The Project Gutenberg eBook of Napoleone: La vita italiana durante la Rivoluzione francese e l'Impero

This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook.

Title: Napoleone: La vita italiana durante la Rivoluzione francese e l'Impero

Author: Anton Giulio Barrili

Release date: July 10, 2013 [eBook #43182]

Language: Italian

Credits: Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli, Barbara
Magni and the Online Distributed Proofreading Team at
http://www.pgdp.net (This file was produced from images
generously made available by The Internet Archive)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK NAPOLEONE: LA VITA ITALIANA DURANTE LA RIVOLUZIONE FRANCESE E L'IMPERO ***

LA

VITA ITALIANA

DURANTE LA

Rivoluzione francese e l'Impero


Conferenze tenute a Firenze nel 1896

DA

Cesare Lombroso, Angelo Mosso, Anton Giulio Barrili, Vittorio Fiorini, Guido Pompilj, Francesco Nitti, E. Melchior de Vogüé, Ferdinando Martini, Ernesto Masi, Giuseppe Chiarini, Giovanni Pascoli, Adolfo Venturi, Enrico Panzacchi.

MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1897.


PROPRIETÀ LETTERARIA


Riservati tutti i diritti.

Tip. Fratelli Treves.


[97]

NAPOLEONE


CONFERENZA

DI

Anton Giulio Barrili.

[99]

I.

La notte dopo il 12 aprile del 1796, un giovane comandante d'esercito, passata la Bormida con una vanguardia di ottomila Francesi, veniva ragionando in certa sua forma tra imperiosa e familiare con uno di quei valligiani, tolto poc'anzi per guida fino alla gola di Plodio. Tra l'altro ch'egli disse, queste parole rimasero scolpite nella mente dell'ascoltatore, preso di molta ammirazione e già disposto a gran fede: “Ci sono in Italia duecentomila poltroni; ma io li impiegherò.„ Parlava facilmente italiano, il generale francese, perchè era nato italiano di terra e di stirpe; parlava volentieri italiano in quell'ora, perchè, girate appena le Alpi sul primo nodo dell'Appennino, amava trarne il buon augurio con suoi fratelli di sangue, sperati amici e cooperatori di vittoria. Diceva ancora di non esser venuto a guerreggiare i popoli, ma i re, nemici dei popoli; non l'Italia schiava, ma l'Austria, tiranna in casa altrui, secondo il mal uso degli stranieri, sempre calati sulla bella penisola, come in campo aperto alle loro contese di primato europeo.

[100] Duecentomila poltroni da impiegare! A non vederci altro che tanti infingardi, contenti dell'ozio a cui si sentivano condannati, i poltroni d'Italia erano certamente di più. Ma egli, giunto tra noi a capo di trentaseimila combattenti, egli che più tardi, nel colmo della potenza sua, non doveva averne più di cinquecentomila, nè mai, di tal numero, oltre i due terzi raccolti sotto la mano, poteva bene restringersi allora in quei modesti confini, e non chiedere all'Italia, sua madre, più di duecentomila soldati. Era già molto, e per il tempo e per l'uomo. Ancora egli non aveva fatto altro che vincere, dodici ore innanzi, sulle alture di Montenotte; e Montenotte non doveva essere una giornata decisiva se non dopo i felici combattimenti di Dego e di Millesimo. Pure, sceso da quelle vette onde non era spazzato intieramente il nemico, e dal ponte di Càrcare conducendo all'ostacolo di Cosseria la divisione Augereau, egli si sentiva già tutto compreso del suo alto destino. Un colpo di fortuna lo aveva innalzato a Tolone; un altro gli aveva fruttato il favore del Direttorio, per le nozze con la vedova Beauharnais, amica della Tallien, la bella onnipotente del giorno. Il caso è uno stupendo artefice di eventi; ma a patto che dove passa l'occasione, sua frettolosa figliuola, si trovi in agguato chi sappia afferrarla pel ciuffo. E molti [101] aspettano, che non la vedranno passare; alcuni l'acciuffano, che non sapranno tenerla. Audaci, ma senza il valore che giustifichi l'audacia: e meglio per essi che non fossero usciti dalla oscurità; tanto è vergogna aver tentato e non vinto.

Non così egli, venuto alla sua ora in quell'esercito d'Italia che da quattro anni facendo pochi fatti romoreggiava sempre intorno ai confini. A Nizza, trovò laceri e scalzi, senza cavalli, senza vettovaglie, trentaseimila Francesi; nè egli portava più che duemila luigi con sè. Averne quattro per testa, fu gala a giovani generali, ch'egli doveva far poi marescialli, principi e duchi, caricandoli d'oro, di feudi, perfin di corone. Ai soldati nulla; ma prometteva un paradiso terrestre, disteso sotto i loro occhi nella gran valle del Po, passando, già s'intendeva, sui ventiduemila piemontesi del Colli e sui trentaseimila Austriaci del Beaulieu. L'obbedirono; e passarono ancora sui sessantamila del Wurmser, poscia sui sessantamila dell'Alvinzy, vincendo dal Tanaro al Tagliamento, dissipando tutte le resistenze, suscitando repubbliche, abbattendo principati, o ricevendoli in alleanza, che era principio di soggezione. A questo vincitore, che non in tre mesi, come aveva promesso nel partir da Parigi, ma in due era giunto a Milano, e in dieci aveva cacciata l'Austria dalla penisola italiana, [102] mandando alla Repubblica francese il primo tributo ch'ella avesse ancor ricevuto di milioni e d'opere d'arte; a questo vincitore, costretto a perder gente in ogni vittoria, non si spedivano aiuti se non di poche migliaia d'uomini, non si consentiva il chiesto collegamento dell'esercito del Reno: ond'egli, a non arrisicare il guadagnato, e tuttavia con audaci mosse sulle Alpi Noriche minacciando di correr su Vienna, costrinse il nemico ai patti preliminari di Leoben; e il 17 ottobre 1797, a Campoformio, con larghezza inaudita, all'Austria vinta in quindici giornate campali e in più di sessanta fazioni minori, cedeva lo Stato Veneto, dai confini della Dalmazia alla linea dell'Adige. Il 9 dicembre era a Parigi, per rientrare nella vita privata. Già troppo grande, e troppo fortunato, lo mandarono presto in Egitto, per colpir l'Inghilterra sulla via delle Indie, o piuttosto per disfarsi di lui. Fu sorte che non gli lesinassero gente, nè sussidii navali. Ebbe quarantamila combattenti, tredici vascelli di linea, a cui potè unirne due veneti da sessantaquattro cannoni, sei fregate pur venete, e otto francesi, settantadue legni minori e quattrocento trasporti, con diecimila marinai. Così, mentre la Francia rimasta senza di lui si disponeva a perdere quanto aveva per lui guadagnato di qua dalle Alpi, egli andava a vincere, come [103] Cesare, in Egitto, e con la molteplice operosità del velocissimo ingegno ordinava quella famosa spedizione scientifica, onde ancora il suo nome è collegato al rifiorire degli studi orientali. Se l'armata del Brueys vinceva ad Aboukir, com'egli alle Piramidi e al monte Tabor, qual mutamento nel mondo! Segno che l'occasione era passata anche laggiù, lungo le foci del Nilo; e l'ammiraglio non ebbe, come il generale, la virtù di afferrarla.

Perduto il buon punto sul mare, tornava inutile, o quasi, proseguir l'impresa per terra. Risoluto il ritorno dopo le tristi nuove del continente (e fu altra fortuna che l'ammiraglio nemico gli mandasse, quasi a scherno, i pubblici fogli), trafugatosi per prodigio alla crociera inglese, giunto inaspettato a Parigi, fatto il colpo del 18 brumale contro l'Assemblea dei Cinquecento, non più servitore ma arbitro e console, lascia ai due colleghi del triumvirato il governo, e con arditezza di concepimento non altrimenti superata che dalla celerità dell'atto, si difila dalle Alpi a capo di sessantamila combattenti, piomba su Milano, si volge su Marengo, e in un colpo fulmineo restaura le sorti della guerra. A quel colpo l'Italia inferiore, come la superiore, si costituisce tutta in repubbliche. Troppe, e fu errore, ond'egli pure partecipò; scusabile, nondimeno, poichè non era stabilmente il padrone. Quando lo [104] fu, come primo console, poi come imperatore, non vide opportuno nè maturo il consiglio di uno Stato solo dalle Alpi alla Sicilia; aspettava un'altra occasione, la preparava: frattanto l'Italia dava a lui ben più di duecentomila spoltroniti, per le sue guerre d'Austria, di Germania e di Russia. E questa Italia mostrò di sentire tutta la grandezza dell'eroe, che in Francia non aveva destato estri di poeti inneggianti, nè meditazioni di cospiranti intelletti. Il Genio del Cristianesimo e il Concordato con Roma furono due opere affini; ma i loro autori non s'intesero, e il visconte di Chateaubriand, ingegno e stile mirabilmente adatto a magnificare, rimase malcontento, si trasse in disparte. Quanto alla signora di Stael, la dotta Corinna non diede altro all'Impero se non un libro avverso, l'Allemagne, glorificazione del genio d'un popolo nemico. Ed egli, che amava i vasti concepimenti dell'epica, vedendo già un altro Omero in quello smilzo Ossian del Macpherson, rimpolpato e rimpannucciato dall'arte del Cesarotti, egli che amava i forti contrasti della tragedia e volentieri avrebbe fatto principe dell'Impero il Corneille, se l'autore del Cinna si fosse degnato di nascere un secolo e mezzo più tardi, non ebbe un grande artista della parola che celebrasse le sue grandi imprese e i suoi vasti disegni. Il suo prosatore Fontanes tesseva [105] discorsi accademicamente laudatorii, ma gli guastava i concetti universitarii, per vantarsene poscia ai ritornati Borboni. Più fortunato di qua dalle Alpi, ebbe dal Monti il Prometeo e il Bardo della Selva Nera, classiche e romantiche costruzioni di un ingegno poderoso, ma non condotte a termine; e forse avrebbe meritato assai più di rimanere in tronco la senile Pronea tra le stanche mani del traduttore e ricreatore di Ossian. Abbondavano, è vero, da noi le cantate cortigiane; ma non fu di cortigiano il panegirico di Pietro Giordani, o fu di tale che intese nel potentissimo uomo l'altissimo spirito, e perchè lo intese, e come lo intese, non dubitò di esaltarlo. Ugo Foscolo volle e non volle; sentiva il grand'uomo, ma ricordava Campoformio: e chi, riconducendosi col pensiero a quel tempo e ai giudizi d'allora, vorrebbe dargliene biasimo? Serviva intanto colla spada; restò in forse colla penna; ad ogni modo, irrigidendo davanti al re dei re i nervi della sua prosa, solo assai tardi uscì nelle mal celate ostilità dell'Ajace. Taccio dei minori, che il favore del trono accomunava allora, ed anche preponeva ai maggiori, come il Paradisi e il Lamberti. Se gl'ingegni italiani non fecero di più, pensiamo che si dolevano non avesse fatto anch'egli di più per la fortuna d'Italia, dond'era così lietamente incominciata la sua.

[106]

II.

Poteva? Non così presto, certamente, come avrebbe voluto. Gli fu mestieri crescere in autorità, ed anche volgersi ad altro, legato egli stesso al carro della sua grandezza; uomo e simbolo ad un tempo, uomo nella personale ambizione, simbolo della rivoluzione in lui espressa e non del tutto soffocata sotto l'ermellino imperiale; costretto a seguire il destino, che lo lasciò vincer molto, senza concedergli interamente i frutti e gli arbitrii della vittoria. Così un ghiacciaio si avanza, prepotente nel suo volume, e con apparenza di onnipotente nella enormità del suo peso; ma stanno sott'esso le spine montuose e le insenature profonde che governano inavvertite i suoi moti. Pensate ancora ch'ebbe triste la vita, nella miseria del cominciare, nella difficoltà del giungere, nella necessità di vincer sempre, non riposando mai la fortuna; tra tanti sforzi d'ingegno e di volontà solo avendo un istante degno di sè, sulle rive del Niemen, in quella mirabil visione di potenza universale, ahimè spartita con un interlocutore non capace d'intenderla. Per tutto l'altro, infelice; infelice nelle prime nozze, quantunque abbia voluto concedere a sè come altrui l'illusione del contrario; [107] infelice nelle nuove, e più nella facilità con che gli fu consentito di scioglier le antiche; infelice nella famiglia, tutta ambizioni ed appetiti insaziabili; infelice nei cooperatori, colmi di benefizi ed ingrati, onde la più felice sua nomina parrà ancora quella che non fece, di Pietro Corneille principe dell'Impero. E questa figura, epica nel colmo della potenza, divien tragica nell'eccesso della sventura. È un Prometeo, che non avrà rapita alla vôlta del cielo, ma bene ha potuto assicurare agli uomini la scintilla delle libertà civili; un Prometeo a cui non è mancata la rupe, Sant'Elena, nè l'avvoltoio, Hudson Lowe. Tale l'ha inteso il popolo, che raro s'inganna; il popolo, che ingrandisce qualche volta le immagini, ma solo per renderle a sè stesso più chiare. Così crebbe nelle fantasie popolari l'immagine di Carlomagno; il quale fu tanto grande per ciò ch'egli fece, più grande per ciò che disegnava di fare, grandissimo poi per il sogno che aveva ardito sognare. E non paia fuor di luogo il paragone, se tra due imperi quasi mondiali, eretti appena e sfasciati, si è aggruppata come intorno a due poli magnetici tutta la poesia della leggenda europea. Men fortunato Napoleone, apparso in tempi di luce così meridiana, che la leggenda, amica delle brume, non poteva più fiorire ed espandersi; e a lui s'imputarono tutte le cose che [108] non aveva potute, come se non le avesse volute; laddove a Carlomagno non si fe' colpa di ciò che il suo impero aveva di caduco e il suo disegno di errato. È storia che vinti in tante guerre i Sassoni, gli Avari, i Turingi, gli Slavi, i Danesi e i Longobardi, padrone di tanta parte del mondo conosciuto, senz'altro competitore di gloria che il lontano signore di Bagdad, tremasse di sgomento al veder giungere una scorreria di pirati Normanni alle rive della Gallia Narbonese. Pianse, il potente imperatore; e ne aveva ben d'onde, per l'opera sua minacciata. I padroni del mare hanno sempre fatto piangere i signori della terra.

Ma perchè nella compiuta maestà dell'edifizio si mostra la crepa? Forse ha errato l'artefice, e nell'error suo sta la ragione della caduta? O non c'è piuttosto una forza superiore agli uomini ed alle loro faticose costruzioni? Di rado la vogliamo riconoscere, procedendo con cieca logica nelle nostre deduzioni sistematiche. Ma quando ci siamo spinti troppo innanzi, intravvediamo qualche volta il pauroso abisso, e in quell'abisso un disegno più largo, che comprende i nostri e li confonde, una volontà più grande, tanto più grande quanto più oscura, che soverchia la nostra e l'annienta. Nè giova essere stati al posto del sole, e nella sua dignità. Anch'egli, l'astro maggiore, centro del nostro sistema planetario, [109] che ci fa palpitar d'amore e tremare di reverenza, obbedisce ad una forza più lontana, attratto, come un povero pianeta, nelle vicissitudini ignorate di un sistema più vasto. E allora s'intende, confusamente s'intende quel che tanto dispiace alla nostra superbia, quello che tanto volentieri si dimentica dalla nostra iattanza.

Pure, mai nato di donna fu più grande e in tal condizione di smisurata potenza. Alessandro, forse, Annibale e Cesare, furono più eccelsi capitani di lui, sulla cui strategia, sulla cui tattica, cercando in che veramente consistessero, e se obbedissero a costanti principii, si disputa ancora. Ma di quei tre, il primo nacque padrone, gli altri due cominciarono legittimi adoperatori di forze patrie. Non così l'uomo che tornava all'ozio impotente della vita privata dopo la più avventurosa delle sue guerre, e doveva chiedere il segreto della fortuna ai rischi del 18 brumale. Console e imperatore, ebbe ingegno e volontà di far tutto, nella guerra e nella pace; e tutto han cominciato da allora a negargli, con critica minuta, arcigna, implacabile, l'ingegno militare e il valor personale, il cuore ed il senno, la magnanimità, la prudenza. Le passioni, accese lui vivo, erano scusabili ancora; meno s'intendono, lui morto, divampanti nei posteri. Onestissimi giudici ne han fatto un mostro, tale da infamare non solamente [110] sè stesso, ma il quarto di secolo che lo ha tollerato acclamandolo. Altri che in lui videro il pazzo, hanno perfino giudicata la sua mano di scritto, osservando la follìa dilagante nelle variazioni e nei mancamenti progressivi di quella firma, ch'egli era costretto a vergare sempre più frettoloso, diecine da prima, poi centinaia di volte in un giorno. E questi ha conquistata la sua fama negandogli il genio delle armi; e quegli ha saputo scusare la mostruosità del fenomeno umano ritrovandoci benignamente un caso di atavismo, una riapparizione fatale di venturieri italiani. Un grande! esclama ironico un altro; sì, perchè l'ha strombazzato tale dall'alto di dieci volumi un piccolo uomo. Ma ecco, il piccolo uomo è morto; e durano e si vanno moltiplicando gli studiosi di quella grandezza; duravano, mezzo ignorati, e tornano in luce i primi saggi del severo ingegno precoce, onde amorosi indagatori hanno ricavata la genesi degli eccelsi pensieri; nè manca d'altra parte, come per dare risalto a quella luce, l'ombra del Direttorio, uscita dal suo sepolcro, o dal limbo dei bambini, con le memorie del Barras, per contendergli invano i primi lauri di Tolone. Quella grandezza cresce, di mezzo agli stessi tentativi che si fanno per atterrarla. Se è una macchia, come pare a qualche coscienza sonnambula, l'Europa, [111] lady Macbeth novella, è impossente a cancellar quella macchia; le acque istesse dell'Oceano l'hanno fatta più vivida. Lui spento appena, si chiese: “fu vera gloria?„ Ai posteri furono anche lasciati gli elementi del giudizio, scolpiti in istrofe immortali. E i posteri possono risponder oggi, a tanta distanza da quel giorno, giudicando la lontana figura dallo spazio ch'ella occupa ancora. Quella figura campeggia immane, anche agli occhi del popolo che le fu più severo. Quanto a noi Italiani, cui già più volte han rimandato il nostro “Buonaparte„, saremmo felici di tenerlo, come un grand'uomo di più; il che in una galleria di duemilaseicento anni e di centoquattro generazioni non guasta. Se pensiamo al bene ed al male che ha fatto, tirando le somme e facendo le proporzioni, volgeremmo al panegirico. Con lui e per lui le idee giovani non perirono più; “uscite dalla tribuna francese, cementate dal sangue delle battaglie, decorate dai lauri della vittoria, salutate dalle acclamazioni dei popoli, sancite da trattati e alleanze di principi, rese familiari agli orecchi come alle labbra dei re„ non potevano più dare indietro; checchè facesse la reazione, imperversando da capo trent'anni, dovevano essere la fede, la religione, la coscienza dei popoli. Quest'êra memorabile si collegò alla persona di lui; ed egli [112] poteva ne' suoi ultimi giorni vantarsene. È giusto il vanto? domandano i più miti. Non fu egli inconsapevole autore di tanta fortuna, alla maniera degli antichi re, cui le storie del vecchio stile usavano ascrivere tutti gli eventi occorsi nei loro anni di regno? Anche questo si è tentato di provare, dicendo: l'Europa andava da un pezzo incontro alle novità; onde, nello stesso modo che le idee liberali potevano far cammino senza le violenze della rivoluzione francese, avrebbero anche potuto trionfare senza le ambizioni del Bonaparte. Ma quasi a sfatare in anticipazione il comodo ragionamento, esse andavano a naufragio con quelle istesse violenze, e parvero sepolte con le ambizioni di lui sotto il salice di Longwood. Aggiungete non potersi escludere dal problema storico il personaggio che ne è il dato principale e quasi tutto lo riempie. Noi non possiamo giurare che, messo fuori quel dato, sarebbero andate egualmente le cose; possiamo creder piuttosto che avrebbero preso un altro indirizzo, muovendo ad un altro e non più riparabil naufragio. Lui assente dall'Europa, non si riperdeva forse nel Novantanove il conquistato del Novantasette? Lui sparito dalla scena del mondo, non fu la Santa Alleanza? e non ne durarono gli effetti in Europa, quantunque in Francia la rivoluzione, forzatamente [113] attenuata, scoppiasse ancora due volte, nel Trenta e nel Quarantotto? Diciamo dunque, per comporre la lite, e senza sicurezza di dir tutto il vero, che la filosofia del Settecento avrebbe temperato il dispotismo senza distruggerlo, e tenuto l'individuo, la famiglia, la società, in quelle povere condizioni, in quelle disgraziate relazioni di cui sentivano la noia innanzi la promulgazione del codice Napoleonico. La gran rivoluzione francese, per contro, avrebbe instaurati in casa propria e per sempre i diritti dell'uomo? o non sarebbe caduta piuttosto sotto i colpi della coalizione europea? Notate che, spenti i Girondini, ella non aveva più un contrappeso salutare; ucciso il re, la regina, l'erede, i nobili a migliaia, uomini e donne, aveva offeso l'umanità, non riuscendo a conservarsi tra le viziose debolezze del Direttorio, se non per le gelosie, le discordie, le inerzie dei potentati d'Europa.

Comparve allora l'ingegno sovrano. Fu un audace, sicuramente; ma l'audace poteva essere un soldataccio, e fu un legislatore, quasi un profeta armato, per dirlo nel maraviglioso stile di messer Nicolò. Ah, perchè non si trattenne egli al titolo e all'ufficio di console, il guerriero legista? Ce ne dorremmo, sì, ma pensando ancora che egli, console a tempo, e non solo, accompagnato e contenuto da mediocri, non avrebbe fatto [114] nulla. Console unico, a vita, sarebbe stato con altro nome un imperatore. Ma forse la modestia del titolo poteva esser buon freno all'orgoglio; e la dignità sua poteva contentarsene, come al tempo loro se ne contentavano le civiche virtù di Valerio Publicola e di Quinzio Cincinnato. Ma non erriamo noi, rievocando quei nomi? e non trasformiamo un pochino nella nostra immaginazione gli uomini che li hanno portati? Erano uomini semplici, in semplici età; possidenti agricoltori, amavano i loro quattro jugeri di terra; si sarebbe fatto poco cammino con tali consoli e dittatori, che volevano essere ogni sera di ritorno al focolare domestico. Felici gli Stati che possono contentarsi di tali uomini e commetter loro le proprie sorti. Ma se ne sarebbe contentata la Francia moderna? Non se ne contentò l'istessa Roma antica, che con altri uomini e più vaste ambizioni domò Cartagine, aperse al suo pensiero, alle sue leggi, la Spagna, la Grecia, la Siria, l'Egitto, le Gallie e le terre settentrionali dall'Istro alla Mosa. E si fosse pur contentata la Francia; sarebbe stata quieta l'Europa monarchica, l'Europa dispotica, con sotto gli occhi uno stato senza re? Non gliene avrebbero imposto uno, da Coblenza o da Vienna, da Londra o da Pietroburgo, per cessare il mal esempio, tanto più pericoloso quanto era più nuovo? [115] Dunque?... Dunque, storicamente fatale il despota della libertà, che fu il rinnovatore della carta e del diritto d'Europa, il turbatore di tutta la vecchia compagine d'interessi, di privilegi e di pregiudizi, tessuta al finire del Medio Evo per danno universale. Che se, infrenatagli l'ambizione, quell'uomo portò la pena del troppo che aveva voluto essere, noi non dovremo credere per ciò che senza quella sua ambizione si sarebbe ottenuto il meglio. Bene il mondo credette di respirare, quando egli cadde; e prime respiraron le madri. Bellaque matribus detestata: è verissimo. Ma come respirassimo noi Italiani, stimandoci tanto felici di quella caduta, lo seppe il più manifestamente felice di tutti, Federigo Confalonieri, sepolto quindici anni nelle segrete dello Spielberg, e non trattone fuori se non per languire undici anni ancora, fantasma di sè stesso, condannato a morire esule sconsolato dalla terra dei padri.

III.

Tutto bene, adunque? No, non ho detto questo, non voglio dir questo. Non si rimescola il mondo, senza commettere errori; e non tutti i giorni della sua vita terrena quella grande anima ebbe presente la misura prescritta alle umane [116] ambizioni. Il colosso aveva il piede di creta; ma era un colosso, e solo poichè fu caduto, prosteso a terra, i pigmei poterono dalla lunghezza misurata argomentarne l'altezza. È anche giustizia il riconoscere com'egli fosse trascinato di continuo alla guerra, e dalla guerra continua istigato alle crescenti ambizioni. N'è un cenno evidente in ciò ch'egli scriveva al ministro di Francia a Londra, poichè l'Inghilterra ebbe rotta la pace d'Amiens, che fu il mal seme della gente Europea: “l'Inghilterra mi obbligherà a conquistare l'Europa. Il primo Console non ha che trentatrè anni, e non ha distrutto ancor altro che stati di second'ordine; chi sa quanto tempo gli occorrerà per risuscitare l'impero d'Occidente?„ Eccovi Carlomagno, col suo tentativo di rinnovare la potenza d'Augusto: e franca la spesa di vedere in che differissero le due forme del tentativo, come si diportassero rispetto a quella Roma ch'era stata capo dell'Impero, e che Costantino aveva, se non donata, lasciata prendere al Papa, secondo la curiosa espressione di Giuseppe De Maistre. Carlomagno v'andò a cinger corona: era un credente; al tempo suo non si discuteva il diritto temporale dei Papi, non bene uscito netto dalle pretensioni di Bisanzio: se ne tornò, bastandogli d'essere stato il salvatore dei Papi, contro Longobardi e Greci, in vario grado [117] scismatici. Napoleone certamente sognò un'altra cosa, poichè in materia di religione pensava altrimenti. L'autore del Concordato, il restauratore del culto cattolico in Francia, non era un ateo, ma si ricusava tuttavia alla dogmatica del Cattolicismo; in quella sua specie d'incredulità razionale vedeva anzi un benefizio pei popoli, una guarentigia di tolleranza per tutte le sètte, non essendo egli dominato da alcuna. E l'uomo che a Sant'Elena leggeva nel Vangelo il discorso della Montagna, confessandosi “rapito dalla purezza, dalla sublimità, dalla bellezza di quella morale„, dopo aver detto: “tutto proclama l'esistenza d'un Dio„, soggiungeva ancora: “ma tutte le religioni sono evidentemente figliuole degli uomini„. E nondimeno, giunto al consolato, s'affrettava a ristabilire quella dei padri, che era per lui “l'appoggio della sana morale, dei veri principii, dei buoni costumi„. Un altro argomento gli soccorreva, in materia di religioni: “L'inquietudine degli uomini è tale, che lor bisogna il vago, il maraviglioso, offerto da esse„. E qualcuno avendo osato dirgli che sarebbe potuto finire devoto, “no, rispondeva, e me ne duole, perchè sarebbe un grande conforto.... Il sentimento religioso è così consolante, che il possederlo è un benefizio celeste. Di quale aiuto non mi sarebbe egli qui? Che potere avrebbero più [118] uomini e cose su me, se, accettando da Dio i miei rovesci, i miei dolori, ne attendessi ricompensa in una vita futura?„

Qui si disegna già l'uomo che fra cinque anni morente accoglierà i conforti d'una religione positiva. Chi lo ha visto così sincero, intenderà come abbiano liberamente fruttificato quei germi nella solitudine dei colloqui con Dio. Ma nell'ordine politico, ai giorni della potenza suprema, abbiamo in Napoleone un filosofo alla maniera del Voltaire. Fu certo un mancamento, non aver visto prima il nodo per cui si collegano, distinguendosi, religione e politica, il regno dei cieli e il regno del mondo. Dante lo aveva trovato, nella virilità dell'ingegno suo, senza debolezze come senza ipocrisie, da uomo moderno più ancora che da uomo medievale. Ma io riconoscerò a Sant'Elena la sincerità di Napoleone, che non dubitò di mostrarsi ai posteri qual era stato davvero, Carlomagno del secolo XIX, ben diverso da quello del secolo VIII. Il suo lavoro, dopo tutto, mirava all'impero d'Occidente, attraverso la unità dell'Italia, passando sulle rovine della potestà temporale dei Papi. Al Pontefice rioffriva Avignone, toltogli col trattato di Tolentino. Appena gli nacque il figliuolo, lo stesso pensiero gli suggeriva di chiamarlo “re di Roma„, quasi complemento a quel titolo di “re d'Italia„ ch'egli stesso riteneva [119] da cinque anni, dichiarando di non volerlo serbare per sè, poichè meditava un regno italico indipendente, che non poteva essere quello ristretto di Lombardia con la capitale a Milano. Ma quel più largo disegno andò soggetto alle vicende della potenza sua, vicende di grado, di qualità, di opportunità. Sotto il generale del Direttorio, al caldo delle vittorie sue, si erano formate parecchie repubbliche, la Ligure, la Piemontese, la Cisalpina, la Romana, la Partenopea: sotto il primo Console, i fasci un po' sparsi incominciavano a stringersi: sotto l'imperatore dei Francesi (2 dicembre 1804) e re d'Italia (16 maggio 1805); per quasi spontanea domanda del doge di Genova, la Liguria “primo teatro delle sue vittorie„ era annessa all'Impero, col Piemonte, con Parma e Piacenza, unendosi tosto Piombino e Lucca in ducato per la sorella Elisa. Il generale del Direttorio aveva dato all'Austria la Venezia, con Istria e Dalmazia, per ripigliarle imperatore, dopo Austerlitz, nel trattato di Presburgo (26 dicembre 1805); e subito cacciati i Borboni, Napoli e Sicilia eran dati in reame a suo fratello Giuseppe, mentre Elisa era innalzata granduchessa d'Etruria, e Paolina creata duchessa di Guastalla. Strana mobilità di propositi, a cui s'aggiunse il trapasso di Napoli al cognato Murat: ma di questi mutamenti, a tutta prima indispensabili, [120] come la cessione del Veneto all'Austria col trattato di Campoformio, e la ripresa del dono nel trattato di Presburgo, dopo le vittorie di Austerlitz, ha dato lume egli stesso nelle Memorie, dettate al maresciallo Bertrand. “Dacchè la prima volta apparii in quelle contrade, sempre ebbi in pensiero di creare indipendente e libera la nazione italiana. Le annessioni di varie parti della penisola all'Impero non erano se non temporanee; miravano solo a rompere le barriere che separavano i popoli, ad accelerare la loro educazione, per operarne poi la fusione. Io avrei reso l'indipendenza e la libertà a quasi intiera l'Italia.„

Il “quasi intiera„ apparisce sacrifizio ad interessi politici, o concessione graziosa alla patria dell'amanuense, poichè veramente non s'intende come non potesse far opera compiuta, essendo egli padrone di tutto: o forse escludeva Nizza e la Corsica, considerate come avamposti di Tolone e Marsiglia. Dopo tutto, a tale distanza dai fatti, e senz'altra via d'induzione, è ozioso almanaccare. Resta che da principio la penisola rimase nell'equilibrio instabile d'una federazione di stati, con persone della sua famiglia, imperanti da Milano a Napoli, lui re d'Italia, e un re di Roma aspettato. Quella trovata del “re di Roma„ fa intender meglio l'abbozzo della politica [121] sua. Che forse pensò egli un'Italia e un Impero romano, sotto la tutela della Francia, e col centro fuori d'Italia? Per un grand'uomo imbevuto di antichità, questa tesi invertita non pare ammissibile. Sarebbe stata, se mai, una combinazione provvisoria, fin ch'egli fosse vissuto. Lui morto, chi ereditava l'impero? Non già l'imperator dei Francesi, ma il re di Roma, per cui fatto e nome l'impero diventava Romano. Così per via s'acconciavan le some; in due o tre generazioni, cancellata la vernice straniera, dato maggior lustro all'origine italiana dei Bonaparte, il colpo era fatto. Così egli avrebbe servita l'Italia, meglio di Carlomagno, ch'era un Franco, e aveva gradito d'incoronarsi a Roma per regnar poi da Acquisgrana; laddove egli s'era incoronato a Parigi, nella presenza del Papa, per grande atto decorativo, ma il figliuol suo procedeva virtualmente da Roma, e con lui si sarebbe per corso naturale di cose sollevata di tanto la condizione d'Italia. Ah, il condottiero medievale non aveva fatto mica un mal sogno!

IV.

E non io lo faccio per lui, nè gl'impresto (che sarebbe irriverente) un pensier del mio capo. Sentite ciò ch'egli stesso diceva nel 1812: “Non [122] crediate che io voglia innovar nulla in religione. Non sono un Abdallah Menou (alludeva, così parlando, ad un suo generale in Egitto, che s'era fatto musulmano per riuscir meglio accetto agli Arabi, come successore del Kléber); sarò un Costantino, non docile temporalmente, nè scismatico nella fede. Se tengo Roma per mio figlio, darò Nostra Donna al Papa; ma Parigi sarà levato così alto nella ammirazione degli uomini, che la sua cattedrale diverrà naturalmente quella del mondo cattolico. Questa è la ragione segreta, non la contradizione di ciò che ho fatto; è il Concordato, ingrandito come l'Impero. Ma per aver così piena ragione dalla Chiesa, occorre aver vinto ancor più nel cospetto degli uomini.„

Sogno, lo ripeto, ma grande, e d'un Italiano che sentendosi tale non dubitò di confessarlo ad ascoltatori Francesi, nei solenni colloquii di Longwood; ove, parlando de' suoi primi trionfi, ne esponeva le ragioni in tal forma: “L'istessa mia origine straniera, contro la quale si sono scalmanati in Francia, mi fu di gran prezzo, poichè essa mi fece considerar cittadino da tutti gl'Italiani, agevolando di molto i miei successi in Italia. I quali, come furono ottenuti, indussero a cercar da per tutto le circostanze della nostra famiglia, caduta nell'oscurità da gran tempo. A saputa di tutti gl'Italiani, essa aveva [123] sostenuta una gran parte tra loro; ridivenne ai loro occhi, al loro sentire, una famiglia italiana; tanto che, quando si trattò di sposare la mia sorella Paolina al principe Borghese, fu una voce sola, a Roma e in Toscana, in quella famiglia e tra le sue alleate: sta bene, è cosa fatta tra noi, è una delle nostre casate. Più tardi, quando si trattò della mia incoronazione a Parigi, per mano del Papa, quest'atto, importantissimo come gli eventi mostrarono, incontrò gravi intoppi. Il partito austriaco, nel Conclave, si era risolutamente opposto; il partito italiano la vinse, aggiungendo alle ragioni politiche questa piccola considerazione d'amor proprio nazionale: “dopo tutto è una famiglia italiana, questa che noi imponiamo ai Barbari, per governarli; saremo così vendicati dei Galli...„ Dubito che ciò sia stato detto o pensato in Conclave; ne dubito soprattutto per l'accenno ai Barbari, che da Carlomagno in poi non eran più tali, e alla vendetta sui Galli, che era stata fatta, se mai, diciotto secoli innanzi, dalle armi di Cesare; ma è importante per me che in tal guisa abbia parlato della sua italianità Napoleone a Sant'Elena, nella grande ora della toilette pour la postérité.

Aver fatto grandi cose è bello, sovranamente bello, e accade a pochi. Ma i pochi che le han fatte, sono anche più famosi per averne pensate [124] di maggiori. A cogliere il segno lontano, si vuol porre più alta la mira; e spesso vien meno l'arco, o la corda si spezza. Noi, gloriandoci di quell'Italiano, gli siam grati di aver fatto per la sua patria d'origine un sogno maraviglioso. Non ebbe tempo a mutarcelo in realtà, nè a consolidare la sua stessa fortuna. Ercole, combattendo con l'idra dalle sette teste sempre rinascenti, non venne a capo dell'impresa se non recidendole tutte d'un colpo. Ma quello era un semidio, e il tempo dei semidei è passato; Napoleone fu costretto a colpirle una dopo l'altra, e rinascevano tutte. A noi sia debito ricordare com'egli ci lasciasse il benefizio inenarrabile d'uno stimolo virile all'inerzia lunga e pericolosa, d'un mutamento profondo nella nostra compagine politica, onde furon troncate le radici alle vecchie antipatie regionali, onde un lievito possente a nuove e non più frenabili sollevazioni del sentimento patrio. “Ci sono in Italia duecentomila poltroni: ma io li impiegherò.„ E furono assai più di quel numero i valorosi che trasse d'Italia a tante guerre; la sua famosa ritirata, non dal nemico vinto, ma da un inverno invincibile, fu coperta dai nostri soldati.

Morian per le Rutene

Squallide piagge, ahi d'altra morte degni

Gl'Itali prodi....

[125] e sia pure, come il Leopardi cantò; ma ancora ne rimasero tanti da fare tre rivoluzioni sulla terra nostra, da esser maestri alla generazione che l'ha composta in un regno. Ond'io posso applicare a noi ciò ch'egli diceva per tutti: “Qual gioventù lascio io dopo di me! Ed è opera mia. Essa mi vendicherà abbastanza, con tutto quello che saprà volere. Veduta l'opera, converrà bene render giustizia all'artefice.„ Il quale, non lo dimentichiamo, fu colpito dal fato nella pienezza degli anni virili. Dapprima confinato all'Elba, fra le tre culle della sua gente, San Miniato, Sarzana ed Aiaccio, tacque, sperando sempre di fare; poi quasi fuori del mondo, sopra uno scoglio dell'Oceano, come un eroe antico, disperando di fare, ha detto il segreto dell'anima sua, epico nell'opera, tragico nella contemplazione che ne ha fatta, rivivendola intiera. E si assiste a quella evocazione, come alla recita di un dramma, con tutte le ansie dell'affetto commosso, con tutti i dubbi della mente turbata, sapendo la catastrofe, e pure desiderando, quasi sperando il miracolo ch'ella riesca diversa. E là non più un uomo; è tutto un simbolo; il simbolo della nuova Europa che sorge, combatte e cade, lasciando ferito a morte il nemico. Dopo di lui, è bene l'Europa contemporanea; il passato può dar guizzi di serpe troncato; son guizzi d'agonia, mentre [126] tutte le cose vitali rinascono; la patria nostra, ad esempio.... Ma io non farò un inno, qui. So bene che tutto non è andato secondo le sapienti preparazioni e le giuste speranze dei migliori; che i pericoli non son tutti stornati da noi, se ancora ne durano in noi; che bisogna pensare, provvedere, meritare con forza e con senno una grande fortuna. Sia dunque l'inno riserbato alla Italia futura, se la dovremo davvero a noi stessi, savia, operosa, concorde, soprattutto concorde; e Dante e il Machiavello, grandi anime fiorentine, l'assistano.

V.

È a Milano, nell'atrio di Brera, un Napoleone di bronzo, colossale; non lui, veramente, ma il suo genio, come l'ha ideato Antonio Canova. Vedendolo, senza quegli indumenti ond'è caratteristica l'immagine dell'Imperatore, intendo la verità profonda di ciò che l'artista di Possagno diceva spesso e volentieri intorno alla significazione del nudo nell'arte. Così, fatto genio, Napoleone è il capolavoro del Canova. Altri lodi Ebe, e Psiche e le Grazie abbracciate; altri si compiaccia di Paolina giacente, o ammiri papa Rezzonico orante tra i suoi leoni pensosi. Nell'atrio di Brera penso io, davanti al colosso. Foggiato per andare all'aperto, [127] con la vittoria alata nel cavo della mano, egli muove allo stretto, là dentro, e si pensa che in men di due passi avrà finito il suo corso. Perchè là dentro? All'aperto non lo vollero i potenti, che approfittavano della sventura sua; e fu ancora lodevol pudore che lo lasciassero intatto, come fu buon consiglio negli ultimi successori concederlo alla ammirazione sminuita dei tempi nuovi confinato in quel chiuso, che è pur sempre un tempio della scienza e dell'arte. E va, senza muoversi dal suo piedestallo di granito, fremente nella sua grandezza, che ha ancora ed avrà sempre alcun che di segreto. E più torreggia allo stretto, e più sembra che cammini, mentre a noi par di comprendere tutto ciò ch'egli non fu, avendo la potenza di essere, e intorno a lui, irta di ostacoli, serrandosi la congiura del mondo.

Veduto quello, muovo a cercarne il riscontro, in un altro cortile, di là dal Naviglio, ove si raccoglievano i Senatori di quello che Ugo Foscolo chiamò “il bello italo regno„. Non più un genio, là dentro, ma un uomo, un cavaliere salutante; in atto di muoversi anch'egli, caracollando, e anch'egli rinchiuso! Ragioni d'ordine vario han fatti prigionieri i due bronzi, non volendoli in piazza; dove infine, piacendo meno alle moltitudini, riuscirebbero meno eloquenti. [128] Lampi di genio inconsapevole; ne siano perdonate (quasi direi benedette) le cause, per il gaudio estetico che destano in noi. Vedo quell'altro, e penso.... penso una grande giornata e un indimenticabil servizio. Quel cavaliere che saluta, levandosi sul cavallo di mezzo al fogliame d'una aiuola fiorita, un po' sfinge nella immobilità dello sguardo, ma gentiluomo nel sorriso e nel gesto cortese, si associa nel mio pensiero al rifiorimento di una leggenda di gloria che Roma ha cantata nei secoli. E rammentando quante ombre circondino certe figure storiche, sento anche meglio la solenne grandezza onde sono privilegiate. Nell'atrio del Senato vedo la continuazione ideale dell'atrio di Brera. Solferino procede da Sant'Elena; il discendente degli antichi condottieri italiani (piace a me pure di chiamarlo così) è stato il liberatore della patria schiava, per aver dato il primo crollo, e come vigoroso! alle mura istesse del suo carcere quindici volte secolare; onde il mio panegirico, se parrà tale, è sentenza di storia. Infine, odio la storia che non illumina i fatti con luce viva d'amore.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.