che fra di loro si fossero congiunti. Erasi Macdonald, dopo i fatti d'armi combattuti contro Hohenzollern, passando per Reggio e Parma, d'onde il duca, temendo dei repubblicani, si era ritirato sulla sinistra del Po, condotto in Piacenza, nella quale era entrato il dì quindici di giugno. Quindi gli si era accostato Victor, che mandato da Moreau ad ingrossare l'esercito del compagno, varcati i monti Liguri per Sarzana e Pontremoli, e poscia calatosi per Borgo di Taro e per Fornuovo, era arrivato al suo destino. Macdonald, volendo prevenire il nemico, e romperlo prima che fosse fatto più grosso, nè forse sapendo, che Suwarow già fosse arrivato con l'esercito sul campo, incominciava la guerra. Trovavasi il generale tedesco Otto, come antiguardo, alloggiato fra la Trebbia ed il Tidone. In questo antiguardo urtando Macdonald, lo sforzava a ritirarsi, a passar il Tidone, ed a correre sino a Castel San Giovanni, inseguendolo passo passo i cavalleggieri della repubblica condotti dal generale Salm. Ma Otto, indietreggiando, aveva fatto abilità alle prime genti di Suwarow di arrivare correndo in suo soccorso; imperciocchè primamente Melas, udito il pericolo di Otto, aveva celeremente spinto avanti la schiera di Froelich, che sostenne la impressione dei Francesi: poscia sopraggiunse opportunamente la vanguardia Russa, e tutte queste genti insieme unite fecero un tale sforzo, il principe Bagrazione coi suoi Cosacchi sulla dritta, il principe Korsakow con altri Cosacchi, e con soldati leggieri d'Austria sulla sinistra, e finalmente Otto spalleggiato da Froelich sul centro, che i repubblicani, quantunque con molta costanza contrastassero, furono rincacciati sulla destra del Tidone. Sopraggiunse la notte: cessavasi per poche ore dagli sdegni, e dalle ferite. Erano i due eserciti separati dal torrente Tidone. In questo momento s'incominciavano a vedere gli errori di Macdonald, dei quali resterà facilmente capace chi vorrà considerare quello, che si conveniva a Suwarow di fare. Molto importava al generale di Russia di venire subitamente alle mani col Francese, e di romperlo innanzi che Moreau scendesse per le valli della Trebbia e della Scrivia ad assalirlo sul fianco suo destro ed alle spalle; perchè, se non rompeva Macdonald prima che Moreau arrivasse, gli era necessità di retrocedere; il che apriva la strada ai due generali Francesi di congiungersi; o se avesse perseverato nel proposito di guerreggiare a Piacenza, con Macdonald tuttavia intero a fronte, e con Moreau alle spalle, al quale davano anche appoggio le due fortezze d'Alessandria e di Tortona, sarebbe stato condotto a qualche pessimo partito. Adunque se importava molto a Suwarow il venire incontanente alle mani con Macdonald, importava del pari a Macdonald il temporeggiare con Suwarow, perchè è impossibile che quello, che è utile ad una delle parti contrarie, non sia dannoso all'altra. Bene e lodevolmente fece Macdonald assaltando sul suo primo giunger Otto, ed oltre il Tidone cacciandolo, perchè allora, non sapendo che Suwarow fosse tanto vicino con tutte le sue genti, gli conveniva passare per accostarsi a Moreau: ma quando dalle novelle avute, ed ancor più dal duro rincalzo si era accorto, che non più con una piccola parte, ma con tutto l'esercito nemico aveva a fare, non solo più prudente, ma ancora necessario partito era l'astenersi, il temporeggiare, il ritirarsi lento e cauto, finchè avesse novelle certe di quanto portasse la guerra fra Novi e Tortona; e che Moreau venuto al piano, avesse assaltato il nemico. Ciò non di meno si deliberava a combattere, risoluzione più animosa che prudente, o che a ciò il muovesse una troppo viva speranza di vittoria, o il pensiero ambizioso di essere chiamato lui solo liberatore d'Italia, o la ripugnanza di congiungersi con Moreau, al quale per l'anzianità del grado avrebbe dovuto obbedire. Avevano i due forti capitani della repubblica e dell'impero preparato, durante la notte, i soldati loro alla battaglia: erano le due parti ostinate alla vittoria, o alla morte. Comandava Suwarow a' suoi, che venissero in sul primo scontrarsi all'arma bianca, non dessero quartiere a nissuno, comandamento barbaro, e degno di eterno biasimo, e scannassero gridando _urra_, _urra_. Ma nel fatto i soldati mostrarono maggiore umanità del loro generale. Era l'esercito repubblicano schierato sulla sinistra della Trebbia, più vicino a questo fiume che al Tidone: il destro corno governato da Olivier si distendeva verso il Po, ed avea con lui la cavallerìa di Salm: nel sinistro si trovavano i Polacchi con Dambrowski, e con la schiera di Rusca; contenevano il mezzo i soldati di Montrichard, e di Victor. Dalla parte sua Suwarow aveva ordinato l'esercito per guisa che fosse diviso in quattro parti, Otto a sinistra verso il Po, poi più su seguitando, prima Froelich, poi Forster, poi Rosemberg, poi Bagrazione, finalmente un Schweicuschi, Russo generale. Guidava le due prime schiere composte quasi totalmente di Austriaci, quale duce supremo, Melas, le due ultime composte per la maggior parte di Russi, Suwarow. Passato il giorno diciotto di giugno il Tidone a guazzo, venivano avanti gli alleati ad affrontare i repubblicani, che stavano preparati a ricevere l'urto loro. Avevano i primi fatto pensiero di urtare principalmente la sinistra del nemico; Bagrazione guidava la vanguardia; ma essendo la campagna piena di fossi e di siepi, non arrivava se non tardi al cimento. I Francesi, vedutolo venire, impazienti di aspettarlo, si scagliarono furiosamente contro di lui. L'impeto loro fu tale che già i soldati del principe si crollavano, e sarebbero anche andati in rotta, s'ei non fosse stato presto a soccorrergli, ordinando una fortissima carica di cavalleria. Ne seguitò, che non solo la fortuna della battaglia si ristorava dal canto degli alleati, ma ancora i Francesi erano rincacciati fino agli alloggiamenti loro. Il quale accidente vedutosi da Macdonald, mandava alcuni reggimenti di Victor, che frenarono Bagrazione, e facevano di nuovo piegare la fortuna in loro favore. In questo punto Rosemberg muoveva Schweicuschi in soccorso di Bagrazione, e per l'impeto di tante genti si attaccava in questa parte un'asprissima battaglia, che durò molte ore. Al tempo stesso Forster con la sua vanguardia composta massimamente di Cosacchi, e di uno squadrone Austriaco si attaccava con la vanguardia repubblicana, e dopo un ostinato conflitto la sforzava a piegare. Sopravvenne il colonnello Lawarow con alcune compagnìe, ed urtando a forza la vanguardia Francese, che già si ritirava, la ruppe. L'impeto delle genti rotte, che disordinate urtarono nel centro dei repubblicani, lo scompigliarono, sforzandolo a ritirarsi, acremente perseguitato, oltre la Trebbia. Macdonald, che vedeva, che in questo fatto andava la fama propria, e la fortuna della battaglia, rannodò di nuovo i suoi, facendo in questo tutte le veci di capitano esperto, valoroso e forte. Congiunse con loro alcune compagnìe della schiera di Olivier, e gli mandava nuovamente a combattere sulla sinistra del fiume, gli animava quantunque fosse molto impedito dalla ferita avuta nel combattimento di Modena, con la voce, con la mano, e con l'esempio. Riempiva con arte eccellente i luoghi vacui fra gli squadroni dei soldati a piedi con drappelli di cavallerìa, affinchè potessero maggiormente allargarsi, e non fosse fatta facoltà al nemico di ficcarsi in mezzo. Così ordinato, e di nuovo confidente marciava al riscatto della battaglia. Ne sorse una mischia molto feroce: Forster era molto pressato, e sarebbe eziandio stato vinto, se Froelich, veduto il caso, non gli avesse mandato nuove genti in soccorso. Questo avviso di Froelich ristorò la pugna dalla parte degli alleati; la fortuna si pareggiava. Sulla destra dei Francesi, cioè verso il Po, si combatteva anche egregiamente per la repubblica, e per l'impero; perchè e Francesi ed Austriaci, memori gli uni e gli altri degli odj antichi, e delle recenti battaglie, mostravano una grandissima costanza, i primi incoraggiati da Olivier, e da Macdonald medesimo, che era accorso, i secondi da Otto, da Froelich, e da Melas; forti tutti, e periti capitani. Così durò lunga pezza la battaglia, succedendo molto strazio, e molte morti da ambe le parti. Vinse finalmente la fortuna dei confederati, che prevalevano di cavallerìe, e di artiglierìe. Fu rotto Dambrowski sulla sinistra, Macdonald sul centro, Olivier sulla destra: tutti furono obbligati a cercar ricovero straziati dalle ferite, e bruttati di sangue sulla destra della Trebbia. Era il campo di battaglia orrido e doloroso a vedersi: in ogni parte uomini e cavalli morti, o moribondi; in ogni parte gemiti e spaventi; in ogni parte armi e munizioni rotte e sparse; gli arbusti gocciavano, la Trebbia menava sangue. Sopraggiunse la notte, che rinvolse nelle sue ombre la miseranda strage, gli sdegni ancor vivi delle tre forti schiatte, e la cupidigia non ancora satolla d'umano sangue. Era intento di Suwarow d'ingaggiare il seguente giorno una nuova battaglia, perchè voleva rompere del tutto quella testa di repubblicani innanzi che Moreau gli romoreggiasse alle spalle. Pensava medesimamente Macdonald per la sua pertinacia insolita ad esser vinta, od a piegarsi, di assaltare alla nuova luce quel nemico, che già per due volte aveva tentato con tanto danno de' suoi, e con sì poco frutto. Nel che come si possa scusare, noi non possiamo restar capaci; e se si può lodare di coraggio, certamente non si può di prudenza: perchè se dubbio era, che vincesse il diciotto, ancor più dubbio era per l'efficacia dei precedenti fatti, che potesse vincere il diecinove, e la rotta del suo esercito importava la ruina di quello di Moreau, e di tutte le cose Francesi in Italia. Solo stabile speranza poteva essere per lui l'essere ajutato da Moreau; ma che questi fosse per arrivare a combattere l'inimico nel momento stesso della battaglia, era cosa molto incerta, nè Macdonald la poteva sapere: che se dopo la medesima fosse arrivato, sarebbe stato il suo arrivare inutile, nè avrebbe potuto riguadagnare la battaglia perduta. Adunque pare a noi, che la ostinazione di Macdonald dell'aver voluto tornar al cimento non sia da lodarsi, e qualunque sia il biasimo, che Moreau abbia meritato per non essere venuto a tempo, Macdonald non può schivar quello di non lo aver aspettato. Intanto le sorti di Francia in Italia andarono in precipizio. Risolutosi Macdonald a non aspettare di essere assaltato, ma ad assaltare, muoveva alle undici della mattina del diecinove di giugno le sue genti contro l'esercito imperiale. Era l'ordinanza dei due nemici la medesima, che nei giorni precedenti. Ordinava nel suo pensiero il generalissimo di Francia di circuire, stando fermo sul mezzo, e dopo di aver passato il fiume, con le due ali estreme il nemico, cioè di spuntarlo e verso i monti, e verso il Po. Con singolare intrepidezza passarono i repubblicani la Trebbia, ancorchè aspramente fossero bersagliati dalle artiglierìe nemiche sì grosse che minute, principalmente da quelle che ferivano a scaglia. Rusca, e Dambrowski s'attaccarono sulla sinistra verso i monti con Bagrazione. Nissuno creda che maggior valore nelle più aspre battaglie si sia mostrato mai di quello, che in questa mostrarono e Francesi, e Polacchi, Russi, ed Austriaci. Pinsero Rusca, e Dambrowski con grandissimo impeto Bagrazione, e col medesimo impeto gli rispingeva Bagrazione, quanto era urtato riurtando. Cominciarono a balenare i soldati di Dambrowski; Rusca accorreva con un grosso di genti scelte in suo ajuto. Menò egli sì terribilmente le mani, che non solo il Russo piegava, ma ancora i Francesi, preso nuovo ardire, assaltavano Schweicuschi con tanta energìa, che lo conciarono per la peggio, tagliarono a pezzi un intiero reggimento, lo rispinsero lungo spazio, e lo cacciarono dalla terra di Casaliggio, della quale s'impadronirono. Lampeggiava in questo punto la speranza della vittoria pei Francesi, e l'avrebbero anche ottenuta, se non fosse venuto in soccorso delle schiere pericolanti di Russia il generale Austriaco Dalheim con un grosso rinforzo di genti Tedesche: efficacemente il secondava la cavallerìa Russa, che già si era riordinata. Si rinnovava la mischia più fiera di prima, nè questi cedevano, nè quelli; diè Dambrowski segni di disperato valore: due volte respinto, due volte tornò più animoso al combattere, nè si partì dalla battaglia, se non quando arrivò Rosemberg con un forte apparecchio d'artiglierìe leggeri, che fulminando i contrastanti, gli costrinsero, sebbene tuttavia combattenti, alla ritirata sulla destra riva del fiume. Fu questo affronto sanguinosissimo, e mortale per ambe le parti, la legione Polacca vi fu conquassata, e lacerata all'estremo. Ma se i repubblicani vi perdettero molta gente, gl'imperiali ve ne perdettero altrettanta. Non era stata nè meno ostinata, nè meno sanguinosa la battaglia sui campi, che avvicinano il Po. Quivi contuttochè Melas si fosse molto affaticato con le artiglierìe per impedire ai repubblicani il passo della Trebbia, dalle quali avevano molto patito, erano ciò non ostante riusciti sulla sinistra del fiume, ed avevano principiato a dare esecuzione al disegno ordinato da Macdonald. Una colonna urtava di fronte Otto, mentre un grosso di cavallerìa difilandosi lungo il Po, s'ingegnava di riuscire oltre l'ala estrema degl'imperiali. Le fanterìe Tedesche già cedevano all'impeto delle Francesi, quando venne in soccorso loro con una gagliarda squadra di cavallerìa il principe di Lichtenstein. Diè la carica alle fanterìe Francesi, e le respinse: diè la carica alle cavallerìe accorse in ajuto delle fanterìe, e le respinse. Arrivava in questo dubbioso punto con la seconda squadra dei suoi fanti Olivier, e facendo uno spaventoso trarre di artiglierìe leggieri, disordinava i cavalli di Lichtenstein, e gli costringeva alla fuga. Fra la furia del rinculare percossero nel reggimento dei granatieri di Wowerman, e il disordinarono, e se le fanterìe di Francia si fossero fatte avanti per usare la occasione aperta dalle artiglierìe leggieri, sarebbe nato in questa parte qualche gran sinistro per gl'imperiali; ma esse, non so perchè, si sostarono. Intanto Lichtenstein, che era uomo prode, ed i granatieri di Wowermann, che erano uomini forti, ed esercitati nelle battaglie, si riordinarono, e tornarono al cimento: trassero con loro un grosso rinforzo del reggimento di Lobkowitz. Il rincalzo fatto da tutte queste genti unite, ed animate da Melas, da Froelich, e da Otto diventò sì forte, che Olivier disperando la vittoria, la lasciò in mano del nemico, sulla destra riva dell'insanguinata Trebbia ritirandosi. Salm, che co' suoi cavalli correva lungo il Po per circuire Otto, veduto che per la ritirata di Olivier restava solo esposto all'impeto di tutta la schiera vincitrice, velocemente correndo, si ritirava ancor esso agli alloggiamenti oltre il fiume. Bene, come si è veduto dalla narrazion nostra, fu combattuta questa battaglia dalle due ali dell'esercito Francese sul principio, male sulla fine; il che fu cagione, che, se esse si ritirarono intiere sulla destra della Trebbia, la mezza vi si ricoverò fuggendo disordinata e rotta. Avevano i Francesi passato il fiume, ed essendosi ordinati sulla sponda sinistra assaltavano con l'antiguardo loro il nemico: ma questi, bravamente resistendo, gli rincacciava. Venuta la seconda fila repubblicana in soccorso della prima, rinfrescava la battaglia, che fra breve divenne orribile. Impazienti l'una parte e l'altra di combattere di lontano, vennero tosto alle prese con le bajonette: fu quest'urto tanto micidiale sostenuto quinci e quindi con un valore inestimabile. Quando pei cadenti, feriti o morti qualche spazio vuoto appariva nelle file, i viventi vi si gettavano, e facevano battaglia con le sciabole, e quando non potevano con le sciabole, la facevano coi graffi, coi morsi, e coi cozzi. Non fu questa battaglia generale, ma miscuglio di duelli fatti corpo a corpo, nè si vedeva chi avesse ad essere il primo a ritirare il passo. Ma mentre la fortuna stava per tale modo in pendente, ecco arrivare a corsa un reggimento di Tedeschi condotto dal colonnello Lowneher, che diede animo ai Russi, lo scemò ai Francesi; caricando, e smagliando la cavallerìa, che fiancheggiava la schiera di Montrichard. Un reggimento di fanti leggieri, preso spavento da questo accidente, cesse fuggendo disordinatamente; la fuga e lo scompiglio invasero tutta la schiera, nè Montrichard ebbe potestà di rannodarla, malgrado che se ne desse molto pensiero, e molto vi si sforzasse. La rotta di Montrichard fu cagione del doversi ritirare Victor; perchè Suwarow accortosi della favorevole occasione, che la fortuna ed il valore de' suoi gli avevano aperta, si cacciava dentro ai luoghi abbandonati col suo corpo di riserbo, ed assaliva il generale Francese per fianco. Pensò allora Victor al ritirarsi sulla destra riva, e il fece ordinatamente, per quanto quell'accidente improvviso il comportava. Così tutta la mezza dei repubblicani, parte rotta intieramente, parte poco intera, e fieramente seguitata dalla cavallerìa nemica, si era ritirata a salvamento oltre quel fiume, che con tanta speranza di vittoria aveva poche ore prima passato. La Trebbia, funesto fiume per tante battaglie, non vide mai tanto sangue, quanto a questi giorni: il suo letto orrido pei mucchj dei cadaveri, massimamente più verso la sua foce nel Po, perchè quivi nel passare furono i Francesi terribilmente bersagliati dalle artiglierìe di Melas. Dei repubblicani in quelle tre giornate fu uno scempio di circa sei mila soldati morti, o feriti; tre mila prigionieri ornarono il trionfo dei vincitori. Non fu minore il numero degli uccisi dalla parte degli imperiali, e quasi niuno quello dei prigionieri. Alcune bandiere dei repubblicani furono conquistate dai confederati; pochi cannoni vennero in poter loro, perchè Macdonald per non essere ritardato dall'impedimento dell'artiglierìe più grosse, le aveva lasciate nello stato Romano, solo conducendo seco le leggieri. Sopraggiunse la notte: era estrema la stanchezza dei combattenti; fuvvi riposo, se non d'animi, almeno di corpi. Pensava Suwarow, tosto che aggiornasse, di perseguitar il nemico, Macdonald di ritirarsi, quantunque a ciò di mala voglia, e costretto dal parere dei compagni, si risolvesse, perchè avrebbe desiderato di fare una quarta volta esperienza della fortuna; tanto si era ostinato in questa faccenda del combattere. Per la qual cosa, lasciato sulla sponda del fiume alcune genti delle più spedite per occultare al nemico la sua partita, s'incamminava celeremente col restante esercito, prima che la luce illustrasse l'Italiche contrade, alla volta di Parma. Dal canto suo Suwarow, come prima vide sorgere l'aurora, passava il fiume per dar l'assalto al nemico nei suoi proprj alloggiamenti. Nè avendolo trovato, ed accortosi della sua levata, si mise tosto a perseguitarlo, egli per la strada vicina ai monti, Melas per la prossimana al Po. Giunsero i Russi a Zema il retroguardo Francese governato da Victor, e l'assalirono con molto valore, e con ugual valore fu loro risposto dai Francesi, cosa maravigliosa dopo gl'infortuni recenti. La diciasettesima, postasi in un luogo forte, fece spalla al ritirarsi dei compagni, ma circondata finalmente da un nemico a molti doppj più grosso, fu costretta a deporre le armi, dandosi prigioniera in poter del vincitore. Dall'altro lato i Tedeschi arrivarono addosso ai Francesi presso a Piacenza, e ne fecero molti prigionieri, massime feriti, fra i quali notaronsi principalmente Rusca, Salm, e Cambray; quest'ultimo morì fra breve per le ferite avute nella battaglia. Rusca ebbe una gamba sconcia, Olivier una meno, entrambi guerrieri buoni, e di forme egregie di corpo. Avrebbe voluto Suwarow seguitare più oltre i repubblicani; ma udiva ad un tratto, che Moreau, uscito dal suo sicuro nido di Genova, era sboccato dalla Bocchetta, e calando dai monti minacciava di trarre a mal partito Seckendorf, e Bellegarde, dei quali il primo stringeva Tortona, il secondo Alessandria; che anzi il capitano di Francia avrebbe potuto fare addosso al suo retroguardo qualche fazione di sinistro augurio. Deliberossi pertanto a tornarsene indietro, dando carico a Otto, a Hohenzollern, ed a Klenau, che perseguitando facessero a Macdonald tutto quel maggior male, che potessero. Ma prima ebbe mandato una presa di Cosacchi a disfare quella testa di Liguri, che sotto il governo di Lapoype stanziava a Bobbio; la qual cosa venne loro agevolmente fatta. Domandano molti, perchè Lapoype, invece di scendere ad ajutare Macdonald, se ne sia stato inoperoso in un momento, in cui la più efficace attività era richiesta: alcuni il tacciano di poco animo, altri di animo rotto per non aver saputo svilupparsi a tempo dai piaceri di Genova. Ma egli stava agli ordini di Moreau, non di Macdonald, e se il generalissimo non gli aveva comandato di calarsi, non si vede come il potesse fare da se. Pare poi cosa molto inverisimile, per non dir del tutto falsa, che Moreau gli desse il comandamento di scendere, perchè ei non poteva supporre, che Macdonald fosse, non so se mi debba dire o tanto imprudente, o tanto temerario, che volesse mettere da se solo a cimento sorti sì gravi quando temporeggiando solamente due giorni, le avrebbe potute mettere coi due eserciti uniti insieme. Da tutto questo si scorge, che se Suwarow avesse tardato ad arrivare solo due giorni, o Macdonald solo due giorni a combattere, vinceva, per quanto delle probabilità di guerra si può giudicare, la fortuna di Francia. Sonvi alcuni, che accusano Macdonald di essere arrivato troppo tardi, perchè tornando da Napoli giunse a Firenze il dì ventisei di maggio, e solo partinne il dì otto di giugno: pare cosa strana quell'avere accennato sì presto, e colpito sì tardi. Se avesse corso, affermano, difilato, con dare solamente alle sue genti i riposi necessari, sarebbe certamente giunto a Voghera, prima che Suwarow vi arrivasse, e la unione dei due eserciti stata certa, e sicura. Di questo noi non vogliamo giudicare, perchè non abbiamo scienza del marciare degli eserciti, nè dell'immenso viluppo, che a' nostri tempi e' si tirano dietro. Certo, se l'accusazione è vera, la posterità Francese avrà molto a dolersi di Macdonald. Restava a Macdonald un'impresa difficile a compirsi; quest'era di ritirarsi a salvamento in Toscana, per poter quindi per la riviera di Levante condurre le sue genti all'unione in Genova con quelle di Moreau. Ei ne venne ciò non ostante a capo con uguale e perizia e felicità. Ordinava a Victor, che salisse per la valle del Taro, e che, varcati i sommi gioghi dell'Apennino, calasse per quella della Magra nel Genovesato. Egli poi con la sinistra, ora combattendo alle terga, ora sul fianco sinistro, ed ora di fronte, e sempre animosamente e felicemente, più che da vinto si potesse sperare, se ne viaggiava alla volta di Bologna per condursi di nuovo a Pistoja. Disperse le genti leggieri di Hohenzollern e di Klenau, che gli volevano contrastare il viaggio, passò per Reggio e per Rubiera, passò per Modena, che pose a grossa taglia, mandò presidj a Bologna ed al forte Urbano: poscia salendo s'internava nella valle del Panaro, ed arrivava al suo alloggiamento di Pistoja. Poco stettero Bologna, ed il forte ad arrendersi ai confederati. Nè il generale Francese voleva pei disegni avvenire, e per le molte sollevazioni dei popoli fermarsi in Toscana. Perlochè, chiamate a se le guernigioni di Livorno, e dell'isola d'Elba, che avevano capitolato, la prima con un Inghirami, condottiere di Toscani sollevati, la seconda con Napolitani e Toscani misti d'Inglesi, e poste sulle navi per a Genova le artiglierìe e le bagaglie, si avviava per la strada di Lucca alla volta dei territorj Liguri, e quivi conduceva a salvamento i suoi stanchi soldati. Poi stanco egli stesso dalle fatiche e dalle ferite, se n'andava a Parigi piuttosto in sembianza di vincitore che di vinto, per lo smisurato valore dimostrato. Del resto mostrossi Macdonald in Italia uomo di generosa natura: fu anche umano, malgrado delle cose eccessive che pubblicò a Napoli, e che rinfrescò in Toscana: si astenne da quel d'altrui, abborriva i rubatori. Amava più la gloria che la repubblica e la libertà, come d'ordinario l'amano i soldati. Gli piacevano meglio i governi temperati, che gli sfrenati. Insomma ei fu in Italia personaggio commendevole, e sarebbe stato anche più se un amore smisurato di fama non l'avesse fatto errare. Ebbe i difetti degli animi generosi, e non fu poco in mezzo a tanti vizj di animi vili. Con l'esercito di Macdonald si ritirarono ancora le genti Francesi, che tenevano Firenze; tutta la Toscana tornava all'obbedienza di Ferdinando. Il giorno medesimo, in cui Macdonald combatteva sulle rive del Tidone, Moreau scendeva con circa venticinque mila soldati dalla Bocchetta, e passando per Gavi e Novi, fatto anche sicuro dalla fortezza di Serravalle, che si trovava in potere de' suoi, se ne giva all'impresa di divertire i confederati dalle offese di Tortona, che già pericolava, essendo stata aspramente bersagliata da bombe ai giorni precedenti. Il giorno diciotto al momento stesso, in cui Macdonald era alle mani con gli alleati fra il Tidone e la Trebbia, Moreau assaltava gli Austriaci nel campo loro sotto Tortona, e quantunque, condotti da Seckendorf e da Bellegarde, si difendessero da uomini forti, tuttavia, prevalendo i Francesi di numero, furono costretti a cedere e perdettero San Giuliano; perseguitati acerbamente dai repubblicani nel piano di Marengo, disordinati, e rotti si ritirarono oltre la Bormida. Questa vittoria liberava Tortona dall'assedio, e fu fatto abilità a Moreau di rinfrescarla di viveri e di munizioni. Da tutto questo chiaramente si vede, che se Macdonald fosse, come pare che potesse, arrivato più presto, o avesse combattuto più tardi, avrebbe la fortuna inclinato di nuovo a favor dei repubblicani: per un intervallo di ventiquattr'ore stette, che i vinti non fossero vincitori, e che l'Italia, in vece di essere Russa e Tedesca, fosse Francese. Scaramucciossi il giorno diecinove, ed il venti sulle rive della Bormida. Il ventuno, messosi Bellegarde all'ordine, raccolte quante genti potè dal campo sotto Alessandria, e da altre terre vicine, facendo stima non piccola di questo moto, nè volendo che Moreau si alloggiasse in quei luoghi, mandava Seckendorf con un grosso antiguardo ad assaltar i repubblicani sulla destra del fiume. Attaccossi Seckendorf con Grouchy a San Giuliano, e dopo una dura zuffa lo sforzava a ritirarsi. Accorrendo con nuove genti Grenier in soccorso di Grouchy ristorava la battaglia: il generale Tedesco, che sulle prime aveva respinto, fu respinto. In questo mentre Bellegarde arrivava a fare spalla a Seckendorf con una forte squadra di genti fresche, ed entrato nella battaglia faceva piegare i Francesi: venivano in poter suo San Giuliano, e Spinetta; continuamente i Tedeschi guadagnavano del campo. Fu forza, che Moreau venisse in ajuto de' suoi, che si trovavano in gran pericolo. Divenne allora molto aspro il conflitto: da ambe le parti si facevano gli ultimi sforzi per uscirne con la vittoria. Alfine Grouchy, che in questo fatto si portò da soldato molto valoroso, radunati e riordinati i suoi, che erano stati disordinati e dispersi, dava dentro, serrandosi addosso con molto impeto agli Austriaci, gli rompeva, e gli sforzava ad andarsene frettolosamente a cercar ricovero sulla sponda sinistra della Bormida. Un loro retroguardo lasciato al Bosco, e circondato dai Francesi si liberò a furia di bajonette. L'estrema coda delle genti Austriache, deposte per la forza sopravvanzante degli avversarj le armi, si diede in poter dei vincitori. Perdettero gl'imperiali in questo fatto molta gente, ma non tanta, quanta pubblicarono i Francesi, nè tanto poca quanto pubblicarono i Tedeschi, certamente nel novero di due in tre mila soldati tra morti, feriti e prigionieri; nè è dubbio, che la vittoria non sia stata dalla parte dei repubblicani. Quivi ebbe Moreau le novelle dei sinistri accidenti della Trebbia. Perlochè conoscendo, che per allora non restava speranza di far risorgere la fortuna, e che la sola strada che gli rimanesse aperta per riparo del suo esercito, era quella di ritirarlo prestamente là, dond'era venuto, condottosi con frettolosi passi per la strada di Novi e di Gavi a Genova, spartiva i soldati nelle stanze di Voltri, Savona, Vado e Loano. Munì Genova con un sufficiente presidio; la strada di sboccar di nuovo nelle pianure Tortonesi gli rimaneva libera pei forti di Gavi e di Serravalle. Oltre a ciò aveva per maggiore sicurezza ordinato un forte campo con trincee tra la Bocchetta e Serravalle, che aveva raccomandato alla fede del marchese Colli, assunto al grado di generale, ed a lui congiunto d'amicizia. Le altre valli dei monti Apennini, per le quali si aprono le strade delle pianure bagnate dalle acque del Po, furono anche dal generale di Francia fortificate, e munite con buoni presidj. In questo forte sito, ed avendo frapposto fra di lui ed il nemico, come baluardo naturale e forte, tutto il concatenato giogo degli Apennini, se ne stava aspettando, che cosa portassero le sorti dalla parte di Francia, che ancora non voleva, malgrado di tante rotte, pazientemente sopportare, che l'imperio d'Italia le uscisse dalle mani. Tornato Suwarow dai campi tanto gloriosi per lui del Tidone e della Trebbia, andava a porsi ad alloggiamento sulle sponde dell'Orba per impedire ogni motivo, che i Francesi potessero fare a soccorso delle fortezze di Tortona e di Alessandria cinte, dopo il suo arrivo, di più stretto assedio, e che sperava avessero fra breve a cedere alle sue armi. Tale fu la ruina ed il precipizio delle cose dei Francesi in Italia, che, non ancora trascorsi quattro mesi da quando la guerra aveva avuto principio in quest'anno, perdute sette battaglie campali, e le fortezze di Peschiera, e di Pizzighettone, il castello di Milano, la cittadella di Torino, perduta tutta l'Italia da Napoli fino al Piemonte, la cadente loro fortuna altro sostegno più non aveva, che i gioghi dei monti Liguri, ed alcune fortezze. Noveravansi fra queste principalmente i castelli di Napoli, il castel Sant'Angelo, Ancona, Mantova, e le fortezze Piemontesi di Alessandria, Tortona e Cuneo. Conoscevano gli alleati, che l'imperio d'Italia non si renderebbe in mano loro sicuro, se non quando tutte le anzidette fortezze conquistate avessero. Ma principale pensier loro era quello dell'acquisto di Mantova stimata il più forte antemurale d'Italia, se non di effetto, almeno di nome, e delle fortezze del Piemonte; conciossiachè il presidio di Mantova essendo grosso di circa diecimila soldati, poteva ajutare efficacemente una nuova calata di Francesi, se la fortuna divenisse loro più favorevole; le fortezze Piemontesi, per essere vicine a Francia, potevano facilmente servire di appoggio e di scala a nuove imprese dei repubblicani. Agevolavano agli alleati la conquista di tutti questi propugnacoli le vittorie conseguite, i popoli favorevoli, le armi Russe, Inglesi e Ottomane, che o già tenevano, o minacciavano l'inferiore Italia. Per la qual cosa non così tosto Moreau si era riparato nel suo sicuro seggio di Genova, che i confederati andarono col campo alla cittadella d'Alessandria con potentissimi apparecchj, sperando per l'efficacia del batterla, ch'ella avesse presto, quantunque molto fosse forte per arte, ad essere sforzata alla dedizione. Siede la cittadella d'Alessandria sulla riva sinistra del Tanaro, separata solamente per le acque del fiume dalla città, con la quale si congiunge per un ponte coperto a guisa di quello di Pavìa. Eravi dentro un presidio di circa tremila soldati sottomessi al generale Gardanne, soldato, che pel suo valore in quelle guerre Italiane, era tostamente salito dai minori gradi della milizia ai maggiori. Sebbene non gli fosse nascosto, che per le rotte toccate da' suoi poca speranza gli rimaneva di essere soccorso, tuttavia da quell'uomo forte, ch'egli era, si era risoluto a difendersi fino agli estremi, perchè dove non vi poteva più essere utilità per la sua patria, voleva almeno, che risplendesse incontaminato l'onor suo, e quello de' suoi soldati. Animava continuamente il presidio con la voce e con la mano, sopravvedeva ogni cosa, ordinava con somma diligenza quanto fosse necessario alla difesa. Dal canto suo Bellegarde niuna diligenza o fatica risparmiava, per venir a capo dell'espugnazione. Aveva con se ventimila soldati fra Austriaci e Russi, più di centotrenta pezzi di artiglierìe assai grosse, parte dell'esercito, parte condotte recentemente dalle armerìe di Torino, con obici e mortai in giusta proporzione. Venne per sopravvedere, ed incoraggire gli oppugnatori con la sua presenza il generalissimo dei due imperj. Essendo la fortezza nuova, edificata secondo l'arte, ed abbondante di caserme, e di casematte construtte a pruova di bomba, si bramava conoscere, quanto potesse nel contrastare alla forza di chi l'assaltava. Si convenne da ambe le parti, che gli alleati non molesterebbero la fortezza dal lato della città, e che ella la città in nissun modo offenderebbe. Scavata, ed alzata la prima trincea di circonvallazione, fece Bellegarde la chiamata a Gardanne. Rispose, essergli stato comandato, che difendesse la fortezza, e volerla difendere. La folgoravano con tiri spessissimi centotrentanove cannoni, quarantacinque obici, cinquantaquattro mortaj. Nè se ne stava Gardanne ozioso, fulminando ancor esso con tutto il pondo delle sue artiglierìe. Ma la tempesta scagliata dagli alleati fu sì grande, che in poco d'ora, o per proprio colpo, o per riverberazione ruppe la maggior parte dei letti delle artiglierìe, sboccò le restanti, uccise non pochi cannonieri, arse una caserma, ed una conserva di polvere con orribile fracasso: tacque per un tempo, o debolmente trasse la piazza. Usarono gli assedianti l'accidente, e spintisi avanti con le zappe, e compite le traverse, arrivarono sino al circuito dello spalto, dove incominciarono a distendersi con il cavare, e con alzare la terra a destra ed a sinistra coll'intento di compire la seconda circondazione. Tentava Gardanne d'impedirgli, poco potendo con le artiglierìe, con l'archibuserìa, traendo furiosamente contro i lavoratori dalla strada coperta. Ciò non ostante condussero a perfezione la seconda; nè mettendo tempo in mezzo, e dell'oscurità della notte giovandosi, vi alzarono di molte batterìe. In questi bersagli si portarono egregiamente, e fecero maravigliosi progressi contro la piazza i cannonieri Piemontesi tornati ai servigi del re. Nè furono senza effetto le armi Francesi, perchè molti buoni soldati dei confederati restarono uccisi, o feriti. Morì un nipote del marchese di Castler, fu ferito gravissimamente il marchese medesimo con grande rammarico di Suwarow, che conosceva, quanto quel guerriero valesse. Era intendimento degl'imperiali, compita questa seconda circonvallazione, di far pruova di cacciar i repubblicani dalla strada coperta. In fatti tanto fecero coi cannoni, che spazzavano i bastioni, e con le bombe e con le granate, che rendevano pericoloso e mortale lo starvi, che i soldati di Francia l'abbandonarono, ritirandosi del tutto nel corpo della piazza. Sottentrarono gl'imperiali, vi fecero un alloggiamento stabile: poi con le zappe continuamente travagliandosi, assieparono gli angoli sporgenti della medesima strada coperta, e si condussero fin sotto ai bastioni. Sorgevano i segni della vicina dedizione. Già erano alzate le batterìe per battere in breccia, già le scale pronte, già le artiglierìe della piazza più non rispondevano. Di tanti, quattro cannoni soli si mantenevano in grado di trarre; le armi missili, oggimai consumate tutte, mancavano; un assalto al nascente giorno si preparava, una presa di soldati fortissimi trascelti a questo mortale ufficio già stavano pronti ad eseguirlo: le ruine stesse delle mura facilitavano la salita. Il resistere più lungo tempo sarebbe stato per Gardanne, non che temerità verso la fortuna, crudeltà verso i soldati; però, inclinando l'animo alla concordia, chiese, ed ottenne patti molto onorevoli il dì ventuno luglio. Uscisse il presidio con tutti i segni d'onore, che danno i vincitori ai vinti; si conducesse negli stati ereditarj, vi stesse fino agli scambi, avesse Gardanne facoltà di tornarsene in Francia sotto fede di non militare contro i confederati sino allo scambio. Fu assai bravo il contrasto fatto da questo generale di Francia; ciò nondimeno fu accusato dell'essersi arreso, prima che la breccia fosse aperta. Ma l'accusa non ebbe effetto, perchè vennero poco dopo tante dedizioni, che fu manifesto, che la forza insuperabile, non la codardia, od il tradimento avevano operato. Restarono uccisi di Francesi seicento, di Cisalpini ducento. Fuvvi anche molto sangue fra i confederati, perchè mancarono fra di loro in ugual numero i soldati. Trovarono i vincitori nella fortezza conquistata settemila fucili, più di cento cannoni, la maggior parte da risarcirsi, dieci mortai, polvere in abbondanza, e munizioni da bocca proporzionatamente. Fu celebrata la conquista di Alessandria con ogni maniera di pubblica dimostrazione. Poi, per metter terrore, e per isfogar l'odio, carcerarono i giacobini, come gli chiamavano; il che contaminò l'allegrezza, perchè molti fra di loro appartenevano alle famiglie principali del paese. Ma Suwarow voleva quel che voleva, ed anche il consiglio supremo il secondava volentieri. Non si era ancora acquetata l'allegrezza concetta per la conquista d'Alessandria dai collegati, e dai loro partigiani in Italia, che ebbero occasione d'un'altra maggiore prosperità per l'espugnazione di Mantova. Aveva Buonaparte due anni innanzi conquistato questa fortezza piuttosto col consumarla per carestìa di viveri che con lo sforzarla per oppugnazione. La domò Kray piuttosto per forza, che per assedio: perciocchè s'arresero i repubblicani alle armi imperiali, quando ancora avevano nelle conserve loro di che cibarsi ancora per lungo tempo; ma le mura sfasciate, ed il cinto della piazza rotto gli costrinsero in breve tempo a quella risoluzione, cui il fare ed il non fare, tanto importava a loro, ed agli alleati. Si era Kray, già fin quando Suwarow era arrivato al supremo governo dell'esercito, messo intorno a Mantova, ma non si era fatto molto avanti con le trincee, e perchè non aveva forze sufficienti a circuire, ed a sforzare una piazza di tanta vastità, e difesa da una guernigione di diecimila soldati. Per la qual cosa aveva solamente applicato il pensiero al tenere impediti i luoghi, acciocchè nissuno ajuto di genti, o di vettovaglia vi si potesse introdurre; aveva anche fatto opera, posciachè Peschiera e Ferrara erano state soggiogate dalle armi dei confederati, che le barche imperiali, che avevano acquistato il dominio del lago di Garda, per le acque del Mincio calandosi, e così pure un'armata di navi sottili ascendendo pel Po, venissero fare spalla all'esercito terrestre, che stringeva la piazza. Infatti l'essere padrone di Peschiera e di Ferrara, che sono a destra ed a sinistra a guisa di opere esteriori di Mantova, dà maggior facilità a chi è al tempo stesso signore della campagna, di acquistare per fame o per forza quel baluardo principale d'Italia. Ma quando dopo le rotte di Macdonald, Suwarow fatto più sicuro ebbe mandato novelle genti all'assedio, per forma che l'esercito di Kray ascendeva, se non passava, il novero di quarantamila soldati, il generale Tedesco, nel quale non si poteva desiderare nè maggior animo, nè miglior arte, si accinse a voler fare quello, che fino allora aveva solamente accennato. Per facilitargli vieppiù l'impresa, gli mandava Suwarow alcuni pezzi d'artiglierìe ben grosse, trovate nelle armerìe di Torino. Con questo accostamento si trovò Kray in grado di fulminare la piazza con più di seicento bocche da fuoco. Alloggiava il più grosso nervo dell'esercito assediatore, la più parte Austriaco, per modo che incominciando sulla sinistra alla Certosa, e girando col mezzo alla Madonna, andava con la sinistra a terminarsi a Capilupo. Un altro corpo di genti Austriache si era posto a rincontro di San Giorgio. Eransi i Russi accampati oltre il canale di Sant'Antonio a destra, ed a sinistra della strada che va a Verona: carico loro era di battere la cittadella. Ma i corpi che avevano preso il campo e contro San Giorgio, e contro la cittadella, non avevano l'ufficio di farsi via per forza, o per rotture di mura nelle due fortezze: solo disegnavano d'impedire la campagna al nemico, e battendo con le artiglierìe dargli diversi riguardi, perchè meno fosse forte a difendersi in quella parte, che principalmente Kray aveva fatto pensiero di assaltare, e dove intendeva di far la breccia per aprirsi l'adito dentro la piazza, se il nemico ostinato oltre il dovere resistesse. Nè stette lungo tempo in dubbio circa la elezione, perchè la parte di porta Pradella gli si appresentò tostamente come la più debole, sì per esser dominata dall'eminenza di Belfiore, sì per non avere altra difesa esteriore, che un'opera a corno, nè altra difesa di fianco, che il bastione di Sant'Alessio molto lontano, una mezza luna a sinistra, ed il bastione di Luterana a destra, sì per essere tutte queste difese molto anguste, e perciò incapaci di molte artiglierìe, e di spandere i tiri alla larga, anzi capaci all'incontro di essere molestate con fitto bersaglio dal nemico, e sì finalmente per essere in questa parte il terreno manco paludoso, e però più atto a ricevere gli approcci. Ma a volere che gli approcci si potessero fare più facilmente, si rendeva necessario per gli oppugnatori l'impadronirsi del torrione, e del molino di Ceresa. A questo fine tirando furiosamente contro i detti luoghi, sforzarono i difensori a ritirarsene; poi fattovi impeto con una mano di soldati animosi, vi entrarono, e vi si alloggiarono. Quindi senza starsene ad indugiare, alzarono le serrature del Paiolo; il che fu cagione, che le acque del canale di questo nome, trovando uno scolo più facile, si abbassarono nelle parti superiori, e fu fatto abilità a Kray di spingersi avanti con le trincee contro la piazza. Spesseggiavano i Russi coi tiri contro la cittadella, gli Austriaci contro San Giorgio. Ma la principale tempesta veniva da Osteria alta, dai siti vicini alla strada per a Montanara, da Belfiore, da casa Rossa, da Paiolo, da Valle, e da Spanavera; quivi il generalissimo d'Austria aveva piantato le sue più grosse e più numerose artiglierìe, per battere o per diritto o per fianco l'opera a corno di porta Pradella, i bastioni della porta medesima, il bastione di Sant'Alessio, con le fortificazioni dell'isola del T, e del Migliaretto. Mentre con tanto fracasso, e con sì viva tempesta fulminava Kray la parte più debole della piazza, tempesta, alla quale gagliardamente anche rispondevano gli assediati, intendeva ad approssimarsi con le trincee dell'opera a corno di porta Pradella. Un numero grande di guastatori, di zappatori, e di palauoli ordinati a venire dalle campagne insistevano a scavare, e ad ammontar terra. In breve tempo compirono, quantunque gli assediati facessero ogni sforzo per isturbargli con le artiglierìe, giacchè con le sortite a cagione della forza prepotente degli assediatori non potevano, la prima circondazione o come ora dicono, parallella, che si distendeva dalla strada per a Bozzolo insino a fronte del bastione di Sant'Alessio; poi con gli approcci o con le traverse avvicinandosi, piantarono sei batterìe, delle quali la prima batteva il bastione di Luterana a canto la porta Pradella, le tre seguenti bersagliavano l'opera a corno, e la mezza luna della medesima porta, la quinta la cortina tra la porta medesima ed il bastione di Sant'Alessio, la sesta finalmente questo bastione. Già i confederati erano arrivati a compire la seconda parallella, e da questa con maggior furore scagliavano nella piazza il giorno palle, la notte bombe: era infinito il terrore della città. Per tale furioso nembo furono scavalcate quasi tutte le artiglierìe dei difensori: l'opera a corno, e le fortificazioni di porta Pradella lacere e quasi intieramente distrutte offerivano agli oppugnatori mezzo poco pericoloso di attaccare la piazza, e di entrarvi. Al tempo stesso un altro corpo di Austriaci assaltava il vico di Paiolo sito a rincontro di porta Ceresa, e dopo un ostinato combattimento se ne insignoriva. Il generale Austriaco Esnitz, che reggeva la schiera oppugnatrice di San Giorgio tempestò con sì gran romore in sembianza di volerne venire ad un assalto che i repubblicani pressati da tante altre parti, si deliberarono di abbandonare, lasciandola in potere degli Austriaci, questa parte delle fortificazioni di Mantova, che è divisa dal corpo della piazza per le acque del lago di mezzo, e dell'inferiore. Tutti questi assalti e questi vantaggi diedero abilità al corpo principale dell'avvicinarsi del tutto all'opera a corno, dove sull'orlo stesso dello spalto degli Austriaci scavarono, ed alzarono la loro terza circondazione. Col nemico tanto vicino, con tutte le difese demolite o fracassate, non potevano più sperare i Francesi di conservare in possessione loro l'opera a corno, solo antemurale della porta Pradella, ancorchè il presidio dell'abbandonato San Giorgio fosse venuto a rinforzare i battaglioni che la difendevano. Pensarono adunque al ritirarsi, il che effettuarono non senza aver prima chiodato i cannoni, che non poterono trasportare. Accortisi gl'imperiali dell'accidente, entrarono, vi si alloggiarono, e voltando dal bastione acquistato come da luogo più vicino, l'artiglierìe contro la porta Pradella, se alcuna cosa ancora vi era rimasta intiera, questa disfecero e rovinarono: già battevano in breccia. La tempesta continuava da ogni lato: più di diecimila o palle, o bombe si lanciavano ogni giorno contro la straziata Mantova; non si era mai per lo innanzi veduta una oppugnazione tanto vigorosa, e tanto violenta. Già porta Pradella era distrutta, le case vicine, o diroccavano, o ardevano: sorgevano incendi pericolosi in varie parti; le fiamme consumavano i magazzini a San Giovanni; straziato era il bastione di Sant'Alessio, le sue batterie smontate; medesimamente le batterie del T coi carretti rotti giacevano inutili al suolo, il Migliaretto sconcio e fracassato non faceva più difesa; ogni governo di artiglierìe era divenuto impossibile nella fronte della piazza opposta agli Austriaci, o perchè erano scavalcate, o perchè ne erano morti o fugati i cannonieri: niun parapetto intiero, niun muro non rovinato; i lavoratori di dentro ricusavano in quell'estremo pericolo, ed in mezzo a sì spaventevole fracasso l'opera loro; la piazza sfasciata, ed aperta da questo lato non aveva più nè difesa d'armi d'artiglierìa, nè difesa di ripari, nè modo di risarcirgli. Era la guernigione inabile al resistere con le armi, con cui si combatte da vicino, perchè assottigliata dalle stragi, indebolita dalle malattie, consunta dalle fatiche, ridotta a poco più di quattro mila abili alla battaglia, non era più a gran pezza pari a tanta bisogna. Tuttavia non pensava ancora a chiedere i patti, e perseverava nella difesa, quando di tanto strazio increbbe a Kray. Mandava dentro il colonnello Orlandini, offerendo patti d'accordo onorevoli, e certificando a Latour-Foissac, comandante della piazza, la sconfitta delle genti Francesi sulla Trebbia, e l'essersi Moreau del tutto ritirato per ultimo ricovero oltre i gioghi dell'Apennino. Adunò Latour-Foissac una dieta militare: tutti convennero in questo, discrepando solamente un uffiziale Bouthon, comandante dell'artiglierìe, che fosse necessità pel presidio di dare la piazza. Fu fermato l'accordo addì ventotto di luglio, i capitoli di maggior momento furono i seguenti: onoratissimamente ad uso di guerra uscisse la guernigione, avessero i gregari facoltà di tornarsene in Francia sotto fede sino agli scambi, il comandante e gli uffiziali, soggiornato tre mesi negli stati ereditarj, avessero facoltà di tornare nei paesi loro, i Cisalpini, Svizzeri, Piemontesi e Polacchi avessero come Francesi a stimarsi, e come tali fossero trattati; avessero i Tedeschi cura degli ammalati e dei feriti, dessersi tre carri coperti al generale, due agli uffiziali, perdonerebbesi la vita ai disertori Austriaci. Entrarono i confederati il dì ventinove nella lacerata Mantova, e per questa espugnazione fu dimostrato al mondo, che per viva forza ella si può espugnare in pochi giorni. Trovarono più di seicento bocche da fuoco, altre armi in abbondanza, magazzini ancor pieni di vettovaglia. Fecero i Mantovani molte feste per l'arrivo dei Tedeschi, come ne avevano fatte per l'arrivo dei Francesi. Di questi, chi si poteva reggere, sebbene si trovasse in estrema debolezza o per ferite, o per malattìa, accorreva, o da se o fattosi portare, ai compagni che se ne andavano, amando meglio perire in mezzo al nome di Francia, che andar salvo in mezzo ai Russi ed ai Tedeschi. Pure rimasero nella fortezza dodici centinaja di soldati malati, e due migliaja circa perirono o al tempo dell'assedio largo per malattìe, o al tempo dell'assedio stretto per ferite. I morti ed i feriti dalla parte dei confederati non arrivarono ai cinquecento. Fu accusato Latour-Foissac di poco animo, e di debole difesa da alcuni, da altri di esser aristocrata, di non amare la repubblica, di aver tenuta continuamente informata con lettere la contessa di Artesia di ogni cosa. Altri finalmente dissero anche parole peggiori, affermando che si fosse lasciato corrompere per un milione, e ottocentomila franchi dati, o promessi da Kray. Chi conosce lo stato, a cui era ridotta porta Pradella, crederà facilmente che il generale dell'Austria non aveva bisogno di dar denaro per entrare nella piazza, e che il generale di Francia non aveva bisogno di accettarlo per lasciarlo entrare. Accusollo il direttorio, accusollo Buonaparte messosi al luogo del direttorio; ma il mondo sincero e giusto, nè mosso dalla superbia, che si compiace dell'avvilimento altrui, ha giudicato, che Latour-Foissac abbia compito nella difesa di Mantova, senza sospetto di macula alcuna, tutti gli uffizj che si appartenevano a buono e leale capitano, e che l'arrendersi in quel punto fu per lui necessità, non viltà, nè cupidigia di denaro. Successe tosto alla dedizione di Mantova quella di Serravalle. È Serravalle piccola fortezza di dizione Piemontese, posta sulla Scrivia, dove le falde degli Apennini incominciano a sollevarsi in quegli alti gioghi, che a grado a grado viemaggiormente innalzandosi, arrivano al sommo vertice della Bocchetta. Era questa fortezza venuta, prima, come abbiam narrato, in potere dei repubblicani Piemontesi, che facevano guerra al re, poi introdotto un presidio Francese, cesse intieramente in podestà della repubblica. Importava a Suwarow pe' suoi disegni contro Genova che s'impadronisse di lei, poi di Gavi, che posto in più alto sito, e sopra scoscesa rupe, è propugnacolo alla capitale della Liguria. Adunque contro la fortezza di Serravalle mandava Suwarow le sue genti, dando carico a Schwaicuschi di tenere il nemico a bada, a Dalheim di passare la Scrivia presso Cassano Spinola, a Mitruschi di accamparsi tra Novi e Gavi per mozzar le strade agli assediati. Aprironsi le trincee, piantaronsi le batterie, furono fracassate, e ridotte inutili le artiglierìe della piazza: il comandante richiesto di resa, negava: ricominciossi la batteria; fracassato il muro, restava la breccia aperta. Si arrendeva a discrezione il dì sette agosto. Trovarono i vincitori nella fortezza dieci cannoni, un mortajo, con qualche provvisione sì da bocca, che da guerra. Le rotte d'Italia, e la presa di tante fortezze, massimamente quella di Mantova, intorno alla quale si era affaticato Buonaparte quattro mesi, avevano maravigliosamente sollevato gli animi in Francia, nè potevano restar capaci, siccome quelli, che ancora avevano la memoria fresca di tante vittorie, del come soldati, sì sovente ed in tanti segnalati fatti superati dai repubblicani, fossero adesso, e tutto ad un tratto divenuti sì forti, che avessero a venir a buon fine di qualunque fazione, che tentassero contro Francia. Chi accusava l'oro corrompitore, chi i tradimenti per opinione. Fuvvi ancora chi disse solennemente orando in tribuna, che palle di legno ricoperte artifiziosamente di laminette di piombo fossero state date ai soldati repubblicani nelle battaglie. Si accusava Scherer, si accusava Latour-Foissac, si accusava Fiorella, si accusava Becaud, comandante che era stato del castello di Milano: nè trovava animi meglio inclinati verso di lui il valoroso Gardanne. Se non si dava carico di tradimento a Moreau per corruzione di denaro, che in questo fu stimato sempre, ed era veramente di natura integerrima, gli si dava quello di repubblicano tiepido, e dell'amministrare la guerra non con quella vigorìa, che era richiesta alla repubblica. Gli ambiziosi, pretessendo alle parole loro l'amore di libertà, accagionavano il direttorio delle calamità presenti, e facevano ogni opera per espugnarlo, conciossiachè i più fra coloro che gridavano libertà, non altro modo in Europa sapevano tenere per fondarla, che questo di disfare i governi per mettersi nei luoghi loro, ambizione pessima, che corrompe il buono, e fa venir ai governi certe voglie, che forse non avrebbero, ed a cui pure sono di per se stessi pur troppo inclinati. Insomma tanto si travagliarono con le parole e con gli scritti, e col subornare e col subillare, che tre quinqueviri furono cambiati, surrogati nei seggi loro tre altri, che erano stimati repubblicani di più forte e più sincero conio. Stettero contenti i zelatori alcuni giorni, forse un mese; poi rincominciarono a gridare contro i surrogati più fortemente di prima, dicendo, che non valevano meglio degli scambiati. Tanto era impossibile il fondare un governo libero con quei cervelli pazzamente ambiziosi! In questi schiamazzi e vociferazioni tanto s'infuocarono, che produssero poco dopo, come si dirà, una nuova mutazione; ma a questa volta posero in seggio chi gli fece poi tacer tutti. Intanto su quei primi calori dei tre nuovi quinqueviri sorsero nuove speranze, parendo, che un pensare più vivo in materia di repubblica avesse anche a dare armi più forti. Siccome poi niuna nazione è tanto capace di fornire imprese straordinarie, quanto la Francese, quando è usata in su questi rigogli, così i nuovi reggimenti si deliberarono di non mettere tempo in mezzo per dimostrare al mondo, quanto potesse quella Francia, quando ella si scuoteva, e quale urto fosse il suo, quando l'animo vivo fosse secondato da un governo vivo. Applicarono adunque l'animo a riscaldare l'affezione della repubblica, l'amore del nome Francese, la ricordanza dei gloriosi fatti. Per tal modo diveniva ogni giorno più la materia ben disposta; delle quali favorevoli inclinazioni valendosi, mandavano alle frontiere in Svizzera, in Savoja, nel Delfinato, nelle Alpi Marittime, nella Liguria quante genti regolari potevano risparmiare dei presidj interni. Poi per procurar nuove radici alle genti veterane, ordinavano nuove leve in ogni parte. I soldati nuovi marciavano volentieri, perchè le sconfitte recenti e le vittorie passate con la necessità di mantener illibato il nome Francese con accesi colori si rappresentavano dalle gazzette, dagli oratori, dai magistrati: poi la barbarie dei Russi, la nimistà degli Austriaci, le bellezze d'Italia maestrevolmente anche si dipingevano. Questi tentativi su quegli uomini pronti ed animosi efficacemente operavano, e già Francia si muoveva con animo confidente contro la lega Europea; moto certamente onorevole dopo tante disgrazie. Pensiero era, non certo di menti avvilite, di assaltare al tempo stesso e Svizzera e Piemonte, e Italia. A tanta mole erano richiesti capitani valorosi e di gran fama. Già nella Svizzera Massena animosissimamente combatteva, spesso con evento pari, talvolta con prospero, contro l'arciduca Carlo. Restava, che agli eserciti, che dovevano far impeto contro il Piemonte e contro l'Italia, venissero preposti generali di nome, accetti ai soldati, accetti agl'Italiani. Nè in questo stette lungo tempo in dubbio il direttorio; perchè, trattone Buonaparte tanto lontano, in nissuno tutte queste condizioni maggiormente si lodavano, che in Championnet e Joubert. Entrambi conoscevano l'Italia, entrambi nell'Italiane guerre si erano mescolati, entrambi di vita continente, e nemici dei depredatori, cosa di grande importanza per voltare a se gli animi degl'Italiani; entrambi finalmente repubblicani sinceri, ed amici per indole e per massima dell'independenza altrui. Avevano anche voce l'uno e l'altro di amare il nome Italiano, perchè nè Joubert aveva voluto dar le mani ai disegni di Trouvè e di Rivaud contro il governo Cisalpino, nè Championnet tollerare l'imperio insolente e rapace dei commissarj a Napoli. La loro principale speranza avevano i repubblicani Italiani collocata in Joubert, perchè sapevano che suo intento era o volesse il governo Francese, o no, di ridurre l'Italia in una sola repubblica unita e independente, purchè fosse strettamente congiunta d'amicizia con la Francia. Conoscevano l'animo di lui ardito e forte, nè mai tanta inclinazione d'animi benevoli, ed attenti alle cose avvenire vi fu verso alcuno reggitore di popoli o d'eserciti, quanta fu questa degl'Italiani verso Joubert. Nè ignoravano, ch'egli era d'animo civile e temperato, nè temevano che quando avesse corso vittorioso l'Italia, fosse per sottometterla al giogo soldatescamente; perciocchè non era loro ignoto, che esortato da partigiani di diversa sorte in Francia, perchè, disfatto il governo, s'impadronisse della somma delle cose, aveva sdegnosamente rifiutato la proposta. Quelli fra i repubblicani d'Italia, che cacciati dalla patria avevano cercato riparo in Francia, molto insistevano e con le parole, e con gli scritti, e con le opere in questo proposito dell'independenza, e dell'unità Italiana, persuadendosi, che con questo nome in fronte avessero i Francesi, e chi sentiva con loro, e far correre i popoli in loro favore. Joubert secondava questi sforzi con volontà sincera. Gli secondava altresì, ma solo con qualche dimostrazione esteriore, e non coll'animo il direttorio desideroso di riacquistare il dominio d'Italia, e confidando che questo generoso ed alto proposito fosse per essere mezzo potente all'esecuzione. Due, come abbiamo scritto, erano gli eserciti, che il direttorio aveva intenzione di mandare contro gli alleati in Italia; il primo governato da Championnet, aveva carico di minacciar il Piemonte superiore, e preservare le fortezze di Cuneo e di Fenestrelle: il secondo più grosso doveva accennare, per le strade massimamente del Cairo e della Bocchetta, verso il Piemonte inferiore, con intento di liberar Tortona dall'assedio, e di combattere su quel fianco gli alleati, donde poteva, se la fortuna si mostrasse favorevole, facilmente aprirsi il cammino sino a Milano; il quale fatto per la sua grandezza avrebbe partorito ammirazione degli uomini, e terrore nuovo delle armi di Francia. Era desiderabile, che questi due eserciti in uno e medesimo tempo calassero verso i luoghi, a cui erano per volgersi; ma Championnet non aveva ancor messo insieme tante genti, che fossero abbastanza a così grave bisogno, e quelle che aveva raccolto, la maggior parte soldati nuovi essendo, ignoravano l'arte ed il romore della guerra. Perlochè non poteva sperare di essere in grado di dar principio così presto, come sarebbe stato necessario, alle armi. Da un'altra parte Joubert aveva l'esercito pronto e capace di combattere: erano in lui i forti veterani di Moreau e di Macdonald, con altri reggimenti usi alla guerra della Vendea, stati trasportati dalla flotta di Brest nel Mediterraneo. Arrivava questo esercito a quaranta mila soldati, agguerriti uomini, ed infiammatissimi nel voler vincere. Nè mancavano i sussidj necessari, perchè abbondavano di artiglierìe e di munizioni; solo si sarebbe desiderato un maggior nervo di cavallerìa. Si temeva che Tortona, che dopo la perdita di Alessandria era il solo forte, che potesse facilitar la strada ai repubblicani per Milano, non venisse in poter dei confederati, che con forti assalti la straziavano. Per la qual cosa, sebbene Championnet non potesse ancora concorrere alla fazione, Joubert si era deliberato a mostrarsi alle falde degli Apennini verso Tortona per combattere in battaglia campale il nemico, e se ciò non gli venisse fatto, sperava almeno, che la fortuna gli aprirebbe qualche occasione per soccorrere Tortona. Già era arrivato al campo. Trovatosi con Moreau, che se ne doveva partire per andar al governo della guerra del Reno: «Generale, gli disse, io vengo generalissimo di questo esercito, ed ecco, che il primo uso ch'io voglio fare della mia autorità, quest'è di comandarvi, che restiate con noi, e che governiate le genti, come supremo duce, voi medesimo: ciò mi fia caro oltre modo. Sarommi il primo ad obbedirvi, e ad adoprarmi qual vostro primo ajutante». Tant'era la venerazione, che il giovane generale aveva per l'anziano, e tanta la temperanza del suo animo! Ciò fu cagione che Moreau restasse, ed ajutasse col suo consiglio il compagno negli accidenti sì ponderosi che si preparavano. Le genti venute da Napoli con Macdonald, e l'antico esercito di Moreau si calavano la maggior parte per la Bocchetta: le venute frescamente da Francia s'incamminavano per Dego e Spigno verso Acqui. Bellegarde fece qualche resistenza per quelle erte rupi; ma si ritirò, prima dai più alti luoghi per forza, poi dai più bassi per ordine di Suwarow, che prevalendo di cavallerìa, voleva aspettare i repubblicani al piano. Entrarono questi in Acqui; il mandarono a sacco per vendetta di compagni uccisi dai sollevati, quando Victor si ritirava ai monti Liguri. Non si era allora curato il capitano di Francia di vendicare i suoi, essendo obbligato a camminare velocemente: il che vedutosi dai villani sollevati fatti signori di Acqui, l'avevano attribuito a miracolo di San Guido protettore della città, comparso, come dicevano, sulle mura per dar terrore ai Francesi. Ne fece il vescovo della Torre, volendo ricoprire le sue parzialità precedenti pei repubblicani, o vere o finte che si fossero, raccorre le testimonianze; funne anche rogato l'atto solenne. Così restò, che San Guido fosse comparso; e chi sel credeva, ne parlava; e chi non sel credeva, ne parlava anche di più. Quando l'ala sinistra dei Francesi, di cui abbiam favellato, e che era governata dal generale Perignon, col quale militavano Grouchy, Lemoine, e Colli, fu arrivata a lato e sulla fronte della mezzana e della destra, ordinava Joubert il suo esercito, ed il disponeva agli ulteriori disegni. La mezza obbediva a Joubert; la destra era commessa al valore del generale San Cyr, che aveva con se Vatrin, Laboissière, e Dambrowski. Quest'ultima scesa dalla Bocchetta arrivava per Voltaggio e Gavi sino a Novi, donde cacciava gli Austriaci. Faceva intanto una fazione contro Serravalle per mezzo del generale Polacco, il quale occupò la città, ma non potè entrar nel forte. La mezza alloggiava sulla strada che da Genova porta ad Alessandria per Ovada nella valle d'Orba, spingendosi oltre insino a Capriata. La sinistra aveva le sue stanze verso Basaluzzo. Così l'oste di Francia, nella quale si noveravano circa quarantamila soldati, si distendeva dalla Bormida fin'oltre alla Scrivia, signoreggiando le tre valli della Bormida, dell'Erro e dell'Orba, del Lemmo e della Scrivia. Desiderava Joubert, premendogli di soccorrere Tortona, di fare un motivo sopra questa piazza; mandava a questo fine soldati corridori per Cassano Spinola sulla destra della Scrivia. Intanto non contento alla fortezza naturale di quei luoghi erti, e montuosi, con trincee, con fossi, e con batterìe di cannoni piantate nei siti più acconci alle difese, gli affortificava. Per tal modo i Francesi sovrastavano minacciosi dai monti alla sottoposta pianura. Aveva dalla parte sua Suwarow ordinato le genti per forma che l'ala sua dritta, composta massimamente di quei Tedeschi, che Kray aveva condotto dal campo di Mantova dopo la resa della piazza, e da lui medesimo governata, si distendeva nei campi vicini a Fresonara; la mezza, a cui soprantendeva il generalissimo col generale Derfelden, e quasi tutta consisteva in soldati Russi, alloggiava in Pozzuolo all'incontro di Novi. Finalmente la sinistra, in cui era il nervo dei granatieri Austriaci, e si trovava retta da Melas, stanziava a Rivalta, col fine di fare che i repubblicani non gli potessero impedire la recuperazione di Tortona, e di combattere d'accordo coi compagni, se d'uopo ne fosse: erano nel novero di circa sessantamila soldati. Apparivano l'uno all'altro molto vicini i due eserciti nemici, nè la battaglia poteva differirsi. Ardeva Joubert di desiderio di venir tosto alle mani, sì per ardimento proprio, sì per comandamento del direttorio, che voleva, che non si stesse ad indugiare per far inclinar del tutto le sorti dall'un de' lati in quell'aspra guerra. Ma essendo cosa di grandissimo momento per Francia, si deliberò a consultare sopra la materia in una dieta militare convocata a posta: quivi pullulò una grande varietà di opinioni. Opinava Joubert, e con lui i più audaci de' suoi capitani, che si desse dentro subitamente. Allegavano gli ordini risoluti del direttorio per rinstaurar l'onore delle armi Francesi in Italia con un campale conflitto; essere quello il momento propizio di affrontar il nemico stanco dai freschi e lunghi viaggi, attonito al veder comparire di nuovo sul campo più forti di prima quei repubblicani, ch'ei credeva sbigottiti ed oppressi; doversi usare l'ardor Francese, quando più bolle; doversi temere la tiepidezza successiva; valere i Francesi nelle difese, ma ancor più valere negli assalti; mirassero quei volti, toccassero quelle destre, vedrebbero, toccherebbero segni di certa vittoria; per questo, e non per aspettare qual momento piacesse al nemico di combattere, essere venuti dalle lontane Calabrie, essere venuti dalla lontana Brettagna; l'aspetto che a fronte loro si scopriva delle Italiane campagne, rammentare tante vittorie col ferro, non coll'ozio acquistate; convenirsi il temporeggiare a quei freddi Russi, a quei pesanti Tedeschi, non ai vivi ed ardimentosi Francesi; sapere, prevaler di numero i confederati, ma quante volte avere i soldati della repubblica vinto eserciti più numerosi? Sapere, prevaler ancora di cavallerìa, e per questo avere qualche vantaggio nei luoghi agili e piani; ma le legioni della repubblica non avere mai temuto l'incontro delle cavallerìe; avere tante volte sostenuto, fiaccato, rotto l'impeto loro; non con le cavallerìe, ma con le fanterìe vincersi le moderne guerre; più poter le bajonette, che un nitrito vano, e colpi incerti: menassersi adunque incontanente i repubblicani alla battaglia, e tosto si vedrebbe, che se la fortuna ajuta gli audaci, in questo fatto massimamente gli ajuterebbe: subita pugna, concludevano, e l'Italia in premio. Dall'opposta parte i più prudenti, che dannavano l'esporsi nella campagna aperta, argomentavano, farsi le guerre col valore, ma farsi ancora con l'arte; stolto consiglio essere il lasciare i consigli certi per abbracciare gl'incerti; essere il vincer certo, se in quei luoghi tanto forti, e quasi inaccessibili per natura, tanto fortificati per arte, il nemico si aspettasse; divenire il vincer dubbio, se nel piano si scendesse, dove un solo errore, dove uno spavento improvviso sarebbe, in tanta superiorità di forze nemiche, fatale all'esercito; conoscere il valor Francese, ma non doversi lui porre a sperimenti temerarj; essere stanche alcune squadre degli alleati, ma le altre fresche, e veterane tutte; combattere gli alleati con tutte le forze loro, perchè era arrivato Bellegarde colle genti vincitrici d'Alessandria, era arrivato Kray colle genti vincitrici di Mantova; non combattere i Francesi con tutte, perchè Championnet non era ancora giunto al luogo suo, ed ancora si aspettava. E quale temerità, quale stoltizia essere il combattere dimezzato, quando temporeggiando si può combattere intiero? Chi s'ardirà addossarsi un tanto carico? A chi non rifuggirà l'animo al pensare, che se l'esercito oggi è vinto, avrebbe potuto vincere domani? Volere il direttorio, che non s'indugiasse la battaglia, ma non avere comandato, che in questo preciso giorno si combattesse; nè essere da credere che meglio amasse, che l'esercito fosse vinto che vincitore: sempre vincere a tempo chi vince; qualche cosa ancora lasciare lui pure alla prudenza dei capitani, qualche cosa alle occasioni, qualche cosa alla necessità: se forti erano le fanterìe Francesi, non esser deboli le cavallerìe dei confederati, e quanto possano le cavallerìe nei luoghi sfogati e piani, nissuno essere che l'ignori: dovere chi vuol arrivare al fine de' suoi intenti con probabilità di evento, misurar le cose umane secondo l'ordinario, non essendo le geste eroiche, perchè queste geste qualche volta sorgono, e qualche volta no; e se qualche volta i fanti della repubblica avevano superato i cavalli dei re, qualche volta ancora esserne stati rotti: considerazione di capitani prudenti essere anche quella di pensare, prima d'ingaggiar battaglia, alle ritirate; or quale via di ritirata poter rimanere aperta ai soldati della repubblica, se al piano scendendo, quivi fossero sbaragliati e rotti? Non gli conquiderebbero, non gli pesterebbero, non fuori gli taglierebbero le imperiali cavallerìe? Con Serravalle in poter del nemico, con la riviera di Levante piena di soldati Austriaci, con la riviera di Ponente stretta da sentieri difficili, coi popoli nemici e tumultuanti, quale sicurezza, quale speranza di riuscire a salvamento? La disfazione totale dell'esercito seguiterebbe una temerità fatale: non rifiutarsi l'occasione di combattere, non abborrirsi dal romor dei cannoni, non temersi di guardar in viso il nemico, ma doversi rispondere alla patria con la ragione, non con l'imprudenza. Questi monti scoscesi, dicevano, a cui ci siamo riparati, questi fossi, con cui ci siam cinti, queste trincee, con cui ci siamo coperti, non poter essere indarno: a questo modo non doversi tentare la volubile e capricciosa fortuna. Con questi ragionamenti concludevano coloro, che questa sentenza mantenevano, che miglior partito era l'aspettar il nemico nei proprj alloggiamenti, che l'andarlo ad assaltare ne' suoi; ma che se tanto fosse temerario, che si attentasse di chiamare a cimento Francia, quando al valore dei soldati aveva congiunto la fortezza dei luoghi, allora con tutte le forze, e con tutto l'animo si combatterebbe, allora si mostrerebbe, che il non essere scesi i Francesi alla campagna dinotava non timore, ma arte; allora si vedrebbe quanto imprudentemente discorresse chi preponesse i soldati d'Austria e di Russia ai soldati di Francia. Prevalse nel consiglio questa sentenza: raffrenava Joubert i suoi spiriti, e si riduceva, quantunque mal volentieri, a questa deliberazione di aspettare, che il nemico venisse a tentarlo negli apprestati alloggiamenti. Variavano anche molto gli animi fra gli alleati intorno a quello, che loro convenisse di fare. I generali Austriaci, non soliti a commettersi all'arbitrio della fortuna, dissuadevano la battaglia. Consideravano, quanto fossero forti gli alloggiamenti dei Francesi; consiglio da non lodarsi essere, opinavano, il privarsi col combattere in quei gioghi montuosi, del vantaggio delle cavallerìe; doppia necessità sovrastare ai Francesi di venire prestamente ad una battaglia nel piano, la prima perchè loro importava di soccorrere Tortona già prossima a cadere, la seconda, perchè essendo i mari chiusi, la Liguria sterile, le pianure Piemontesi a divozione degli alleati, sarebbero loro fra breve mancate le vettovaglie: doversi usare il benefizio della fortuna dello aver un esercito più numeroso, e meglio provveduto di cavallerìe, non si dovere pareggiare le partite con fare, che la fortezza del luogo compensasse in favore dei Francesi il maggior nervo dell'esercito imperiale: non essere quel della guerra mestier tanto sicuro, anche con maggiori forze, che si dovesse rinunziar ai vantaggi offerti dalla condizion delle cose; stanche, e consumate essere le genti imperiali dal tanto e fresco marciare: non si dover temere di Championnet così presto, perchè l'esercito Francese dell'Alpi si trovava tuttavia debole e disordinato, i soldati nuovi condursi timidamente a lui, e solo legati a guisa di malfattori con corde: andarvi in quella pugna tutto l'imperio dell'imperatore Francesco in Italia pure testè e con tanta difficoltà ricuperato; un tale esperimento non doversi tentare con vantaggi dimezzati e tronchi, ma sì con tutti quelli che il tempo offeriva: non giuocarsi alla ventura gl'imperj: non rinunziare i capitani savi ad imprese certe per correr dietro ad imprese incerte; volentieri cimentare gli Austriaci la fortuna, e ristringersi nei pericoli, quando la necessità incalza, e rende ogni altro partito impossibile; di ciò averne dato grandi e manifeste pruove nelle precedenti battaglie; ma quando la necessità non corre, abborrir loro dai consigli pericolosi e dubbi. Infatti temevano di quell'audacia venturiera di Suwarow, e consideravano, che poca somma giuocavano i Russi lontani a comparazion di quella, che giuocavano gli Austriaci, non solo vicini, ma attigui all'incendio della guerra. Queste ragioni non furono capaci a Suwarow, che si consigliava piuttosto con l'ardire, che con la prudenza, e che per le vittorie dell'Adda e della Trebbia era venuto in grandissima confidenza di se medesimo: opinava perciò diversamente, nè poteva pazientemente udire, che si fuggisse il combattere, e che il vincere fosse posto in dubbio e differito. Andava egli considerando, che l'indugiare la battaglia portava con se il lasciar ingrossar l'inimico, ed il lasciargli meglio ordinare i suoi disegni per assaltare, quando che fosse, gli eserciti imperiali da tutte le bande; che certamente non si doveva aver in dispregio il forte sito, a cui i Francesi si erano riparati; ma che questo vantaggio del nemico compensava soprabbondevolmente il più grosso numero dei soldati imperiali. Forse, aggiungeva, possonsi mettere i soldati Francesi a paragone dei nostri? Aver loro forse nervo da sostenere il pondo dell'esercito confederato? Non negare lui, essere i Francesi gente valorosa e di gran cuore; ma essere i loro migliori soldati morti a Legnago, a Verona, a Magnano, all'Adda, alla Trebbia, o starsene cattivi nella vincitrice Germania: fra i quarantamila, che stavano a fronte su quei colli, una terza parte comporsi d'uomini inesperti, e che, come nuovamente venuti alla milizia, tremerebbero al primo rimbombo delle artiglierìe. Per lo contrario essere gl'imperiali usi alle battaglie ed al sangue, nè fra di loro alcuno trovarsi, che non fosse stato presente o ad una qualche espugnazione di fortezze, o ad una qualche fortunata battaglia: tante vittorie spirar loro maggior coraggio, tante sconfitte all'incontro avere scemato l'animo dell'oste avversaria. Non avere forse quei soldati tante volte vincitori superato ostacoli maggiori di questi? Arresterebbero forse monti aperti da tante larghe strade coloro, cui nè l'Adige profondo, nè l'Adda impetuoso, nè le paludi pestilenti di Mantova, nè le mura maestrevoli di Torino e d'Alessandria non avevano potuto arrestare? non avere lui tale timore concetto da tanti segnalati fatti; quest'essere le speranze della vittoria; questi i segni della propizia fortuna: concludeva, doversi per onore, per debito, per sicurezza dar dentro, ed affrontare senza indugio l'inimico; perchè il tempo dava forza ai repubblicani, e qualche improvvisa fazione avrebbe soccorso Tortona. A tali parole di quel vecchio risoluto, vittorioso e nutrito nelle armi e negli esercizj della guerra, s'acquetarono i generali Austriaci, e fu deliberata quella battaglia, in cui si contenevano tutte le sorti future dell'Italia. Appena era sorto il giorno dei quindici agosto che i confederati givano all'assalto. Kray fu il primo ad ingaggiar la battaglia con l'ala sinistra dei Francesi, in cui il generalissimo della repubblica si trovava, e che aveva per modo con la voce, e con la presenza animato i suoi soldati, che le grida di _viva la repubblica_ fila per fila risuonando si mescolavano terribilmente col rimbombo dei cannoni, e con l'eco delle vicine montagne. Fu l'urto gagliardo, nè meno gagliardo il riurto. Molto sangue già si era fatto di lontano in questo primo congresso fra le truppe leggieri, molto sangue si faceva per conflitto delle genti più grosse; piegavano i soldati corridori di Francia. Joubert, sotto speranza di rimettergli, si spingeva innanzi con le fanterìe, gridando con la voce, ed accennando col braccio, _avanti, avanti_. Quivi una palla mandata, dicesi, da un esperto cacciatore Tirolese, venne a por fine con una onorevol morte ad una delle vite più onorevoli, che siano state mai, ed a troncare le speranze degli amatori dell'independenza Italiana. Fu percosso Joubert in mezzo del cuore, e senza poter mettere altra voce, se ne morì. Recavasi Moreau, destinato dai cieli a salvare nelle più estreme fortune i soldati di Francia, in mano il governo dell'esercito, felice in questo dello aver trovato, in vece di un capitano forte e ardito, un capitano forte e prudente. Non isbigottiva il funesto caso i Francesi, che già si trovavano sul fervor della battaglia; che anzi aggiungendo a valore furore, e desiderio di vendetta, fecero pruove stupende, e per sempre memorabili. Sforzavasi Kray, con cui militava anche Bellegarde, parecchie volte affrontando valorosissimamente il nemico, di sloggiarlo; ma sempre fu con perdita gravissima di morti e di feriti rincacciato: pareva disperata da questa parte la fortuna degli alleati. Nè con migliore augurio combattevano sul mezzo. Aveva Suwarow mandato Bagrazione ad attaccar di fronte i Francesi nel loro alloggiamento di Novi ma si sforzò in vano il principe, costretto anzi a tornarsene indietro sanguinoso, e vinto. Mandava Suwarow, che pure la voleva spuntare, in vece del generale respinto, ad assaltar una seconda volta Novi con una più grossa schiera Derfelden accompagnato da Miloradowich; ma quantunque l'uno e l'altro virilmente si adoperassero, non poterono venir a capo dell'impresa loro, e furono, come il primo, ferocissimamente ributtati; tanta era la fortezza degli alloggiamenti Francesi, e tanto il valore che i difensori mostrarono in questa ostinata battaglia. Al primo sparare dell'artiglierìe e dell'archibuserìa di Francia, andarono a terra o morti, o rotti, più di mille soldati di Russia. Ma Suwarow non era uomo da sgomentarsi per quell'atroce accidente, ed anche pensava, ch'egli solo era stato pertinace a volere la battaglia. Si faceva adunque egli medesimo innanzi da Rivalta con tutta la squadra di riscossa, avventandosi contro il conteso Novi. S'attaccò di nuovo la battaglia tra Russi e Francesi più furiosa di prima: il coraggio era uguale da ambe le parti, la strage maggiore da quella dei Russi, perchè i Francesi combattevano da luoghi più sicuri, i Russi all'aperto. Tuttavia si spinsero avanti con tanto singolare intrepidezza, che puntando con le bajonette costrinsero a piegare una legione repubblicana. Ma accorsi i compagni, e rifatto, siccome quelli che erano esperti ed usi a simili casi, tostamente il pieno, rincacciarono i Russi, che da questa loro animosa fazione non ritrassero altro che ferite, e morti. Animava Suwarow, anche con pericolo della vita, in sì fitto bersaglio, i soldati, e nuovamente mandava alla carica gli squadroni ordinati, e stabiliti. Ma non per questo cedevano i Francesi; che anzi tanto più fieramente si difendevano, quanto più fieramente erano assaltati. Melas intanto con la sua sinistra schiera spintosi avanti era venuto alle mani col nemico. Ma i repubblicani pur sempre prevalevano, nè muro tanto fu saldo mai in niuna battaglia, quanto i petti dei Francesi in questa. Il generalissimo di Russia dal canto suo, quanto più duro incontro trovava, tanto più si ostinava a volerlo superare. Ordinava a Kray, a Bellegarde a Derfelden, a Rosemberg, a Bagrazione, a Miloradowich, a Melas, rannodassero le schiere, e sì di nuovo a fronti basse percuotessero l'inimico. Il percuossero: furonne con orribile macello ributtati, e voltati in fuga manifesta. Già da più di otto ore si combatteva; la fronte dell'esercito di Francia tuttavia si conservava intera; gl'imperiali, se non rotti del tutto, certo disordinati, ed in volta. Non è senza forma di vero, e così credono uomini intendenti dell'arte, che se in questo momento di fortuna prospera fossero i Francesi usciti ad urtare a campo aperto i nemici, avrebbero conseguito una nobilissima vittoria. Perchè non l'abbiano fatto, io non lo so, nè pretendo giudicare, molto manco biasimare le operazioni di un capitano tanto grande, quanto fu veramente Moreau. Già si vedeva, che la forza, la quale sola aveva voluto usare Suwarow, non aveva bastato a smuovere i repubblicani dai loro alloggiamenti. I confederati cominciavano a starne con molta dubitazione; già i Russi fuggendo da quella terribile tempesta, traevano con se, quantunque quel vecchio robusto ed ostinato fieramente contrastasse, il generalissimo loro. I generali Austriaci intanto, dei quali quest'accidente perturbava molto gli animi, e per cui quel conflitto era di estrema importanza pei dominj del loro signore, si studiavano a trovare qualche modo, poichè dove la forza non vale, vi abbisogna l'arte onde rinfrancare la fortuna afflitta. Ebbe in questo pericoloso punto Melas un fortunato pensiero, che compruovò, ch'egli era, non solo d'animo invitto a non lasciarsi sgomentare in mezzo a tanto fracasso ed a tante morti, ma ancora di mente serena, e di perfetto giudizio. Secondollo volentieri Suwarow, sperando, che per arte altrui si salverebbe quello, che o per eccessiva imprudenza, o per eccessivo coraggio aveva egli perduto. Fece Melas avviso, che non fosse impossibile di circuire l'ala destra dei repubblicani, e di riuscir loro alle spalle, al che dava facilità la possessione di Serravalle. Per la qual cosa, volendo mandar ad effetto questo suo intento, lasciata solamente la prima fronte de' suoi a combattere contro i repubblicani, tirò indietro le altre squadre, alle quali ne aggiunse alcune altre testè arrivate da Rivalta. Fatto un grosso di tutte queste genti, erano otto battaglioni di granatieri, sei battaglioni di fanti, gli uni e gli altri Austriaci, sollecitamente marciava, sulla sinistra sponda della Scrivia ascendendo. Liberò d'assedio Serravalle; occupò Arquata. Perchè poi in mezzo a quella confusione di battaglia non si aprisse l'occasione al nemico, che già il tentava, di far correre una piccola squadra sulla destra del fiume sino a Tortona, comandava al conte Nobili, che se ne andasse a Stazzano con una sufficiente squadra, e frenasse i Francesi. Già era Melas giunto tra Serravalle e Novi, quando divideva i suoi in tre colonne: diè carico alla prima, a cui presiedeva Froelich, e nella quale militava co' suoi granatieri Lusignano già tante volte combattente in queste Italiane guerre con molto valore, e con poca fortuna, che assaltasse la punta dell'ala destra dei Francesi. Ordinava alla seconda, condotta da Laudon, e che si trovava schierata alla sinistra della prima, che si sforzasse di spuntare, e di circuire quella estremità medesima dell'esercito repubblicano. Infine comandava alla terza, che era governata dal principe di Lichtenstein, e che aveva con se qualche drappello di cavallerìa, e più vicina alla Scrivia era ordinata, che girasse più alla larga, arrivasse alle spalle dei Francesi, e troncasse loro la strada da Novi a Gavi. Mentre gli Austriaci marciavano così ordinati, Suwarow, rannodate alla meglio che potè le sue genti disordinate, rinfrescava la battaglia. Attaccossi Lusignano con l'estremità dell'ala destra del nemico, e dopo un duro incontro la sforzava a piegare; ma sopraggiunto in questo mentre Moreau, mandata avanti una legione fresca, rincalzava i Tedeschi. In questa mischia, poichè si venne alle bajonette, Lusignano ferito di palla, e di taglio, fu fatto prigione; tutta la colonna di Froelich pericolava. Ma accorreva prontamente in suo soccorso Laudon, e rimettendo prima i Francesi ai luoghi loro, poscia cacciandonegli, recava in sua mano la vittoria. Nè potè Moreau, quantunque molto vi si affaticasse, riordinare i suoi a sostenere l'impressione dell'inimico. Questo fu il momento, ed il combattimento decisivo della giornata. Piegarono sempre più i Francesi: gli Austriaci, perseguitandogli, gli cacciarono, sebbene non senza grave strage dal canto loro, dal forte alloggiamento, che avevano sulle alture dietro ed a fianco di Novi. I fuggiaschi vi si ripararono: ma assaltata al tempo stesso questa città dai Russi, fu da loro presa di viva forza a colpi di cannone, che atterrarono le porte. I vincitori vi commisero molta e crudele uccisione, facendo man bassa ugualmente su chi si arrendeva, e su chi non si arrendeva. Mentre così Melas vinceva con la sua prima e seconda colonna, e vincendo apriva anche il varco della vittoria a Suwarow, la sua terza giunta sui gioghi di Monterosso, donde sorgono le acque dei torrenti Fornavo e Riasco, era riuscita sulla strada, che da Novi porta a Gavi, e per tal modo aveva tagliato ai repubblicani la strada del potersi ritirare per la Bocchetta. Già era, quando queste cose succedevano, il giorno trascorso fino alle sei della sera, e per conseguente durava lo stupendo combattere già più da dieci ore. Vinta l'ala destra, ed il centro dei repubblicani, non restava più per essi alcun modo di ristorare la fortuna della giornata: però fece Moreau andar attorno i suoni della ritirata. In questa guisa per una ordinazione maestrevole del generale Austriaco, fu tolta ai Francesi la vittoria, che già tenevano in mano, di una lunga, grave, ostinata, e terminativa battaglia. Essendo tagliato il ritorno per a Gavi da Lichtenstein, furono costretti i Francesi a ritirarsi, sprolungandosi sulla sinistra loro, per la strada meno facile di Ovada. Marciavano prima ordinatamente. Comandò Suwarow a Karacsay, gli perseguitasse alla coda, e quel maggior male loro facesse, che potesse. Un accidente inopinato cambiò subitamente l'ordine in disordine, la ritirata in fuga. Una presa di corridori Austriaci condotta da un maggiore Kees, arrivava a Pasturana, per donde era la strada ai repubblicani, e veduto che il castello di questa terra, pieno ed ingombro di feriti, non aveva difesa, facilmente se ne impadroniva, quando appunto il retroguardo Francese, e le artiglierìe della repubblica arrivavano per passare nella terra. Questi audaci Austriaci scendendo dal castello, ed assaltando quella immensa salmerìa, produssero un disordine, ed un'avviluppata inestrigabile. Al tempo stesso sopraggiungeva alla coda Karacsay, e fatto impeto, se qualche cosa era rimasta intera ed ordinata, questa rompeva e disordinava. Fecero i generali Perignon, Grouchy, Colli, Partonneaux quanto per valorosi soldati si poteva, per rannodare le genti loro sconvolte e spaventate, ma furono le loro fatiche sparse indarno. Pieni di spavento, ed incapaci di udire qual comandamento che si fosse, fuggivano a tutta corsa i repubblicani a destra, a stanca, e dove più il terrore che il consiglio gli portava. Furonne i generali suddetti feriti gravemente di arma bianca, massime Perignon e Grouchy, e tutti fatti prigionieri. I gregarj, che per la fuga non si poterono salvare, furono per la rabbia concetta nella battaglia, e per comandamento di Suwarow tutti uccisi inesorabilmente dai Russi, macello orribile, il quale se si aggiunge a quel di Novi, si vedrà quale umanità, e quale religione fosse in coloro, che erano venuti dall'Orsa a predicare la umanità e la religione in Italia. Più di venti pezzi d'artiglierìe con le loro casse e munizioni, in questo solo fatto di Pasturana vennero in potestà del vincitore. Morirono, o furono feriti in questo piuttosto disperato conflitto che animosa battaglia, dei repubblicani circa sei mila, quattro mila cattivi ornarono il trionfo dei vincitori: perdettero trenta cannoni, casse, e munizioni in proporzione. Dall'opposta parte mancarono a' Tedeschi circa sei mila soldati fra morti, e feriti: un maggior numero di Russi o uccisi o feriti dimostrarono con quanta ostinazione combattessero, e fossero combattuti. Pochi confederati restarono presi dai repubblicani; ma i repubblicani servendosi di loro, perchè le bestie mancavano, a trasporto delle bagaglie e dei feriti, giunsero a salvamento ai sicuri ricetti delle montagne Genovesi. Non tutti o repubblicani o imperiali morirono di ferite: molti mancarono per istanchezza, o per ambascia, alcuni per sete, altri pel calore, essendo la sferza del sole molto grande. Avevano tutti le piaghe nel petto; nissuno nelle spalle. Apparivano i volti dei cadaveri Russi e Tedeschi sedati, quei dei Francesi torvi, e minacciosi. Niun campo di battaglia fu mai tanto spaventoso, quanto questo pel sangue sparso, per le membra lacerate, pei cadaveri accumulati. Ne fu l'aria infetta; l'orribile tanfo durò molta pezza: spaventevoli terre fra Alessandria, Tortona e Novi, prima infami per gli assassinj, poscia contaminate dalle battaglie. Passavanvi, e continuamente passanvi, forse cantando per passatempo, o per allegrezza i viandanti non rammentando quanto furore, e quanto dolore abbiano quivi a nostra memoria signoreggiato. Il tempo coprirà queste cose; vivranno elleno più nella memoria che negli affetti degli uomini: infelice razza, che prima fa i mali per furore, poi gli passa per indifferenza. Pare ad alcuni, che questa vittoria non abbia avuto seguito uguale al fatto, perchè Genova non fu tratta a pericolo; rimase anzi ai Francesi l'imperio quasi intiero della Liguria. Ciò non ostante egli è manifesto, che per lei fu conservata ai confederati l'Italia, la quale sarebbe tornata in potere di Francia, se i repubblicani avessero vinto. Del rimanente vinsero gli alleati per aver conquistato il campo di battaglia, non per minor numero di morti e di feriti. Per la qual cosa poca abilità restava a Suwarow di tentare imprese d'importanza sul Genovesato. Oltre a ciò Championnet incominciava a comparire sulle sboccature delle valli che danno nella pianura del Piemonte, e conveniva arrestarlo, affinchè non conducesse a qualche mal termine i confederati in questo paese. Nè non operava efficacemente nella mente del generalissimo di Russia il considerare, che per lui si era fatto, che da Tortona in fuori prossima a cadere, tutti gli stati Italiani del re di Sardegna, al quale egli e per inclinazione propria, e per comandamento di Paolo portava grandissimo affetto, fossero ritornati in potestà dell'antico signore, se non di fatto, almeno di nome; nè a lui importava ugualmente il conquistare il Genovesato, che il Piemonte. Non ignorava altresì, che sarebbe fra breve chiamato ad altre fazioni in Svizzera, dove per l'ardire e valore di Massena declinavano le faccende degli alleati, e Lecourbe, scendendo dal San Gottardo, aveva rotto il colonnello Strauch, che guardava quei luoghi donde minacciava Bellinzona, Lugano, e Domodossola. Nè voleva Suwarow consumare i soldati sui monti Liguri, alla conquista dei quali gli pareva, che bastassero le forze degli Austriaci per terra, e quelle degli Inglesi per mare. Da un'altra parte Moreau, quantunque necessitato al ritirarsi, e ad abbandonare le pianure d'Italia a chi aveva potuto più di lui, era tuttavia potente, massime ajutato, come egli era, dall'asprezza dei luoghi, ed aveva, con singolare arte movendo le sue genti assicurato il passo tanto importante della Bocchetta; imperciocchè San Cyr comparso di nuovo grosso ed ordinato nei contorni di Gavi, si era recato in mano le alture ed i passi di Monterosso. Suwarow per essere in grado di combattere Championnet, e per render sicuro l'alto Novarese da Lecourbe, andava a posarsi nell'alloggiamento di Asti, stendendo l'ala dritta verso il Piemonte sino a Torino, e con l'ala sinistra insistendo su quelle medesime rive della Bormida, e della Scrivia, dond'era partito per avventarsi contro i Francesi a Novi. Un grosso corpo investiva Tortona, e gagliardamente con ogni maniera di arte e di stromenti d'espugnazione la pressava. Mandava al tempo stesso Kray verso Novara a sicurezza di Domodossola. Ma non essendo stati i motivi di Lecourbe nella Leventina di quella importanza che si temeva, richiamava a se il generale Tedesco, lasciando solamente a Novara la minor parte de' suoi soldati. L'assedio di Tortona, ora stretto, ora allargato più volte, secondo che i confederati ebbero comodità di adoperarvi le forze loro, o necessità di usarle altrove, s'incamminava dopo la vittoria di Novi al suo fine. Il forte di Tortona edificato per volontà di Vittorio Amedeo terzo, re di Sardegna, e con le fortificazioni indirizzate dal conte Pinto, siede sopra un monte, che sta a sopraccapo della città di questo nome. Forte piuttosto pel sito, e per la natura sassosa del monte, che per le opere d'arte, se si eccettuano le casematte sodissime, ella può resistere lungo tempo, quando sia bene munita di difensori, e bene provveduta di viveri. Vi stava dentro il colonnello Gast, il quale con forse due mila Francesi si difendeva molto virilmente. Fino dai primi giorni di luglio si erano cominciate dal conte Alcaini, uomo Veneziano ai servigi d'Austria, a cui Suwarow aveva dato il carico dell'espugnazione, le trincee. Ma la bisogna lentamente procedeva per la resistenza degli assediati, per la natura del suolo, e per essere state le opere interrotte dalle vicine battaglie. Nondimeno soprantendendo ai lavori della oppugnazione un ingegnere Lopez, fu tirata a perfezione nei primi giorni d'agosto la prima trincea di circonvallazione. Ma si faceva poco frutto contro la piazza, perchè stante il suo sito eminente, piuttosto con le bombe che con le palle si poteva espugnare. Laonde continuando a lavorare indefessamente gli oppugnatori tanto fecero, che vennero a capo di ordinare la loro seconda trincea, e questa armarono di numero grande di cannoni e di mortai. Non si sbigottiva per questo Gast, perchè ed era uomo di gran cuore, e le casematte construtte di grosse e triplicate vôlte, non cedevano a quella orribile tempesta. Ciò non ostante un guasto considerabile fu fatto dalle bombe negli artiglieri, e nelle artiglierìe della fortezza. I Francesi con arte e costanza somma le riattavano, e continuavano a tuonare contro gli assalitori. Si vedeva, che molta fatica, e molto sangue bisognava ancora spendere per espugnare Tortona. Ma per la giornata di Novi non vedendo Gast speranza di poter più allungare la difesa, convenne d'arrendersi, se infra un certo tempo non fosse soccorso. Stipulossi adunque il dì ventidue agosto fra le due parti un accordo, pel quale si sospesero le offese per venti giorni, obbligandosi il Francese a dare la piazza, se nel detto termine l'esercito non arrivasse a liberarlo; uscirebbe al tempo pattuito la guernigione con armi e bagagli, con le bandiere all'aria, col suono dei tamburi; deporrebbe le armi sulla piazza di San Bernardino, e per la più breve se n'andrebbe in Francia sotto fede di non militare contro gli alleati per quattro mesi. Il dì undici settembre, non essendo comparso ajuto da parte nissuna, uscivano i repubblicani dalla fortezza, entravanvi gl'imperiali. Vi trovarono più di ottanta bocche da fuoco, munizioni da guerra molte, da bocca poche. Furono i malati ed i feriti trattati con ogni cura dai vincitori. Dodici centinaja di Francesi superstiti tornarono in Francia. Narrano i ricordi dei tempi, che fra questi fossero molti soldati del presidio di Peschiera, i quali, fatti prigionieri dai Tedeschi, avevano promesso di non servire contro i soldati della lega; brutta violazione della fede, nè commessa dai soli repubblicani. Venne Suwarow in molta allegrezza per l'acquisto di Tortona, perchè il faceva sicuro della guerra Genovese, e si vedeva aver ricuperato al nome del re quasi tutti i dominj del Piemonte, oggimai liberi dalla presenza dei repubblicani. Ora i principali suoi pensieri si volgevano ad assicurare il Piemonte superiore dalle armi Francesi con rompere la forza di Championnet, e con espugnar Cuneo. Ma il compimento di queste fazioni lasciava a Melas ed a Kray, perchè egli se ne partiva con tutte le genti Russe per alla guerra Elvetica. Da quanto siamo andati fino a questo luogo raccontando, facilmente si può raccogliere, che Suwarow fu piuttosto capitano di guerra ardito, che artifizioso, e che vinse piuttosto con prevenire, che con usar l'arte. Gli fu aperto il corso alla vittoria da Kray, e chiuso da Melas. Del resto, tolta la sua natura crudele ed inesorabile nel far la guerra, nel che merita biasimo eterno, fu di natura integra, e nemico per poca civiltà degl'inganni, e delle fraudi degli uomini più civili. Qual sia il meglio o il peggio, coloro il diranno, che definiranno, se più si dolga la umanità dei dolori del corpo che dei dolori dell'animo, o più di questi che di quelli. Suwarow, primo capitano di Russia in Italia, vi fece cose molto degne di memoria. Partito Suwarow dalle terre Italiche, ne fu molto diminuita la forza dei confederati in Piemonte. E però non poterono i capitani dell'imperator Francesco, innanzichè arrivassero nuovi rinforzi dagli stati ereditarj, tentar cosa d'importanza. Solo attendevano a conservare gli acquisti fatti, e si apparecchiavano, quando gli ajuti fossero giunti, alla oppugnazione di Cuneo, piazza molto forte, e che per essere vicina alle frontiere di Francia, è molto facile a venir difesa e soccorsa dai Francesi. Dall'altra parte primo pensiero dei repubblicani era di conservare la possessione di Cuneo, e tribolare talmente il nemico intorno a lui, che ne nascesse una grave diversione in favor di Massena, che aveva a fronte nella Svizzera l'arciduca Carlo, e presto avrebbe non solamente Suwarow con le genti vincitrici d'Italia, ma ancora Korsakow, che era vicino ad arrivare con nuovi squadroni di Russi. Bene certamente considerate erano queste cose pei generali della repubblica: ma si trattava di troppo vasto disegno per le poche forze che avevano, ed il volere tener tutto fu cagione, che non potessero conservare una parte. Non si vede come, volendo urtare fortemente l'inimico in Piemonte, si siano ostinati a perseverare nella possessione di Genova: il che gli obbligava a tener presidj nella riviera di Levante, soldati, che per la lontananza dei luoghi, e del restante esercito, a nissun altro fine potevano essere adoprati, che a difender Genova con tener il nemico lontano da lei. Genova, città assai grande e popolosa, e piena eziandio di mal umore contro i Francesi, sì per l'impazienza naturale del dominio forestiero, sì per la insolenza degli agenti del direttorio, e sì per la penuria delle vettovaglie, che dalla chiusura dei mari ne risultava, era cagione, che fosse loro forza di mantenervi un presidio assai grosso. Abbisognava ancora, che custodissero tutta la riviera di Ponente con gran numero di soldati, obbligazioni, da cui sarebbero stati esenti, se contenti al difendere le rive della Bormida e del Tanaro avessero abbandonato Genova, e raccolto la maggior parte delle forze loro in quella parte degli Apennini e dell'Alpi, che più approssimano e circondano Cuneo. Ma l'aver voluto distendersi in una fronte tanto lunga con sì poche forze, fu cagione che la guerra, che doveva esser grossa, si cangiò in guerra minuta e fastidiosa, con moltiplicate scaramucce ed affronti, che niuno effetto non solamente terminativo, ma nemmeno d'importanza potevano partorire. Sarebbe troppo molesta narrazione il raccontar tutto: perciò solo andremo sommariamente toccando i capi supremi. Klenau ajutato dalle masse Toscane infestava a danni dei repubblicani la riviera di Levante. Principal suo scopo era di cinger Genova da quel lato per darvi favore ai malcontenti, e per farvi difficoltà di vettovaglie. Venne Chiavari spesse volte in contesa, ora Klenau si faceva padrone di Rapallo, e s'innoltrava anche insino a Recco in poca distanza dalla capitale; ed ora prevalendo i repubblicani mandati da San Cyr, e governati da Miollis, cacciavano Klenau, non che da Recco e da Rapallo, da Chiavari e dalla Spezia, e lo risospingevano fin oltre Sarzana sull'estremo confine del Genovesato. La contesa principale si riduceva sul forte di Santa Maria, che sta a difesa del golfo della Spezia: finalmente dopo eventi diversi, ora prosperi, ora sinistri per le due parti, cadde il forte in potestà degl'imperiali; il quale accidente aperse libero l'adito alle navi d'Inghilterra in quel magnifico seno di mare, e fece facoltà agli Austriaci d'innoltrarsi di nuovo fino assai prossimamente, sentendosi sicuri alle spalle, a Genova, donde la poterono cingere d'assedio, quando, alcun tempo dopo, le armi imperiali vennero a romoreggiarle intorno, anche dalla parte d'occidente. Le medesime minute fazioni tribolavano e repubblicani e imperiali sulla Scrivia e sulla Bormida, ed ancor più gli abitatori del paese, che si ritrovavano fra quelle due genti per loro strane, e l'una contro l'altra infuriate. Novi venuto in contesa parecchie volte cedeva ora alla fortuna di Francia, ora a quella d'Austria; ma niuna cosa si scopriva certa, se non gli oltraggi e le rapine dei forestieri, o amici o nemici che si qualificassero. Successe nondimeno un giorno un fatto di qualche importanza, per cui condotti i Francesi con molt'arte e valore da San Cyr, ruppero i soldati di Kray, e gli rincacciarono fin oltre a Tortona. Alloggiaronsi i Francesi al Bosco: ma poco tempo dopo i Tedeschi venuti più grossi, gli facevano tornare indietro, obbligandoli a cercar ricovero sotto la rocca di Gavi. Nel Piemonte superiore calarono i repubblicani per le valli dell'Argentiera, di Pratogelato, di Susa e d'Aosta: occuparono nella prima Demonte, nella seconda Villar e Perusa, e poi anche Pinerolo, nella terza Oulx, Icilia e Susa; fecero anche un motivo insino a Rivoli, donde vedevano le torri della perduta Torino. Nella quarta s'impadronirono del passo difficile della Tuile, e della città d'Aosta, per modo che gl'imperiali impotenti al resistere, calarono a serrarsi nel forte di Bard. Melas, ponderate tutte queste cose, lasciando Kray alla guardia dei paesi, in cui la Scrivia e la Bormida infondono le loro acque, andava a posarsi nei contorni di Bra con circa trenta mila soldati abili a campeggiare in quelle facili pianure. Era questo suo alloggiamento non senza fortezza, siccome quello che posto tra il Tanaro e la Stura, si mostrava opportuno a sopravvedere i moti, che potessero fare i Francesi da Mondovì, di cui erano in possessione, dal colle di Tenda, e dalle valli della Stura, e di Pratogelato, che massimamente accennavano a quel luogo, come a centro comune. Suo intendimento principalissimo era di guarentire il Piemonte, e di trovar modo di combattere felicemente nelle battaglie che aspettava, per andar a porre il campo sotto Cuneo. Nè i Francesi per le considerazioni, che sopra abbiamo narrato, ricusavano il cimento. Aveva Championnet, in cui, dopo la partenza di Moreau andato alle guerre del Reno, era investita l'autorità suprema sopra tutte le genti, che si distendevano dalla Magra per tutto il circuito dei Liguri Apennini e delle Alpi sino alla Dora Baltea, chiamato a se la schiera di Victor, annestandola alla sua destra ala verso Mondovì. Al tempo stesso ordinava, che si accostasse al suo fianco sinistro per Pinerolo e per Saluzzo una squadra di genti venute dall'Alpi Cozie, e condotta dal generale Duhesme. Tutte queste genti unite insieme componevano un esercito quasi pari in numero a quello di Melas: la guerra sin allora sparsa e vaga si riscontrava in un sol punto, e tutto lo sforzo si riduceva nelle vicinanze di Fossano e di Savigliano: sulle rive della Stura era per definirsi quell'ultimo atto dell'Italiana contesa, ed il destino di Cuneo. Dopo vari alloggiamenti presi dai capi dei due eserciti, di cui il fine per Championnet era di accostarsi a Duhesme, che veniva da Saluzzo per quinci pruovarsi di rompere l'ala destra dei Tedeschi, e tagliar loro la strada verso Torino, per Melas di rompere il centro dei Francesi prima della congiunzione di Duhesme: erano la mattina dei nove novembre ordinati nella seguente forma. La schiera di Duhesme, che componeva la sinistra dei Francesi, marciava da Saluzzo verso Savigliano, e quindi contro Marene, in cui stanziava l'ala destra dei Tedeschi. La mezzana, in cui comandavano Grenier e Victor, alloggiava a Savigliano ed a Genola, avendo un forte retroguardo a Lavaldigi. L'ala destra dei Francesi, che obbediva a Lemoine, fermava le sue stanze a Morozzo. Tal era dunque il sito delle genti repubblicane, che Duhesme si muoveva sulla sinistra della Grana, Grenier e Victor tra la Grana e la Stura, il primo a Savigliano, il secondo a Genola, Lemoine sulla destra di quest'ultimo fiume. Dalla sua parte Melas con la destra alloggiava a Marene, con la mezza a Fossano, con la sinistra parte pure a Fossano, parte verso la Trinità. Obbediva la prima a Otto, e con lui doveva cooperare Mitruschi alloggiato a San Lorenzo, la seconda ad Esnitz, la terza a Gottesheim. Ardevano l'una parte e l'altra di venir alle mani; il che era da lodarsi dal lato di Melas, perchè assai gl'importava di combattere prima dell'arrivo di Duhesme, ma non parimente dal lato di Championnet, che doveva indugiarsi insino a tanto che la congiunzione di Duhesme avesse avuto intieramente il suo effetto. L'uno esercito nel momento stesso si avventava contro l'altro il dì suddetto. I primi ad attaccarsi furono Grenier, ed Otto. Combatterono ambidue tra Savigliano e Marene con estremo valore, essendo il coraggio e la perizia militare uguali da ambe le parti. Studiavansi i Francesi di circuire la punta destra dei Tedeschi, i Tedeschi la sinistra dei Francesi, perchè i primi non volevano restar separati da Duhesme che si avvicinava, i secondi gli volevano separare. Fu lunga, e forte, e variata la mischia; gli uni con gli altri parecchie volte si mescolarono. Ma prevalendo gli Austriaci per le cavallerìe (a questo fine appunto Melas aveva tirato il suo avversario sui campi aperti) furono finalmente i Francesi costretti a ritirarsi in Savigliano. Gli seguitarono acremente i Tedeschi, dando l'assalto alla piazza prima che avessero avuto tempo di riordinarsi. Ciò nondimeno fecero una forte resistenza, e forse non sarebbe venuto Otto a capo di scacciarnegli, se in quel punto non fosse arrivato con tutti i suoi Mitruschi da San Lorenzo, e che diede da un'altra banda la battaglia alla terra. Non potendo Grenier resistere a questo doppio assalto, fu costretto a retrocedere, incamminandosi a Genola, e lasciando in poter del vincitore Savigliano. Le cose succedettero diversamente tra Esnitz e Victor. Uscito il primo da Fossano aveva assaltato il secondo a Genola; ma il Francese gli rispose con tanta gagliardìa, che quantunque il Tedesco per tre volte desse furiosamente la carica, ne fu sempre risospinto con grave danno. Si fece Esnitz ajutare da Gottesheim, tutti e due insieme non ebbero miglior fortuna, che un solo. In questo mentre il generale repubblicano Richepanse con un piccolo corpo di cavallerìa, si faceva avanti, ed urtata con gran valore la cavallerìa Tedesca, sforzava Esnitz a ritirarsi più che di passo dentro le mura di Fossano. Quivi nemmeno non era sicuro, e già pensava al modo di abbandonar la piazza per retrocedere più lontano; tanto era stato il danno, che aveva patito in quella forte rincalzata. Ma gli sopravvennero in questo punto le novelle della vittoria acquistata sulla destra da Otto; il che il confortò a star fermo in Fossano, avvisandosi che Victor avrebbe pensato a tutt'altro piuttosto che a nojarlo. Infatti Championnet, per aver considerato il caso sinistro di Grenier, aveva comandato a Victor, che retrocedesse, e venisse a posarsi a Lavaldigi, divenuto l'alloggiamento principale dei Francesi. Esnitz, usando la occasione, usciva da Fossano, acquistava Genola, e perseguitava continuamente Victor alle spalle. Melas, raccolti i suoi, non volendo dar posa al nemico in su quel fervore della vittoria, assaltava Lavaldigi, e dopo un lungo conflitto se ne impadroniva. Ritiravansi i Francesi parte a Centallo, parte a Morozzo. In questo mentre giungeva Duhesme sul campo, in cui si era combattuto sul principio della battaglia, e trovato Savigliano con debole presidio, se ne rendeva padrone, poi marciava per combattere Marene. Diveniva la sua mossa molto pericolosa pei Tedeschi, e se fosse stata fatta qualche ora prima, sarebbe stata per loro pregiudiziale all'estremo. Ma già erano talmente in possessione della vittoria, che fu loro agevole il portar rimedio contro quell'improvviso accidente. Ordinava Melas al generale Sommariva, che andasse a combattere Duhesme. Potè egli giungerlo, quantunque il giorno già inclinasse, e lo costrinse, fattasi dal generale Francese breve resistenza, perchè aveva ricevuto le novelle della rotta dei compagni, a ritirarsi fino a Saluzzo. Avevano gli Austriaci in mano loro la vittoria; restava, che l'usassero. Il giorno seguente attorniarono un grosso squadrone lasciato da Championnet a Ronchi, e lo sforzarono a darsi. Un'altra squadra più grossa, che stanziava a Murazzo, tagliatole il ritorno per Cuneo, fu anch'essa obbligata a cedere in potestà del vincitore. Non pochi repubblicani, che fecero pruova per salvarsi di passar la Stura a nuoto, vi restarono affogati. Avrebbe voluto Melas correre sulla destra del fiume per dar addosso a Lemoine, ma inteso che i Francesi avevano fatto due campi, uno alla Madonna dell'Olmo, l'altro a Caraglio con intenzione di preservare Cuneo, rinunziando al pensiero di varcare, condusse le sue genti vincitrici, dividendole in due colonne, contro quei nuovi alloggiamenti del nemico; i Francesi, non aspettandolo, si ritirarono ai monti. Ma premendo a Melas di fargli allargar da Cuneo, perchè la oppugnazione della piazza non gli potesse venire sturbata, gli perseguitava da tutte bande. Esnitz, seguitando Grenier per la strada del Vernante lo sospingeva sino a Limone. Poco dopo, assalito da Melas, non trovò altro scampo alla sua fortuna caduta, se non quello di salirsene sul difficile ed erto giogo di Tenda. Otto cacciava avanti a se i repubblicani per le valli di Stura e di Grana, e si faceva signore di Demonte; poi spintosi più in su, occupava le Barricate e l'Argentiera. Latterman insistendo sulla Maira, e traversando il borgo di Busca, saliva sino a Dronero. Keim, che aveva la custodia particolare del paese all'intorno di Torino, seguitando Duhesme, lo sforzava a tornarsene nella valle d'Icilia alle radici del monte Ginevra, dond'era venuto. Restava, che gli Austriaci togliessero ai Francesi Mondovì, dove si erano riparati Victor, Lemoine e Championnet. Riuscì lor la fazione, perchè sloggiati i Francesi sforzatamente dai due sobborghi per opera di Mitruschi, e dalle eminenze, che dominano la città, per quella di Lichtenstein, l'abbandonarono, ritirandosi ai luoghi più alti della valle del Tanaro. Fuvvi a Bagnasco un duro incontro tra il retroguardo Francese e l'antiguardo Tedesco; nè fu senza grave rischio, e fatica, che il primo potè farsi strada al suo cammino. Occuparono i Tedeschi, sempre ritirandosi i Francesi, Garessio, Ormea, e si spinsero avanti sino al ponte di Nava, che è il passo più difficile e quasi la chiave della strada, che porta su quelle alture da un lato all'altro, non so se mi debba dire dell'Alpi, o degli Apennini, perchè là è appunto il confine fra le due corone di monti, che si chiamano con questi due nomi. Per tale guisa i varj corpi di Championnet, che partendosi da diversi punti di una larga periferia, erano venuti a concorrere, quasi come in centro comune, nelle vicinanze di Fossano e di Savigliano, dopo la battaglia ivi combattuta, che alcuni chiamano di Fossano, altri di Genola, dispersi, e di nuovo l'uno dall'altro discostandosi, si allargarono, ed ai punti medesimi della periferìa ritornarono. Acquistaronne gli Austriaci facoltà di attendere alla espugnazione di Cuneo sicuramente: il che era lo scopo principale di tante mosse, e di sì ostinata guerra. Perdè Championnet in tutti questi fatti tra morti, feriti e prigionieri circa la terza parte delle sue genti, che è quanto a dire otto mila soldati. Mancarono dal lato dei Tedeschi più di due mila. Ritirossi il capitano del direttorio a Nizza, dove tra il cordoglio dell'esser vinto, e del vedere la depressione della repubblica, l'infezione di una malattia gravissima, che quasi a guisa di peste infuriava, e lo sdegno concetto, perchè Buonaparte tornato dall'Egitto si era fatto padrone di Francia sotto nome di primo consolo, passò di questa all'altra vita. Ei fu capitano debole, ma uomo dabbene; amò la repubblica per lei, quando tanti altri l'amavano per loro. Travagliavansi gli Austriaci intorno a Cuneo, piazza forte, e di molta importanza pel suo sito. Conoscevano quest'importanza i generali dell'imperatore, e però sebbene la stagione già divenisse sinistra alle opere di oppugnazione, si accinsero all'impresa, sperando di compensar con le forze soprabbondanti la contrarietà del tempo. Si alloggiava Melas col grosso delle genti a Borgo San Dalmazzo per impedir ai Francesi il calare dal colle di Tenda verso la piazza assediata. Intanto il principe di Lichtenstein, al quale era stata commessa l'espugnazione, cinta tutto all'intorno la fortezza, si era principalmente alloggiato tra il Gesso e la Stura, che le scorrono, uno a destra, l'altra a sinistra. Intento suo era di far trincee, e di dar la batterìa di quella parte, che sta a fronte della Madonna dell'Olmo. Infatti la notte dei ventisei novembre principiò a scavare, e ad innalzar terra contro la strada coperta, che cingeva il bastione di Sant'Angelo. Obbediva il presidio al generale Clement. Sommava il numero di duemila cinquecento soldati, ma disanimati per le sconfitte, e pel desiderio di tornarsene in Francia, parendo loro disperate le cose d'Italia, oltre a questo non era bene provvista la piazza di munizioni nè da bocca, nè da guerra, perchè e per l'ingordigie solite, e per l'angustia dei tempi non ne era stata mal sufficientemente empiuta. L'esercito stesso, quando guerreggiava nelle vicinanze, era stato obbligato, non avendo da pascersi altronde, a consumare una parte dei viveri d'assedio. Ciò non ostante Clement, non perdutosi d'animo, fece quello che per capitano valoroso si poteva, a fine di sturbare le opere del nemico, ora sortendo a combattere, ed ora fulminando con tutte le artiglierìe contro coloro, che si affaticavano alle trincee. Ma tanti erano i soldati dell'Austria, e tanti i paesani accorsi parte per amore, parte per forza, parte per speranza del guadagno, perchè Lichtenstein, spendendo anche del suo, usava molte larghezze: che in brevissimo tempo fu condotta a perfezione la prima parallella, e vi si piantarono diecinove batterìe pronte a bersagliare gli assediati. Tirarono con tanto impeto il due decembre, che i difensori furono obbligati ad abbandonare le opere esteriori, ritirandosi di tutto all'interno della piazza. Al tempo stesso arse una conserva di polvere con orribile fracasso, e schiantò fin dalle fondamenta un ridotto. Usarono gli assalitori la occasione, facendo la notte che seguì, un alloggiamento nelle ruine, ed attendendo a tirar avanti la seconda trincea di circonvallazione. Ma già un'altro magazzino scoppiava, le case vicine ardevano, il fuoco rapidamente distendendosi minacciava generale incendio. Nè vi era modo o volontà di spegnerlo, perchè i soldati stavano sulle mura a combattere, i cittadini spaventati non avevano più consiglio la tempesta mandala continuamente dal nemico accendeva l'intero: tanta era la quantità, che soprabbondevolmente gittava Lichtenstein di palle, di bombe, e di granate reali. Mandarono i Cuneesi pregando, che avesse compassione di loro, od almeno risparmiasse le case, posciachò eglino non combattevano. Rispose il Tedesco, non farsi alcun divario, quando si oppugnano piazze fra chi combatte, e fra chi non combatte: capitolasse il Francese: cesserebbe la tempesta. Vedeva Clement la necessità della dedizione, perchè già la fortezza era straziata, la breccia si preparava, nissun soccorso gli appariva da nissuna parte, ed erano mancati tutti i fondamenti del difendersi. Chiese perciò i patti e gli ottenne. Fu stipulato ai cinque decembre, che la guernigione uscisse onorevolmente al modo di guerra, che deponesse le armi sullo spalto, che fosse condotta sotto scorta, come prigioniera, negli stati ereditarj, che si avesse cura degli ammalati e dei feriti: erano ottocento. Volle Clement provvedere ai Piemontesi, ed assicurar le loro condizioni con domandare, che non potessero esser ricerchi per opinioni, o fatti politici precedenti. Gli fu risposto, che si apparteneva allo stato, non ai soldati a giudicare. A questo modo fu domato per forza, in men che non fa dieci giorni, Cuneo, che aveva vinto la gara contro le forze di Francia nel 1691, e nel 1744. Dal quale accidente due conclusioni si possono dedurre, la prima che non vi è piazza, a cui con gli approcci si possano accostare gli oppugnatori, che possa resistere lungo tempo, se non è spalleggiata da un esercito alla campagna; la seconda, che Parte degli approcci, e delle artiglierie è divenuta tanto potente, che vi è adesso troppo enorme disproporzione tra i mezzi di oppugnazione, e quei di difesa. La presa di Cuneo, e la stagione avversa ebbero posto fine alla guerra nella superiore Italia, e sgravarono gli eserciti confederati di molte fatiche. Tuttavia, sebbene il Piemonte fosse governato a nome dei re, in fatto egli era a divozione dell'Austria, la quale non volle mai consentire ch'ei vi tornasse, nè che il duca d'Aosta, che aveva voce d'intendersi di guerra, ed a cui i soldati Piemontesi portavano affezione, vi comparisse. Intanto fu anno molto doloroso alla famiglia reale di Sardegna pei mali veri, e per le speranze vane: perchè morì a Cagliari l'unico figliuolo del duca d'Aosta, al quale, dopo la morte del padre, spettava la corona; passò anche da questa vita in Algheri di Sardegna il duca di Monferrato, fratello del re, giovane, siccome già abbiamo notato altrove, di ottima natura, e di costumi dolcissimi. FINE DEL VOLUME IV. INDICE DEL PRESENTE VOLUME 1798 Francia volta i pensieri contro l'Inghilterra _pag._ 6 Pitt, ministro Inglese 7 Seduzioni dell'Inghilterra 8 Cagioni occulte della spedizione in Egitto 9 Si dispongono i mezzi 13 Partenza dell'armata 14 Regnault di San Giovanni d'Angely 15 Presa di Malta 16 Ferdinando Hompesch gran maestro 17 Bandito coi cavalieri dall'isola 18 Berthollet 19 Baraguey d'Hilliers e d'Arnault prigioni degli Inglesi 19 Buonaparte sbarca in Egitto 20 Battaglia di Aboukir 20 Nelson 20 Brueys 22 Capitano Foley 23 Brueys ucciso 26 La Joailles capitano del Generosa 28 Garat, ambasciatore a Napoli 30 Pretensioni del direttorio 34 Provvisioni del re di Napoli 34 Marchese del Gallo, ministro 36 Garat richiamato e mandato in sua vece Lacombe San Michel 36 Nelson come accolto a Napoli 37 La Porta intima guerra alla Francia 37 La Russia contro la Francia 38 Paolo imperatore 38 Isolani di Malta ribellati 39 Domande del re di Napoli alla Francia 39 Suo manifesto 40 Mack generale Austriaco 41 Championnet generale Francese 42 I Napolitani entrano su quel della chiesa 42 Ferdinando entra in Roma 44 Governo temporario 45 Modi di sovvertire i popoli e governarli del direttorio 46 Alleanza tra le repubbliche Francese e Cisalpina 47 Trouvé ambasciatore presso la Cisalpina 49 Pensieri del direttorio contro la Cisalpina 51 Si pensa di formare la costituzione 53 Montal discopre la conspirazione 53 Scritto di Marco Ferri, e Melchiorre Gioja 54 Trouvé se ne duole, rimostranze inutili de' Cisalpini 57 Trouvé cangia per forza la constituzione 58 Ranza la seppellisce 58 Trouvé richiamato e mandato Fouché, poi Rivaud 59 Joubert mandato in cambio di Brune 59 Luciano Buonaparte; sua orazione e suoi pensieri 60 Società dei Raggi in Italia a che tendesse 62 Cesare Paribelli 63 Condizioni infelici del re di Sardegna 65 Cicognara ambasciatore Cisalpino a Torino 67 Ginguené a Torino 68 Suo discorso al re 69 Dà animo ai novatori Piemontesi 72 Fuorusciti Piemontesi in Carrosio 73 Commedia recitata in Genova 74 Capi del moto di Carrosio chi fossero 74 I fuorusciti minacciano il Novarese 75 Prendono Domodossola 76 Altri fuorusciti calano verso Pinerolo 76 Editto del re 76 Manda gente contro i fuorusciti 78 Priocca insiste perchè il direttorio si spieghi 78 Risposta di Ginguené 79 Richieste del medesimo 81 Richini capo di Barbetti 83 I democrati operano contro i Francesi a pro dell'indipendenza d'Italia 85 Battaglia di Ornavasso tra repubblicani e regj 87 Taleyrand cosa scrivesse a Ginguené 89 Nuove domande del medesimo 92 Crudeltà del governo Piemontese 93 Fuorusciti di Carrosio assaltano Pozzuolo 94 Cacherano d'Osasco va contro Carrosio 96 Intimazione di Ginguené 96 Francesco Serra e suo scritto 98 Sottin fa dichiarare dalla repubblica Ligure guerra al re 98 Proposta di Priocca 98 Il re fa ritirare le truppe da Carrosio 99 Generale Siri s'impadronisce di Serravalle 99 Ruffini e Mariotti 99 Accuse di Francia contro il re di Sardegna 99 Indulto ai sollevati come accordato dal re 102 Domande di Brune 103 Sottin perchè richiamato 105 Marchese Colli mandato a Milano 105 Dichiarazioni del governo Piemontese 105 Accordo stipulato fra Brune ed il marchese di San Marsano in cui il re cede la cittadella di Torino 109 Manifesto del generale Brune 110 Kister s'impossessa della cittadella di Torino 111 Gli ambasciatori esteri vogliono partire da Torino 111 I fuorusciti di Carrosio si apprestano ad assaltare il Piemonte 112 Solaro governatore di Alessandria 113 Conte Alciati 114 I fuorusciti rotti alla Spinetta 114 Risentimento di Ginguené 116 Intemperanza de' Francesi cagione di tumulti a Torino 117 Proteste di Priocca 118 Mascherata indecente che solleva il popolo 119 Generale Menard seda il tumulto 121 Collin rimosso dal governo della cittadella 121 Insolenti domande di Ginguené 122 Tratto ridicolo di Marivault segretario di Ginguené 123 Querele reciproche di Balbo e Ginguené 125 Ginguené richiamato 126 Eymar gli è sostituito 126 Lodi di Ginguené 126 Il re di Napoli muove guerra alla Francia 127 Joubert mandato in Italia 129 Manda Musnier a Torino e perchè 129 Grouchy governa la cittadella di Torino 130 Si tenta il re per farlo rinunziare al trono 131 Joubert dichiara la guerra al re di Sardegna 132 E lo assalta alla sprovvista 133 Manifesto del ministro Priocca 135 Il re abdica 137 Priocca consegnato in cittadella 138 Duca di Aosta firma l'abdicazione 138 Il direttorio vuole fare imprigionare il re, e come è salvato da Taleyrand 138 La Idropica, quadro di Gerardo Dow 139 Governo temporario in Piemonte 140 Disinteresse di Joubert 141 Roccabruna chi fosse 141 Lodi di Priocca 141 Il re parte da Torino 142 Assurde accuse del direttorio contro il re 144 Protesta del re in data di Cagliari 144 Guerra nello stato Romano. Speranze di Mack come deluse 148 Naselli a Livorno e Damas a Orbitello sbarcati 150 Disposizioni di Mack 150 Kellermann 151 Napolitani sono rotti 151 Nuova fazione di Mack 152 Mathieu batte Moesk ad Otricoli 154 Mack si ritira a Capua 155 Francesi rientrano in Roma 155 Ardita marcia di Damas 156 Championnet assalta Capua 158 Gaeta si dà ai Francesi 158 Aquila e Pescara fanno lo stesso 159 Alessandro Ferreri assassinato 161 Mack consiglia l'accordo 162 Il re parte e lascia suo vicario il principe Pignatelli 162 Nelson fa incendiare le navi 163 Difficoltà dell'esercito Francese 164 I Napolitani insorgono 164 I Francesi respinti a Capua 165 Viltà di Pignatelli e di Mack 166 Vengono agli accordi 166 Pignatelli punito e perchè 167 Ettore Caraffa 167 Arcambal commissario Francese 168 Insurrezione de' lazzaroni 168 Pignatelli e Mack fuggono 169 Principe di Moliterni capo dei lazzaroni 170 Championnet muove verso Napoli 171 Il duca della Torre e Clemente Filomarino uccisi 171 Tradimento di Moliterni 172 Battaglia tra Francesi e lazzaroni 173 Proni, assassino 174 Moliterni inalbera sui castelli di Napoli il vessillo tricolorito 175 Napoli in potere dei Francesi 177 Championnet ordina un governo repubblicano 178 Quali persone scegliesse 179 Astruserìe de' Napolitani 179 Mario Pagano 180 Miracolo di San Gennaro 182 Cardinale Zurlo Capece 183 Constituzione Napolitana 183 Disordini del governo 185 Faipoult a Napoli 188 Mire di Taleyrand 189 Championnet condotto in Francia 190 Moto a Monteasi, e come cagionato 192 Cardinale Ruffo sbarca in Calabria 193 Scomunicato dal cardinale Zurlo Capece 193 Sciarpa 194 Mammone Gaetano 194 Deliberazione di Championnet 196 Ettore Ruvo 196 Schipani 198 Assalto e presa di San Severo 199 Broussier e Ruvo espugnano Andria 201 Espugnano Trani 202 Schipani ha poco esito in Calabria 205 Decreto di Macdonald 207 Il direttorio manda a Napoli Abrial e cosa vi fa 210 Suo rispetto alla casa di Torquato Tasso 210 Serrurier entra in Lucca 211 Lucca si fa democratica 212 Stato del Piemonte 214 Carlo Bossi 218 Il Piemonte si fa francese 219 Fantoni 220 Moti in Acqui e Strevi 220 Musset mandato in Piemonte 223 Prina 223 Disposizioni ostili dell'Austria 224 Bellegarde, Melas e Kray generali Austriaci 225 Suwarow conduce i Russi in Italia 225 Jourdan mandato al Reno 226 Massena negli Svizzeri 226 Scherer in Italia 226 Joubert chiede licenza 226 Erebrestein presa 227 Intimazione del direttorio all'imperatore 227 Disposizione dei due eserciti Francese ed Austriaco 228 Toscana sottomessa alla Francia 229 Reinhard commissario Francese 230 Il papa condotto in Francia dove muore 230 Battaglie all'Adige 234 Posizione difficile di Scherer 237 Battaglia di Villafranca 238 Scherer si ritira all'Adda 242 Arrivo dei Russi in Italia 243 Disposizione de' Francesi all'Adda 244 I soldati indisposti contro Scherer, egli rinunzia il comando a Moreau 245 Suwarow a fronte del nemico 246 Serrurier rotto a Lecco 247 Melas assalta il canale Ritorto 249 Serrurier si arrende 251 La Lombardia e il Piemonte in potere degli alleati 252 I Cisalpini lasciano Milano 254 Adelasio perchè restasse 254 Melas entra in Milano 255 Repubblicani mandati a Cattaro 256 Cedole del banco di Vienna 256 Suwarow in Milano 256 Pensieri di Moreau 257 I Russi respinti da Bassignana 259 Tortona si arrende a Rosemberg 259 Sollevazioni in Piemonte 260 Pio Vitale vescovo di Ceva 261 Moreau si ritira verso Cuneo 261 Pastorale dell'arcivescovo di Torino 262 Il governo Piemontese si ritira a Pinerolo 262 Manifesto di Suwarow 263 Branda-Lucioni cosa facesse 265 Wukassovich giunge a Torino 268 Cavaliere Derossi 269 Suwarow entra in Torino 270 Suoi provvedimenti 271 Fame e violenze in Piemonte 273 Espugnazione della cittadella 275 Fiorella si arrende 276 Capitano Ruffini 277 L'Austria avversa al re di Sardegna 277 Esuli Italiani in Francia 278 Italiani che desiderano l'unità dell'Italia 280 Guerra in Grecia 285 Chabot governatore delle isole Joniche 286 Alì pascià di Janina 286 Offre di comprare Corfù 287 Butintrò preso dai Turchi 287 Parga presa dai medesimi 287 Alì va contro Preveza 288 Generale Lasalcette 288 Muktar figliuolo di Alì 289 Lasalcette e Hotte si arrendono 290 Tissot difende Preveza 290 Generosità di un Prevezano, e codardia di un Francese 292 Parole di Tissot 292 Tissot fatto prigione 293 Barbarie di Alì 294 Caravella come straziato 295 Francesi menati a Costantinopoli 295 Assedio di Corfù 296 Ocsacow ammiraglio Russo 297 Assalto di Vido 298 Crudeltà dei Turchi e umanità dei Russi 300 Corfù sì arrende 301 Sacre imposture a Corfù 301 Esuli stanziati a Corfù 302 Moreau richiama Macdonald da Napoli 303 Isola distrutta 306 Sollevazione di Arezzo e Cortona 307 Angelo Guilichini presidente in Arezzo 308 Cortona si arrende ai Francesi 309 Inutile intimazione fatta ad Arezzo 310 Andrea Doria move Albiano 310 Taglie imposte ai Romani 310 Disposizione dei confederati 311 Errore di Suwarow 312 Mosse di Moreau verso Genova 312 Mosse degli alleati 314 Suwarow marcia verso Piacenza 315 Battaglia al Panaro 315 I Tedeschi sono rotti a Modena 317 Forest generale ucciso 318 Valore di alcuni fuorusciti Francesi 318 Battaglia alla Trebbia 321 Macdonald è rotto 325 Sua ostinazione perniciosa 326 È rotto un'altra volta 331 Si ritira verso Parma 332 Busca, Salm e Cambray prigionieri 332 Macdonald si ritira verso il Genovesato 334 Va a Parigi, sue qualità 335 Moreau batte i Tedeschi a Tortona 336 Moreau vittorioso si ritira indietro 338 Gli alleati sotto Alessandria 340 Gardanne comanda in Alessandria 340 Bellegarde comanda l'assedio 341 Gardanne si arrende 343 Kray all'assedio di Mantova 344 La Tour-Foissac si arrende 350 È accusato di tradimento 351 Presa di Serravalle 352 Scontentamento in Francia 353 Joubert e Championnet mandati in Italia 356 Parole di Joubert verso Moreau 358 Miracolo di San Guido castigato 359 Disposizioni di Joubert e di Suwarow 360 Dispareri nel campo Francese 361 A che si decidesse Joubert 365 Dispareri tra gli alleati 365 Deliberazione di Suwarow 366 Battaglia di Novi 368 Joubert ucciso 368 Moreau prende il governo dell'esercito 369 Ostinazione di Suwarow 370 Pensiero di Melas 371 Lusignano prigione un'altra volta 373 Laudon fa decidere la vittoria 373 I Francesi si ritirano 374 Kees gli mette in piena rotta 374 Karacsay 375 Perignon, Grouchy, Colli, Partenneaux prigioni 375 Barbarie di Suwarow 375 Perdite dei repubblicani 375 Perdite degli alleati 376 Conseguenza di questa battaglia 377 Championnet cala in Piemonte 377 Assedio di Tortona 378 Gast la difende 379 Conte Alcaini 379 Gast si arrende 380 Suwarow parte per la Svizzera 381 Korsacow 382 Errori de' capitani Francesi 382 Klenau infesta la riviera di Levante 383 Fazione di San Cyr in Piemonte 384 Championnet comanda tutto l'esercito d'Italia 385 Moreau va alla guerra del Reno 385 Championnet è rotto dagli Austriaci a Fossano e a Savigliano 386 Si ritira a Nizza e muore 391 Assedio di Cuneo 391 Principe di Lichtenstein 391 Clement comanda la piazza 392 Cuneo mal provvista 392 Si arrende 393 L'Austria avversa al re di Piemonte 394 Disgrazie nella casa di Savoia 394 FINE DELL'INDICE. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (fantasia/fantasìa e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK STORIA D'ITALIA DAL 1789 AL 1814, TOMO IV *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. 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START: FULL LICENSE THE FULL PROJECT GUTENBERG LICENSE PLEASE READ THIS BEFORE YOU DISTRIBUTE OR USE THIS WORK To protect the Project Gutenberg™ mission of promoting the free distribution of electronic works, by using or distributing this work (or any other work associated in any way with the phrase “Project Gutenberg”), you agree to comply with all the terms of the Full Project Gutenberg™ License available with this file or online at www.gutenberg.org/license. Section 1. General Terms of Use and Redistributing Project Gutenberg™ electronic works 1.A. By reading or using any part of this Project Gutenberg™ electronic work, you indicate that you have read, understand, agree to and accept all the terms of this license and intellectual property (trademark/copyright) agreement. If you do not agree to abide by all the terms of this agreement, you must cease using and return or destroy all copies of Project Gutenberg™ electronic works in your possession. 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