The Project Gutenberg eBook of Paolo Pelliccioni, Volume 2 (of 2)

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Title: Paolo Pelliccioni, Volume 2 (of 2)

Author: Francesco Domenico Guerrazzi

Release date: April 11, 2013 [eBook #42503]

Language: Italian

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Copertina

PAOLO PELLICCIONI

RACCONTO STORICO

DI

F. D. GUERRAZZI.

VOLUME SECONDO.

MILANO,

CASA EDITRICE ITALIANA DI M. GUIGONI.

Corso di Porta Nuova, N. 5.

1864.


Dritti di traduzione e riproduzione riservati.

NB. Tutte le copie non munite della firma dell'editore verranno considerate come contraffatte.

Tip. Guigoni.


INDICE

CAPITOLO X. Il re Guercino Pag. 5
» XI. La Marchesa dopo pranzo, e la Marchesa innanzi pranzo 71
» XII. La sorella Maria 131

[5]

PAOLO PELLICCIONI.


CAPITOLO X.
Il re Guercino.

Paolo non si poteva volgere, e rivolgere fra tante rose, senza che da qualche pruno rimanesse punto; e sopratutto gli accese dentro (dove non so) un cotal senso di bruciore certa singolarissima fanciulla. Forse contribuì a mettergliela in grazia l'aspetto non pure diverso, ma contrario a quello di Violante: imperciocchè l'occhio nostro vagheggi alternare dal bianco al nero, donde avviene, che lo spirito tenendogli dietro si offra come lavorato a scacchi; e dacchè la Violante ornavano le chiome nere, ora piacquero a Paolo i capelli [6] biondi di Tuda; pallida quella, questa candidissima e tinta in lieve vermiglio come pesca colorata appena dal sole; la spagnuola grave, la italiana leggera; l'una teneva gli occhi velati sotto le lunghe palpebre, l'altra dagli occhi tagliati a mandorla, e posti così in linea obliqua a mo' delle caprette, avventava facelle, anzi ad ora ad ora stringeva i nepitelli quasi per raccogliere quanto più potesse la virtù del fuoco, che di un tratto sbalestrava in giro su quanti le facevano intorno corona. Io non dirò, che passeggiando su pei prati ella non avrebbe curvato neanco i fiori, no certo, imperciocchè io creda che non piegato, ma tronco ella avrebbe i fiori e le piante se mai avveniva che ci caminasse sopra, pure moveva quei suoi brevi piedi presto presto, sicchè sembrava li tenesse sempre fermi, e i lembi delle vesti senza requie ventilati dietro scoppiettavano proprio nel modo, che i poeti antichi finsero dell'Iride quando si affrettava pei cieli a portare il messaggio degli Dei. — Ma della cara creatura divino sopra modo il sorriso; io dirò troppo e male, ma [7] dai suoi labbri scappava fuora un perpetuo nembo di amorini, come dai fiori prorompe l'effluvio odoroso. — Farfalla tra le rose, e i giovani intorno a gara smanianti di agguantarla; ella poi, arte fosse o natura, nel fuggire non batteva lontano le ale, che così avrebbe tolto la speranza, bensì con vago errore, come appunto costuma la farfalla, da un cespo volava sopra un altro cespo, e lì posata pareva sfidasse i suoi persecutori.

Più veemente degli altri Paolo non le dava posa, e lui, come accade, più che gli altri fuggiva; forse era istinto; fatto sta, che quantunque gli oggetti e le sensazioni, così copiosamente mutabili, s'incalzassero nell'animo di lei, da parere più che altro un perpetuo caleidoscopio, — quantunque tutto passasse per la sua mente serena come sommolo di brezza mattutina sul lago, che non turba, ma increspa le acque tanto, che brillantate dal sole, pare che esse rabbrividiscano di piacere, ella nondimanco ogni cosa avvertiva, di tutto pigliava nota, e al bisogno l'agile memoria glielo riponeva davanti lo spirito.

[8] E più che degli altri ella si talentava farne strazio co' bottoni senza occhielli; un dì che ei le comparve dinanzi più azzimato del consueto con le calze di raso bianco squartate di velluto nero, e mantelletto pur nero foderato di seta bianca, ella ridendo gli disse, che le pareva il babbo del Miserere; il giorno dopo ei si vestì di velluto e seta colore di fuoco, nè gli toccò miglior ventura, perchè ella pronta lo proverbiava così: Cavaliere, voi mi parete l'emblema di Francesco I re di Francia, che faceva la Salamandra tra le fiamme col motto: — ella arde sempre, e non abbrucia mai. — L'uomo aitante che regge il feroce cavallo ha virtù da conquidere il cuore delle fanciulle, e nè anco questo valse a Paolo, però che Tuda consideratolo un pezzo mentre maneggiava un bucefalo romano[1] ruppe in questa puntura: — non vi par nato proprio re dei butteri? — Quando abbigliato da capitano le si mostrò improvviso per armi, e per oro smagliante, ella ridendo come pazza lo prese pel braccio, e: — oh! bene, oh! stupendo, ella esclamò, se mai un dì mi sortiranno [9] i cieli all'onore di esservi moglie, noi gireremo il mondo per farci vedere, e voi sarete il capitan Cardone, io Isabella: — se lo sapeste potremmo provare il famoso duetto:

»De quien son estas tetiglias?

»Del capitan Cardon:

»Y la vida, y el corazon?

»Del capitan Cardon[2].

Qui sebbene io non mi vanti come Zaccaria Verner per grand maître d'amour, tuttavolta mi permetto ammonire le donzelle, che quando si sono tolte ad uccellare per siffatta guisa un uomo, guardinsi bene di lasciarsi prendere, perchè alla meno trista l'amante proveranno cacciatore, che quello che piglia, o pela o spella, e poi mette ad arrostire dentro lo spiedo.

Se fosse amore la passione, che spingeva Paolo verso Tuda, per me non saprei, [10] che chimico non fui mai, e non so se possa scomporsi amore: solo assicuro che questi dispetti arrovellandolo, vie più lo intabaccavano, come il poco vento accende, mentre il troppo spenge la fiamma. — A questo amore della specie dei rabbiosi si aggiungeva la cupidità (per ordinario mi affermano che fanno ottima lega insieme), però che non pochi lasciti degl'illustri antenati per causa di maritare donzelle venissero a riunirsi in lei figliuola unica: onde con la ricchezza stabile, la quale mercè i suoi frutti mantiene la comodità e lo splendore delle famiglie, Paolo sperava gli si aprisse una via, in fondo alla quale non gli si mostrassero più corda, tanaglie e ruota; ingrata vista per tutti, anco pel Pelliccioni: di vero, il Cartouche diceva essere un brutto quarto d'ora quello che passava tra carnefice e condannato, e vado sicuro che tutti quelli che ebbero a provarlo non mi smentiranno.

Paolo non era presuntuoso per modo da non comprendere, che il primo ostacolo nello adempimento dei suoi disegni gli veniva da Tuda; ma poi l'era abbastanza [11] da farsi sicuro di superarlo; e il suo specchio gli dava sempre ragione: nè in fin di conto la repugnanza della fanciulla poteva mettere in apprensione a cotesti tempi, che nelle famiglie ordinate col santo timore di Dio si usava dire: o saltare quella finestra o mangiare quella minestra; ovvero: maritarsi con cotesto uomo, o seppellirsi in convento: maggior pensiero davano i parenti della nobilissima casa Savelli, i quali si sarieno lasciati mettere in quattro pezzi, anzichè accettare per congiunto un uomo per lignaggio da meno di loro; e peggio poi, che non fosse al caso di sovvenirli di danaro, perchè tutti spiantati, ch'era un desío. Del padre di Tuda non si poteva far capitale alcuno perchè prodigo, e sebbene vecchio, nabissato negli amori volgari, e nei debiti: quanto al gioco, pareva binato con lui, però nè rispettabile nè rispettato; bene ostentava sopra la propria famiglia assoluta padronanza, e a sentirlo dire, i vecchi romani che avevano diritto di vendere i figliuoli sanguinolenti, e lo adoperavano, dirimpetto a lui non ci erano per nulla: perpetui gli ricorrevano sopra [12] la bocca i vanti: — il padrone sono io; e se non era io che ci metteva le mani non se ne sarebbe venuti mai a capo, e quando parlo io tutti hanno a chinare il capo, tutti, e abbiatelo per inteso. La sua consorte donna Clelia da prima gli dava su la voce, poi le bastò guardarlo aggrondata perchè ei si cacciasse la coda fra le gambe: ora non lo guardava nè manco, facendo dei suoi detti il conto medesimo del cigolío del vento che entrava pel buco della chiave nella stanza. Come se il caso ci si fosse messo a posta, su questo marchese Savello avevano balestrato il nome di Silla: e' par destino che quanto un dì fece piangere deva più tardi far ridere, per poi ricominciare il giro.

Donna Clelia universalmente celebravano arca di virtù: per me avrei voluto ammogliarmi piuttosto con la tramontana, che con lei, ma in vero ella era un impasto di buone e di ree qualità, con questa ragione, che le ree invecchiando diventarono pessime, e le buone si erano infortite. Amava la famiglia con tutti i nervi, ma più per superbia, che per altro, sopportando [13] con acerbo animo la presente decadenza, e disposta a fare di ogni erba fascio per restaurarla nello antico splendore; aveva tentato prima la via del risparmio per rimetterla in fiore, e tale sperando, e via via assottigliando si era ridotta agli ultimi termini della miseria; accortasi poi, che mentr'ella badava al fuscello, il consorte Silla faceva falò del pagliaio, e che per avarizia veniva ad invilirsi la clarissima casa, mise tutto il suo cuore in certe liti, che agitava da dieci anni, e nel procurare nozze splendide ai figliuoli; il suo naturale rissoso crebbe d'ira, e con la usanza continua dei forensi imparò in certo modo a regolare la contesa, e mettere ordine alla tenzone: dopo la superbia, la cupidità, e la smania di contrastare veniva la divozione; ma se meriti questo nome il credere alle streghe, ai folletti, e non in Dio, anzi non sapere che si fosse, non rammentarlo nè manco, giudicatelo voi. Temeva il Papa, come si teme il diavolo, perchè ha potenza di fare il male; e si asteneva di rammentare ambedue proprio per sospetto gli comparissero [14] davanti: presuntuosa, che Dio ve lo dica per me, sapeva ogni cosa, in tutto metteva il becco, era avvocata, medica, teologa, fattora in campagna, negoziatrice in città, nella conoscenza dell'arte araldica un portento; parlava copioso, e male, talora anco bene, eloquenza da legna verdi, dopo molto fumo un po' di fiamma: della sua curiosità non parlo, perchè la madre Eva trovando a possederne un grossissimo patrimonio, come donna imparziale, e perchè maggioraschi non costumavano allora, la lasciò pro indiviso a tutte le sue figliuole. Ma come ella ha da parlare, così si paleserà da sè, senza ch'io perda il fiato a sostenere la parte di Cicerone delle figure di cera; però non posso tacere che la povera donna aveva un gran martello nel cuore dubitando di potere riuscire mai a calafatare la barca sdruscita della casa Savella, imperciocchè il marito cercava il male per medicina. Tuda certo era provveduta d'avanzo, ma quando le ragazze non portano un gancio nella destra, e un tizzo acceso nella mancina (il che significa che dalla casa onde escono per andare a marito [15] esse razzolano quanto possono, e nella casa ov'entrano appiccano fuoco), il gancio nella diritta tengono sempre; e poi le sue nozze magnifiche, se pure le toccavano, non riuscivano di profitto alla casa; anzi all'opposto, scemandola dei legati dotali, le toglievano il credito, che sempre accompagna le famiglie in possesso di grandi sustanze, sia che le abbiano a rendere, ovvero a serbare. Circa a Marcantonio, anch'egli unico maschio, e colonna su cui si appoggiava tutta speranza e il gran nome Savelli, ci voleva un supremo sforzo di amore materno per isperare di cavarne costrutto; inane e sciapito come una zucca romana; egli era proprio nato sotto lo influsso della stella, che il Salvatore Rosa chiama asinina[3] e pare che a quei tempi remoti (e le male lingue perfidiano anco ai presenti) presiedesse alle nascite dei patrizi: checchè di ciò sia, se l'amore materno non le avesse posto un cuscino su gli occhi, donna Clelia [16] con ben altra ragione che il Saccenti, avrebbe potuto volgere al suo gentile portato i versi famosi:

»O figlio grande e grosso, e bue davvero,

»Che quindici anni fa ti misi al mondo.

Queste le pedine con le quali a Paolo toccava giocare la sua partita, e non erano belle; nè alcun se ne persuase meglio di lui; però si pose tosto l'animo in quiete, fermo in questo, che in casa Savelli, se non vi si entrava per via del Vaticano, altro verso non ci era; ma la chiamata del Papa si faceva attendere tanto ch'ei già si dava al disperato; che il Cardinale lo avesse posto nel dimenticatoio non si poteva supporre, imperciocchè egli si studiasse ogni dì comparirgli davanti e salutarlo, e l'altro gli sorridesse cortese come uomo che veda persona grata; che se egli si asteneva di rammentargli il fatto suo, ciò operava, non perchè si peritasse, bensì un poco per superbia, ed un poco per non iscapitare di reputazione. All'ultimo venne lo staffiere, gli recò il foglio, lo aperse palpitante, e quando lesse, che il [17] dì successivo il cardinale Alessandro lo avrebbe presentato al Papa, stette per rompere in pazzie, come saltare al palco, abbracciare lo staffiere, baciarlo, empirgli le tasche di monete, ed altre cotali, e pure (tanto esercitava impero sopra di sè) si contenne, e donato da gentiluomo lo staffiere, con molto sussiego lo accommiatò.


Dall'ultima volta che lo vedemmo, si direbbe, che non si fosse mutato; sempre ei tenevasi nè seduto, nè ritto alla estrema sponda del tavolino, con le braccia aperte e le mani ferme sopra lo spigolo di quello, con ambo i piedi tesi e puntati sul pavimento, il capo sempre chino, gli occhi sempre chiusi, senonchè il colore della carne appariva più acceso, nè per quanto sforzo ci adoperasse giungeva a padroneggiare il turbamento che lo agitava. Paolo pertanto, introdotto alla presenza del Papa, appena entrato piegò il ginocchio a terra, nè Sisto lo avvertiva; giunto al mezzo della sala da capo inchinavasi senza che se ne addasse il Pontefice; all'ultimo, [18] prosternatosi ai piedi, e curvo giù con la faccia al pavimento, glieli baciò!....

Gli baciò i piedi! Così costumava, e costumasi anco adesso nella Corte di Roma; dicono ponesse questo uso Adriano I; che levò dai tempi e dalle regioni dove il governo si definisce così: un solo, che squarta e scoia, e gli altri che si lasciano scoiare e squartare; di su superbia più che da demonii, di giù bassezza superiore a quella dei lumbrichi. — I Papi potranno a ragione chiamarsi rappresentanti dei Faraoni di Egitto, dei Cosroe di Persia, dei tiranni insomma di Babilonia, o di Ninive, di Cristo non già. Se Cristo tornasse al mondo starebbe lontano da Roma per tema lo crocifiggessero una seconda volta; difatti la prima, in croce ce lo inchiodarono i preti.

Nel sentirsi baciare i piedi Sisto si riscosse e aperti gli occhi accennò a Paolo si levasse; mentr'ei si raddrizzava, gli sguardi di costoro incontraronsi acerbi ed ostili; nè veruno pareva dal suo canto volesse essere primo ad abbassarli; ma Paolo considerando avere fatto prova di [19] coraggio sufficiente, nè tornargli conto sfidare il Papa mentre andava a sollecitare grazia da lui, gli declinò, e Sisto si compiacque aver vinto; se Paolo avesse tenuto sempre gli occhi dimessi ei non ci avrebbe avvertito, e se avvertito, reputato Paolo pusillanime e dappoco; ora però gli pareva averlo superato nella lotta degli occhi, nella quale talora si fa prova di maggiore prestanza, che non in quella delle braccia; nè s'ingannò; l'errore cadde in questo altro, ch'egli credè Paolo lo facesse per tema, ed invece lo mosse subdolo ingegno.

— Dunque, con voce aspra, e che pure s'ingegnava rendere blanda, siete voi quel desso, che si vanta sterminare dai nostri Stati i banditi?

— Beatissimo Padre, io non ho detto questo, bensì questo altro, i banditi essere una sozza e rea piaga d'Italia, impresa degna al pari di ogni altra attendere con ogni sforzo a guarirla; il cittadino da bene dovere porre in ciò opera, e consiglio; gloriosissimo vincere la prova, e non manco glorioso perderci la vita....

[20] — San Grisostomo Boccadoro non potria favellare di meglio. Adesso esponeteci bene e succinto che volete da noi? Volete essere capitano dei Micheletti? Volete che vi sieno sottoposti i bargelli di campagna e di città?

— Santità, sono cavaliere romano.

— Ma il buon cittadino non deve porre in opera ogni suo consiglio, e ogni sforzo per sterminare questa razza di vipere? Voi lo diceste pur dianzi....

— Ogni consiglio e ogni opera degna di cavaliere romano.

— Ch'è questo? Non basta, non ha da bastare l'onore di servire lo Stato? Non parvi a bastanza nobile il grado? Noi che possiamo tutto, non potremo per avventura nobilitarlo?

— Santità, sono cavaliere romano. —

Sisto, dubitando che coteste parole contenessero una puntura allo antico suo stato, aggrondò le sopracciglia in molto orribile maniera, e gli occhi suoi mandarono faville, ma Paolo che le aveva dette senza maligna intenzione non si accorse del turbine, onde il Papa fatta la prova e la riprova [21] del granchio preso, cesse il sospetto, ripigliando con accento benevolo:

— O sentiamo un po' di che vorreste voi essere creato capitano?

— Dei cavalleggeri.

— Ma di questi non è proprio ufficio perseguitare banditi.

— E loro si conferisce.

— Ma adesso lo tiene il signor Paolo Ghisliero nipote di Papa Pio V....

— E gli si leva.

— Voi siete spiccio, voi.

— Furono tardi Cesare ed Alessandro.

— Noi siamo ministri di un Dio di pace, e il paragone con questi eroi del paganesimo non corre.

— E non pertanto costretti alla guerra per la difesa del proprio patrimonio, e chi aspetta la guerra spesso la fa male, e sempre alla sprovvista. Chi assalisce in tempo, ho inteso dire, da cui se ne intende, che alla più trista la impatta; e poi le arti della pace hanno forse men pregio di quelle della guerra? E vostra Santità emulò la magnificenza antica con le cuntazioni di Fabio, o con gli ardori di Marcello? Vorrei [22] sapere un po' se Sisto regna da un secolo sopra la cattedra di San Pietro? —

O lode! chiunque sortì dalla natura orecchie, forza è che ti ceda; se il porfido sentisse, io penso che non si sarebbe perduta l'arte di lavorarlo; nè per mia opinione importa lo intelletto, o poco, dacchè anco gli enti che da noi si appellano irragionevoli si lascino pigliare dai suoni geniali: le stesse balene si sentono commovere dalle blandizie della musica, onde sollevano il capo fuori delle acque per intendere meglio; di che prevalendosi i pescatori le sfolgorano co' moschetti tra un occhio e l'altro e le ammazzano, ora io giudico i suoni partoriscano nelle bestie l'effetto della lode sopra gli uomini. Si conosceva espresso, che Sisto anco fisicamente si deliziava alla piaggeria di Paolo; vado convinto, che se fosse stato buio si sarebbe vista la pelle pontificia corruscare di getti fosforici come da quella dei gatti stropicciati sul groppone. — Però Sisto non era terreno da piantarci vigna, e delibati appena alquanti sorsi di laude, all'improvviso interrogò:

[23] — Orsù adesso sentiamo con quali argomenti voi vi augurate fare opera buona contro i banditi.

— Santità, io innanzi tratto supplico di non arrecarsi delle mie parole, e quando sonassero temerarie piaccia condonarle alla ignoranza.

— Dite franco, che ove non entra malizia, quivi non può essere offesa.

— Dunque se è lecito paragonare le cose grandissime con le piccole, anzi le sacre con le profane, io credo che quando possediamo fede salda, e proposito deliberato, la capacità venga col maestrato o con lo ufficio; però come sopra lo eletto papa scende lo Spirito Santo e lo spira a cose sempre divine, così sul preposto alla milizia scende dall'alto una forza, che gli schiara lo intelletto, e gl'ingagliardisce le mani.

— Tutto questo io lodo come ottimamente pensato, ma se da questi in fuori non avete altri moccoli, voi ne andrete a letto al buio, e da me non isperate nè uno scudo, nè un uomo.

— Vostra Santità mi darà uomini, e mi darà scudi.

[24] — Io? Alla prova.

— Alla prova: ecco sono tornati a nabissare il patrimonio di San Pietro in un groppo Sacripante, Battistella, il Piccolomini, il Conte di Ascoli, il prete Guercino...[4]

— Al corpo di Dio! urlò Sisto V trasformandosi in belva inferocita, pur troppo; finchè piaggiando la Spagna nimicava la Francia, tutti mi porgevano la mano a snidare questa infamia di banditi, onta dei governi, e gravezza dei popoli; adesso che, considerando io come se la Francia non viene in Italia a bilanciare la Spagna, di qui a tre anni anco lo Spirito Santo è forza che diventi a marcio dispetto spagnuolo, m'industrio tenermi bene edificato Enrico di Borbone, il quale, sebbene francese, e per giunta nato in Guascogna, mi pare marmo da scolpirci un re, ecco tutti mi danno addosso, i vecchi banditi mi aizzano contro, altri ne aggiungono, gli forniscono di armi e di danari: da ogni castello piovono vittovaglie nelle caverne, anzi le nobili donne con le gentilesche mani non aborrono apprestar loro manicaretti, e pasticci[5]. Che se questo fastidio [25] mi capitasse per la parte del Re cattolico, e dei suoi vicerè, che Dio tutti sprofondi giù nello inferno, sarebbe ostico ma non insopportabile; ora poi quelli che mi fanno più guerra sono principi italiani, sangue latino, che, dopo avere dominato tutto il mondo, adesso mutare servitù reputano signoria. Sì, viva Dio, sì gl'italiani principi non hanno core che loro basti ad altro, che ad ammazzarsi per mutare padrone: asini, ai quali, quando invece di barili si sentono carichi di corbelli, e' sembra essere diventati Cesari, che salgono il Campidoglio.

— Io chiedo umilmente perdono, ma mi sembra che i principi italiani si affrettino ad operare quello che dopo molte ambagi si troverà costretta a fare anco la Chiesa; il partito dei principi forse procurerà loro un amico, quello della Chiesa le frutterà certo due nemici. Per durare non bisognerebbe assottigliarsi il cerebro a fine di vivere fra la incudine e il martello, bensì rafforzare le mani e liberarsi da ambedue.

— Ah! pur troppo, ma come posso io [26] tanto, se uno sciagurato, un prete ardisce chiamarsi Re della Campagna, e mandarmi a sfidare fin nel Campidoglio? Ora non sono anni un perfido ladrone chiamato Venanzio Tombesi... avete mai sentito parlare del Tombesi?

— Sì, Santità, al mio ritorno in patria qualche cosa ne ho sentito parlare.

— Costui mi riferirono essere giovane, e manieroso; aggiungevano falso il nome, e senz'altro sotto quello nascondersi qualche lontano germoglio dei Metelli, e degli Scipioni, a cui par bello da padri eroi discendere banditi; procurammo che non crescesse la vipera, e Dio aiutando, vi riuscimmo; egli ci concesse la grazia di farci toccare con queste mani quel capo scellerato mozzo dal busto, che esponemmo a terrore del popolo.

— Vostra Santità toccò proprio con le sue benedette mani il capo mozzo del bandito Tombesi?

— Certo, e con la devozione stessa con la quale tocco le reliquie dei santi Pietro e Paolo; nè vi paia grave, imperciocchè i principi non possano provvedere alla prosperità [27] dei popoli soggetti, senonchè in due modi: o procurando il bene, od estirpando il male; ora atteso le scarse facoltà nostre, e la molta malizia degli uomini, riesce, a noi che regniamo, più agevole torre via il male, che operare il bene.

— E se non è temeraria la domanda, chi fu l'avventurato che portò a Vostra Santità la testa del Tombasi?

— Tombesi non Tombasi; e' fu una perla di Bargello, giovane anch'egli, di buona famiglia, di buoni studi, e credo fosse stato in seminario; pieno di timore di Dio, e di noi. — Il dabbene giovane si era preso lo impegno di portarci anco quella di prete Guercino, e invece.... invece questo scomunicato ... questo maledetto da Dio ci ha mandato la sua.

— Di quale?

— Di Angelotto, del Bargello di Campagna; e senti come... — Qui il Papa strinse pel braccio Paolo, e per veemenza di passione pigliando a passeggiare su e giù nella sala se lo traeva dietro con forza che mirabile in giovane, era per vecchio prodigiosa, — e senti come... il dì di San Bonaventura [28] si presenta il Padre guardiano dei Minori osservanti di Viterbo al Vaticano annunziando avere a rimettere una cassetta consegnatagli da certo penitente in confessione con l'obbligo di portarla egli proprio a Roma, e consegnarla nelle mani di Sisto. Noi gli mandammo a dire la lasciasse, ma egli niente; allora lo accogliemmo al nostro cospetto e dopo il bacio dei piedi ci confidò la cassetta, la quale aperta in nostra presenza vedemmo contenere il capo di quel povero giovane di Angelotto... — Misero! ne increbbe la sua morte molto, ma troppo più ch'ei fosse morto senza sacramenti; però ci trovammo buon rimedio con le indulgenze e i suffragi. Insieme con la testa andava unita una leggenda, che diceva: = A papa Sisto V infelicemente regnante in Roma, prete Guercino re della Campagna[6]. = Ordinammo mettessero le mani addosso al padre guardiano, e sottilmente lo ricercassero con la corda, e fu trovato il poverino non essere consapevole di nulla; tornò al convento con le braccia slogate ma per compenso carico di benedizioni, sicchè fu [29] troppo maggiore il guadagno della perdita. Prete Guercino vive!... a tale è ridotto Sisto, oh! oh!...

— Santità, mi sia benigna di posare l'animo meritamente agitato, e permettermi ch'io possa dirle alcune altre parole. Dunque le preme far vendetta di prete Guercino?

— Figliuolo, chi sostiene le ingiurie senza risentimento non è uomo, e chi potendo vendicarsi non si vendica abbilo per bestia addirittura[7].

— Ancora; Vostra Santità innanzi di conferirmi officio stabile vorrebbe avere da me un po' di saggio di quanto sapessi fare...?

— Giusto così, mi avete letto dentro.

— Dunque si degni conferirmi commissione temporanea sopra i Micheletti e i Bargelli della Campagna: basta una settimana, ma poniamo due; in questo mezzo tempo Vostra Santità riceverà di sicuro una testa; od io le porterò quella di prete Guercino, o il prete Guercino le manderà la mia. —

[30] Sisto stette lì lì per dargli un bacio, ma se ne astenne; però con voce carezzevole gli disse:

— Siamo contenti, che così si faccia; il cardinale di Montalto avrà cura di munirvi delle necessarie spedizioni. Se opererete quanto avete promesso, ben per voi! Nè potrete immaginare comodo o favore per grande che sia, che noi non siamo disposti a concedervi. Parola di Sisto è parola di Dio. Intanto, inginocchiatevi, vi compartiamo la nostra apostolica benedizione; ci dimenticammo compartirla al povero Angelotto, e forse questa mancanza fu colpa che capitasse male.

— Anzi, di sicuro, soggiunse Paolo, e camminando all'indietro a capo chino si partì dalla presenza del Papa, il quale rimasto solo col cardinale di San Marcello, che fu Giambattista Castagna, dopo lui assunto al Pontificato col nome di Urbano VII, gli disse, accennando col dito la porta donde era uscito Paolo:

— Illustrissimo, veda cotesto è uomo destinato ad andare in su; se poi sopra il Campidoglio, ovvero sopra la forca, chiariremo tra poco.

[31] A Paolo uscito dal cospetto del Papa venne vaghezza, non avuta prima, di portarsi sul ponte di Sant'Angelo a vedere le teste mozze, che infilate su i pali stavano lì ad atterrire i banditi, i quali lontani o non sapevano, o non curavano esempii siffatti: di vero tra altre parecchie ci mirò anche la sua col cartello sotto, che per quanto poco umile egli fosse, pure gli largiva tali e tanti titoli, che egli per giustizia non avrebbe potuto accettare: non vi si fermò sotto troppo tempo, imperciocchè cotesto teschio che ciondolava tuttavia al vento alcuni carnicci era tal mostra da mareggiare anche lo stomaco di un bandito; allontanandosi pertanto pensava:

— Dacchè altri ha pagato per me, ormai io spero, che passerò per bardotto.

E dato bando alle malinconie, venuto vespro, abbigliatosi con abiti di nuova foggia e attillati, fu a casa Savelli dove lo aveva precorso la fama del successo alterando il vero, e la più parte aggiungendo falso; e siccome ogni cosa, anco falsa, tornava ad incremento della sua reputazione, così, quelli che prima gli [32] s'inchinavano, ora voltarono la schiena a mezzo cerchio perfetto, gli altri più renitenti cominciarono a disegnare della persona una elittica; le mamme gli esponevano dinanzi un assortimento di risi sorrisi co' labbri stretti, però che l'arte di fabbricare dentiere non fosse anco trovata, e i denti cascati non fanno finestre dove goda affacciarsi amore: delle ragazze non dico nulla: diluviavano occhiate da disgradarne i razzi finali della girandola di San Pietro; ma il Pelliccioni salutava sbadato, o poco ci avvertiva, chè l'anima e gli occhi stavano fissi su quel folletto di Tuda, la quale andava, veniva, girava da parere che ce ne fossero quattro, e tutto vedeva, e tutto fingeva non vedere, e di ogni cosa si pigliava spasso; gli sguardi suoi non cadenti, nè dritti, bensì obliqui come i Turchi adoperano le scimitarre, e con tale virtù da fiedere netto come gambi di pera sbarre di ferro grosse quanto un braccio; con perpetua irrequietezza ella ora aggroppava ora snodava il mirabile collo, che vinceva quello dei colombi in amore quando il sole lo veste di colori sempre [33] nuovi e sempre più belli. Per quanto Paolo s'industriasse attirarla a sè ora con ridenti, ora con supplichevoli, ed anco talvolta con minaccevoli sguardi non ne venne a capo; peggio se tentava accostarla; Tuda, quasi lo presentisse, batteva altrove l'ale, e in mille modi, sconosciuti a cui non sente amore e rabbia, lo deludeva e scherniva. All'ultimo Paolo altro non vide che uno scintillío di faville che poi diventarono teste, e da prima tutte di Tuda, aggirantesi in vortici, sempre ridenti, e sempre folleggianti, ma indi a breve diventando penoso, altre teste vi si mescolarono laide, e sinistre, tuttavia ritraenti una immagine sola; poi diradaronsi, e ne rimasero solo due, che facevano l'altalena che ora si tuffava, ora sorgeva da un lago di sangue; da un lato quello di Tuda, dall'altro quello di prete Guercino. Quello di Tuda scaturì da principio più volte vario per ornamenti diversi, ora con diadema, ora con ghirlanda, ed ora con acconciatura leggiadra di capelli, quello poi di prete Guercino sempre grondante sangue cagliato, con le chiome grommose; [34] ma poi mutata vicenda toccò al capo di Tuda comparire terribilmente miserabile, mentre la testa del prete Guercino si affacciava ora con la sua bella chierica candida come fiore di latte, ora colla berretta a tre spicchi, e perfino con la corona in testa come re della Campagna. Paolo si appoggiò improvvido alla base di una statua di Giulio Cesare, pure aspettando che gli cessasse il bagliore; il quale fu breve, avendo contribuito a dargli fine certe parole ch'ebbero potenza di respingergli con subito riflusso il sangue dal cervello al cuore, e queste furono:

— Mirate un po' come la gente magna anco senza avvertirlo si mostri nata da una stessa famiglia.

Anzi no, ei si accostava alla immagine di Cesare per la ragione, chè l'ambra tira la paglia... —

Paolo spalancò gli occhi e le ultime parole dell'atroce ingiuria sorprese sopra le labbra di Tuda.

— Bene sta; io darò la testa del Guercino, io ne darei cento per la tua, divina fanciulla; che importa a me che tu mi [35] ami? Mi basta che tu patisca il mio amore. Farfalla scellerata, fa' quello che sai, tu devi cadermi nelle mani, perchè se non bastasse ad agguantarti il mio amore, piglierebbe a perseguitarti la mia vendetta.

Di poi tolto commiato, senza porre tempo fra mezzo cavalcò forte alla villa di Nettuno, dove giunse sul far della notte, e Renzo udito il noto segno gli aperse senza avvertire la Violante, onde Paolo la colse alla sprovvista mentr'ella genuflessa davanti la immagine della Madre di Cristo leggeva il libro delle orazioni.

— Sempre in opere pie, Violante, voi volete pigliare di assalto il paradiso...

— Paolo, io pregava pel mio povero padre, per voi, e soprattutto per me misera peccatrice, che ne ho tanto, e poi tanto bisogno.....

— Era parecchio tempo che noi non c'incontravamo.

— Senz'altro qualche grave causa vi teneva lontano da me, ed io devo rispettare l'operato di mio marito e signore.

— Signora, mi perdonerete voi di comparirvi così allo improvviso davanti?

[36] — Paolo, lasciate da banda queste cerimonie; non ci hanno luogo; voi, lo ripeto, siete mio marito e signore; gli affanni co' quali mi prova Dio, mi hanno, se non guarito, emendato la vanità che gonfiava il mio spirito; comunque venga, subitaneo o avvisato, il marito porta sempre consolazione alla sua consorte; io poi sapeva il vostro arrivo.

— Lo sapevate? Chi mai poteva avervelo detto?

— Non bocca umana certo, bensì un presentimento... una voce del cuore...

— E credete davvero che vi dica tutto il cuore?

— Non tutto, ma in ciò di cui mi avverte ei non s'inganna mai.

— E la cagione che mi ha mosso di venire a voi ve l'ha detta il cuore?

— Me l'ha detta....

— Non può essere, non può essere, interruppe Paolo spaventato.

— Giudicatelo voi, la causa che vi mosse e' fu per chiarirmi come voi non potete condurmi a Roma...

— Ma se il cuore non vi ha taciuto la [37] miglior parte, aggiunse precipitoso Paolo, deve avervi detto eziandio come Sua Santità chiamatomi a sè mi abbia commesso il carico onorevolissimo quanto pericoloso di ricondurre la sicurezza pubblica nei suoi Stati, e preponendomi alla milizia mi ha conceduto la facoltà di conseguire il nome invidiabile di restauratore del vivere civile.

(Certo non era a quei tempi avanzata siccome ai nostri l'arte di onestare con parole magnifiche fatti vulgari, o turpi, o scellerati; tuttavia e allora e prima si sapeva dare ad intendere eroico gesto l'utile delitto. I custodi della umanità si confidano atterrire con le minaccie della storia, ma perchè spaventassero altrui bisognerebbe che questi le temesse; chi non pregia la fama è sempre disposto a venderla per una scodella di lenticchie come Esaù la sua primogenitura: se non fosse così, in qual modo mi spieghereste questa immane, perpetua, ogni dì crescente produzione di Scariotti tre, quattro volte e dodici superiore alla richiesta? Quest'asta pubblica di anime al minore e al peggiore offerente? Anco lo inferno rinvilia!)

[38] La Violante strinse la mano a Paolo in segno di compiacenza, e:

— Tu non puoi immaginarti, Paolo, ella riprese, quanto esulti l'animo mio nel vederti aperta la via per palesare altrui i tuoi meriti; ciò mi consola per te non nato certo a logorare bellissime doti in ozii ignobili, e molto anco per me, dacchè per questo mezzo imparerà la gente come io nello eleggerti consorte, e in te ponendo ogni mio affetto non fui cieca, nè mi lasciai vincere da sfrenata passione.

— Però, Violante, prima di accettare mi correva obbligo di consultarti per due motivi; il primo, perchè capisco, che deve tardarti, ed anco a me tarda metterti in possesso del nostro palazzo, e presentarti come conviene allo splendore della tua nascita e delle tue nozze.

— Aspetterò; chè tornando vittorioso parteciperò alla tua gloria... sebbene siffatte glorie non sieno estranee alla nobilissima casa d'Ayerba.....

— Pertanto, finchè io non torni tu desideri starti qui in villa senza darti a vedere, o a conoscere da persona viva?

[39] — Senza te, mi basto sola.

— Ciò messo in sodo: veniamo all'altro motivo. Tu sai, che la vita e la morte stanno in mano al Signore; ora nel cimento al quale mi espongo potrei restare ucciso...

— Oh! non dirlo — e qui l'affettuosa venía con la mano manca turandogli la bocca; Paolo baciò la mano, e dolcemente removendola, proseguì:

— Questa vita non appartiene a me, almeno in tutto; tu pure ci hai diritto dal dì che, in grazia del sacramento, tu mi vincolasti la tua; nè io potrei senza mancare al debito di cavaliere e di cristiano mettere a cimento la mia persona, se prima tu non me ne dia il consenso. —

La Violante riprese con la destra la destra di Paolo, la manca gli pose sopra la spalla, e il capo gli appoggiò sul petto; in cotesto atteggiamento stette alquanto: alfine disse:

— Dio mi ti renderà sano e salvo; misericordioso com'è non vorrà farmi la più trista femmina, che abbia mai vissuto nel mondo; lo pregherò tanto! Tuttavolta, non [40] piaccia al Signore che per cupidità di passione umana io ti tolga la bella rinomanza; il cavaliere cristiano ha il suo primo obbligo con Dio, il secondo col suo Principe, principalmente poi se questi sia vicario di Cristo in terra, gli altri obblighi vengono dopo. Non può dirsi del tutto infelice la vedova del marito morto in servizio del suo padrone e signore...

— Ma s'io mancassi, come rimarresti? Senza aiuto... reietta....

— Consolati, amor mio; dal tuo in fuori io non conobbi, e ti sacramento che non vo' conoscere altro amore, che quello di Dio. Non parti a bastanza aiuto il suo? La tua vedova non ti sembrerà difesa, se io mi rendo a lui? Egli non respinge veruno... morta al secolo, io vivrò solo vita materiale a vegliare pel restante dei miei giorni il tuo sepolcro dentro il monastero delle cappuccine...

Non favellarono più innanzi; solo Paolo sentendosi il peso della testa della Violante sul seno pensò: — ecco un terzo capo! e questo più grave di tutti; finchè non torni, egli starà quieto, lo ha promesso, e non [41] è femmina da mancare: ma bisognerebbe, che ei se ne stesse fermo.... quieto.... tranquillo anco dopo. Basta, per ora contentiamoci; poi provvederemo. Curiosa! ella meriterebbe amore, e non la posso amare; l'altra, a buttarla nel Tevere col sasso al collo, non le si darebbe il suo avere, e non so perchè mi accende il sangue..., e mi è forza amarla. Come l'andrà a finire? — Se lo confidassi al cardinale! Scempio! se prima di rendergli servizio, prometterà alla larga per non attenere alle strette; se dopo, mi seppellirà sotto una montagna di ammonimenti, e bazza se non saranno rimproveri, con citazioni di canonisti, moralisti, e padri della santa madre chiesa cattolica, apostolica e per giunta romana: — riesce così agevole predicare virtù quando con la predica puoi saldare un debito! Bada, Paolo... tu corri grandissimo rischio di ammazzare questa donna che ti ama, e di farti ammazzare per l'altra che ti vuol bene come il fumo agli occhi. — Ci fosse dentro stregoneria? — Stregoneria o no, su le forche io non ci vo' capitare; il mio vicario ha pagato per [42] me: ed egli ci fa troppo brutta figura. — Dunque renunzia, e trovata la buona via, fa' si dimentichi dagli uomini il passato; quanto a Dio, egli tiene sempre le braccia aperte. — Questo non è possibile: lasciando da parte le fattucchierie, accade all'anima, quello che al corpo quando spenzolato troppo fuori della finestra non si può più tenere... chi nacque per ardere non arriverà mai a spengere. —

E qui come preso dalla smania sorse con moto convulso, onde il pugnale che portava nelle tasche delle brache ne balzò fuori cascando sul pavimento; pronta lo raccolse la Violante porgendolo a Paolo, senonchè questi lo respinse con la mano, e turbato parlò:

— Tienlo, Violante; serbalo caro; forse potrebbe venirti a bisogno per difesa della tua vita.

— No, la mia vita ho posto nelle mani di Dio.

— Nè io voglio negare il suo aiuto validissimo, nondimanco, vedi, un buon coltello in certe occasioni difende meglio.

— Dio non abbandona mai chi confida proprio in lui. —

[43] — Certo... certo... ma fa' a modo mio; tienti il coltello.

— Ecco lo metto qui in memoria di te.


Era in cotesti tempi, e forse è anco adesso in vicinanza di Ardea una boscaglia famosa per accessi impenetrabili, e per gesti di masnadieri; vera selva Ardenna di banditi: per essa andava un singolare viandante, però che alle vesti paresse uno di quei pellegrini, i quali pel recarsi a Roma hanno nome di Romei: alla canizie dei capelli e della barba, lo avresti creduto decrepito mentre cavalcava un cavallo poderoso, e molto gagliardamente ora in questa, ora in quell'altra parte spingevalo; e se strano sembrava l'arnese, troppo più strano era lo intento, dacchè al contrario di ogni viandante, egli invece di evitare i banditi, si arrovellava per non averli ancora trovati; però i suoi voti furono indi a poco compiuti chè ad una svolta eccogli sopra parecchi masnadieri co' soliti moschetti inarcati [44] e le solite minacce; — la borsa o la vita. —

— Voi non avrete nè l'una, nè l'altra, rispose il pellegrino; dov'è il prete?

— Chi sei?

— Voi lo saprete, menatemi a lui.

Per molti andirivieni lo condussero al prete Guercino, il quale stavasene di pessima voglia con la sua compagnia, e la sua donna Lucrezia, perchè poco fornito di vittovaglia e di pecunia peggio; nè aveva avuto anco occasione di accontarsi con alcuno dei capi-banda tornati sul contado di Roma; più di tutto poi impensierito per trovarsi scarsissimo di cavalli, onde gli era tolto di avventurarsi in imprese di momento. Il Romeo, appena vide il prete Guercino, gli andò incontro a braccia aperte chiamandolo con gran voce; ma l'altro sospettoso non si mosse; all'opposto imbracciò il moschetto, e con brusca cera gli disse:

— Chi sei, e qual diavolo ti scaraventa quaggiù?

Il Romeo invece di rispondere prese a buttar via prima il cappello, poi la barba, [45] la parrucca, per ultimo la schiavina; il Prete sbirciava più intenso a mano a mano che costui si svestiva, a mo' dello antiquario che, speculando sottilmente le traccie delle lettere sopra il marmo antico, coglie di un tratto il senso della iscrizione intera; così il Prete, riconosciuto di subito il pellegrino, si fece bianco come panno lavato, e senza pensarci si segnò due volte:

— Domine aiutaci! Vattene pei fatti tuoi anima, che così per dire, dirò benedetta...

— O compare, per caso avresti mandato a rimpedulare il cervello?...

— Se un po' di suffragio fosse il tuo caso, io ti prometto, appena rientrato in quattrini, di regalarti di una dozzina di messe dette da frate Ieronimo, ch'è un'anima santa, e intanto valga per quello che può valere, qualcheduna te ne celebrerò io.

— Orsù smetti le baie, io sono Tombesi...

— Ma non sei morto? Non ti hanno impiccato e squartato? La tua testa non [46] istà fitta sul palo in capo al ponte Sant'Angiolo?

— Io non mi sono accorto di tutto questo...

— Ma come qui? Per qual miracolo?...

E trattisi da parte con la Lucrezia, Egeria di cotesto Numa di nuovo conio, Paolo prese a raccontare le strane novelle della sua vita, avvertendo tacere le cose che non approdavano o nocive, aggiungendone false; fece capace il Guercino come Angelotto forse credè, e più verosimilmente dette ad intendere la sua morte per gratificarsi papa Sisto, e per buscare la mancia, narrò essersi salvato in Ancona, donde sur un legno greco recatosi in levante, dopo varie fortune si ridusse a Venezia, per la Dio mercè assai bene in arnese...

— Tu ci avrai veduto Curzietto? Interruppe il Guercino; e l'altro pauroso di essere colto in bugía, rispose:

— Dove?

— A Venezia...

— Io me ne viveva assai ritirato in casa di certa femmina, tu mi capisci... e che fa egli Curzietto?

[47] — La cena ai pesci...

— Come sarebbe a dire?

— Ma che non l'hai saputo? Per più di un mese ne fu pieno il mondo, ed anco adesso la maretta dura...

— Tanto è, io non ne seppi novella...

— Curzietto si tratteneva a Venezia, e costà il povero figliuolo per tirarsi innanzi faceva onoratamente un po' di tutto, meno che del bene; un padrone di barca anconitano trovandosi per le sue faccende a Venezia pigliò usanza con lui e saputi i casi del giovane promise procacciargli salvocondotto dal Papa; e di vero l'ottenne; anzi Sisto mandò una galera a posta per levarlo; Curzietto lesse due volte il salvocondotto, e riconosciuto il suggello, tenne lo invito del Comite, e alla sua fede si commise. Venanzio, e sono proverbi vecchi, anco le civette impaniano, in pellicceria ci vanno più volpi che asini; appena usciti dalle lagune, in un attimo addosso a Curzietto assicurandolo con le catene alle mani ed ai piedi, e siccome lo sciaurato si lagnava, cotesti non esser tratti da Papi, il Comite rispose: anzi da [48] Papi e non da altri, imperciocchè egli possa a beneplacito legare e sciogliere, mentre gli altri non possono che legare; il Papa quasimente fa da maschio e da femmina. Allora Curzietto soggiunse (e queste cose mi riferì un prodiero, che ci si trovava presente): i gentiluomini possono senza macchia operare quello che schiferebbe un bandito?

— I gentiluomini, rimbeccò il Comite reale, operano sempre ottimamente quando obbediscono gli ordini del Principe.

— Anco tradire?

— Anco tradire.

— Allora messere, vi domando perdono, perchè in verità io non lo sapeva. — E Curzietto non mosse più lagno da quel dì; al contrario mostravasi piacevole come se non fosse fatto suo, ora cantando qualche canzone di amore, ed ora narrando taluna delle sue avventure. Certa sera per ammazzare la noia essendosi il Comite seduto a canto a lui per ascoltarlo meglio, egli colto il destro lo abbracciò a mezza vita rotolandosi fino alla estrema proda, donde senza che la gente vi potesse [49] fare riparo dette il tuffo; il peso delle catene di Curzietto trasse in fondo ambedue, e comecchè le ciurme si affrettassero a gettare il palischermo nell'acqua e a calare i ganci per pescarli, non li poterono estrarre prima che entrambi fossero morti, essendosi Curzietto tenuto sempre tenacemente avviticchiato col Comite. Così periva Curzietto vero sangue latino, nè io lo piango intero, perchè vedi, Venanzio, chi muore vendicato mi sembra morto a mezzo[8].

— Possano i traditori, quando Dio li protegge, non fare mai fine più lieta di questa. Adesso torniamo a bomba: senti Guercino, io ho messo assieme una trentina di uomini forniti di tutto punto, e incavallati eccellentemente, e se ti quadra io li pongo in combutta co' tuoi e comporremo una banda sola.

— Vuoi che io te la dica, Venanzio? la tua proposta non mi dà buon bere. Amore e signoria non patono compagnia...

— Re sei, e re ti lascio; mi basta farti da luogotenente.

— Com'è così, muta specie; perchè, [50] considera, figliuolo, avrei potuto proporre ci conducessimo come Romolo e Remo, vo' dire comandassimo un giorno per uno; ma sì, quantunque fossero fratelli e nati a un parto, tu sai come l'andò a finire; nè dopo Romolo con Tazio fecero meglio prova, così riportano le storie... e nondimanco neppure a questo modo mi va, o non potremmo legarci pei casi straordinari, nei dì delle feste, e per tutti i giorni rimanere sciolti?

— Separati non ci è dato imprendere cosa che valga, e cresce il pericolo di restare presi; le occasioni poi si presentano lì per lì, e innanzi di porgerci avviso e trovarci riuniti alla posta, le sono passate senza rimedio.

— Questo è vero, ma tu mi sembrasti sempre uomo da volere rimanerti piuttosto capo di lucertola che coda di lione.

— Certo tu parli come un libro stampato, ma stretti dalla necessità di radunarci grossi di numero, bisogna che tu ceda a me, od io a te: tu a me non vuoi cedere, nè io vo' che tu ceda; mi sei maggiore di anni e godi di reputazione [51] grandissima, mentre me stimano universalmente morto; se mi bandissi vivo, chi ci crederebbe, chi no; mi ci vuole tempo a rifarmi il credito, e adesso ci bisogna un uomo noto, di cui da un lato fidino e dall'altro temano.

— Ma o non possiamo tirare innanzi come abbiamo costumato fin qui?

— Non possiamo, e ti chiarisco. Tu saprai come il signore Alfonso, e Sciarra, e il conte di Ascoli sieno entrati grossi in campagna; chi ha seicento, chi cinquecento uomini, la più parte cavalli; chi ne ha meno se ne tira dietro dugento. La Spagna paga, e questi sono ducati spagnuoli — e qui Paolo mostrò la tasca che gli pendeva al fianco. — Comandamento è che ci teniamo bene edificati i contadini, e quanto loro chiediamo paghiamo; certo questo non quadra con le nostre regole, e prima di farci l'uso cascheremo qualche volta in fallo, ma col tempo e la pazienza ne verrai a capo anco tu; e si vuole eziandio lasciare che vadano pei fatti loro i mercanti e i passeggeri, stringendoci ad assalire le terre e i castelli, insomma [52] mutare forma alla guerra; invece di moverla ai privati pigliarla con lo stato, col Papa...

— Per me mi confesso uomo grosso, pure non mi entra come tu la conti; prima il nostro mestiere in certo modo era cosa di famiglia, ma di ora in poi aiuteremo quei di fuori a legare quei di dentro, e della fune ne avanzerà sempre per impiccarci quando non avranno più bisogno di noi; ora io capisco, che la è ubbia, ma mi pare che sentirmi impiccato da corda spagnuola mi abbia a dolere più che se fosse una brava fune italiana.

— Secondo i gusti; ma il nodo giace qui, che non ci avanza scelta, però che i capitani la vogliono a questa maniera, e tu comprendi, che tra il signor Alfonso, lo Sciarra, Battistella, il Conte e gli altri dal lato manco, e Sisto e il Ghisiliero dal lato destro, nè tu, nè io possiamo durare; necessità non ha legge; tiriamo innanzi e qualche santo aiuterà.

— Io non ci vedo chiaro, aggiunse il Guercino con ambedue le mani pigliandosi il capo; e Paolo:

[53] — Lucrezia, che è donna di governo ed ha sentito tutto, dica la sua; per me sto al suo giudizio.

— Di' la tua, tu donna femmina.

— Ho a dire la mia? Guercino pare trattenga lo scrupolo, che i ducati non escano da buona fonte, io sto peritosa di qualche tranello, che ci covi sotto. Al Guercino dico: ricorda di quello imperatore, me lo hai tu stesso raccontato a veglia, cui il figliuolo rinfacciava cavare i quattrini dal balzello dei pisciatoi; ei gli mise sotto al naso un ducato domandandogli: che odore ha? — I quattrini non hanno odore, chiappali da qualunque parte ti vengano; meno che dal diavolo perchè si mutano in zolfo: a me poi dico: che questo bel figliuolo ci voglia menare alla mazza io non lo credo se prima Cristo non si fa luterano, e caso mai ci si scoprisse traditore, can mai non mi morse che non volli del suo pelo. —

Lucrezia dava il tratto alla bilancia, e la lega fu convenuta: il Guercino però senza dire il numero dei suoi propose a Paolo se ne tornasse dond'era venuto, [54] ed ottenesse dai caporioni un trenta di cavalli, e munizioni da guerra di che pativa difetto. La verità era ch'ei si trovava al verde di tutto, e Paolo gli cascò addosso come la Provvidenza, almeno così la pensava Lucrezia, la quale aveva già detto al Guercino, che se l'andava di quel passo anco una settimana, bisognava dare spesa al cervello e sciogliere la banda; di che il Guercino accorato buttava fuori sospiri da parere un bufalo, che muglia quando è in amore.

Paolo pertanto facendo il fagnone ricercò il Guercino se intendeva mandare egli trenta fanti per i cavalli: qui ricominciarono le ambagi, perchè se ei li mandasse tutti s'indeboliva per modo da rimanere agevolmente oppresso; se all'incontro concedeva menassero i cavalli trenta uomini della banda di Paolo, egli era lo stesso che mettersi alla sua discrezione; nè al santo intendeva fidarsi se prima non avesse fatto il miracolo, tenendo per regola di governo che in terra di ladri si vuole camminare con la valigia davanti: però come quando si possiedono [55] mezzo cervello e mezzo cuore, o la necessità ce gli dimezza, si apprese alla via mezzana, mandò dieci fanti dei suoi, e ciò anco fece per iscoprire marina; di ragioni per condursi così ne addusse un mucchio, a cui sempre più ne aggiungeva alla stregua che quelle addotte gli parevano grulle e la gaglioffaggine loro aumentava a braccia quadre. Per ultimo fu stabilito che i dieci fanti s'incavallerebbero, e recherebbero a mano dieci cavalli; in tutto venti; di quei di Paolo ne verrebbero dieci, i quali pure menerebbero dieci cavalli e su questi le munizioni che potrebbero portare; e così fu fatto.

I dieci di Paolo e gli altri del Guercino tornarono vestiti tutti di un'assisa, e portarono vesti per gli altri venti; onde subito nacque tafferuglio tra la gente del Guercino, perchè ognuno pretendeva essere primo vestito e incavallato; nè egli trovava via a metterli d'accordo, anzi aggiungeva legna al fuoco, perciocchè preso dalla stizza incominciò a bestemmiare come un turco e a mescere minaccie, ingiurie e pugni; la sarebbe finita [56] per la peggio, se Paolo, cacciatosi fra mezzo non gli avesse acquetati con la promessa di assettarli tutti alla medesima maniera, tale essendo la intenzione del signor duca di Montemarciano, sotto gli ordini del quale avevano a stare. Quando poi volle mettersi a cena fu trovato come non solo mancassero le munizioni da guerra, ma delle vittovaglie altresì si patisse difetto: gli altri brontolarono, Paolo si contentò osservare come la colpa era di Lucrezia che forse si peritava a palesargli la presente strettezza. Alla quale accusa Lucrezia oppose, che quanto a lei non sarebbe stata sul puntiglio, perocchè ormai fossero diventati tutti una sola famiglia; se ci cadde fallo, errò prete Guercino che mulinava sempre pensieri da cavaliere con la borsa da cappuccino. E siccome pareva che il Guercino inasprito non se ne sarebbe rimasto, Paolo troncò le parole dichiarando: che i ragionari non crescevano la cena, bensì la sete; per quella sera si facesse alla meglio, nel dì seguente avrebbero tolta la rivinta. — Si accomodarono per dormire come poterono; il [57] Guercino non trascurò mettere le sentinelle; nè Paolo fece sembiante di accorgersi ch'egli dopo essersi ristretto a colloquio co' suoi più fidati, questi, fingendo vigilare per tutti, esclusero i suoi dalle guardie, sotto pretesto che, stracchi dal cammino, abbisognassero di riposo.

Il Guercino si vergognava dirlo, anzi pure pensarlo, e nondimanco aveva paura: una strana inquietudine gli si era cacciata addosso, nè avrebbe saputo chiarirne la ragione; tanto è, uno sgomento nuovo gli faceva cascare il cuore e gli troncava le braccia; si stese su la paglia con la Lucrezia allato, e prese sonno; ma indi a breve si rizzò a sedere co' capelli ritti, e gli occhi strabuzzati, con la manca brancicando la Lucrezia e con la destra tastandosi il collo; i detti suoi piuttosto grugniti, che favellati sonavano:

— Sei tu? Proprio tu, Lucrezia? Benedetto il Signore, mi pareva, che mi stesse al fianco per confortarmi il cappuccino... sarà per un'altra volta; così mi sono sentito stringere il collo, che me n'è rimasto il rastio fin dentro la gola... dopo [58] questa prova quando faranno per davvero, poco più mi toccherà a penare... io credo.

— Dormi in pace, Guercino, che Lucrezia veglia. —

La mattina misero in consulta se quinci avessero a partire o se ridurvi anco la restante squadra di Paolo; al Guercino pareva mal sicuro il primo partito, nè gli piaceva il secondo, e, come suol dirsi, nicchiava.

— Senti, gli disse Paolo, io ti leggo dentro, tu non ci vai di buone gambe; chi ha fatto il carro lo può disfare, rimanti; ti dono i cavalli, le munizioni e ogni altra cosa; ti ho consigliato da amico, mi sono comportato da fratello, ora ingegnati come puoi, che così col tuo fidarti e non ti fidare ci rovineremmo ambedue e con noi questa gente dabbene, che ci seguita...

— No; mi fido... io considero... perchè capisci, giova più un moccolo davanti, che una torcia di dietro.

— Or bè: se in questa selva non hai trovato da nudrire te e la tua banda, come ci procureremo la vettovaglia per due?

[59] — E' parla come Marco Tullio, il bel figliuolo, osservò Lucrezia.

— E poi oggi o domani bisogna pure che usciamo: anco i frati se non mandassero fuori i cercatori morirebbero di stento.

— Questo è chiaro — esclamarono parecchi banditi d'intorno.

— E il coltello se non si adopera arrugginisce; e leva leva, ogni gran monte scema, di qui il bisogno di tenere le mani perpetuamente in faccende: ora dà retta, Guercino, vien via senza gingillarti; andiamo a unirci col grosso della mia banda, che sta a cinque miglia quinci oltre a buona guardia in una masseria sotto Renzo mio luogotenente: riposáti e nudriti, verso vespro io proporrei andassimo ad assalire Mentana castello di Latino Orsini, dove se ci capiterà di giungere alla sprovvista, io fo conto di averlo a man salva...

— E poi a Roma — irridendo disse il Guercino.

— E poi a Roma — riprese in atto superbo Paolo; da cosa nasce cosa, e sappi [60] che da un legno medesimo sono cavati i banditi e gli eroi; la differenza sta qui, che i primi sono piccini, i secondi grossi.

— Andiamo... e il diavolo dica amen al tuo credo. —

La impresa riuscì a capello; i terrazzani del castello Mentana ebbero di catti a salvare le persone, lasciando le robe e perfino i cibi al fuoco per la cena. La Lucrezia, presa stanza al palazzo dell'Orsino, dette mano ad apparecchiare proprio un banchetto per le feste; rovistò dalle soffitte alle cantine, accese un fuoco da arrostire anco il castello; chi strozzava, chi pelava, altri spillava il vino, trovarono torce, accesero lucerne; anzi per maggior decoro appesero festoni di mortella. Ogni cosa ormai essendo posta in ordine non si aspettava più che Paolo e il Guercino, i quali andavano attorno a mettere le guardie: da un momento all'altro si teneva per sicuro sarebbero comparsi insieme, ma non accadde così, che il Guercino si mostrò primo e solo. Egli da principio camminò di conserva con Paolo attendendo giusto a mettere le sentinelle, [61] senonchè presto si accorse avere fatto conquisto troppo grande per poterlo guardare, come con sicurezza tenere, molto più che la massima parte dei banditi si era dispersa a foraggiare, e a commettere certe altre taccherelle le quali riesce più facile vietare con parole, che impedire co' fatti; onde di un tratto quasi noiato il Guercino si rimase a mezzo e scrollando le spalle disse:

— Che monta pigliarsi tante scese di testa? quello che deve accadere accadrà; s'è vero, che senza la volontà di Dio un capello solo non possa cascare dal capo dell'uomo, è vero altresì, che non gli si può nè anco aggiungere. — Paolo, fa tu, che io me ne vado a cena. —

Paolo si strigò in quattro battute, e corse a gambe dove lo tiravano la luce viva di tante lucerne, e di tante legna accese, che pareva un falò; le canzoni una dopo l'altra si rincorrevano come baccanti scapigliate, e motti giocondi piovevano giù come lacrime di San Lorenzo nelle notti della prima metà di Agosto. Il Guercino sedè in capo alla mensa quasi a [62] posto di onore, Paolo in fondo e Lucrezia in mezzo per tagliare le carni e distribuire le vivande. I convitati non osservarono regola nè misura, in breve la cena diventò stravizzo, correva vino la mensa; e sotto la mensa vi erano pozzanghere; chi si abbracciava, chi si mordeva, ognuno il suo vicino blandiva, scongiurava, o vituperava, secondochè la fantasia alterata glielo veniva raffigurando o per innamorata, o per cappuccino, o per carnefice. Il Guercino aveva mangiato per due e bevuto per quattro: pareva avesse voluto annegare i tristi presentimenti nel vino: di vero la stolida sua vanità pigliando in lui il sopravvento ad ogni altra cura, di un tratto si leva barellando: la manca mano puntella sopra la tavola, con la destra alza il bicchiere e grida:

— Alla prossima morte del porcaio della Marca; viva prete Guercino re della campagna... viva me!

— Viva Papa Sisto lo sterminatore dei banditi.

A questo urlo, che a squarcia gola cacciò fuori Paolo, in un bacchio baleno due [63] uomini agguantarono di dietro per le braccia il Guercino, e lo atterrarono; nove porte, chè tante ne aveva la sala, si aprirono con fracasso e si rovesciò dentro un nugolo di micheletti armati di archibugi. Al Guercino parve uscisse ad un punto il vino dal capo, e la baldanza dallo spirito; sporta la faccia livida, agguardando Paolo con occhi trucemente lucidi, queste parole mandò fuori dalle labbra grommose di vino:

— Solite cose; io il solito venduto, tu il solito Giuda; badati dal solito fico: — traditore! non ti puoi nè manco vantare di avere immaginato qualche cosa di nuovo...

— Ammazzatelo! — Schiamazzava Paolo. — Ammazzatelo!

— Non si può movere — è inutile.

— Ammazzatelo per Dio! — Strepitava Paolo pestando i piedi.

— E si ha ad ammazzare davvero?

— Ma sì, ma sì, ma sì. —

Allora uno sbirro trasse un gran fendente sul capo al Guercino, il quale ebbe virtù di spaccarglielo fino al mento, sicchè [64] stramazzando col capo innanzi sopra la mensa, il cervello gli si versò dal cranio come il sale dalla saliera rovesciata.

— Bel figliuolo, l'ultima pietanza della cena è questa?

— Della cena non so, della tua vita sì se tu vorrai gustarla.

— Ho da morire anch'io?

— Che faresti nel mondo senza il tuo marito prete?

— Priva così di sagramenti?

— Te li amministrerà prete Guercino intanto che sarete in viaggio per lo inferno.

— Tu sei troppo ingrato, ma non importa; io ti fui amica, e non mi sento senza rimorso di avere condotto il povero Guercino al macello. Di me sia quello che piace alla santissima Vergine, solo ti chiedo tu mi faccia una grazia; io vorrei confidarti un segreto che forse potrà giovare anco a te...

— Non vo' saperne di segreti io, ammazzate anco lei. —

Ammazzare così una donna legata, che si mostrava quieta, nè rompeva in vituperii [65] e in furori, parve strano anco per uno sbirro; sicchè la gente balenava; allora Paolo, come colui che aveva buone ragioni perchè la Lucrezia favellasse poco, le si accostò meno acerbamente dicendo:

— Non ti perdere di animo, la tua morte non è mica decisa, e il santo Padre potrebbe nella sua misericordia graziarti; sentiamo un po' il gran segreto che hai in corpo. Di' su...

— Accostati, che se non ti parlo sommesso, il mio sarà segreto da panico, che ogni uccello ne beccola... anco più qua... ecco il segreto...

Azzannò l'orecchio, e strettolo ferocissimamente prese a dimenare con furioso impeto il capo a mo' di mastino che tenga co' denti la bufala. Urlava Paolo:

— Maledetta strega... lascia ire... ahi! lascia... al corpo di Dio ti fendo il cuore... ahi! ahi! —

E l'altra peggio, sicchè Paolo cavato il coltello dalla tasca delle brache incominciò a tirare giù colpi da disperato: percoteva in pieno, ficcandone la lama fino al manico, non per ciò la donna lasciava [66] presa; la gente di Paolo vedendolo infellonito menar botte da rompere il muro si peritava aiutarlo; all'ultimo colta in mezzo al cuore Lucrezia cadde, ma stringendo fra i denti un brandello di orecchio del suo nemico. —

La presa del castello e' fu postura ordita fra Paolo e il barone Latino Orsino fautore di Sisto; la gente che sbalzò fuori al termine della cena, fino dalla mattina si era nascosta nei sotterranei del castello; nè Paolo si tenne contento alle morti del Guercino e della Lucrezia, bensì fece ammazzare senza misericordia tutti quelli i quali sospettò potessero avere odore della sua condizione antica di bandito. I meriti nuovi non avrieno presso Sisto saldato le colpe antiche, in simili casi ei solea sdebitarsi con messe e suffragi; generoso fino a spiantarsi nell'altro mondo, in questo egli era duro ad esigere. —

Quando Paolo con una benda di seta nera intorno al capo si presentò al Pontefice con la testa mozza di prete Guercino accomodata dentro a un paniero nuovo sopra ramelle di rosmarino, come si costuma [67] portare le lepri morte perchè le si mantengano fresche, levò devotamente le mani al cielo ringraziando Dio; poi nella veemenza dello affetto disse non so che parole di coronare Paolo in Campidoglio come aveva fatto Pio V a Marcantonio Colonna dopo la battaglia di Lepanto: e poichè il Cardinale di Montalto prudentemente lo persuase a meglio ponderare la cosa, volle che portassero subito duemila scudi, e datili a Cesare disse, che li pigliasse non mica per compenso della opera egregia condotta a fine, bensì perchè gli spendesse a farsene onore co' suoi compagni: al resto si provvederebbe presto con la sua pienissima soddisfazione. —

Mandato quindi per l'orafo di corte, Sisto gli commise una corona di rame dorato; se gliela portasse prima che finisse il dì gli darebbe con le sue benedette mani, oltre la sua buona grazia, venti scudi d'oro, se no gli farebbe dare dalle mani di Gigolo due tratti di corda; e siccome l'orafo accennava volere favellare forse per dirgli in tanta angustia di tempo impossibile contentarlo, il Papa mettendosi [68] l'indice della manca lungo il naso, e con la destra accennandogli la porta, lo licenzia. —

Il giorno successivo la testa mozza del prete Guercino comparve incoronata fitta su di un palo sul ponte di Castello Sant'Angiolo.

[71]

CAPITOLO XI.
La Marchesa dopo pranzo, e la Marchesa innanzi pranzo.

Dopo avere fatto reverenza al Papa, presso cui rinvenne il Cardinale di Montalto, Paolo se ne andò difilato al convento dei Gesuiti a visitare il suo diletto padre Migali; se da questo, e da tutti gli altri così professi come novizi degl'incoli del collegio di Gesù, Paolo ricevesse accoglienze più che cordiali svisceratissime, si crederà di leggeri quando si consideri che gli uomini inclinano per natura a soffiare nella vela gonfia dal vento della fortuna; e poi i Gesuiti vecchi salivano in isperanza di ottenere per mezzo di questo loro protetto, una volta arrampicato in alto, favori e comodità infinite; nei giovani, sboglientito assai, pure durava l'entusiasmo per le cose belle, o che paiono tali; onde ai cervelli loro, pieni degli studi [72] dei classici latini, Paolo si veniva offerendo come un Dio, che domi Pitoni, o semideo trionfatore d'Idre, e di Minotauri; alla più trista come un Giulio Cesare, e un Alessandro Magno. Gli piovvero addosso esametri e pentametri, sonetti, canzoni, odi, e perfino acrostici; le monache lo mandarono a presentare di paniere di brigidini, di Gesù bambini, e di abitini. Sopra tutto abitini, però che allora attribuissero in Italia a cotesti amuleti una oltrapotente virtù... Perchè ho io scritto allora? Forse ieri non vidi qui in casa mia un frate mirabile per vecchiezza e per laidume con la stola al collo, gli occhiali sul naso, e il libro in mano intimare lo sfratto dai cavoli ai bruci, e i contadini d'intorno composti a diversi atti di devozione? E mentre io appoggiato con la spalla ad un grosso olmo contemplava mestamente il caso, il frate levati gli occhi mi scorse, e vibratomi quasi uno sguardo di sfida sopra gli occhiali disse queste parole: — figliuoli, io ho fatto la parte mia, ora tocca a voi fare la vostra; quanto a me non ho omesso una virgola, e la [73] orazione non può fallire; se la non riesce, la colpa è vostra; e' vorrà dire, che non avrete avuto fede, perchè vedete, con la fede potreste dire a cotesto albero là (ed accennava appunto l'olmo a cui mi appoggiava io) — parti, e l'albero subito partirà per andarsene in altro luogo. — Tanto disse co' labbri, col cuore aggiungeva di certo: — voi credete di cantare il vespro all'errore, e non siete nè manco a mattutino. — O ragione, vero ebreo errante della umanità, allorchè sarai giunta al termine del tuo cammino ti troverai entrata nel secolo immortale; quando anco tu arrivassi al tuo plenilunio, i raggi usciranno da te peggio che indarno, perchè allora l'universo sarà fatto tomba del genere umano!


Le femmine sono tenere; le monache anco più, testimoni Santa Teresa, la perpetua innamorata, e Santa Caterina, la quale non si tenne quieta, finchè non ebbe barattato il suo cuore con quello di Gesù; [74] e però trepidanti per quell'anima angelica di Paolo, che avesse a morire, e più poi, che morisse fuori di grazia, le monache gli mandarono abitini a fusone; imperciocchè voi avete a sapere come i Gesuiti, i quali inventarono l'abitino, bandissero, e con sacramenti affermassero come chiunque portasse l'abitino addosso non potrebbe morire là dove non fosse in istato di grazia; di ciò allegavano esempi parecchi uno più edificante dell'altro; a me basti riferirvene solo due: certa buona femmina smaniosa di affogarsi si buttò nel pozzo; dato un tuffo in fondo tornò a galla, e lì rimase non altramente che se un turacciolo di sughero si fosse, e questo perchè da un lato tenesse l'abitino al collo, e dall'altro non avesse la coscienza netta: dunque la ripescarono, ma persistendo in cotesto proponimento una mattina andò in chiesa, donde uscita, dopo essersi confessata e comunicata, si condusse a dare di nuovo la balta nel pozzo, e per questa volta furono buone mosse, che rimase annegata nelle regole. Altro esempio della virtù dell'abitino. Un soldato nelle guerre [75] di Fiandra contro gli eretici giacque sul campo di battaglia crivellato da trentanove ferite, una più mortale dell'altra, senza che il poverino potesse morire: avendolo visitato i medici, questi si facevano il segno di croce per la maraviglia, come mai con quella razza laceri potesse durare vivo; — senonchè a trarli dallo stupore il soldato parlò queste parole: — magnifici signori, a che tante marie? Se fossero divoti come dotti troverebbero il caso naturalissimo. Io porto due abitini addosso donatimi per carità dai reverendi padri della compagnia di Gesù; dopo ciò capiranno, che se io non rientro in istato di grazia, è tempo perso che io pensi a morire. Da uomo avvisato, innanzi di cacciarmi nello sbaraglio mi era munito dei sacramenti, sicchè alla prima ferita stava lì lì per andarmene in pace; ma no signori; il demonio, nemico del genere umano, mi ha tentato spingendo Rosa la cantiniera a passarmi da presso, e i miei occhi andarono a cascare sul magnifico seno di Rosa: allora pensai, voi mi capite, eccetera, per la quale cosa, perduto lo stato [76] di grazia, io non posso morire se non mi levate l'abitino di dosso, ovvero, e questo sarà il meglio, non andate per un reverendo padre della compagnia di Gesù, il quale mi riconcilii con Dio scorrucciato meco per colpa delle mammelle di Rosa; quando a ciò sarà dato sesto, io vi prometto da cavaliere di andarmene via dal mondo senza farmi pregare.


Ma il serpe troppo spesso giace tra i fiori: e Paolo, afflitto in vista, richiese il Padre volesse ascoltarlo in confessione, di che molto volentieri il buon gesuita lo compiacque, e secondo il solito egli ebbe a udire peccati, che per altri sarebbero stati meriti, e presso il gesuita poi passavano per virtù; onde cresceva la speranza in lui, e con la speranza l'amore: quando lo ebbe arroventato bene, gli aperse di punto in bianco com'ei per non darsi alla disperazione si era deciso tornarsene a pellegrinare per il mondo; e poichè l'altro lo veniva dissuadendo, egli soggiunse, che [77] se restava egli lo avrebbe con le sue mani sepolto, e con le lacrime agli occhi gli favellò di messe, di suffragi, di sepolture, che metteva proprio passione a sentirlo. Il padre batteva, e forte, per sapere la causa di tanta angoscia, e l'altro se ne schermiva adducendo non trattarsi mica di peccato, bensì di altra cosa; allora il padre più fervoroso che mai lo raumiliava sponendogli: — essere presunzione la sua, e grande; non toccare a lui dire ciò che fosse peccato, e ciò che no, palesasse intero l'animo suo, egli medico dell'anima conoscerebbe se ci fosse male e quanto, e come si avesse a curare; perchè con la provvidenza di Dio accompagnata da un po' d'industria umana si viene a capo delle faccende più ardue. Paolo per ultimo lasciandosi vincere confessò la sua passione per Tuda; dopo ciò il padre aggiunse:

— Ecci altro?

— No.

— Allora il padre levando le mani e gli occhi al cielo:

— Signore, esclamò, e per queste cianciafruscole voi vi volete buttare via?

[78] — Ma Tuda mi spregia...

— Vi amerà... vi amerà...

— No, che mi aborre... mi odia.

— Vi amerà, vi dico, uomo senza fede, vi amerà.

— Ah! voi non conoscete il cuore della femmina...

— No? La fede fa ballare i monti, con la fede Pietro camminò su le acque.

— Ma non sul cuore della donna.

— Oltre la fede, riprese il padre, abbassando gli occhi e con voce soave, noi abbiamo in pronto altri partiti i quali possiedono virtù di mutare l'acciaio in cera, e la cera in acciaio.

— Ma l'amore?

— Che ti fa l'amore di donna? Ti obbedisca, ti serva, tremi di te; non basta? L'amore sta a potestà della femmina, e può darlo o torlo secondo le frulla, ma il terrore sta in mano tua; l'obbedienza è ancella fedele, l'amore spesso diventa tiranno acerbo e duro.

— Sarebbe poco, ma in mancanza di meglio mi adatterei... rispose Paolo piegando un po' il collo sopra l'ómero destro [79] per fare riscontro al Gesuita, però io non ci vedo bandolo.

— Sta di buon animo, figliuolo, questo è pensiero mio.


Il padre Migali, dopo avere pranzato e dormito da persona che non si trova rimorsi sopra la coscienza, o dove se li trovi gli sa digerire insieme alle altre pietanze, a vespro così pel fresco si avviò lemme lemme al palazzo di Silla Savello; la famiglia lo accolse come uomo dal quale, s'era da sperarsi poco, bisognava temere moltissimo; un fante, da lui richiesto, salendo le scale a tre scalini per volta andò ad avvertire la Marchesa se le piacesse accoglierlo o no (che allora si costumava senza tanti arzigogoli così, giudicando pericoloso avvezzare i servi alla ipocrisia ed alla menzogna): tornò a dire che si accomodasse, la signora vedrebbe volentieri il suo padre Migali: quel suo dolcemente detto, e la mirabile celerità del giovane persuasero il padre a guardare il [80] giovane di sghimbescio, e vistolo leggiadro gli sorrise blando, lo accarezzò pel mento confortandolo di andare a confessarsi da lui che gli avrebbe donato un abitino. Venuto al cospetto della nobile matrona, molti furono hinc et inde i discorsi per accostarsi mano a mano all'argomento; così lessi già, il pesce spada, e il pesce cane si girano e si rigirano dintorno, si abbassano, si alzano ingegnandosi di essere i primi a dare l'uno all'altro o colpo di spada o zannata. Già con molta arte schermendosi gl'interlocutori nostri erano venuti a mezza spada, sicchè il padre Migali stringendo diceva:

— Clarissima donna Clelia, io confido nella sua insigne benevolenza, che mi vorrà compatire se proprio in vista di salvare un'anima dalla perdizione io mi attento proporle le nozze della divina sua figliuola donna Geltruda...

— Reverendo, chi conosce come me, e pregia la solenne prudenza vostra, non può astenersi da giubbilare, pensando avere in voi un consigliere fedele ed un amico parziale. Dite franco...

[81] — Potrei, madonna, a mo' dei ciurmatori narrarvi monti e mari del gentiluomo ch'io vi propongo; il santo timore di Dio, la grazia del Papa, la prestanza della persona, lo aspetto leggiadro, le maniere accorte, il tratto cortese che l'anima ti piglia con soavi catene, il parlare concettoso, il sovrumano coraggio, la nobiltà, le ricchezze, la devozione per tutta la casa vostra, e per voi peculiarmente, ma io inesperto di simili negoziati mi taccio, sebbene tutti questi pregi concorrano, e copiosissimi, nel gentiluomo di cui è discorso: mi basti annunziarvene il nome.

— Ed è?

— Voi lo conoscete, il cavaliere Paolo Pelliccioni.

— Il cavaliere Paolo Pelliccioni, ripetè la Marchesa come l'eco, senza maraviglia, del pari che senza cruccio nè affetto; a mo' di materia da meditare; nella stessa guisa, che un pittore si pone dinanzi una tela da dipingere, o lo scultore un marmo da scolpire. — A questo esordio tenne dietro un silenzio non breve, però nemmeno lungo oltre il convenevole, e tuttavia [82] quasi mano strisciata su quanto è lunga la tastiera del gravicembalo, la marchesa Clelia provò tutti i suoni, gli aggruppò, gli snodò, ed ogni cosa bene considerata deliberò ributtare il partito: la superbia da principio in quel concerto prese le mosse dal cantino, e vie via procedendo, all'ultimo si pose a cavalcioni sul basso. Molto più, che la superbia (non so se lo abbia avvertito, caso che no supplisco adesso) nella composizione di donna Clelia ci era entrata per una metà avvantaggiata del suo tutto; nel descrivere gente patrizia io aveva creduto, che la cosa andasse da sè, e si potesse omettere, come a mo' di esempio quando parli di Giudice parrebbe pleonasmo appiccargli dietro lo aggettivo, o lo epiteto di probo, di Prete il benigno, di Re il galantuomo: aggettivi tutti che compenetrando i sostantivi, ne fanno una sola e medesima cosa. Ho sentito dire, che il diavolo regala la superbia ai patrizi quando li battezzano se cristiani; quando li circoncidono se ebrei o turchi; chi la regali alle patrizie non saprei, perchè diavolesse nel mondo di [83] là non so se ve ne abbiano; affermano che per godere un po' di pace in casa, i diavoli caccino le diavolesse nel mondo di qua, ma questo dicono le male lingue, e però non sono da credersi. Insomma la conclusione del lungo deliberare fu, non volerglielo concedere, e lo significò con le seguenti parole:

— Già tutto quello viene da voi si può accettare a chiusi occhi; per me, reverendo, ho in voi tanta fede che se mi consigliaste a tirarmi giù dal balcone, mi ci butterei di rincorsa, sicurissima di provvedere alla mia prosperità spirituale, o temporale, sicchè se io renda grazie col cuore dello studio che vi pigliate delle cose mie, lascio figurarlo a voi, ma Tuda è tenera troppo per le nozze.

— Come tenera? Mi sembra all'opposto fatta, e proprio a tiro.

— È tenerina, che io non so bene se Tuda arrivi od abbia compiti i quindici anni....

— Oh! Clarissima donna Clelia, la signora Geltruda compisce i diciassette anni come saremo a Giugno, essendo nata nel [84] 1572 la vigilia del Corpus Domini, alle ore quattro e minuti ventisei di mattino; fu levata al sacro fonte....

— Guardate un po' come passa il tempo!

— Sì signora:

»Il tempo passa e non si arresta un'ora

»E la morte vien dietro a gran giornate

come cantò il reverendo canonico messere Francesco Petrarca.

— E non dimanco mi sembra tenerella.

— E può parerle, perchè la tenerezza materna è infinita quanto la misericordia di Dio o giù di lì, ma la signoria vostra non ignora di certo come per le nostre leggi romane le fanciulle compiti gli undici anni sieno reputate....

— Eh! padre mio, le leggi fate voi altri uomini per le vostre comodità, se fossero consultate anco le donne....

— Voi almanco, clarissima signora, non sareste di avviso contrario, conciossiachè vi maritaste di quindici anni, tre mesi, e quattordici giorni giusti come si ricava dalla fede del matrimonio del dì....

— Altri tempi, reverendo, altri tempi, [85] voi sentite ogni dì movere lamento come la generazione umana vada di anno in anno tralignando, e per essere giusti bisogna confessare il lamento pur troppo vero; un dì ci potevamo considerare fatte a quindici anni, oggi sono le fanciulle teneruccie a diciassette.

— Io porto fede che la vostra signoria vorrà mutare sentenza quando consideri, che vergini di dieci, ed anco di meno anni, si rendono quotidianamente spose del nostro buon Gesù.

Le metafore, i traslati, e i tropi presso gli scrittori o vuoi poeti, o vuoi prosatori, quando anco ne abusino, ti gioconderanno grotteschi, immani ti disgusteranno, o sgangherati ti faranno strabiliare. Certo alla umanità importa poco che il Marini chiami l'Etna

»..... arciprete dei monti

»Che in cotta bianca al cielo offre gl'incensi;

e sorrideranno di cuore alle immagini dell'altro seicentista che avendo a descrivere la Maria Maddalena, la quale piangente [86] asciugava co' biondi capelli i piedi del Redentore, così ebbe a dire:

»Se il crine è un Tago, e son due soli i lumi,

»Non vide mai maggior prodigio il cielo.

»Bagnar co' soli ed asciugar co' fiumi!

E chi legge caverà argomento festoso da quest'altra metafora. Su certo dramma un personaggio, dopo avere chiamata scoglio la figlia del re, mira com'ella per levarsi questo uggioso dal lato pigli il partito di fuggire: ond'egli correndole dietro tale la rampogna:

»E se scoglio tu sei perchè mi fuggi?

E la figliuola del re di rimando:

»E se scoglio sono io perchè m'insegui?

Ma Dio ci guardi dalle metafore quando elleno cascano in mano ai preti, che allora vedrai tramutarsi in opere di ferocia inaudita. Siccome io scrivo per dilettare sì, ma ad un punto per istruire, nè a scopo altro che questo per me si adopera l'arte del racconto, come a me non fie grave a scrivere, così nol sia a cui legge vedere [87] riportati qui alcuni fatti cerniti per la storia immensa degli errori umani. Dalle parole gregge, lupi e pastore che sovente ricorrono negli Evangeli, i preti cavarono il diritto del Papa pastore di fare carne degli eretici lupi, e il Salmeron, gesuita, senza ambage ti spiattella: — ammazzare i lupi significa per lo appunto levare l'anima di corpo agli eretici[9]. Nella congiura delle polveri i congiurati proposero al padre Gametto il quesito se fosse lecito minare la torre del nemico, dove per avventura si trovasse chiuso qualche amico: il frate fagnone levando il pelo per aria rispose: potersi; donde i congiurati conchiusero non mettere ostacolo la coscienza a mandare a catafascio il palazzo di Westminster, però che da loro fosse battezzato col nome di Torre di Eresia. Nelle controversie fra la Curia romana ed Arrigo I re d'Inghilterra intorno al diritto delle investiture, pigliarono varii testi della Bibbia, dove si dice la Chiesa sposa di Cristo, e i Sacerdoti si affermano Dei per [88] abusare in istranissima guisa delle parole adulterio e sacrilegio; e peggio ancora appellando gli ecclesiastici, con la perversa intemperanza del linguaggio a loro consueta, assassini quelli che gli spogliavano dei benefizii, ne traevano per conseguenza, che si dovessero ammazzare per farsene merito presso a Dio. E poichè Cristo, il quale impose a Pietro deponesse il coltello, aveva detto, che l'albero infecondo va reciso e buttato sul fuoco, il prete argomentando giudicò, che tanto più ci si doveva gettare l'albero portatore di frutti maligni, di qui, nel nome santo di Cristo, e a gloria di Dio creatore, i preti (non dico jene per non ingiuriarle) nella sola Spagna, dalla istituzione del santo Officio alla sua abolizione, che fu lo spazio di trecentoventisette anni, arsero vivi 34,658 creature umane, 18,049 bruciarono in effigie, e 288,214 mandarono in galera. E qui fo punto ripetendo che Dio ci liberi da tutto ciò ch'è prete, massime poi alle metafore cascate in mano di loro.

Comecchè l'ultima delle ragioni addotte dal padre Migali fosse la più assurda, appunto [89] per cotesto maggiormente percosse donna Clelia: tra l'andare sposa a Gesù, e sposa al Pelliccioni, la discrepanza sarebbe stata grande anco nei casi ordinarii, immaginate un po' quale parrà a noi, che sappiamo, quali panni vestisse costui; tuttavia risoluta a non cedere donna Clelia obiettava:

— E poniamo eziandio, che io mettessi l'affare della tenerezza da parte, intorno alla nobiltà del suo lignaggio io nulla so, ed in queste faccende bisogna ire innanzi col calzare di piombo.

— Clarissima donna Clelia, che dite mai? Scusate, ma questa poi non è da pari vostro: voi per consueto sì perita nei misteri delle famiglie romane, o non sapete voi, che la famiglia dei Pelliccioni nasce in linea diritta dallo imperatore Settimio Severo di cui l'arco si ammira qui dentro Roma?

— Io ve lo confesso addirittura, reverendo, possa non vedere più la faccia di Tuda se io ne ho mai inteso movere parola: però ci si ripara presto; mi dia le sue pergamene, o meglio mi consegni tutto [90] l'archivio, e quando avrò veduto co' miei occhi, considererò... penserò... già in tutto, ma quando si tratta mantenere inalterata la purezza del sangue «io sono un po' come San Tommaso.»

Ed il Gesuita pronto: — Però questa indagine menerebbe per le lunghe, e il santo Padre giunge per così dire a tagliare la testa al toro quando fa il cavaliere Pelliccioni capitano delle milizie, e si prevede in breve gonfaloniere della Chiesa.

— Sua Santità può fare molte cose, anzi moltissime, nobilitare eziandio un uomo, non dargli illustri antenati.

— Silenzio, per amore di Dio, donna Clelia, non vi scappino più queste parole di bocca; se le venisse a risapere Sisto voi sareste spacciata — le figliuole di Cammilla la lavandaia forse non hanno mutato sangue? Se così non fosse, e tale stimasse la comune degli uomini, donna Orsina Peretta sarebbe stata chiesta in isposa da Don Marcantonio Colonna principe di Sonnino, e di Manupelli, duca di Tagliacozzo e Paliano, marchese di Altezza, [91] conte di Albi, gran contestabile del regno di Napoli, e cavaliere del Tosone di oro? Don Michele pronipote di Sisto non salutano principe di Venetrò, marchese di Lamentana, e conte di Celano? La casa Colonna nobilissima tra tutte le famiglie della cristianità forse non si reputò onorata di accordargli una delle sue principesse? E casa Orsina ebbe a schifo, o sollecitò come grazia imparentarsi co' Peretti? — Guai a voi, donna Clelia, guai a voi se i vostri sensi sapesse papa Sisto, o pure ne sospettasse!

— Nè voi certo glieli andrete a riferire, disse la Savella spaventata.

— Certamente nè a lui nè ad altri, ma voi rammentatevi: che il Papa si ricusò ad accordare le nozze della sua nepote con Don Federigo Savello, perchè (così almeno affermavano i cortigiani) conobbe, che la vostra casa aveva più debiti che entrata, ed andava declinando di giorno in giorno. —

Allora la donna pronta a pigliare la palla al balzo:

— Pur troppo, esclamò sospirando, la [92] nostra fortuna volge al basso, e noi abbisogniamo in grazia delle nozze acquistare facultà di rifiorire al pristino splendore. — Ora quali le sostanze del cavaliere? Dal palazzo in fuori dove profuse scudi alla disperata (cosa che mi rende pensosa sopra il buon governo di lui) io so che il cavaliere Pelliccioni non possiede altro.

— Corre comune la fama ch'egli possieda un'isola intera...

— E sarà, ma nel mondo nuovo: ora mi capite, reverendo, io desidererei moltissimo, che possedesse almanco un ducato nel mondo vecchio.

— E lo farà, anzi so che ha di presente parecchi trattati per le mani per acquistare o qui, o nel Regno, o in Lombardia non uno, bensì parecchi principati e duchee.

— Che sia benedetto; compri prima questi stati, e intanto ci penseremo su... e tastato il terreno vedremo se ed in quanto faccia ostacolo la tenera età della fanciulla.

— E dái col tenerume!... Quando vi assicuro io che il cavaliere Pelliccioni sta sul tocco e non tocco di comperare un [93] principato, mi potreste credere; conosco ottimamente che voi, clarissima signora, siete bene disposta per questo gentiluomo; salute, leggiadria, età, prosapia illustre, ricchezze, insomma ogni cosa desiderabile in egregio marito trovasi con stupenda copia in lui, questo è certo; ora a che pro rimandare la conchiusione alle calende greche? Dire al povero innamorato: aspetta, egli è crudele come rimandare chi ha fame al giorno dopo. Anco le anime del purgatorio vivono sicure di entrare quando che sia nella gloria eterna del paradiso, ma tuttavolta noi ci sbracciamo con suffragi ed orazioni ad abbreviare il termine della dolorosa aspettativa. — Io amore non conosco a prova, soggiunse il Gesuita sorridendo sottile — ma per quanto ne ho sentito dire, so che mette gli zolfanelli addosso ai suoi vassalli ... pietà, signora mia, pietà del povero innamorato.

— Avventurosi voi, che non conoscete le miserie delle nostre condizioni; credetemelo, reverendo, se si tira la somma delle gioie e dei dolori di quelli che vivono al secolo, tale che s'invidia vi farebbe pietà: [94] le cure della famiglia, il governo del patrimonio, la condotta dei mariti, la educazione dei figli, l'ansietà pel collocamento delle figlie ci gettano in angustie da non potersi descrivere. Vedete, noi abbiamo discorso molto; mi avevate convinto quasi, ed ora mi accorgo, che logorammo il nostro tempo invano....

— Come? Perchè? Interrogò a sua posta il Gesuita spaventato, non potendo immaginare con quale nuovo amminicolo sarebbe saltata fuori cotesta forte negoziatrice; e la sagace con balda voce:

— Il cuore della fanciulla, reverendo, noi non lo consultammo; e sembra convenevole sapere il gusto della donzella dacchè ella, non noi, ha da sposare il signor cavaliere Pelliccioni. —

Il Gesuita non si aspettava questa parata; nè l'aveva creduta, nè la credeva adesso possibile; di fatti quasi sbalordito soggiunse:

— Com'entra la signora Geltruda in questo? E qual bisogno ci è del suo consenso?

— Non siamo mica ai tempi d'Iefette, [95] che i padri tagliavano la gola alle figliuole, e queste dicevano: grazie, egli è per sua carità.

— Se non sapessi di discorrere, qui adesso, proprio con la clarissima donna Clelia Savella, mi parrebbe trasecolare. Dove l'autorità paterna? A che ci troveremmo condotti noi con queste massime? Dunque da qui innanzi i figliuoli, i sottoposti faranno a loro modo? Il proprio libito irrazionale sempre, e quasi sempre pernicioso anteporranno al savio, e considerato dei genitori? La passione sostituita alla ragione, il talento al dovere? Donna Clelia! Donna Clelia! I figli, i sottoposti in mano ai padri e ai genitori hanno ad essere come un cadavere, perinde ac cadaver, come un bastone nelle mani del viandante; come una lima in quelle del fabbro.

— Vi domando umilmente perdono, ma in questo sto ferma come la colonna traiana. Eh! non gli avete portati voi i figliuoli nove mesi nel seno, non voi partoriti in mezzo ai dolori, non allattati col vostro latte voi... Se i matrimoni riescono [96] a bene, il merito tocca al padre; se nascono guai, tutto si rovescia sul capo alle povere donne. Stava alla madre informarsi, a lei interrogare, e indovinare il segreto del cuore della figliuola; alla madre prendere odore delle voglie, dei costumi, dei gesti, e dei detti dello sposo. Se si mettono in tavola contentezze, alla madre è bazza se ci può intingere il pane; se tribolazioni, la sua parte è per quattro, quando non l'abbia a trangugiarsele intere.

— Ma qui non siamo al caso, distingue frequenter....

— Io non distinguo.... senza il consenso della fanciulla, recisamente, assolutamente io non devo, non posso, nè voglio consentire. —

Il Gesuita trovato il terreno duro non ci volle rompere la vanga, e con giravolta maestra riprese con voce in bemolle:

— Comunque possa questa vostra scrupolosa condescendenza parere soverchia, e tale da tirare a male esempio, non vorrò ripigliarla io... duramente. Donna Clelia, pensateci su con la solita vostra prudenza; [97] mettetevi innanzi agli occhi la volontà del Papa... il bene della figliuola, lo incremento della nobilissima vostra casa.... e poi consultate la signora Geltruda. Intanto addio, e mi raccomando alle vostre orazioni.

— Alle mie? Che fragile appoggio trovereste in me indegnissima peccatrice! Con migliore fiducia di buon successo mi raccomando alle vostre.

— Sia laudato Gesù Cristo.

— Sempre sia. —

Donna Clelia rimase come spossata dalla discussione, e più dal repentaglio in cui le pareva essersi messa. La vanità sua da un lato trovava argomento di trionfo dallo avere ridotto al verde di ragioni un solenne maestro in divinità quale si stimava il padre Migali, ma dall'altro sentiva l'amaro di essersi in certa guisa ribellata al suo confessore, e per via di sofismi ch'ella per la prima dannava per falsi e per esiziali; basta, ormai parola detta e sasso gittato non si possono tirare indietro, e il tempo darà consiglio.

Il padre Migali si partiva, certo un po' [98] confuso, ma più che mai fermo a volerla spuntare; la confusione veniva dall'essersi figurata troppo facile la vittoria; però se di venirne a capo di punto in bianco non era riuscito, aveva riconosciuto la fortezza, e scoperto i punti deboli, onde poterla espugnare, i quali si riducevano a due, paura del Papa, e cupidità di averi; nel mentre che scendeva le scale distratto, allo svoltare nello androne urtò di forza nel marchese Silla, il quale, secondo il suo costume, camminava con frettolosi passi come se dovesse andare a mettere i consoli in palazzo. Al dolore del cozzo ognuno di loro in cuor suo mandò l'altro all'inferno, e stette a un pelo di traboccare in male parole; ma quando levato il viso si riconobbero, il Gesuita, stese le mani, disse:

— Oh! dulcissime rerum, caro, ma caro cento volte caro quel mio marchese Silla.

L'altro, tastandosi il corno che il Gesuita gli aveva fatto nella fronte, rispose:

— Amatissimo in Christo frater, va bene che voi vi sprofondiate a salire presto le scale del paradiso, ma bisognerebbe badaste più a scendere quelle del mio palazzo, [99] e ciò moltissimo per amore del vostro collo, ed anco un po' per amore della mia povera fronte

«Che nuovi allori ormai nè merta o spera,»

come cantò il Poeta.

— Marchese Silla, soggiunse il Padre ridendogli più degli occhi, che co' labbri: costituitevi in colpa; il peccatore siete voi; pensando ai fatti vostri io m'era svagato.

Il marchese naturalmente domandava il come, e il Padre trattolo giù sotto la scala, in luogo riposto, dopo essersi guardato sospettoso dintorno, gli espose, parte levando, e molti arabeschi aggiungendo di suo, il colloquio avuto con la marchesa Clelia; un capo di opera di stile loiolesco, a cui per dare degna conchiusione disse:

— Capisco il mio torto; presento il rimprovero che sarete per farmi, e già me lo sono mosso io: doveva volgermi a voi, che siete capo di casa, e non impacciarmi con le rocche e coi fusi, ma con voi altri non si sa che pesci pigliare, imperciocchè la Marchesa ad ogni piè sospinto non [100] rifiniva di dire anco a cui non lo vuol sapere che padrona è lei, e quello si fa da lei è tutto ben fatto.

— Non è vero niente; il padrone sono io.

— Gli è ciò che diceva a mia posta.

— E mi par tempo di finirla, da farmi passare per uno zoccolo.

— Su da pari vostro, chi pecora si fa il lupo se la mangia; mostrate i denti...

— Nella ragazza ci ho la mia parte anch'io.

— Così almeno giova credere. La legge parla chiaro «pater est quem justae nuptiae demonstrant;» la è una presunzione, ma juris et de jure, che equivale alla verità.

— In casa mia comando io. Non gliela vuol dare, gliela darà... gliela darà...

— Il cavaliere da splendido gentiluomo non intende vivere a spilluzzico... feste... balli... insomma bando alle malinconie....

— Ma naturale... che colpa ho io se i peccati mortali troviamo, a lungo andare, più gustosi dei sacramenti.

— Uh! bocca d'inferno, ve ne avete a confessare, sapete?

— Non mancherò, e di farne altresì la [101] penitenza; ma voi, padre Migali, dovete convenire che tra una bella cortigiana sbucciata pur ora, e la ventennale consorte ci corre quanto la messa piana e la messa cantata...

— Non ne voglio sentire più, altrimenti mi danno di rimbalzo, — e il Gesuita turandosi con le dita gli orecchi scappava via; giunto a qualche distanza aggiunse: — fatevi valere, vè! ricordatevi, che non per nulla vi chiamate Silla, e che il cavaliere ha promesso, dopo conchiuso il matrimonio, pagarvi mille ducati di pensione al mese.

— Posticipata, o anticipata?

— Anticipata, che diavolo! anticipata s'intende.

— Bisognerebbe che di botto mi pagasse un'annata almeno.

— Ne parleremo... aggiusteremo di corto i vostri desiderii... e questo il padre Migali disse a voce alta, poi aggiunse languido: — nel miglior modo possibile; — ma al marchese Silla non arrivarono scolpite che le prime parole, ond'egli tempestando saliva la scale di tratto in tratto ripetendo:

[102] — Non gliela vuol dare... oh! gliela darà... gliela darà.


Il marchese Silla entrato nello studio di donna Clelia ex abrupto come l'esordio della prima Catilinaria, la trovò co' libri dell'amministrazione davanti facendo conti; levati appena gli occhi ella lo vide, e senza salutarlo tornò a computare; ad ora ad ora postasi la penna fra le labbra la Marchesa contava, o riscontrava la puntualità del calcolo mettendosi uno dopo l'altro i diti sul naso. Il Marchese passeggia e gestisce come per mantenersi agitato il sangue, allo improvviso si ferma e dice:

— Clarissima donna Clelia nostra consorte, siamo stati informati come un degno ecclesiastico, che noi onoriamo della nostra estimazione, venne qui a proporvi certo partito accettevolissimo per accasare la nostra figliuola Tuda; voi, signora consorte, commetteste colpa assai grave, e oltraggio del tutto riprovevole alla nostra autorità, quando avocaste a voi simile negozio obliando, o sprezzando la nostra competenza. —

[103] La Marchesa gli vibrò una occhiata di scancio, e non aperse bocca; il Marchese con un po' meno di abbrivo continuava:

— Nè qui si fermò la petulanza vostra, che presumeste farvi arbitra della bontà del partito, e su due piedi, senza consultare noi, pater familiae, e per giunta della figliuola per presunzione juris et de jure, senza considerazione, come senza cortesia, lo ributtaste, e ciò con iscapito grande, e sto per dire infamia del nostro credito. Ora se per natura di femmina è consueto, che dove si allenti un poco la briglia ella trasmodi, giudizio e decenza impongono all'uomo, richiamando le cose ai principii, tolga via gli umori viziati e ripigli la propria autorità. —

A questo punto la Marchesa tornò a guardare il marito, e parve volere prorompere, ma tentennato il capo, riprese la penna e il conteggiare interrotto. Il Marchese tramontando sempre aggiunge:

— Tutto qui a catafascio, manca il governo della casa, se ne oscura lo splendore, per miseria diventiamo contennendi; noi tenuti a stecchetto così che diventiamo [104] favola della gente. Ora bisogna che per noi si rimandi il cercatore dei frati di San Giovanni di Dio, ora non possiamo sovvenire di pecunia il Camarlingo dei padri Agostiniani del riscatto; l'altro ieri vennero a sollecitarci invano di aiuto per la Confraternita di maritare donzelle; stamane il cuor nostro s'infranse di amarezza avendo a rifiutare pochi scudi, perchè una misera peccatrice, ritrattasi dalla via della perdizione, su quella della salute s'incamminasse...

La Marchesa non potè più stare ferma alle mosse, si levò silenziosa, ed appressatasi a certo stipo, l'aperse, ne cavò fuori qualche oggetto, che chiuse nella mano; ciò fatto volse il passo verso il marchese Silla (che omai si pentiva di essersi messo a quel cimento), e mostratagli una collana, la quale usavano in cotesti tempi portare i gentiluomini intorno al collo, gli favellò:

— Per levare la donna dal peccato dategli questa vostra collana che per sottrarvi alla infamia ho riscattato stamani dalla cortigiana.

— Clelia!... Marchesa!...

[105] — Se maritiamo Tuda noi restiamo quasi privi di sostentamento in casa.

— A questo non aveva pensato...

— Il Cavaliere per ora non possiede fondi, nè acquistò tanta autorità da poterci sovvenire con danari, o col credito in Corte. — Se vestite lui rimanete spogliato voi.

— La è chiara come l'acqua.

— Promesse ve ne farà a cantara, ma poi come le soda? = Chi del suo si spodesta dagli un maglio su la testa! =

— Dagliene due. Mia cara, mia degna Clelia, voi siete la provvidenza di questa casa, voi misericordiosa, voi divina...

— Che cosa diavolo fate?

— Mi butto in ginocchio davanti a voi per ottenere l'assoluzione dei peccati.

— Andate là, pecorone.

— Grazia vostra, Marchesa, grazia vostra.

— Ed o vorreste dare Tuda a cotesto spiantato?

— E come insisteva a spuntarla! Quel frate... frate

e per non dir di più, dirò... beato!

[106] Non l'avrà di certo, dovessero mettermi in pezzi, non l'avrà; in casa mia comando io....


Quando la mattina di poi incontrò il padre Migali che lo posteggiava, guardatolo di traverso gli gridò:

— È inutile che gittiate il fiato; il vostro cavaliere non avrà Tuda...

— Come! Come!

— Dovessero mettermi in pezzi non l'avrà, e non l'avrà, il padrone sono io... in casa mia comando io...

— Voi siete un pecorone...

— Questo me lo ha detto anco la signora Clelia, e con più diritto di voi, ma il vostro Cavaliere non avrà la Tuda... e non la può avere; — e scappò via temendo non potere resistere alle esortazioni, o alle rampogne del frate.


Il padre Migali veramente non aveva creduto, che il Marchese gli fosse per dare ausilio d'importanza, ma tra aspettarci poco o veruno aiuto da una persona, e [107] trovarcela avversa per la vita la è faccenda che avventa; quindi il Gesuita stizzito s'inviperì a rompere gli ostacoli: per la quale cosa ristrettosi col Pelliccioni presero a ventilare con lunga considerazione le vie per arrivare al fine proposto, e dopo avere stacciata per bene ogni cosa decisero, che la chiave della volta essendo il Cardinale da Montalto, a lui bisognava raccomandarsi, lui scaldare, e per lui sgararla.

— Innanzi tratto, mi capite, figliuolo, ammoniva il Padre, bisognerà guadagnarci amici intorno al Cardinale perchè ci servano, e perchè non ci disservano; la Corte qui fa per impresa chiave di oro e chiave di argento.

— Ci aveva pensato.

— Mi avanza il crederlo, tanto vi ho sperimentato previdente e sagace.

— E sono ito più oltre....

— Voi camminate co' trampoli...

— E già mi resi parziali il segretario, il cameriere e il fratello della Marchesa...

— Oh! badate alle frecce di san Sebastiano, che maestri arcatori sono qui in Roma.

[108] — Io li pago a raccolta; chi dà subito, dà due volte, e talora nè anco tre bastano, che allora chi ha da farti servizio torna ad ogni po' sul chiedere. La speranza non presenta confine, o glielo dà sempre largo il desiderio di chi spera; la ricompensa come limitata comparisce sempre minore dell'aspettativa anco quando l'avarizia del donante non la tosi; e poi voglia soddisfatta e stomaco sazio vogliono riposo. Al segretario ho promesso mezza annata della paga dell'ufficio che mi verrà concesso, agli altri un quarto per uno.

— Cavaliere, esclamò il padre Migali gittando le braccia al collo di Paolo come uomo innamorato, rendetevi Gesuita: io metto pegno che diventerete Generale dell'Ordine.

— Una cosa alla volta; ora vo' Tuda.


Il cardinale Alessandro, trafitto come un barbero con le perette in casa e fuori, prese il negozio a petto, e ragguagliato punto per punto di ogni cosa, instituita [109] sottile indagine di quanto giovasse, e di quanto o non giovava o noceva, un bel dì salito in carrozza si recò al palazzo Savelli. — Batteva per appunto mezzogiorno quando pose il piè su la soglia del portone, e quinci inviò due staffieri innanzi a sè per annunziare la Marchesa Clelia della sua visita.

La Marchesa colta così alla sprovvista rimase trasecolata; non sapeva se dovesse andare a incontrarlo in capo alla scala, ovvero sopra la soglia della stanza; se attenderlo di piè fermo dove si trovava, ovvero farlo aspettare tanto, che potesse mutare veste e mettersi a sedere sul seggio marchionale sotto il baldacchino. Intanto ch'ella avviluppandosi in mezzo tante ambagi non sapeva risolversi, fu sollevata la portiera della sala e comparve il cardinale Alessandro[10].

— Ella rimase attonita, e visibilmente tramutossi in viso; il Cardinale non se ne accorse, o finse, e con leggiadra disinvoltura accostato alla Marchesa, assai cortesemente la salutò, ned ella, riavutasi tosto, si rimase addietro, chè manierosa era [110] molto, nè disgradava il suo nobile lignaggio; e poichè il Cardinale le aveva porto la mano, ella non ricusò la sua, e si rimasero così impalmati; anzi il Cardinale a disegno trattenne la destra di donna Clelia, la quale di tratto in tratto sogguardando, intanto che si alternavano le cerimonie, per ultimo, quasi forzato dalla contemplazione della sua bellezza, disse:

— Signora Clelia, ce ne rallegriamo con voi; voi avete una mano da disgradarne Giunone...

E veramente appariva venusta; delle grazie antiche, avanzava questa una, a lei carissima come tavola di naufragio che le pendeva inevitabile sul capo, e se ne faceva onore come messere Amerigo del falco rimastogli in casa unico bene della passata fortuna: ella si compiacque della lode (qual donna non si compiace di essere lodata? E quale uomo altresì può resistere?), sorrise alquanto; come un crepuscolo di rossore le apparve sul sommo delle gote e si sentì vie più disposta ad ascoltare con diletto il Cardinale.

— Signora Marchesa, questi rispose tenendole [111] sempre presa la mano; noi aborriamo per indole le rivolture di parole, le quali repugnano poi al procedere leale che vuolsi adoperare tra gentiluomini. La nobiltà impone i suoi doveri, e non pochi... e per altra parte sarebbe tempo perso mettersi sul sottile con voi, che tutto il mondo conosce per la più saputa e prudente matrona che viva in Roma...

La mano della Marchesa dava un paio di scosse elettriche a quella del Cardinale, che dopo breve pausa continuò:

— Per la quale cosa senza tante ambagi noi vi diciamo espresso, che ci siamo mossi per negoziare con voi le nozze della clarissima donna Geltruda vostra figliuola...

Qui scoppiò dalla destra della Marchesa un fascio di faville elettriche; e il Cardinale di seguito:

— E per non tenervi in asso, vi diremo alla ricisa, che la chiediamo pel cavaliere Paolo Pelliccioni...

La mano di donna Clelia diventò marmorea, ed anco su la faccia parve le passasse un'ombra, ma il Cardinale pronto a rincalzare.

[112] — Lo sappiamo, repugna alla vostra tenerezza materna maritare la fanciulla in età così fresca; ma su questo pigliate conforto dallo esempio; donna Cammilla nostra nobilissima zia non ha dubitato di consentire andassero a nozze le sue figliuole, nostre cugine, in età non disforme da quella della vostra... e Sua Santità non ha trovato a ridire; all'opposto con prontezza approvò...

La mano riprese languida gli spiriti vitali: quanto a viso, donna Clelia pareva se lo fosse fatto di vetro: e il Cardinale prosegue:

— Prima cura di nobil gente è quella di avvisare con diligenza che l'inclito sangue non traligni, noi sappiamo che voi in questo procedete rigidi, e noi in fede di gentiluomo vi approviamo; potremo però dirvi, che ci hanno nel mondo contatti che nobilitano come ce ne ha altri i quali santificano; così l'uomo chiamato dal Papa in cappella, o fatto sedere alla propria mensa, o tenuto al sacro fonte, di sua natura diventa nobile; ma comprendiamo come questo potrebbe non bastarvi, e quindi noi [113] ci proponiamo procurarci le prove della nobiltà del cavaliere Pelliccioni, che noi insieme esamineremo a bello agio. —

E la mano non diceva niente.

— Rispetto a sostanze, noi considerando il magnifico palazzo quasi rifabbricato di pianta, la copia delle preziose masserizie radunatevi dentro, la famiglia, le livree, e i cavalli, non meno che il traino di vita superiore al consueto dei gentiluomini, e quasi principesco, dobbiamo giudicare che molte abbiano ad essere le ricchezze del cavaliere Pelliccioni; certo in Italia, per quanto conosciamo noi, non possiede feudi, ma egli dice, che non bisogna precipitare la vendita delle sue terre in America, e ci sembra non senza ragione...

E la mano era fredda.

— Però, messa da banda ogni altra aspettativa, l'ufficio che sta per conferirgli il Pontefice, unito alla dote... Che vi sentite Marchesa? M'inganno, o tremate?

— Degnatevi continuare, illustrissimo; io patisco di brividi, ma passano subito.

— Comprendiamo, Marchesa, comprendiamo; la dote pagata, casa vostra va a [114] trovarsi in angustie... Però, madonna, parvi dovere essere noi così poco studiosi della nobiltà da pretendere che lignaggi illustri come il vostro decadano? Siamo usi a rispettare la nostra nobiltà nell'altrui. Voi avete una lite in piedi? —

La mano della Marchesa proruppe un groppo di faville elettriche, e la ritrasse a sè con veemenza per adoperarla nei gesti.

— Pur troppo! Ella esclamava, e da quanti anni! Una voragine, uno abisso dei beni di casa Savella! Non bastando a sopperire alla spesa di sportule ai giudici, di onorarii agli avvocati, di mancie ai sollecitatori, famigli, cancellieri, cursori, apparitori, insomma un nuvolo di cavallette, ho alienato i miei beni parafernali, e manomesso la dote... il marchese Silla nabissa dall'altra parte... io mi affatico a rimontare il fiume, ma la corrente mi sopraffà, e ormai mi cascano le braccia... voi...

— Noi abbiamo pensato a questo. Ordineremo vi spediscano la causa; i feudi che verrete a ricuperare buttano un quattordicimila scudi di entrata; amministrando [115] voi con la ordinaria prestanza vostra, di leggeri ne ricaverete diciotto e venti; la dote di donna Geltruda tra beni stabili e contanti va a diecimila e cinquecento scudi di rendita calcolato il decennio, dunque voi guadagnate un sette, o un dieci di mila scudi oltre la grazia di Sua Santità. —

Madonna Clelia pareva, ed era trasfigurata, il bel vermiglio di cui s'imporpora la vergine quando prima intende favellarsi di amore le giocondava le gote, gli occhi alacri e micanti come quelli che appunta il divino intelletto negli abissi della natura per iscoprire i suoi segreti o gli ha scoperti. Per soverchio gaudio non sapeva snodare parole; innanzi che parlasse l'era mestiero sfocare la intensità dello affetto; intanto ch'ella si sboglienta, concedetemi che in quattro battute io vi metta davanti una considerazione.

Ai tempi nostri si arriccerebbero le chiome per orrore ai sacerdoti della giustizia se alcuno si attentasse intimarli a pronunziare sentenze pro o contro la vita o la roba altrui; così rispettando cotesta sacra religione loro non vi ha persona, la [116] quale ordini al giudice: spogliami questo, ammazzami quell'altro; mai no; solo nelle faccende criminali si procura inviare sul mattino i soldati convertiti in carnefici a finire quelli che liberissimamente i giudici a mezzodì condannano, e nelle faccende del mio e del tuo i potenti osano raccomandare solo, che si affrettino a spedire il negozio. Certo il giudice interpretando, come veruno si ha da supporre che solleciti una trave a cascargli sul capo, o la mannaia sul collo, pronunzia la sentenza in pro del raccomandato; ma in questo qual colpa ci ha il potente? Il peccato è tutto dei giudici; errore di giudizio, non già di cuore, che senza scarto quanti sono possiedono santissimo... e circa ad intelletto sappiamo come labile nei figli di Adamo: chi sta su la fossa piange il morto. A me piacerebbe vedere le porte dello inferno, e quelle dell'anima umana aperte a due sportelli, ma gli è voglia salvatica, almeno tale sentono i gesuiti e i moderati, i quali predicano che la decenza è la virtù del vizio; non so se abbiano trovato essi l'aforismo, che la Ipocrisia [117] è omaggio della colpa alla virtù; se non lo trovarono essi meritavano averlo inventato. Basta a questa gente che il pudore abbia preso alloggio su la guancia destra, e la verecondia sopra la guancia sinistra, donde movendosi vengano a rinnovare su la punta del naso, come sopra l'altare della Ipocrisia, i divini connubii: in altra parte pudore e verecondia pesano e incomodano.

La Marchesa avendo pensato a quello che doveva rispondere favellò:

— Illustrissimo, a me tocca ripetere ciò che la sacerdotessa di Delfo ebbe a dire ad Alessandro Magno di cui portate degnamente il nome: figliuolo mio, voi siete invincibile.

Ecce ancilla Domini fiat voluntas Dei.

— Adesso però avete a fare qualche cosa di più in pro di queste nozze.

— Quale, illustrissimo?

— Condurre a consentirle anco il Marchese.

— Contenta io, contenti tutti.

— E pure vi ha chi ne dubita.

[118] — In casa qui, oltre il mio, non si conosce altro volere...


Il marchese Silla in quel mentre tornava a casa; inquieto e guardingo volgeva gli occhi intorno a sè, pauroso, che da qualche canto gli si avventasse addosso un creditore; ma creditori non incontrò, bensì il perfidioso Gesuita, il quale pari al ragnatelo che dal suo buco si saetta addosso alla mosca, cadde su le spalle al Marchese quando meno l'attendeva, e:

— Ma pensateci, illustrissimo signor Marchese, una seconda volta; gli è proprio un negozio di oro; mi stanno alle costole i Massimi, ma voi sapete quale e quanta la mia parzialità per la clarissima casa vostra....

— Reverendo, lasciatemi in pace; io sono di ferro, io..., e saliva a due a due gli scalini per sottrarsi alla persecuzione; il Gesuita implacabile dietro anch'egli accavalciando con iscosci smisurati senza curare il pericolo di rompersi il naso su le [119] scale, impedito com'era dalla gonnella; e con lena affannata singhiozzava:

— Affare di oro... me ne va il sangue a catinelle...

— È inutile... potreste smovere innanzi l'obelisco di papa Sisto, che me...

— Credete, Marchese... voi buttate la fortuna fuori di finestra...

— Tanto meglio, qualcheduno la troverà per la strada.

— La clarissima... sembra... si spera... oro... oro... affare d'oro!

— Che clarissima, o non clarissima, il padrone sono io: quante volte ve l'ho a cantare... le mie parole s'incidono da sè nel porfido...

E giunto in capo di scala scappava, scappava come uno starnotto per sottrarsi al cane del cacciatore sotto le ale della madre. La starna madre era la moglie. Aperse l'uscio il Marchese, e sporse il capo mentre il Cardinale e la Marchesa alternavano fra loro i discorsi riferiti testè; nè lo avvertirono punto, sprofondati com'erano nel negozio che gli occupava:

[120]


— Vi domando perdono, Marchesa, ma vi ha chi ne dubita.

— Non sanno quello che abbacano; il mio marito ha da fare a modo mio; chi si ribella guai! io punisco i recalcitranti a mo' di papa Sisto.

— Grazia della ruota pel povero Marchese! Tanto è, vi ripeto averci persona, che teme trovare intoppo nel marchese Silla; ei si ostina a sostenere, che i matrimoni in casa li vuole negoziare egli.

— Il Marchese è un somaro....

— Oh! somaro? non lo avrei mai creduto....

— I figliuoli gli ho fatti io, non egli.

— Su questo non troverete chi vi dia torto....

— Noi (la Marchesa disse proprio noi) non possiamo senza amarezza sentire com'altri dubiti della nostra assoluta facoltà di provvedere alla sorte dei nostri figliuoli.

— Meglio così: noi abbiamo fede nel vostro valore. Roma, il sacro Collegio, e il Papa, in fede di gentiluomo, stanno a contemplare gli effetti della vostra virtù, [121] e già gli odo applaudire, e dichiararvi degna degli onori del Campidoglio. —

Detto questo il Cardinale si drizzava in piè ostentando certo suo fare pomposo, e pieno di dignità: veramente la bella impresa aveva sostenuto costui; con menzogne, piaggerie, ingiustizie, e non si dice il peggio, era giunto a infatuare il cervello, e indurire il cuore di una meschina, la quale si atteggiava a gladiatore combattente contro la propria famiglia.


— Se voi siete la madre...

La Marchesa e il Cardinale percossi di un tratto da queste parole si voltarono quasi atterriti, e videro la faccia scorrucciata del Marchese....

— Se voi siete la madre, io sono il padre; se per voi sta la natura, per me sta la legge, ed io intendo e voglio maritare la figliuola a modo mio.

Il Cardinale faceva greppo, ed in suo cuore avrebbe desiderato trovarsi lungi di là sentendo imminente una procella coniugale [122] dove gli pareva la dignità sua scapiterebbe; e s'ingannò, imperciochè la Marchesa non riottosa, ma blanda e pacata, tuttavolta sicura a mo' dei domatori di belve (e i lettori sanno che il Marchese Silla bestia forse era, non però belva), si accostò al Marchese, e presolo per mano, lo trasse da parte. Che gli disse? Come lo incantò? Furono più i cenni, che le parole, pure entrambi pochi. Il volto del Marchese si tramutò, quasi il sole, rotte le nuvole, allo improvviso lo avesse vestito di luce; e saltellante e festoso si recò a baciare le mani al Cardinale con parole burlescamente servili, professandosegli sviscerato e schiavo; per suo servizio si sarebbe fatto arrotare, squartare, attanagliare e mazzolare, con le altre varianti allo estremo supplizio, accettissime al Vicario di Gesù Redentore. Certo anco la viltà opera i suoi miracoli, e sel sapeva il Cardinale, tuttavia superarono anco quello che ei sperava o temeva da questa miserissima fra le infermità umane. Ecco quello che vinse il Marchese.

— Silla, noi siamo rovinati....

[123] — Clelia!

— Tuda non possiamo più tenere in casa; noi ormai siamo ridotti a vivere sopra la sua dote.

— Dunque non maritiamola come avevamo stabilito.

— Dunque maritiamola.

— Io non capisco, Clelia.

— Ecco; la dote di Tuda butta diecimila scudi di entrata.

— Diecimilacinquecento.

— Diecimilacinquecento. I beni che ci litighiamo co' Massimi di Santa Prassede si estimano capaci da quindici a ventimila scudi di rendita.

— Sicuro! ed anco avvantaggiati.

— Ora il Cardinale, se concediamo Tuda al cavaliere Pelliccioni, nobilissimo e ricchissimo gentiluomo, e in grazia di Sua Santità, promette e si obbliga darci vinta la causa.

— Oh! allora è un altro paio di maniche.

— Il marchesino sarà provveduto di ufficio da pari suo e non ci costerà più un baiocco.

[124] — Allora muta il caso.

— E potremo rilevare lo splendore della casa nostra.

— Allora ciò aggrava notabilmente.

— E alle tue spese, sebbene da vecchio matto, peccatore, e impenitente, procurerò di provvedere...

— Prima i debiti...

— Prima i debiti.

— Cioè non prima, insieme, perchè i creditori mi pungono peggio delle vespe.

— E sommano questi debiti?

— Io credo a una... die... a una do...oo...zzina di mila scudi.

— Saranno anco venti, perchè non conti Aronne ebreo.

— Quello si può far buttare nel Tevere....

— Con Sisto in trono?

— Gli si dà un acconto, e per buttarlo nel Tevere si aspetta alla sede vacante.

— Dunque Tuda ha da pigliare, o non ha da pigliare il cavaliere?

— Come non l'ha da pigliare? Lo ha da pigliare benissimo. Eh! quando mi ci metto io, tu sai che non si scatta di un [125] pelo.... — tu sai che tale fu sempre il mio proponimento, eri stata tu, che mi avevi fatto mutare.

A questo modo fu conchiuso il matrimonio di Tuda. Napoleone soleva dire «che il danaro ai nobili spiantati faceva ufficio di concime sopra le terre magre;» ei s'ingannava; se la pecunia male acquistata vuolsi considerare per fimo, le palate di scudi su la nobile ciurma gli è letame sopra letame; piastriccio di vituperio vecchio col vituperio nuovo.

Per maggiore strazio la Marchesa commise al consorte con voce alta e solenne:

— Orsù Marchese, piacciavi andare pel Marchesino e condurlo qui, dacchè come erede di casa la regola vuole sia informato di tutto, e pronunzi il proprio consenso: inoltre ci potrebbe somministrare qualche buon consiglio, essendo giovane di svegliato ingegno e di dottrina non comune. —

Il Marchese andò, e la prima persona, che gli occorse aprendo l'uscio, fu il padre gesuita Migali piantato lì per sentinella, il quale subito impronto ricominciava:

[126] — Mio riverito padrone colendissimo, per amore delle cinque piaghe di Gesù pensateci bene.

— A che ho io da pensare, mio carissimo?

— Al matrimonio di donna Tuda... dolcissimo mio.

— Io ci ho pensato, amabilissimo padre.

— Dunque gliela volete dare, o non gliela volete dare?

— Chi?

— Donna Tuda al cavaliere Pelliccioni.

— E chi gliel'ha negata?

— Mi pareva....

— Vi è parso male...

— E pure avrei scommesso che vostra signoria illustrissima....

— La vostra signoria reverendissima avrebbe perduto la scommessa.

— Allora ci sarà cascato equivoco (insinuò il Gesuita, il quale avendo sbirciato così di straforo la cappa rossa del Cardinale cominciò ad accorgersi della ragia) — perchè....

— O piuttosto gli anni vi resero le campane grosse.

[127] — Giusto! sarà come dice lei signoria, colpa delle campane grosse.

— Dacchè se avessi detto no, proprio di no, voi sapete....

— Ch'era più agevole smovere l'obelisco di papa Sisto che voi....

— Già, per lo appunto; quando dico una cosa....

— La è come se fosse incisa nel porfido.

— Io vado pel Marchesino nostro figliuolo: attendetemi un istante; in quattro salti ritorno; e se vi piace, e vi piacerà di certo, v'introdurrò in sala perchè siate presente alla concessione di Tuda per legittima sposa al vostro Beniamino cavaliere Pelliccioni.

E sì partì; il Gesuita gli sputò dietro, a modino però, ond'ei non se ne accorgesse, e poi chinata la faccia disse:

— Signore! Questi dunque i successori degli antichi Romani? Valeva il pregio di salire tanto alto per avere poi a tracollare sì basso. —

Il marchese Silla si trattenne più che non avrebbe voluto, perchè ebbe a far lavare [128] le mani e il viso al figliuolo intento a lavorare mortaletti e razzi sua delizia: entrò dondolando il capo come una zucca mossa dal vento; la imbecillità mettendogli le sue mani in capo per battezzarlo marchese gli aveva schiacciato la fronte, e fatti schizzare fuori gli occhi, la quale cosa riunita alla obesità precoce, e alla giogaia, gli davano proprio la fisonomia del bue. Baciò la mano alla Marchesa, che non giunse a fargli capire, che doveva innanzi baciarla al Cardinale; a questo poichè l'ebbe agguardato un pezzo volse un saluto melenso, per ultimo incatricchiate[11] le dita delle mani, tranne i pollici che girava uno intorno all'altro si buttò là come cosa balorda: se non che la madre con mal piglio lo guardò, e acerbamente chiamatolo gli espose con parlare succinto quanto era avvenuto, interrogandolo del suo consenso. Il giovane che teneva lo spirito distratto altrove, forse al volo delle mosche copioso là dentro, quando la madre ebbe finito rispose:

[129] — Eh? —

La povera signora sudava acqua e sangue: temendo peggio, chiesta ed ottenuta licenza lo trasse da parte, e agguantatolo pel petto non senza squassarlo di tratto in tratto per farlo stare attento, lo rese capace di che si trattasse. La madre giungeva a mettere una notizia dentro cotesto nobile cervello a un dipresso come i nostri giandarmi mettono in prigione un borsaiolo. Quando le parve ammaestrato lo lasciò ire, ed egli allora con le braccia tese lungo le coscie, a mo' degl'idoli egiziani, tutto di un fiato disse:

— La signora Marchesa mia madre, ch'è qui, mi ha detto, che devo dire liberamente di sì... e tacque.

— Sul matrimonio proposto di mia sorella Tuda col cavaliere Paolo Pelliccioni — suggeriva donna Clelia.

— Sul matrimonio proposto di mia sorella Tuda col cavaliere Paolo Pelliccioni — ripetè il Marchesino. —

Per poco la gravità cardinalizia non iscappava di mano al cardinale Alessandro, ma il Gesuita maligno, aggiungendo [130] alla carezza della mano la carezza della voce, diceva:

— Bravo, Marchesino, bravo, da pari suo, lei non poteva fare di meglio. Donna Clelia, mi congratulo con voi; Marchese Silla, qui non ci entra miscuglio, gli è proprio vostro figliuolo nato e sputato. —

Adesso toccava la volta a Tuda; non già per assentire. Al consenso di lei, alla prova della nobiltà di Paolo ora pensavano quanto al primo uomo, che piantò carote: la era chiamata per udire stabilito il suo matrimonio, nella guisa che si legge la sentenza al condannato. La udì la donzella a occhi bassi, e scolorata in viso; poi levò la faccia e guardò attorno vogliosa d'indovinare quali fossero le passioni che agitavano in quel momento le creature che le facevano corona; e fu come rassegnare i sette peccati mortali con la melensaggine per giunta: non proferì parola, ma pensò che Dio tiene luogo di padre e di madre, e rimase confortata nella fiducia, che la Provvidenza non la lascerebbe in abbandono: allora le tornarono il vermiglio su le guancie, il sorriso ai labbri, e:

[131] — Quello che hanno disposto di me, ella disse con atto leggiadro, i miei amorosi genitori, e questi prudentissimi personaggi che si pigliano sollecitudine di me inesperta fanciulla, senza dubbio è ben fatto. Se non trovo parole più degne, non me lo appuntino a sconoscenza, bensì al turbamento naturale a gentil donzella colta alla sprovvista da nuova così improvvisa, nè mi reputino zotica se tolgo da loro commiato per quietare la mia agitazione. —

Da ogni lato scoppiarono altissimi encomii alla bella Tuda; e furono tanti da disgradarne le litanie della Madonna; sopra il suo capo versarono blandizie e carezze come fiori su quello della vittima prima di sacrificarla.

[134]

CAPITOLO XII.
La sorella Maria.

Tutti dunque erano contenti; il Papa e il Cardinale nepote, perchè senza tirare fuori uno scudo si tenevano bene edificato il Pelliccioni da cui si ripromettevano mirabilia per la dispersione dei banditi; quanto ai meriti vecchi, Roma fissa alla utilità presente ed alla futura, della passata poco studio si piglia: ed ella respirò sempre la ingratitudine come l'aria; per lei Giano cessò non pure essere Dio, bensì divenne demonio per infinite cause, massime per quella delle due faccie, una delle quali mira avanti, l'altra indietro. Roma addietro non mira mai; almanco per dare. Certo per via di simile aspetto i Massimi ne venivano a patire, ma oltrechè la grandine su qualche campo bisogna che scoppii, dai Massimi lì per lì non ci era da temere, nè da sperare nulla; capitando il caso di [135] avere a gratificarseli non mancava gente a cui fare la pelle; e fu pratica costante della Curia Romana colmare una fossa cavandone accanto un'altra. — Di Paolo non si parla nè manco; in coteste sue nozze presentiva che lo avrebbero preceduto al talamo le Furie con la teda di Amore: avanti lo tirava il fato; vedeva rosso, se di sangue o di fiamme non bastava a distinguere; ma se sangue, non sempre il sangue di Abele grida vendetta al cospetto di Dio, e se fiamme, traverso al fuoco si salvarono parecchi, e senza miracolo. Al padre Migali sembrava toccare il cielo col dito, e siccome nella mente pertinace del Gesuita non ci ha superba altezza a cui non presuma giungere, e travagliando irrequieto non giunga, mulinava in cuor suo diventare confessore di Sisto decrepito, e allora che non avrebbe ardito o potuto egli, maneggiando a sua posta una volontà di ferro accompagnata da una mente fatta per decrepitezza imbecille? Arridevano al marchese Silla l'accerto di commettere nuovi debiti, e con essi insanire nelle lascivie, prurigine inciprignita dalla vanità e dalla [136] impotenza senile; anco nella Siberia del cervello del Marchesino così di scancio era penetrato un barlume di compiacimento; a modo suo però e a mille miglia lontano dai presagi materni, imperciocchè mentre il cuore di donna Clelia esultava nella speranza di contemplare il suo portato capitano di gente eletta, magistrato supremo e gonfaloniere della Chiesa, più modesto il Marchesino tripudia nell'estasi di lavorare una girandola grande come quella di San Pietro, di sonare le campane a doppio, di servire la messa, ed anco, — gaudio ineffabile! — egli medesimo cantarla.

— Donna Clelia poi era fuori di sè; aveva gittato via la mantiglia, il collare, e per poco non ispogliava la veste e le gonnelle; soffiava, smaniava, non poteva quietare nella medesima posizione un momento; si asciugava il sudore; insomma un qualche Dio o un qualche Diavolo l'agitavano a modo di Pitia. Di un tratto agguantato di forza il braccio del marchese Silla, di qua e di là lo sbatacchia; poi fermatasi in secco con atteggiamento tragico esclama:

[137] — Vincemmo!

— Chi abbiamo vinto? domanda il Marchese.

— Mirate, noi li calchiamo sotto i piedi.

— Clelia, sotto i nostri piedi io non ci vedo che mattoni, e più i rotti che i sani....

— Noi ci abbiamo i Massimi... Ah! l'ho sgarata alla fine;... non sentite, Silla, la contentezza ineffabile di pestare una volta chi ci tenne tanto tempo sotto i piedi?

— Ma io non mi sono sentito pestare da alcuno... anzi con Fabio Massimi c'incontriamo spesso in geniali ritrovi, e con Gabriello talora giochiamo al lanzichenecco.

— Già per voi tutte le gioie, tutti gli affanni a me. A me vedermi comparire dinanzi, ogni volta io vado a messa, la odiata marchesa Lucrezia (e pare lo faccia a posta e lo fa di certo), e porgermi l'acqua santa con tale un sussiego, che se non fosse la reverenza del luogo sacro, la schiafferei, e con tale un sorriso che mi taglia la carne sottile come un vetro. A me sentirmi accanto, a piè dello altare [138] sotto la Madonna del Carmine, cotesta superba femmina intonare il Tantum ergo con voce squillante dove si sente chiara la iattanza: la patrona della cappella sono io! Tanto e tanto ho pregato, che la beata Vergine del Rosario mi ha esaudito..... una volta nella vita godrò di mirarti umiliata..... abbasserai una volta gli occhi davanti a me..... orgogliosa..... superba....

— Ma Clelia, non vi scarmanate; la marchesa Lucrezia tanto non è qui, e non vi può ascoltare...

— Va, Silla di gesso, prorompe la marchesa Clelia, e datagli una strappata, scaraventa il povero Marchese lontano da sè, e poi gli muove con la mano aperta incontro un passo: — voi avete rubato tutto quanto vi trovate addosso; avete rubato l'acqua del santo battesimo perchè siete il peggior cristiano che io conosca... — Il Marchese dava indietro un passo, e la Marchesa ne spingeva un altro gridando sempre: — voi avete rubato il titolo di Marchese, perchè un da poco pari a voi non visse mai al mondo. — Qui il Marchese un secondo passo indietro, e la [139] Marchesa un secondo passo avanti urlando tuttavia: — avete rubato il sangue perchè non vi si squaglia all'ira, allo sdegno, all'odio, al disprezzo. —

Il povero marchese Silla, cacciato di passo in passo, si era ridotto in un canto, e colà pari al cervo inseguito, piegava il capo dandosi per vinto; nè qui si arresterebbero i punti di paragone tra il nobile marito e il cervo anch'egli bestia nobile; al maggiore bisogno, mentre sgomento volge attorno lo sguardo mira prossimo un uscio aperto, e reputandolo grazia di Dio si rannicchia, si fa piccino, e rasentando lungo la parete sguscia dalla porta susurrando:

— Che demonio di moglie! —

Nel punto stesso donna Clelia esclamava:

— Che imbecille di marito! —

E avevano ragione tutti e due.

Quanto a Tuda non aveva ella dichiarato essere contenta? O almanco repugnanza suprema non oppose ella? E tanto bastava, anzi anche meno, conciossiachè, già lo notammo, le donne contassero nulla allora e poco adesso; nè a torto. Le donne [140] contrattavansi, e tuttavia contrattansi come giovenche in fiera; conchiuso il negozio il venditore mette la cavezza in mano al compratore, il quale te la mena al presepio o al macello, senza rimedio di vizii redibitori. Ch'è la donna ond'abbia a consultarsi? Ella è la compagna alla vita dell'uomo, parte dei suoi dolori e delle sue gioie, madre dei suoi figliuoli, corona o vituperio della famiglia, contentezza o disperazione, angiolo o demonio; un nonnulla, vedete, ch'è proprio inutile consultare. I matrimoni fatti senza amore duravano senza fedeltà, o si troncavano con morte sanguinosa; non sempre, ma ora qui ora là, a spizzico, e quasi mai per rovello di amore tradito, o per ferocia di gelosia; le più volte per puntiglio o per nobilea offesa, sicchè ad armare la mano del marito più ardenti i fratelli o i prossimi congiunti delle mogli infedeli. Dei tempi che descrivo esempi infelicemente illustri Isabella Orsina, Eleonora di Toledo, e la meno nota Violante Garlonica[12].

Ecco com'era Tuda contenta.

Fiduciosa nella Provvidenza ella la chiamò [141] in suo soccorso, sicura che le avrebbe risposto pronta e fedele quasi un'eco; ma dal cielo non mosse consiglio, nè angiolo; durante il giorno il sole continuò ad irradiare immoto le vite e le morti, le colpe molte e le virtù poche dei figliuoli degli uomini, nella notte le stelle e la luna non si rimasero da ridere un riso di demenza sopra le miserie della umanità: Tuda stette sbigottita; in breve sentì arruffarlesi lo intelletto e il cuore: per ultimo proruppe. Terribili sono le procelle delle anime che non provarono mai la sventura, appunto come nei climi fortunati l'uragano imperversa con violenza suprema. Guai al naviglio che incontra su i mari! Dopo averlo travolto sopra la superficie delle acque a modo di spuma, come spuma lo disperde, anime e corpi. Le immense foreste spariscono, e piante secolari e tronchi vanno in volta peggio che foglie, il male è sempre ministrato alla stregua del bene; avventurosi i miseri!

Perchè la fronte di Niobe commuove così profondo il tuo cuore? Certo cotesta curva è divina, ma altri simulacri la possiedono [142] stupenda più di lei: ella ti commuove perchè sublime di accusa e di minaccia contro la Forza onnipossente, davanti la quale uomini di bronzo piegano pari ai giunchi. La fronte di Tuda così soave si volta in arco, che la Natura dopo averla piegata con le sue proprie mani, sembrava che contenta della opera vi avesse impresso un bacio, stella di gaiezza divina: adesso l'astro era impallidito; ombre succedevano ad ombre quasi nuvole traverso il disco della luna; e gli occhi suoi ella appuntava pugnaci contro il cielo, nel modo stesso che gli Sciti ci vibravano gli strali. Abbandonato il bel corpo, genuflessa, con le braccia pendenti e le mani intrecciate agitava pensieri turbinosi e molesti; tuttavia non definiti; di un tratto cantando con celere curva un uccello traversa e passa via; allora ella pensò allo arcano potente che dà all'uccello il volo, il canto, la libertà dello spazio e lo studio del nido, e al cacciatore il piombo che gli tronca a un punto il volo, il canto e il dolce amore del nido; e pensò eziandio alla vita non supplicata da lei, e concessa insieme [143] a tanta dote di giocondità con la insidia di fargliela scontare più amara; le parvero, come sono, fisime di sacerdoti parabolani, la pazienza figlia dello impossibile convincimento, che quanto la Provvidenza manda è ordinato a fine di bene; imperciocchè onde avviene che ciò non si rimanga chiarito? E se il sacerdote contrappone essere lo umano intelletto imbecille, e senza presumere troppo, doversi stare contento al quia, ella rispondeva in cuor suo: e perchè non dilatava il Creatore il mio spirito? Egli tagliava dalla pezza onde nessuno gli reggeva le mani per tenersi al largo. Da capo il prete la tambussava con parole inani: vuolci fede. E fede sia, rispondeva ella; dove la si compera? Non si vende, nè si compra la fede. Dove dimora ella perchè mi vi possa condurre in pellegrinaggio? Alberga in alto, allato a Dio, nè con piè mortale si viaggia laggiù. Ma almeno dite con quali opere, con quali supplicazioni si acquista? Non valgono opere nè preghiere, è grazia gratis data che scende dal cielo sopra cui lo aspetta meno, e sopra cui meno [144] la merita. Dio vi confonda, parabolani, che vi attentate ridurre a scienza l'assurdo. Quando cesserete, o nefari, giocare co' cervelli umani come se fossero aliossi. — E del vaneggiare lungo la conclusione era: meglio morire; l'anima mia è un atomo, però di diamante, che nè anco la macina del fato vale a stritolare; aperta alla vita una porta, alla morte infinite; in questo, e in questo solo veramente misericordioso Dio. —

Di siffatti pensieri parte uscì dalle labbra di Tuda vestita di parole, altra no; questi che succedono ella favellava con voce piena d'inestimabile amarezza:

— Maria; il sole arrivato a mezzogiorno da ogni lato ci avvampa co' suoi raggi, è tempo partirci di sotto agli arbori che non danno più ombra; la sorgente qui non manda più stilla, nel pozzo vuoto tu cali la secchia invano, vieni, portiamo altrove le nostre tende. —

E Maria, che fin lì troppo diversa dagl'importuni amici di Giobbe aveva tentato consolare Tuda col pio silenzio e l'aspetto benigno, rispondeva:

[145] — Tuda di poca fede, perchè hai dubitato?

— Non dubito, bensì provo; fino a ieri tenuta cara quasi pupilla degli occhi, oggi con vicenda brutale mi si fa manifesto, come l'amor materno non proceda meco disforme all'amore del villano pel ciacco; lo ingrassa per ammazzarlo; custodita dianzi come una gioia ora buttata là per giunta, ad aggiustare la misura, a pareggiare la soma all'asino...

— Qualche santo aiuterà...

— Quando la madre ti abbandona, qual santo vuoi che pigli cura della povera figliuola? Ieri tutto si pesava alla bilancia dei diamanti, ogni cosa si speculava traverso la lente, oggi la propria utilità ha murato gli occhi e impietrito il cuore; l'odiato Pelliccioni non si può nascondere per quanto si affatichi; come il lume della lanterna del ladro, comunque chiuso, vibra un raggio obliquamente sinistro; che importa questo? Il mostro acquistò potenza di nocere e tanto basterebbe per gittargli nelle mascelle il pasto che chiede; ma il mostro, oltre la potenza [146] di nocere, possiede quella di giovare.... quale uomo, qual donna gli negherà il miglior sangue, il più puro, a patto che non sia il loro? — Maria, tu conosci meglio di me la virtù delle erbe: domani fa con qualche pretesto di tornare a casa, la campagna va ingombra di aconito... se sempre sia stato così, ignoro; ma adesso per la campagna romana l'aconito cresce spontaneo e rigoglioso, il frumento va seminato; noi ne caveremo il liquore che concilia il sonno donde l'uomo si risveglia in grembo alla eternità.

— Tuda, riprese Maria, tu offendi il Signore mentre egli già t'inviava il soccorso che deve consolare le tue tribolazioni.

— E dov'è questo soccorso?

— Qui, in questa stanza, accanto a te.

— Ma dove? dove?

— Nel cuore della tua sorella; noi abbiamo bevuto la vita alla medesima sorgente, le nostre braccia strinsero insieme il medesimo collo, le nostre mani si cercavano sul medesimo seno; ora il seno della madre non vale quanto un altare [147] per giurarci amicizia? Siamo due nella carne, una nello spirito: io ti salverò. —

E con parlare succinto le aperse l'animo suo; Tuda procurasse tirare le nozze per le lunghe; cause oneste occorrerne più di venti; ad ogni modo pria mancherebbero alla primavera fiori, che a femmina pretesti, ella intanto s'industrierebbe acconciarsi in casa al Cavaliere, dove spiando sottilmente confidava venire a capo di qualche cosa capace a sturbare il negozio. Non difficile il compimento del disegno, imperciocchè la natura le avesse dato forme più atte a garzone, che a donzella, essendo robusta molto, di colore ulivigno, capello ruvido, e nelle sembianze adombrata di calugine: aggiungi certi bucherellamenti di vaiolo, i quali certo non le aveva condotto sul viso la mano delle grazie.

Mandarono pertanto le baldanzose giovani un famiglio in ghetto per Nataniele giudeo, che venne guardingo come la volpe, la quale cammina adagio con una zampa levata, e il muso di traverso, punta dall'agonia della rapina e dalla paura della insidia; gli commisero portasse vesti civili [148] da abbigliare di tutto punto Maria in condizione di villano, ma subito. L'ebreo cominciò da mettere innanzi un monte di difficoltà; temeva esporsi a qualche fiero sbaraglio, gli confidassero a quale fine volessero adoperare cotesto travestimento, lo avrebbe tenuto in sè, non fatto trapelare a persona; non ci pensassero nè meno. Maria troncò i fastidiosi sciolemi: se non voleva fornire le vesti, se ne andasse, nè ciarpe, nè ebrei mancavano a Roma; solo si pentiva non avere scelto Mordokai come lui ladro, ma meno sazievole di lui. Allora Nataniele buttati da parte gli arzigogoli si proferse prontissimo a soddisfarla, e Maria di riscontro: aspetterebbe un'ora; quella trascorsa manderebbe per Mordokai; non ne passò mezza che il giudeo tornò con vesti che facevano pietà, più toppe che panno, e più rammendi che toppe; cominciò a lodare. Maria a cui premeva che le fossero a quel modo misere, gli pose in mano sei scudi e gli accennò la porta perchè uscisse. Il primo moto di Nataniele a contemplare sei scudi sbraciati là senza mercanteggiare per tal roba, che non ne [149] valeva mezzo, fu di maraviglia; quasi gli vennero le traveggole agli occhi; ma in meno che non balena, lo istinto ebreo ripigliò il sopravvento, e lamentò i tempi tristi, il guadagno scarso, i grossi balzelli, e via via; sei scudi non pagargli nè manco un bottone; le gentili donzelle mostrarsi poco sperte del pregio delle cose. Maria uggita dalla impronta ingordigia di costui lo abbracciò pel petto esclamando:

— Esci giudeo dalla sala, se non vuoi ch'io ti scaraventi giù dalla finestra. —

E l'ebreo uscì fregandosi le mani, giubilando in cuore suo per avere di un tratto ficcato nel terreno morbido la vanga, e tuttavia rabbioso di non averci potuto piantare anco il manico; allora gli ebrei così, oggi gli affermano mutati, e sarà; però non tutti nè da per tutto. Pretensionosi si manifestano, e molto, sicchè riescono fastidievoli e molesti; per poco che tu li tocchi levano rumore come se gli scorticassi; e si gettano a pancia all'aria facendo il morto: qual carità perseguitare i perseguitati? Oh! ormai corre il secolo che vi proviamo persecutori. Per me conosco [150] un luogo, dove la più parte degli ebrei, della libertà loro concessa si è fatta arme per ferire cui volle salutarli fratelli, e la ingratitudine si posero sul petto come i sacerdoti loro ci mettevano l'efod; Amaleciti e Amorrei perpetuamente i popoli in mezzo ai quali essi vivono a guisa dei tarli; e tutti noi estimano Egiziani per applicarci quel detestabile loro aforismo: il ladro che ruba al ladro non commette peccato. La pecunia risucchiata agli ospiti essi hanno profferta a tutte le tirannidi per saldare gli anelli della catena dei popoli; sarebbe vano negarlo, l'oro dei Rothscildi nocque alla umanità più che il ferro dell'Austria; anzi questo non sarebbe stato se quello non era. Guai alla città dove il giudeo prevale! In breve diventa una biscazza, dove la gente giuocando nabissa sostanza, morale e dignità umana; dinanzi ai macelli della avarizia, tu miri pendere dal gancio della mezza lira di ribasso, o di rialzo del debito pubblico i quarti sanguinosi della Patria e della Libertà. Per me, la Dio grazia, nè aborro, nè lodo chi preferisce tagliarsi il prepuzio a rovesciarsi [151] acqua sul capo; solo parmi la prima pratica così dolorosa come barbara, e le religioni considero livree più o meno barocche con le quali gli uomini universi servono un medesimo padrone; però non posso astenermi da considerare che il mosaismo al pari dello islamismo aduggino a mo' di selva selvaggia dove la filosofia non pota mai il morto, il troppo, e il vano, onde si faccia strada un raggio di umanità. Fratelli hanno da essere i giudei, e sono, ma innanzi di accettarli liberamente nel consorzio di cittadini italiani, vuolsi avvertire che per loro Patria veramente si reputi la Italia, e la Libertà amino come retaggio di tutti; assumano sensi di fratellanza dignitosa e verace; si purghino insomma della lebbra, che portarono di Palestina, e non per anco uscita loro dal sangue. Qui poi non si contrappongano i singoli casi, chè le eccezioni non ismentiscono la regola, e presso i maggiorenti ebrei, i pochi nati fra loro di mano prodi, o studiosi della buona filosofia si hanno in conto di folli o di empi. Nei luoghi pubblici vostri, sopra le pareti dei sinedrii, [152] nei soffitti delle case private ho letto, ed ho veduto sempre memorie o segni di abiezione servile, non mai, non mai segno o memoria di Libertà.


— Sul fare della notte Anacleto, che fu uno dei pallafrenieri del Pelliccioni, andando alla scuderia per dare una occhiata ai cavalli vide qualche cosa stesa sopra il muricciolo accanto al portone, che mettendogli addosso un po' di sospetto lo persuase a procedere guardingo; distinguendo poi una forma umana, e parendogli che si movesse, domandò con voce burbera:

— Chi è là? —

Gli fu risposto blando:

— Sono un povero garzone venuto da Frascati per accomodarmi al servizio di qualche famiglia, ma fino da stamani giro, e nessuno mi vuole: ho fame, ho sonno e poichè la Provvidenza mi ha messo davanti questo poggiolo di pietra, mi ci sono sdraiato per riposarmi; alla fame la Provvidenza penserà più tardi.

[153] — E che cosa saresti buono a fare ne'? Un cavallo sapresti governarlo?

— Magari! Anco due. —

L'uomo non è mai tutto buono, e nè manco tutto cattivo, e questo notò troppo più saputo maestro, che non sono io; e poi si aggiungeva il vanto, forse sincero, di sentirlo adatto a governare cavalli: per la quale cosa Anacleto un po' raddolcito soggiunse:

— Veramente la Provvidenza nello sbracciarti un letto di pietra non ha peccato di prodigalità; vieni dentro alla scuderia, domani ti proverò, e se ti troverai al caso ti terrò meco: per ora il padrone ha troppe faccende pel capo, nè mi darebbe retta; intanto ti accomoderò nel fienile; non essere avaro di farti mangiare quotidianamente i materassi dalle bestie, perchè ti saranno rinnovati al più lungo il giorno dopo, e per una notte il legno proverai meno duro della pietra: quanto alle lenzuola se terrai le imposte della finestra aperte, te le somministrerà la luna e sempre di bucato senza una tecca. Circa a pane per istasera non mi obbligo a nulla: domani ne avrai. [154] ma tanto a farne a meno tu ci eri accomodato: per acqua ci è il pozzo, e ci sono le secchie. Il partito potrebbe essere più largo, ma così com'è a questa ora bruciata non mi sembra che lo avresti a disprezzare.

— Anzi gli è grazia vostra, ed io mi butto nelle vostre braccia. —

Queste parole disposero sempre meglio Anacleto, il quale aperta la scuderia, c'intromise il garzone, e parendogli che mal si reggesse in piedi lo interrogò:

— Come ti chiami?

— Mario.

— Or be' Mario, va su per questa scala nel fienile e dormi; se stasera mi occorrerà di tornare vedrò di portarti da cena.

— Dio ve ne renderà merito. —

Salì la scala, e gittatosi giù di sfascio sul fieno, in un bacchio baleno il garzone prese a russare come ghiro; il che udendo Anacleto ebbe a dire:

— A sonno panca, e a fame pane....

Acceso il lampione governò i cavalli, empì la mangiatoia di strame, stese le paglie perchè giacessero ad agio, e queste [155] faccende conducendo, ora cantava, ed ora favellava co' cavalli, i quali non si rimanevano punto indietro dal rispondergli con tale inflessione di voce, e con discorso per modo lungo diversamente da far credere che essi intendessero, e che da lui fossero intesi.

Giusto nel punto in che Anacleto buttava in un canto la forca, si tira giù le maniche della camicia esclamando:

— Anco questa è fatta, disse quegli che cacciò in forno la moglie! —

Ecco presentarsi sopra la soglia un uomo male in arnese, che si pone a gridare:

— Ci ha persona qua dentro? O quell'uomo costà, date retta....

— Io me la intendo con chi cammina con quattro gambe, ed anco li tratto con la forca.....

— Io non vo' sapere altro se qui sta di casa un Pelliccione, un Pelliccioni..... insomma un pezzo grosso, che circum circa si ha da chiamare così?

— E che negozi potete avere voi col cavaliere Pelliccioni...

— Io? Dacchè lo detti a balia sentii [156] nominarlo oggi.... mi hanno consegnato una lettera per portargli.

— E chi ve la consegnava, e dove?

— Ecco, io ve lo dico in quattro battute; voi avete a sapere, ch'io pesco anguille, e tinche se ne capita nello stagno di Nettuno; ora, state attento, andando alla pesca per iscorciare la via rasentai una casa dove corre voce, che ci si facciano sentire diavoli e dannati; però pensate se la gente tira alla larga: se io ci creda o no non vi starò a dire; questo è sicuro ch'io allungava il passo; quando me lo aspetto meno mi parve, che mi chiamassero, non ci badai, e presi a correre; ma la voce da capo, e come chi prega: — fermatevi per amore di Dio. — Gli era chiaro che il Diavolo non poteva pregare per amore di Dio, volsi il capo indietro e non vidi nulla, lo sollevai e mi apparve alla finestra una gentildonna bella quasimente quanto il sole, o giù di lì. Ella mi accennò con la mano mi accostassi, ed io mi feci sotto alla finestra; quivi spendolandosi ella mi disse con voce sommessa: — uomo dabbene (si sa, quando i signori [157] hanno bisogno di noi, siamo tutti uomini dabbene, fatta la festa si leva l'alloro e diventiamo una manica di vassallacci) — dunque, uomo dabbene, per quanto amore portate alla Beatissima Vergine usatemi la carità di pigliare subito la via di Roma; costà cercate del palazzo del cavaliere Pelliccioni, e trovato che lo abbiate, consegnerete proprio nelle mani del cavaliere la lettera, che vi calerò giù con un filo.... non pensate a male, che il cavaliere è mio marito... e per la vostra fatica vi darò uno scudo; se non basta, due.... — Oh! risposi io, di uno scudo ce n'è anco troppo; giù la lettera, e lasciatevi servire. — La signora prima buttò gli scudi, poi la lettera, ed io postami la via fra le gambe, sono venuto a Roma.

— Ma le reti riportaste a casa? Diceste alla moglie, che venivate a Roma? Rammentaste il cavaliere Pelliccioni?

— Non tornai: tanto Nunziata non mi aspetta a casa stanotte, e il tempo mi basta per ritrovarmi domani sul far del giorno a Nettuno; le reti appiattai nel canneto....

[158] — E qui a Roma diceste a persona, che portavate al cavaliere Pelliccioni lettere di sua moglie?

— Io? No; domandai a parecchi del suo palazzo, e m'indicarono qui.

— E v'indicarono bene, venite; il cavaliere sarà in casa, o tarderà poco a tornare, e anco da lui voi avrete la mancia che meritate.

— Faremo a mezzo.

— No davvero, la dev'essere tutta per voi....


Mario, che il lettore ormai ha compreso essere Maria, non aveva mai dormito: all'opposto spillando con le orecchie tese, e con le mani curve intorno a quelle raccogliendo ogni filo di voce udì senza perdere sillaba lo strano messaggio: le parve averne saputo anco di soverchio, sicchè appena Anacleto e l'altro si furono allontanati, scese cauta tentando svignarsela, ma rinvenne chiusa la porta, e fu sventura: onde tornò ad acquattarsi mulinando nella mente mille fantasie una più terribile dell'altra. [159] Mentre così smaniava ecco un rumore soffocato percoterla, indistinto e pure pauroso come di persone che contendano in lotta disperata, nè sapeva distinguere se movesse da qualche sotterraneo, ovvero dalla stanza contigua divisa dal fienile mediante il muro maestro: le parve udire, e sentì certo un grido; subito dopo silenzio; animosa ella era molto, e nondimanco prese a battere i denti per ribrezzo: la fronte le si bagnò di freddo sudore.

Dopo qualche ora di agonía udì aprire con precauzione la porta della stalla, e dalla nota voce riconobbe Anacleto, il quale di giù in fondo alla scala cominciò a chiamare:

— Mario! Mario! —

Ed ella si astenne da rispondere: per converso finse russare, se non che l'altro replicava la chiamata ingrossando la voce, e inframettendovi qualche bestemmia; allora ella rispose come chi per forza è desto, e tuttora sonnacchioso sbadiglia:

— Chi mi chiama? Che volete?

— Vieni giù... Dunque sei veramente al caso di sellare un cavallo?

[160] — Ma sì... ma sì....

— Bada veh! Che se m'inganni ti stacco il capo come una ciliegia. Sellami dunque, e metti la briglia al Moro; tienlo pronto legato al colonnino; guarda ch'è intero ed in ardenza perchè si accosta maggio; là nell'armadio gli arnesi, fa presto e bene; in meno di un credo torno.


E se ne andò. Maria si accostò al cavallo, e bene le valsero l'avvertimento di Anacleto, e la propria previdenza, imperciocchè il cavallo o per malignità propria, o impermalito per la nuova persona, o per quale altra causa, s'ingegnasse percoterla sferrando calci di traverso o morderla alla spalla; un po' con le buone, e molto con le acerbe ne venne a capo la valorosa donzella, così che lo trasse bardato fuori dalla posta e lo legò alla campanella del colonnino; ma quantunque e' si mostrasse meno tristo, pure non rifiniva mai di agitarsi trapassando con moto irrequieto ora da destra ed ora da sinistra, zappava [161] del piè il selciato, e annitriva potentemente; nella parte più remota della stalla non meno smaniosa una cavalla inuzzoliva, e co' nitriti rispondeva. Ciò avendo notato Maria si mise il dito su la fronte, e pensò alquanto, poi come risoluta si appressa alla cavalla, e in meno che non balena anco quella arnesa[13]; ciò fatto si reca alla porta, e ferma sopra la soglia [162] specola di qua e di là; parendole sicuro il luogo, si attenta uscirne per esaminare meglio i dintorni; nè andò guari che le occorsero le macerie di certa casetta in ruina; erano il caso suo; tornando poi indietro, mentre leva gli occhi ormai ausati a scorgere tra le mezze tenebre delle notti d'Italia incontra la carrucola appesa al braccio di ferro sul finestrone del fienile; tratta fuori la cavalla la nascose dietro le macerie, e dopo averla assicurata bene con la cavezza le legò intorno al collo (insinuandoci dentro il muso di quella) un sacco con la biada: certo non per questo ella allontanava il pericolo, che in mal punto annitrendo venisse a scoprire la trama; ma adesso buttarsi in balia della fortuna era prudenza; inoltre risalita presto la scala si mise in cerca, sovvenuta dalla luce del lampione, della fune da tirare su i fasci del fieno e tosto l'ebbe trovata; ne fece gomitolo, e la nascose in parte dove poterla facilmente rinvenire anco al buio: tutto questo compito s'inginocchiò levando le mani giunte, e gli occhi al cielo in atto di tale profonda supplicazione da spalancare [163] le porte del paradiso, fossero pure di bronzo: certo se non si esaudiscono lassù siffatte preghiere surte da cuore così generoso, a fine sì retto, e con tanta speranza, sarebbe tempo perso per noi altri continuare le nostre.

Anacleto tornò affannoso come chi teme avere tardato: esaminava il morso, la briglia, e le staffe al cavallo; trovando le cinghie un po' lente le stringeva in fretta; poi lo trasse fuori; spegnendo il lume, confortò Maria a ricoricarsi; e dato un paio di giri alla chiave si allontanò fischiando.

Maria lascia scorrere un quarto d'ora, forse anco meno, chè la impazienza le faceva parere il minuto un secolo: indi apre risoluta le imposte del finestrone del fienile; spendolandosi, agguantata al braccio di ferro introduce la fune nella carrucola lasciandola pendere da due parti; circonda le mani di cenci e di pelli di cui trova copia nella scuderia, e poi adagio adagio ora reggendosi da manca, e lasciandosi ire a destra, ed ora aggrappandosi a destra ed ammollando a mancina arriva senza una scorticatura giù in terra; di sbalzo [164] dietro alle macerie, di un lampo alla cavezza sostituisce la briglia, di un salto inforca la cavalla, e via.

Guardavansi allora, come si custodiscono adesso, le porte di Roma, anzi con diligenza maggiore; nè alla Maria sarebbe riuscito passarle se non le venivano in aiuto la fortuna e l'audacia; però che avendo ella notato tra i gabellieri e i soldati qualche po' di agitazione, la quale stenta a quietarsi allorchè seguita uno scompiglio inopinato e improvviso, s'inoltra franca e dice:

— Apritemi tosto, che ho da raggiungere il mio signore cavaliere Pelliccioni. —

E si appose con felice astuzia, essendosi per lo appunto poco innanzi presentato il cavaliere Pelliccioni, al quale ebbero aperto le porte senza più che un suo semplice invito, correndo voce per tutta Roma come godesse il favore del Papa, e il Cardinal nepote lo estimasse assai: ma egli mostrò un lascia passare amplissimo per sè e per i suoi familiari, sicchè se gliele spalancassero con un diluvio d'inchini non è da dirsi. Anco sopra [165] Maria scese il credito del Pelliccioni; e gli onesti gabellieri si recarono a scrupolo di trattenerla pure un momento da raggiungere il padrone. Uscita alla campagna Maria ignorava il cammino; peggio anco di questo dubitando seguire troppo da lontano, o troppo accosto al Pelliccioni, si peritava a sostare come a soffermarsi: a cavarla d'impaccio valse il nitrito del cavallo di Paolo, a cui subito tenne dietro quello della giumenta; e per questo modo argomentando la distanza giudicò poterlo seguitare, senza dargli sospetto, a mezzo trotto. Paolo però, sperto della via e premuroso di arrivare, cacciava a briglia sciolta il cavallo, onde Maria ne smarrì la traccia. Giunta al luogo, che reputò essere Nettuno, da per tutto silenzio e tenebre: quale la casa dove colui si fosse chiuso ignorava, e l'avesse saputo, rinvenirla notte tempo non che malagevole impossibile: ella vagava qua e là per la campagna mordendosi le labbra. All'improvviso vide da lontano tremolare un lume, e si avviò da cotesto lato, ma dopo molto cammino conobbe partirsi [166] da una casa rustica; prese ad aggirarsi per altra parte, senonchè volta e rivolta si trovò là, donde prima si era partita o le parve; sfidata ormai di avere fatto i passi invano si pose per un sentiero nel proponimento di riaccostarsi bel bello a Roma; ma anco qui fece fallo che dallo affondare delle zampe della giumenta si accorse essersi impegnata sopra un terreno pantanoso; scendendo dubitava non potere risalire, inoltrandosi temeva sprofondare con la cavalla in qualche fitta: per la meno trista deliberò rifare i passi, ma nè anco questo le riusciva agevole, sicchè parendole dopo scorso qualche tratto trovarsi sul sodo smontò dandosi pace, ferma di aspettare all'alba per uscire di pelago.


Ma se non riesce a Maria trovare la casa di Paolo, e vedere quello che vi opera dentro, riesce a noi. Il Cavaliere, il quale possedeva le chiavi delle varie porte, da prima ripose il cavallo fumante per sudore nella stalla, poi s'intromise cauto nella [167] casa; girando gli occhi scorse lume in cucina, ed avviatosi costà rinvenne Renzo, che dormiva chinato il capo su le braccia dinanzi ad una tavola: lo percosse sopra la spalla e quegli desto allo improvviso mise un grido, guardando con occhi strabuzzati la figura comparsagli. Paolo posto il dito su la bocca gli ordinò tacere:

— Sono io, che temi poltrone?

— Ah! mi sognava in questo punto, che il Diavolo mi portava via.

— Quello che si differisce non si perde. La Marchesa dov'è?

— Nella sua stanza.

— Levati, e sta di guardia accanto alla porta; per rumori che tu ascolti non aprire, non andartene, non moverti. Guai a te se manchi! —

Si mise su per le scale; la prima salì difilato; alla seconda prese a battergli violentemente il cuore, e gli parve strano: si trattenne per ricomporsi in capo al pianerottolo, dove cavato il pugnale se lo nascose nella manica: per ultimo entrò. Buia la prima camera, e la seconda; dal foro del serrame alla terza usciva un filo di luce; [168] colà dentro la Violante: aperse piano, e sporto il capo vide la donna genuflessa davanti la immagine della Madonna dei sette dolori. O Madonna, quante mai le tue devote! E grandi, anzi ineffabili furono i tuoi dolori, e nondimanco per molte infelici a dura prova non parvero troppi.

La povera Violante così stava allora sprofondata nella preghiera, che non intese aprire l'uscio; in quel punto era immobile da sembrare cosa inanimata, però porgevano testimonio della smania che l'aveva fieramente commossa le vesti scinte, ed il volume dei capelli nerissimi sciolti giù su le spalle e pel volto.

Egli rimase fermo a mezza stanza con gli occhi chiusi e la mano stretta a pugno appoggiata alla fronte. Qualche demonio lo teneva certo per la catena al piede. Di tratto la Violante con un gran sospiro levò il capo, e forte squassandolo respinse i capelli dal volto su le spalle; aggiungendo poi a cotesto moto l'atto delle mani se gli spartisce meglio su la fronte, e se gli lega intorno alla nuca: magnifici capelli in verità!

[169] Mentre ella getta per la stanza lo sguardo obliquo, parle vedere, e, Vergine benedetta! vede certo il suo sposo, il desiderato cuore del cuor suo. Su ritta, con le braccia tese come se fossero ale gli si avventa addosso, nè potendo o volendo contenere la pienezza dello affetto lo abbraccia delirante, lo bacia pel volto, pei capelli, su gli occhi, e lo bagna di lacrime; egli, Paolo, sopraffatto non può astenersi di cingerla col manco braccio al collo, col destro (nella manica del quale teneva nascosto il coltello) alla vita; e la guardava fisso fisso con isguardi taglienti; frattanto il coltello, caso fosse, od intenzione, gli era scivolato nella mano, e la mano posava sotto la sinistra spalla di lei, là dove sentiamo pulsare il cuore più forte che dal seno. Nè il peggiore dei Demoni, no quanto è vero Dio, nè il peggiore dei Demoni gli susurrava nell'orecchio: — su, spingi forte e improvviso; troncale a un tratto l'affanno e la vita: ti pigli carità della desolata! —

Ma non potè, egli se l'aspettava con la ingiuria su le labbra, il furore negli occhi; aveva fatto capitale su i rimproveri, [170] su le accuse, sopra le minaccie per infiammarsi il sangue, e inferocire: — anco se l'avesse trovata in balía del sonno... inerte... dal sonno alla morte così lieve è il passo, che non gli sarebbe parso difficile con un po' di urto sospingervela... ma adesso così umile, così fiduciosa, così ardente di amore sviscerato... tutto ciò gli rompeva i disegni, sicchè da prima sentì sorgersi nella mente un contrasto non mai a quel modo provato, un'uggia, e da sezzo uno sfinimento ch'ebbe bisogno di appoggiarsi forte alla donna per non istramazzare; di subito si sciolse, e traballando verso la porta l'aperse e gridò:

— Renzo! Presto, portami vino... presto Renzo!!! Renzo! —

E Renzo smemorato portò il fiasco senza bicchiere; ma Paolo non ci attese; abbracciatolo con ambe le mani bevve com'uomo cui martorii l'agonia della sete; lo restituì a mezzo scemo, e del cenno accommiatò il famiglio. La Violante in silenzio si assettava sul lettuccio aspettandovi Paolo, che prese agitato a passeggiare su e giù per la stanza: la coscienza [171] gli dava noia come un dente guasto; nulla però di scomposto appariva in cotesti moti: anzi le belle membra e il portamento egregio venivano ad acquistare risalto, sicchè la Violante ammirando si compiaceva nel suo segreto di sì formoso marito: dalla sciolta andatura, dal maestoso incesso, dalle narici tremanti, dai capelli ventilati, dal guardo di fiamma, dal volto acceso nel vermiglio florido della giovanezza avresti detto che lo invasasse un Dio. Che maraviglia pertanto se il cuore della donna innamorata traboccasse di contentezza pigliando la via degli occhi e della bocca per isboglientirsi ad un punto con lacrime e sospiri? Ah! nel suo intelletto di cattolica Violante pensava — mi pare l'Arcangiolo Michele — il campione del paradiso.

Di repente Paolo sta crollando il capo, quasi dopo lunga ambage avesse deliberato il da farsi; e dice:

— Voi mi avete desiderato?

— Io? Io ti desidero sempre. Vinta dalla impazienza ti ho spedito un messo.

— Qual messo? Io non lo vidi.

[172] — Come! Non ti fu consegnata una lettera?

— Non so di lettera. Non avevate promesso aspettare? E chi spediste voi? Perchè non venne Renzo?

— Ricusò obbedirmi: mi contese uscire.

— E non prometteste voi di rimanervi in casa? Sopra la soglia, custode dell'obbligo vostro, non avevate posto la data fede?

— È vero... ma e tu perchè ci mettesti il carceriere?

— Egli è chiarito a prova, che non poteva starmi sicuro della vostra fede.

— Perdona... oh! perdona. Se tu provassi... se tu immaginassi una minima parte dello spasimo di donna che sa l'amore suo esposto a pericoli mortali, e sente ogni minuto, ogni attimo fitto ed acuto entrarle nel cuore tormentandolo con l'ansietà, con la paura, con infinite immaginazioni e tutte spaventose, tu non mi rampogneresti. A voi altri uomini la presenza del pericolo accende il sangue e ne scema l'apprensione; la lontananza a noi povere donne lo agghiaccia gittandoci in preda [173] alla truce fantasia: perchè... vedi... Paolo, non te ne insuperbire... io immensamente ti amo.

— Voi mi amate?

— Forse non lo sai quanto me, ed anco più di me?

— Certo, certo voi mi amate, e molto... come il pirata la fusta con la quale va in corso... come l'avaro il suo tesoro... o se volete meglio come la donna ama i pendenti ed i monili che valgono ad umiliare la disadorna rivale. — Non ci ha dubbio, io devo credere, io credo che mi amiate molto, imperciocchè voi in me unicamente amiate voi stessa.

— Paolo mio... che hai? Perchè mi ti mostri così acerbo? L'ultima volta che io ti vidi ti provai diverso. Se io ti avessi amato meno mi troverei ora qui? Tu sai qual fossi... Dio mi guardi da rinfacciartelo... oh! questo mai... solo lo ricordo per chiarirti, che a tutto quanto gli uomini costumano reputare beato sopra la terra io preferisco l'amore del mio Paolo.

— Ed io, mirate, penso, che questo prodigio di amore lo deva....

[174] — A che, Paolo?

— A un uscio chiuso.

— Sicuro, l'uscio chiuso precipitò gli eventi, ma ormai l'affetto di te così mi si era radicato nell'anima, che nè uomo, nè Dio avrebbe potuto cavarmelo senza tirarsi dietro anco il cuore. Come siete strani voi altri... se una fanciulla incauta vi palesa la fiamma onde arde tutta, voi la stimate invereconda e per poco non la dite sfrontata; se poi s'ingegna nascondervela per pudore, e voi l'accusate d'insidia, d'ipocrisia, e peggio. L'ultimo passo della passione è la somma dei primi; e noi povere innamorate ci sentiamo padrone di non abbandonarci in balia dell'uomo che amiamo come chi si precipita da una torre intenda non percotere sul terreno. — Ma via, perchè con rammarichi intempestivi cresceremo le nuvole di un cielo, che ci si mostrava anco troppo procelloso fin qui? Teniamo, caro Paolo, il bene che unico dipende da noi, che veruno può rapirci se non lo buttiamo via da noi stessi, vo' dire quello di amarci sempre, e stringerci ogni giorno più nei santi affetti di moglie e di marito....

[175] — E questo per lo appunto è quello che ormai non può farsi....

La Violante rimase impietrita; aperse la bocca, ma non seppe profferire parola, e nè manco ebbe più balía di richiuderla.

— Ormai non può farsi — prosegue Paolo di foga avendo rotto il diaccio — la fortuna mi ha proceduto sempre nemica, e se la parola fortuna vi suona pagana, surrogatevi a vostra posta la provvidenza, ed anco addirittura Dio; sì sempre Dio mi ha travolto nelle acque della amarezza, e dopo avermi vie via per istrazio ripescato co' ganci, adesso mi dà il tuffo; che posso io contro la fortuna, la provvidenza, e Dio? A Napoli, voi lo sapete, non mi restava a fare moneta che l'anima; ma tante anime si danno al Diavolo gratis, ch'egli ai giorni nostri le rifiuterebbe anco per uno scudo la dozzina. Tornai a casa; e qui ho dato fondo ad ogni mio capitale... ed ai molti altri che avevano commesso alla mia fede amici e congiunti; nè basta: a rilevare dalle ruine le case paterne ho tolto a usura grossa quantità di pecunia dagli ebrei, ora finchè io era [176] in voce di favorito dal Papa, costoro mi stavano lontano come i lupi spaventati dal fuoco; adesso che mi sanno uscito di grazia, come lupi a fuoco spento, mi si avventano alla vita per divorarmi. La sconoscenza è l'ottavo sacramento qui in Roma; la prestezza con la quale fu condotta la impresa dei banditi porge argomento a dichiararla vulgare; la pericolosa astuzia insidia da masnadiero..... cenere.... insomma, cenere.... non più uffici... non più promessa di farmi restituire i feudi di famiglia usurpati... la porta per cui si penetrava in camera al Papa scomparve; ed io ne cercherei invano la traccia nella parete di granito; l'anima mia nella angosciosa aspettativa se ne andrebbe tutta in limatura: nè basta tanto, che già mi appiccano addosso la ruggine del sospetto, e susurrano me complice un dì, oggi traditore dei banditi. Bisogna partire, anzi fuggire; non impunemente concede le si renda servizio Roma, mi ridurrò in Fiandra dove sotto oscuro nome mi colpirà morte oscura, ovvero in America per diventare pasto dei cannibali o della febbre [177] gialla.... vedete, Violante, voi non potete seguitarmi in questa nuova vita piena di miserie....

— Ahimè trista! Sotto maligne stelle io venni al mondo. Certo molto per me mi duole, ma a cento doppi più per te; nè posso darti speranze che mancano a me: però la sventura non ci persuade a separarci; quando ne stringe insopportabile il sido troviamo refrigerio nello stringerci insieme: la mano di Dio ci preme abbastanza pesa sul capo, non l'aggraviamo da noi. Ti seguirò Paolo, mi toserò i capelli, orgoglio della mia giovinezza, piglierò vesti maschili, imparerò a governarti il cavallo... di un ragazzo ti farà pure mestieri? In America ormai non vi ha più luogo ai Cortez, nè ai Pizzarro, tuttavia nè manco vi è chiuso il campo a gesti onorati, nè costà patiremo difetto di amici ed altresì dello aiuto di parenti della mia famiglia... Paolo, se (e Dio nol voglia) ferito, chi ti medicherà più amoroso della tua Violante? Se infermo, chi ti veglierà? Chi ti porgerà da bere? Chi avrà cura della tua vita come la tua Violante, a cui, [178] te morto, ogni causa di vivere vien meno? Paolo, è scritto: = quello che Dio ha congiunto l'uomo non separi. =

— Senti, Violante, soggiunge Paolo guardandosi attorno, e poi accostatosi a lei con voce sommessa riprese: io te lo confesserò, e tu lo tacerai, perchè a tenerlo sepolto nel tuo seno ci trovi vantaggio quanto me..... il sospetto..... il sospetto non è mica vano....

— Qual sospetto? Domandava la donna atterrita.

— Non nacqui fango io: nè hanno potuto percotere su me come sopra una pietra; dente per dente, occhio per occhio, anco Dio costumava così; tutti contro me, io contro tutti: essi tinsero il dito loro nel mio sangue, ed io mi sono lavato le mani nel sangue di loro... io... io.... fui capo di banditi.... il furto, il sacrilegio, l'omicidio sonarono le ore del vivere mio.... se ho potuto sottrarre così a lungo questo capo alla mannaia, nasce dal credere che già e' me lo abbiano mozzo; me reputano da molto tempo morto.... la terra da molto tempo mi tiene, sotto nome di Venanzio [179] Tombesi. — Separati pertanto quanto puoi più quieta da me; torna a Napoli, e colà chiusa in qualche monastero prega dai santi l'oblio... se non puoi l'oblio, la pazienza,... e se per me allora sepolto vorrai arrisicare una preghiera... mi rimetto in te... ho inteso dire, che le orazioni quando non approfittano al trapassato, tornano accresciute dalla grazia di Dio a consolare chi le disse....

La Violante da un pezzo si nascondeva la faccia con ambedue le mani, tra le dita delle quali si erano attortigliate alcune ciocche di capelli: ella rimase lungamente immota nel suo muto dolore, che o sdegnava o vinceva ogni via per cui si manifesta lo spasimo dell'anima umana: allorchè poi le rimosse, miserabile a dirsi! le ciocche dei capelli le si staccarono, a mo' della peluria del fiore di papavero, che al soffio lieve del fanciullo vola via; i nepitelli infiammati così colorivano le lacrime, che gli occhi pareva piangessero sangue; i muscoli contratti, come se un graffio le arroncigliasse il cervello, le avevano sconvolto la sembianza diventata [180] quasi selvatica; tinti in cenere i contorni degli occhi, i solchi delle narici, le labbra. Nè la testa della Niobe, e nè anco quella della Madonna della Pietà di Michelangelo possono a gran pezza porgerti idea di cotesto volto doloroso.

— Signore, cominciò la Violante con voce sommessa, io provo senza fine amaro il calice della mia passione, ma io me lo sono ministrato con le mie mani ed io lo beverò... intero. Al Cireneo non correva obbligo di sollevare la croce a Cristo, la moglie deve portare la croce del marito innocente o colpevole. Vergogna e dolore, io posso domarvi per ora come belve feroci, — quando avrò portato il refrigerio di posare sopra il mio seno, a quel capo abbrustolito d'infamia, quando avrò temperato con parole di speranza l'arsura di quel sangue febbrile pel terrore della morte vicina, quando avrò unito la mia prece all'ultima sua, affinchè la drizzi e la sorregga verso il cielo dove possa ottenere perdono dalla misericordia di Dio; quando tutto questo sarà compito, allora e solo allora, vergogna e dolore, io mi confesso [181] vostra, e più tosto mi sbranerete più l'avrò in grazia. Dio placato mi muterà in tanta gloria lassù quanto di obbrobrio mi toccò su la terra. Eroe o masnadiero, voi siete il mio marito, e quello che Dio ha congiunto l'uomo non separerà.

Sotto il cranio di Paolo imperversa adesso una procella quale forse non travolse mai intelletto di demonio; credeva avere a rompere uno spago, sbarazzarsi di una bassetta attortaglisi intorno alle gambe, ed ora sentiva a prova tenerlo una catena, che ad ogni strettone gli si faceva più corta, e più pesa; sbuffava di collera, stralunava le pupille smarrite, le goccie grosse di sudore, che di tratto in tratto gli grondavano giù dalla fronte a pari delle grosse stille di pioggia precorritrici della procella chiarivano, che ei stava in procinto di prorompere.

E proruppe, dacchè con bestiale rabbia prese a gridare:

— Che Dio! Che vincolo! Voi non foste mai mia moglie, nè io mai vostro marito.

— Oh! E l'altare, e il sacerdote, e il sacramento?

[182] — Mentito tutto; il sacerdote un bandito, banditi i testimoni: il vero parroco condotto lontano dalla parrocchia...

— E le dispense, e il placito di Monsignore Arcivescovo?

— False.

— O Dio! E perchè tanto strazio?

— Eh! Tu volevi pigliare con le tue reti una duchea e un duca, io con le mie un marchesato ed una marchesa; e all'uno e all'altra si sono rotte le maglie.

— Di'! quando mentisci, ora od allora?

— Giudicalo da te....

— Sta bene; dunque tu potente di giovanezza e di forza non hai repugnato abbindolare una fanciulla inesperta, — tu uomo di sangue sei sceso alle insidie, ai tradimenti, e alle frodi per tradire una povera innocente senza madre, — tu non hai abborrito vituperare in me la donna che ti ha generato, tu falco, io colomba: or via, la fanciulla inesperta, la povera donna, la debole creatura... senza aiuto altrui, come senza inganno, ecco come ti rende l'oltraggio....

E con quanto aveva di vigore nel braccio [183] a mano rovescia gli appiccò uno schiaffo, aggiungendo con infinito disprezzo:

— Piglia, marrano.... —

Subito dopo gli sputò in faccia continuando:

— Piglia, schiavo. —

A mo' che il vento spalancando con impeto le finestre ti spegne di un attimo i lumi della stanza, la dignità di donna offesa, la tenerezza di sposa oltraggiata, il disprezzo, lo scherno strangolarono l'amore, e più che mai veemente tornò a divampare l'orgoglio spagnuolo attutito, non vinto. E mentre Paolo sottosopra per la novità dello insulto attende a forbirsi il volto con la manica, Violante risoluta si fa verso la porta; allora costui frettoloso le si para davanti, e le intima:

— Addietro...

— Addietro tu... schiavo.

— E dove presumi andare?

— Ai piedi santi del Papa.... perchè mi faccia troncare un capo, questo capo il tuo.

— Addietro ti dico, sciagurata, addietro...

[184] — E chi vorrà impedirmi? Tu? E come?

— Come? — Rispose il Pelliccioni occupando tutto il vano della porta, con le braccia sotto le ascelle, ed in suono così pauroso di voce, che per parola non si potrebbe significare giammai. A questo punto la Violante inasprita, spumante per furore le labbra, con mano convulsa si cava di tasca il pugnale, dono sinistro del truce marito, e lo minaccia:

— Tu me lo desti... ed io lo adopro. —

E' sembra, che il sangue o l'anima del Pelliccioni avessero mestieri eccitamento per gittarsi in balía del demonio, imperciocchè rannicchiatosi nelle membra e raccolte le forze, allo improvviso spiccò un salto a guisa di gatto pardo; e l'aggavigna, poi attorcigliatisi alla mano i capelli di una tremenda strappata la scaraventa a rotolare sul terreno. O fosse la grande forza ch'ei ci mise, o le percosse morali, durate nella lunga agonía nel cervello, avessero indebolito le radiche dei capelli, quanti il Pelliccioni ne abbrancò, tanti gliene rimasero in mano; e fu spettacolo da rabbrividire.

[185] Trafitta da angoscie, che superano la immaginazione umana, pesta nelle ossa, col capo spasimante come se le avessero strappato il cranio, la donna aiutandosi con le mani si levò su le ginocchia, e strascinandosi pel pavimento giunse ad avvitichiarsi alla gamba sinistra del Pelliccioni: ormai quello che si facesse ella non sapeva, balbutiva parole rotte... non preghiere, non minaccie, suoni di belva trafitta; agitandosi a caso ella venne ad agguantarsi ad una girattiera di velluto chermesino trapunta di perle, e ne strappò due ganci, sicchè ella rimase cinta intorno alla gamba con uno. La Marchesa Clelia in iscambio dei doni nuziali, che magnifici presentò il Pelliccioni, tra gli altri arnesi gli aveva profferto cotesta legaccia, e dettogli averla trapunta a posta per lui la bella Tuda, e non era vero; ma il mondo vive di pane, e di menzogna, ed alla verità tocca scappare fuori dalla bugia, nè più nè meno che il legume si sguscia dalla siliqua.

La vista di quel capo tanto mirabile dianzi per la copia dei capelli, adesso in [186] parte calvo come il cranio del decrepito, avrebbe cacciato il raccapriccio nel cuore più duro: di fatti il Pelliccioni si rimase alquanto a considerarlo, e dopo breve spazio di tempo ripose il pugnale nella cintura, e dalla tasca delle brache cavò fuori una pistola. Costui avendo pensato, che a scannarla di coltello troppo guazzo di sangue sariasi fatto per la stanza, deliberò spacciarla di un picchio sul capo; e tosto pensato, tosto compito.... Io non racconterò, che nè anco qui al perverso riusciva a forma dei suoi desiderii, imperciocchè la misera resistesse non pure al primo, ma al terzo colpo, ed al quarto, onde in costui inviperì il delirio dell'omicidio, e giù menava alla disperata come se battesse dentro il mortaio; il cranio schizzò in ischeggie da ogni lato, il cervello si sparpagliò, larga vena di sangue allagò il pavimento: e mentre egli era tutto molle di sudore e di sangue, il corpo miserabile della donna si dimenava convulso, con le gambe dava tratti, e le dita adagio adagio con moto sempre più languido si stringevano e si allargavano.

[187] Il Pelliccioni forbito che ebbe il calcio della pistola grommoso di sangue ed impiastrato di cervello, se la ripose in tasca, e scese al piano terreno; quivi trovato Renzo gli disse:

— Va su, leva i lenzuoli dal letto, e involtaci dentro la signora Violante, accendi quanti lumi più sai, e spazzando con diligenza in ogni luogo raccogli ossa, cervello e capelli: poi lava e rilava il pavimento, per asciugarlo adoperaci semola che piglierai nella stalla; i panni sanguinosi, la granata, le ossa, il cervello, i capelli raccogli insieme, e formane un fardello, che legherai col corpo: quando sarai lesto chiamami, che ti darò una mano per portare ogni cosa allo stagno, e buttarla nell'acqua... Dov'è il vino? —

Renzo gli porse il fiasco senza movere verbo, e quegli attese a votarlo. Votato ch'ei lo ebbe, mirandosi sempre Renzo dinanzi cruccioso gli domandò:

— Perchè non vai?

— Ho paura.

— Va su, poltrone..... o ti scanno come un castrato.

[188] — Ammazzatemi.

— Dunque non vuoi andare?

— Non posso, non me ne sento il coraggio.

— No?

— No. —

Paolo stese la mano alla tasca delle brache; ma intanto che abbassava il braccio pensò: — lo stagno è lontano, e se costui non mi aiuta, la diventa faccenda seria; proviamo prima, saremo sempre a tempo, — e rialzò la mano.

— Farò da me, ma tu non ti ricuserai a portare il fagotto allo stagno....

— A patto, che veniate anco voi, e non la miri in viso.


Per quanta buona volontà ci mettesse Paolo, non venne a capo di compire le diligenze che aveva commesso a Renzo; si sentiva rifinito, e capace di spargere due cotanti più sangue, che non ne aveva la Violante nelle vene, ripugnava a lavarlo; così abborracciando formò una balla di quanto voleva fare scomparire, la strinse [189] in tre parti: finita l'opera nefaria, saliva Renzo, e si recava l'involto su le spalle dalla parte dei piedi, Paolo da capo. A rischiarare il sentiero Renzo portava un fanale; di studiare il passo non era il caso, che da per tutto regnano solitudine e silenzio. Senza ricambiare una parola fra loro, cupi, foschi come la notte in mezzo la quale procedevano, per sentieruzzi appena battuti arrivarono su la sponda dello stagno: quivi deposero il fardello: Paolo più per abito di sospetto, che per essercene di bisogno si guardò dintorno, e dopo preso un po' di fiato, disse:

— Su, Renzo, agguanta pei piedi... così... adesso dondola... no... ti pigli un trabocco di sangue — no a quel modo... mettiti d'accordo con me... io conto fino a tre... al terzo lascia andare; uno... due... tre... giù... ha fatto il tonfo! Mira un po' se niente sia rimasto a galla...

— Mi pare....

— Che cosa....

— Un po' di bianco laggiù...

— E' pare anco a me.... fa di cercarmi qualche sasso...

[190] — Bisogna andare lontano, che qui d'intorno è padule.

— Va dove sai di trovarne....

— Ho paura.

— E tu resta, andrò io.

— Ho paura a restare solo... Ah! Madonna santissima... Santi del Paradiso! Sentite....

— Che?

— Oh! non sentite lì, lì dietro coteste canne qualche cosa si muove.

— Sarà un cignale... aspetta — e cavata fuori la pistola la sparò a cotesta volta; si udì un grido represso, e uno stormire di frasche, onde Paolo riprese: — e' pare ch'io lo abbia colto, hai tu sentito come grugniva? Bazza a chi tocca, se dimani lo cercherai, può darsi che tu lo rinvenga quinci oltre morto. —

Sassi non trovarono, bensì cataste di legna; se ne caricarono sopra le spalle due pezzi per uno, e tornati sul luogo li gittarono là dove a Renzo pareva vedere bianco.

— E ora, interroga Paolo dopochè gli ebbe gittati, ti apparisce più altro?

[191] — Non vedo più nulla.

— Bene: adesso dunque andiamocene a dormire. Non ci ha visto persona.


Il giorno seguente, che aveva ad essere la vigilia delle nozze, Paolo, azzimato, olezzante di rari profumi, vispo, allegro come i raggi del sole di primavera si recò al palazzo Savelli, dove lo accolse il marchese Silla a braccia aperte, e gli disse: attendesse al fatto suo, apparecchiasse ogni cosa, le donne non potersi trovare; chi sa dov'erano? Sarebbe stato lo stesso, che tenere dietro ad una rondine. Fra confessori, sarti, crestaie pareva una Babele, un finimondo. Tutto fermo per domani, mandati gli inviti; sudare di già i fuochi a cocere le vivande del festino; pronti i contratti, i notari, la dote in pecunia numerata. Comecchè questo caso sembrasse un po' strano, fu nuvoletta di madreperla, che dondoli pel cielo sereno quasi per farne risaltare meglio l'azzurro smagliante; e poi anche a Paolo toccava compire un [192] mondo di faccende; rivide gli amici, passò dal Cardinale, a cui non potè favellare, perchè ristretto a consiglio di Stato; e così tra una cosa e l'altra si condusse all'ora del pranzo. Venuto vespro s'incamminò al Gesù per confessarsi al suo padre Migali, dacchè corre adesso, e correva allora anco più rigido l'obbligo a qualunque cattolico confessarsi prima di celebrare il matrimonio. Il padre Migali, alla vista del Pelliccioni, tanto non si potè dominare, che qualche segno di maraviglia non gli apparisse sopra la faccia, ma tuffando di subito il naso dentro la tabacchiera, e con la mano, intesa a cacciare su tabacco, coprendosi tutta una gota nascose cotesta ombra, che nata appena si dileguò.

— Sicuro è nelle regole confessarsi prima... e un uomo pio come voi non poteva mancare al debito... io vi aspettava... l'aveva detto giusto un momento fa qui a padre Ignazio... è vero? Ma le saranno le solite cose... bagattelle... bagattelle. Andiamo giù in chiesa....

— Non potremmo rimanere qui secondo il solito?

[193] — Magari! Con tutto il cuore! Ma comincia a far caldo, e in chiesa staremo più freschi.... e poi aspetto la visita del Generale... non è vero, padre Ignazio?... Ma la confessione innanzi a tutto; però quando giunga il Generale, padre Ignazio, voi presso lui mi scuserete: ora andiamo via figliuolo, andiamo in chiesa. —

E così secondo il solito il Gesuita cominciò il discorso come se volesse contentare Paolo a rimanere in camera, e lo condusse spingendolo a confessarsi giù in chiesa.

Udita la confessione padre Migali esclamava:

— Ma se lo diceva io! Le solite bagattelle, pensieri, omissioni... peccatucci veniali; di una gocciola di acqua benedetta ne avanza mezza a lavarli tutti... ecci altro figliuolo?

— Ah! Pur troppo la coscienza mi mette a scrupolo la passione che mi arde accesissima per la mia sposa Tuda; temo non sia questo regolato amore; dubito che più che la santità del matrimonio mi tiri il desiderio della carne, e la cupidità [194] della ricca dote si mescoli oltre il debito nella reverenza del sacramento.

— Eh! circa a questo, dilettissimo mio, bisogna dire essere più agevole confessarsi di simili tentazioni dopo venute, che impedire che le vengano. La spezieria della penitenza non è ricca di droghe come sai; digiuni, orazioni, elemosine, e siamo lesti. Ora importi digiunare nella vigilia delle nozze sarebbe come darti cavolo a merenda; alle orazioni non penso nè manco perchè le ti uscirebbero frastagliate di chi sa quali fantasie, e sarebbe un corri dietro perpetuo della immagine della Beata Vergine e di quella della marchesina Tuda. Resta la elemosina.... grande virtù è questa della elemosina, la quale può farsi così a piede come a cavallo, così di notte come di giorno, digiuni e dopo pranzo, innocenti o colpevoli, è sempre bene e sempre efficacemente....

Il frate mascagno s'ingegnava a pigliare la sua parte di pelle anco prima che la bestia si scorticasse.

[195]


Si sarebbe detto, che il sole presago di illuminare qualche gesto glorioso mettesse fuori i suoi raggi del dì delle feste; l'aria dintorno spirava tepida quasi sospiro di petto innamorato, e con perpetua vicenda ti aliava a onde dintorno ora musicale pei suoni infiniti, che manda la immensità degli enti che nascono, o risuscitano; saluto misterioso della vita alla Natura, — ed ora profumata dagli effluvii delle piante, e dei fiori; — pel cielo si diffondeva un tenue vapore il quale invece d'offuscarne la magnificenza gli dava risalto, come la bellezza avvolta nei veli percuote più potente i petti dei mortali; continua comecchè inosservata pioveva sopra tutta la creazione una rugiada di esultanza e di sorriso. Paolo non conosceva parenti, o gli erano morti; ma quando mai ai fortunati mancarono parenti ed amici? Ora si vedevano spuntare a frotte pari agli avoltoi tirati dalle più remote plaghe dell'orizzonte all'odore del carcame. Ne accorse un diluvio, parte col vestito solo accattato a nolo, col sorriso accattato tutti; chè ognuno [196] aveva procurato ridurre gl'inchini, le piaggerie e le profferte in amo, in gancio, o in forcina per agguantare secondo la ingordigia o ghiozzo o dentice in quel giorno facile di favori; però che anco i tristi quando si sentono contenti aprano la mano. Paolo ebbe avvertenza a radunare cavalli, perchè la comitiva lo seguitasse incavallata, facendo a cotesto modo l'accompagnatura più splendida; e bene gl'incolse, imperciocchè oltre la metà dei clienti venisse pedestre. Richiesti, con premurosa sollecitudine, gli prestarono cavalli gli Orsini, i Buoncompagni, i Falconieri, ed altri parecchi dei maggiorenti Romani, non già perchè gli si professassero amici, al contrario l'odiavano; tuttavia gli facevano servizio, e lo blandivano umilissimi, chè la fortuna spesso tira in alto il patrizio, e ce lo lega come alla gogna per rendere palese al popolo, quanto ei si meriti di essere travolto in fondo: da molto tempo tra noi sembra che il volgo nobile si affatichi arrampicarsi in cima unicamente per far venire la voglia di buttarlo di sotto.

La gente traeva a furia per vedere così [197] magnifica cavalcata; — il falegname lasciata la sega in mezzo la tavola, e il calzolaro deposta la forma senza stringere il punto recavansi sopra lo sporto delle botteghe: alle finestre comparivano gremiti i capi delle fanciulle, a mo' di api che facciano gomitolo intorno alle ramelle di timo; e da ogni canto correva un dire — o lei beata! Le belle nozze che sono mai queste! Lo sposo pare un occhio di sole. La sposa li vince tutti e due, e non defalco un baiocco. — Ci furono persino alcune fanciulle le quali cavatisi le ghirlande di giacinti e di rannucoli dal capo, e i mazzolini di viole dal seno li gittarono sopra di Paolo, non mica per petulanza, bensì per superchio di buon naturale, immaginando che, come bello, ei fosse caro e meritevole in tutto della felicità che lo aspettava. Tanto tesoro di affetto serba dentro di sè il popolo, massime le fanciulle; che quando non hanno causa di amare la fingono; e prestano le virtù a cui secondo loro avrebbe a possederle.

La maggiore frequenza del popolo chiariva [198] prossimo il palazzo Savello; di fatti, svoltato il canto, apparve anch'egli spirante una certa aria di festa: su i gradini disposti in ordine di ogni ragione famigli vestiti di sfoggiate livree, quale più, quale meno coperti di fiori. Era eziandio notabile una novità, che i Trabanti[14] del Papa vi facevano la guardia, e nel cortile ve ne stava schierata una compagnia con il suo capitano alla testa: nè questo sfuggì a Paolo, ma dacchè quegli gli rese con la spada il saluto militare, ed i soldati compirono il medesimo officio rizzando l'alabarda, egli pensò il cardinale Alessandro, forse il Papa, inviarli per onorare maggiormente la solennità. In capo scala lo aspettava il marchese Silla, che, secondo il solito, lo accolse a braccia aperte: quivi tanta la calca dei convitati, così fitte e sonore le felicitazioni, che da ogni lato lo inondavano simili agli schizzi di acqua, lepido gioco nei giardini dei magnati, che Paolo non ebbe [199] luogo a distinguere da cui movessero, e scarrucolato di mano in mano, aggirato, intronato venne a cascare nella gran sala. Colà più che mai copia di fiori, in festoni pendenti dalle pareti, in mazzi dentro vasi preziosi, in lingua di profumo pareva che dicessero: — la vita è breve: che monta, purchè deliziata di vaghezza e di odore? — E le mille candele di cui andavano guernite le lumiere di cristallo, ed i viticci sporgenti dalle pareti, a cui avesse potuto capire la loro favella davano avviso: — badate a fare quello che faremo noi; splendendo sul piacere ci consumiamo. — Da per tutto arazzi, broccatelli, e damaschi di magnificenza stupenda; in mezzo, una tavola coperta di tappeto di velluto vermiglio con larghe frange d'oro, e lì sopra guantiere, candelieri, calamai ed altri arnesi di argento; in fondo della sala sovrapposto ad uno zoccolo un forziero di ferro.

Paolo guardandosi attorno non vide la donna desiderata, nè la marchesa Clelia, nè veruna altra femmina, onde il marchese Silla, quasi per prevenirne la domanda, gli bisbigliò all'orecchio:

[200] — Bisogna rassegnarci, mio caro: adesso cominciano anco per voi le tribolazioni del santo matrimonio. Quante volte una gentildonna esce a farsi vedere, il suo abbigliamento è un lavoro; per una sposa poi, addirittura una fabbrica. Adesso tutte le congiunte e le amiche raccolte in sinedrio intorno alla sposa deliberano se una rosa deve premerle i capelli a destra, ovvero a sinistra; se abbia ad ornarsi di perle, ossivero di brillanti, separatamente, o di tutti insieme. Se alla Tuda non sovviene il consueto suo buon gusto, voi fate conto di vedervela apparire davanti spettacolosa come una fiera: ad ogni modo sarebbe proprio bazza, se di qui ad un'ora il maggiordomo ce ne annunziasse la presenza.

— Aspetterò....

— Sì caro, attendi,

»E mentre aspetti porgerai sommesso

»Refrigerio di pianto al cuore oppresso.

come dice il Poeta.

Paolo, dopo la fanciulla amata, si affrettò con occhi bramosi a scoprire il [201] cardinale Alessandro, ma nè anco questo gli venne fatto incontrare; per ventura il suo sguardo cadde sopra monsignore Ferdinando Taverna governatore di Roma, il quale pareva essersi condotto colà in compagnia di una mano di compiti cavalieri: e nel punto stesso, come avviene, lo sguardo del Governatore cadde su lui; onde l'uno e l'altro furono presti a ricambiarsi ammicchi cortesi, e i più gentili dei loro sorrisi: anzi il Governatore, seguito da parecchi, che alle vesti parevano notari, procurò accostarsi a Paolo; questi da parte sua gli rammezzò la strada, e però tosto si trovarono insieme: allora il Governatore prese a dirgli per commissione dell'illustrissimo cardinale di Montalto, che sul punto del mezzo dì sarebbe venuto a levarlo per accompagnarlo al Gesù, dove si aveva a celebrare la cerimonia religiosa: se prima gli fosse riuscito sbrigarsi, non mancherebbe al debito, ma non ci aveva speranza essendo arrivati nella notte dispacci di Francia e di Spagna, e il Papa averlo chiamato in camera per negoziare insieme con gl'illustrissimi signori cardinali [202] Aldobrandino e Castagna: a fine di mettere a profitto il tempo, secondo il suo povero consiglio, gioverebbe leggere il contratto nuziale, e riscontrare la pecunia, dacchè la dote fosse costituita non solo di beni stabili, ma altresì di danaro numerato. Stava per rispondere Paolo, quando presogli il passo colui, che, a quanto pareva (giudicando dalla petulante familiarità di cui fanno prova i forensi) il principale dei notai, osservò:

— Monsignore....

— Lasciate, che parli il Cavaliere....

— Monsignore lasciatevi servire.... non m'interrompete... e' sarebbero tempo e fiato gittati via leggere i contratti... Alla Croce di Dio! gli è chiaro come l'acqua, che io odio tanto, e Monsignore mi figuro, che farà lo stesso. Alla lettura come alla stipulazione del contratto hanno a trovarsi presenti i testimoni, e le parti, e qui non vedo l'illustrissimo Cardinale nepote, il quale fa da testimone, nè la clarissima marchesa Tuda, la quale deve fare da sposa; questa omissione porterebbe nullità espressa; se manca la persona protesto, [203] non potere esercitare il mio mestiere... Voi, Monsignore, a questa ora l'avreste a sapere. —

Il Governatore non potè trattenere i suoi labbri dallo aprirsi ad un sorriso, il quale però represse tosto ripiegandoli sotto i denti; subito dopo favellò:

— Voi avete ragione... anco troppo ragione... sempre ragione. —

Paolo appuntò i suoi sguardi sul Notaio, del quale la fisonomia non parve giungergli nuova senza potersi però rammentare dove, in quale occasione gli fosse capitata dinanzi: si raccoglieva, ma non ne veniva a capo; il parruccone nero, gli occhiali come uno scudo di argento, e le vesti talari gl'imbrogliavano il cervello: quell'uomo a prima giunta gli era divenuto detestabile; se fosse dipeso da lui lo avrebbe fatto strozzare... — ed anco egli stesso con le sue mani strozzato dall'uno all'altro andava una corrente di strangolazione.

— Però per ammazzare il tempo, potremo, anzi dovremo fare una cosa, riscontrare il danaro della dote — avvertiva il Notaio.

[204] — Io lo accetto per la somma che mi si annunzia....

— E voi, illustrissimo signore Cavaliere, insisteva il dicace Tabellione, operereste da quel magnifico gentiluomo che siete; ma le faccende bisogna che procedano nelle regole: e quanto a voi transeat, ma i testimoni, che hanno a giurare, ed io che devo deferire loro il giuramento di avere veduto numerare la pecunia come potremmo farlo dove omettessimo simile solennità? — O che credete voi, che sieno bericocuoli i giuramenti a casa nostra?

— Ma io non venni qui a noverare moneta; per contare trentamila scudi non basterebbe da oggi a domani.

— Con vostra grazia, illustrissimo, non è mica così. La pecunia consiste in tanti ducati d'oro in oro, divisi in sacchetti di mille ducati: adesso se ne piglia uno a caso e si annovera: posto che torni, si pesa; ciò fatto si pesano anco gli altri, e se corrispondono nel peso, il riscontro non può desiderarsi più puntuale, sicchè, come vedete, in meno che non si canta il Miserere siamo lesti.

[205] — Ebbene, fate voi per me...

— Ma che vi pare, illustrissimo, io non ci penso nè anco! Prendere la chiave, introdurla nella serratura, aprire le casse noi altri forensi... gente di legge estimiamo, come veramente sono, atti domenicali; da dominus, padrone, che nè ad altrui devono trasmettersi, nè da altri possono surrogarsi. Ecco, che mi reco ad onoranza presentarvi la chiave, compiacetevi, illustrissimo, di compire il resto. —

E tale favellando costui gli porgeva la chiave sopra una guantiera di argento. Paolo la prese, e si accostò al forziere mutando tre passi o quattro per lo spazio della sala lasciato sgombro: salì su lo zoccolo, e messa dentro il foro la chiave, appena l'ebbe girata, non il solo sportello, come pareva che dovesse succedere, si volse su i mastietti, bensì tutta la parte anteriore tenuta in bilico da perni nascosti si aperse irresistibile e grave dando acerba percossa nel petto a Paolo, che sbigottito fu sospinto indietro.

Intanto il forziere spalancato palesava...

Che mai? Perchè terribile scoppia dintorno [206] un grido di orrore? — Il forziero spalancato mostrò un miserabile cadavere ritto, di sangue sozzo e di fango, gli occhi cascanti giù sopra le gote, il cranio infranto come coppa di porcellana sbocconcellata; sporgeva ambe le mani, da una delle quali penzolava la legaccia di velluto cremesino trapunta di perle, e dall'altra un fascio di capelli.

Paolo barellò per cadere, senonchè lo accolse nelle sue braccia il Tabellione, il quale gli strillò dentro gli orecchi:

— Nè il matrimonio andrà indietro per questo: io vi ho ammannita la sposa con la carrucola unta e la fune insaponata. —

Il Pelliccioni volti gli occhi nel Notaio liberato dalla parrucca, dagli occhiali e dalla toga riconobbe maestro Gigolo, caporale dei dodici carnefici di Roma eletti da dodici diverse nazioni, delizia del papa Sisto V, ed ahimè! anco del senato e del popolo romano. Allora l'istinto di fiera riprese il sopravvento in Paolo che di una potente strappata sbatacchiò il boia per la terra, ma i gentiluomini del Governatore di un tratto scopertisi sbirri, in meno [207] che non si dice amen, lo strinsero nelle braccia, legaronlo per le gambe, per la vita, per le mani, così ch'ei non potè più dare crollo; quando costui si conobbe perso, proruppe in un singulto, e potè dirsi grugnito, abbassò la faccia sul seno, insensibile ormai a quanto gli si parlasse od operasse d'intorno.

Il Cardinale di Montalto facendo avvertire il Pelliccioni com'ei fosse ridotto a negoziare col Papa in compagnia dei Cardinali di San Pancrazio e di San Marcello non disse la verità, e la bugía nè manco, imperciocchè insieme veramente consultassero costoro non però sopra i dispacci di Spagna. Appena il Papa ebbe odore dell'essere di Paolo, tanto più inviperito, quanto più aveva fatto a fidanza, raccolti i rammentati personaggi, spediva ordini cautissimi, ma per veemenza procellosi, affinchè si pigliassero informazioni. Nello stagno di Nettuno rinvennero il cadavere della donna; la villa era un mucchio di cenere tuttora fumante, sbraciandovi in mezzo scoprirono, tra le altre cose, parecchie ossa in parte arse: erano le ossa di [208] Renzo che Paolo aveva freddato sparandogli alla traditora la pistola alle spalle, essendogli costui caduto in mortale sospetto a cagione di talune parole ch'ei sfringuellò in mal punto mentre tornavano a casa. Subito dopo l'arresto di Paolo, un nugolo di sbirri abbattutosi sopra il suo palazzo, vi fece una funata di quanti famigli capitarono là dentro. Sperimentati con qualche tratto di corda non ressero, e svesciarono ogni cosa; onde frugando in cantina, smosso alquanto il terreno, scoprirono il corpo del povero pescatore, anch'egli morto a palate sul capo. — Il Pelliccioni interrogato su la sera del giorno stesso in cui si avevano a fare le nozze, o sdegnasse salvarsi, ovvero, come credo piuttosto, reputando ogni tentativo vano, senza tormento confessò partitamente ogni caso della scellerata sua vita. Allora il Papa e gli altri misero in deliberazione quello che avesse a praticarsi: quanto a processo caddero d'accordo a giudicarlo inutile, conciossiachè, messa da lato ogni altra avvertenza il Pelliccioni, sotto nome di Venanzio Tombesi, da parecchio tempo [209] fosse stato condannato, onde chiarita la medesimezza della persona non restava che legargli il capestro alla gola. — Più lunga disamina ebbero intorno alla pubblicità del supplizio; a Sisto arrideva la idea di rizzare una dozzina di forche tutte in un picchio; meno avventato il Cardinale di San Marcello considerava come la plebe si appassioni mirabilmente pei condannati; massime se persone di conto, e giovani, e belli come appunto il Pelliccioni; onde per poco loro importi, il popolo li prosegua di rammarichío e di lagrime: nella sua storta immaginativa gli estremi toccandosi, egli, sovente più che non convenisse, i banditi tramutava in santi. Ogni condannato, quando ne ha voglia, allunga la scala della forca, e la muta in quella di Giacobbe, che tocca il paradiso; bene intesi però dopo avere servito a lui, al boia e al cappuccino. Il Cardinale di San Pancrazio rincalzava notando, che con la pubblicità del supplizio si sarebbe messo troppo campo a rumore con iscapito della riputazione di famiglie illustri pur troppo avviluppate in cotesto infelicissimo caso, [210] ed il fiorentino arguto a molte più cose accennava tacendo, che non ne avesse avvertito parlando; sicchè il Cardinale di Montalto, presa la mosca a volo, insisteva nel partito proposto dai suoi colleghi, però che dopo la poca prudenza da lui mostrata di ricevere in grazia il Pelliccioni, e i carichi gravi di punto in bianco affidatigli, gli sembrava che quanto meno se ne parlasse, più si guadagnerebbe. Egli accusava sè, ma di straforo veniva a trafiggere anco il Papa, il quale finse non accorgersene; e guai a cui, se non fosse stato nipote, avesse ardito favellare a quel modo: nondimanco le considerazioni del cardinale Alessandro lo percossero, e subitaneo com'era a decidersi, disse, che ventilato il pro e il contro, le savie avvertenze del Cardinal di San Pancrazio davano il tratto alla bilancia: però il cavaliere Pelliccioni, e i suoi complici, nelle carceri di Tordinona si strangolassero, e ciò in quella medesima notte da mastro Gigolo venne puntualmente eseguito.

[211]


Alla sagacia del leggitore faranno mestieri pochi cenni per chiarirlo come si fossero passate le cose; la povera Maria nascosa nel canneto scorse al barlume, e meglio sentì le parole di Paolo e di Renzo, nonchè il tonfo del cadavere della Violante nello stagno: essendosi mossa o per paura o per disagio cagionò il rumore che spaventava Renzo, e la sua mala fortuna volle che la palla della pistola sparata da Paolo la colpisse nella parte carnosa dell'anca destra, e quella fuor fuora le trapassasse; pure le bastò l'animo di tacersi, e quando lo strepito dei passi si fu allontanato stracciò la camicia fasciandosi la ferita; nè contenta di tanto, male reggendosi, si strascinò sul luogo donde avevano lanciato il cadavere nello stagno: quivi sentendo alcuna cosa incespicarle il piede, china tentava con la mano il terreno, ove trovò la girattiera di velluto chermesino trapunta di perle. Avvertiva testè come la Violante nei moti estremi della sua vita vi si agguantasse, schiantandone due gancetti: rimasta attaccata ad uno, questo non resse al rigonfiare dei muscoli [212] della gamba di Paolo, nello sforzo ch'ei fece per balestrare il corpo di Violante nell'acqua; parve averne abbastanza, ed a stento ridottasi al solito nascondiglio lì rimase tutta la notte patendo gli spasimi della ferita e l'uligine pestilenziale del padule: per rumore che udisse, o per vampo di fiamme che la percotesse non si attentò moversi: solo, appena apparve un po' di lume in cielo, soffrendo dolori ineffabili e già col ribrezzo della febbre addosso, si arrampicò a cavallo ripigliando la via di Roma.

Smontata al palazzo Savello, ella non volle medicarsi, anzi neppure spogliarsi se prima non ebbe messo a parte di ogni cosa la sorella Tuda, e la marchesa Clelia, la quale le porse diligentissimo ascolto, senza interrompere mai, non lasciando nè manco indovinare quale passione l'agitasse, se ira, o contento: finito che Maria ebbe il racconto, la Marchesa mosse varie interrogazioni sia per completare qualche particolarità, sia per chiarirla; quando poi le sembrò stringere nel pugno intera la matassa, disse alle fanciulle non uscissero; [213] avrebbe pensato ella ad ordinare che veruno entrasse, eccetto il cerusico, diverso dall'ordinario di casa, affinchè non si facessero ciarle, o non crescessero: si confortassero; ogni male non venire per nocere, e via, e via. Alla povera fanciulla nè una carezza, nè un bacio. Un bacio della marchesa Clelia alla villana che le aveva salvata la figlia, pensate! sarebbe stato un grossissimo scandalo: — anzi neppure la raccomandò alle cure di Tuda; non mica perchè ella pensasse ogni raccomandazione superflua, bensì perchè il patrizio accoglie il sacrificio del popolo come gli idoli; ci è avvezzo, e lo estima dovuto. O qual fie mai quel plebeo indiscreto, che non si reputi glorificato abbastanza di farsi ammazzare per un patrizio? Diavolo! le sono cose che vanno pe' suoi piedi.

Gran parte della vigilia delle nozze di Tuda, la marchesa Clelia passò col Cardinale di Montalto, a cui sovvenne con pronti consigli, e tornata a casa provvide a tutto, astuta, discreta e sollecita, imperciocchè se togli la superbia, la vanità, [214] l'avarizia, la prepotenza, il cuore di pietra, e non so quali altre taccherelle, bisognava confessare ch'ella era donna di governo assai.

Intanto Tuda soccorreva la Maria con le dolci parole, che riboccavano da cuore appassionato davvero, e la veniva confortando con le carezze e coi baci; lei chiamava sorella e madre, lei unico rifugio che avesse nel mondo; e certo se lo affetto avesse virtù di sanare i malori, Maria sarebbe stata guarita in un attimo. Lungamente aspettato il cerusico venne, e comecchè trovasse la piaga invelenita, tuttavia non fu questa che lo mise in pensiero; egli si spaventò, a ragione, di una febbre acuta, la quale giudicò subito avere infiammato il sangue alla fanciulla così da lasciare ormai poca speranza di rimedio; ed in questa sfiducia si confermava udendo dove ed in quale stato si fosse rimasta la notte: forse adoperando subito partiti estremi avrebbe potuto salvarla, ma egli che semplice cerusico era si peritava; si fece a consultare la marchesa Clelia, e' fu mestieri aspettare; tornata a [215] casa si mandò pel medico, e si perse altro tempo; quando il medico venne, il giorno volgeva a vespro: anch'egli ragguagliato per filo e per segno, sentito il polso, il cuore e le arterie delle tempia, speculato il volto rosso come fiamma, e fatte altre più ricerche, non seppe a qual santo votarsi: tamen per onore della scienza e suo non bisognava mostrare essere corto a partiti; però ordinava al cerusico le cavasse sangue, non fosse altro, egli diceva, per iscoprire marina. Il sangue da prima stentò a spillare, poi prese a scorrere nero come lo inchiostro, e a mezza la operazione Maria declinato il capo cadde in deliquio; allora il medico fece cessare, ed ordinato, che le dessero quando risensava certi suoi elettuari, se ne andò promettendo avrebbe passato la inferma una notte tranquilla. Il salasso fece giusto lo effetto della poca acqua versata sopra la fiamma, la quale attutita appena divampa più veemente che mai, sicchè verso sera aggravandosi, come suole il morbo, si palesò il delirio. Vagellò la povera Maria quanto è lunga la notte, ora con maggiore, ora [216] con minore impeto, e le visioni della sua fantasia furono sempre di mostri, che sorgono dall'acqua per divorare donzelle, o di demoni sbucati dalla terra per rapire anime: strano miscuglio di rimembranze dello Ariosto in cotesti tempi vulgatissimo in Italia, e di favole religiose; e a lei pareva toccassero sempre le parti di Ruggero, di Orlando, o dello Arcangiolo Michele; dai moti delle membra, dallo sguardo pugnace, dalla voce irrequieta a gridare minacce, assai chiaramente si veniva a conoscere, come le sembrasse combattere, ed in vero combatteva. — Le sue parole queste: — io la difendo contra tutti e sola; — no — vi ci romperete i denti e l'ugna.... mettetemi in pezzi, e ogni pezzo della mia carne diventerà un uomo armato a difenderla.... ahimè! Tuda mi sento rifinita.... Tuda salvati, che mi hanno piagato a morte! oh! oh! mi tengono le ginocchia sul petto, e la mano intorno al collo. — E qui rantoli soffocati e sforzi ineffabili, come di colui, che messo di sotto si arrabatta a svincolarsi; e dopo molta agonía faceva sembianza di venirne [217] a capo, sicchè con lena affannata e grondante sudore urlava: — Tuda ritorna.... il nemico è vinto..... il diavolo morto mi sta sotto i piedi.... Ora sei sicura Tuda.... alleluia! alleluia! osanna in excelsis.

Tuda non si staccò mai dalla sponda del letto, e con qual cuore noi non sappiamo dire: tutta la sua anima stava riversata dentro i suoi occhi, ed i suoi occhi fissi senza pure battere palpebra nella faccia di Maria; i gridi e i moti di questa si riflettevano sopra la fronte di Tuda come baleni di luce sinistra. Intesa con tutte le potenze dell'anima e del corpo nella sorella inferma, se nel cavo della congiuntura si radunava umore, non cresceva in lacrima, o se coi labbri cominciava una preghiera finiva in bisbiglio confuso, imperciocchè le intenzioni di Tuda, per un istante svagate, si riappuntavano impetuose ed intense con tutta forza in Maria. Con vicenda strana ringorgando il sangue intorno al cuore di Tuda faceva sì che ella comparisse pallida come morta, mentre al contrario Maria tutta avvampata [218] nel volto, con occhi micanti sembrava riboccare di vita.

Così passarono due giorni, al terzo il medico arricciò il naso, strinse le labbra, e senza pronunziare verbo, dato una giravolta su i talloni, se ne andò diritto alle stanze della marchesa Clelia, alla presenza della quale ammesso, espose la salute della Maria sfidata; vedesse farla acconciare alla meglio dell'anima, dacchè di conoscenza non desse segno, nè lo avrebbe forse dato, avendo il morbo preso possesso del cervello; ma non essere questo ciò che maggiormente importava; procurasse ad ogni modo staccare di là la clarissima signora Tuda, che gli dava pensiero grande avendo vegliato sempre la inferma, e miracolo di bontà e di gagliardia non essersi riposata nè manco un momento; era da temersi che per la vigilia, la fatica, il digiuno, ed anco per la passione dell'animo non venisse cotesta bella e florida salute a guastarsi: ridotta in condizione malescia non impossibile le si attaccasse il morbo della Maria, di sua natura appiccaticcio, e tanto a sgravio [219] della sua coscienza. — Il Medico non lo disse a sordo, onde la marchesa Clelia, senza frapporre tempo in mezzo, in due salti fu in camera alla Maria: quivi guardatala alquanto, e sembrandole pur troppo, che il medico si apponesse, dopo averla compassionata così a mezza bocca per non parere, si trasse la figliuola sur un lettuccio, dove avendola presa per ambo le mani, col più soave accento, che per lei si potesse, cominciò a dire:

— Figliuola mia, la vita e la morte stanno in mano di Dio, e sarebbe ribellione espressa ai voleri divini non rassegnarci. Tu hai fatto verso la Maria il debito di cristiana; e per somma bontà tu hai largamente soddisfatto all'obbligo di riconoscenza; imperocchè io vo' che tu ti capaciti bene, che a lei ancora come nata sopra i nostri poderi, e figlia di gente che da secoli mangia del nostro pane, stringeva pressantissimo il dovere di mostrarci al bisogno fedeltà. Questo mettiti in mente, che il padrone ha pure diritto di aspettarsi dal vassallo e dal servo il sacrifizio dal quale non si tira indietro il cane. Noi le procureremo [220] onorevole sepoltura.... ne appagheremo l'anima con ogni maniera divozioni, a sua madre daremo tutte le vesti e gli ori che tu le donasti: al padre qualche cento di scudi, e dugento se vuoi, quantunque a questo numero non credo che saliranno le lagrime piante dal villano per la sua figliuola: adesso vieni, figliuola mia, lasciamo la morente alla cura delle donne e di Dio; si è fatto quanto si poteva per salvarla, ora la carità vuole, che ti pigli studio della tua salute. —

La Tuda ascoltò queste parole come trasognata; dentro gli occhi le si andavano formando grosse lacrime, le quali rimanevano poi come contenute dalle palpebre socchiuse; le ansava forte il petto, onde ad ora ad ora l'era mestiere rompere in profondo singulto, la parola crucciosa non trovava la via di formarsi distinta, sicchè per le labbra in sussulto passava come vento. Era chiaro che aborriva da favellare, ed ella avrebbe di sicuro taciuto se la marchesa Clelia reputando assenso il silenzio, non le avesse fatto forza per cavarla di là. Allora Tuda [221] si drizzò ritirando di una strappata le sue dalle mani della Marchesa; e senza guardarla, con occhi lacrimosi e tuttavia privi di pianto, con voce tremula, e non dimanco feroce, così rispose:

— Signora; se Maria non era in questo punto, adesso moglie di scellerato ladrone a me non sarebbe rimasto altro che a vivere di vergogna, e a morire di dolore. Voi tirata dalla vanità, dalla superbia e dalla avarizia non aborriste sagrificare la mia vita per soddisfare le passioni dei vostri anni senili: ella ha sagrificato la sua florida giovanezza... l'amore dello sposo che la bontà sua le avria procurato di animo pari... la speranza dei figli, delizia suprema al cuore di donna — tutto ella ha dato per salvarmi dalla infamia e dalla disperazione. Signora... ormai, eccetto lei, io non conosco altra madre, altro padre, altro fratello, altro sangue: finchè viva, io non mi staccherò dal suo letto; morta poi, io farò quello che Dio saprà inspirarmi. —

La Marchesa rimase ad un punto attonita e spaventata dalle parole atroci e [222] più dal torbido sembiante della Tuda; pure fra l'ira e l'amore, vincendo amore conforme è consueto in cuore di madre, procurava con nuovi discorsi raumiliarla:

— Ma chi ha detto che Maria ne morirà? L'ho detto io? Eh! che vuoi tu figliuola? Chi ama teme; ed io, che amo questa povera Maria quanto te, ho temuto troppo. Ella guarirà... oh! guarirà senza altro, prima per grazia della Beatissima Vergine nostra avvocata, e poi per la virtù del medico Gravelloni, il quale è un portento di scienza. Pocanzi, egli proprio, mi assicurò, non esservi pericolo per ora; sicchè guarirà e noi le assegneremo la dote che merita, e tu le ammannirai le donora: Telesforo, il figliuolo di Anselmo, mio uomo nero, farebbe al caso; bel giovanotto, religioso, il padre non rifinisce mai di lodarlo. Dunque, cara, vieni a riconfortarti con un po' di cibo e di riposo... vieni... lo devi a me che ti amo tanto... e coteste parole dure non le avresti a dire... vieni, diletta mia... non fosse altro per tornare fra qualche ora più vispa... più lesta che mai a custodire la nostra cara Maria. —

[223] E pigliatala per una manica si provò trarla seco non senza adoperarci un po' di sforzo, il quale per essere dolce non cessava di essere sforzo; allora accadde in Tuda come una trasfigurazione, i suoi occhi ribevute le lacrime mandarono baleni, e dalle labbra enfiate proruppe la voce procellosa:

— Nessuno mi tocchi; di qua non mi staccherete che morta... lasciatemi con la mia sorella... lasciatemi per Dio! — e le mani si cacciò tra i capelli intanto che co' piedi forte batteva la terra.

Lorenzo Sterne nella occasione che il suo zio Tobia ebbe a profferire un giuramento pari, immagina che l'Angiolo dell'accusa lo portasse alla Cancelleria del paradiso e quivi vergognando lo depositasse, sicchè l'Angiolo computista nel registrarlo su i libri vi lasciasse cadere sopra una lacrima che lo cancellò per sempre; se questo avvenisse anco pel sacramento di Tuda non so, questo altro poi so benissimo, che non è rammentare il nome di Dio invano quando si chiama testimone dei generosi detti, o dei magnanimi fatti: [224] imperciocchè per quanto arriva la mia povera intelligenza, giudico che a lui piaccia trovarcisi presente per confermare la creatura negli alti propositi, conoscendo, come ella dopo i primi pensieri i quali inspirati dal divino entusiasmo l'accostano al cielo, giù giù declinando finisca coll'adagiarsi sul fango.

Così Tuda fu libera. — Quel giorno stesso, verso il tramontare del sole, lo intendimento di Maria pari al naufrago che per uno istante ricomparisce sul cumulo delle acque, affrancatosi dal delirio splendè negli ultimi suoi raggi: di fatti con occhi consapevoli contemplata Tuda, e vistala oltre ogni credere grama le accennò accostarsele al letto, e con voce languida le favellò:

— Tuda, piglia animo e vivi. La Provvidenza ha ordinato, che di due fiori usciti da uno stelo medesimo, uno tocco dal verme appassisca, l'altro invece cresca rigoglioso così che alla vita propria sembra avere aggiunto la vita del compagno, e come dei fiori anco dei frutti, degli animali, e di tutto. Quanto ci accade [225] ti confermi nella fede che Dio vuole tu viva. Vivi dunque, fortunata, alla tenerezza di sposa ed alla gloria di madre: solo ti prego a non ti scordare di me, che ti amai tanto... però il mio nome rammentato in mezzo alle gioie domestiche (non posso presagirti dolori) non fare che ci passi sopra come un'ombra... così non voglio, e me ne avrei a male; rammentatemi come persona presente, che vi vede, vi ascolta, e piglia parte alle feste di casa... perchè l'anima mia vivrà... e non mi sarà negato di starti appresso in ispirito... certo non sarà per mia colpa se io vie via non mi mescolerò con l'aria che respirerà il tuo petto, e con la luce che beveranno i tuoi occhi. Se non domando troppo, anco ti pregherei, che alla prima figliuola che uscirà dal tuo grembo tu le ponessi nome Maria... ma no che io non domando troppo, perchè messo da parte che gli è nome della tua buona sorella, Maria si chiama la benedetta donna che per grande onoranza salutano refrigerio dei cuori desolati, rifugio di tutti gli afflitti... e quando la bambina ti chiederà con vaghezza infantile: [226] perchè mi hai chiamato Maria? E tu dille: perchè tale ebbe nome una sorella che più di vivere fu lieta assai... assai di morire per me... Tuda, mi prometti dirglielo? Assicurami che glielo dirai...

Tuda tra uno schianto di cuore ed un altro:

— Oh! Oh! singhiozzava senza potere aggiungere parola. Alla morente parve cotesto suono affermativo, onde rischiarando di un tratto le tenebre della morte sospirò:

— Adesso muoio contenta. —

E fu l'ultima parola, dacchè indi a poco il petto prese ad ansarle orribilmente profondo, e con frequenza, che andò di mano in mano diminuendo. Tuda seduta accanto al letto, poichè di reggersi in piedi non si sentiva più capace, ora con un ventaglio veniva a scacciare le mosche che, proterve ed impronte, camminavano traverso la fronte e su pei labbri di Maria, ed ora le asciugava il madore che incessante le gemeva da tutta la faccia; ed ora col cotone intinto nel moscato le umettava la bocca riarsa.

[227] La distruzione proseguendo l'opera sua, ecco l'anelito si fa singulto, che a stento prorompe, e con miserabile angoscia dalla gola attenuata di Maria, gli occhi pigliano a mandare i lunghi getti di luce del lume che si spenge; allora una voce mite si fece sentire, che disse: — Si scosti la creatura, Dio si avvicina. —

Tuda levò la faccia, e illuminata dai raggi del sole che tramontava, vide una testa di giovane sacerdote, quale per certo apparvero quelle degli Apostoli quando la fiammella dello spirito cadutaci sopra vi accese con la sapienza che non ha confino la carità e la fede. Come Dio avesse fatto piovere cotesto capo su le spalle di un prete, e a Roma, e' fu uno dei miracoli della sua onnipotenza, che noi dobbiamo studiarci di venerare, non già di comprendere. Dopo recitate le preghiere latine egli volse gli occhi dintorno e si tenne solo però, che agli assistenti venuto meno il cuore, si fossero appartati per piangere, e Tuda caduta su i ginocchi a piè del letto aveva nascosto il capo fra le coltri. Allora il giovane prete soggiunse:

[228] — Partiti in pace, anima cristiana; povera Maria, io ti ho veduto nascere e non doveva sopravviverti: un dì sperai esserti unito su questa terra, a Dio non piacque, ci troveremo uniti in paradiso: sia fatta la volontà di Dio. Ti assolvo dei tuoi peccati per debito del mio ministero, ma io ho fede che Dio aspetti l'anima tua per accrescerne la sua divina sostanza: partiti in pace anima cristiana, e impetraci che Dio alleggerisca il retaggio di colpa col quale tutti nasciamo e contro cui non basta la nostra poca virtù; anima benedetta, supplica il Signore che ne conceda tempi più copiosi di virtù, e meno pieni di tristizia...

Il braccio sinistro di Maria si rattrappa come pergamena esposta al soverchio ardore, e la mano si raggricchia per agguantarsi a qualche obietto, ma braccio e dita ad un tratto prosciolgonsi, la grossa lacrima raccolta nel cavo dell'occhio sinistro trabocca; con lungo respiro pare che ricerchi negl'intimi precordi ogni residuale spirito di vita, ed alitando poi la moribonda lo sospinge fuori.

[229] In questo medesimo punto tramontava il sole; sicchè cessarono insieme l'ultimo raggio del sole nel cielo, e l'ultimo fiato di Maria sopra la terra.

— È andata in pace, — susurrò il prete, e chinatosi un poco, le chiuse le palpebre e la baciò in fronte; poscia piegando alquanto la persona gli venne fatto vedere Tuda, la quale, bianca ed impietrita, si accostava al letto; nè egli si vergognò, perchè la stessa Innocenza avrebbe potuto contemplare cotesto bacio senza farsi velo delle mani agli occhi: cotesti baci valgono una preghiera, anzi sono la estrema manifestazione dell'anima, dopo esaurita la preghiera; solo non potendone più, il prete accennava barellare; la Tuda gli porse le braccia ed egli vi si lasciò cadere, per modo che l'uno appoggiando il capo sopra la spalla dell'altro piansero. Supremo artefice di uguaglianza e di fraternità, il dolore!


Avendo la Tuda fatto sapere al marchese Silla sua ferma volontà essere, che [230] la Maria nei sepolcri di casa si riponesse, la famiglia si accolse a consulta, dove la Marchesa contrastando al pio desiderio della figliuola, come quello che avrebbe partorito pessimo esempio, e non mai più inteso, ebbe a sentirsi a rispondere dal marito, che quanto a questo egli non ci vedeva ostacolo, imperciocchè la madre della signora Marchesa sua consorte l'avesse sgarata a far seppellire nelle tombe della famiglia il cocchiere di casa, da lei tenuto caro quanto il marito e i figliuoli e più. La Marchesa gli avventò una occhiata da basilisco, ma egli la ricevè con tale beata tranquillità, con siffatta ingenua mansuetudine, che la Marchesa anco per quella prova convinta, che il marchese Silla non si poteva riscattare dallo influsso del montone, per non fare peggio cessò dalla perfidia.

La Tuda sovvenuta dalle donne di casa lavò diligentemente il corpo di Maria, con preziosi odori lo profumò; i capelli come meglio potè con la opera del calamistro le compose in ricci minuti (però che la povera figliuola per nascondere meglio il [231] suo sesso, senza un rammarico, anzi senza pure avvertire che fosse sacrifizio, si era tosata le lunghe chiome) e poi le mise addosso la vesta bianca trapunta di oro, con la quale ella doveva andare a nozze; le acconciò il velo, tra le mani le pose il crocifisso di oro; e poi fiori da per tutto, e dei più belli e rari che la stagione porgesse: avrebbe voluto trasportarla nella sua stanza, e sul proprio letto adagiarla: non lo potendo ottenere senza scomporre lo assettamento, mise sovrapposte sul solaio parecchie materasse, e ricopertele di tappeto di velluto vermiglio, quivi la depose. Quanti trovaronsi candelieri in casa tanti ne furono portati in cotesta stanza trasformata in cappella ardente. Agguardando sottile ogni minutezza, parve a Tuda che le federe dei guanciali scomparissero, onde chiese e volle le più belle che fossero in casa guarnite di trina che costava un occhio; per ultimo, allorchè le parve non ci fosse altro da aggiungere, nè da correggere, si assettò sul pavimento recitando preghiere. Era pietà vedere la morta giovane, e pure non dava minore stretta al [232] cuore la vista della viva: veruno ardiva frastornarla, perchè si danno dolori che sono più paurosi a toccarsi dell'arca del Signore. Declinando il dì vennero i falegnami per la cassa, e Tuda scosso alcune volte il capo sorse, e dopo esaminata la cassa, la foderò di un lenzuolo; forte e animosa prese la morta sotto le ascelle, intanto che due donne la tennero pei piedi, e la deposero dentro la cassa, tolto uno dei guanciali con la ricca fodera, glielo sottopose al capo; ciò fatto le ripiegò sopra i lembi del lenzuolo che sopravanzavano dai lati; e qui Tuda fu vista balenare, ma stesa una mano al muro si resse; quando poi i falegnami, colto il destro, soprammisero il coperchio alla cassa, e presero a conficcarla con picchi aspri ed assordanti, girò sopra sè stessa come paleo, e prima che si potesse sovvenire percosse in terra. Appena però sentì mettersi le mani su la persona rinvenne, e da sè si rimise in piedi puntando il braccio tremulo sul pavimento:

— Non è nulla.... è passato, aggiunse e si allestì per seguitare la bara nella [233] Cappella di casa sua, fondata in certo monastero di Cappuccine ai giorni nostri soppresso. — Quantunque i Conventi esercitino la empia virtù d'inaridire il cuore, tuttavia talune femmine ne possiedono in tanta copia da avanzarne a qualunque prova: e le altre vergognando di sentirsi il seno vuoto, quanto più possono celano questa miseria: per la quale cosa la Priora con tutto il capitolo volle assistere al funerale. Alla Tuda fu concesso facilmente di entrare nel coro, dove stette genuflessa finchè durò l'uffizio, il quale finito si mise dietro alle Cappuccine, e siccome su la soglia della porta del Convento la Priora mitemente le disse:

— Figliuola, voi non siete delle nostre.

— Anzi sono, la Tuda rispose, e con voi ho deliberato vivere e morire, se pure non mi tenete indegna di avermi per figliuola. —

A questo modo la Tuda entrò in Convento, nè valsero disperazioni, nè pianti a quinci removerla: non parola amara le sfuggiva mai dalle labbra, non suono concitato, mite sempre, e tranquilla: una volta, [234] incalzandola troppo la madre, ella tremante per tutte le membra favellò:

— Signora Marchesa, parmi avervi già detto come io mi consideri da lungo tempo orfana, epperò mancando io di padre e di madre sopra questa terra, non mi contrastate di pormi sotto il patrocinio del Padre di tutti, ch'è nel cielo. —

Colà come aveva statuito ella visse, e morì. A Roma la salutarono eroina, e nei sonetti che composero nella solennità della sua vestizione, la paragonarono a Sofonisba, ad Artemisia, e a non so quale altra, abborracciando cose da farne strabiliare i cani. La mia storia la lascia alla porta del Convento, e poi se mostrassi genio di volerci entrare mi caccerebbero via, ed a ragione, perchè nei Monasteri di donne si pratica la clausura: però credo, che ci traesse la vita in opere di pietà, ed irrimediabilmente mesta. Così ordinò la natura, e a cui non intende pare strano; i casi truci percotono assai più profondamente le anime liete, e tenere, che le lugubri, e le forti; in ogni dove comparisce il contrasto; e per ragione di forza, che [235] io dirò dinamica e morale, le donne massimamente si mostrano vaghe di vedere feriti, spenti a ghiado, e supplizi, o udirne raccontare, od anco descriverli sia con lingua, sia con penna, mentre uomini truculentissimi si piacquero nelle immagini della vita pastorale da disgradarne il più gentile degli Arcadi. Robespierre educava tortorelle, e le metteva in dono alle fanciulle con lettere da vincere in tenerezza il sonetto della cara anima del Petrarca:

A piè dei colli ove la bella vesta,

con quello, che seguita.


Nè io porrò fine a questa storia se prima non vi abbia dato contezza del misero Marchese di Ayerba: costui da parecchio tempo sembrava caduto in demenza; susurra spesso parole senza costrutto; diventato infingardo la più parte del dì logora a letto; suo principale, o piuttosto unico studio quello di chiappare mosche a volo, e scapezzatele co' denti mirarle andar via senza [236] testa. Quando la nuova del miserabile caso avvenuto alla Violante arrivò a Napoli, e ne rimase ragguagliato il popolo, i servi di casa Ayerba o perchè ne sentissero affanno, o piuttosto, come credo, per alleviare la noia, di frequente ne ragionavano fra loro. Adesso accadde, che alcuni di essi vigilando il Marchese, nè di lui prendendosi sospetto come quello, che riputavano affatto imbecille, cadessero a favellare della successa immanità. Se la sicurezza loro non era, e avessero posto mente al Marchese, si sarieno rimasti, imperciocchè udito ch'egli ebbe profferire il nome della sua figliuola si tramutò visibilmente in faccia, ed appuntò le orecchie per non perdere verbo. Raccolta la notizia dolorosa, la pazzia del Marchese, a guisa di fuoco sbraciato, di malinconica ridivenne furente, ignudo saltò fuori dal letto, ed, abbrancato un candeliere, ed agitandole come se fosse un coltello, fece le viste di precipitare giù dalle scale. Con urli salvatici gridava:

— Dove sei traditore? Rendimi la mia figliuola... Violante... Oh! la mia figliuola... [237] nessuno mi tenga... io vo' cavargli il cuore. —

A stento lo ricondussero a letto senza perderlo di occhio un momento, e da quel dì in poi per vicenda singolarissima la pazzia tornata furiosa gli concedeva lucidi intervalli; sicchè ora con abbastanza discorso ragionava, e poi di punto in bianco da seduto si metteva bocconi sul letto; in cotesto atto aggrappa un guanciale come se fosse un uomo ed ei lo grancisse pel collo; seco lui si dibatte, finchè all'ultimo se lo caccia sotto, con le ginocchia lo pesta, lo straccia a morsi, e con la destra che ei si finge armata di stile lo ficca, e lo rificca tanto che rifinito si lascia ire in bagno di sudore. Durante certo lucido intervallo mandò per un maestro dei buoni, e gli commise una figura a mo' dei modelli di cui si servono i pittori e gli scultori, così vivo e preciso glielo descrisse, che dopo non poche mende, potè raffigurargli parlante la sembianza del Pelliccioni; nulla fu omesso perchè l'inganno paresse realtà, nè gli occhi di vetro, nè la pelle dipinta, nè i capelli naturali, ed i peli; il medesimo [238] si dica per ogni altra parte dello abbigliamento; ordinò eziandio per quanto o temessero il suo sdegno, o stimassero la sua grazia gli procurassero un pugnale, ed anco questo egli potè avere, bensì spuntato, e senza taglio. A questa guisa venuto in possesso del simulacro e del coltello parve contento; quantunque durante il giorno si mostrasse torbido, tuttavia non ruppe in ismanie, e parve voler passare la notte tranquilla, perchè appena coricato prese sonno, ma non andò guari che un tremito fitto gli si mise per le membra, poi si agitò convulso dibattendosi co' nervi tesi, e sbadigliando forte da fendersi la bocca: di repente salta fuori dalle coltri, co' capelli ritti, e gli occhi strabuzzati, in mano stringe il coltello, e traendo dolorosi guai si slancia sopra la immagine del Pelliccioni, l'acciuffa alla gola, l'atterra, e replicando l'usato costume con le ginocchia sul petto la pesta; col coltello la ferisce, co' morsi la straccia.

Allo improvviso fu visto, con paura dei famigli infinita rimanersi, con la mano armata di ferro in alto, immobili il capo, [239] gli occhi, la bocca, tutta insomma la persona: gli furono attorno per levargli dalle mani il simulacro, e il pugnale, e riportarlo sul letto; e di ciò fu niente, imperciocchè provassero i suoi nervi rattratti più duri del ferro. Lo aveva percosso la trucissima delle infermità umane, la catalessia; non trovarono altro modo per istaccarlo di là che segare il modello sotto e sopra la mano manca con la quale ei lo teneva grancito, onde gli ebbe a rimanere un tronco di collo in mano; a quel modo aggranchiato lo misero su i materassi; dove, l'arte medica affaticandosi invano, dopo alcuni dì moriva d'inedia.


Questo è il fine della lamentevole storia di donna Violante d'Ayerba e del cavaliere Paolo Pelliccioni.

O voi, tra le mie care leggitrici, che non mi avete lasciato a mezzo del mio racconto doloroso,

e capriccio ed affanno,

Non che compassïon avete inteso,

[240] se a caso mai vi pigliasse vaghezza di chiedermi: cui bonum, qual costrutto ci è egli da cavare dal vostro libro, Messere? Io ve lo dirò, perchè voi lo sapete, io sono tutto vostro, e non iscrivo lettera, la quale (almanco secondo la estimativa mia) non deva ridondare in grandissimo vostro benefizio. Ora lasciando da parte le altre utilità richiamo il vostro giudizio principalmente sopra di tre.

In prima (mi astengo dallo adoperare innanzi tratto perchè questo avverbio me lo ha consumato il signor Sella a Torino nella sua relazione su le finanze del Regno, e così Dio volesse ch'egli avesse logorato l'avverbio innanzi tratto soltanto!) in prima dunque se questa mia storia valesse ad aggiungere un filo solo alla trama di odio che voi avete ordita contro le turpezze e le infamie della corte Romana, dove il prete si vanta cittadino del cielo per calpestare ogni affetto di famiglia e di patria sopra la terra, già sarebbe un bel guadagno, nè voi vorreste appuntarmi di avere sciupato inchiostro e tempo; ma vi ha di più.

[241] Conciossiachè in secondo luogo qui si faccia manifesto come getti profonde le radici nel cuor del popolo amore, o sia che l'obietto di quello ne compaia degno, ovvero indegno. Il popolo certo preferisce palesare la passione, che lo scalda con atti laudabili di mano, o d'ingegno, ma non si tira indietro nè anco dai feroci. Guardimi Dio da commendare, anzi nè da scusare siffatti procedimenti; solo avverto, come nel cuore del popolo non trovi mai penuria di passione; ferro, e fuoco sempre, ora sta al fabbro buono o tristo cavarne un vomere per romperne la terra, od un coltello per romperne le viscere all'uomo. Ma nè Dio, nè uomo arriveranno mai a trarre cosa che valga da quei meschini, dai moderati, nel seno dei quali rovistando, i meno tristi arnesi che tu ci possa trovare sono un Abbaco, una Coda di volpe ed un Orecchio di coniglio.

In terzo luogo, e questo fie ciò che meglio importi a voi, io ho inteso avvertirvi, o fanciulle, che non vi lasciate inconsulto scapparvi di mano il vostro cuore: badate, ch'egli è maggiore tesoro, che voi [242] per avventura non immaginate; in lui stanno riposti non pure la fama e la contentezza vostre, bensì ancora la dignità dei figli, la gloria della famiglia e la salute della patria; chè famiglia vera senza patria non ha luogo, nè viceversa. Buoni i consigli paterni, e buoni eziandio i materni, ma voi, non il padre nè la madre vostri, avete a vivere finchè vi basti la vita con l'uomo che sceglierete a marito. Però prima che la passione vi vinca, sottomettendo il talento al giudizio, cercate di qual lignaggio esca il garzone che incontrò grazia agli occhi vostri, e quali i suoi parenti, e poi del genio, della indole, degli studi e dei costumi di lui. Non ingannate e non vi lasciate ingannare, chè il matrimonio non dà campo a disdire la bestia in virtù dei vizi redibitori. Se avete qualche avvocato in casa... (— chi è sì gramo adesso che non abbia almeno un paio di avvocati e di cavalieri dei Santi Maurizio e Lazzaro in casa —) fatevi spiegare vizi redibitori che sieno. Strappate la benda allo Amore, lasciatela alla Fortuna, la fiamma accesa dalla fiaccola di [243] Amore bendato, il più delle volte mirai mantenuta all'ultimo da quella delle Furie. Se pertanto gli esempi di questa lamentevole storia valessero a ritenere dal nabissarsi, o meglio a fare felice una sola di voi, care e buone fanciulle, non istimerei il mio libro dettato invano.

Solo vi prego a perdonarmi se qualche volta vi ho fatto paura; in ammenda del fallo vi prometto giocondarvi, come meglio potrò, un'altra volta.

Ecco, voi potete conoscere, come spiacente di torre commiato da voi, io mi vada gingillando; orsù animo! Addio fanciulle, amate i vostri innamorati, ed anco un po' il vostro scrittore, che talora vi si mostrava acerbo soltanto per rendervi degne della Libertà e della Patria.

FINE DEL SECONDO ED ULTIMO VOLUME.

NOTE:

1. Bucefalo non è, come universalmente si crede, e Plinio afferma, nome proprio del cavallo di Alessandro Magno; anco prima bucefalo chiamavasi presso i Tessali una razza di cavalli distinta per capo largo a modo di bove. Il cavallo di Marco Aurelio nel Campidoglio è bucefalo, ed i Romani gli amano così; all'opposto piacciono agli Spagnuoli quelli con la testa di montone, de carnero, che tra noi chiamansi volgarmente montonati.

2. Specie di opera buffa che correva per la Italia a quei tempi in istrazio degli Spagnuoli. Il duo si prolunga a sazietà; i versetti qui posti in bocca al capitano Cardone significano: Di chi sono queste mammelle? La vita e il cuore? Donna Isabella naturalmente risponde: del capitano Cardone.

3.

Par che asinina stella a voi predomini,

E somaro, e castron si sien congiunti.

La Musica.

4. Non dopo la morte, bensì sei mesi avanti la morte di Sisto V i banditi tornarono a infestare Roma = i fuoriusciti corrono fino sopra le porte di Roma = Dispacci del 17 marzo, 7, 28 aprile, 2 giugno, 21 luglio 1590 dell'oratore Alberto Badoero al Senato.

5. Ma quello ch'è peggio, chè di più essere stati trovati diversi muli carichi di pasticci, et altre cose da vivere, da vestire che andavano di qua ad essi fuoriusciti, il Governatore di Roma ha avuto in mano una carrozza mandata al Piccolomini con denari, archibusi e polvere da un ambasciatore residente a questa Corte per il che si conosce, che sono costoro altamente favoriti e per ciò non sarà facile scacciarli come si credeva da prima. = Dispaccio di Alberto Badoero oratore veneto del 24 novembre 1390. Egli è vero che Sisto era morto, ma il Mutinelli osserva bene, che atteso il conclave e il breve pontificato di Urbano VII si può dire che simili casi accadessero subito dopo la morte di Sisto, e però fossero conseguenza del suo pontificato, e conferma quanto il Ranke scrisse nell'op. cit. nel n. 3, l. 6.

Sisto finchè visse d'accordo co' suoi vicini potè venire a capo dei banditi, ma quando questo accordo cessò, e a Venezia e in Toscana si accolsero opinioni diverse a quelli di Napoli e di Milano, quando il Papa parve esitare a qual partito appigliarsi, diventato sospetto a tutti ebbe a trovarsi di nuovo lacero dai banditi.

6. Perchè i lettori abbiano un po' d'idea di quello che fossero e ardissero i banditi in cotesti tempi, considerino quanto si legge nel dispaccio dell'oratore veneziano residente a Roma, Lorenzo Priuli 16 gennaio 1584: vien detto che già pochi giorni quel famoso fuoruscito, nominato il prete Guercino, scrivesse una polizza a Monsignor Odescalco, domandandogli 500 ducati, minacciandolo, se non li mandava, di fare gran danno alli suoi casali et al suo bestiame. Questo prelato andò dal Papa, et gli mostrò la polizza et Sua Santità ordinò che il portatore fosse retento, et posto in galera. Il prete tornò a scrivergli un'altra polizza, per la quale dimandò che gli restituisse il suo huomo, altrimenti minacciandolo di farlo ammazzare con cento pugnalate, che non saprebbe da chi, et abbrugiarli tutti li suoi casali, et ammazzarli tutti li suoi bestiami. Ritornò il prelato dal Papa afflittissimo pregando Sua Santità a restituirgli il pregione, poichè non vedeva altro rimedio ai suoi danni. Sua Santità intenerita, et mossa dal pericolo del prelato gli restituì l'huomo, con il qual mezzo si è poi fatto tanto amico del Guercino, ch'è fatto suo procuratore per impetrare la liberatione sua dal Pontefice, la quale era già ordinata assolvendolo Sua Santità da 44 omicidii commessi. Et mentre si faceva l'espeditione, è venuta nova, che il ribaldo ha ammazzato quattro suoi inimici in un castello. Questi tristi se ne vanno di questa maniera burlando della giustitia, et se bene potriano essere rimessi dalla gran benignità di Sua Santità, pare non di manco che non se ne curino. Niuna cosa più di questa dà travaglio al Papa, perchè vede il disordine et la indignità grande et non sa rimediarle.

7. Parole proprie di Sisto.

8. Questo caso occorre narrato dal P. Tempesti nella Vita di Sisto V, lib. II, p. 189.

9. Lupos interficiendi, id est, corporalem vitam haereticis auferendi.

10. Il Cardinale di Montalto Alessandro Peretti nipote di Sisto V.

Ma tornando alla mia narrazione. Sforza era il più antico diacono. Dopo lui seguiva il cardinale Peretti col titolo di Montalto, ch'era prima il titolo usato da papa Sisto suo zio. Era di quindici anni appena quando il zio l'aveva promosso al cardinalato. Per essere di età così tenera, egli non aveva quasi alcuna partecipazione del governo, e per conseguenza nè anco dell'invidia e dell'odio, che resta per l'ordinario in quei nipoti, i quali o per lunghezza di tempo o per eccesso d'autorità sono stati nel supremo luogo del ministerio appresso i loro zii. Rimasto dunque Montalto con l'officio di vice-cancelliere vacato in tempo di Sisto per la morte del cardinale Alessandro Farnese, e con altre larghissime entrate ecclesiastiche, abitava egli nel palazzo amplissimo della vice-cancelleria, e vi si tratteneva con una delle più numerose famiglie, e più splendide che allora si vedessero in Roma. Aveva egli più del rozzo che dell'amabile nell'aspetto; grave di portamento nella persona, e quasi non meno di comunicazione eziandio ne' costumi: ritenuto assai di parole, e pieno di certa esteriore malinconia, che da molti era giudicata piuttosto una sua interiore alterigia; e quantunque nelle conversazioni domestiche egli si mostrasse poi molto cortese e trattabile, nondimeno e la sua propria ritiratezza e l'uso ch'egli aveva pigliato di convertire quasi interamente il giorno in notte e la notte in giorno, rendevano sopra modo difficile il trattar seco, e rendevano insieme lui stesso tanto alieno maggiormente dallo stare sul negozio, al quale per sua natura poco inclinava. Ma in ogni modo era gran Cardinale, grandemente stimato nella corte di Roma, e fuori di essa da tutti i Principi e dal Gran Duca di Toscana Ferdinando in particolare, che aveva deposto il cardinalato in tempo di Sisto V, e riteneva sempre un'affettuosa e costante amicizia col nipote Montalto. Facevanlo maggiormente stimare tanto più le sue parentele sì strette con tutti i Principi, e con tutti due i capi delle due case Colonna ed Orsina. Amava egli sommamente la musica, e manteneva in casa virtuosi in quella professione eccellentissimi. Era grand'elemosiniere. Fabbricava una religiosa chiesa alla religione de' Teatini. Mostravasi liberale in ogni altra più nobil forma, e veniva commendato singolarmente in una qualità che spesso in Roma si desidera, e di rado si trova, cioè che egli fosse verace, e che sempre religiosamente osservasse quello che promettesse. E certo pochi altri nipoti, che siano rimasti in elevata fortuna, avranno avuto quel non so che di grande in sè stesso, che non si può bene esprimere, come l'ebbe il cardinale Montalto, e non meno di lui anco il principe suo fratello. E soleva dire la duchessa di Sessa, donna di raro ingegno, e lungamente versata in Roma, che l'uno e l'altro di loro pareva nato grande, e non divenuto. — Estratto dalle Memorie del Cardinale Bentivoglio, lib. I, p. 90.

11. Voce dell'uso, che suona appunto incastrare una cosa dentro l'altra.

12. Caso funesto della Violante Garlonia duchessa di Paliano.

In questi ultimi tempi, e non prima dello sdegno di Paolo IV, scoprì Marcello Capece l'ardentissimo amore che portava a Violante Garlonia, moglie del duca di Paliano. O questa passione cominciasse pur allora, o fosse passione antica, e non palesata se non quando la solitudine della Duchessa e la lontananza del marito diede, con la comodità di scoprirsi, maggior speranza di espugnare la sua costanza, certo è che ella, vinta finalmente dalla propria e dall'altrui fragilità, invitata dall'occasione, persuasa dai prieghi dell'amante, e irritata dai torti fattile dal Duca, che fino nel proprio letto non si era astenuto di condurre più volte le concubine, cadde in quell'errore, nel quale molte altre, e di maggior grido e di maggior titolo che ella non era, sono cadute, e forse cadono giornalmente. Ma le favorite dalla fortuna, involte nella varietà de' suoi accidenti, passano sconosciute, e l'altre miseramente abbandonate e tradite, restano esposte all'infamia e al castigo. Poco goderono questi amanti de' loro amori; perciocchè scoperti da Diana Brancaccia, dama favorita della Duchessa, furono colti insieme, e colti in atti molto prossimi al più vietato. Marcello, subito preso, si condusse nelle carceri di Soriano, dove allora era il Duca; e la Duchessa lasciata sotto strettissima custodia. Ebbe speranza e pensiero il Duca, o per coprire l'ignominia, per non essere astretto a por mano ad estremi rigori, far apparire esteriormente, che Marcello fosse stato ritenuto per altro; e preso pretesto d'alcuni rospi, che qualche mese prima fu osservato ch'egli comprava a gran prezzo, l'accusò ch'egli aveva tentato d'avvelenarlo. Ma troppo era il vero delitto pubblico; e se cosa alcuna mancava per confermarlo e divulgarlo maggiormente, fu la prigionia di lui, e la ritenzione della Duchessa, anco avanti la quale n'era il cardinale Caraffa stato avvertito dal cardinale Bellai, e si dolse col Duca che glie l'avesse celato sì lungo tempo. Risoluto dunque di lavar questa macchia (come pare a' grandi di poter fare) col sangue dell'adultero, chiamato il conte d'Alife fratello della Duchessa, e un Giovanni Auso Toraldo, essi tre esaminarono sopra il particolare dell'adultero Marcello, e gli costituirono a fronte la Brancaccia, e altre dame della madre del Duca. Negò nel principio costantemente; ma legato alla fune, confessò il delitto, e di esso puntualmente narrò tutte le circostanze, le quali non è necessario riferir qui. Udita il Duca la confessione di Marcello, disse: Scrivi tutto questo di tua propria mano. Ma, per lo timore della vicina morte, per esser la mano più allora offesa dalla fune, alla quale era stata legata, non potè scrivere, se non queste poche parole: Sì, ch'io sono traditore del mio Signore: sì, ch'io gli ho tolto l'onore. La qual scrittura il Duca avuta nelle mani, e lettala, si accostò a lui; e con tre colpi di pugnale il tolse di vita, e il cadavere fece gettare in una cloaca alla prigione contigua. Rappresentato il successo dal cardinale di Napoli al Papa, non disse altro, se non: e della Duchessa che si è fatto? Il che interpretarono alcuni, che avesse detto, quasi per soggiungere: Perchè non si toglie di vita essa ancora? Ma in questo il Duca andò differendo, perchè la Duchessa era gravida, con tutto che la madre e le sue donne l'assicurassero, che non poteva esser gravida di lui; computato il tempo che si era separato da lei, e gl'indicii del principio e del progresso della gravidanza. Ma morto il Papa, non sapendo il Duca che pensieri potesse avere il successore, accelerò la resoluzione, e l'esegui prima che i cardinali entrassero in conclave: tanto più che Silvio Giozzi, famigliare del Cardinale, gli scrisse ch'egli stava seco molto turbato per questa dilazione: e che se non si risolveva di levarsi prestamente quest'infamia d'attorno, protestava non voler più ingerirsi ne' suoi interessi, nè aiutarlo in conclave, nè col nuovo Papa. Aggiunse nuovo stimolo, l'essersi scoperto che la Duchessa, non ostante le continue guardie che le stavano attorno, fece sapere a Marc'Antonio Colonna, che se trovava modo di liberarla, ella gli avrebbe dato il marito nelle mani, o vivo o morto.

Risoluto dunque di non interporvi più indugio, mandò due giorni prima, cioè a' 28 d'agosto, il capitano Vico de' Nobili a Gallese, per assistere al fatto, acciò non seguisse novità alcuna: e ai 30 sopraggiunse don Leonardo di Cardine, parente del Duca, e don Ferrante Garlonio conte d'Aliffe, fratello della Duchessa, perchè l'uccidessero, come fecero il medesimo giorno. Annunciata alla Duchessa la mattina la morte, volle confessarsi e udir messa: poi accostandosele questi due, e conoscendo esser giunta l'ora, domandò: Evvi ordine del Duca perch'io mora? Gli rispose don Leonardo: Sì, signora. E la Duchessa soggiunse: Mostratemelo. Ed essendole mostrato, don Leonardo, senza dar luogo ad altre repliche, le strinse le mani, tra le quali teneva un Crocifisso, e il fratello la strangolò. Storia della Guerra di Paolo IV di Pietro Nores, p. 27.

13. Bardamentare significa mettere la barda, armatura di cuoio cotto, o di lamine di ferro o di rame con la quale coprivansi le groppe, il collo e il petto degli uomini di armi: però ai dì nostri non denota più cosa che costumi. Insellare, e imbrigliare dichiarano atti distinti, e manca un vocabolo che li comprenda collettivamente. Io mi valgo della parola arnesare, ma non la cavo dall'harnacher francese derivato a sua posta dallo haerness tedesco, bensì dal vivo parlare del popolo; e dallo arnese, che il Grassi con gli esempi del Davila e del Cinuzzi dimostra essere termine collettivo per significare tutto ciò che serve ad imbrigliare, insellare, bardamentare e guernire un cavallo così da tiro come da sella. Il medesimo Autore alla parola arnesato, con l'autorità di Pace di Certaldo, c'insegna com'ella denoti guarnito di arnese: quindi mi parve spediente accogliere il verbo arnesare. A mettere questa nota mi muove il pensiero, che non potendo io giovare alla mia Patria in nulla, almeno per me non si faccia strazio del suo bello idioma come senza verecondia costumano adesso alti e bassi furfanti, massime Giornalisti:

degni, che Circe li tenga in pastura.

14. Trabanti, a trabea: soldati dalle larghe brache, un di guardia degl'imperatori di Allemagna soltanto, poi introdotti nelle altre Corti, in ispecie nella pontificia.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (d'Alife/d'Aliffe, bugia/bugía e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.