The Project Gutenberg eBook of Storia comparata degli usi nuziali in Italia e presso gli altri popoli indo-europei

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Title: Storia comparata degli usi nuziali in Italia e presso gli altri popoli indo-europei

Author: Angelo De Gubernatis

Release date: June 13, 2012 [eBook #39988]

Language: Italian

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*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK STORIA COMPARATA DEGLI USI NUZIALI IN ITALIA E PRESSO GLI ALTRI POPOLI INDO-EUROPEI ***

copertina

A. DE GUBERNATIS


STORIA COMPARATA
DEGLI
USI NUZIALI IN ITALIA
E PRESSO
GLI ALTRI POPOLI INDO-EUROPEI


SECONDA EDIZIONE
RIVEDUTA E AMPLIATA DALL'AUTORE

MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI.
1878.


Proprietà letteraria.

Tip. Treves.


INDICE


[5]

AI NUOVI LETTORI.

Dopo nove anni, riprendo nelle mani il mio libretto a cui il pubblico italiano fece così cortese accoglienza. S'io dovessi scriverlo oggi da capo, forse lo farei molto più ampio e gli darei un altro ordine. Ma, poichè il libro, com'è nato, non dispiacque e non fu trovato inutile, prendo coraggio a lasciarlo stare qual è, aggiungendo solo qua e là alcuna notizia che m'è venuta alle mani da sè stessa dopo pubblicato il lavoro e che può contribuire a renderlo manco imperfetto, lieto intanto che esso abbia servito ad avviare in Italia un nuovo genere di ricerche sopra i nostri usi popolari. In appendice si troveranno pure riprodotte alcune notizie speciali sopra gli usi corsi e veneziani, venute alla luce alcuni anni dopo la pubblicazione della presente operetta, che ha forse, in parte, determinato i loro autori a raccoglierle.

Io non ho ora, in ogni modo, a far altro se non ringraziare l'intelligente editore che m'ha procurato un primo pubblico indulgente ed augurarmi che egli possa trovarmene ora in Italia un secondo non meno benevolo, il quale non trovi superflua la ristampa d'un libro che tratta di un uso il quale può trasformarsi, ma che si rinnoverà sempre fin che ci saranno nel mondo un Adamo, un'Eva ed un serpente seduttore che faccia da procolo e da paraninfo.

Angelo De Gubernatis.


[7]

AL CONTE GEZA KUUN
IN UNGHERIA

Mio carissimo Geza.

Questo libretto che fu pubblicato, per la prima volta, senza alcuna dedica, nell'anno in cui ci siamo conosciuti, vuol essere ora dedicato a te, come pubblico pegno di un'amicizia la quale non mi ha procurato fin qui altro se non grandi e soavi consolazioni, e che io mi auguro possa, fin che vivremo, recarci conforto. Gli anni che passano fanno invecchiare ogni cosa intorno a noi, ma non i sentimenti, che, quanto più mettono radice nel tempo, più gagliardi crescono. Possa il tuo nome messo sulla prima pagina di questo libretto fortunato ricordare per molto tempo ed a molti il bene che ti vuole

Firenze, primavera del 1877.

il tuo
ANGELO DE GUBERNATIS.


[9]

PREFAZIONE
alla prima edizione

Non so se io dico una grande eresia; ma parmi che la storia si scriva molto più che non si faccia. Sopra le miriadi d'uomini che vengono ogni secolo a popolare e fecondare, da vivi e da morti, la terra, infimo è al certo il numero de' privilegiati, che, per lustro od infamia, sono eletti all'immortalità. Mentre il grosso degli uomini nasce, lavora e si estingue, martire uniforme, ne' periodi veloci di oscure generazioni, io non so se come fiore o come crusca, alla superficie, si agita e dà spettacolo di sè un'aristocratica famiglia di benefattori e di tiranni che rimorchia, in parte, le moltitudini e seco le trascina a dividere la sua pubblica fortuna. Ma, come nella prospera sorte de' così detti grandi, il pubblico beneficio, il più delle volte, è, in realtà, assai poco, per la ragione medesima, precipitando essi, il popolo alla sua volta non muore mai tutto; egli non è stato il solo autore della sua così detta nazionale grandezza, e però, quando questa appare più gloriosa, egli la gode assai male; per altro verso, egli prende pure una minima parte alla sua rovina; e, però, continuerà facilmente a vivere anche dopo che questa, o per suo vizio organico, o per alcuna [10] violenza di interni ed esterni nemici, sia cessata. I protagonisti della storia raccomandano il nome loro alla posterità col monumento, ma periscono come le loro istituzioni; il popolo a cui nessuno innalza monumenti, per compenso e quasi direi per vendetta della natura, vive immortale come le sue tradizioni e le sue patriarcali consuetudini.

Mi pare poi che se volgessimo soltanto lo sguardo intorno a noi medesimi, per osservare come la storia odierna vada intessendo le sue fila, a traverso le quali presumeranno le generazioni future giudicare la nostra, come noi giudichiamo, senza appello, le passate, io non credo che seguiremmo con tanta passione il racconto delle gesta consegnate da autenticissimi, se si voglia, ma poco sinceri documenti, alla storia; delle gesta, io dico, le quali, per essere state pubbliche, immaginiamo universali, per essere state pompose, supponiamo importanti, per essere antiche, veneriamo.

Certo, quando si ritenga per fermo che l'arte meretricia, la quale converte spesso la ragione dell'individuo o della parte in solenne ragione di Stato, non imbelletti mai la vergogna de' grandi, quando si ritenga per fermo che lo storiografo non sia mai condotto nè da vezzo rettorico, nè da vigliacca assentazione ad esagerare, a travestire, ad inventar nulla di ciò ch'ei narra, ha pure la sua importanza la narrazione delle pubbliche vicende di un popolo costituito in proprio Stato; ma, come nello studio della natura, prima del fenomeno, vuole osservarsi la legge, così ragion vuole che si ricerchi la vita intima ed immutabile di un popolo, innanzi di rappresentarcelo nelle sue esteriori, più aperte bensì, ma assai [11] meno complete e assai più combinate manifestazioni. Il più delle volte, il fenomeno non è la legge in atto, che appare, ma l'eccezione della legge, l'anomalia; così la storia ci riferisce della vita di un popolo molto più che il suo modo di essere costantemente, il suo modo di apparire in alcune circostanze eccezionali.

A costo pertanto di lasciar parere che io dica qui una seconda eresia, piglio la parola nel suo senso etimologico e più nobile e non chiamo la così detta storia d'un popolo altrimenti che la sua caricatura, quando pure esso non sia qualcosa di peggio, destinato a mascherarlo. Poichè, eziandio facendosi una distinzione molto larga fra la storia delle democrazie e quella delle monarchie, oligarchie e teocrazie, non può sfuggire come presso le prime ancora non di rado avvenga che il popolo, per affermarsi insieme e per consentire fiducioso con tutti, nasconda e neghi individualmente sè stesso o sia ci sottragga la sua propria e vera parte di originalità.

Per fare la storia e per dare degno soggetto al filosofo di meditarla è necessario adunque qualche cosa di più profondo e di più saldo che il vago e mobile tessuto degli avvenimenti esterni, i quali esprimono imperfettamente il carattere d'un popolo come le escandescenze o le imposture quelle d'un individuo. Negli individui molte delle azioni loro si attribuiscono alla loro eccitabilità nervosa od a ragioni segrete; anche ai popoli si vuole tener conto di cosiffatta eccitabilità e di certe ragioni occulte; ma, evidentemente, nè quella nè queste non bastano di certo a lasciarci intendere quello che un popolo abbia potuto essere o quello che sia.

[12]Ma, sotto la storia pubblica o civile o politica o convenzionale che addimandar si voglia, vi è una storia viva e perenne che si potrebbe forse chiamar domestica, poichè vive della vita delle famiglie, nel loro intimo focolare e nelle loro mutue relazioni d'ogni giorno. Questa storia accetta o subisce dalle vicende e dalle istituzioni politiche quello che le conviene o quello che non può evitare; ma conserva, a traverso le fasi della storia esterna che hanno potuto alterarla, un fondamento tradizionale, il quale è tanto più solido e puro quanto meno varia e accidentata riuscì la vita pubblica. Questa nuova specie di storia si studierà dunque meglio presso que' popoli che non ebbero storie propriamente dette. Dirò di più: sopprimendo le storie della vita dei popoli di una razza, l'unità della razza, nel legame dell'uso e della tradizione, emergerà al nostro pensiero ricreatore delle nostre origini, con una evidenza sorprendente, non risultando più altre varietà nella razza medesima, all'infuori di quelle che determinarono, ne' primi tempi, la discordia delle famiglie, la distinzione delle famiglie in tribù, e la loro dispersione, varietà che il diverso clima e la diversa regione hanno quindi potuto accrescere ed alimentare, molte consuetudini d'un popolo essendo intimamente legate con le condizioni fisiche le quali esso, nelle sue migrazioni, incontra; così che certi usi antichi si depongono per altri nuovi che sorgono; ma sempre è rimasto qualcosa che ci richiama all'unità caratteristica della razza. Questo qualcosa è nel nostro sangue; questo qualcosa può diminuire ed offuscarsi: ma non si perde. Nello stesso modo, in seno ad una famiglia, si notano [13] diverso carattere, diverso umore, diversa maniera di favellare; e due fratelli differiranno fra loro tanto che l'uno parrà straniero all'altro; essi saranno fra loro orribilmente discordi e divisi; e pure, se noi, che ci troviamo al di fuori delle loro differenze, li osserviamo senza alcuna preoccupazione, ne scorgeremo soltanto la somiglianza e la consanguineità, li affermeremo figliuoli d'uno stesso parente. Basta una linea per dare la somiglianza ad un ritratto; ora questa linea lega tuttora il gran quadro delle famiglie alle quali diedesi il nome d'Indo-Europee. L'uso della prima famiglia patriarcale si moltiplicò nelle famiglie successive, e, nel moltiplicarsi, naturalmente prese modo differente; ma nè le varie inclinazioni che divisero per tempo le tribù di una stessa antica unica famiglia e talora persino le armarono l'una contro l'altra, nè la varietà del colore locale, nè l'incontro con altre razze, nè, mi si permetta l'espressione, il lungo uso dell'uso, hanno potuto presso alcun popolo estinguere i caratteri essenziali della primitiva sua stirpe.

Un autore indiano, alcuni secoli innanzi all'êra volgare, a proposito degli usi domestici e particolarmente nuziali dell'India, scriveva: «Varii sono gli usi secondo le regioni ed i luoghi, i quali possono osservarsi nelle nozze; noi recheremo soltanto quello che essi hanno di comune[1].» Lo stesso pressapoco debbo io qui ripetere, in questo primo saggio di una storia comparata degli usi nuziali. Ma poichè l'Italia formerà l'oggetto speciale delle mie ricerche, ho bisogno di prevenire [14] il giudizio del lettore italiano, affinchè per avventura non s'inorgoglisca se anche, per la copia degli usi, il nostro paese sia forse sovra ogni altro ricco. Non c'è di che andare troppo superbi; questi usi non sono tutti indigeni; nella loro varietà, invece, essi provano pur troppo come l'Italia fu visitata da stranieri d'ogni nazione; Greci ed Arabi nel mezzogiorno, Celti e Germani nel settentrione hanno più largamente contribuito, invadendo la nostra contrada, e confondendosi quindi con noi, a trasformarci in parte nelle nostre consuetudini; e soltanto nell'Italia di mezzo e nella Sardegna, ove lo straniero si arrestò meno, l'antica tradizione italica può, nella sua povertà, gloriarsi di essere rimasta più originale. Converrà quindi, quando io verrò riferendo gli usi nuziali d'Italia, tener qualche conto della provincia onde li ho rilevati; quelli dell'Italia centrale, ossia di quella Italia che sta in digrosso fra l'antica Magna Grecia e l'antica Gallia Transpadana, sono, per lo più, indigeni; quelli della rimanente Italia, non di rado, importati. Il che non toglie che spesso fra usi indigeni ed importati si trovi somiglianza; poichè la somiglianza ha la sua ragione nel vincolo di parentela Indo-Europea. Solamente, dove, per esempio, nell'Italia superiore, l'uso nuziale, che sente di feudalismo, ci richiama spesso alla dominazione germanica, arrivando per tal modo a noi di seconda mano, nella media Italia, ove sente ancora il pagano, risaliamo direttamente con esso, malgrado il papa, e forse un poco a motivo di esso, all'antico e tutto nostro mondo latino.

E spiegatomi così sovra gl'intendimenti che io [15] ebbi nel distendere il presente lavoro, non avrei altro d'essenziale che mi prema d'aggiungere, se non che, prima di offrire ai concittadini miei il povero frutto delle mie povere fatiche, mi è necessario render grazie alle cortesi persone che mi vennero in aiuto nelle ricerche. So bene che non si troveranno nel mio libro tutte le notizie relative agli usi nuziali, e che quest'opera potrà col concorso di futuri scrittori ancora centuplicarsi; io non ho quindi la pretesa d'avere punto punto esaurito il mio argomento; ma ho fiducia che il poco che ho detto possa difficilmente contradirsi, e che serva intanto come di scheletro ad opere di più ampio disegno che sopra gli usi popolari, non per appagare una lieve curiosità, ma per far parlare un solo linguaggio all'uomo Indo-Europeo, auguro vivamente possano un giorno concepirsi e mandarsi ad effetto da qualche nostro felice ingegno.

In parte vidi io medesimo, in parte udii, in parte lessi quello che io descrivo, primo forse esplorando i nostri Statuti Municipali per cavarne notizie relative all'uso popolare; ma, per l'Italia odierna, io debbo specialmente molto alla sollecitudine di due sorelle mie, della signora Carolina Bertoldo residente a Riva di Chieri, dell'ing. Giuseppe Chiaroviglio da Pinerolo, del cavalier Alerino Como da Alba, di Agostino Isola da Novi Ligure, del benemeritissimo delle storie Genovesi cav. Emanuele Celesia, di Pietro Vayra ed Antonio Bertolotti Canavesani, di monsignor Losana vescovo di Biella, di Desiderio Chilovi Tridentino, di Pietro ed Emilio Ferrari residenti nella Lunigiana, del prof. Giuliano Vanzolini da [16] Pesaro, del cav. Marcolini da Fano, del professor Luigi Morandi Tudertino, del cav. Andrea Miotti Valtellinese, del prof. Ferdinando Santini residente ad Arpino, del cav. Gabriello Cherubini da Atri e del prof. Giuseppe Pitrè Palermitano. Per gli usi Russi, oltre all'esserne io medesimo stato testimonio oculare ed essenzial parte, mi giovarono assai le rimembranze di mia moglie e di mia suocera; e, per alcuni canti popolari Russi che illustrano l'uso nuziale del distretto di Tarszok, i lettori italiani ringrazieranno l'amabile zelo della signora Tatiana Lvoff.

Le donne hanno contribuito a questo libro quello ch'esso contiene forse di più poetico; possa ora il libro medesimo, come povero compenso a tanta gentilezza, nel venire fra le loro mani, non parere nè troppo indiscreto nè troppo pesante.

Santo Stefano di Calcinaia, 1.º settembre 1868.

Angelo De-Gubernatis.

[17]


INNANZI DI ENTRARE IN MATERIA


SCOPO DEL MATRIMONIO.

Dall'inno vedico al catechismo cattolico si è sempre consacrato il matrimonio per una sola potente ragione, quella di procrear figliuoli; ma la ragione fu spesso sottintesa o temperata da un naturale istinto di poesia, che non permetteva di considerare la compagna dell'uomo come un solo servile strumento di generazione. Unico il Diritto romano pose per legge e considerò come sacro[2] che il matrimonio si compie per cagione dell'ottener figli. Unico il Diritto romano distinse, per legge, la dignità della donna da quella dell'uomo, decretando che vi sia potestà sopra il maschio e che la femmina si possa dar nelle mani, ossia, ciò che torna poi il medesimo, manomettere[3]. [18] Unico il diritto sacro romano inventò una dea Viriplaca[4], ossia placatrice del marito, alla quale s'innalzò pure un tempio a fine di comporre le contese domestiche.

La donna riuscì per tal modo, una schiava dell'uomo, e, malgrado il cristianesimo, questo barbaro sentimento penetrò ancora dal diritto romano nell'italiano. Gli statuti di Lugo, confermati nel 1520 dal duca Alfonso di Ferrara, affermano nel marito il diritto di batterla, e se adultera, di esporla sul rogo, tanto che muoia ove a lui piaccia[5]. La barbarie della legge contribuì ovunque in Italia a rendervi talora barbaro l'uso. Quindi alla legge stessa la necessità talora di correggersi e di contraddirsi per sopprimere l'uso che perseguitava la donna. Gli Statuti di Perugia, pubblicati nel 1523[6] mettono una multa ai maschi che insultino per via una donna di buona condizione e di buona fama. Un decreto del 13 maggio 1709, pubblicato dalla Repubblica di Genova[7], tenta correggere lo stesso abuso nell'isola di Corsica, ove era pur divenuto un'arte di darsi [19] moglie. La donna si rispetta male finchè si considera da meno dell'uomo; e il diritto romano che ne proclamava la servitù contribuì non poco a rimuovere dai nostri usi quella specie di culto per la donna che prima di essere cristiano fu celtico e Germanico, quella specie di culto estetico alla madre, alla sposa, alla indovina, ossia all'essere di più delicato e più pronto sentire, che ci lascia così felicemente distinguere la donna dalla femmina. Perciò, in Italia, e, precisamente nel seno del cattolicismo, nell'Italia del papa, ossia nell'Italia della superstizione, più ostinati che altrove si mantennero gli usi fallici. Non sono molti anni che a Veroli nella Sabina si compievano ancora processioni falliche. E mi sembra simbolo di un'antica processione fallica, l'uso che vigeva, nella città di Gallese, per la festa di San Famiano, nella quale si portava attorno un talamo acceso[8]. Nel [20] seguito di quest'operetta, ci accadrà di notare i varii usi persistenti in Italia, come augurio di fecondità alla sposa, alcuni de' quali troveremo perfettamente conformi con altri de' tempi patriarcali vedici. Qui si benedice ancora la terra perchè porti buon grano; si benedice la sposa perchè riesca feconda; ed altra virtù alla benedizione non si desidera.

La donna pel nostro popolo unicamente partorisce; resta perciò una cruda ironìa la risposta che l'epicureo imperatore Elio Vero dava alle lagnanze della moglie negletta: «Soffri ch'io mi dia piacere con altre. Perocchè il nome di moglie suona dignità e non voluttà»[9]. Elio Vero metteva così la donna al di sotto di quello che piace ai sensi: ne faceva una fredda cosa elegante.

[21]


LIBRO PRIMO


PRIMA DELLE NOZZE


I.
Quando la fanciulla è bambina.

La pupa de' Latini, pupattola degli Italiani, poupée de' Francesi, è il primo oggetto che richiama l'attenzione della donna al suo destino; ancora bambina ella è già madre; la bambola ch'ella inventò per bisogno di prodigar tenerezze a qualcosa di più debole ch'essa non sia, fu creazione del suo solo istinto di madre. La pupattola è comune all'uso indo-europeo; paidiskê l'addimandano i Greci, come noi diciamo bambola presso bambina; e per la stessa analogia gli Indiani chiamavano la pupattola putrì, o dàruputrì, dàruputrikà, che vale fanciulla di legno[10].


II.
Quando la fanciulla cresce.

La donna si anticipa le gioie nuziali ne' giuochi fanciulleschi, ove la sposa è figura prediletta. Lascio [22] stare, per ora, la parte che i fanciulli pigliano nelle vere nozze, ora per fare allegria, ora per festeggiare, ora per maledire, dovendo qua e là farvi accenno in diversi capitoli; quello che essi ripetono ora facevano in antico; quello che si nota fra noi, osservasi pure, a mia notizia, in Germania, tra i Bretoni, tra i Finni, nell'India; la festa è un po' per loro, perchè essi sono lo scopo finale della festa. Essi rompono le vecchie stoviglie, essi mandano urli di gioia, essi salutano e servono[11] gli sposi, e talora, per ischerzo, li arrestano; talora vanno più in là; per esser fatti tacere con regalini d'ogni maniera, molestano gli sposi per mezzo di ostinate insolenze. I fanciulli sono adunque la morale, il coro della favola; e come la favola è spesso fatta per la morale, così la festa nuziale è animata da fanciulli, la presenza de' quali è necessaria come un augurio per la fecondità del talamo.

Per questa parte probabilmente che i fanciulli da lungo tempo hanno preso alle feste nuziali, la tendenza nei loro giuochi ad imitarle. Io so di parecchi giuochi somiglianti che si fanno in Italia, de' quali il più evidente parmi quello che usa in Piemonte detto dell'ambasciatore, che qui descriverò, poichè mal noto o punto ai non Piemontesi. Ambasciatore chiamano i Piemontesi nel loro giuoco, come i Toscani ne' loro stornelli, il messaggiero d'amore. Un fanciullo che figura il capo di casa dà la mano a due fanciulle [23] che formano catena con altre disposte in una lunga fila. L'ambasciatore, che è un altro fanciullo, si avanza e con la cantilena, alla quale io segno qui sotto le note, dice solennemente:

Sur imbasciatur[12]
(mi) (fa) (sol) (la) (sol)

quindi facendo alcuni passi indietro:

Lantantirulirulena
(mi) (sol) (sol) (re) (mi) (mi) (do) (sol);

il fanciullo si avanza di nuovo e ridice:

Sur imbasciatur

quindi si ritrae al suo posto, cantando:

Lantantirulirlàlà
(do)

Allora le fanciulle guidate dal capo di casa si avanzano verso il messaggero d'amore e cantano:

Cosa völi vui?[13]
Lantantirulirulena[14]
Cosa völi vui?[15]
Lantantirulirulà.

Ritorna la volta dell'ambasciatore, che avanzandosi al primo e al terzo, ritirandosi al secondo e quarto versetto, ricomincia a cantare:

I vöi üna d' vostre fie[16]
Lantantirulirulena, ecc.

[24]

Le fanciulle e il capo di casa, muovendo di nuovo incontro, domandano:

Quala völi vui?[17]
Lantantirulirulena, ecc.

La risposta dell'ambasciatore non è sempre la medesima; ora egli dice che vorrebbe la bionda, ora la bruna, ora la più bella e così via finchè il giuoco si stanca. Le fanciulle interpellano l'ambasciatore sul mestiere dello sposo che fa domandare la loro compagna:

Che mestè farála?[18]
Lantantirulirulena, ecc.

Qui pure la risposta dell'ambasciatore può essere varia; ora la sposa è destinata a diventare principessa, ora fruttivendola, ora qualcosa di meno, secondo l'umore variamente burlesco dell'ambasciatore. Ma non di rado avviene che il giuoco si guasta e la partita si scombina, poichè la fanciulla si sente offesa di essere chiamata ad un mestiere troppo vile. Allora si mettono in mezzo i pacieri e si studia di placarla col rifare il giuoco ed invitarla a nozze più illustri. Le fanciulle e il capo di casa ripigliano le loro domande, una delle quali sopra la dote[19] che il marito intende fare alla sposa. Dopo alcune altre domande e risposte, il capo di casa e le fanciulle lasciano andare la fanciulla eletta alle nozze con le parole sacramentali:

Piévla püra ch'a l'è vostra[20]
Lantantirulirulena, ecc.

[25]

L'ambasciatore la mena con sè e tutti, fanciulli e fanciulle, che pigliano parte al giuoco, formano un circolo e girano, mettendo grida di gioia, poichè la sposa è fatta.

Io suppongo che questo animatissimo giuoco dei fanciulli piemontesi sia di origine celtica, per la gran parte che nelle nozze assume l'ambasciatore[21]. Il giuoco riproduce, al vivo, tutta una chiesta nuziale alla maniera celtica, sebbene la chiesta stessa, in genere, e le danze che la conchiudono siano conformi a tutto il rito indo-europeo.

Probabilmente, in Piemonte, appena l'uso celtico, che dura pur sempre tra i Bretoni, si andò perdendo, divenne un giuoco da fanciulli.

Così pure la moscacieca, che si fa nell'Annoverese[22], per nozze, è diventata, in Piemonte, un giuoco da fanciulli, mentre vi scomparve dall'uso nuziale. Un fanciullo bendato deve, fra molte fanciulle, ritrovare la sua; se egli si sbaglia, diviene ridicolo a tutta la brigata.

In Piemonte, usa ancora un altro giuoco che si riferisce alle nozze. Esso rappresenta i doni da farsi alla sposa. I fanciulli stanno seduti in giro. Il capo-giuoco domanda a ciascuno di essi quello ch'essi sarebbero disposti a regalare alla sposa. I fanciulli rispondono, avendo cura di evitare, nella descrizione dell'oggetto ch'essi destinano alla sposa, la lettera r. Ove si sbaglino, lasciano nelle mani del capo-giuoco [26] un piccolo pegno da riscattarsi, in fin di giuoco, per mezzo di una penitenza. Particolarmente le fanciulle, nella minuta descrizione degli oggetti per la sposa, mostrano una sollecitudine tutta amorosa; i loro occhietti si animano e brillano quanto vorrebbero far brillare le stupende vesti delle quali intendono regalare liberalmente la loro sposa.

In Toscana usa il giuoco del verde[23]; piace agli innamorati; chi perde, in questo giuoco, perde spesso l'amore; poichè per il damo e per l'amata è segno d'obblio, di disprezzo, il non trovare il verde nelle mani di chi ama. I bambini lo fanno volontieri coi vecchi che hanno altri pensieri pel capo, sapendo come sogliono rimediare con doni alle patite sconfitte; gli amanti maliziosi, nel principio de' loro timidi amori, mettono volentieri, per condizione, un bacio che chi perde deve dare o lasciarsi dare da chi ha vinto; gli amanti inoltrati invece s'insospettiscono, diffidano, s'adirano, si allontanano talvolta, per la sola cagione del verde dimenticato[24]. L'uso tuttavia va in disuso; ed è a prevedersi che resterà, col tempo, un solo giuoco da fanciulli, finchè alla loro [27] volta i fanciulli, per la cresciuta serietà de' tempi, diventati serii, non ismettano anch'essi di giuocare.

Ho inteso che in Grecia gli innamorati dividono per mezzo una foglia di platano, la quale devono rimettere insieme quando si ritrovano.


III.
Pronostici.

La funzione più importante della vita è il matrimonio; occorre quindi averlo propizio; le stelle, il cielo, la sorte, il destino si invocano come augurii. La fanciulla incomincia a sottintendere ch'ella non può mancare di maritarsi. Ma quando gli amanti si fanno desiderare ella sa il modo di attirarli a sè e di vincerli.

Nell'India[25] e in Grecia v'erano formole per far nascere l'amore e per far arrivare lo sposo. Nell'India, la fanciulla le recitava sopra una pelle di vacca tentando il suo destino. Queste formole usano pure nella Germania meridionale[26]; la giaculatoria ha la virtù di destare l'amore nella persona indifferente che si ama[27]. Nato l'amore, chi ne è posseduto diventa furioso. La Venere ellenica si vendicava spesso così de' ribelli al suo potere; e le streghe del medio evo avevano mille maniere d'unguenti e di incantamenti [28] per muovere la passione d'amore o allontanarla. Nelle nostre novelline non di rado l'eroe è acceso, per erba o bevanda che gli passarono le streghe, da subita passione per altra donna che non sia quella che egli ama.

Posta la necessità di un marito, bisogna sapere di qual parte egli verrà, e quale sarà la sua condizione, e quando e dove si faranno le nozze. Ora, con la rovina di Delfo non rovinarono tutti gli oracoli; le nostre fanciulle ne conoscono parecchi i quali, a senso loro, non possono sbagliare; e, poichè la sorte è quella che deve decidere, esse la tentano in ogni onesta maniera. A Roma i due iddii Pilummo e Picummo, secondo Nonio Marcello, presiedevano anticamente agli auspicii per nozze; e in Toscana, era l'uso di digiunare, per assicurarsi un felice matrimonio[28].

In Grecia ed in Roma si pigliavano pure augurii per nozze da parecchi uccelli. Rileviamo da Plutarco che i Greci consultavano, per sapere se la fidanzata sarebbe stata sposa fedele, le cornacchie, le quali gracchiando fanno ingiuria alla castità di Penelope, che, per una sola vita, attese il marito assente, quando invece esse, morto il marito, rimangono vedove per nove intiere generazioni; le cornacchie erano sacre anche in Roma a Giunone Dea delle nozze, onde abbiamo da Festo che al di là del Tevere vi era un luogo sacro ad esse, detto perciò corniscarum divarum locus[29]. Plinio ci fa ancora sapere che una specie [29] di sparviere detto Egituo, zoppo d'un piede, era di ottimo augurio per le nozze[30]. Ma già fin dai tempi di Cicerone, che ne fa motto nel suo trattato De divinatione, i riti augurali si erano smessi nelle nozze, ed erano solo rimasti gli auguri come mediatori e testimoni delle cerimonie nuziali[31]; questi auspici delle nozze sono ancora ricordati da Giovenale e da Lucano.

A novembre s'incomincia, come dicono nel Canavese

A purtè le büsche pr fe' 'l nì[32].

Ma la vigilia dell'Epifania, e, in genere, il tempo fra il Natale e l'Epifania, si elegge particolarmente dalle fanciulle così in Italia, come, a mia notizia, in Germania, in Russia e Scandinavia, per riscaldare i loro amori. Gli antichi Ateniesi chiamavano col nome di Gamelione il mese di gennaio, siccome quello in cui celebravasi il maggior numero di matrimonii.

Altro giorno propizio a tirare l'oroscopo per nozze è in Italia, in Grecia, in Francia, in Isvezia e, come suppongo, anche in Germania, la vigilia di San Giovanni.

Nell'Umbria, la sera dell'Epifania, le ragazze, per sapere se troveranno marito, vanno nude (così almeno, perchè l'oroscopo riescisse bene, dovrebbero [30] andare) a cogliere un ramo d'olivo verde. Preparano un posticino sul focolare, staccano una fogliuzza, la bagnano di saliva e la buttano quindi sul focolare; se la fogliuzza fa tre salti, o per lo meno gira e rigira sopra sè stessa, ne traggono augurio di prossimo e felice matrimonio; se, al contrario, la foglia brucia senza muoversi, ogni speranza di matrimonio è perduta. Mi piace qui ricordare l'erba che, presso l'Atharvaveda[33], si rallegra innanzi a quello che arriva.

In Piemonte, come in Russia (e forse pure in Germania) usa per l'Epifania nella focaccia, che in tal giorno si mangia, mettere due fave, l'una nera, l'altra bianca; l'una rappresenta il re, l'altra la regina; i due che trovano la fava, ossia il re e la regina, si levano e si baciano; il re e la regina rappresentano evidentemente gli sposi[34].

A Riva di Chieri si piglia uno stelo d'erba a più nodi e si rompe ciascuno di questi nodi, dicendo [31] all'uno: io mi sposerò qui, e all'altro io mi sposerò fuori. L'ultimo nodo è quello che deve dir la verità. Somiglia questo oroscopo a quello che pigliano le innamorate francesi, e, per riflesso di moda, le nostre sopra i petali della margheritina per indovinare la forza dell'amore della persona amata.

A Riva di Chieri ancora, e nel Canavese, all'Epifania, le ragazze da marito usano lanciare la pantofola o lo zoccolo verso la porta di casa; se la punta si volge verso la porta, il segno è buono, la ragazza, entro il carnovale, piglierà marito; se no, no. Lo stesso pronostico si leva a Pinerolo, ma il primo giorno dell'anno. Una simile usanza vige ancora in Russia, ove si getta una pianella sopra la strada; lo sposo dovrà arrivare da quella parte verso la quale si volge la punta della pantofola.

I pronostici nuziali del Bolognese ci sono descritti così dalla signora Carolina Coronedi Berti[35]. «Una ragazza si mette alla punta d'un piede una ciabatta e dal sommo d'una scala la getta in basso; palpitante [32] discende tosto insieme alle compagne, per vedere da qual lato sia rivolta la punta; se verso l'uscio di strada, coglie l'augurio d'andare in quell'anno a marito; se verso la scala, si prepara a rimanere zitella. Dopo questo viene un altro esperimento: Far ai quater canton. E vuol dire, prendere un anello, un vasetto pieno di cenere, un altro pieno di acqua, ed una chiave, ponendo ad uno ad uno questi oggetti a' quattro canti della stanza, e facendo attenzione di coprirli acciò ne resti nascosta la qualità a chi ne va in cerca. Quindi si fa entrare una delle giovani che vogliono mettersi alla prova, la quale si avanza fra il timore e la speranza verso l'uno de' canti, e a quello a cui si sente più attirata. Se vi troverà l'anello sarà come la buona notizia di maritarsi; se la chiave, avrà in quell'anno il governo della casa. Ma se incappa nella cenere, può esser certa di morire. L'acqua indica ch'ella ha da sparger lagrime. — L'usanza di consultare gli spilli poche donne la dimenticano. Prima di coricarsi, mettono alla punta del guanciale tre spilli; l'uno avrà la capocchia rossa, l'altro bianca, il terzo nera. Messe in letto, e trovandosi allo scuro, cambiano la posizione agli spilli in modo da confonderne i colori, poi ne estraggono uno e lo piantano all'estremo opposto del guanciale. Al primo raggio di luce, volgono gli occhi allo spillo, e se la sorte è favorevole avran levato il rosso. Il bianco significa che le cose di famiglia seguiteranno senza nessun cambiamento; il nero, al solito, è indicazione di morte. — Si fanno dalle nostre ragazze esperimenti col piombo fuso e gettato in acqua, e dalle svariate forme che prende, come di martello, vanga, forbici e simili, fanno giudizio del mestiere a cui il futuro sposo sarà dedicato.» La stessa scrittrice ci fa ancora [33] conoscere un altro uso[36]. «Nell'estate le spighe de' prati sono alle fanciulle strumenti per tentare la sorte. Ne staccano una, la troncano per metà, e la parte staccata accomodano un'altra volta al posto come intera, prendono poi la spiga fra le dita della sinistra mano, e dando colla destra un colpo sul braccio, esclamano: Viva o morta? Se al colpo la spiga staccata si slancia via, l'amore è vivo, cioè il giovane ama davvero, ma se l'erba non si muove, oh allora la ragazza non è riamata; ed ecco il mal augurio. Il seme di certe erbe campestri che a guisa di leggiero involucro di sottil piuma, staccato dal vento s'inalza e percorre l'aria, è di buon augurio se volge il suo corso verso il volto della fidanzata; quel seme chiamano furtòna (fortuna) e vedendolo in aria si sta fermi per indagare la direzione che prende.»

Non meno diffusa è l'usanza di consultare il destino intorno allo sposo futuro, per mezzo delle figure che si osservano sopra il ghiaccio. A Pinerolo, nel Canavese e nel Mantovano, la notte dell'Epifania, le fanciulle mettono fuori di casa, possibilmente sul tetto, una scodella piena d'acqua. L'acqua diacciandosi nella notte, dalle impronte che si vedranno sul ghiaccio, le quali, nel Canavese, sono attribuite ai tre Re Magi, la fanciulla al mattino indovinerà il mestiere dello sposo predestinato.

Poichè le donne credono alla predestinazione; e fu tempo che vi credevano anche gli uomini. Leggo nella vita di Settimio Severo, presso gli Scriptores Historiæ Augustæ[37], come questo imperatore sposò una fanciulla, [34] credendola sortita a nozze regie, se pure, come è probabile, non simulò di credere quello che gli tornava. Così, presso il Lalita-Vistara[38], Buddha non conoscendo ancora la sua futura sposa, appena la incontra, sente ch'è dessa. Egli ha la piena intelligenza delle sue virtù. Ora a questi presentimenti che sono diventati una superstizione particolarmente femminina, io do volentieri una origine mitica. Mi par difficile che una giovinetta dica d'una cosa accaduta «il cuore me lo diceva», se simili avvisi del cuore non abbia mai udito vantare prima da sua madre; la credenza ne' presentimenti è tradizionale, ereditaria di madre in figlia. Buddha s'accosta alla sua sposa e ha l'intendimento della sua virtù; Buddha è il sole, quello che vede tutto; la sua sposa è l'aurora; il sole s'accosta all'aurora; il sole trova la sua sposa, la indovina alla prima. Per altra parte, l'aurora è la più sollecita a destarsi; è la prima a vedere, a scoprire; essa prevede; l'aurora è donna, e la donna si paragonò all'aurora; ossia si fece indovina. Ma non solo l'aurora è sposa del sole; anche talora la nuvola: la nuvola tuona; la nuvola avvisa; la nuvola è donna; e la donna si paragonò alla nuvola, ossia si fece pitonessa, sibilla, druidessa, fata, profetessa. Come aurora, presente; come nuvola, predice.

Ad altri pronostici ricorrono ancora in Italia e fuori le fanciulle da marito.

Nel contado di Pinerolo, per sapere se un matrimonio [35] avrà luogo sì o no, mettono insieme due pallottole di stoppa destinate a rappresentare gli sposi desiderati; quindi le due pallottole si abbruciano nell'aria; se le ceneri si sollevano, buon segno, il matrimonio si fa; se restano giù, cade pure ogni speranza nella povera villanella. Un'altra forma dello stesso uso è il così detto mignofet; si mettono due fantoccioni di stoppa l'uno innanzi l'altro e s'appicca loro il fuoco; cadono essi l'uno verso l'altro? e tutto andrà bene; si voltano essi da un'altra parte? ed anche le nozze si voltano.

Nell'Atharvaveda, è una strofa ove si invita la sposa a salire sopra una navicella della fortuna che la porterà verso il suo predestinato. Il Weber, che la scoperse e la citò[39], riferisce alcune usanze germaniche, le quali mi sembrano bene provare come la formola d'invito alla fanciulla perchè si imbarchi con la sua fortuna dovesse pure accompagnare qualche esperimento che le fanciulle indiane facevano della loro sorte come spose.

Ora una tale corrispondenza de' giuochi a certe popolari usanze, parmi che renderebbe, a chi lo tentasse, molto interessante un altro libro, che si potrebbe intitolare la storia dei giuochi. Auguro pertanto che, fra tanti giuocatori, uno se ne trovi, che il desiderio di illustrar l'arte, alla quale si appassiona, muova a soddisfare con la vanità sua la nostra curiosità, raccogliendo materiali per l'opera da me proposta, alla quale non farebbero certamente difetto i lettori.

Oltre l'Epifania, è vivamente desiderata dalle nostre [36] fanciulle la notte di S. Giovanni[40], per interrogare l'oracolo d'amore. In Santo Stefano di Calcinaia, piccolo borgo ad otto miglia toscane da Firenze, ove io sto scrivendo queste pagine, le fanciulle ricorrono a tre forme di oroscopi. Verso l'albeggiare, pigliano del piombo e lo liquefanno; così liquefatto lo mettono nell'acqua, ove il piombo assume figura di un omino; secondo la figura di quest'omino, argomentano del mestiere che farà il loro sposo.

Oppure le fanciulle, pigliano tre fave; sbucciano l'una per intero, l'altra a mezzo, la terza punto e le involgono in tre pezzi di carta per riporle sotto il guanciale; la notte ne levano a caso una di sotto il guanciale: se la fava è tutta sbucciata, lo sposo sarà un povero; se a mezzo, nè povero nè ricco; se punto, lo sposo sarà ricco. Finalmente, ancora consultano la sera le stelle e ne fissano particolarmente tre, le quali chiamano de' mercanti; la notte, com'esse dicono, sogneranno inevitabilmente tre uomini; e l'uomo che esse vedranno in mezzo sarà lo sposo loro destinato.

A Modica, scrive il signor Amabile, nel primo giorno di ottobre, la ragazza semina due fave in un [37] vaso, l'una per sè, l'altra per colui che le diresse qualche occhiatina amorosa; e se le due fave spunteranno prima della novena o nel corso della novena dell'Arcangelo Raffaele, il matrimonio pare assicurato; se spunta la sola fava del maschio, è segno che la fanciulla mancherà di parola, se la sola fava della fanciulla, essa verrà invece tradita. La fava è un noto simbolo fallico, uno de' motivi per cui era considerata come cibo impuro dagli antichi, onde Pitagora si asteneva dal mangiarla.

Mattia di Martino, in uno scritterello sopra gli usi e le credenze della Sicilia[41], ci fa conoscere un altro pronostico fatto con le fave: una donna gli raccontò come assistendo ad una di quelle fattucchierie che sogliono farsi la sera di San Giovanni «vide mettere in un sacco tre fave, una intera (sana), una senza l'occhio, (la parte nera pizzicata), ed una terza sgusciata (munnata); ciascuna avvolta in un pezzetto di carta. Dopo averle mosse ben bene, vi si faceva mettere dentro la mano a quella ragazza a cui si voleva predire che razza di marito avesse a pigliare; se si tirava su quella intera, segno che doveva essere benestante; se quella senza l'occhio, tignoso; se quella sgusciata, nudo[42]

A Mineo, in Sicilia, la notte di San Giovanni, le ragazze mettono alla finestra la così detta spina (il fiore del cardo selvatico); ove la spina si apra e fiorisca nella notte, esse si sposeranno, oppure il loro amante sarà fedele.

Ma le più copiose notizie sopra gli usi popolari [38] siciliani del San Giovanni che si riferiscono alle nozze le trovo in una lettera che il mio amico Giuseppe Pitrè diresse nell'anno 1871 alla cara e compianta baronessa Ida Reinsberg von Düringsfeld. «Tutte le fanciulle insofferenti d'indugio, nei tredici giorni che precedono la festa di Sant'Antonino, cercano propiziarselo con una tredicina, durante la quale altre nella chiesa di lui, altre nel silenzio delle pareti domestiche lo pregano a caldi occhi perchè con S. Pasquale e S. Onofrio avvii un matrimonio tra lei e un giovane grazioso e simpatico; di che l'invocazione:

Sant'Antuninu,
Mittitilu 'n caminu;
San Pasquali,
Facitulu fari;
Santu Nofriu gluriusu:
Beddu, picciottu e graziusu!

Ora supponiamo negli invocati santi le migliori disposizioni di questo mondo a favore della troppo ingenua supplicante; chi, e di qual mestiere sarà lo sposo di là da venire? e chi lo sa? E come si fa a saperlo? Niente di più facile, dicono le donne, non s'ha che attendere la festa di S. Giovanni Battista, e se ne vedrà la esperienza. Allora verso il mezzogiorno, quando il sole è più alto, ogni ragazza che sente il pizzicor d'amore mette innanzi l'uscio di casa sua una catinella con acqua limpida e fresca; fonde un pezzo di piombo, e ve lo riversa d'un colpo. Il piombo, istantaneamente raffreddato, vien tratto fuori dall'acqua; tremante e palpitante la ragazza lo guarda, lo affissa e vi scorge, o crede di scorgervi, un carro, una vanga, una vela, una pialla e che so io; ed ecco fatto: il futuro sposo sarà un carrettiere, un [39] contadino, un pescatore, un falegname! — In Belpasso, comunello su quel di Catania, si cerca appurare il mestiere dell'amante per mezzo della farina. La ragazza prende uno staccio, e colle mani rivolte indietro tanto che nè anche lei veda nulla, si mette a cernere e cernere. Terminata l'opera, si volta e chinasi a guardare la farina caduta; la quale se è a barre dà indizio che c'è a vista un falegname, se a rivelature e a mucchietti, un contadino, ecc. — Le ragazze dello stesso Belpasso e di Assoro, un giorno prima della festa, si riuniscono in varii gruppi. Colei, a cui venga nel giuoco la volta sua, addoppia un laccio o una cordella e dai due capi messi insieme lo avvolge a un pezzettino di legno, a un bubbolo, a una cosa qualunque; e così avvolto lo gira per tre volte di seguito senza pure vederlo, intorno alla persona, e secondo i suoi desiderii ripete:

San Giovanni sì, San Giovanni no;
Sì m'hè pigghiari a iddu,
Pozz'essiri 'mbrugghiatu, o dunca no.

Se S. Giovanni vuol bene alla ragazza, in capo al terzo giro, il laccio o la cordella dev'essere talmente intrigato che i due capi del principio s'hanno a trovare in fine, e quello che è sopra deve passar sotto. E qui sta, m'ha detto una buona donna di quel comune, il miracolo di S. Giovanni. In Prizzi e Salaparuta ogni fanciulla corta di sorte raccoglie un fiore, detto perciò Ciura di S. Giovanni, gli abbruciacchia le estremità della corolla e lo ripone in un buco all'aria aperta. Il domani, se esso è ravvivato, se ne promettono buoni augurii pel futuro sposo e per l'indole e condizion sua, altrimenti egli o non si troverà o porterà la mala ventura. In Milazzo questo [40] fiore è un piccolo carciofo selvaggio[43], in Assoro e in Belpasso un quissimile, ma in Belpasso lo si mette sui forni invece che in un buco qualunque. A Monte S. Giuliano (l'antico Erice, prov. di Trapani), nel giorno di cui parliamo, ogni ragazza getta dalla sua casa in mezzo la via una mela, e la tiene d'occhio finchè altri la raccolga. Se il primo a passare per quella via è un uomo, sarà questo un augurio di sicure e non lontane nozze; se una donna, o essa raccoglie la mela, e questo vuol dire che non c'è da sperare nessun matrimonio; o la guarda senza toccarla, e questo significa che la ragazza che attende il presagio resterà vedova; se un prete, ella morrà nubile. Nè questa maniera di trarre auspicii è solamente per San Giuliano. Se ci fermiamo a Milazzo, ne veggiamo una anche più curiosa. Quivi le donne, sopratutto le ragazze, fanno, secondo la loro intenzione, la novena a San Giovanni. Al nono giorno, si mettono in via a sentir parole che eventualmente il primo incontrato dirà. Le prime parole che udranno saranno indizio se l'oggetto per cui han fatto la novena sarà o non sarà per avverarsi. A mo' d'esempio, sentiamo a dire: nenti, nenti, è inutili; oppure mmalidittu ddu jornu, ovvero sunu perduti li spisi, e allora diranno: la cosa non avverrà, non può avvenire.»

A Venezia, le ragazze prendono la ventura mischiando insieme i tarocchi, e poi vi fanno passare ad una ad una tutte le carte, dicendo: uomo, bell'uomo, mercante, ladro, spia. Se quando passa il due di spade, si dice bell'uomo, è segno che si sposerà un bell'uomo, se si dice spia, è segno che si sposerà una [41] spia, e così di seguito. Il giuoco si fa pure con una variante per sapere se si è amati: si dice: mi ama, mi brama, mi vuol bene, così così, non me ne vuole; la parola che si dice quando passa il due di spade dice la verità. Si prova ancora l'amore nel modo seguente: si toglie un capello al damo, lo si distende sopra una mano; con le unghie del pollice e dell'indice dell'altra mano si distende in giù tre volte, ricordando il damo; poi si guarda come il capello è rimasto: se il capello si rizza, è segno che il damo vuol bene (si può confrontar qui la prova che si fa nell'Umbria con la fogliolina d'ulivo); se nè si rizza nè si distende, l'amante non è caldo, se rimane disteso, l'amante è intieramente freddo, e fa solo per celia. La vigilia di San Giovanni si fanno tre lettere col nome che si vuole, ma differente per ciascuna lettera, che si chiude ma non si suggella; e si va sul tetto e si mettono le tre lettere sotto gli embrici. All'alba si torna sul tetto, e si è sicuri di trovare una delle tre lettere aperte; il nome che è scritto in quella lettera che s'apre è il nome dello sposo futuro. Si fa pure a Venezia la prova del piombo, o quella della chiara d'uovo che le somiglia, ed anche quella della pantofola, che si getta giù dalla scala; mancano tanti anni al matrimonio quanti sono gli scalini che la pantofola ha passati andando giù, onde le ragazze mettono ogni arte nel buttar con la punta del piede la pantofola perch'ella ritorni allo scalino da cui si butta. Si pianta pure frumento in un vaso, lo si inaffia e si mette al buio; dopo otto giorni, il grano è nato; se si trova duro, verde, bello, si sposerà un giovine bello e ricco, se si trova bianco o giallo, lo sposo non varrà niente. Se il frumento è bello, lo si lega con un nastro rosso, e lo si mette in vista sul balcone, [42] perchè si vegga quale fortuna sta per toccare alla fanciulla. Si ascoltano pure a Venezia i nomi di quelli che passano la mattina di San Giovanni, e si fa pure una prova simile a quella toscana e siciliana delle fave[44]. La prova de' fagiuoli riunisce insieme le due prove; si va alla riva, e quando l'acqua è calma, si buttano ad uno ad uno in mare, i tre fagiuoli dicendo:

Fasiol, bel fasiol,
Va più lontan che ti pol;
Va più lontan del mar,
Dime 'l nome de quello che m'à da sposar.

Allora si ascolta, ed il primo nome che si ode è quello di colui che si deve sposare.

Per una simile ventura, s'invoca pure alla vigilia di Sant'Agostino questo santo:

Sant'Agustin de l'abito,
Santo sè e santo sarè,
La mia fortuna vu la savè;
De la del mar, de qua del mar,
Diseme 'l nome che m'à da capitar.

Allora s'ascolta quello che l'acqua risponde, e il primo nome che si ode rammentare sarà quello dello sposo futuro. [43]

In Francia, nel mattino di San Giovanni, è il trifoglio che annunzia alle ragazze un prossimo matrimonio o un matrimonio felice[45]. Una simile credenza esiste in Italia pel trifoglio delle quattro foglie; lo rammenta pure S. Farina, nel suo Tesoro di Donnina.

Nella Svezia, secondo il Léouzon Le Duc[46], la vigilia di San Giovanni tre ragazze si raccolgono a preparare in silenzio un pasticcio, che insieme fanno cuocere e dividono a caso in tre parti; le quali mangiano. Vanno quindi a dormire e sognano la notte inevitabilmente un giovane che muove alla lor volta con una dolcissima bevanda; quello è il giovine destinato a menarle all'altare. È chiara la somiglianza di quest'uso con quelli di Calcinaia sopra riferiti; un altro, pure della Svezia, ci richiama ai medesimi; ma io temo che il Léouzon Le Duc non ce lo abbia descritto per intiero. Secondo questo viaggiatore e dotto francese, le ragazze svedesi compongono a San Giovanni un mazzo di nove fiori diversi, fra i quali sempre l'hypericum o fior di San Giovanni; questi fiori vogliono essere raccolti da nove campi diversi. Composto il mazzetto, lo mettono sotto il guanciale e si coricano; quello che nella notte sogneranno, avverrà. Non sembra egli probabile che ogni fiore abbia un suo proprio significato? e che dal tirar fuori del mazzo a caso uno di quei fiori si disegni alle fanciulle svedesi il loro destino?[47].

Ad altri oracoli d'amore ricorrono in Grecia per [44] San Giovanni, ai quali allude pure il canto popolare:

La sorte gettai per provarti
E la mia sorte mi disse che moglie ti pigli:

ed una prova sarebbe accennata in questo distico:

La mia mano ha ben presa la tua tenera mano,
Quest'è segno buono ch'io ti farò compagna[48].

Il dottor Pierviviano Zecchini, ne' suoi Quadri della Grecia Moderna[49], ci ha fatti conoscere due de' pronostici nuziali ai quali ricorrono le fanciulle greche. «San Giovanni, egli scrive, è per queste ragazze quello che San Nicolò è per le giovani di molti paesi d'Italia, il quale, dappoi che dotò tre fanciulle per condurre ad onor lor giovinezza, facendo il miracolo del pomo d'oro, venne generalmente considerato il protettore delle pitocche, tanto più che difficilmente ne troverebbero uno in terra, e al certo è meglio averlo in paradiso che qui, ove lo stesso patrocinio è spesso pericoloso. Le zitelle dell'isole dell'Egeo, nella vigilia della festa di quel santo, riunisconsi insieme in varii drappelli, sia nelle chiuse stanze, sia nell'aperto de' campi, con un bel pomo in mano, che però è meno bello delle fiorite lor guance; e la prima cura in cui si occupano dopo qualche colloquio amichevole, o qualche giuoco innocente, è di farsi recare dell'acqua da un secchio, o da una sorgente. La persona ch'è incaricata di tale uffizio non deve proferire alcuna parola, ed è perciò che quell'acqua è detta acqua secreta. Avuta che la [45] s'ebbe, se ne riempie un gran vaso, entro il quale ciascuna ragazza mette il suo pomo, indi coprono il vaso, e lo chiudono a chiave; finita questa operazione, lo collocano sopra la terrazza della casa, o su d'un luogo elevato, un poggetto, se in campagna; ed ivi lo si lascia all'aria libera durante la notte. Nel domani, cioè nel giorno della festa del santo, voi vedete quelle angeliche creature prese da una curiosità e trepidezza inesprimibile, stringersi di nuovo insieme, finiti i vespri della chiesa; ned è a temere che alcuna tardi a raggiungere le sue compagne. Postesi in ginocchio, d'accordo innalzano una tenera e divota preghiera a San Giovanni, la quale in conclusione non è che una invocazione ad Amore. Cantato quest'inno, si fanno recare di nuovo il misterioso vaso pieno d'acqua, che vien portato con somma precauzione; tosto che l'hanno dinanzi, piene di una impaziente sollecitudine, lo aprono e ciascuna alla sua volta prende un po' di quell'acqua secreta per versarla in un piccolo vaso, nel quale pone anche il pomo che il giorno addietro aveva tuffato nel vaso maggiore; e fatti tre segni di croce sì sopra l'uno che l'altro dei due recipienti, comincia così ad apostrofare il santo nuvolato: «oh gran santo Giovanni! fa che s'io debba sposare N.... questo vaso giri a destra, e, se non deve essere mio sposo, si volga a mancina.» Quella delle giovani che pronunciò questa preghiera, congiunge le mani in atto supplichevole, e tenendo i pollici elevati e disgiunti tra loro, si mette davanti ad una delle sue compagne, la quale fa la stessa cosa; appresso v'è una che colloca sull'estremità di quei quattro pollici così ritti il vaso che, dicesi, non manca mai di girare da sè a destra o a sinistra. Nello stesso giorno di san Giovanni pongono [46] in opera un altro mezzo, oltre quello del vaso pensile; e consiste nel lavarsi il volto con quell'acqua secreta, in cui dev'essere già stato immerso il pomo di ciascuna; poco dopo si conducono in istrada, se chiuse erano in camera, o nel paese, se in campagna; strano è poi il primo nome di un giovine che sentan a pronunciare, sia quello che debba essere il loro sposo.» Il dottor Zecchini ricorda ancora l'uso delle fanciulle greche, per assicurarsi se sono amate, di percotere sulla mano un petalo di rosa; se il petalo scoppia, è buon segno; così il capraio di Teocrito, nella prima delle egloghe, si duole con l'amata che il petalo d'un papavero schiacciato sul braccio non avesse scoppiato.

Nell'India, il sedersi sulla coscia sinistra d'un uomo è segno di volerlo fare suo sposo; il sedersi invece sulla coscia destra è proprio dei figli e delle nuore[50]. Un moto singolare del braccio avverte il re Dushyanta dell'avvicinarsi della sposa nella Çakuntalâ di Kâlidása. I moti del corpo seguono quelli dell'anima; nell'India e in Russia, si crede ancora che l'uomo provi il bisogno di starnutare quando una donna pensa a lui.

In Italia si dice: «Chi a digiuno ha starnutato sarà nel giorno regalato o mortificato.» A me sembra, per cagione del buon senso attribuito ai proverbi, che quest'ultima parte del proverbio, ossia la mortificazione che segue lo starnuto, sia un'aggiunta posteriore[51] fatta da chi non credeva alla sincerità del [47] primo proverbio. Gli augurii poi che accompagnano fra noi l'uomo che starnuta, i prosit, le felicità, i Dio ti prosperi, i bonheur, gli inchini che accolgono, ovunque ne arrivi il caso, colui che starnuta, sono, come parmi, un resto della superstiziosa credenza, che considerava lo starnuto come una benedizione.

I medici troveranno forse a questi augurii una ragione tutta igienica, ed avranno l'augurio che si fa allo starnutante, come uno scongiuro di qualsiasi caso apopletico che potesse cogliere l'uomo nell'atto dello starnutare. Ma io non so allora perchè non si farebbero simiglianti augurii per colui che ha un accesso di tosse, per dire d'un caso molto più pericoloso.

Stimo invece veramente che si avesse lo starnuto come avviso profetico, e interpreto pur questa credenza col mito del tuono. Il tuono è uccello di buon augurio, è il gallo che canta e farà piovere, nella mitologia vedica[52]; è insomma il nunzio della pioggia; l'uomo suscitato da Prometeo, nella mitologia ellenica, si fa sentire per mezzo di uno starnuto: ora Prometeo è un eroe tutto solare e congiunto ai fenomeni del cielo tempestoso. Raffigurato il tuono come uno starnuto del Dio, si potè agevolmente dare anco allo starnuto, in genere, la virtù di presagire. In Oriente, lo starnuto, specialmente del re, viene accompagnato da preghiere; per i Greci e per i Latini, era una specie di oracolo. È noto il culto che ebbe ne' paesi germanici il tuono e come vi si denominasse dal medesimo il giorno che noi sacrammo pure a Giove tonante, ossia il giovedì (Donnerstag). Perciò il giovedì rimase per i Tedeschi devoti [48] alle antiche loro credenze, giorno di riposo[53] e di festa; ma il giovedì, il giorno del tuono, viene essenzialmente prescelto per compimento delle nozze, e i contadini tedeschi chiamano una bella fanciulla da marito granata del tuono[54]. Giove tuona, Giove starnuta, Giove benedice; il giorno sacro a Giove è ancora sacro a Giunone arbitra di matrimoni, ossia sacro alle nozze; Giove starnuta; Giove si sposa, l'uomo starnuta; dunque una donna ha pensato a lui; non altra origine parmi che si possa attribuire più probabile alla superstizione indiana e russa, e in parte pure italiana. Poichè, non conviene obbliarlo, se i creduli sono da compatirsi, se la credulità umana è deplorevole, l'origine della credenza ha quasi sempre un significato naturale che appaga la ragione. Ora io non so se ho precisamente indovinato qui le fonti del proverbio italiano, che riguarda lo starnuto, ma son contento di questa breve digressione che mi porge opportunità di raccomandare ai nostri raccoglitori e comparatori di proverbi la maggiore importanza ed utilità che avrebbero le loro fatiche se di alcuno dei proverbi omai messi tutti insieme (gli essenziali al meno), si muovessero finalmente a rintracciare quello che più ci rileva, cioè la loro origine mitica e storica.

[49]


IV.
Come si fa l'amore.

Sull'amore fu scritto tanto, dal Cantico dei Cantici a Stendhal. E pure il capitolo che io metto qui era ancora da scriversi. Io so che, dal più al meno, l'amore è sempre il medesimo, in sostanza; ma, nella forma, varia assai; e variano poi non poco fra loro l'amore per l'amore e l'amore pel matrimonio. Io mi lascio qui occupare da quest'ultimo soltanto.

A quale età incominciano gli amori? Non parlo degli erotici, ma di quelli che hanno per fine il connubio. La questione, presso di noi, è risolta dalla sola fanciulla; appena ella sia matura, le si può permettere d'incominciare a far l'amore.

Ma nell'India antica, ove si facevano spose di otto anni, nell'India odierna, ove si usa fidanzare le figlie a cinque o sei anni, sebbene si consegnino al marito solo fra i dieci o dodici anni, ossia soltanto dopo che abbiano dato segni di fecondità; presso i turchi ove si destina la fanciulla a tre o quattro anni, per consegnarla a dodici o tredici: nel Kirmàn, ove si promettono le fanciulle a nove anni e a tredici si sposano, non rimane evidentemente alle fanciulle nessun tempo per fare all'amore. E, in genere, si può dire che ove l'autorità paterna preme troppo la famiglia, non hanno luogo innamoramenti che conducano a nozze.

Presso i Serbi la fanciulla viene fidanzata, prima di essere matura alle nozze; ella obbedisce quindi al destino che le fa il padre. Il padre dispone pure [50] della fanciulla tra i russi; e lo stesso avveniva nella società romana, ove la tirannide paterna era il solo governo della famiglia[55].

Il matrimonio si combinava dai parenti, che facevano gli sposi prima di innamorarli[56].

Se molti pertanto di tali matrimoni si fanno ancora tra noi ne ha colpa il diritto romano[57]. Il diritto germanico portava invece altra libertà; i Germani si sposavano assai tardi; anzi, avevano per cosa turpe che un uomo conoscesse donna innanzi ai vent'anni[58]; questo voleva dire, che, prima di imporsi un legame, l'uomo doveva sentirsi libero e liberamente imporselo. Nè ad una donna era concesso, innanzi alla sua maturità, nè fidanzarsi, nè essere fidanzata. Il diritto longobardico prescriveva i dodici anni compiuti[59]. Anche la Brunilde dell'Edda aspetta i suoi dodici [51] inverni per darsi uno sposo. In Francia, non prima dei dodici anni, poteva una fanciulla essere sposata. In Grecia, non prima de' quindici[60]; Platone, poi, nelle Leggi e Aristotile nella Rettorica, fermano come età giusta per i maritaggi, alla donna quella che passa fra i sedici e i diciotto; all'uomo quella che cade fra i trenta e i trentacinque anni[61]; convien dire, che quell'ideale de' due filosofi rispondesse alla consuetudine già viva tra la gente più ragionevole e temperata. Così, nell'India, mentre sappiamo che l'uso esisteva di fidanzare bambini e di sposare i figli giovanissimi, il Sahityadarpan.a viene fuori con una [52] sentenza moderatrice dell'uso: «L'uom saggio come penserà alle donne, innanzi di aver terminato il suo tempo? il sole non manifesta il rosso vespertino innanzi d'aver percorso l'intiero mondo».

Per tal modo, ora vediamo l'uso diventar legge e confermare; ora la legge diventar uso e riparare.

In Italia, a dispetto del diritto romano, le fanciulle innanzi di andar a marito, vogliono far all'amore, e in nessun paese forse si ama di più che fra noi, io non dico certo con maggior forza, ma intendo con maggior facilità, varietà e gaiezza. Qui ed in Grecia e un tantino pure in Ispagna i fidanzati si amano cantando; vi è strepito e vi è pompa ne' nostri amori; perciò i nostri amori si prestano agevolmente a venir descritti. In Italia poi il canto popolare è quasi tutto amore: e ci sovrabbonda.

Quale contrasto fra le nostre fanciulle da marito e la serba Roskanda vittima di Marco Cralievic', in onore della quale la poesia canta: «La fanciulla crebbe rinchiusa, crebbe, dicono, quindici anni, nè vide sole nè luna[62]». Si lotta qui ancora e in Grecia e in Ispagna contro la gelosia de' parenti; ma essa non basta ad arrestare ne' suoi amori la giovine [53] coppia che si vuol sposare. In un racconto popolare spagnuolo[63], l'amante inveisce, con una strofa, contro la vecchia suocera, e in un canto popolare[64] disfida il padre della fanciulla ch'ei vuole far sua.

Amore, nel mezzogiorno, è audace e non ha scrupoli e non fa differenza, o, come dice Pietro Belfiore, nella Tancia di Buonarroti il giovine[65]:

. . . . . . .  non la guarda al casato,
Nè fa provanze, o leggi Prioristi;
Ma ch'egli agguaglia il piccin col maggiore,
E nobiltà non guarda, nè onore.

Amore fra noi è un vero attacco, che si fa col canto. Nell'Abruzzo teramano, piglia talora forma di una caccia[66], e se la fanciulla si mostra ritrosa, sono schioppettate di versi insolenti che la maltrattano.

[54]

A Mineo in Sicilia, sembra, ad un assedio per approcci, l'amante fa tanti passi quanti sono i versi ch'egli canta; all'ultimo verso, che chiamano piede, egli fa pure l'ultimo passo, e si trova sotto la finestra della innamorata. In altre parti della Sicilia, amore è seduzione; la comare tenta il cuore della fanciulla, con le lodi del giovine:

Signura zita[67], signora damuzza[68]
Voi siti ciuri[69] di vera biddizza[70]
Lu vostru zitu si tagghia e sminuzza
E cè sguagghia[71] lu cori a stizza a stizza[72]
Beddu[73] diamanti aviti a ssa[74] manuzza[75]
'N pettini d'oru 'ntra ssa biunna trizza[76]
Quannu[77] si 'nguaggirà[78] ssa zitiduzza
Spinci[79], Amuri, bannera[80] d'alligrizza.
Vi fazzu, 'ngnura[81] zita, la bon'ura,
Cu ssa facciudda[82] di 'na ninfa antera[83]
[55]
Aviti li vranchizzi[84] di la luna,
E lu sblennuri[85] di 'na nova sfera[86];
Aviti un garzuneddu ca v'adura,
Ch'è chinu di biddizzi di primera;
Gesù lodatu sia ca junci ss'ura,
Si junci tu stinnardu[87] e la bannera.
'Ngnura zita, vi fazzu la bon'ura,
Facci 'nfatata di ninfa sirena,
Ccà[88] cc'é lu vostru zitu chi v'adura,
Chinu di fantasia tuta sirena:
'Ntra ssu pittuzzu portati la luna,
E 'intra li manu lu suli, Gna Mena[89],
E sia ludata 'sta jurnata e 'st'ura,
Guditivi lu munnu sanza pena.

Più spesso il seduttore è il damo stesso, come in un canto popolare piemontese inedito, il quale io pubblico qui non perchè, secondo la variante del Nisard,

Il faut de l'inédit, n'en fût-il plus au monde,

ma perchè questo dialogo in versi fra il pretendente e la dama, goffo com'è, rende ad evidenza i rozzi amori delle campagne piemontesi, dove spesso una crollata di spalle od uno sgarbo simigliante della ragazza che accompagni un suo sorriso è un'eloquente maniera d'invito. Si cantava, un tempo, a Riva di Chieri, nella prima visita che il giovine faceva alla stalla della ragazza. La ragazza finisce con una risposta insolente, dove accenna, come se ella ama poco, egli ama punto, dopo la quale, probabilmente, [56] ella si ritirava ridendo, e col suo riso, impegnava l'amante al ritorno:

— Bela fìa d'l faudal rigà,
Seve cuntenta che 'l me braie a tucu vost faudà?
— El me faudà l'è d' canavassia,
Venta tuchelu cun bela grassia.
— Oh bela fìa, stala fr'sca l'eva ant la sìa?
— A sta fr'sca e dulenta.
— Si turneisa n'autra seira, sariive cuntent?
— O cuntenta, o no, p'r na volta venta nen di che d'no.
— O bella fìa, chi sei tant bin risponde,
L'acqua d'l mar va a bell'unde.
— O bel unde, o bei saut,
Mì sai rispunde sussì e d'autr.
— Bela fìa, la vostr'amur l'è parei d'la mia?
— La mia füssa parei d'la vostra savrìa deve risposta.
— Bela fìa, la vostr'amur l'è parei d'la mia?
— La mia l'è sut al tavul, la vostra l'è a ca d'l diavul[90].

Negli Apennini liguri, gli innamorati cantano la seguente canzone, che io ricevo dalla gentilezza del Celesia: la fanciulla non vuole aprire all'amante ma al fidanzato; perciò il giovine promette ritornare il [57] giorno dopo con l'anello. Se non sia intieramente opera di popolo, questa canzone spira tutta la grazia e naturalezza dei canti popolari:

— Chi picca la mia porta?
Chi l'è che picca lì?
— L'è il vostr'amant, Maria;
Vi prego in cortesia,
Bella, vegnì a dervì[91]
— V'ho mai dovert[92] a st'ora,
Nanca vi vôi dervì[93];
Son scalza, in camisola,
Mi[94] dentro e voi di fora,
Sté[95] lì fin che l'è dì.
— La porta di voi, bella,
Mai più la vederò,
Me fate[96] un gran disdegno,
Lo porterò per segno,
Fin che scamperò.
— Se vú mì bandonate,
Mì 'm morirò d' magon[97];
Ma 'm[98] preme il mio onore
Tant come il vostro amore;
Abbié[99] un po' compassion.
— Se il raggio della luna
Splendesse come il sol,
Mì vorris scriv[100], Marìa,
La vostra scortesìa
In lod del vostr'onor.
[58]
— Vi las la bonasira[101];
Diman ritornerò;
Vi porterò ú anello[102]
Tutto dorato e bello;
Con quel vi sposerò.

Dalla lingua adoperata in questo canto mi parrebbe che esso fosse passato in Liguria dal Monferrato, mentre poi vi spira dentro un'aura di serenata provenzale.

Nel Canavese è popolarissima una canzone che chiamano Martina, la quale cantata forse, in antico, da un così detto Martino di Madonna che tornava dalla fiera con un dono per la sua innamorata, o per il padre di essa, si ripete ora innanzi alla porta delle stalle dai giovani pretendenti e dalle ragazze che vi sono ricercate, chiamate le vioire ossia le vegliatrici. È una gara di canto. Vi sono strofe obbligate che tutti sanno a memoria; ve ne sono altre intermedie che conviene improvvisare; se quei di fuori, cioè i giovani, s'arrestano nel canto e non trovano più la via di continuare, non pure non viene loro aperto l'uscio dalle vegliatrici, ma essi si raccomandano alle gambe per non lasciarsi riconoscere e per evitare il ridicolo; se, invece, s'imbrogliano le vegliatrici, i giovani irrompono nella stalla, urlano e sghignazzano per la riportata vittoria.

Quindi si danno liberamente a corteggiar le loro dame; ma se, mentre essi corteggiano, arriva un'altra brigata di giovani per cantar Martina e dal canto escono pur questi con onore, si apre alla nuova brigata ed i primi venuti se ne vanno, per la necessità [59] di obbedire al proverbio canavesano che dice: chi ch'a l'a môt ch'ansaca[103]. Ecco ora le strofe obbligate della canzone Martina; prima delle ultime due strofe vanno le improvvisate, le quali possono essere molte o poche, secondo la pazienza od impazienza degli innamorati[104]:

I giovani: Oh! buña seira, vioire,
Corpo d' mi! buña seira.
Oh! buña seira, vioire,
O vioire, buña seira.
Le giovani:  Chielu ch'a j'è lì d' fora?
Corpo d' mi, chi ch'a j'è lì?
Sangh d' mi; chi ch'a j'è fora?
Chielu? chi ch'a j'è lì?
I giovani: I sun Martin d' Madona,
Corpo d' mi! i sun Martina,
I sun Martin d' Madonna
Sangh d' mi! Martin Martina,
[60]
Le giovani:  Duv sestu stait, Martina?
Corp d' mi! duv sestu stait?
Duv sestu stait Martina?
Sangh d' mi! duv sestu stait?
I giovani: A la gran fera, vioire,
Corpo d' mi! a la gran fera,
A la gran fera, vioire,
Sangue d' mi! a la gran fera,
Le giovani:  Cos l'astu cumprà d' fera,
Corp d' mi! cos t'as cumprà?
Cos l'astu cumprà d' fera,
Sangh d' mi! cos t'as cumprà?
I giovani: Un bel caplin, vioire,
Corp d' mi, vioire, ün caplin.
Un bel caplin, vioire,
Sangh d' mi! vioire, ün caplin.

Le vegliatrici seguono a domandare col canto come sia ornato il cappello, quanto costi, a chi sia destinato: [61] se i giovani rispondono finalmente che esso va al padrone della stalla, le vegliatrici per lo più si dichiarano contente; allora i giovani ripigliano:

I giovani: Dörbimi l'üss, o vioire,
Corpo d' mi, dörbimi l'üss,
Dörbimi l'üss, vioire,
Sangh d' mi, dörbimi l'üss.
Le giovani:  Eco düvert, Martina,
Corpo d' mi, l'üss è düvert,
A l'è düvert, Martina,
Sangh d' mi, l'üss è düvert.

Il canto era già caro agli innamorati romani, come parmi rilevare dal Curculion di Plauto[105]; ma in Toscana, particolarmente, l'amore visse e vive di canto. Nel mese di maggio, altrimenti chiamato mese degli amori, mese degli asini[106], mensis hilaritatis, si festeggia qui la natura che si rifeconda e il canto viene ad accompagnare questo allegro ridestamento; e poichè il mondo vegetale e l'animale si danno vita reciproca, si benedice ai campi e si preparano nuove spese, si porta in giro un albero fronzuto, il così detto maio, carico di fiori e frutte, come segno che la natura è ridesta, e si pianta innanzi all'uscio delle belle come augurio di una fecondità novella. Ma in Italia è difficile immaginare una festa senza suoni [62] e canti; in Toscana, ove il maggio si festeggia, cantano pure il maggio, e maggio, per l'appunto, si addimanda questa canzone. A San Romolo, paesello, che dista due sole miglia dal luogo in cui scrivo, il primo di maggio, usavano raccogliersi sotto un padiglione dodici garzoni e dodici fanciulle per cantare il maggio; in altre parti della Toscana e nel Perugino, usano i maggiaiuoli andare attorno in brigata, di casa in casa, presso le varie innamorate, che discendono a regalarli di uova, formaggio, berlingozzi, rinfreschi e simili presenti. Il Tigri[107] riferisce due delle antiche canzoni che si cantano per calendimaggio, ossia il primo giorno di maggio; la seconda soltanto fa all'oggetto nostro ed è questa:

Or è di maggio, e fiorito è il limone;
Ora è di maggio, e gli è fiorito i rami;
Ora è di maggio che fiorito è i fiori;
Noi salutiamo di casa il padrone.
Salutiam le ragazze co' suoi dami.
Salutiam le ragazze co' suoi amori.

Talora i suoni e canti per la festa di maggio sono accompagnati da giuochi; così era in Francia[108]; così ancora in Sardegna e particolarmente ad Ozieri. «I giovani d'ambo i sessi si adunano e siedono in [63] circolo innanzi alla casa d'uno di essi; allora ricopronsi d'un bianco lenzuolo, e collocano in mezzo a loro un canestro in cui ciascuno degli astanti depone un oggetto proprio. Eseguito il deposito, una ragazzina eletta dalla società ad estrarre le cose nascoste, copre il canestro e gli siede accanto. Ma innanzi che la giovinetta s'accinga all'estrazione, una delle fanciulle che compongono il giuoco, intuona una strofa d'una canzone così concepita:

Maju maju beni venga
Cun totu su sole e amore
Cun s'arma e cun su fiore
E cun sa margaritina.

Succede a questa un'altra strofa di felice augurio e di complimento, finita la quale, la ragazza estrae dal canestro un oggetto di cui il proprietario è designato ad accettare il voto e la felicitazione. La cantatrice ripetendo poi la strofa primiera, a quella ne aggiunge un'altra di funesto presagio, che si rivolge e devesi accettare dalla persona, il cui oggetto è contemporaneamente tratto dal canestro. Continuando il giuoco in questa maniera sino alla perfetta mancanza di oggetti, ne avviene che mezza l'assemblea è favorita, l'altra maltrattata»[109].

Questa descrizione di un giuoco della sorte fatta col canestro agevola, parmi, la via a dichiarare una espressione tedesca, molto originale. I tedeschi dicono: einen Korb geben, ossia dare un corbello[110] per rifiutare e particolarmente dare un rifiuto di matrimonio. [64] È probabile che, in un giuoco di sorte, simile a quello che si fa in Sardegna, si lasciasse qualcheduno dei giovani senza regali, ossia col canestro vuoto.

Abbiamo veduto fin qui in quale età si incominci a far l'amore, per fine di matrimonio, e come il canto sia fra noi mezzano di tali amori; mi giova ora ricercare quale stagione dell'anno sia loro più propizia e qual luogo li favorisca meglio.

Trattandosi di usi popolari, conviene studiarli fra il popolo, e particolarmente nel contado, dove il popolo è più di sè stesso.

La vera poesia dei nostri amori vive sulle aie e nelle stalle; la prima conoscenza si fa per lo più sulle aie, quando si batte il grano o si spanna il granturco; si conferma l'inverno nelle calde stalle. Nel Pesarese, per esempio, il giovine leva dal pagliaio una pagliuzza, e si gingilla con essa dichiarando il suo amore alla ragazza, con una di queste tre formole quasi consacrate «A vlet donca to' marit?[111]» V' piac'ria la mi' persona?[112]» «V' piac'ria chesa nostra?[113]» Al che, la ragazza abbassa gli occhi, e, avvolgendosi attorno alle dita le fettuccie dello zinnale o copriseno, risponde, secondo la sua varia modestia e voglia, con un «magara fussa![114]» oppure con un «Santit mal bab o malla mama[115]».

Nel Monferrato, scrive il signor Ferraro[116], nella vigilia di Natale o dell'Epifania, si usa circondare [65] un cerchio di legno di aranci, di castagne, di pomi, e si attacca al solaio. Se la ragazza, a cui un giovanotto offre frutta, accetta dalle mani di lui qualche cosa, si intende che accetti anche di amarlo.

Talvolta, fatta la prima conoscenza ne' campi o sull'aia o alle vendemmie, si elegge come luogo per dichiarare l'amore il sagrato della chiesa. Nell'Osimano, per esempio, i contadini che hanno fissata una ragazza, l'appostano al fine della messa sulla porta della chiesa; e quando ella esce, con un colpo di gomito, le fanno intendere come sospirano per essa.

Non di rado ancora le ragazze si attirano dietro i giovani, quando muovono vestite pomposamente nella processione del Corpus Domini. E queste nostre processioni mi richiamano in mente la descrizione che ci fa Senofonte Efesio delle nozze di Abrocome ed Anzia. «Celebravasi la festa di Diana, solennità del paese, andandosi dalla città al tempio, per lo spazio di sette ottavi di miglio. Era d'uopo che gissero in processione tutte le donzelle di quella contrada, sontuosamente adorne ecc.... Poichè costumanza era in quella ragunata di trovare gli sposi alle pulzelle e le donne ai garzoni»[117].

Ma dove l'amore piglia più spesso radice è nelle stalle. Ordinariamente, quando il giovine vi entra, sa già quello che va a cercarvi; ma rimane, per contro, ancora incerto, se la ragazza da marito, o mariora, come in Piemonte la chiamano, lo voglia o no. Per non esporsi alla vergogna di un rifiuto, egli manda alcuna volta innanzi il così detto messaggiero d'amore. [66]


V.
Il messaggiero d'amore.

Lasciando stare i cigni, le colombe, gli sparvieri, gli uccelli insomma della leggenda popolare, che portano le novelle agli amanti, messaggiero d'amore, sensale, mezzano[118], baccelliere[119], marussè[120] o malossè[121], camerata[122], ruffiano[123], domandatore[124] sono varii appellativi, che si danno in Italia al procuratore di matrimoni[125], il quale talvolta si confonde pure col paraninfo, di cui avremo occasione di ragionare nel secondo libro di quest'opera.

A me piace notare fra gli altri il titolo di baccelliere[126], per l'etimologia significativa della parola. Poichè baccelliere viene da baculus, e ricorda, per l'appunto, il bastoncello degli antichi ambasciatori, a incominciare dal caduceo di Mercurio, l'ambasciatore [67] degli Dei. Il bazvalan, ossia procolo de' Bretoni[127], ed i procoli ungheresi, portano ancora tali bacchette, ornate di nastri e fiori, quando muovono a fare la domanda della sposa. Presso i Bretoni, l'ufficio di bazvalan è un privilegio de' sarti, i quali vi mettono zelo singolarissimo. Essi devono sapere tutta la storia della famiglia del pretendente e ridirla, al caso, come pure avere notizia di tutte le sue sostanze. Il bazvalan combina le nozze con la madre della fanciulla, fa gli inviti per le nozze medesime, ed assiste ad esse, come personaggio principale. Nell'India antica, talvolta erano due compagni o parenti del garzone che facevano da procoli presso il padre della fanciulla; talora era il guru o maestro spirituale del giovine.

Così da noi, specialmente nelle campagne, non di rado, il procolo è il parroco od il prete confessore.

In Russia, il procolo è un parente dello sposo; così per l'ordinario in Italia; questo parente fra noi è talvolta lo stesso padre; così nell'India odierna, la domanda è fatta dal padre del giovine a quello della fanciulla.

A Palermo e nel Birman[128], la procuratrice del matrimonio è invece la madre o altra donna da lei deputata; così, nel Canavese, ove non si trovi il bacialer, è una comare quella che mette insieme le nozze. Ma, quasi sempre, fra noi, la domanda ai parenti è preceduta dalla domanda del pretendente alla fanciulla, e dal consenso di questa; ossia prima il cuore dei giovani elegge, quindi la ragione dei vecchi approva o condanna.

[68]


VI.
Il matrimonio per libera elezione.

Chiamo l'attenzione del lettore sopra un fatto singolare; il maggior rispetto alla donna si nota nelle caste militari. Mentre la figlia del bràhmano, o sacerdote, o legislatore, vien destinata dal padre alle nozze, la figlia del cavaliero è lasciata libera nella scelta dello sposo. L'uomo deve meritare la donna e non la donna l'uomo. Le corti d'amore, i tornei, le giostre del nostro così detto medio evo, ove premio del valore era la mano d'una donna, sono più antiche del medio evo, che le ereditava da più remoti secoli di vita guerriera insieme e patriarcale.

Nell'India, la maniera onde si stringevano matrimonii fra principi e baroni, o cavalieri, o guerrieri che addimandar si vogliano, era detta svayamvara, ossia la scelta da sè, l'elezione spontanea.

Acvalàyana[129], scrittore indiano, ci descrive otto modi di nozze, fra i quali mi paiono meritar nota i seguenti: 1.º quello per cui il giovine fa dono di un paio di bovi e quindi sposa la ragazza, detto matrimonio dei r'ishi, (che ricorda il matrimonio bràhmanico e degli antichi Germani[130]); 2.º quello per cui il giovane sposa la ragazza, dopo che i giovani si [69] sono fra loro piaciuti, anche senza il consenso dei parenti, detto matrimonio alla maniera de' ganharvi[131] o svayamvara, e in uso presso i guerrieri. Di questa seconda forma di matrimonio abbiamo nella letteratura indiana parecchi esempi illustri; così la ninfa Çakuntalà sposa il re Dushyanta, la principessa Damayantì il re Nala, Sità il principe Ràma, Dràupadì il guerriero Arg'una, Devayànì il re Yayàtì, il quale ultimo tuttavia ricusa[132], perchè stima, da quel pio re e devoto ai sacerdoti ch'egli è, che il padre solo abbia diritto di disporre della propria figlia. Nel Mahàbhàrata, vien detto che il matrimonio, per via di svayamvara, ossia in cui la fanciulla si elegge lo sposo che più le piace, è caro ai poeti[133].

Di fatto, i poeti hanno nella descrizione di tali scelte nuziali occasione di sfoggiare tutta la loro arte. Le assemblee di principi, nelle quali la giovine principessa si elegge lo sposo, le prove che i pretendenti hanno a dare del loro valore, l'incoronamento dell'eletto per parte della fanciulla[134], sono un campo ove l'immaginazione del poeta può accendersi e animare al nostro sguardo pitture vivissime. Poichè raro è che uno svayamvara non sia accompagnato da una gara di valore fra i contendenti. La sposa si ha da conquistare. Indra con la forza conquista Sità, nel Rigveda, Ràma suo successore, nel Ràmàyana, la conquista per mezzo della prova di un arco meraviglioso, cui nessuno riusciva a trattare; Bellerofonte, per varii cimenti superati, conquista la [70] figlia del re Proeto. Alla sposa de' poeti e de' racconti popolari piace lo straordinario; perciò lo sposo deve mostrarsi mandato dal destino, o predestinato con qualche miracolo; chè, secondo il proverbio, gli sposi Dio li fa e poi li accoppia[135]. E di grandi miracoli sono autori gli sposi delle leggende care al popolo; tale, per esempio, il Sigifredo e il Sigurd dell'epopea germanica e scandinava. I contendenti scommettono l'impossibile[136], e alcuno si trova pur sempre che deve vincere.

In una novellina greca[137], ove tre fratelli vincono tutti, il re non sapendo decidere chi di loro meglio valga, per levare di mezzo ogni invidia, sposa esso stesso la fanciulla disputata.

Nel Pan' c' anada (odierno Pengiab), i Greci d'Alessandro avevano notata una tribù, presso la quale i giovani e le ragazze si eleggevano da sè stessi in matrimonio. La tribù doveva al certo essere guerriera, come ce lo confermano gli odierni bellicosi principi e briganti Rag'puti, i quali, malgrado il vicinato degli Inglesi, assai gelosi delle loro antiche tradizioni, non hanno dismesso il poetico uso dello [71] svayamvara. Il signor Chiefalà, nella sua Descrizione della città di Benares[138], scrive: «Quando una principessa di Ragaa (tribù reale) era in età di maritarsi e le si dava il permesso di scegliersi lo sposo, allora veniva condotta in un giardino ove si trovavano radunati molti giovani della sua tribù, fra' quali lo sposo a suo piacere essa indicava. L'uso della cerimonia per manifestare il loro assenso era il seguente. Tenea essa una ghirlanda di fiori, la passava al collo di colui che volea per isposo, il giovane la riceveva ed in segno di acconsentimento la teneva al collo senza restituirla, e con ciò l'accordo era fatto, e si sposavano. Questa usanza esiste ancora al giorno d'oggi e si pratica presso i Marattes, e dovunque hanno essi dominio proprio.» Nel così detto nostro medio evo, lo svayamvara doveva essere pure in onore presso certe tribù slave e presso i Tedeschi e gli Scandinavi. Io lo argomento, per le prime, da un bel canto popolare russo, che ricevo da Tarszok, evidentemente antico, il quale dice:

Io sedeva nel castello,
Io infilava le perle
Sopra il rosso velluto.
Non so di dove, arrivò uno splendido sparviere,
Egli agitò l'ala destra,
Egli toccò il piatto,
Il piatto d'argento,
E disperse le grosse perle
Fino all'ultima,
E la fanciulla incominciò a piangere,
Mentre le stava innanzi il padre.
[72]
«Non piangere, fanciulla mia,
Io inviterò per te i principi, i boiari;
Essi raccoglieranno le tue grosse perle,
Fino all'ultima.»

Quanto ai Tedeschi, sono un documento sufficiente, per dire dei più noti, i Nibelunghi, come per gli Scandinavi, le Edda e la saga di Ervora, e per i Franchi, i Reali di Francia, dove il re Erminione fa bandire un torneamento, al quale intervengono molti signori per isposare Drusiana. È uno svayamvara il matrimonio medievale della principessa Teodolinda col re Autari suo ospite.

La leggenda greca del matrimonio di Elena disputata da trenta garzoni, e la scelta fatta da Menelao, rilevano dal mondo eroico ellenico la medesima usanza, che, secondo Ateneo[139], era pur viva tra i Marsigliesi, presso i quali la fanciulla, in un convito, offriva la tazza a quello de' giovani, che più le piaceva.

Ne' nostri usi popolari la fanciulla generalmente si elegge lo sposo; quindi i parenti, se non hanno nulla in contrario, dispongono l'affare.

Così è degno di osservarsi, come presso il Ramayan.a[140], Ràma e Sità, quantunque sposati, per via di svayamvara, si uniscono col pieno consenso dei loro genitori. Se non che le nostre fanciulle del popolo, invece di troni nelle assemblee, si contentano di una povera panca nelle stalle. Questa panca, che non manca neppure alle capanne dei Russi e dei Finni[141], è destinata a ricevere i giovani pretendenti. [73] Nel contado di Bra, in Piemonte, i giovani vanno insieme alla stalla, dove siede la dama de' loro pensieri; l'un dopo l'altro si recano a corteggiarla, e quando alcuno indugia troppo, si scuotono i gioghi delle bovine, per fargli intendere che è tempo di levarsi e di lasciare il posto a chi vien dopo.

Nelle stalle del Canavese, le fanciulle da marito si siedono sopra la lunga panca; i giovani, che, per lo più, dopo avere vittoriosamente cantato la Martina, entrarono nella stalla, sono ricevuti alla panca. Ed il ricevimento ha le sue formalità. Qualunque giovane che sia seduto presso la mariora o fanciulla da marito, se un altro giovane arriva, deve cedergli il posto. Il mancare a questo riguardo è cagione talvolta, nel Canavese, di spargimento di sangue. A Riva di Chieri il giovane che visita la fanciulla da marito può sperar bene, se egli viene invitato a ritornare.

A Pinerolo, la fanciulla, va ad accendere il fuoco, quando un damo le deve piacere, ed insieme coi parenti si beve; il non fare, come la chiamano, tale onestà, val quanto congedare il pretendente.

Nella valle di Andorno, la fanciulla lascia cadere a terra il fuso perchè le sia raccolto dal giovane, al quale vuol dare speranze, cui essa poi consola intieramente, quando gli mette in mano delle nocciuole.

Nella campagna d'Alba, il giovine, entrando nella stalla, getta alla fanciulla un fazzoletto; se la fanciulla lo ritiene, egli pure è ricevuto; se invece glielo restituisce, deve tenersi per congedato.

Nell'Abruzzo Ultra I, il giovine porta la notte, all'uscio della ragazza un ceppo di quercia, detto tecchio; se il ceppo è messo in casa, il pretendente può [74] entrarvi anch'esso; se invece, il ceppo è lasciato ov'egli il lasciò, al giovine non resta altro partito, se non quello di ripigliarsi, in modo che nessuno lo vegga, il ceppo, e ritentare, se gli piace, la prova ad altri usci. Un uso simile incontrò il prof. Ferraro a Serra San Bruno di Calabria: «l'amante usa di notte mettere davanti alla casa della ragazza, da lui presa ad amare, un ceppo vestito di nastri, fazzoletti, ecc., se il ceppo è ritirato, la ragazza accetta l'amor suo; se no i parenti dicono: non abbiamo figlie da marito, e allontanano il ceppo.»

Nel Montenegro, come apprendiamo dai signori Frilley e Wlahovic[142], la domanda della sposa è fatta da alcuni delegati dello sposo o proszi (chieditori). Siedono a tavola, bevono tre volte; quindi il capo dei chieditori offre da bere alla fanciulla. Se essa accetta, è segno che i parenti consentono; allora il rappresentante dello sposo dà quasi per caparra, come presso i Pugliesi, una mela, nella quale è conficcata una moneta, che la fanciulla consegna al padre, al fratello, o, insomma, al capo di casa.


VII.
Gli sposi si provano.

Dopo essersi eletti, gli sposi si provano. Le prove più semplici si usano nel Pesarese e in Terra d'Otranto. [75] Nel Pesarese, il giovine invita la fanciulla a varii lavori campestri o domestici, per misurarne la forza e la destrezza, avvertendo, quando si batte il grano, di mettersi petto a petto, innanzi ad essa; al che rifiutandosi una delle parti, si avrebbe il rifiuto come un segno di corruccio. E cosiffatti esperimenti, per lo più, si rinnovano.

Al Capo di Leuca, nel distretto di Gallipoli, è la sposa che prova la robustezza dello sposo. Un giovane non merita d'impalmare alcuna ragazza, finch'egli non abbia almeno portato lo stendardo (cacciatu lu stennardu) nella processione, che si fa per la festa del santo del luogo, e nell'aver fatto il Battente «si tiene tanto, scrive il signor De Simone[143], a queste prove che ho udito dire in un rifiuto di matrimonio da parte della madre della sposa: vole sse'nzura (l'uomo richiedente) e nu ha cacciatu ancora lu stinnardu.» Nei luoghi in cui fanno tuttavia le processioni dei Battenti, guardasi al sangue che spruzza dai loro corpi flagellati; chi ha il più bel sangue, è il giovane alla moda; se pure non avesse fatto almeno una volta il Battente sarebbe rifiutato, quando offrisse la mano sua a qualche ragazza.

È ancora una specie di svayamvara della donna, il quale mi richiama ai vari casi riferiti nel Libro dei Giudici, di donne date come premio al valore dell'uomo, e all'uso degli antichi Scandinavi, presso i quali, verso il Natale, o propriamente, nel solstizio d'inverno, le fanciulle indicavano ai loro amanti il fatto eroico, che essi dovevano compiere per meritare la loro mano. [76]

Nell'Arpinate, le fanciulle misurano l'amore dei fidanzati dal colore del nastro, onde essi avvolgono, nella domenica delle Palme, il ramo d'ulivo che portano loro dalla chiesa. Se il nastro è giallo, indica trattare la fanciulla da pazza; se verde, che la si vuol tenere in sola speranza; se rosso, guerra; se bianco, pace; se turchino, amore[144].

Nell'Ascolano, per la festa di Sant'Emidio, gli sposi arrivano alla piazza dell'Arringo in Ascoli. La sposa si mette in mezzo; suonatori che strimpellano, mimi che fanno smorfie d'ogni maniera ridicole, si mettono attorno alla sposa, per provocarne il riso. Guai se la sposa ride! ella non sarà una buona massaia, nè una donna prudente; e lo sposo perciò l'abbandona al suo destino.

Nella campagna di Perugia, ora lo sposo, ora la suocera provano la sposa; le si presenta una polpetta; la sposa deve ingoiarla intiera o sana, come dicono nell'Umbria; se, invece, ella stenta a mandarla giù, se ne levano sinistri augurii.

A Riva di Chieri, in Piemonte, quando, nel primo giorno delle nozze, si porta in tavola il tacchino, la sposa deve prontamente alzarsi; se non lo fa, si porta uno scaldaletto sotto la sua sedia, dicendosi che la sposa è fredda e bisogna riscaldarla.

A Pinerolo in Piemonte, a Pernate nel Novarese, e a Gallarate in Lombardia, la suocera sbarra la porta con una scopa; se la sposa è prudente, deve alzarla e portarla al posto suo; se invece vi passa sopra, vorrà essere una cattiva massaia. [77]

Nella montagna di Pistoja[145] e nel Campidanese in Sardegna si prova l'amore del giovine, con lo scambiarle la ragazza. Ma, in Sardegna, propriamente, lo scambio è fatto al padre del giovine, che va, per suo desiderio ed in suo nome, a fare la chiesta della fanciulla. Il messaggiero arriva, e, adoperando un linguaggio che ci trasporta ad una età affatto patriarcale, dice: «Io vengo a cercare una giovenca bianca e di una bellezza perfetta che voi possedete e che potrebbe fare la gloria del mio gregge e la consolazione de' miei vecchi anni». Gli ospiti comprendono, ma dissimulano e rispondono con linguaggio altrettanto figurato; e alfine, mostrando di consentire, presentano l'una dopo l'altra le donne della casa, all'infuori dell'aspettata e soggiungendo sempre: «è questa che desiderate?» Sul diniego del forestiere, simulando di averla lungamente cercata, ritornano, all'ultimo, con la fanciulla richiesta, la quale si lascia trascinare come per forza. Il forestiere allora si alza, batte le mani e grida: «è quanto io desidero»[146].

Anche nell'India, secondo il Kàuçikasùtra, sul punto di partire viene scambiata la sposa allo sposo; nell'Annoverese, si mettono le donne in giro intorno alla sposa; si porta via il lume e lo sposo deve afferrare la sposa; se afferra invece un'altra, sinistro augurio; ed egli stesso è oggetto di ridicolo. Ho già notato come il nostro giuoco della moscacieca debba riferirsi ad una tale usanza. [78]

In Isvezia, nella Slesia superiore polacca, presso Saarlouis, e nella campagna di Pistoja, invece della sposa, conducono prima al giovine la più vecchia donna della casa, la quale viene così esposta alla berlina.

In altre forme ancora si provano gli sposi nell'India e in Germania.

Negli usi del popolo tedesco, il fidanzato, per accertarsi che la fanciulla con cui egli ha parlato sarà moglie pulita e massaia, fa portare del cacio e lo affetta, offrendone alla fidanzata; se questa mangia il cacio senza nettarlo, lo sposo è minacciato che la fanciulla non gli farà, qual moglie, buona compagnia[147].

Secondo Açvalàyana, una delle prime cose che si ha da cercare nelle nozze indiane, è la onestà della famiglia; la figlia dev'essere data ad un uomo prudente, la donna dev'essere saggia, bella, costumata e fornita di buoni segni (lakshanya, indizii). L'amante perciò mette insieme otto acervi di terra levata da luoghi diversi, e parla a ciascuno di essi così: «L'ordine è la prima cosa, nell'ordine sta la verità; dove questa fanciulla è nata, là essa vada». (Ossia mostri con questa prova augurale, di qual casato essa sia e qual parentado essa meriti). «La verità si faccia palese,» quindi rivolto alla fanciulla, le dice: «piglia uno di questi».

Se la sposa eleggeva la zolla d'un terreno che si fecondasse due volte l'anno, era prova che alla sua prole non sarebbe mai venuto meno il cibo; se la [79] zolla del terreno levato da una stalla, prenunziava ricchezza di bestiame; se la polvere di zolla levata dal circolo ove si celebrava il sacrificio, era segno di molta devozione; se la zolla estratta da un lago che si disseccasse, rivelava prudenza e cortesia in ogni cosa e con tutti; se la zolla formata da un terreno ove si giuocasse, minacciava passione al giuoco; se la zolla di un trivio, si tradiva impudica; se la zolla di landa, si manifestava infeconda; se la zolla di sepolcro, avrebbe ucciso il proprio marito. Altri augurii analoghi a questo, fatto con gli otto acervi, possono ancora riscontrarsi ne' sùtra.

A Tarnassari, sopra la costa del Coromandel, secondo la relazione del nostro viaggiatore Ludovico Barthema[148], vigeva, nel secolo decimosesto, quest'uso: «Sarà un giovine che parlerà con una donna d'amore e le vorrà dar ad intendere che con tutto il cuore le vuol bene e che non è cosa al mondo che per lei non facesse, e stando in questo ragionamento piglierà una pezza ben bagnata nell'olio e appiccagli dentro il fuoco e se lo pone sopra il braccio a carne nuda e mentre che quella brucia egli sta a parlare quietamente con quella donna e senza una minima perturbazione non si curando che s'abbruci il braccio, per dimostrar a colei che gli vuol bene e che per lei è apparecchiato a fare ogni gran cosa.»

A Pernate, nel Novarese, la prova a rovescio; è lo sposo che, per assicurarsi se la sposa lo ama, le dà un pizzicotto.

Ma la più comune, pur troppo, delle prove, e più conforme agli usi moderni, è quella che si ricorda in un canto popolare Albanese, alla quale sola, mentre [80] forse tutte le altre scompariranno, si può assicurare l'immortalità:

Tu, se mi vuoi per moglie,
Mantieni costante la fede,
Quattro, cinque, sei anni,
Non per domani, doman l'altro o sta sera,
Su, va all'estero,
Va, lavora in Oriente!
E con il lavoro raccogli denaro,
E poi vedrai che io vengo[149].

VIII.
L'autorità del padre e del fratello nelle nozze.

La famiglia è una monarchia, dove il padre fa da re; se il padre manca, il maggiore de' fratelli ne sostiene le veci.

I re sogliono considerare il regno come una loro proprietà; così il capo di casa o capoccia, come lo chiamano in Toscana e nell'Umbria, in molti codici umani, possiede moglie e figli, come chi dicesse, greggi e campi. Il marito arriva a espropriare il padre o il fratello maggiore, il capoccia, in somma, di quello ch'egli tiene per suo; e diventa proprietario alla sua volta. L'inno vedico, alla fanciulla che si sposa dice esplicitamente: io ti sciolgo di qui (cioè dal padre), ma non di qui (cioè non dal marito); e [81] queste parole possono servire per i legisti di lucido commentario al disputato mundio. Nell'India, come si può agevolmente scorgere dalle leggi di Manu, l'autorità domestica è tutta presso il padre; ed, ove il padre manchi, presso il fratello; sono essi che dispongono della figlia o sorella, la quale non può in alcuna maniera da sè emanciparsi; è necessario che il pretendente la domandi a' suoi proprietarii, e, in certo modo, la compri[150].

Nel Diritto romano, l'autorità paterna non solo è monarchica, ma dispotica, assoluta; il padre ha diritto di vendere il figlio, poichè ha diritto di ucciderlo[151].

L'autorità materna non conta invece nulla, poichè le madri non posseggono i figli; i figli possono quindi liberamente sposarsi senza il consenso della madre, ma nol possono, ove il padre loro padrone nol voglia[152].

Il Diritto longobardico e il comunale italiano si modellarono, per questo articolo, intieramente sopra il Diritto romano; ma il primo raddolcisce alquanto il decreto, facendo partecipe anche la madre nella facoltà di vietare o permettere[153]; gli Statuti di Riva di Trento[154] restringono il caso di colpa alle nozze [82] volontarie d'una fanciulla, senza il consenso paterno, o fraterno, od anche materno, se il padre e il fratello manchino, con un uomo infame o di troppo bassa condizione; gli Statuti di Lugo finalmente, che pure manifestano carattere ferocissimo, permettono ai figli una scappatoia, notando come il padre od il fratello o l'avo e quanti hanno, in somma, la facoltà del divieto, debbano godere del pieno uso della ragione. Si vede bene che la legge formidabile dovea contraddirsi e mostrarsi più clemente nell'uso. L'uso era già più umano della legge presso gli stessi legislatori; ed a me basta per rendermene persuaso questo bel passo di Ennio, onde si scorge come la vittima non muovea sempre silenziosa al supplizio e riusciva alcuna volta a commuovere il suo sacrificatore: «O padre, io sono da te indegnamente offesa; poichè, se tu giudicavi tristo Cresfonte, per qual motivo a lui mi destinavi in moglie? se onesto, perchè mi obblighi contro mia voglia a lasciarlo, quando egli mi vuole?»[155].

[83]


IX.
Nozze per ordine superiore.

Notai di sopra, come la casta guerriera abbia mostrato, più di ogni altra, rispetto alla donna; ma alla casta guerriera corrispondeva pur troppo, nel medio evo, un reggimento feudale; e nel reggimento feudale, la sola padrona rimaneva donna; il resto, o maschio o femmina che fosse, si considerava come cosa vile e venale. La libertà de' matrimonii era fra gli infimi vassalli interdetta; e, mentre pur si voleva si moltiplicassero perchè si moltiplicassero le braccia al lavoro, ciò si voleva in quel modo e con quelle condizioni che piacesse meglio al signore di imporre. Tra i Lettoni, per relazione del signor Henriet, prima dell'ultimo decreto imperiale per la emancipazione de' contadini, si raccoglievano in un determinato giorno di festa dal padrone i giovani e le ragazze della terra in una osteria; rinchiusi nell'osteria per un'ora, il fattore distribuiva loro noci e pane pepato. Ricevuto il qual dono, proprio delle nozze[156], i giovani [84] e le ragazze si sceglievano e uscivano quindi, a due a due, dall'osteria per farsi benedire.

Della proprietà sembra lecito il disporre a piacere; finchè pertanto resta per legge o l'uso tollera che il lavoratore sia un annesso della terra lavorata per il signore, quest'ultimo può trattare l'uomo e la terra al modo medesimo. Non recano quindi meraviglia le sentenze delle Assisiæ Hierosolym[157], che proibiscono il matrimonio di alcun contadino, sia maschio o femmina, al di fuori della terra, senza che il signore della terra in cui il contadino è passato ne restituisca l'equivalente al proprietario.

Sopra i servi della gleba aveva dunque il signore [85] feudale potestà suprema per le nozze; egli le ordinava od impediva a sua posta; le ritardava, interrompeva, aggravava senza che alcuna autorità venisse a limitarne gli arbitrii. E potrebbe forse essere un resto infelice di tali consuetudini l'uso che, scomparso quasi intieramente in Francia, si mantiene ancora in Piemonte dove la contadina che si sposa porta al suo padrone una specie di coccarda fatta con nastri, la quale chiamano livrea. Cosiffatta livrea viene pure distribuita fra le varie persone che gli sposi intendono invitare alla festa nuziale, e particolarmente al banchetto dove il padrone interviene, se egli lo voglia, come di diritto[158].

Qualche riserbo maggiore si osservava nelle forme, quando la sposa non era già una contadina, ma soltanto una vassalla sottoposta al gran feudatario. Il feudatario le domandava quello che nel medio evo chiamavano maritagii servigium. Egli mandava tre de' suoi baroni alla donzella, con l'intimazione: Signora, voi mi dovete il servigio di maritarvi[159]. Essa era costretta [86] ad eleggerne uno. Permesse le nozze, dovea quindi pagarsi con più maniere di balzelli al feudatario il nuptiaticum o diritto di nozze, il più esecrando de' quali che aveva nome marcheta, dovrò più oltre illustrare[160]. All'incontro, se il feudatario menava moglie, non pagava nessun tributo ad alcuno, fuorchè al re, e imponeva a' suoi vassalli un tributo novello, chiamato auxilium od aiuto. Che al re si dovesse una specie di tributo per nozze, lo argomento dal brano di una carta di Enrico III re d'Inghilterra, ove si proibisce a' signori qualsiasi maritaggio senza il consenso reale[161].

Nel Dekhan, il re ha facoltà d'imporre un maritaggio, quando un pretendente rifiutato gli si presenta a cavallo di alcuni rami di palma, lacero e insanguinato per le ferite, onde il proverbio dekhanico: «per gli amanti disperati non vi è altra salvezza che il cavallo fatto con rami di palma[162].».

[87]


X.
Nozze per procura.

Non so se abbiano usato altrove che in Europa, in altro tempo che nel medio evo, fra altra gente che principesca; e se usino oggi ancora tra principi, confesso di non sapere; ma credo saper certo che le formalità le quali usavano nel medio evo per una tal cerimonia sono oggi dismesse. L'incaricato, per parte dello sposo, aveva il diritto di mettere, come in segno di matrimonio consumato, una gamba sopra il letto della sposa. Ove gli ambasciatori erano più di uno, come nel caso di Pipino con la Berta d'Ungheria, presso i Reali di Francia, suppongo che un tal diritto fosse riserbato al più anziano. L'ambasciatore portava, in nome dello sposo, alla sposa i doni e l'anello; e con l'anello sposava. Quando il re Ottone manda di Germania alla prigioniera Adelaide un suo ambasciatore con l'anello, intende significarle ch'egli la tiene già per propria sposa. Tal senso ha pure l'anello coi doni, che, ne' Canti Illirici, il re Stefano manda alla giovine Roskanda, convertendo in svat o procuratore il suo ministro Teodoro. [88]


XI.
Monogamia, poligamia e poliandria.

Come il celibato, per chi non faccia professione di astinenza[163], è un delitto contro la società, così la poligamia, la quale, se non distrugge intieramente, pregiudica assai il principale elemento della società ch'è la famiglia. L'uso indo-europeo, rispettando la santità della famiglia, si fonda sopra la monogamia; ma, come non vi ha legge che non si violi, così non vi ha, si può dire, uso che non diventi abuso. L'abuso cerca giustificarsi con pretesti; e non mancano ai poligami pretesti mitologici. Gli Olimpi sono pieni di apparenti contraddizioni e anomalie; prese queste apparenze come leggi alla vita terrena si rischia di spostare ogni principio di economia sociale. Il dio od eroe si presenta alcuna volta con una donna sola, per la quale mette in moto e scompiglio cielo e terra; [89] talvolta invece si abbandona ad ogni nuova figura della bellezza, ora schiavo alle lusinghe di una donna, ora suo instabile seduttore.

Ove sono poligami gli dêi, è naturale trovare poligami anche gli eroi che appaiono come la loro seconda forma. Nel Ràmàyana, sono illustri le due mogli di Daçaratha; nel Mahàbhàrata, le due mogli di Pàndu; e le due mogli epiche appaiono per lo più come rivali. I Nibelunghi e le Edda, con la leggenda delle due donne amate da Sigifredo-Sigurd, e rivali, sembrano avere alcuna coscienza della poligamia eroica. La stessa rivalità si manifesta nella leggenda semitica delle due mogli di Abramo, e, come parmi, anche delle due mogli di Giacobbe.

Ma la poligamia non è necessaria nel mito, dove anzi vediamo, per lo più, l'eroe fedele all'unica sua sposa, la quale ora egli muove a conquistare, ora a ritogliere dalle mani del suo rapitore; nell'uso, la poligamia è proscritta, e la legge la condanna, sebbene talora lo stesso legislatore abbia peccato o pecchi in contrario. Questo è il caso di Augusto, il quale, come abbiamo da Svetonio, per impedire la troppo frequente mutazione di matrimonii, pose un freno alla facoltà del divorzio, mentre egli stesso nella sua vita diede esempii affatto contrarii. Bigamo fu Antonio, secondo il racconto di Plutarco[164]. E l'imperatore Carino menò ben nove mogli, come ci riferisce Flavio Vopisco[165]. Giulio Cesare aveva conceduto per legge il diritto d'esser poligamo ai soli Quiriti; ma la legge, [90] comunicata ad Elio Cinna tribuno della plebe, non ebbe l'onore della promulgazione[166].

Della poligamia presso gli Ateniesi, discorre Ateneo[167]; egli cita pure l'esempio dell'eroe Priamo poligamo, senza che Ecuba se l'abbia per male; ma non si parla qui propriamente di più mogli, sì bene di concubine, oltre la moglie. Così, ragionandosi delle donne di Teseo, si dice ch'egli rapì Elena, Arianna, Ippolita e le figlie di Cercione e di Sinide, e sposò invece legittimamente Melibea madre di Aiace. Più mogli effettive ebbe invece Filippo il Macedone; e così parecchi altri sovrani, i quali si fanno lecito e legittimo ogni arbitrio. È famosa, fra tutte, per le sue conseguenze, la poligamia di Arrigo VIII d'Inghilterra. Alfonso X, re di Spagna, voleva, alla maniera degli odierni Parsi, sostituire alla prima moglie che gli pareva sterile una seconda capace di far figliuoli; ma, mentre le nozze si combinavano, la prima moglie s'ingravidò; preoccupato soltanto della successione, il re lasciò andare la nuova sposa, che, dotata, consegnò al proprio fratello.

Il trovare in parecchi de' nostri Statuti un articolo a posta per punire i poligami, ci prova come spesso in Italia si dovesse, nel medio evo, infrangere l'uso della monogamia. Negli Statuti di Trento[168], i bigami sono multati, e se non pagano, frustati; in quelli di [91] Rovigno[169], frustati, spodestati ed esiliati; in quelli di Civitavecchia, se non pagano, bruciati vivi; in quelli draconiani di Lugo, multati senz'altro nel capo, purchè il matrimonio siasi consumato[170].

Meno frequenti, invece, i casi di poliandria; ma pure ad essi accenna alcuno de' nostri Statuti[171], e presso gli antichi Britanni, per memoria di Giulio Cesare[172], e presso gli Spartani, per memoria di Senofonte e Polibio, volendosi accennare ai soli Indoeuropei, intieramente conformi all'uso. Nelle leggende indiane, sono famose una ninfa che sposò dieci fratelli, Gàutamì che sposò sette sapienti, Dràupadì che sposò i cinque fratelli panduidi[173]; ma è preziosa la confessione dello stesso Mahàbhàrata che riferisce tali casi di poliandria, e li dice contrarî alle usanze [92] ed alle leggi vediche[174]. Di maniera che sembra doversi supporre qualche ragione fisica ed economica aver solamente determinato i Britanni e gli Spartani ad uscire dalla legge generale. Il Wilson lasciò scritto: «Fra gli abitatori del Butan, una famiglia di fratelli possiede una moglie in comune, ed osservando la sterilità del paese in cui prevale usanza siffatta, non è troppo necessario il domandarsi qual sia il motivo di un tale accomodamento. Egli è probabilmente lo stesso motivo, quello cioè, d'uno scarso nutrimento, che portò fra gli Sciti la stessa usanza, secondo che ci insegna Erodoto. Meno agevolmente si spiega per qual ragione la tribù de' Nairi del Malabar segua un tale costume; pure, poichè vi son traccie di parentela, quantunque omai dissipate, fra questi e la gente dell'Himàlaya, esse traccie indicano che i Nairi poterono venir dalle montagne e portare con sè quell'usanza»[175]. Al che il professore Foucaux, il quale ha riportato le parole del Wilson[176], soggiunge il nome dei Dardi, tribù montanara del Kaçmira, ove una sola donna è moglie di più fratelli, e quello degli isolani di Lancerote, nelle Canarie, ove, secondo l'informazione di Béthencourt, viaggiatore del secolo decimoquinto, ciascuna donna, per lo più, bastava per tre mariti.

[93]


XII.
Nozze fra parenti.

Vi sono due correnti nell'uso indo-europeo; nell'una, le nozze fra i più intimi, per non perdere la nobiltà della propria razza, si favoriscono; nell'altra, a rinfrescare il sangue ed animare i commerci, e a raddoppiare la vita, si cercano le nozze fuori del proprio circolo e talora fuori del proprio paese. Quando i paesi sono nemici, le nozze pigliano forma di un rapimento. Nell'India, abbiamo consigli, perchè i membri di uno stesso gotra non si ricongiungano; ne abbiamo poi altri che hanno vigore di legge, i quali non permettono alle caste di mescolarsi. Il solo Buddha appare spregiudicato: suo padre Çuddhodana disposto a farne la volontà dice pertanto al sommo de' bràhmani: «Se si trova una fanciulla che possegga tali qualità (cioè quelle che Buddha ha descritto), sia ella di razza kshatriya, o bràhmanica, o vàiçya, o çùdra, menala qua. E perchè no? Il giovinetto non bada nè alla famiglia, nè alla razza; il giovinetto sta attento alle sole qualità»[177]. Quanto meno tollerante per questo rispetto l'Occidente, ove ora si vieta al popolano di sposare una nobile, ora ad una nobile di sposare un popolano. Tucidide narra[178]: «I popolani di Samo si sollevarono [94] contro gli ottimati, in ciò aiutati dagli Ateniesi che vi si trovavano con tre navi, ne uccisero in tutti dugento incirca, quattrocento ne confinarono e si divisero le loro terre ed abitazioni. Dopo di questo, avendo gli Ateniesi accordata loro con decreto l'indipendenza in premio di fedeltà, governavano d'allora in poi la repubblica da sè, esclusero da ogni diritto i possidenti di terre, e vietarono a qual si fosse popolano di menar moglie nobile, e di sposare ai nobili le proprie fanciulle». In Roma, fino alla legge Canuleia, era vietato ai popolani di sposare donne patrizie e ai patrizii di sposar popolane; il qual pregiudizio, malgrado la legge Canuleia, e malgrado la rivoluzione francese, si accarezza oggi ancora dal patriziato, al quale non so quanto prosperi; poichè nello studio di farsi un erede, raro lo trovano; chè, siccome da una botte vuota non è da cavar vino, così neppure alcun seme, altro che poco e tristo, da piante intisichite. E i nostri Statuti comunali assai poco democratici, per la massima parte, mantengono vivo l'infelice privilegio: valga d'esempio il decreto che segue[179]: «Non sia lecito a persona alcuna far parentado con signori, caporali, ed altri principali dell'isola, così di qua come di là de' monti senza la solita licenza». La licenza naturalmente non si dava, se potesse dispiacere al capo della casa con cui si volea stringere il parentado. Più umano l'editto di Rothari, pone soltanto per condizione che la fanciulla non sia una schiava, la quale il padrone non poteva sposare, se prima non l'avea messa in libertà[180].

[95]

Non potendosi, col progresso de' tempi e con la civiltà, proibir sempre e per tutte le nozze fra gente di condizione diversa, si volle almeno bandire dalle nozze coi cittadini il forestiero. Già i Romani proscrivevano da ogni connubio con i cittadini colui che non godeva della romana cittadinanza[181]; ma, quando la legge è troppo stretta, l'uso l'allarga da sè ed allargata la fa ricomparire, e a suo tempo riconoscere, sotto la forma di nuova legge; così si spiega che Valentiniano e Valente abbiano per legge escluso dal connubio coi Romani i soli barbari non appartenenti alle provincie dell'impero; finchè i barbari, così detti, arrivarono da sè e si misero in casa nostra e la fecero casa loro, e disposero de' connubi a modo e usanza loro.

Ma l'amor del campanile cionondimeno è rimasto in Italia e le mamme nostre continuano ad aver paura di forestieri e forestiere. Nella valle d'Andorno, le madri dicono alle figliuole che le piante forestiere lassù non fanno buon frutto, e hanno un proverbio loro che dice: alle veglie ed ai balli mai sotto il ponte della Balma. Ora questo ponte è al fine della valle, e vogliono [96] significare con ciò, che vi è pericolo a passarlo o a lasciarlo passare; il che non toglie tuttavia che l'accolgano bene e direi quasi cavallerescamente, quando un forestiero arriva. Il modo è questo, secondo una descrizione che mi venne favorita dalla gentilezza del compianto Mons. Losana vescovo di Biella. «Ad un'ora di notte veste lo sposo gli abiti di mezza festa, si caccia un pistolone nella saccoccia, e sotto l'ascella, e solo od anche accompagnato da qualche coetaneo, si dirige verso il Cantone dove spera trovar corrispondenza d'amore. Giunto alle prime case, spara un colpo, segnale alle veglie, che vi arrivano amorosi. Immantinente i giovani del paese escono ad incontrarlo e trovatolo in abito di etichetta coll'indispensabile cappello, si fanno rimettere l'arma e l'introducono in quante veglie egli desidera, nè più l'abbandonano finchè chiegga esso di ritornare a casa. Allora l'accompagnano sino al luogo dove l'hanno trovato e restituitagli la pistola e fattegli alcune cortesie, lo lasciano andare. Nelle notti susseguenti, ritornando, lo stesso segnale, la stessa accoglienza, la stessa compagnia finchè l'amoroso non sia fidanzato».

In Toscana, un proverbio dice: moglie e buoi de' paesi tuoi, e uno stornello canta:

Pampani e uva
E la mia mamma sempre lo diceva,
L'amor del forestiero poco dura.

E fanno eco a queste popolari sentenze, i rigorosi divieti presso i nostri Statuti comunali di sposar gente forestiera[182].

[97]

Ora, in Italia, pur troppo, forestiero non vuol dire uomo d'altra nazione, ma d'altro campanile; sì che, restringendosi sempre più i limiti de' connubii possibili, non è meraviglia che lo stesso sentimento d'orgoglio, d'indipendenza, d'egoismo, abbia portato, presso certi popoli, l'uso delle nozze tra i parenti, anche tra i più stretti.

In Toscana, quando due non si possono mettere d'accordo dicono: Fra me e te siamo parenti, non ci si può pigliare. Il proverbio va dietro il Diritto romano, che escludeva il connubio fra ascendenti e discendenti e fra parenti collaterali fino al settimo grado[183].

Ma de' più solleciti a violarlo furono per l'appunto imperatori romani. È celebre la risposta che la matrigna di Antonino Caracalla diede al figliastro, che l'ammirava ignuda[184]: detto e fatto scelleratissimi, [98] che la legge avrebbe puniti, se non si chiamava col nome poco onesto di Augusto l'iniquo incestuoso; poichè di Augusto, Caligola si compiaceva narrare che il suo incesto con la figlia Giulia avea dato il giorno alla madre di lui, mostro. Nè potè valere a Claudio il suo espediente, per sottrarsi ad ogni biasimo, quando sposata la propria nipote Agrippina, diede a tutti il permesso di fare il medesimo; egli non riuscì a trovare altri imitatori all'infuori di due suoi adepti; ed apparve così alla storia, come uno stupido violator di leggi.

In Grecia le nozze erano solo vietate fra ascendenti e discendenti; non tra collaterali; quindi «non fu cosa turpe, come scriveva Emilio Probo nel proemio al suo libro[185], non fu cosa turpe a Cimone, sommo personaggio ateniese, l'avere per moglie una sua sorella germana; ma ciò, per gli usi nostri, è delitto»; e Caligola che, presso i Romani stupra una dopo le altre tutte le sue sorelle, credo nove, riesce una mostruosa eccezione. E Alcibiade è un'altra mostruosa eccezione presso i Greci, siccome quello che dormì con la propria figlia[186]; egli vuole, com'è [99] noto, far parlare ad ogni costo di sè; ed è con questo intendimento ancora ch'egli, secondo Ateneo, sale sul talamo del re di Sparta, desideroso che si finisca di vantare i re di Sparta come discesi da Ercole, e si incominci col dire che discendono da Alcibiade. Ma ciò ch'era licenza, abuso, delitto per Alcibiade in Grecia, in Persia avea religiosa consacrazione. Più il matrimonio era fatto tra persone intime e migliore si riconosceva. Il Vispered[187] lo dice esplicito: «Io amo quelli che sono sposati con parenti»; e se i parenti erano padre e figlia, madre e figlio, meglio; il matrimonio riusciva privilegiato.

Devoti alle antiche tradizioni, anche gli odierni Parsi riconoscono tali matrimoni come gli ottimi.


XIII.
Come la fanciulla si domanda.

Dove la scelta non è libera tra gli sposi, dove non si celebra il matrimonio, come dicono nell'India, alla maniera de' gandharvi[188], dove insomma interviene l'autorità de' parenti e la festa non è solamente della [100] giovine coppia, ma più forse delle loro rispettive famiglie, ha importanza la cerimonia della chiesta nuziale.

Conosciamo già l'uso che corre in Sardegna; in generale, l'uso italiano è questo, che dapprima si manda innanzi un terzo per esplorare se non vi sia pericolo di rifiuto; quindi muove il padre stesso dello sposo a fare la domanda; in Sicilia, come appare dai canti popolari e dalle informazioni del Pitrè, assume piuttosto un tale ufficio la madre.

Abbiamo, di fatto, un canto siciliano che dice:

— Arsira[189] me' matruzza[190] mi spiau[191]
E mi dissi unni[192] vai, figghiuzzu miu?
— Matruzza, unni la zita mi nni vaju[193]
Ca cc'è 'na bedda[194] di geniu miu.
— Fighiuzzu, 'nsignamillu[195] ca cci vaju
Quantu tanticchia[196] mi nni preju iu[197]
[101]
— Vossia[198], cci dici; senziu nun haju[199]
Pinsannu ad idda di l'occhi nun viju[200].

In Sicilia, e per lo più anche negli altri paesi, il giorno medesimo della chiesta in cui si trattano gli affari, si fa eziandio il puntamento, ossia si fissa il giorno delle nozze. Che il medesimo a Roma si facesse lo argomento da questo brano di Terenzio[201]: «Mosso da tal fama Cremete se ne venne a me spontaneo, per dare a mio figlio in moglie l'unica sua figlia immensamente dotata. Mi piacque; feci la promessa; si fermò questo giorno alle nozze.» In questa prima cerimonia, quando le parti si trovano d'accordo, gli sposi si danno la mano; e l'aver compiuto un tale atto è un primo e forte legame, come lo era per gl'Indiani[202]. Il padre della Tancia al cittadino Pietro Belfiore, dice:

La v'ha data la man, l'è obbrigata
Non ci bisogna su nè sal nè olio[203]

Ma Cecco osserva, nell'atto quinto della commedia, [102] come quello che conchiude è l'aver dato l'anello e detto in chiesa. Entrambi gli usi sono assai popolari e ordinariamente vanno insieme; ma fra il toccamano e il dare l'anello quello che, nella credenza comune, sembra legar più è l'aver dato l'anello della promessa, chiamato dai Latini anulus pronubus, diverso da quello che si dà ora in chiesa dal prete quando benedice le nozze omai combinate e non più possibili a rompersi senza grave scandalo. L'anello della promessa è un pegno di unione futura; l'anello che si dà in chiesa è simbolo dell'unione che si fa. L'uso dell'anulus pronubus è generale in Italia, dato «o per segno di mutuo affetto, o piuttosto affinchè per quel pegno i cuori si leghino[204]». Secondo il Diritto romano, tuttavia l'anulus pronubus non è ancora vincolo legale [103] di matrimonio[205]; lo è invece pel diritto visigotico e longobardico[206], e più poi ne' nostri canti popolari, uno de' quali dice così:

Oh! guarda che bel fior che ha quel roso!
M'è stato detto, amor, che siete sposo.
Se siate sposo ancora non lo so;
Ancora siete a tempo a dir di no.
Se siete sposo ancor non lo so io;
Ancora siete a tempo a dirgli addio.
Quando vi vederò l'anello in dito
Allor ci piglierò pena e partito.
Quando vi vederò l'anello d'oro,
Allor ci piglierò partito e duolo[207].

Ma, checchè ne dica il canto popolare, l'anello non è sempre d'oro; anzi nell'Arpinate e a Fenestrelle è sempre d'argento e a Roma, al tempo di Plinio, era solamente di ferro. Mi piace infine notare come nell'agro Tuderte e in qualche altro luogo d'Italia che ora non mi rammento, chiamano questo anello nuziale la fede, e nel Veneto, la vera; ora vera è parola slava che vale precisamente la fede.

L'anello è dato, per lo più, direttamente dallo sposo [104] alla sposa; ma talora può essere o mandato da esso come nel caso di Ottone I con Adelaide[208], o dato dal principe, in nome dello sposo ch'egli elegge alla sposa, come ne abbiamo un caso presso il Bandello[209], o fatto dare, come ci occorre presso il Doni[210]. Nell'India era una vecchia parente che metteva in dito ai due sposi un anello di ferro[211]. Tra principi si trova pure il caso in cui la fanciulla per ordine paterno si fidanzi per mezzo di un anello, che ella manda allo sposo destinato; e un tale invio, se non la obbliga legalmente, la stringe pur tanto che ritraendosi ella possa provocare un casus belli[212].

[105]

L'anello adunque veramente impegna; è un forte impegno morale che ne vale uno legale; si può scherzare con altro, ma coll'anello della promessa, no; esso è serio per chi lo dà e per chi lo riceve; al qual proposito mi piace rilevare, da un eccellente scritto di Dora d'Istria[213], l'uso che la dotta ed elegante scrittrice ha potuto osservare tra i Serbi: «I pesma sembrano avere inteso a rendere popolari certi assiomi che possono aiutare le fanciulle a distinguere i serii amatori da quelli che presumerebbero abusare della loro semplicità. Come pegno di amore, si dà una mela; come profumo, si dà il basilico; ma l'anello si dà soltanto agli sponsali. In tutte le tradizioni orientali, la mela vien considerata come un simbolo di seduzione. Una mela sedusse Eva, come Atalanta, e per ottenerla dalle mani di Paride, Hera, il tipo della matrona ellenica, e Athene, la vergine austera, consentirono a mostrarsi ignude come Afrodite nel cospetto di un pastor frigio. Una fanciulla serba più prudente che non fosse l'Eva della Genesi, si affretta a gettar sul naso di Mirko la mela ch'egli le offrì: «Io non ti voglio nè la tua mela», grida ella irritata. La sorella di Jovan, non meno corrucciata, manda lungi col piede la mela che Stoiano vuol [106] farle accettare; ma colei che più risoluta sdegna un tal pegno di amore indegno di lei, dolcemente sorride sì tosto ch'ella scorge come nelle mani di Mirko risplende l'anello d'oro, l'anello della promessa.»

Ora, se non fosse indiscreto, vorrei domandare a me stesso di che sia in origine simbolo l'anello nuziale; mi contenterò invece soltanto di osservare come alle vedove che si rimaritano, il secondo marito non usa più offrire l'anello.

Nell'India antica, secondo i sùtra, i due messaggieri d'amore, lasciata la casa dello sposo con le benedizioni di lui, e fiori e frutti, andavano soli alla casa della sposa, si annunziavano al padre, e in presenza di tutti i parenti, esposto prima il loro mandato, scrivevano la genealogia, le virtù e gli averi dello sposo e domandavano la sposa, stando seduti verso occidente, mentre i parenti erano rivolti ad oriente, ossia verso il sole nascente, il primo, il più bello e il più ricco degli sposi. Ove si cada d'accordo, i messaggieri toccano una coppa piena di fiori, grano, frutti ed oro; la stessa coppa veniva quindi posta sul capo della sposa, come augurio di fecondità. Recitata qualche formola, lo suocero riceveva lo sposo, lo faceva sedere sopra l'erba kuça e gli dava a bere latte con miele; lo sposo presentava quindi i suoi primi doni alla sposa.

Nell'India odierna, quando un giovine, compiuti i suoi studi, manifesta il proprio desiderio di pigliar moglie, il padre di lui elegge un giorno propizio, appresta i doni e si avvia con essi alla casa della sposa. Il padre fa la promessa e presenta i doni; il padre della sposa, prima di rispondere, tenta gli augurii; e, ove egli consenta, in mezzo a molte cerimonie si fanno le promesse e si fissa il giorno solenne [107] per le nozze. Ma fra i Bràhmani corre ancora quest'altro uso cerimonioso. Dovendo il giovine, per le nozze, purificarsi d'ogni colpa, la purificazione egli compie per mezzo di alcun dono cospicuo, fatto a qualche sant'uomo della casta. Come penitenza poi, egli assume un sacro pellegrinaggio alla Gangà. L'apparato del viaggio si fornisce in tutto punto, e il giovine fidanzato si mette in via; ma com'egli è appena giunto fuor della città o del villaggio, incontra lo suocero suo, che gli domanda ove sia diretto, e, saputolo, gli offre la figliuola in matrimonio, pur ch'egli desista dal viaggio; naturalmente, il finto pellegrino desiste e si sollecitano le nozze.

Nelle leggi della Germania settentrionale, una delle formole per le quali si facevano gli sponsali era questa: «Io sposo a te la figlia mia per l'onore e pel matrimonio e per la metà del letto, per la serratura e per le chiavi»[214], intendendosi con ciò che il matrimonio dovesse riuscire onorato e che la moglie, oltre alla partecipazione del toro maritale, dovesse assumere il dominio della casa.

In Russia (governo di Mosca), per la domanda nuziale, muove un parente dello sposo e picchia ad una delle finestre della casa dove la sposa abita. Il padre della sposa gli domanda: «Chi siete voi?» Il forestiero risponde: «Sono un mercante di passaggio ed ho buona merce, se voi la volete lasciar entrare.» Il padre lo fa entrare, e si tratta; la fanciulla origlia intanto dalla stanza vicina; se i due contraenti si [108] mettono d'accordo e combinano le nozze, la fanciulla incomincia a levare alti lamenti ed a piangere. — Nel governo di Tver, dopo il consenso degli sposi, incominciano tra i parenti le trattative, che si fanno nel modo seguente: il padre dello sposo si reca in visita presso quello della sposa; ma innanzi di partire, come è l'uso russo, prima d'intraprendere qualunque affare d'importanza, si siede e prega Dio. Presi quindi con sè i doni, s'avvia alla casa della sposa, ove giunto, i due suoceri ripiegano in su un lembo della loro pelliccia[215], e il padre dello sposo dice: «Quello che hai immaginato, facciamolo; battiamo le mani». Allora la palma dell'uno batte su quella dell'altro, e un tale atto in Russia si chiama il battimano; i Toscani, come l'abbiamo veduto di sopra, lo chiamano il toccamano; egli è che veramente i Russi battono ove i Toscani solamente toccano; ma chi assistette alle trattative fra contadini di altre parti d'Italia avrà pure osservato come spesso il suggello de' loro contratti sia un vero battimano. Fatto il battimano, i contadini russi aggiungono: «Dio ci permetta di vivere amici e di visitarci gli uni e gli altri, di mangiare pane e sale insieme, di modo che la buona gente ci invidii.» I nostri contratti finiscono in bere; così i due suoceri russi, terminati gli accordi, si scambiano, oltre ai doni, vino e birra. Si beve, ed in quel punto si dice in Russia, che la sposa è bevuta, ossia ch'ella è fatta. Finalmente il padre dello sposo si congeda dicendo: «avete voi cavalli per portare via la sposa? Se non ne avete voi, manderemo i nostri a prendere [109] la principessa»[216]. Il padre della sposa risponde: «Io stesso la condurrò; non vi recherò codesto disturbo». Alla sua volta, la madre della sposa presenta i suoi doni per lo sposo e pel mandatario, dicendo: «ricevete, signor mandatario, questo per le pene vostre, per averci dato un erede, e questo per il principe[217]: un fazzoletto ed un asciugamano, perchè veda il lavoro della sposa[218]». Dopo di ciò, il mandatario si alza dal proprio posto, ed il padre della sposa piglia il pasticcietto (pirog), preparato per l'occasione, col lembo diritto della pelliccia e lo passa nel lembo diritto della pelliccia del padre dello sposo, il quale, appena ricevutolo, corre, con quanta più prestezza può, verso la propria dimora, senza toccare con la mano il pasticcietto. A una tal forma di chiesta nuziale si riferisce il seguente canto popolare del distretto di Tarszok (governo di Tver), nel quale la sposa destinata dai parenti si circonda, come paurosa, a difesa, delle sue dilette compagne, dei cigni, secondo la sua poetica immagine, e dice:

Tu, mio sostentatore padre,
Non biasimarmi, non metterti in collera,
Mio sostentatore padre,
Se io ho condotto qua la schiera de' cigni,
Le mie care compagne.
Tu, mia carissima compagna N. N.,
Avvicinati a me, alla malinconia amara,
Aiutami a sopportare la mia tristezza.
[110]
Voi, mie care compagne,
Siete senza pietà;
Forse i vostri visi sono di carta,
Le ardenti lacrime di perla,
I cuori più duri della pietra.
Tu, mio sostentatore padre,
E tu, mia cara madre,
Non battete delle mani[219],
Nè il lembo contro il lembo[220].
Non impegnarmi, sostentatore padre,
Nè tu mia propria madre
Con impegni forti,
Forti, eterni.

XIV.
La sposa si accaparra.

L'anello pronubo è la prima delle caparre; ma altre ordinariamente l'accompagnano anco presso i Romani, come appare evidente da un passo di Giulio Capitolino, tra gli Scriptores Historiæ Augustæ[221]. L'uso italiano le ha continuate non contraddetto dal Diritto [111] longobardico, la cui meta era una vera caparra[222]. La caparra in danaro o strenna (come la chiamano nel Canavese e nel Biellese) che lo sposo dà, in Piemonte, alla sposa, non eccede mai la somma di lire cinquanta[223]; se le nozze si guastano, per causa dello sposo egli perde la sua caparra; se, per causa della sposa, la caparra viene restituita a colui che la diede, raddoppiata talora, come usa nel contado di Pinerolo ed anche nell'Osimano. La caparra si dà generalmente il dì delle promesse, ossia, come dicono nel Canavese, il giorno in cui si va a baciare la sposa, poichè da quel giorno veramente i parenti dello sposo la riconoscono con un bacio. Ma non sempre la sposa accetta la caparra in danaro, a molte fanciulle sembrando offesa quel pegno; o se, come nell'Abruzzo[224], l'accettano, esse hanno cura di levare, all'unica moneta [112] che acconsentono di ricevere, il valore di moneta; perciò, bucatala, se l'appendono al collo ad uso medaglia, quale pegno di fede promessa.

È ancora una specie di caparra la cerimonia nuziale del governo di Tver, in Russia, che si chiama bere la beltà della ragazza. In una bottiglia di acquavite si mette un'erba detta del diavolo; la si orna di nastri e candelotti ed il padre dello sposo deve riscattare questo diavolo per mezzo di cinque kapeika[225]. A tale offerta gli si dice: «La nostra principessa[226] non vale solo questo;» allora il mandatario aggiunge ancora; gli si ripete il medesimo, ed egli sempre aggiunge, finchè la somma non sia arrivata fino a cinquanta kapeika[227].


XV.
Ricambi di doni nuziali.

Le nozze non son fatte per gli avari; si dà e si riceve in esse con allegra spensieratezza, e nessuno tien conto di quello che vi ha speso. Si mangia e si beve in casa altrui; si dà da mangiare e da bere in casa propria; è sempre la stessa abbondanza; le economie verranno poi. In Toscana il popolo si burla di chi fa le nozze col baccalà, per indicare che le sue nozze furono meschine, senza confetti, senza regali, senza feste. I doni, per augurio di fecondità [113] volano per tutte le parti; oltre agli sposi, ne hanno gli stretti parenti, i convitati, i compagni, le compagne; ma in tutti è gara di render più che non si è ricevuto. Riesce difficile pertanto tener conto esatto di tutti i doni che sogliono farsi nelle nozze; ma importa il sapere di qual sorta particolarmente siano, ed in qual modo particolarmente si facciano.

I cibi, fra i doni, non contano, tanto più ch'essi ci daranno occasione di un articoletto speciale, come saremo, nel secondo libro di quest'operetta, a banchettar con gli sposi. Ma conterà bene il dono d'una vacca che lo sposo indiano faceva alla sposa e al prete maestro[228], e il dono germanico della stessa vacca fatto, ai tempi di Tacito, dallo sposo alla sposa[229]; importerà il dono d'una camicia che la sposa indiana[230] tesseva e cuciva pel dì delle nozze allo sposo, certo, come la sposa russa, affinchè il principe[231] vedesse il lavoro della sposa; e il dono è popolare a quasi tutto l'uso indo-europeo[232]; un [114] canto illirico[233] ricorda, fra gli altri doni della sposa allo sposo, una elegante camicia che non era stata nè filata nè tessuta, ma che la fanciulla stessa (figlia del doge di Venezia) aveva per tre anni, giorno e notte, con le proprie mani, lavorata e contesta d'oro finissimo. Io cito, fra gli altri luoghi d'Italia, la Liguria, il Piemonte, il Milanese, il Pesarese e il Perugino, ove la fanciulla mette gran cura a ben cucire la camicia ch'ella regala allo sposo; nell'Arpinate poi, nell'Abruzzo Teramano e presso il Lago Maggiore, la sposa non regala solamente d'una camicia lo sposo, ma quanti parenti maschi si trovano nella casa di lui; nel Pistoiese, oltre lo sposo, si regalano della camicia i due paraninfi detti scozzoni.

In molti luoghi d'Italia, lo sposo veste a nuovo, per intiero, la sposa, per quanto ne deve al di fuori apparire; in altri, una sola parte del vestiario vien regalata. In alcuni paesi del Tarentino, a Gallarate e Turbigo di Lombardia, a Cossato-Biellese e a Palermo, trovo indicate particolarmente le scarpe come dono nuziale; il che mi richiama all'uso germanico, per cui lo sposo diventa padrone della sposa, mettendole un nuovo paio di scarpe; ed al russo, che fa mandare le scarpe alla sposa sopra un piatto, certo, affinchè, pur nel toccare per la prima volta la soglia maritale, la sposa appaia intatta, per la stessa ragione per cui la sposa romana nell'entrare in casa dello sposo non dovea toccarne coi piedi la soglia. In altri luoghi finalmente, come per esempio a Carpignano in Lombardia, si regalano solo oggetti da [115] lavoro, cioè un coltellino, un agoraio, un par di forbici e un ditale; o, come nel Pesarese, fra poveri, una rocca o conocchia lavorata e ornata. Questi ultimi usi confermano gli antichi romani del camillus che portava gli utensili della donna, e della conocchia apprestata che accompagnava la sposa[234]. Il medesimo uso romano della conocchia nuziale, si mantiene ancora nel Monferrato Albese, a Monte Crestese nell'Ossola, nella valle d'Andorno (Biellese), in Sardegna, in Corsica, come rilevo da un canto popolare côrso[235], il quale dice:

Quando andereti sposata
Purtereti li frineri;

e in Toscana ove un canto popolare satirico, che somiglia ad una novella, motteggia così la donna che non sa filare:

La bella donna che ha perso la rocca!
E tutto il lunedì la va cercando;
Il martedì la trova mezza rotta,
Mercoledì la porta rassettando,
Il giovedì le pettina la stoppa,
Il venerdì la va inconocchiando,
Il sabato si liscia un po' la testa,
Domenica non fila perch'è festa.

[116]

Che la conocchia poi sia pure indispensabile compagna della fanciulla tedesca che va a marito lo raccolgo da un canto popolare che, fra i Tedeschi, dice:

Riceve il miglior marito,
Quella che sa meglio filare[236].

Un altro de' doni nuziali più caratteristici, è il cinto, cingolo, centurino o cintone, o nastro, o zona che si voglia addomandare, onde le nostre spose si ricingono la vita mentre vanno pomposamente vestite al tempio.

Talora, invece del semplice nastro, le spose portano un grembiale; ond'è, che fra i doni nuziali, ora troviamo un nastro, ora un grembiule, e che le espressioni solvere zonam e sciogliere o far cadere il grembiule valgono il medesimo.

Il Symes[237], sullo scorcio del secolo passato, notava nell'Indo-Cina, fra gli altri doni nuziali alla sposa quello di tre tubbeck o cinture. E la cintura non mancava alle spose indiane, greche, romane[238], celtiche; ma forse l'avevano in proprio; che, in Francia, invece, fosse consueto dono dello sposo, lo si può supporre dal Jeu de Robin et de Marion nella pastorale [117] di Adam de la Hale[239]. È nota la virtù attribuita dalla leggenda germanica alla cintura delle fanciulle. Brunilde, finchè questa non si scioglie, è prodigiosa; caduta questa, riesce una donna come le altre[240]. E alla cintura nuziale allude pure un canto popolare dell'Estonia, ove la leggendaria Salma va dicendo allo sposo da lei eletto: «Caro giovine, caro fidanzato, tu m'hai dato il tempo di crescere, dammi ancora quello di vestirmi. L'orfanella si veste con fatica; essa è lenta, la povera, a cingersi la cintura[241]

Meno importanti i doni della sposa allo sposo, e meno significativi: così non credo che la cintura a fil d'argento e perle tessuta dalla sposa di Zante[242], secondo il canto popolare, allo sposo, abbia un simbolo speciale[243]. La camicia vedemmo già per qual desiderio di raccomandarsi la sposa regali al suo fidanzato; e d'altri doni molto caratteristici che si [118] facciano allo sposo io non so; nè il canto russo[244] che accompagna una di cosiffatte donazioni li determina:

Per la città, per la città sono incominciati i suoni,
Nel gineceo, nel gineceo si portarono i doni,
Faceva doni, faceva doni la giovinetta:
Accogli, o signore, i doni, accogli i doni, o bravo giovine,
E contro i doni miei non isdegnarti,
I doni miei, i doni miei son magri,
Le mie nozze, le mie nozze non sono d'importanza.

Più larga si mostra la sposa verso il procolo; verso la sposa poi abbondano di generosità, oltre lo sposo, i parenti e gli amici di lui e di lei; di maniera che, ove questi sian molti, la sposa per le sue nozze ha quasi da farsi un corredo. In qualche raro luogo, interviene pure fra i donatori il prete, che altrove e per lo più, sull'esempio indiano, ripete, per contro, un regalo per sè. Presso il Lago Maggiore, alla sposa che viene a visitarlo, il parroco offre danaro, ed in Como era l'uso, forse vivo ancora, che il vescovo inviasse la magnifica palma che gli viene offerta per la settimana santa, alla prima sposa nobile che s'impalmasse dopo la domenica delle Palme.

Presso il Lago Maggiore, la guidazza o pronuba regala alla sposa danaro o tela da camicie. A Monte Crestese, nell'Ossola, mentre dura il finto piagnisteo in casa della sposa, per la vicina separazione, una vecchia, alla quale danno nome di landa, prende il grembiule della sposa all'ingiù, e fa con essa che piange o finge di piangere, un giro davanti a tutti i parenti ed amici, i quali gettano i loro doni nel grembiule. [119] A riva di Chieri, quando una povera giovine si marita, i parenti delle due parti vanno presso i ricchi e dicono loro: Noi vi invitiamo pel giorno, ecc., se voi volete venire a regalare la sposa. Quelli che accettano si recano all'ora fissata presso la sposa, l'accompagnano in chiesa e quindi alla sua nuova dimora. Colà giunta, essa si mette sulla soglia, tiene con una mano rialzato il grembiule e con l'altra una borsa, e le donne mettono nel grembiule una camicia o qualche altro abito che, fino a quel momento, portarono sul braccio; gli uomini offrono danaro; se essi lo mettono nella borsa, la sposa deve dividerlo con la famiglia; se lo mettono in seno alla sposa, rimane esclusivamente per lei. I donatori hanno diritto di baciare la sposa. Così nei paesi montani dell'Abruzzo Teramano, mentre gli sposi stanno a sedere, gli astanti si baciano e versano danaro in un fazzoletto disteso apposta presso di loro. A Vistronio, nel Canavese, la sposa impalmata usava sedersi sui gradini esterni della chiesa, e lasciarsi baciare da quanti deponevano danaro sul piatto ch'ella teneva in mano.

Or questa cerimonia del bacio alla sposa è certamente antica, e vige ancora, sotto forma alquanto diversa, in alcuni paeselli della valle di Susa, dove quanti incontrano la sposa mentre ella esce di chiesa hanno diritto di baciarla, all'Allumiere, presso Civitavecchia[245], nella Sardegna di mezzo e settentrionale[246] e altrove; ma non vien detto e non ebbi [120] modo di sapere se il bacio vi sia mercato come a Riva di Chieri, nell'Abruzzo e nel Canavese, o gratuitamente concesso, in obbedienza alla consuetudine.

Ma, per tornare ai doni, recherà meraviglia che tanti abbondino ancora in Italia per nozze, quando i nostri Statuti concordemente intesero a rimuoverli; egli è che, se ora la liberalità è ancora molta, in passato essa era immensa e fuor d'ogni consiglio; temendosi pertanto che il fasto di un solo giorno nuziale portasse la miseria nelle famiglie, si posero decreti a frenarli; poichè non si trattava di far donativi alla sposa, alla maniera di Aureliano, presso Flavio Vopisco[247], e di tutti i principi antichi e moderni che sono liberali, per le nozze da loro combinate, della sostanza pubblica, ma di impoverire solamente sè stessi, volendo ornare sovra ogni altra donna la nuova sposa. Ma la legge statutaria, nel voler togliere via uno scandalo, esagerò senza dubbio la [121] restrizione de' doni, e, per ciò ch'ella aveva di eccessivo, non fu osservata, mentre l'abuso massimo, che forse intendeva ferire, cessò del tutto.

Questo abuso è il così detto morgincap che ci offrirà soggetto d'un capitolo a sè, nel terzo libro di quest'opera; qualche Statuto, di fatto, lo nomina esplicitamente, come, per esempio, quello di Casalmaggiore[248]; ma l'occasione di levar via l'abuso, o l'eccesso, fece abusare ed eccedere il primo anonimo legislatore statutario ed i suoi pedissequi anonimi imitatori, con la stranezza de' loro rigori proibitivi. Il morgincap e la pompa eccessiva delle nozze potevano veramente perturbare l'ordine economico delle famiglie; ma lo scambio di doni che l'onesta allegrezza d'una festa domestica consigliava e consiglia agli sposi ed ai loro parenti ed amici, non riuscendo pericoloso, fu cagione che il divieto di esso, malgrado il solo pretesto di correggere la vanità femminile, e il lusso smodato, come appena la legge veniva promulgata, incontrasse il ridicolo[249].

[122]


XVI.
La dote.

La dote può essere di tre maniere: l'una è quella che la sposa può ricevere dalla propria famiglia, chiamata perciò dalla legge longobardica col nome di phaderphium; l'altra è una specie di riscatto della sposa che lo sposo fa, pagando alla famiglia di lei una grossa somma per impossessarsene: il che i Longobardi chiamavano mundium, ossia il diritto di tutela che dal padre passava al marito, ossia il diritto [123] di farsi mundualdo[250]; gli corrisponde, in parte, la nostra controdote. Il terzo caso di dote è quello in cui, sopra l'erario pubblico, si mandano fanciulle a marito con dote.

Abbiamo da Erodoto che, presso gli antichi Veneti, i giovani garzoni i quali pigliavano moglie versavano al pubblico erario una piccola somma, con la quale si dotavano le povere fanciulle. E una reminiscenza di questo uso antico mi sembra il decreto emanato dalla repubblica veneziana, affinchè per rendere più solenne la cerimonia delle nozze «dodici fanciulle di condotta irreprensibile e di non comune avvenenza, tratte dalle famiglie più povere, venissero dotate dalla nazione e andassero all'altare accompagnate dal Doge stesso rivestito del suo regal manto e circondato del pomposo suo seguito»[251].

[124]

Dove manca lo Stato, perchè lo Stato è il principe, si incontrano alcuni casi capricciosi di doti fatte a povere fanciulle da principi; così, presso il Bandello, Ottone III dota la onesta Gualdrada di tutto il Casentino e di parecchie Castella in Val d'Arno, Piero d'Aragona dota le due figlie di messer Lionato, e, presso il Boccaccio, Carlo d'Angiò dota le due figlie di messer Neri.

In antico, la vera dote era quella che il marito faceva alla moglie o ai parenti di essa, i quali volevano rimborsarsi de' servigi che perdevano. Nell'India antica, la mercede consisteva oltre alla moneta çulka, in tori o vacche, il qual dono poi il prete sacrificatore ripeteva per sè. Che presso gli antichi Greci il marito dotasse la moglie, lo prova ad evidenza un passo dell'Iliade[252], ove Agamennone offre per isposa una delle sue figlie ad Achille, senza ch'egli si dia l'incomodo di dotarla. Presso i Romani, la cerimonia della coemptio prova che il marito dovea pure comprare, in certo modo, la moglie; ma, alla sua volta, questa era ordinariamente dotata, per una ragione che ci viene espressa da una risposta di Lesbonico, nel Trinummus di Plauto[253], ove parrebbe [125] al giovine che, se egli non dotasse la propria sorella, questa dovrebbe reputarsi più tosto concubina che moglie. E che la dote portata dalla moglie al marito fosse in Roma uso antico, lo argomentiamo dai tre assi che già al tempo di Varrone[254] le spose doveano, per tradizional consuetudine, nell'andare a marito aver seco, uno cioè per simbolo della dote, e gli altri due per l'offerta sacrificale. L'emptio adunque era reciproca, e però il nome di coemptio, e la formola solenne: Ubi tu Caius ego Caia che Plutarco ci spiega così: Ove tu signore e padron di casa, anch'io signora e padrona di casa. La qual formola tanto simpatica non trovò poi presso il Diritto romano quella conferma ed applicazione che ottenne in realtà presso altri popoli che una tal formola non possedevano, come, per esempio, i Germani, appo i quali, come nell'odierna Svizzera, era senza dubbio il marito che dotava la moglie[255], e pure la moglie veniva rispettata come sacra.

In generale, l'uso indo-europeo porta la dotazione [126] della moglie per parte del marito. Presso i Franchi, lo sposo nel mettere in chiesa l'anello alla sposa, ripeteva dopo il prete: «con questo io ti sposo» e versava tre danari nella mano destra o nella borsa della sposa (lasciando gli altri dieci al prete) e con ciò diceva: «e vi doto de' miei beni»[256].

Lo stesso uso vige fra la gente tartarica; presso gli antichi Finni, i Turchi e i Turcomanni odierni lo sposo compra la sposa. Gli ultimi, anzi, per informazione del signor Blocqueville, hanno prezzi varii secondo la forza e la bellezza della sposa[257].

Nell'odierna Italia, il contado di Atri mi sembra conservar traccie dell'uso di comprar la sposa dal capo di famiglia, il quale non lascia menar via la figlia, se prima non gli vengano consegnati in dono uno o più polli.

Ora sarebbe difficile il giudicare quale de' due usi sia stato migliore, visto che la compra della sposa che si faceva in Germania non toglieva alcun rispetto alla donna e la dote solita a darsi dai Romani alle [127] figlie affinchè non paressero concubine, non tolse che la donna romana venisse considerata assai da meno che il vir. Certo che la prima origine dell'uso è barbara; ma l'uso restò in Germania solamente pro forma, mentre a Roma, dove la forma, per una specie di pudore, si modificò, lo spirito dell'uso religiosamente si mantenne. Un sentimento invece di vera civiltà progrediente spira negli Statuti e nelle antiche consuetudini dell'Istria, dove il fratello, per legge di giustizia, divide in parte uguale il patrimonio con la sorella che va a marito, ed il marito mette i suoi beni in comune od a metà con quelli della moglie. Ecco in qual modo si esprimono gli Statuti Municipali di Cittanuova[258]: «Per casion, che in le parte del Istria se contrage multi matrimoni delle quali non se fa algun istromento, volemo che tutti matrimoni fatti, e contrati in Zidanoua, e per lo so destreto, se intenda esser fra e suor.» Il qual passo, per sè, mi sarebbe riuscito alquanto oscuro, se non veniva a dichiararmelo il riscontro con un altro degli [128] Statuti Municipali di Rovigno[259], che dice: «Costume et consuetudine antica è d'Histria la quale approvemo et laudemo, et però statuendo ordenemo, che tutti li matrimoni sino qui contratti, et che de coetero legittimamente si contrazerano in Rovigno, et destretto di questa natura esser se intenda come per matrimonio marito et moglie, fradello et sorella essere se dicernono in questo, massime, che in universal beni mobili et stabili, ragion e ation tutte al tempo del contrazer matrimonio speranza esser roba, et la qual si acquistasse per essi, overo ciascun titolo, modo ragion overo cagion come fratelli si intendano; cioè che tutti gli beni, ragion et ation siano tutti insieme per essa ragion per mità, salvo se convention per special patto fra gli preditti fatto non fosse in contrario.» Il che si conferma pure dal capitolo 79 de' medesimi Statuti, dove si prescrive «se tra do sarà copula de matrimonio secondo l'uso della provincia dell'Histria, et come è ditto avanti et alcuni di quelli vorrà allegar in ragion non esser maridada e frà et suor, non sia aldìto nissuno di loro matrimonio, se non per pubblico instrumento fatto per mano di pubblico nodaro, et se altram.te fosse fatto sia di nissun valor.».


XVII.
Il corredo.

Vi son luoghi parecchi, ove la dote non si richiede dal marito nè dal padre, e si domanda invece dal [129] primo e si concede o si desidera spontaneamente dal secondo che la sposa si rechi al nuovo suo soggiorno abbondantemente fornita di tutto ciò che deve bastare a vestir sè e ornare la casa maritale. Questo che ora è un supplemento, ora un complemento alla dote chiamasi fardello in Piemonte, sa robba (ossia la roba) in Sardegna, l'addobbo nell'Abruzzo Teramano, il corredo o i corredi in Toscana, i quali ci sono così definiti dagli Statuti di Lucca[260]: «Sono i corredi, secondo il comune uso di parlare, quelle vestimenta, locali et beni mobili, i quali porta seco la donna a marito in tempo di nozze.»

Mi piace osservare, come già nell'inno vedico, intitolato sùryàsùkta[261], abbiamo una specie di corredo nuziale nel cofano (koça), nel coltrone (upabarhan·am) e nel belletto (abhyan' g' anam) che la sposa porta con sè, mentre viene condotta alla casa dello sposo.

Il cofano, il letto, e l'occorrente per la teletta sono pure indispensabili a quasi tutti i nostri corredi. Il coltrone, e talora più d'uno, vuol essere sempre di lana, il cofano o baule può essere supplito da un cassettone o da una guardaroba. Questo cofano poi suol mettersi a' piedi del letto nuziale, come per suo compimento. I letti talora son due, come raccolgo da un atto del 1184; ad un Fulcone che prende in moglie la sorella di certi Balzamo e Nicola, questi promettono fra l'altre cose «duos lectos francinscos, duas culcetras de lana, duos plumagios de lana plenos»[262].

[130]

Il letto è veramente la parte essenziale del corredo nuziale, e che ciò fosse pure tra i Romani parmi potersi chiaramente rilevare da un passo di Cicerone, nella sua orazione pro Cluentio[263].

Ma non sempre il letto si somministra completo dalla sposa, e nella Lomellina, per esempio, il fusto ed il pagliariccio vogliono esser procurati dallo sposo.

La fanciulla cura, appena promessa, e talvolta anche prima, di arredare nella casa paterna tutta una stanza de' mobili ed oggetti ch'ella porterà nella casa dello sposo; e il trasporto di tanta roba è, per certi paesi nostri, una cerimonia solenne. Io posso qui ricordare, fra gli altri, l'uso di Cossato nel Biellese, quello di Sardegna e quello dell'Abruzzo Teramano. Intorno al primo, ecco quanto mi scriveva il compianto monsignor Gio. Pietro Losana, vescovo di Biella: «I parenti della sposa devono provvederla d'un letto compito. Il paese è agricolo; i contadini più agiati usano farne una solennità; lo caricano su d'un carro, ma tutto allestito e bell'e fatto col suo cuscino e perfino con la coperta già rivoltata. Il letto è tutto guarnito di fiori, di nastri ed altre cianfrusaglie. I buoi od i cavalli inghirlandati a festa. Il carro, così fatto elegante, segue la comitiva che accompagna la sposa alla nuova sua dimora.»

In Sardegna[264]: «Lo sposo accompagnato da' suoi parenti ed amici, tutti a cavallo, si parte dalla casa paterna; una quantità di carri proporzionata a quella [131] degli oggetti che si devono trasportare segue la comitiva. Quando si è giunti alla dimora della sposa, i parenti di questa rimettono il corredo allo sposo; egli osserva ogni cosa minutamente e fa quindi caricare sopra i suoi carri ogni oggetto; quindi si ritorna alla casa dello sposo. Due suonatori di launedda, scelti fra i più capaci, aprono il corteggio, eseguendo arie campestri. Seguono giovanotti, donzelle e donne; tutti vestono i loro abiti più belli e portano sopra la testa o le spalle gli oggetti fragili che non si credette di poter mettere senza rischio sopra i carri. Un giovine, per esempio, porta sopra una spalla un grande specchio con larga cornice dorata, un altro sopra l'una e l'altra spalla un quadro di santo (il santo protettore della fanciulla e il santo protettore del giovane) dipinto con colori vivissimi e spiccati; un terzo è caricato d'un gran cestone pieno di tazze di maiolica o di porcellana, vasi di vetro celeste per fiori e simiglianti oggetti; un quarto finalmente trasporta sopra il suo berretto piatto una cesta ripiena di bicchieri, di caraffe ecc. Immediatamente dopo camminano di fronte quattro o sei ragazze o donne[265], ciascuna delle quali porta sopra la sua testa parecchi guanciali tutti più o manco ornati di nastri color rosa e di fiori e di foglie di mirto. La mezzina di rame o di terra, di cui la moglie deve servirsi per [132] attingere acqua alla fonte, posa, in tal giorno, sopra un guancialetto scarlatto collocato sulla testa della più bella fra le fanciulle del luogo; questo vaso ha quasi sempre una forma antica elegantissima; esso è decorato di nastri e ripieno di fiori naturali. Parecchi fanciulli portano quindi varii piccoli utensili di casa; e, in somma, si mette in mostra tutto ciò che dovrà arredare la casa. A questa avanguardia che, naturalmente, leva non poco strepito, succede, in silenzio, una numerosa cavalcata, in mezzo alla quale lo sposo si fa distinguere per lo splendore degli abiti nuovissimi, e per la ricca bardatura del cavallo (imprestata, per lo più, in tali occasioni, dai signori del luogo).

I carri sono tirati da bovi, i quali su la punta delle loro corna fasciate, portano un arancio[266]. Tutti questi carri procedono in fila; i due primi portano parecchi materassi affatto nuovi, messi diligentemente gli uni sovra gli altri, e formanti sovra ogni carro una pila quadrata; i due carri seguenti sono caricati dei legni da letto e di tutti i loro accessorii; in una mezza dozzina d'altri si veggono le sedie disposte a piramide e ornate di lauro e di mirto; quindi le tavole e le panche, e poi due immensi cassoni, l'uno de' quali contiene la biancheria di casa, l'altro gli abiti della sposa; due carri sono occupati dagli arnesi di cucina[267] e parecchi utensili, [133] fra i quali si nota un'ampia provvisione di fusi e di conocchie, e fra queste una apparecchiata e fornita per la filatura[268].

Tre o quattro carri pieni di grano compongono la prima provvigione della nuova famiglia; dopo il grano, segue naturalmente la macina e quanto occorre in Sardegna per fabbricare il pane. Finalmente il paziente molentu[269] attaccato con una lunga fune alla macina che lo precede e ch'egli deve far muovere la prima volta, chiude piacevolmente il corteggio. Con la coda o le orecchie ornate di mirto e di nastri, questo pacifico animale attrae sopra di sè gli ultimi sguardi della moltitudine già stanca dello spettacolo che ha contemplato; l'ilarità che esso eccita forma allora un piacevole diversivo alla serietà della pompa precedente. Il corteggio è, per lo più, seguito da tre o quattro tracche (specie di carri), che trasportano parecchie ragazze, amiche o parenti della sposa, incaricate di ammobigliarne la casa e metterne in ordine il corredo; il loro costume, in tale solennità, è sommamente splendido. Tutta la comitiva essendo giunta in casa dello sposo, si procede allo scaricamento de' carri, che s'opera con lo stesso ordine seguitosi nella marcia. Lo sposo dà l'esempio caricandosi primo, sopra le spalle, uno de' materassi del letto nuziale; allora gli altri giovani gli sbarrano la via alla camera e succede fra loro una lotta. Bene spesso questi ultimi, avendo ciascuno un materasso, lo gettano sopra lo sposo e ne lo opprimono, per far allusione senza dubbio al fardello ch'egli sta per imporsi.»

[134]

Un simigliante impedimento allo sposo si osserva nell'uso del contado Teramano. Anzi, tutti i parenti della sposa si siedono sopra i bauli, facendo sacramento che non lasceranno portar via la roba; ricevuti alcuni regali dallo sposo, accondiscendono. Si caricano parecchi giumenti ornati, e la comitiva si mette in via; ma giunti alla dimora della sposa, ricominciano i contrasti; e conviene allo sposo dar prima da bere e da mangiare, s'egli vuol mettere in casa il così detto addobbo.

Del resto, il corredo della sposa è più o meno ricco, secondo l'amor proprio ed i mezzi di lei, dello sposo e dei parenti. Vi fu tempo e vi sono ancora luoghi in Italia ove la vanità del corredo e la paura che i mariti si facciano usurpatori vanno così lontano che la dote si dimezza nelle vesti e nelle gioie; il quale eccesso si studiarono di correggere i nostri Statuti, ma, come ordinariamente avviene, in modo eccessivo, e stranamente inquisitorio, di maniera che anche il modesto corredo della povera Tancia poteva correre il rischio di riuscire contra legem[270].

[135]

Ella ce lo descrive ne' versi che seguono[271]:

E 'l mio corredo, che lo lasceróe?
La mia gammurra co' nastrin di stame
E la becca[272] ch'i' ho di taffettà,
Il vezzo di coralli e 'l mio carcame[273]
S'io nol porto, a chi domin rimarrà?
E quel bell'orciolin nuovo di rame,
Le mie stoviglie bianche chi l'arà?
E' miei sei sciugatoi col puntiscritto,
E duo' lenzuol cuciti a sopraggitto?

XVIII.
Mentre la sposa si prepara.

L'essere detti, per tre volte, in chiesa, le visite fra parenti, lo scambio de' doni, i primi banchetti, le [136] provvisioni per le nozze, gli inviti per il giorno delle nozze, tutto ciò occupa assai le nostre famiglie che stanno per fare la sposa. Lo stesso, meno le pubblicazioni in chiesa, avveniva in Roma, in Grecia, nell'India e presso gli altri popoli indo-europei. In Roma, inoltre, il dì delle nozze raccoglievansi di primo mattino in casa della sposa quanti più potevano parenti ed amici invitati. La casa dello sposo e quella della sposa si ornavano di fiori, ghirlande e tende di lana. I parenti lontani, gli amici, i conoscenti non invitati, se conoscevano le leggi della buona creanza, doveano raccogliersi nella strada, per rendere onore agli sposi; al che si riferisce il passo seguente di Giovenale[274]: «Domani, di primo mattino, ho da fare un complimento nella valle di Quirino. Perchè il complimento? Che mi domandi tu? L'amico si sposa e non vuol aver troppa gente attorno».

Nell'India antica, in uno de' tre giorni, ne' quali si dice: oggi o domani o dopo domani condurranno via la sposa, il guru o maestro spirituale dello sposo, arrivato qual messaggiero, come veniva il mattino, benedicea con acqua e purificava la fanciulla; dopo di che, alcune donne, regalate di cibi e bevande, intrecciavano una danza.

Arrivava allora lo sposo, e seguiva un lungo ricambio di doni e gentilezze, accompagnato da benedizioni e sacrifici tra le due famiglie che stavano per conchiudere il parentado. [137]

Nell'India odierna, la notte che precede le nozze, gli sposi mangiano con i parenti del riso, e vanno quindi con lampade, riso, acqua fresca e betel in mano a visitare i vicini e far loro presenti.

Presso i Brettoni, gli inviti alle nozze si fanno, cantando, dal bazvalan, il quale, accompagnato da uno de' parenti più stretti dello sposo, si reca nelle varie case, possibilmente nel punto in cui le famiglie sogliono mettersi a tavola; egli picchia tre volte alla porta, si dichiara bazvalan o messaggiero nuziale, e viene festeggiato e fatto assidere alla mensa[275].

Nella Germania meridionale[276], il fidanzato e il suo compagno vanno pel villaggio, di casa in casa; e il fidanzato dice: «Voi siete pregati per le nozze martedì all'albergo.... Venite senza fallo; occorrendo, vi renderemo la pariglia. Non dimenticate di venire.» In ogni casa, la massaia apre la dispensa, ne leva un pane e un coltello e presenta il tutto, dicendo allo sposo: tagliate del pane. Il fidanzato taglia una fetta e la porta con sè. E qui abbiamo un'altra prova dello sposo; poichè si argomenta ch'egli riuscirà un cattivo capo di casa, ove non affetti bene il pane.

In Russia, prima che tramonti il sole del giorno che precede le nozze, la giovine fidanzata si lamenta così:

Mi sederò io, la mesta mestizia,
Su la bianca panca,
Presso la lucida finestra;
Tu, mio sostentatore padre,
Tu, mia propria madre,
Vi siete infastiditi, mio sostentatore padre,
[138]
E tu, mia propria madre,
Della mia testa balzana,
Della mia treccia castagna.
La mia bellezza, la mia vergine bellezza passerà,
Passerà, cambierà,
Si mescolerà col nero fango,
Col nero fango lutulento, vischioso.
Tu, mia aurora,
Mia aurora vespertina,
Perchè così presto, o aurora, tu arrivi?

E più l'aria si abbuia e più si fa tenero e più si dispera il canto della giovine fidanzata russa, al quale non saprei in vero contrapporre altri più delicati e più commoventi, non pur tra i dotti, ma nemmeno tra i popolari:

Il roseo sole gira.
E tu, o stella errante,
Dietro le nuvole sei passata
Lunge dalla chiara luna;
Così la nostra vergine
D'una in altra stanza è passata,
D'uno in altro tetto,
E, nel passare, s'impensierì,
E tra le lagrime, disse:
Signor mio, babbo mio,
Non sarebbe egli possibile fare altrimenti,
E me vergine non maritare?

Tanta mestizia, tanto sgomento che occupa tutti i canti popolari russi, relativi alle nozze, non toglie tuttavia che la festa delle fanciulle o dievisgnik, la sera del giorno che precede il nuziale, non riesca animata e gioconda; egli è che, più del canto, riesce a rallegrarla la copia de' cibi e delle bevande. [139]


XIX.
Il bagno; la sposa si veste.

In Italia, non so che i bagni, i quali pure vi si fanno, per decenza, ordinariamente un giorno prima delle nozze, siano accompagnati da alcuna solennità. E pure un carattere sacro essi avevano di certo a Roma, come lo conferma un passo di Servio: «Con l'acqua e col fuoco, egli commenta, i mariti accoglievano le mogli. Onde pure oggidì si portano innanzi le faci e l'acqua attinta da una limpida fonte per mezzo di un fanciullo assortito[277] o d'una fanciulla che prende parte alle nozze, con la quale solevansi lavare i piedi agli sposi». Oggi ancora, in alcuni luoghi della Sabina, le donne maritate non possono recarsi alla fonte, per attingervi acqua; le sole fanciulle possono farlo.

Ora quest'uso del lavare i piedi agli sposi, e di levar l'acqua da una fonte particolare, non era solo romano, ma greco ed indiano.

In Grecia, l'acqua destinata al bagno nuziale deve essere di fonte o di fiume, essere acqua viva, in somma. Nella Troade, era famoso per tale uso lo Scamandro, al quale, presso Eschine, la fidanzata, che si bagna, volge questa preghiera: «togliti, o Scamandro, [140] la mia verginità[278]; in Magnesia, godeva della stessa fama il Meandro; in Atene, la fontana Kallirhoe, intorno alla quale così informa Tucidide[279]: «d'appresso è la fontana di cui si servivano per gli usi più importanti, la quale, dopo essere stata restaurata dai tiranni, nel modo che or si vede, ha nome le Nove-bocche; e prima, quando v'erano le sorgenti scoperte, si chiamava Kallirhoe. Da cotesti tempi lontani resta anche adesso il rito di far uso di quell'acqua, prima delle cerimonie nuziali e per le altre sacre funzioni». E, in Grecia ancora, era un fanciullo che dovea levar l'acqua per lo sposo e una fanciulla l'acqua per la sposa[280].

Nell'India, il paese dalle abluzioni per eccellenza, sono innumerevoli le fonti sacre, alle quali può essere attinta l'acqua del bagno nuziale. Ma sempre, innanzi di adoperarsi, questa viene benedetta. Nell'Atharvaveda[281] si conservano parecchie formole per una tale benedizione. Nell'India odierna, lo stesso suocero lava i piedi allo sposo con acqua, latte e sterco di vacca[282]; segue la congiunzione delle mani e la libazione dell'acqua sopra le palme unite degli sposi.

Finito il bagno, l'antica sposa indiana rilasciava le sue vesti sudicie al procolo (ordinariamente lo suocero od il prete) recitandosi questo versetto: «Quanto [141] di cattivo e d'impuro sarà accaduto nelle nozze e nel trasporto della sposa, lo scuotiamo sovra il procolo». Il procolo levava i panni sudici con un bastone di udumbara, e andava ad appenderli nella selva ad un albero, a fine di purificarli; intanto la sposa si ornava e vestiva di nuovo, mentre le si recitavano versetti d'augurio, per la fecondità e un vivere lungo e felice. Quindi le si applicava un pettine di giunco a cento denti, con augurii perchè il sudicio cadesse. Al qual uso, oltre il romano dell'asta[283], con cui si pettinava dagli astanti la sposa, mi piace richiamare il russo, per cui ciascuno de' convitati a cena dà un colpo di pettine alla sposa già pettinata e depone una moneta sul vassoio che le sta innanzi.

Tra i canti albanesi di Sicilia[284] è questo che accompagna la sposa, quando essa viene condotta al bagno; e la menzione che vi è fatta della neve e del ghiaccio, mi fa supporre che il canto sia più antico della migrazione degli Albanesi in Sicilia, e nato veramente tra i monti dell'Epiro:

Fiocca neve e fa pioggia
E la bella andò a lavare.
Ruppe il ghiaccio col piede
E la neve con la mano.
Spirò un venticello dritto dritto
Che le tolse il velo delicato,
E glie lo raccolse il di lei vecchio padre,
E col velo ritornarono a casa.

In Russia pure, il canto accompagna la cerimonia del bagno, fatto per traspirazione, così dallo sposo come dalla sposa. Nella stanza del bagno si scherza, si ride [142] e si canta; le compagne lavano la giovine sposa, la quale, uscendo dal bagno, canta melanconicamente così:

Io, pervenuta all'ultimo, prego Dio,
Lo stesso Cristo del cielo,
La Santa Madre di Dio,
Nella mia bellezza di vergine,
Con le mie care giovani compagne,
O larga strada, luce mia,
O larga strada aperta ai sollazzi,
Ho finito di camminare sopra di te,
Ho finito di sollazzarmi
Con le mie care giovani compagne,
Nella mia bellezza di vergine.
Vicini miei, cari vicini a me più prossimi,
Non ricordatevi de' miei dispettucci e delle mie insolenze;
Attribuite, miei cari vicini,
Le insolenze alla semplicità della vergine,
I piccoli dispetti alla bellezza della vergine;
Amara lamentatrice, mi accosto
Alla mia pulita camera,
Al mio vasto cortile,
Alla nuova porta,
Agli intagliati pilastri.

E, mentre le viene intrecciata la chioma, essa rivolta ad una compagna le dice tutta carezzante:

Tu, mia cara sorella, tortorella,
N. N.
Intrecciami la mia treccia castagna,
Che sia fortissima, che sia finissima.
Intrecciami un nastro rosso,
Legami, tortorella mia,
Tre nodi,
Tali che mai non si disfacciano.

Presso gli Albanesi di Calabria incontriamo pure canti, che ricreano la fidanzata, mentre essa vien pettinata, [143] mentre le vien messa la keza, specie di cuffia o berretta, mentre le si indossa la tzoga o gonnella nuziale, e le si attacca alla keza, un velo con uno spillone sormontato da colomba[285]. Ma invece di essere la sposa quella che canta, cantano le compagne ora unite, ora divise in due cori che alternativamente si rispondono. Si apre il canto così:

O tu sposa, avventurata sposa!
È venuta l'ora che vai sposa.
Va sposa questa signora
Al fianco di un signore:
Voi dunque, signore e vicine,
Pettinatele bene la treccia,
Intrecciategliela mollemente, e fatene palla;
Non le spezzate alcun filo,
Sì che le sia grave quest'ora.

Allora il primo dei cori incomincia:

Sul trono del padronato
Ora leggiadramente acconcia il crine
Colla keza fulgente,
Coll'animo altero del tuo signore,
O decoro delle donzelle,
Levati, chè tardasti assai.

Il secondo coro risponde:

Non fu tardo alcuno,
Chè solo tardò la signora madre
A comprarle la tzoga,
Acciò non le s'involasse ratta;
Ora che volete affrettarla
In quest'ultima ora?
Appena folgora il sole.

[144]

Tutte le donne insieme intuonano finalmente il canto:

O sorella e signora sposa,
Ecco il difuori per te si chiude,
Il difuori e tutto il mondo estraneo.
Come la colomba dei cieli
Coll'amore del compagno tuo
Tu felice sotto la pioggia,
E al fragore delle quercie,
Abbi decoro, sorella mia,
Come il sole quando sorge,
Come il sole nelle saliere,
Come la torta in sulle tovaglie.

Quando la sposa era vestita, si riteneva dai Romani come ottima consuetudine ch'ella si coricasse sul letto con gli abiti nuziali[286], forse per la stessa cagione che in Russia si siedono innanzi di imprendere gravi negozii o lunghi viaggi. Nessun negozio più grave, di fatto, e nessun viaggio più lungo di quello che imprende la giovine sposa. Ella viaggia da un mondo ad un altro, da una vita all'altra; così ella potesse, nel suo ultimo sonno di vergine dimenticare quanto abbandona, e risvegliarsi ricca di liete speranze!

[145]


LIBRO SECONDO


LE NOZZE


I.
Come sono vestiti gli sposi.

Il lucido giorno arriva; gli sposi sono pronti a mettersi in via; prima che essi muovano e ci occupino altrimenti, osserviamone le foggie del vestire. Esse vogliono apparire solenni; ove la povertà tolga di spendere in pompose vesti, è lecito, per tal giorno, pigliarne ad imprestito, come sappiamo che avveniva alle antiche spose veneziane; «esse non arrossivano, scrive la signora Renier Michel[287], di prendere in prestanza, per quel dì, li fregi, e sino la corona d'oro che lor venìa posta in cima al capo, qual segnale di nuove spose. Il Governo avea cura di abbigliare in pari modo quelle che venivano dotate dal pubblico; ma, finita la festa, dovevano esse restituire tutti gli ornamenti, non ritenendo per sè che la dote.»

Incominciamo dal capo della sposa; come si pettinasse [146] solennemente presso i Romani e nell'India e si pettini fra gli Albanesi ed in Russia, abbiamo sopra veduto. Accennammo pure di sopra alla keza o cuffia o berretta delle Albanesi. La cuffia è simbolo delle donne maritate; nella Piccola Russia, quando una ragazza si è lasciata sedurre, le compagne le mettono per forza sul capo il fazzoletto a mo' di cuffia, come le donne maritate lo portano. In Germania[288], le donne maritate mettono alla sposa una cuffia, con nastro di seta rosa, mentre le non maritate cercano impedirlo. In Piemonte[289] la nuova sposa porta una cuffia a piume, in Corsica una cuffia bianca arricciata[290], a Castelnuovo Magra in Lunigiana una rete di seta rossa[291] con nappe rosse pendenti, e sopra la rete, da una parte, un piccolissimo e grazioso cappellino di paglia, dall'altra ricche ciocche di fiori, particolarmente garofani. Talora, oltre la cuffia, occorre ancora un fazzoletto o un velo, come presso le spose albanesi e le côrse[292]; talora il velo solo, talora il velo e la corona. Ma al velo ed alla corona nuziale dovremo concedere più oltre un paio di capitoletti distinti. Onde, per finire quello ch'io so intorno alla testa della sposa, aggiungerò qui ancora come, in alcune parti del Trentino, le fanciulle portino sul capo una fogliolina verde, simbolo evidente di verginità, la quale perdono il dì delle nozze, in cui s'intrecciano ai capelli della sposa fiori finti.

[147]

Intorno al collo portano in Germania un filo rosso, che può ricordar forse il nastro rosso e nero di lana delle spose indiane[293]. Rosso è, per lo più, il fazzoletto che le spose piemontesi portano intorno al collo, e la collana de' così detti dorini (che sono ghiandette d'oro, vuoto o pieno, a più o meno giri, secondo la dote della sposa) onde esse medesime fanno la loro massima pompa, e le granate con fermaglio d'oro che ricingono il collo delle spose di Castelnuovo Magra in Lunigiana, contengono forse il medesimo simbolo, presagio più facile ad indovinarsi dal lettore che a dichiararsi da me.

La veste della sposa, secondo l'uso antico, è per lo più bianca; e l'uso si mantiene quasi universalmente presso i popoli indo-europei. Accenno come una singolarità la consuetudine di Ortonuovo in Lunigiana, ove la sposa porta una gonnella di panno nero con busto guernito di rosso allacciato sul davanti con una stringa rossa. Vuolsi poi notare come in Italia, dopo l'invenzione della seta, la vanità delle spose del contado faccia loro spesso preferire all'antica veste nuziale bianca (l'alba tunica romana), una veste di seta o nera od a vivi colori.

Intorno alla vita vedemmo già usarsi dalle spose un nastro, o cintura, per lo più di color rosso; un tal nastro portano pure gli sposi nel Trentino, legato al braccio.

Sul grembo, spesso in Italia, il grembiale; le calze, ora bianche, ora rosse; le scarpe ora rosse addirittura, ora legate con nastri di seta scarlatta. [148]

Nell'India, vestendosi la sposa, si diceva: «le dee, che questo (abito) hanno filato, tessuto e disteso e piegatine intorno i lembi, ti vestano fino alla vecchiaia. Vivendo a lungo, vestiti di questo. Con quell'attrattiva che è ne' dadi e nelle bevande spiritose, con quell'attrattiva che si trova ne' figli, con quell'attrattiva che ha una coscia ignuda, con quella, o Açvin, ornatela. Così noi orniamo allo sposo suo questa sposa; la rallegrino di figli Indra, Agni, Varuna, Bhaga, Soma.»

L'attenzione si fermò assai meno sopra gli abiti dello sposo; pure si può notare che trionfa anche in essi il color rosso, per lo stesso simbolo che di sopra ho accennato. Attorno al cappello, al braccio, alla vita, alle calze, alle scarpe splendono nastri rossi; ama i fiori anche lo sposo, ed ove usano le ghirlande o le corone, s'inghirlanda o s'incorona; ed ove usa il velo ei si lascia velare.


II.
Lo sposo arriva.

Solo, difficilmente ei s'arrischia; lo accompagna, per lo più, il procolo o il camerata e talora una intiera brigata di giovani, fra suoni, grida, spari di pistoloni o schioppi. I ragazzi, al solito, gli fanno contrasto; ma di questi impedimenti nuziali vedremo, di proposito, in un prossimo capitolo. In Sardegna, lo sposo viene accompagnato dai paraninfi e dal prete del villaggio, specie di mezzano. Appena la sposa vede arrivare lo sposo si getta ai piedi della madre, e, piangendo e singhiozzando, ne invoca la benedizione. Ne' dintorni [149] di Fenestrelle, in Piemonte, lo sposo muove con tutto il parentado, e, secondo la espressione popolare piemontese, trova sempre, alla dimora della sposa, l'uscio di legno[294], che vuol dire la porta chiusa. Quei di fuori fanno alcuni bizzarri complimenti, spesso in rima, ai quali rispondono, dopo avere aperto, ed essere state ritrovate, dove stavano con essa nascoste, le amiche della sposa. Questi dialoghi fra gli amici dello sposo e le amiche della sposa sono popolari all'uso indo-europeo; e noi conserviamo ancora il canto relativo de' Brettoni, e quello degli Albanesi. Ma, presso i Brettoni, canta per la fanciulla e per le sue compagne, il loro avvocato che si chiama breutaer; il bazvalan o procolo, arrivato coi compagni dello sposo, a cavallo, nel cortile della sposa, la invita col canto ad uscire; il breutaer risponde; finito il dialogo fra loro, lo sposo coi compagni resta fuori; il bazvalan viene introdotto e siede un istante a tavola; dopo di che, il bazvalan discende a pigliare lo sposo[295].

Presso gli Albanesi di Calabria, mentre le compagne finiscono di vestire la sposa e la porta sta sempre chiusa, arriva lo sposo co' suoi e dicono[296]:

Rondinella dal bianco collo,
Apri tosto, e mi ti mostra,
Chè ti è venuto l'amante alla porta.

Le donne rispondono maliziosamente dal di dentro:

Zitti, via, che è impedita,
Abbiamo la biancheria nel bucato,
Abbiamo il pane al forno;
Quanto ne lo leviamo, e poi vengo.

[150]

Gli uomini:

Colà su, colà per il monte,
Colà era una pianura grande,
Dove pascolavano le pernici;
Mi si lanciò uno sparviero[297],
La più bella ne scelse,
E me la rapì per il cielo.

Le donne si volgono allora a consigliare la sposa compagna, perchè pigli il suo partito:

O sposa, tu sorella mia,
Servi tu il signor tuo,
Lascia gli ufficii che hai,
E prendi quelli che troverai.

Gli uomini fanno coraggio allo sposo, affinchè compia ardito il suo disegno:

O tu, signore sposo,
Non andare timido,
Chè non vai a combattere,
Ma vai a prendere
Quel capo (gentile come) una mela
Quella vita (sottile come) una verga.

Le donne aprono la porta; gli uomini irrompono; lo sposo fa atto di rapire la sposa; le donne si lamentano così:

O sparviero, primo sparviero,
Lasciami andare la pernice;
Ecco tristamente, poichè l'hai afferrata
Di lagrime inonda il seno.

Lo sposo è occupato della sposa; i compagni rispondono per lui:

Non la lascio, e non la rimuovo,
Chè io per me la voglio.

[151]

Vedendo una parte delle donne disperato il partito, salutano la sposa e la benedicono in nome de' suoi parenti:

Prendi tu dunque, sorella mia,
Prendi il saluto dalle compagne,
Dalle compagne, o dalle vicine.
Prendi la benedizione di tua madre,
Di tua madre, e del padre tuo.

L'altra parte si volta dolorosamente verso la madre in nome della sposa che, tutta occupata del suo dolore, non può più parlare:

Che ti ho io fatto, o madre mia,
E mi rimuovi dal tuo seno,
Dal tuo seno, e dal tuo focolare?

Ma la madre, che nell'uso popolare indo-europeo non accompagna mai la figlia nè alla chiesa nè al banchetto, perchè deve stare in casa a piangere, soffocata dalle lacrime, non può nulla rispondere; e neppure il vecchio padre. In nome loro pertanto una parte delle donne benedice la sposa:

Abbiti la benedizione tu, o figlia,
Vanne come il sole quando esce.
I nostri nomi nei tuoi figli
Si ripetano, e sieno onorati,
Quando noi saremo trapassati.

Questi rimproveri che la sposa addolorata volge alla madre sono pure assai poeticamente resi in un canto popolare russo. Lo sposo arriva co' suoi compagni a cavallo, secondo la consuetudine più universale all'uso indo-europeo; la sposa inquieta interroga la madre, che, per mezzo di vaghe risposte, si studia, come può, di allontanare dalla figlia il dolore che le sovrasta; ma, quando la compagnia entra [152] in casa e si stacca dal muro la sacra immagine, innanzi alla quale si devono gli sposi prosternare per essere benedetti, anche la madre si unisce a benedire:

— Madre, perchè nel campo c'è la polvere?
Signora, perchè nel campo c'è la polvere?
— Sono i cavalli che scherzano;
Luce mia cara, sono i cavalli che scherzano.
— Madre, nel cortile le visite arrivano,
Signora, nel cortile le visite arrivano!
— Fanciulla, non temere, non ti renderò,
Luce mia cara, non ti renderò.
— Madre, sul verone le visite arrivano,
Signora, sul verone le visite arrivano!
— Fanciulla, non temere, non ti renderò,
Luce mia cara, non ti renderò.
— Madre, nella stanza nuova vengono,
Signora, nella stanza nuova vengono!
— Fanciulla, non temere, non ti renderò,
Luce mia cara, non ti renderò.
— Madre, dal muro levano l'immagine santa,
Signora, dal muro levano l'immagine santa!
— Fanciulla, non temere, non ti renderò,
Luce mia cara, non ti renderò.
— Madre, mi benedicono,
Signora, mi benedicono!
— Fanciulla, il Signore sia con te,
Luce mia cara, il Signore sia con te[298].

[153]


III.
Il pianto della sposa.

L'uso indo-europeo primitivo lasciava piangere la sposa una sola volta, quando veniva lo sposo, e benedetta dal padre e dalla madre, la menava alla sua nuova dimora. La benedizione de' parenti bastava senza quella del prete; le funzioni domestiche bastavano senza quelle della chiesa. Allora si poteva dal rituale notare, in modo preciso, quando alla sposa spettasse di piangere. Ciò non si può ora, che lo sposo riceve in consegna la sposa non una, ma due o tre volte: la prima in casa, quando gli sposi s'avviano alla chiesa, la seconda nella chiesa stessa, la terza quando si torna di chiesa, correndo in parecchi paesi l'uso che gli sposi tornino dalla chiesa a far la prima refezione nella casa della sposa, la quale, come si dice, alle Langhe Albesi in Piemonte, ha bisogno di forze per la fatica del viaggio.

Questa molteplicità di congedi contribuì forse a fare scomparire in molti luoghi l'antico uso che faceva piangere la sposa prima di recarsi a marito. Pure di una cosiffatta usanza di vedica antichità, sono ancora molte le traccie in Italia, in Grecia, in Albania, tra gli Slavi e tra i Finni.

Per quello che mi consta dell'Italia, la cerimonia del pianto della sposa è viva in Sardegna, presso il Lago Maggiore, nella valle d'Andorno, a Monte Crestese nell'Ossola, nell'Abruzzo Ultra 1.º, nell'Arpinate, in Calabria, in Sicilia, nel Bolognese, nel Fanese, nell'Osimano, [154] nel Tudertino; e dico la cerimonia del pianto e non il pianto, dico il pianto infinto e non le pie lagrime che la madre e la figlia insieme confondono nel dolore del distacco; poichè questo dolore non è un uso, ma una voce sempre viva della natura, che non concede ad alcuno di lasciar senza rammarico le persone e le cose amate; dove si ama, si piange; ma perchè in molti luoghi si piange senza amare, quest'altro pianto è dell'uso.

Ma l'uso per riuscir tale, dovette pure avere il suo perchè; ed il perchè io lo trovo in un altro uso, che formerà il soggetto di un prossimo capitolo che si intitola: Il rapimento della sposa. Il canto popolare ci ricorda questo pianto obbligatorio nuziale, e de' saggi ne recammo già dalla poesia russa ed albanese; i contrasti del Carmen Nuptiale di Catullo lasciano indovinare la stessa usanza; e nell'agro Tuderte poi si canta ancora:

La giovinetta, quando si marita,
Con due parole abbandona la mamma:
Dice: la libertà per me è finita,
L'ultimo giorno che porto la palma[299].

A tal pianto, che fa, che dice lo sposo? Nel contado Osimano egli è pronto a soggiungere: «Che avete che piagnete tanto? Avete paura di non trovare il pa?[300] State zitta, magnerete, beverete e starete in santa pace.» — Meno cortese invece il paraninfo greco[301], alla piangente dice in nome dello sposo: [155] «se piange, lasciatela»; al che la sposa prontamente soggiunge: «menatemi via, ma lasciatemi piangere

La sposa deve inevitabilmente piangere, e il perchè lo vedremo, come pure perchè, mentre la sposa stava intenta al suo piagnisteo, lo sposo indiano mandasse un grido d'evviva.


IV.
Prima delle sacre funzioni.

Nell'India antica, era la suocera quella che faceva gli onori allo sposo venuto per portarle via la figlia; ma gli onori avevano per lo sposo assai poca attrattiva; la suocera di lui lo picchiava, con un pestello da mortaio, e lo tirava in casa pel naso. Il primo uso del picchiare lo sposo è pure germanico; ma, come il Weber[302] avverte, non la suocera, ma la comitiva nuziale fa, in Germania, un tale sgarbo allo sposo. Il suocero invece più onestamente offriva allo sposo indiano un miscuglio di miele e gli preparava da sedere sovra l'erba kuça. Presso i Tartari di Kazan è lo sposo che si fa precedere dal miele, ch'egli manda con uova e burro in dono alla sposa. Anche nella valle d'Andorno in Piemonte, lo sposo, di primo mattino, manda, entro un paniere, tutta una colazione allestita in casa alla sposa: poich'è uso che innanzi d'andare in chiesa gli sposi e compagni e parenti loro, in casa della sposa, facciano il primo spuntino.

Rifocillata, la compagnia si dispone a partire, i suonatori accordano i loro istrumenti e le campane incominciano [156] con lo suonare a festa. La madre benedice la figliuola, che in Ungheria s'inginocchia e riceve sul capo l'acqua benedetta[303]. È una specie di sacramento domestico.

Così, presso i Brettoni, quando lo sposo è entrato in casa, il capoccia gli consegna una cinghia da cavallo, che lo sposo passa alla cintura della sua fidanzata. Mentre egli affibbia e sfibbia la cinghia, il breutaer intuona un canto che incomincia: Ho veduto in un prato una giovine cavalla gioiosa, ecc.; dopo di che s'invocano le benedizioni del cielo; il breutaer fa scambiare gli anelli agli sposi e giurarsi di rimanere uniti sulla terra come il dito all'anello, per durare uniti nel cielo. La sposa esce quindi dalla casa col paraninfo (che non è il bazvalan), il quale ha tante liste d'argento sull'abito quante migliaia di lire porta la sposa in dote[304]. Segue il fidanzato con la donzella d'onore; il bazvalan fa salire lo sposo tenendo la briglia al suo cavallo, il breutaer solleva di peso la sposa, [157] ponendola dietro lo sposo, e compiendo così l'ufficio del dr'idhapurusha o uomo forte del cerimoniale indiano che sollevava di peso la sposa sopra la pelle di toro distesa presso il fuoco sacrificale e forse la portava pure sopra il carro, come nell'odierno uso germanico. Messi a cavallo gli sposi, tutta la comitiva, pure a cavallo, parte di galoppo verso la chiesa; e il primo che arriva si guadagna un montone e il secondo alcuni nastri[305].

In Russia, gli sposi vanno invece alla chiesa in due carri distinti, tirati da tre cavalli, dopo che la sposa ha raccomandato il suo giardino al padre, col canto che segue:

Per la campagna, il cigno gridava,
Nel gineceo Annetta piangeva:
Dio giudichi il padre mio!
Consegnano la fanciulla a gente straniera,
Rimane il verde giardino senza di me,
Si seccheranno tutti i fiori del giardino,
Il mio roseo, il mio bianco fiore,
L'azzurro, il celeste fiordaliso.
Io farò questa raccomandazione al padre mio:
Alzati, o babbo, di buon'ora,
Innaffia, di frequente, ogni mio fiore,
All'aurora ed al tramonto,
E più ancora con la tua mesta lacrima.

Ma il lasciare la soglia della casa, per muovere alla chiesa non è sempre senza cerimonie; in Germania, la giovine coppia gitta sulla soglia che deve attraversare un tizzone acceso[306], quasi per avvertire sè stessa come il passo che sta per fare vuol essere difficile, [158] od a purificarsi. In Sardegna, mentre la sposa esce dalla casa paterna, le viene presentata una cestina piena di tortore, a ciascuna delle quali essa deve dare la libertà[307]. Anche la Venus sponsa de' Latini rappresentavasi con una colomba in mano; e nei sarcofagi de' primi tempi della Chiesa, a simboleggiare la fedeltà coniugale, si rappresentano talora tortore, talora delfini[308]. Nella campagna d'Alba, fino all'anno 1848, nella vigilia del giorno in cui si festeggiano i due santi della città, per la qual festa si dà il fuoco ad una colomba, che dà così principio ai fuochi d'artifizio, perfettamente come la colombina di casa Pazzi che, in Firenze, per la settimana santa si brucia, affinchè i contadini tirino gli augurii per la raccolta dell'anno; nella campagna d'Alba, io dico, fino all'anno 1848, era l'ultima sposa fattasi prima della festa, che doveva dare il fuoco alla colomba. Ora queste tortore e queste colombe compagne della sposa, di ottimo augurio anche nelle nozze de' Brettoni, che cosa significano? Sono esse simbolo d'innocenza o d'amore o di fecondità o di tutto questo insieme? E le tortore che la sposa sarda mette in libertà non potrebbero essere segno della innocenza che la fanciulla è prossima a perdere? o pure, come parmi più probabile, non simboleggierebbero esse la libertà che la fanciulla, sottratta all'autorità paterna, va cercando nella gioia delle nozze?

Comunque ciò sia, ecco gli sposi in istrada, per non tornare indietro, divisi per lo più, finchè il prete non li abbia uniti in chiesa, e sostenuti ciascuno dai proprii parenti, mentre i suonatori, le campane, lo [159] sparo de' mortaletti e degli schioppi e gli evviva della folla accompagnano la marcia più solenne che festosa di tutta la comitiva nuziale, la quale quanta fosse, in passato, possiamo raccogliere da una prova negativa, io voglio dire presso gli Statuti Fiorentini del 1415[309], ove si pone il divieto che il corteggio nuziale possa comporsi di oltre duecento persone, cioè cento per parte. Nè alcun vocabolo potrebbe essere qui più proprio di corteggio, per esprimere la comitiva nuziale, poichè dove son principi, ivi è corte; e che gli sposi siano principi lo vedremo nel capitolo seguente. Noto intanto, come nel Canavese, quando un uomo s'avvia per pigliar parte ad alcuna comitiva nuziale, sia solito a dire ch'ei va a far onore, o sia, a far la corte.


V.
Gli sposi incoronati.

Se non è una corona, sarà una ghirlanda; se la corona non è d'oro, sarà di un altro metallo; se non si adopera corona, saranno fiori; ma sempre usò e sempre usa ricingere di un serto il capo degli sposi. Poichè gli sposi son principi, e principi, perchè il primo degli sposi, lo sposo mitico, il sole è sommo principe incoronato. Al sole fanno corona i suoi raggi; gli sposi della terra, nel difetto di raggi solari, immaginarono cingersi il capo di oro o metallo che all'oro somigli, o di vaghi fiori. Il principato degli sposi dura, in Russia, quanto le nozze, o sia per lo più otto giorni; è un resto del culto agli sposi come ai [160] principi mi sembra l'uso da pochi anni scomparso nella campagna d'Alba, ove un drappello di soldati presentava le armi agli sposi che passavano, mentre che l'ufficiale di guardia offeriva un mazzo di fiori alla sposa.

Ora è interessante il vedere come l'uso della corona o ghirlanda nuziale sia popolare a quasi tutti i popoli indo-europei. Per l'India, sappiamo che lo sposo muove tuttora incoronato alla dimora della sposa; per la Russia, che i due paraninfi tengono levata sul capo degli sposi per tutto il tempo del sacro rito una corona metallica, d'oro per i ricchi, indorata o di ottone per i poveri[310]; per la Grecia, che i due sposi portano una ghirlanda, la quale serbano di poi sopra il letto; per l'Albania, allude alla corona nuziale un grazioso canto popolare, ove si dice, fra l'altro:

Quando passano il parentado con lo sposo
Prendi i pampini della bianca vite,
Sì prendi i pampini della vite bianca,
E ne intessi due corone[311].

Presso i latini sappiamo che si coronava la nuova sposa con verbene ed erbe scelte da lei medesima, e Imene si cingeva le tempie coi fiori della fragrante maggiorana[312]; fra i primi cristiani, entrambi gli sposi si incoronavano[313].

[161]

Nell'uso moderno europeo, generalmente, s'incorona invece solo più la sposa[314]; e come le antiche spose, per memoria di Suida, dedicavano il cinto nuziale a Diana, le nostre dedicano la loro ghirlanda nuziale alla Vergine, che ne ha preso il posto e ne compie, presso le donne, i più delicati uffici[315].


VI.
Gli sposi velati.

Il velo può avere un doppio simbolo, o di legare materialmente gli sposi o di rappresentarne la innocenza; il fatto che le vedove non solevano, passando a seconde nozze, ripigliare il velo nuziale[316] può convenire per la dichiarazione così d'un simbolo come dell'altro. E il pudore naturale alle vergini dovette loro farlo più accetto e contribuire a perpetuarne l'uso; se bene, per verità, anche a tal pudore [162] vi siano state e vi siano eccezioni[317]. Il velo che ora vediamo per lo più bianco sul capo delle spose, come desiderato segno di candore, in origine era di un color rosso di fuoco; e però flammeum lo chiamavano i Latini. Io inclino quindi a credere che il desiderio di fargli simboleggiare la innocenza fosse in origine il minimo, e che il colore del velo simboleggiasse piuttosto la prima unione maritale. Per i Latini, il flammeum doveva essere simbolo d'unione sempiterna, se dobbiamo attenerci alla sola interpretazione che, sotto questa voce, ne dà Festo[318], il quale nota come la moglie del flamine, alla quale non era lecito il far divorzio, portasse di continuo il flammeum; ma non è impossibile che la flaminica portasse il flammeum ossia il velo color fiamma, color del fuoco generatore, [163] per l'unica ragione che si chiamava flaminica. Si noti tuttavia come il velo nuziale si converte ordinariamente anche per le donne maritate moderne in cuffia: la qual cuffia, come il velo, rappresenta non tanto l'innocenza che si ha, quanto quella che si è perduta, come mi sembra provarlo l'usanza della Piccola Russia da me ricordata, per la quale si copre il capo con un fazzoletto a modo di cuffia, anche alla fanciulla che, senza maritarsi, ha peccato.

Il velo si metteva nelle antiche nozze sul capo dello sposo non meno che della sposa; e sappiamo che, velati, nella cerimonia sacrificale, solevano pure mostrarsi gli sposi romani. I cristiani adottarono l'uso del velo nuziale solamente verso il terzo o quarto secolo dell'era volgare, poichè in odio del flammeum pagano, parve loro assai tempo empia consuetudine; e forse d'allora in qua, non volendosi o non potendosi sopprimere il velo, se ne mutò il color rosso in bianco. Durò l'uso del velo nuziale per tutto il medio evo in chiesa, nè solo per la sposa, ma anche per lo sposo. Quattro uomini tenevano i quattro angoli del velo sospeso sopra le due teste incoronate degli sposi, sempre che non si trattasse di vedovi[319]. E un testimonio oculare mi scrive aver notato in una cerimonia nuziale a Parigi, nel tempio della Madeleine, or sono pochi anni, come, ad un certo punto della messa, si distendesse da due parenti sul capo degli sposi un velo oblungo. «Le Greche dell'Armenia, scrive il signor Zecchini, pel giorno delle loro nozze portano un velo di color rosso e giallo, col quale si coprono la testa e tutto il corpo.»

[164]


VII.
Il tappeto degli sposi.

Quello che il velo sul capo, esprime il tappeto nuziale disteso sotto i piedi degli sposi e sopra i sedili uniti ov'essi siedono; è simbolo, cioè, del primo materiale congiungimento[320]. Gli sposi russi, per quanto dura la sacra funzione, restano in piedi sovra un tappeto di raso color rosa; gli sposi cercano mettervi i piedi nello stesso tempo, poichè si crede che nella casa padroneggerà quello o quella che metterà primo il piede sul tappeto nuziale. Gli sposi indiani rimanevano sopra una rossa pelle di toro. Gli sposi romani sedevano sopra scanni fra loro congiunti con una pelle della vittima sacrificata, la quale, come si rileva da certi bassorilievi, era una vacca. Noto, per incidente, come nel sacrificio nuziale degli antichi Finni si sacrificava pure un toro[321]. Ora, una reminiscenza di cosiffatti usi simbolici mi sembra di certo ancora il tappeto o cuscino rosso, sopra il quale, nell'agro Tuderte, innanzi la soglia della casa, la suocera fa inginocchiare la sposa[322].

[165]


VIII.
Gli sposi inanellati.

Altri son gli anelli della promessa, altro l'anello che si mette, in presenza del prete, solennemente in chiesa. In Russia, in Albania, sul Pindo, gli sposi scambiano i loro anelli tre volte. Scambio di anelli tra gli sposi notiamo pure nelle Edda, fra i Germani e fra i Brettoni. Rosso doveva essere l'anello nuziale scandinavo, e d'oro lo mantenne generalmente l'uso nuziale indo-europeo, forse in memoria del c'akra o circolo o disco del sole, il primo degli sposi.

Questo anello si mette, come è noto, al quarto dito, chiamato perciò anulare, cui nel medio evo si reputava corrispondere una vena del cuore. Secondo un rituale della chiesa di Rheims, il prete provava l'anello sulle tre prime dita, recitando per ciascun dito una formula ripetuta dal fidanzato, e al quarto dito si fermava con un'altra formola[323]. Ma conviene che lo sposo abbia alcuna avvertenza nel mettere in chiesa l'anello alla sposa; poichè la sposa trae pronostici dalla maggiore o minor violenza con cui lo sposo l'inanella; se lo sposo canavesano e il perugino introduca, per esempio, l'anello al di là della [166] seconda congiuntura nel dito della sposa, questa deve rimanere avvertita che lo sposo sarà un tiranno domestico e che la bastonerà. Grande sventura poi il perdere l'anello nuziale; in Germania, de' due sposi morrà primo quello che avrà perduto l'anello; e, nel Perugino, si dice che starà tanti anni nel purgatorio colui che avrà perduto l'anello nuziale.


IX.
Communione di cibi e di bevande.

Vi ha un proverbio francese che dice: Boire et manger, coucher ensemble, c'est mariage ce me semble. Questo proverbio si riferisce evidentemente all'uso di far bere e mangiare gli sposi insieme, uso che diede luogo nel medio evo a parecchi abusi[324].

Nell'India vedica, si versava sopra le mani de' due sposi unite una doppia manata di grano arrostito.

Fra i Parsi, mentre gli sposi si danno la mano, il maubad versa loro sopra le mani unite riso e frumento. [167]

La romana confarreatio, che consacrava le nozze, doveva avere il medesimo significato, ossia rappresentare la communione di ogni bene fra gli sposi.

La confarreazione si celebrava nel cospetto del Pontefice, del Flamine e di dieci testimonii. Le Vestali preparavano un minestrone di farro con cui si aspergeva la vittima simbolica del sacrificio nuziale. Di quello stesso farro facevasi un pane del quale entrambi gli sposi doveano mangiare.

In alcuni cantoni della Brettagna, il prete taglia una fetta di pane bianco e lo spezza fra gli sposi; quindi versa vino in una tazza d'argento, che lo sposo beve in parte, passando il resto alla sposa.

In Russia, gli sposi, per un antico uso ereditato forse dai Greci, che lo hanno pure conservato, si scambiano tre volte in chiesa il calice contenente vino; l'ultima goccia dev'essere bevuta dalla sposa, la quale intende così di volere, in seguito, vuotare, rassegnata il calice delle amarezze[325].

Ne' dintorni di Bolzano (Trentino), due ragazzi sostengono due vasi pieni di vino; il prete versa da bere allo sposo e alla sposa, che bevono allo stesso bicchiere; quindi si fanno bere tutti gli astanti.

Tutto ciò fa parte del cerimoniale sacro; ma vi sono usi, i quali, anche non presente il sacerdote, restano sacri, tenendo le parti del sacerdote il padre. Così, se gli sposi non divisero i cibi e le vivande in chiesa, lo faranno appena giunti a casa. [168]

Nella valle di Susa, gli sposi mangiano allo stesso piatto e bevono allo stesso bicchiere[326].

Lo stesso uso vive in Sardegna[327] e presso il Lago Maggiore.

L'indiano Gobhila scrive d'un cibo sacrificale, che nel secondo giorno delle nozze gli sposi dovevano mangiare insieme, e il Weber[328] annota come nell'antiche usanze del settentrione, e in Colonia, e ne' Siebenbürgen gli sposi bevono allo stesso bicchiere.

Nell'Indocina[329], al banchetto nuziale gli sposi mangiano allo stesso piatto; così, generalmente, nell'India odierna, al banchetto che si fa nel quarto giorno delle feste nuziali.

Marco Cralievic', l'eroe de' Serbi, fra gli altri doni che egli reca alla sposa, ha pure una ciotola, nella quale egli deve bere con essa; e sappiamo da Quinto Curzio[330] come, presso i Macedoni, gli sposi spartissero con la spada lo stesso pane, ed insieme lo gustassero.


X.
Intorno all'Altare.

A simboleggiare il viaggio della vita che i due sposi insieme faranno, l'antico sposo indiano pigliava per mano la sposa e le faceva fare tre giri intorno all'altare, dicendo: «Vieni, sposiamoci, facciamo figli. [169] Uniti d'amore, gloriosi, contenti, viviamo cento anni.» Gli stessi giri intorno all'altare compievano gli sposi romani, mentre innanzi alla sposa, per augurio di fecondità, si portava il farro. Nelle nozze russe, i due sposi tengono da una mano una candela, e, pigliandosi per l'altra mano, fanno pure tre giri intorno all'altare; quindi si baciano. Un'altra cerimonia somigliante era quella de' sette passi della sposa indiana verso il nord-est, per ciascuno de' quali lo sposo faceva un augurio; all'ultimo, egli diceva: «fa l'ultimo passo come amica; siimi affezionata; possiamo noi aver molti figli e questi diventino vecchi.» Il che detto, come gli odierni sposi russi, così gli indiani accostavano volto a volto. Al Weber[331] i sette passi indiani richiamano pure in mente i sette salti dell'uso nuziale germanico. Quest'ultimo uso, meglio che il viaggio in comune degli sposi, può forse indicare soltanto che la sposa sta per fare il gran passo. Il salto della sposa ebraica ha forse il medesimo significato, se pure non è un semplice salto di gioia, come quello di Bigio, nello Stufaiolo del Doni[332].

[170]


XI.
Ove le nozze si celebrano.

Nel recinto domestico si celebravano le nozze indiane, slave, germaniche, greche e latine, sia che il solo padre della sposa sacrificasse, sia ch'egli chiamasse ancora, per la cerimonia, un sacerdote sacrificatore.

Nell'India meridionale, le nozze si fanno ancora sotto padiglioni sostenuti da colonne in legno molto elevate[333]. Nel medio evo, in Francia, si celebravano le nozze sulla soglia della chiesa. E che in Toscana, fino al secolo decimoquinto si consacrassero pure nozze fuori di chiesa lo argomentiamo da un divieto degli Statuti Fiorentini del 1415[334] perchè un tale scandalo non si rinnovi. Nell'introduzione del marchese Campori agli Statuti di Modena[335], a proposito d'un matrimonio civile celebrato nel 1289, trovo poi queste parole: «Ritornando in sul dire della celebrazione di quel matrimonio, troviamo avesse luogo non in una chiesa, ma bensì nel cortile della casa di Lanfranco Rangoni, dove, benchè fosse il verno, oltre [171] a duecento persone, tra nobili e popolani, erano convenute. Un Caretti, senza più uom laico e che vent'anni più tardi apparisce notato nella matricola de' giudici, richiese entrambi i giovani se ad unirsi in matrimonio acconsentissero; alla qual dimanda affermativamente risposero; dopo di che, i padri degli sposi innanzi a lui il consenso loro prestarono. «Allora, dice il documento nostro, Tobia Rangoni sposò coll'anello la figlia sua ad Aldrobandino, e poscia nella camera stessa di lui fu ad essi apprestato il letto nuziale. Nè allora, nè in altra circostanza, che ci sia nota, questa forma di matrimonio civile che era, al dire del Caretti medesimo, secondo le consuetudini della città, porse luogo a protestazione del clero, che pure in tante altre circostanze ciò che stimava di pertinenza sua alacremente contro l'autorità laicale soleva propugnare.»


XII.
La parte del prete.

Il concilio di Trento[336] stabilisce la nullità del matrimonio se non sia contratto in presenza del parroco e di testimonii; il qual decreto della Chiesa, preso alla lettera, dovea poi, nell'opinione del secolo decimosettimo, far parere legittime le nozze, come quelle di Lucia Mondella con Lorenzo Tramaglino[337].

[172]

Il prete supplì il padre, nelle funzioni di combinatore e consecratore di nozze; e in qualche caso supplì la pronuba, o, come il feudatario medievale, anche lo stesso marito.

Nel compiere tali ufficii e ancora nel rinunciare ai medesimi, il prete si fa pagare; raro è che il parroco si contenti, come nell'Abruzzo Teramano, che gli sposi gli bacino le mani. Egli vuol doni, e la gallina che si dà nell'Arpinate al parroco e il bicchier di birra, la candela e il ramo di rosmarino involto in un filo sfilacciato di seta rossa che ricevono il pastore ed il sagrestano, nell'Havelland[338], sono gli infimi doni che gli sposi possano rilasciare alla chiesa. Il prete indiano richiedeva, senz'altro, una vacca, e, per di più, riceveva in dono i panni sudici della sposa ch'ei solo avrebbe, secondo la credenza inspirata al volgo, potuto purificare.

In Francia, nel medio evo, il prete soleva pure intervenire al banchetto nuziale; ma fosse pudore, fosse malizia, esso preferì, in seguito, convertire il suo diritto in denaro.

Io inclino tuttavia a credere che il pudore trattenesse assai pochi dal partecipare al banchetto nuziale, per lo più indecentissimo, riflettendo come le frequenti lagnanze de' primi scrittori della Chiesa contro i preti, diaconi e sottodiaconi che assistevano ai banchetti nuziali, provino soltanto il piacere della recidiva. La speculazione potè invece più presto decidere [173] il prete a privarsi di doni e vantaggi incerti, per assecurare ai suoi ozii una rendita fissa. Così troviamo ora che il prete per lo più, nelle cerimonie nuziali, riceve solamente danaro. Nel Pesarese, lo sposo dava al prete un papetto o un testone, o un mezzo scudo[339] ed al sagrestano uno zapparin[340]. La qual conversione del dono in danaro, premeva tanto al nostro prete ch'ei la volle pur consegnata, come legge, negli Statuti municipali[341].

Gioverà ora vedere, per merito di quali ufficii, il prete riceve la sua mercede nella cerimonia nuziale. Ai sacrificii antichi, ne' quali si sacrificavano o si fingevano di sacrificare il simbolico toro ed altri animali fecondatori, come la porca romana, con grande spargimento di grano, riso, farro, simboli di fecondità, e di acqua purificatrice, sottentrò presso i cristiani la così detta Messa degli sposi, nella quale si finge di sacrificare in corpo e sangue ed anima il fecondatore per eccellenza, la bellissima tra le figure del sole, il Cristo. Poco su poco giù, sono gli stessi inchini, le stesse benedizioni, le stesse preghiere, lo stesso spettacolo. Se non che, il prete indiano accompagnava gli sposi nella camera nuziale, e continuava a dirigerne e benedirne ogni movimento e recitar formole molto espressive, finchè non vedesse il matrimonio [174] intieramente consumato[342]; il prete cristiano si fermò sulla soglia della chiesa. Tuttavia è notevole come anche in Francia, e particolarmente in Brettagna, il prete cristiano abbia cercato di protrarre l'uso antico, recandosi nel medio evo a benedire il letto nuziale, sopra il quale stavano gli sposi (sedentes vel jacentes, come dice il cerimoniale)[343], con le seguenti parole: «benedite questi cari giovani come voi avete benedetto Tobia e Sara; degnatevi benedirli così, o Signore, affinchè nel nome vostro essi vivano e invecchino e si moltiplichino lungamente, pel Cristo Signor Nostro. Così sia.» Altre formole di benedizione del letto nuziale si trovano ne' rituali della Francia medievale.


XIII.
Augurii di fecondità alla sposa.

Quasi tutta la cerimonia nuziale è simbolica del congiungimento degli sposi e della fecondità loro augurata. Ma vi sono, fra l'altre, alcune cerimonie più significative, che meritano di fermare la nostra attenzione. Il grano, che la folla getta ancora sopra gli sposi che passano in Sardegna[344], in Sicilia e ad Ortonuovo in Lunigiana, ricorda il grano sparso a piene mani nelle cerimonie nuziali indiane e latine, il grano che soleva portarsi innanzi alla sposa latina, affinch'ella diventasse feconda, il grano che [175] l'odierna suocera indiana versa sul capo della nuora. Il cestino di pulcini che, nella campagna di Bra, si fa abbracciare alla sposa ed i bambini che presso i Brettoni si mettevano nel letto nuziale degli sposi, ricordano l'uso vedico di mettere un bel bambino sopra il seno della sposa, per lo stesso augurio di fecondità.

I Romani facevano sedere la sposa sopra una pietra Priapea; ed un senso fallico aveva pure la pietra sopra il letame, ed altre pietre alle quali lo sposo indiano, a più riprese, faceva accostare la sposa, dalla quale scongiuravasi pertanto Viçvàvasu il genio della verginità. Le zuppe di tutta carne che si mangiano nell'Altmark, in Germania[345], dagli sposi, affinchè il loro bestiame s'accresca, ricordano i numerosi inni e riti vedici, i quali, con la fecondità degli sposi, auguravano la prosperità alla casa. A tutti questi atti augurali, aggiungansi i frequenti augurii di numerosa figliuolanza fatti, per ogni verso, con smorfie e parole agli sposi; e, dopo avere tutto notato ed esserci persuasi che le credenze più antiche sono le più tenaci, e che il mondo non minaccia spopolarsi, per difetto d'augurii alle spose affinchè si fecondino, diamoci pure un po' di spasso e permettiamoci pure di ridere, alla volta nostra, coi versi inesorabili di Tito Lucrezio, ripetendo al credulo volgo il suo eloquente nequidquam[346].

[176]


XIV.
Allegrezze perchè si fa la sposa.

In Germania, la vigilia delle nozze, i ragazzi rompono tutte le vecchie stoviglie della casa, levando grida di gioia. A Gallarate e Turbigo, in Lombardia, il più ardito vicino entra di soppiatto nella stanza ove la compagnia nuziale festeggia, e getta in mezzo ad essa una scodella di terra, che naturalmente va in pezzi; dalla strada allora i ragazzi fanno strepitosamente evviva alla sposa. Nel Fanese, la suocera presenta alla sposa una pentola piena di cenere e di cattive erbe; la sposa la butta in terra; e quanto più minuti pezzi se ne fanno, più il matrimonio sarà felice e fecondo. In generale, per tutta Italia, si ha per buon augurio che in giorno di nozze si rompa qualche cosa. Ed è troppo evidente di quali guasti sia simbolo, una tal cerimonia, perchè io abbia bisogno di interpretare il malizioso proverbio Perugino: «se si rompe qualche cosa è male per la sposa.»

Ai ragazzi che fanno festa agli sposi, soglionsi ancor gettare confetti, ciambelle e noci, che ricordano le nuces juglandes de' Romani. Allora i ragazzi se ne vanno via contenti e le loro grida risuonano soltanto di lunghi evviva. Ma guai se si tardi o si neghi ai gridatori il dono; le grida si fanno insolenti; non si rompono più cocci, ma vetri e tetti, e si fa ingiuria alla sposa, come se questa nell'unirsi ad un uomo, abbia incontrato la massima tra le vergogne. Già Astolfo re dei Longobardi poneva una multa per impedire [177] in Italia l'abuso di gettare immondizie sopra la sposa[347]. Gli Statuti di Firenze del 1415[348] proibiscono che si gettino sassi contro o sopra la casa, dove le nozze si fanno; gli Statuti di Città di Castello[349] vietano che si gettino pietre, o immondizie o si faccia strepito alla casa di chi fa nozze; un decreto finalmente della Repubblica Veneta del 1562[350] ha quanto segue: «Nelle feste che si faranno di nozze, come di compagnie, et di cadauna altra, siano del tutto prohibiti li festoni sì a porte et fenestre come in ogni altro loco, nè possano usarsi tamburi, trombe squarzade, et simili instrumenti, nè meno alcuna sorte di codette, o altra artiglieria.» Pure lo sparo di mortaletti, schioppi e pistole e il suono di campane continua ad accompagnare la festa nuziale in molti luoghi d'Italia, come pure in Germania; ma non in segno di spregio alla sposa, sì bene di festa. I giocolieri o troctingi medievali sono sostituiti dai presenti torottotela subalpini e buffoni marchigiani, e montenegrini[351], i quali accompagnano il suono e il canto di movimenti assai grotteschi; anzi, presso Novi Ligure, il buffo è lo sposo medesimo, il quale precede la comitiva, spiccando [178] salti meravigliosamente bizzarri, fra gli evviva della folla. Il violino e la viola sono poi gli ordinarii strumenti coi quali si rallegra ora la marcia nuziale ne' contadi d'Italia, se bene dei tamburi accennati nel decreto della repubblica veneta vi siano ancora vestigia tra noi[352].

Nella marcia romana e greca, le tede o fiaccole, simboliche del fuoco domestico e del fuoco generatore acceso dalle madri, ornavano la pompa nuziale. Nell'uso moderno, gli sposi non portano la candela fuori della chiesa, gli Slavi, e i Tedeschi che ne fanno uso, avendo per costume di donarli al prete, come gli Italiani del medio evo[353]. È singolare tuttavia l'uso di Civita di Penne, ove, all'uscire degli sposi dalla chiesa, si presenta un uomo con una grande paniera, adorna di dolci e nocciuole infilate, sul capo, e in mezzo alla paniera un grosso lume.

All'uso delle tede nuziali vuolsi evidentemente ascrivere l'origine della burlesca espressione italiana far lume, che vuol dire assistere a bocca asciutta al godimento degli sposi o innamorati.

Nell'India ancora, si porta una lampada accesa, mentre la sposa muove alla dimora dello sposo, qualunque sia l'ora del giorno, non volendosi, di certo, sopprimere al fuoco il suo simbolo, che in questo caso, non è tanto d'illuminare quanto di augurare alla sposa vigilanza e fecondità; così, nell'India vedica, gli sposi si facevano precedere dal fuoco nuziale che non doveva estinguersi mai; e una formola conservata dall'Atharvaveda[354], da recitarsi mentre la sposa entrava [179] in casa, le raccomanda il fuoco e l'acqua, come l'uso romano voleva che la nuova sposa fosse accolta con acqua e fuoco. Quanto all'origine della cerimonia, è possibile che sia mitica; l'aurora, la prima delle spose, la sposa del sole, ci presenta anch'essa alle sue nozze un fenomeno di fuoco ed acqua, ossia di luce e rugiada.


XV.
Il rapimento della sposa.

Risaliamo qui ancora al mito, ed all'epopea che ne deriva. In questa prima tra le creazioni artistiche dell'umano intelletto, il Dio o l'eroe si conquista la sposa, sottraendola al suo guardiano, che la tiene occulta. La giovine sposa, allieva delle fate, cresce nelle tenebre; il giovine sposo, altro allievo delle fate, esce anch'esso dalle acque tenebrose[355]. Il giovine sposo, sottrae alle tenebre la giovine principessa, ossia la rapisce ai draghi, ai demonii; e in altre parole più brevi e intelligibili, il sole sposa l'aurora, la figlia della notte. Questo è il più frequente motivo mitico ed epico. Ed a questo motivo io riferisco la cerimonia del rapimento che occorre talvolta nell'uso nuziale indo-europeo. Gli scrittori romani, notando l'uso, vollero spiegarlo come una reminiscenza dell'antico ratto delle Sabine; e trovarono a' dì nostri, molti critici, che ripeterono senz'altro quelle stesse origini dell'uso. Ma chi consideri come il ratto delle Sabine sia un avvenimento del mito, e non della storia, e [180] come Romolo sia l'eroe dell'epopea latina, e però stia fuori degli avvenimenti terrestri[356] e chi consideri ancora come, presso altri popoli, i quali non ricordano nella loro storia alcun ratto di Sabine lo stesso uso si conserva, non vorrà confermare un pregiudizio che nacque in tempo in cui il cielo mitologico era chiuso alla critica quanto e più forse dell'astronomico.

Il principe degli sposi, lo sposo visibile d'ogni giorno, lo sposo celeste, lo sposo alle nozze del quale con Sùryà è dedicato un intiero inno vedico, i cui versetti servirono poi nell'antichità indiana di formole per il cerimoniale delle nozze, il sole, insomma, servì di modello agli sposi. Egli sposa l'aurora e la rapisce dal potere sinistro de' genii della notte: l'aurora versa la rugiada; la sposa rapita deve necessariamente piangere. Ma il sole rasciuga la rugiada; lo sposo non piange, ma rasciuga il pianto della sposa. L'uso ed il fenomeno celeste, a vicenda, si dichiarano.

Vediamo ora come quest'uso siasi mantenuto. Dionigi d'Alicarnasso lo chiama greco ed antico[357], ed è noto come a Sparta la cerimonia nuziale fosse un vero rapimento che lo sposo faceva d'accordo coi parenti. Nel rito romano, ai tempi di Catullo[358] il marito fingeva [181] di rapire dalle braccia della madre la sposa. La stessa finzione si rinnova nell'uso nuziale sardo; e a Casalvieri, nell'Arpinate, la forma del rapimento è questa:

«Lo sposo accompagnato dai parenti trova chiusa la casa della sposa; nè, per picchiar ch'ei faccia, alcuno lo sente; onde, tutto smanioso, ne domanderà i vicini che rispondono di non saperne nulla. Allora egli si aggira per quei dintorni ed, in un fosso, troverà una scala a piuoli rotta in qualche parte; egli, racconciatala, con questa sale per una finestra nella casa della sposa. Dopo molto cercare trova la sposa nascosta in qualche cantuccio, e con essa egli discende ad aprire la porta della casa tutto festante ed allegro. Allora il padre e la madre della sposa gli dicono: «Or che l'hai ritrovata l'hai meritata», ed il padre di lui presenta innanzi la porta della casa ai genitori della sposa una coscia di pecora, dicendo: «ecco la carne morta e dateci la viva[359].» Dopo di ciò, la sposa viene benedetta e consegnata allo sposo, che la mena verso la sua dimora.

La stessa cerimonia del rapimento è nell'uso Turanico. Per l'Ungheria, me lo fa supporre la consuetudine che vi si mantiene del serraglio[360]; per i Turcomanni, il Boqueville attesta come, dopo una viva lotta simulata fra gli amici dello sposo e i parenti della sposa, questa, resistente, viene portata via, di fuga sopra un tappeto; per i Finni è ancora il Kalevala che ci istruisce. Lo sposo finnico come l'indiano e lo slavo viene o manda a pigliar la sposa con un carro tirato da cavalli. La sposa piange a [182] lungo e non sa decidersi; la madre le rimprovera quell'abbandono; un fanciullo la consola; le comari la consigliano intorno ai doveri; alfine lo sposo mena via la sposa ed i ragazzi cantano: «Un uccello nero è venuto dal fondo della foresta fino a noi, e ci ha rapito una bell'oca.»


XVI.
Il serraglio.

Allo sposo rapitore è naturale che parenti, amici, vicini, conterranei contrastino la sposa rapita; quindi, per la sposa rapita, si armano le guerre epiche; e dal mondo epico-mitico l'uso popolare ha derivato, fra gli altri impedimenti nuziali, la cerimonia del serraglio, con la quale s'impedisce l'allontanamento della sposa.

Nell'India antica, parecchie ragazze cercavano trattenere con varii scherzi lo sposo mentre egli veniva a pigliare la sposa; e lo sposo le placava con doni.

Così, in Russia, sono ancora le fanciulle che arrestano lo sposo prima ch'egli arrivi alla chiesa; e lo sposo le manda via contente con moneta spicciola e pan pepato.

Quando lo sposo, nell'Heideboden in Ungheria[361], conduce via la sposa, la gioventù del villaggio con un nastro di seta impedisce la via; gli sposi si riscattano con un bicchiere di vino e un po' di pane, sebbene, alla prima, il procuratore della brigata dimandi assai più.

Questa cerimonia è chiamata generalmente in Italia [183] fare il serraglio, in Corsica, far la travata o far la spallera, nel Pistoiese, far la parata, nella Valtellina, far la serra, nel Tarentino, fare lo steccato[362] od anche fare la parata[363], e in parecchi luoghi del Piemonte, fare la barricata.

In generale, stimasi poco onorata la sposa di quei nostri contadi ove l'uso vige, se gli amici non arrestano gli sposi, mentre partono; arrestando lo sposo, si prova di stimare la sposa; perciò le spose si mostrano sempre liete di un tale contrasto, il quale consiste, per lo più, in un semplice nastro che la sposa stessa deve tagliare, e talora pure in una vera barricata (il serraglio qui appare simbolico della verginità della sposa).

Del serraglio nuziale trovo già ricordo per la Toscana, presso il Sacchetti e poi nella decima novella di Agnolo Firenzuola[364] e in uno scritto, forse inedito, del Rinuccini, che, per quanto spetta le nozze, io riferisco per intiero, in nota, da un manoscritto della Magliabecchiana[365].

[184]

Quando la sposa va fuor di paese, il serraglio si fa agli sposi sulla porta del paese; ed ordinariamente è la sposa quella che con le forbici taglia il serraglio, se pur questo serraglio è solamente un nastro o cordoncino da potersi tagliare con le forbici, quasi voglia la sposa mostrare con tale atto ch'essa va via [185] volentieri e che non le importa di perdere quello che perderà. Se invece si tratti di un serraglio impossibile a tagliarsi con forbici, provvedono la ronchetta del marito e le braccia di lui e della brigata soddisfatta ne' doni, occorrendo talora di rovesciare una vera barricata composta di parecchi attrezzi da campagna. [186]

Pure alcuna volta accade che la brigata de' giovani, ricevuta, per rispetto alla consuetudine, una piccola moneta, regali invece essa stessa con lauti cibi e bevande gli sposi.

L'uso del serraglio dura, per quanto è pervenuto a mia notizia, quantunque si vada ora sensibilmente perdendo, nel Monferrato, nell'alto Canavese, nell'Ossola, presso il Lago Maggiore, nella Valtellina, nel Trentino (Valle di Non), nel Fanese, nel Pesarese, in alcuni [187] contadi della Toscana, in Corsica, nell'Abruzzo Teramano e nel Tarentino.

L'uso è de' più caratteristici nelle nostre cerimonie nuziali, e può servire di lucido commento alla più bella pagina dell'epopea. Lo sposo, sia che tolga la sposa stessa, sia che tolga alla sposa quello ch'essa custodisce più gelosamente, è sempre un rapitore; ora le cose vietate non ottenendosi senza difficoltà, allo sposo rapitore, che pur finisce col trionfare, si oppone, per via, qualche ostacolo; il serraglio è figura evidente di ostacoli siffatti che lo sposo rapitore incontra. Adamo Oleario, che viaggiava nell'anno 1637 in Persia, vi aveva notato quest'uso. Quando si faceva il contratto nuziale, tutti gli astanti dovevano tenere le mani distese, poichè in tal modo s'impedivano loro atti di spregio allo sposo, come per esempio, il taglio di un lembo della vesta, con imprecazione affinchè lo sposo riesca impotente; ma di ciò si vedrà meglio nel nostro libretto sopra gli usi natalizii.


XVII.
Per istrada.

La maggior solennità delle antiche nozze romane era la così detta deductio; il popolo affollavasi alla porta, onde la sposa doveva essere condotta alla casa maritale tra le fiaccole, i suoni[366], gli osceni motti Fescennini, gli augurii e gli evviva al Dio Talassio, una specie di Fallo latino. I parenti, gli amici intimi, [188] la pronuba erano della comitiva; così pure un puer camillus col vaso cumerum, e tre patrimi et madrimi pueri praetextati, l'uno de' quali precedeva con una fiaccola di spina bianca, di ottimo augurio nelle nozze, gli altri due guidavano la sposa. In Grecia usano ancora nel corteo nuziale esser presenti i saltatori, i suonatori ed i cantori d'inni epitalamici; la sposa carica di ornamenti procede in mezzo a due donne che la sostengono.

La stessa pompa si nota nelle antiche e moderne nozze di tutto l'Oriente, ove il massimo lusso di vesti, bardature e carri è sfoggiato. Nell'India poi, lungo il viaggio, gli sposi solevano recitar varie formole di augurio per la fecondità e felicità e di scongiuro contro le malattie e contro i ladri che si potessero incontrare per via. Tali formole ci sono, nella massima parte, conservate dall'Atharvaveda. Così gli sposi romani in viaggio si raccomandavano alla Iuno domiduca o iterduca.

Secondo gli Statuti di Modena, sopra citati, la deductio in pubblico era il vincolo vero del matrimonio; così la traduttione, che vale il medesimo, secondo gli Statuti di Lucca[367]. Forse per questa ragione, e per evitare maggiori scandali, gli Statuti di Narni e di qualche altra città italiana stabiliscono che la sposa non possa essere menata via di notte.

[189]

È uso ancora in alcune parti d'Italia[368] che la comitiva nuziale, nel tornar dalla chiesa, faccia il giro alle case de' prossimi parenti ed amici, ov'è rallegrata di cibi e di bevande. A Riva di Chieri, talora, innanzi a tali case, s'improvvisano le danze, al suono degli istrumenti portati dai musici che precedono la comitiva.


XVIII.
Danze nuziali.

Come non mancano il canto e il suono, raro è che manchi la danza ad una festa nuziale. Lo stesso Buddha, che dichiara di non amare nè la musica, nè i profumi, nè i banchetti, nè le danze, nè il vino, nelle sue proprie nozze, per operare secondo gli usi del mondo[369], si lascia vedere in mezzo ad ottantaquattro mila donne e si abbandona ai giuochi, ai piaceri, ai suoni e ai canti.

Nell'India vedica, secondo l'Atharvaveda, appena la sposa era partita, le sue sorelle e compagne, nella casa paterna, intrecciavano le danze, le quali dovevano aver carattere molto somigliante a quello delle danze funebri. La danza era dell'uso e non capricciosa; e tale è rimasta nell'uso moderno, se bene si vada pure perdendo. Nell'Heideboden, in Ungheria, l'uno de' due paraninfi suol dire: «Siamo noi pure qui, io ed il mio compagno, e non vogliamo lasciar cadere [190] quest'uso, anzi più tosto promuoverlo[370].» Il paraninfo invita, per conto dello sposo, la sposa alla danza, e le danze son tre, la prima con lo sposo; ma gli sposi non si toccano; essi toccano soltanto, l'uno da una parte l'altro dall'altra, il lembo d'uno stesso fazzoletto; e così danzano; le altre due danze sono della sposa coi due paraninfi.

Noi vedemmo il caso di Riva di Chieri, in Piemonte, ove, mentre si mena via la sposa, si danza; lo stesso avviene nella pompa nuziale dell'India odierna; a Templin si danzava alla mezzanotte del primo giorno di festa dalla sposa con uomini travestiti da donna. Ma per lo più le danze sono l'ultima cerimonia della festa, e, dove la festa dura tre o più giorni, si rimandano all'ultimo giorno. In Grecia, al terzo giorno «le parenti e le amiche vanno con la sposa alla fonte, ed ella attinge in brocca nuova ch'ha seco e butta nella fonte cose da mangiare e minuzzolini di pane; poi ballano in tondo; e quella è l'ultima festa»[371]. Il ballo tondo usa pure in Sardegna per le nozze; e forse ci viene descritto in questi versi concitati, coi quali si conchiudono le nozze della Tancia e della Cosa, nella dotta commedia rusticale del Buonarroti:

Il ballo s'intrecci
Braccia con braccia;
Mentre un s'allaccia,
L'altro si strecci;
Qualch'un si scoppi,
Chi si raddoppi;
Poi ciascun pigli per mano
La sua dama, e andiam pian piano.

[191]

Nei dintorni di Bolzano, si balla dagli sposi, prima di aprire le danze, quello che, nel Trentino, si chiama la tudeschina, e consiste in una serie di movimenti graziosi fatti a piacere, ma, a tempo di musica, per i quali lo sposo insegue danzando la sposa, e le si avvicina, ma non la raggiunge mai.

La danza nuziale tra il popolo si fa all'aperto; tra la gente che ha nome di civile, invece, entro sale splendidamente illuminate. Il popolo danza per lo più di giorno; la gente civile di notte; ond'è per essa il divieto di prolungare le danze oltre le tre di sera, che s'incontra negli Statuti di Firenze del 1415[372]. Esso finisce veramente le feste nuziali con le danze, ed è, dalla sala delle danze, quando si danza, che, secondo il Codice del Cerimoniale francese, gli sposi che sanno vivere, devono, inosservati, scivolare, l'uno dopo l'altro, al talamo[373].

[192]


XIX.
Sulla soglia.

Le soglie della porta, nella dimora dello sposo, si ornavano pel ricevimento della sposa. In Grecia, secondo Plutarco, le si coprivano di rami d'ulivo e di alloro; in Roma, con bende di lana e fiori, dopo averle unte con grasso di lupo e di porco. Lo sposo indiano, giunto con la sposa alla casa maritale, le diceva: «Io sono IL, e tu sei LA, io sono il Saman e tu sei la Ric', io il cielo, tu la terra; uniamoci e facciamo figliuoli[374].» Presso i Romani, già notammo come la sposa con la formola: ubi tu Gaius, ibi ego Gaja, che recitava pure alla soglia della casa maritale, intendesse significare la sua parte di dominio; e si cita presso la Zeitschrift del Wolf[375], l'antica formola tedesca, che diceva: «Dove io sono l'uomo, là tu sei la donna, e dove tu sei la donna, là io sono l'uomo.» È notevole poi l'uso comune fra Roma antica e l'India, che lo sposo o chi per lui sollevava di peso sopra il limitare della casa la sposa, la quale non doveva nè toccare le soglie, nè esserne toccata. Per l'India vedica, ricordano quest'uso l'Atharvaveda e il Kàuçikasütra; [193] per Roma antica, Plauto[376], Catullo[377], Lucano[378].

Non ripetendosi la medesima cerimonia per le vedove, parrebbe quasi che le soglie toccate dalla sposa dovessero toglierle quello che le rimaneva di più prezioso; gli antichi tuttavia preferivano vedere in tale cerimonia un nuovo simbolo del rapimento; e ad essi si accosta Augusto Rossbach, il dotto illustratore degli usi nuziali di Roma antica[379].

Nella Grecia moderna, il signor Zecchini osservò l'uso seguente: «Quando la giovane è giunta alla porta, su d'un crivello distendesi un tappeto, e sopra esso la si fa camminare nell'atto che si approssima al marito. Se il crivello non si rompesse sotto i suoi piedi, ned essa manca di pesarvi con tutto il suo corpo, nutrirebbesi in suo danno alcuni sospetti che allarmerebbero lo sposo.» [194]


XX.
La suocera.

Le suocere hanno nell'opinione popolare quel posto medesimo che le matrigne: sono tristi. Quindi nel Pesarese, chiamano bacio di Giuda quello che la suocera dà alla nuora; nell'Umbria dicono: suocera e nuora, tempesta e gragnuola; nella Fiera del Buonarroti[380], un tale volendo far sacramento per qualcosa di spiacevole, grida: orbè, suocera mia! E, nella novella 227 di Franco Sacchetti, il piacevole motto di una nuora diventa proverbio «Buon per te, passera, che non avesti suocera.»

Nella bocca della suocera, suonano sempre rampogne per la nuora; e la stessa veneranda madre di Ettore presso l'Iliade[381], non fa eccezione, ne' lamenti di Elena.

Una delle pretese della suocera è di dormir più della nuora, o almeno quanto questa. La nuora, secondo il precetto di Buddha, deve andar l'ultima a dormire e levarsi la prima[382]; Draùpadì, presso il Mahàbhàrata, volendo assicurare Satyabhamà come [195] ella compia i suoi doveri verso la suocera, osserva che il sonno suo e quello della suocera durano del pari.

È interessante ora l'udire dal nostro Regaldi[383], come, nella valle di Susa, la suocera accolga la nuora: «Quando la brigata giunge alla casa dello sposo trova chiusa la porta; la nuora picchia tre volte; al terzo picchio si apre, e in sulla soglia si affaccia la suocera burbera nel volto, colla mestola appesa alla cintura, e comincia questo dialogo con la nuora: — «Che cosa volete? — Entrare in vostra casa e obbedirvi in quanto vi piaccia di comandarmi. — Eh! voi altre ragazze leggiere e capricciose ben altro avete in capo che l'assetto della casa. — Lasciatemi provare e vedrete. — Ma qui si tratta di pascolare e mugnere gli armenti, di tagliare il fieno e lavorare i campi. — Ed io taglierò il fieno e lavorerò i campi. — Di alzarsi la prima e coricarsi l'ultima perchè la vecchia suocera possa alzarsi l'ultima e coricarsi la prima. — Ed io farò anche questo. — Ma voi verrete meno a tante fatiche. — Iddio e vostro figlio mi aiuteranno.» A queste affettuose parole, la suocera smette l'aria burbera e stringendosi amorevolmente fra le braccia la nuora: — Vieni, figlia mia, le dice, vieni e possa tu non mai scordarti delle fatte promesse. — Poi, levandosi la mestola dalla cintura, la consegna alla sposa che da quell'istante fa gli onori della casa e invita tutta la compagnia a prender posto al banchetto di nozze.»

In Calabria, segue il Regaldi, la suocera, all'entrare nella casa, avvolge un lungo nastro color di rosa dietro alle spalle degli sposi e congiungendone i capi innanzi al petto, trae seco la desiderata coppia, rappresentando [196] così uno stretto vincolo d'amore. Poscia i parenti e gli amici, insieme con gli sposi, stendono le mani, intrecciandole a modo di corona nello spianato innanzi alla porta della casa e a suono di musiche cominciano una ridda lietissima, cantando ad un tempo in lor favella consigli e ammonimenti alla sposa.

Gli onori del ricevimento alla sposa li fa la suocera, ma prima ella vuole assicurarsi che la nuora sarà laboriosa e benevola; nel Bolognese e altrove la suocera mette la scopa attraverso alla porta; la nuora deve levarla e mettersi con quella scopa a spazzar subito le camere; se non lo fa, la suocera si mette in collera; in Lunigiana, nell'Umbria, nell'Arpinate, la suocera domanda alla nuora se porti guerra o pace; la sposa risponde pace; allora le due donne si abbracciano; a un tale dialogo si riferiscono pure due versi d'un canto popolare umbro, che dicono:

Te benedico colla palma dell'ulia (olivo)
Possi portà la pace a casa mia.

Al che la sposa risponde: «Così speriamo.» Ma non sempre la suocera vede bene le nozze, e però alcuna volta si astiene pure dai complimenti. A Pinerolo, quando essa è contraria alle nozze, se ne rimane in casa, per apprestare la cena. Lo sgarbo prenunzia evidentemente grandi battaglie fra le due donne. Così negli usi de' Brettoni, quando la madre di famiglia vede arrivare il bazvalan per trattar nozze che non le vanno, finge non vederlo e gli volta le spalle, occupandosi del fuoco.

Ma se la suocera accetta le nozze, assicuratasi coi dialoghi sovra descritti che la nuora le viene ossequente, mette il suo amor proprio nel bene riceverla [197] ed ospitarla. Da un capitolo antecedente rilevammo l'uso di accogliere la sposa col grano per augurio di fecondità; la grazia de' Sardi, i confetti, gli zuccherini che si gettano alla sposa contengono il medesimo simbolo. Simbolo di fecondità e di ospitalità era il pane e il vino che anticamente gli sposi trovavano preparati sulla porta della loro dimora; nei dintorni di Ciamberì, in Savoia, la suocera attende alla soglia gli sposi con un pane e del sale; in Russia, mentre lo suocero presenta agli sposi la sacra immagine, la suocera solleva pure sopra le loro teste un pane con un cavo nel mezzo ripieno di sale. La suocera sarda riceve la sposa con grano e sale. La polpetta della suocera perugina e la schiacciata della suocera abruzzese suppliscono evidentemente il pane ed il grano. In Corsica, la suocera presenta alla sposa un tinedru di caghiatu[384]; l'osimana un boccale di vino. Nel Tarentino, fino al secolo decimosesto, era l'uso che la sposa, al suo ingresso nella casa, fosse imboccata con una cucchiaiata di miele, cibo sovra ogni altro accetto nelle nozze tartare.

È notevole ancora come l'uso indiano e romano di versar l'acqua ai piedi della nuova sposa che entrava in casa siasi mantenuto in alcune parti della Sardegna, ove la suocera accoglie ancora la sposa con un bicchier d'acqua che versa innanzi la sposa, mentre questa passa la soglia della camera nuziale. La suocera deve essere dalla nuora considerata come la sua padrona e il suocero come il suo padrone; perciò messere (msé), ossia mio signore, chiamano le nuore piemontesi lo suocero, e madonna, ossia mia signora, [198] la suocera; il qual onore reso alla suocera rilevo pure da un canto popolare toscano:

Quando sarà quel benedetto giorno
Che le tue scale salirò pian piano?
I tuoi fratelli mi verranno intorno,
Ad uno ad un gli toccherò la mano.
Quando sarà quel dì, cara colonna,
Che la tua mamma chiamerò madonna?

XXI.
Il dominio della sposa.

La suocera è la padrona vecchia, la nuora è la padrona giovine della casa. Perciò, entrando nella casa maritale, essa suole ricevere alcuni simboli del suo nuovo dominio. Presso i Germani del settentrione appendevano al fianco della sposa le chiavi[385]; e nel poemetto su Rig, presso l'Edda di Soemund, troviamo Snoer, la fidanzata di Karl, portarsele al fianco. La sposa romana riceveva anch'essa le chiavi, e, accadendo divorzio, le restituiva[386]; nel Ducange[387], si aggiunge come nel medio evo le vedove solessero gettare le chiavi e il cinto nuziale sopra il cadavere del marito. Un altro simbolo popolare del dominio della sposa nella casa è la mestola, che la suocera, [199] ed ove questa manca, lo suocero le presenta. L'uso vigeva nella Germania settentrionale[388]: e vive ancora nei dintorni di Ciamberì in Savoia, a Riva di Chieri, a Pinerolo in Piemonte e a Lugnacco nell'alto Canavese; quindi l'espressione popolare italiana tenere il mestolo, che equivale a dominare. A Castelnuovo di Magra in Lunigiana la sposa entra in casa con due grembiali; la suocera ne slaccia uno e lo porta sopra il letto matrimoniale, intendendo con ciò di darne a lei il possesso.

La rocca, che in molti luoghi d'Italia la suocera presenta alla nuora, è simbolo del lavoro che l'aspetta; la granata, che talora le attraversa l'ingresso nella casa maritale, è simbolo dell'ordine e della pulizia con cui ella dovrà tenere la casa.


XXII.
Cibi e banchetti nuziali.

Nelle nozze si dà al mangiare tanta importanza, che nozze e banchetto da sposi vennero a significare il medesimo[389]. La novellina piemontese, che finisce [200] ordinariamente in un matrimonio dell'eroe con l'eroina conchiude con questo ritornello: «A l'an fait tante nosse e tanti spatüss; e mi i j'era daré d'l'üss; [201] a l'an gnanca name na f'tta d'prüss[390].» Qui la parola nozze vale evidentemente banchetto nuziale; così, a quanto pare, nel Bestiaire francese:

Et feroît pour nous grant mangier,
Et grans noces et gran convi.

E nozze si chiamano veramente in Toscana i banchetti nuziali, ma più specialmente poi certe cialde [202] che si fabbricano in occasione di nozze, onde probabilmente l'adagio: pan di nozze. Così ad uno che sia allegro suolsi domandare se egli venga da nozze, dove si mangia bene e si beve meglio, come ci lascia indovinare il procolo Nencione, nel Mogliazzo del Berni:

E' sarà buon che noi beiàmo un tratto,
Ch'io voglio a queste nozze scorporare!

Nella Tancia del Buonarroti, al conchiudersi di un doppio matrimonio, si canta:

Andiam di brigata
Intanto a bere
E a godere
Una 'nsalata
E doman cialde
Faremo a falde,
Berlingozzi e bastoncelli
Per le nozze di duo' anelli.

Nel banchetto nuziale bolognese trionfa un colossale pasticcio detto croccante, che la sposa deve rompere; e quando il pasticcio è rotto, tutti i convitati applaudono; non occorre indicare il senso di questa cerimonia. A questo punto, ci dice la signora Coronedi Berti, uno de' convitati va di soppiatto sotto la tavola, prende un lembo della vesta della sposa e lo cuce ad un calzone dello sposo; e ciò vuol dire che la loro unione è fatta e non può più disfarsi.

Le cialde, le ciambelle, le schiacciate, le polpette[391], i confetti, gli zuccherini, la grazia[392], gli spinnagghi[393], [203] gli uccelli[394], i trionfi[395], i pemmata[396], i lunghetti[397], i tortelletti, i ravioli[398], accompagnano ogni festa nuziale nell'uso indo-europeo. Il miele di terra d'Otranto si ritrova nelle nozze tartare ed indiane. Le noci delle nozze albanesi sono supplite nell'India da quelle di coco. L'uso romano di distribuir nelle nozze le noci ai fanciulli, come segno di abbandonare i pensieri fanciulleschi, ci è reso popolare dai versi di Virgilio[399] e di Catullo[400]. E il citato proverbio piemontese conferma ancora tal uso: [204]

Pan e nus
Vita da spus[401].

Secondo il signor De Simone, nel circondario di Taranto, i commensali del banchetto nuziale, quando sono giunti ad mala, prendono ciascuno un frutto, lo intaccano col coltello, collocano nell'intaccatura una moneta d'argento e la regalano alla sposa; oppure versano un po' di vino in un bicchiere, e vi buttano dentro una moneta; la sposa morde il frutto, assaggia il vino, e raccoglie la moneta.

Da Olearius apprendiamo che in Persia, se un invitato tardava alle nozze, veniva coricato sopra una scala ritta, con la testa rivolta all'ingiù, e battuto sotto i piedi con una pezzuola attortigliata, fin ch'ei non si riscattasse con qualche regalo.

Simbolo fallico sembrano gli uccelletti vivi che presso il Lago Maggiore e nell'Arpinate portano ancora in tavola, sotto un coperchio, agli sposi. E un altro simbolo fallico contiene certamente il tacchino ornato di nastri rossi, che a Riva di Chieri in Piemonte, nella campagna d'Alba Monferrina e in Ispagna[402], si riserva per l'ultimo giorno del banchetto nuziale, banchettandovisi tre giorni. L'arrivo del tacchino in tavola viene anzi accolto a Riva di Chieri con singolari dimostrazioni d'onore, e il buffone o torottotela, prima che lo si mangi, ne recita un testamento in versi, rozzo componimento, in dialetto, [205] di qualche moderno poetastro[403]. Oltre il buffone, appare ne' banchetti nuziali il musico. Terenzio, negli [206] Adelfi, ci ricorda i suonatori di tibia[404]. «I Greci, scrive il dottor Zecchini, rallegrano i loro banchetti di nozze cogl'improvvisi di un vate ch'è un pitocco del paese, cantati da lui al suono della sua mandola, mentre due danzatori grotteschi ne accrescono la gioia co' loro salti. Omero (Odiss. III) ci dipinge questa festa tale quale la si vede presentemente:

«Rallegravansi assisi a lauta mensa
Di Menelao gli amici ed i vicini;
Mentre vate divin tra lor cantava
L'argentea cetra percotendo, e due
Danzatori agilissimi nel mezzo
Contempravano al canto i dotti salti.»

A Riva di Chieri, in Piemonte, un suonator di violino e un individuo che porta un vassoio pieno di fiori, s'introducono in fin di pranzo nella sala del banchetto, e quello che porta i fiori, canta così:

Oh! vui, pare d' la spusa, iv presentruma la piüma d'oca:
Adess chi eve mariá la fia venta pagaje la dota.
Oh! vui, pare d' 'l spus, iv presentruma la fiur d'ürtia,
Chi la teñe nè pes nè mei cum a füssa vostra fia.
Oh! vui, signura spusa, chi sei tant bin vestia,
Ne smie la nostra mándula quand l'è si bin fiuria;
Oh! vui, signur spus, chi sei tant bin vestì,
I smie nost persi quand l'è si bin fiurì.
Oh! vui, signura spusa, iv presentruma 'l branc,
E se l'omu l'é nen bel sarà tant pi galant.
Oh! vui, signur spus, iv daruma d'intende
Che l'uma purtà ste fiur p'r chi n'y e fasse vende[405].

[207]

Dopo questa tirata alla borsa dello sposo, i due vanno intorno distribuendo mazzi di fiori. Dicono maliziosamente alla sposa ch'essi presentano una ghianda bucata, e la consigliano, se lo sposo voglia batterla, a pigliare la valle de' prati:

Vui, signura spusa, iv presentruma ün giandus furà;
Quand l'om a veña a batve, pié la val di prà.
Se chila as tröva lesta,
As campa giü d'la fnesta,
S'as tröva d'sgagià,
A pìa la val di prà.[406]

Questo tra i canti che suonano alle mense nuziali è de' più decenti; ma le caste orecchie della musa non potrebbero tollerare certi sguaiati strambotti che si permettono oggi ancora nelle campagne marchigiane i buffoni alle nozze; come neppure certe uscite smodatamente allegre, con le quali la compagnia tentata dai fumi del vino, promuove in ogni rustico banchetto il rossore sul volto alla giovine sposa. Tempo di nozze, tempo di ciarle, dice un proverbio [208] piemontese[407]; ma poichè la ciarla è di rado innocente, poichè la procax fescennina locutio evocata da Catullo[408] non si tace, poichè invano gli Statuti comunali italiani, a correggere gli scandali, vollero ridurre il numero de' convitati permessi ne' banchetti nuziali[409] a proporzioni modeste, la madre addolorata e le vergini sorelle e parenti e compagne della sposa se ne astengono quasi sempre, più per naturale pudore, che per obbedienza al precetto degli antichi padri della Chiesa, i quali non si stancavano di predicare contro l'indecenza de' banchetti nuziali. Fin dai tempi di Varrone solevano i ragazzi soffiare alle orecchie della sposa novella i motti più insolenti ed osceni[410]; chè, se i [209] doni dello sposo li facevano spesso tacere, a quel comprato silenzio non di rado seguiva il pianto della povera sposa oltraggiata e delle stesse compagne che le erano date per farle coraggio. Prætextatis, dice Festo, nefas erat obsceno verbo uti, quasi che il far dire cose oscene ai soli fanciulli non fosse delitto assai più grande.

[211]


LIBRO TERZO


IL MATRIMONIO SI CONSUMA


I.
Si prendono gli augurii.

Nell'uso nuziale indo-europeo, il matrimonio è un sacramento, assistito da una caterva di iddii. Essi, come primi sposi, ammaestrano e proteggono i mortali che si avviano alla vita coniugale. L'inno vedico ci descrive un matrimonio solare, e la compagnia di quelle nozze celesti diviene quindi la proteggitrice delle nozze terrene. In Grecia, a Roma, in Germania, negli stessi usi cristiani, ove Cristo e la Madonna figurano talora ad incoronare i novelli sposi, si ha il medesimo intervento della divinità, auguratrice di lieti e fecondi connubii. Ma il maggior lusso di iddii o genii evocati a render propizie le nozze si osserva nell'antico uso romano. Quanto più l'Olimpo romano appare povero per sè, tanto maggiore fu ne' Romani lo studio di popolarlo con esseri al tutto immaginarii ed allegorici. Lasciando stare Talassio, Giunone e Diana, dio e dee agli sposi popolari ed accettissimi, [212] si finse un iddio per ogni funzione del rito nuziale, come gli antichi Indiani per ciascuna di tali funzioni aveano una propria formola; onde i lamenti di Sant'Agostino, nella sua Città di Dio[411].

Tuttavia i più solenni sacrificii nuziali erano in onore di Giunone; in essi, toglievasi alla vittima il fiele e lo si buttava via, per significare come ogni amarezza dovesse star lontana dalle nozze[412].

A Roma era considerato come di buon augurio il fulmine per le nozze, probabilmente per la stessa cagione che faceva ai Germani preferire il giovedì o donnerstag, giorno del fulmine, per la celebrazione del matrimonio[413]. Ma il fulmine dovrebbe, a quanto sembra, non menar pioggia, poichè un proverbio tedesco dice: se il giorno delle nozze piove, la sposa non ha nutrita bene la gatta. Altre superstizioni vivono ancora circa le nozze in Italia e fuori.

A Mineo, in Sicilia, per esempio, gli sposi inginocchiati all'altare devono levarsi insieme, poichè morrà prima chi primo si leverà. Altro uso somigliante, [213] che vigeva già sotto forma poco diversa a Roma[414], si osserva nell'Umbria, a Novi Ligure, a Lomello, e nelle Langhe di Alba Monferrina, ove gli sposi entrano nella camera nuziale ciascuno con una propria candela accesa ed insieme la spengono, o la fanno spegnere dalla madre dello sposo o della sposa, perchè il pregiudizio è ancora diffuso, che morrà prima quello il cui lume si sarà spento prima. A Novi Ligure, stanno ancora attenti gli sposi alla prima persona che l'indomani delle nozze viene a visitarli; l'augurio è tristo, se questa persona sia un vecchio od un prete. A questi incontri per via in nessun luogo si dà nondimeno tanta importanza, quanto presso gli Indiani ed i Brettoni. Nell'India se il padre dello sposo, mentre va a fare la chiesta, si abbatte in un gatto, o in un serpente, o in uno sciacallo, forse pure in un corvo, che sappiamo essere anco per gli Indiani uccello di sinistro augurio, torna indietro e rinuncia o pure elegge altro giorno più fortunato. Così, tra i Brettoni, se il bazvalan, mentre va a fare la chiesta, incontra una pica od un corvo ritorna sopra i suoi passi; egli procede invece lieto innanzi se ode il grido della tortora, la quale abbiamo già veduto di sopra[415] accompagnare spesso gli sposi. In Russia e in Germania si crede funesto il matrimonio quando il carro nuziale incontra una lepre, ossia quando la lepre va contro il carro. L'origine di questa credenza [214] è, senza dubbio, indiana. Uno dei frequenti appellativi sanscriti della luna è quello che porta la lepre; la lepre che attraversa il carro nuziale vale quanto il fare le nozze quando la luna non è propizia, ossia nelle fasi tenebrose della luna.


II.
Giorni per le nozze e loro durata.

Nel capitolo intorno ai cibi e banchetti nuziali, vedemmo come a Riva di Chieri e nell'Albese si banchetti tre giorni, ma al terzo giorno soltanto si mangi il tacchino. Con ciò s'intende che la giornata vuol essere grassa; grassi i cibi, grassi i discorsi, grasse le opere; lo spirito è vinto dalla carne; o, in una parola più esplicita, il matrimonio si consuma. Ma, perchè tre giorni d'attesa? Perchè l'uso indo-europeo è questo. E perchè sia tale l'uso indo-europeo, Gobhila, antico autore indiano, ci mette in via d'indovinarlo. «Dopo tre notti, egli scrive, ha luogo la copula, dicono gli uni; tempo opportuno per la copula è il momento in cui alla sposa che si trova nel mese è appena cessato il sangue.» Il mese lunare e il mese delle donne facendosi corrispondere, si comprende ancora perchè dagli antichi si preferisse per la celebrazione de' matrimoni il plenilunio e il novilunio, e la luna o Lucina ne fosse la proteggitrice. Celebrandosi poi i matrimonii, appena la fanciulla divenisse matura, si capisce perchè si ponesse tanta attenzione a que' tre giorni famosi, e all'indomani soltanto de' tre giorni le nozze si consumassero. [215]

Col tempo, serbandosi l'uso, se ne dimenticò la ragione; l'uso medesimo, per questo stesso obblio della sua origine, a capriccio de' preti si abusò, qual mezzo di penitenza, imposto agli sposi. Così, nell'India stessa, secondo il commentatore Pàraskara, si danno già, oltre all'astinenza delle tre prime notti, astinenze di sei, di dodici notti ed anche di un anno. Così il professor Cristoforo Baggiolini mi scrive che un certo parroco del Vercellese imponeva per ordinaria penitenza ai nuovi maritati di astenersi per dieci, quindici ed anche venti giorni dal far letto comune; a Gallarate e Turbigo gli sposi rimangono divisi per otto giorni; in Valtellina usano fare omaggio alla Vergine de' gaudii maritali ritardati per tre notti. Così una misura semplicemente igienica, al modo stesso che il divieto assoluto di ogni carne nell'India e della carne porcina presso gli Ebrei, e pel venerdì e sabato, della carne grassa presso i Cristiani, divenne un comandamento religioso. Nel medio evo, in Italia, era generale l'uso tra gli sposi di fare un po' di astinenza, ma, come rilevo dal Muratori, non tanto per conformarsi all'uso oramai invecchiato, quanto per obbedire al precetto della Chiesa[416]. In Grecia, passavano pure generalmente tre giorni prima che gli sposi consacrati si unissero[417]; e lo stesso avveniva in Roma[418]; il cristianesimo [216] vi mise di suo una nuova superstizione; lasciò credere, cioè, come in Germania[419] si crede, che le tre notti di astinenza siano necessarie per iscacciare il Diavolo e salvare la povera anima. Nelle Edda, «Gerd piglia tempo nove notti prima d'acostarsi a Frey. Frey risponde al messaggio: una notte è lunga, due son più lunghe; come passarne tre?» È noto come, nelle Edda, il numero simbolico nove, tiene quasi sempre il posto del tre. Nel Belgio la stessa usanza; e presso i Turchi ancora lo sposo si unisce con la sposa solamente il quarto giorno[420].

In Italia, noto la presenza di quest'uso a Riva di Chieri, ad Alba Monferrina, nel Milanese, nella Valtellina, nel Pesarese, nel Fanese, nell'Osimano, nell'Umbria, nel Teramano, e nell'Arpinate. Nel Genovesato lo osservava fin dal secolo decimoquarto il Sacchetti[421].

Ma se gli sposi acconsentono a darsi tanta mortificazione, cercano poi la via di alleviarla, occupando i tre giorni di astinenza con feste. Ed ecco, per qual motivo le feste nuziali sogliono in parecchi paesi durare più giorni; ecco per qual motivo, [217] se incominciano il lunedì, finiscono il giovedì, se incominciano il giovedì, finiscono la domenica, se incominciano il sabato, finiscono il lunedì; esse hanno da durare da tre a quattro giorni; ma non è caso che alcuna festa nuziale, fatta secondo il rito, s'incominci in Italia di mercoledì o di venerdì.

Il venerdì essendo giorno di magro, non è possibile che in detto giorno si pensi ad un connubio; per il mercoledì, alle Langhe di Alba Monferrina, corrono due proverbi: sposa mercorina è peggiore della brina, e sposa mercorina fa andare il marito in rovina. Il lunedì in vece, ossia il giorno sacro alla luna, il giovedì, ossia il giorno sacro a Giove tonante, e la domenica o il giorno del Signore, giorno del sole, sono considerati come propizii. Quanto al venerdì, sembra sia stato escluso dal solo ricordo cristiano della passione di Cristo, in memoria della quale si impose il digiuno; poichè, al contrario, come giorno sacro a Venere dovea esso preferirsi nelle nozze; e di qui spieghiamo perchè il venerdì, o giorno di Freia, sia ancora in Germania uno de' giorni prescelti per le nozze[422], ed anzi precisamente il giorno in cui gli sposi si uniscono[423].

Detto de' giorni, può giovare il conoscere quali stagioni l'uso indo-europeo preferisca per la celebrazione delle nozze. E qui pure è sorprendente come la razza indo-europea palesi la sua unità. Nell'India, in Grecia, in Germania si designava come tempo propizio alle nozze quello che passava fra l'equinozio d'autunno e quello di primavera, ma specialmente l'inverno. [218]

Presso i Romani, secondo Macrobio[424], erano funesti alle nozze i quattro giorni dopo le calende, le none e le idi. Nella Francia medievale, si celebravano i matrimoni dopo il Natale[425].

In Italia, il maggior numero di matrimonii si fa in carnovale, o sia nell'inverno. Tra gli altri mesi dell'anno, si sfugge particolarmente il maggio, per il proverbio siciliano che dice: «La spusa majulina nun si godi la curtina», variante del proverbio latino che diceva: maio nubunt mala[426].

In Sicilia, si evita ancora il mese d'agosto, come nefasto per le nozze; uso superstizioso oggi, ma in origine fondato, senza dubbio, sovra alcuna ragione naturale.

In Persia tutti i tempi dell'anno son buoni per le nozze, eccetto il mese del ramazan, e i dieci giorni dell'Ashur, ne' quali si celebra la morte di Hussein.

Sovra i quali usi particolari nondimeno corre spesso l'uso generale del buon senso, il quale permette nozze a qualsiasi stagione dell'anno, ove la necessità lo porti; e vi è necessità, osserva l'indiano commentatore di Âçvalàyana, e pecca anzi quel padre che non riconosca una tale necessità, ogni qual volta ei «non mariti la figliuola, appena è diventata donna.» [219]


III.
Il jus primæ noctis.

Dalle notizie de' viaggiatori italiani nelle Indie orientali raccogliamo come l'erede, nelle famiglie, non fosse già il primogenito, ma il secondogenito. Che il medesimo uso vivesse nel medioevo germanico lo raccogliamo dal Du Cange[427]. Quest'uso trae la sua origine dalla costumanza presso certi popoli, certe caste, certe famiglie di concedere il godimento della sposa per la prima notte non allo sposo, ma ad uno straniero; e questo straniero era un viaggiatore qualsiasi a Tarnassari, e un bràhmano nel Malabar[428]. In origine, dovea considerarsi come una pena l'esercizio di un tale diritto, poichè troviamo che nell'India il viaggiatore e il bràhmano non solo ne venivano [220] pregati come di un favore, ma specialmente ricompensati.

Il figlio che ne nasceva, come spurio, non poteva ereditare; e, per lo più, se ne faceva un prete, come negli usi nostri si fa ordinariamente prete o frate il figlio di nobile che abbia poca sostanza da eredare. È da notarsi come nell'antica credenza vedica si supponeva che un demonio si nascondesse nella vergine, il quale ne venisse via col sangue[429]; è da ricordarsi ancora come i panni insanguinati si davano al prete, il quale solo, dicevasi, aveva ancora virtù di purificarli[430]; quindi si comprenderà, parmi, perchè lo sposo cedesse volentieri ad altri il suo posto per la prima notte.

Lo stesso uso viveva ancora in Europa nel medioevo; ma quello che, in Asia, facevasi dai preti, come per grazia e per mestiere, in Europa si continuò a fare dai medesimi e dai feudatarii, come per diritto finchè la pazienza de' sudditi potè reggere al sopruso. L'idea di purificare la sposa essendo scomparsa, rimaneva soltanto più la cura di pregustarla; gli sposi, resi accorti dell'inganno, e riconosciuta la iniquità della gravezza, si levarono contro i loro tiranni che in parte spensero, in parte obbligarono a desistere dalle loro nefande pretese, od a convertirle, almeno, in un tributo di danaro o di dono o di cibi. Non potendo o non volendo il signore partecipare al banchetto nuziale, delegava talora a rappresentarlo qualche suo servo con due cani[431].

[221]

Presso il Du Cange[432], troviamo numerosi esempii di feudatarii ed anche di vescovi che si usurparono nel medio evo un tale diritto, e si nota pure sull'autorità dell'Historia Sabaudiæ, come la stessa [222] consuetudine, sotto il nome cazzagio, esisteva anche in Piemonte. Era mio debito adunque il rintracciare nelle nostre storie la presenza dell'uso; ed ecco quanto pervenni a raccogliere in proposito.

[223]

Quello che il Du Cange riferisce da Lattanzio intorno a Massimiano Galerio, pregustatore delle vergini spose, può essere un caso isolato di arbitrio sovrano, somigliante a quello di re Giovanni d'Aragona, il quale tuttavia dopo aver desiderata la vergine sposa del conte di Prata si decise a farla sua legittima moglie[433]. Ma ricorda un uso feudale inveterato la lega offensiva e difensiva fatta dalla comunità di Pergine con la comunità e città di Vicenza contro i signori di Castel di Pergine ed altri loro collegati, nell'anno 1166. Tommaso Gar, in una sua dotta memoria, che gli piacque modestamente intitolare: Episodio del medio-evo trentino[434], lo ha già rilevato: «Codesto stupido e ferino abuso, egli scrive, che offende la dignità umana nel sentimento più delicato, era stato assunto a quei tempi fra i diritti regali e non solamente si esercitava di fatto o nei casi più favorevoli redimevasi per danaro, ma figurava bruttamente anche nel gius pubblico di qualche estraneo principato ecclesiastico.»

Nel 1525, Pietro Buzzi venne arso vivo dai contadini di Nonci presso Roveredo, per avere usurpato il diritto d'uno sposo nella prima notte delle nozze. Il dottor Zecchini ci fa sapere che un uso simile vigeva nel medio evo presso i feudatarii del Friuli.

Quanto al Piemonte, mi aiutano a riscontrarlo alcune utili notizie che trovo sparse qua e là in un'opera [224] di amena ed istruttiva lettura che va pubblicando ad Ivrea il signor Antonio Bertolotti[435]. Le cerimonie con le quali si compie tuttora il carnevale d'Ivrea, il più caratteristico fra quelli dell'alta Italia, alludono evidentemente ad una festa, per la morte di un feudatario, che voleva deflorare una vergine sposa, o sia riserbarsi il jus primae noctis. La tradizione fa del tiranno un marchese di Monferrato, il quale si rappresenta oggi ancora per mezzo d'un fantoccione, che viene fatto ardere, sovra un terreno zappato, ogni anno, dai più recenti sposi della parrocchia. Oltre i marchesi di Monferrato, sembrano avere usato del jus primae noctis, che il popolo oggidì stranamente chiama il diritto del fodro, forse per esprimere il diritto sovrano, il diritto del signore, anche i Conti di S. Martino a Vische, i conti Valperga a Castellamonte, i Tizzoni a Crescentino ed i Biandrate a san Giorgio. Per i Biandrate mi sembra una prova eloquente l'udire, per relazione del signor Bertolotti, come nella storia manoscritta di San Giorgio di Vitale Priè, l'autore, segretario comunale, ed anche, per qualche tempo, della stessa casa Biandrate, si adoperi a combattere la tradizione vigente in paese, secondo la quale anche quei feudatari si usurpavano il diritto della prima notte. Il popolo pazienta, ma non dimentica. Quei di Feletto poi sono oggi ancora canzonati per l'antico barbaro diritto che pesava sopra di loro, per la tirannide dei conti di San Martino di Rivarolo; e, pel nome di Feletto, sebbene filologicamente non sia da tenersene alcun conto, merita nota l'etimologia che il popolo gli attribuisce da flere, piangere. Le etimologie che il popolo trova per i suoi [225] villaggi e le sue città, per quanto ridicole, rispetto al linguaggio, si riferiscono pure quasi sempre ad una tradizione storica, che ha un valore[436]. Il popolo sostiene che Feletto si chiamò dal pianto, perchè il feudatario usurpava ai mariti la sposa per la prima notte; nè io posso trovar più accettabile l'etimologia del signor Bertolotti, che fa piangere Feletto, per i danni recati dal fiumicello Orco. Io mi fido assai più, in questo caso, alla tradizione del volgo, per quanto Felectum non abbia niente di comune con flere. Nella memoria del popolo rimaneva un triste ricordo che la occupava tutta; per quel ricordo, volendo spiegarsi la sua origine, non seppe principiare altrimenti che da esso. Ed a chi consideri la monotonia della vita ne' villaggi non parrà strano che vi si rammentino per secoli le violenze patite, per causa d'insolenti signori, che vennero un giorno a turbare l'ordine e la pace uniforme delle famiglie.

Le vendette del popolo, quando pure esso riesca a vendicarsi, proporzionandosi ordinariamente al ricevuto insulto, noi possiamo dalla natura della vendetta argomentare quella dell'insulto. Molti de' feudatarii venivano dal popolo indignato offesi ne' genitali; è lecito argomentare che, per quelli, i tiranni avessero [226] peccato. Un simigliante caso trovo ricordato, come avvenuto a Vische, ove i testimonii, secondo gli atti di quell'archivio comunale, e consultati dalla diligenza del signor Bertolotti, deponevano per un orrendo sfregio fatto ad una giovine sposa, ed ove il popolo rese al suo signore la pariglia[437]. E, secondo ogni probabilità, la rivolta canavesana, detta il tuchinaggio o tusinaggio[438], che quanto ci rimane ancora [227] oscura, tanto merita di venire illustrata, ebbe principio dalla stancata pazienza de' mariti, sebbene più cause abbiano forse contribuito a riscaldarla. Chè, se la mediazione di Amedeo VI e VII di Savoia salvò dall'ira popolare molti signori, non consta che, sopita la ribellione, siansi dai signori rinnovati gli scandali antichi; ed i San Martino e i Tizzoni di Vische e Crescentino, che sul principio del secolo decimosesto probabilmente il tentarono, fecero misera fine tra le mani del popolo risollevato.


IV.
Il paraninfo e la pronuba.

Il paraninfo assiste lo sposo, la pronuba la sposa. Il paraninfo è spesso una sola cosa col compare (cum [228] patre) e procolo, per lo più o il padre dello sposo, o un vecchio suo parente, o il prete; la pronuba, che adempie spesso gli ufficii della comare (cum matre), e mezzana, è per lo più una suocera od una vecchia parente. Stando così le cose, non è meraviglia che gli sposi sopportino testimonii al compimento delle loro nozze; sono padri e maestri, madri e consigliere, non già indiscreti curiosi i loro assistenti. Gli inni vedici ci lasciano vedere chiaramente come il prete guidasse gli sposi inesperti fino all'ultimo; e il prete francese che nel medio evo benediceva ancora il letto nuziale, e il malossè o mezzano vogherese che riceve tuttora in dono una camicia, ricordano, parmi, il dono delle camicie che gli sposi dell'età vedica rilasciavano al loro assistente presso il talamo, e l'uso germanico, che il Weber[439] cita dal Weinhold, per cui allo sposo, l'indomani delle nozze, sono messi innanzi al letto abiti nuovi.

I paraninfi hanno nell'inno nuziale vedico una parte essenziale, e così ancora nell'uso odierno nuziale montenegrino[440].

[229]

Dagli usi italici non pare che siasi mai ricevuto fra noi il testimonio maschio ad assistere gli sposi sul talamo, nè forse alcuna donna; Catullo dice soltanto alle donne: collocate puellulam; dopo il che sembra la pronuba si ritirasse. Così la pronuba turca è [230] mandata via dagli stessi sposi, quando loro paia di non avere più bisogno di lei.

Nell'uso odierno italiano, la pronuba è una delle suocere: essa tuttavia, mentre la romana innanzi di guidarla al lectus genialis, sparso di rose, faceva sedere [231] la sposa sul fallo d'un Priapo[441], si contenta di allestire il letto, spogliare la sposa, dare consigli di moderazione e spegnere modestamente il lume.

Nell'Arpinate, anzi, il padre e la madre dello sposo vanno primi a letto, e dal letto ricevono gli sposi; e dato loro il permesso di dormire insieme, li lasciano andar liberi e soli al nido.


V.
Gli sposi soli.

Alfine! — Ma essi devono stare attenti al letto. A Pernate, nel Novarese, è costume che la compagnia nuziale, prima d'andarsene, salti sopra il letto degli sposi e lo guasti. Nel Canavese, usano assodarlo e renderlo scomodo col mettere sotto i lenzuoli e i materassi patate, rape, pannocchie di meliga. Assicuratisi del letto, devono guardare al solaio, se questo sia di legno; poichè, in quella notte, ci ha da piovere; la brigata, a Quassolo, nell'alto Canavese, prepara, quando può, agli sposi una simile sorpresa; e se il solaio non è di legno, gli sposi devono turarsi gli orecchi, per non udire il suono de' pifferi e tamburi che si farà sotto le loro finestre, per non lasciarli aver pace. È una rozza reminiscenza dell'antico epitalamio, e oltre a questo, ha un significato speciale che sarà meglio rilevato dal nostro libretto sopra gli usi natalizii. [232]


VI.
Epitalamio.

Dopo che la sposa ha mangiato la sua mela codogna, secondo il precetto di Solone[442], dopo che la sposa ha battuto lo sposo col ramo di ulivo benedetto, secondo il rito andaluso[443], dopo che gli sposi hanno spento i lumi, non resta a noi altro che ritrarci ed osservare la lieta brigata, che fuori della porta, o per non lasciarli dormire, o per coprirne lo strepito che si suppone vogliano fare, o per impedire che le compagne intendano il grido della vergine che passa, ha già intuonato il libero epitalamio:

Su, giovinetti, ai ludi
D'amor! su, a chi più sudi;
Come colombe, al murmure;
Com'edera, ai tenaci
Amplessi; e conche, ai baci[444].

[233]

Il di più che si può dire, si può anche meglio che dire immaginare[445].

[234]


VII.
Il giorno dopo.

Gli sposi essendo così difinitivamente fatti[446], il giorno dopo, la madre dello sposo arriva, nel Palermitano, col cioccolatto, per ridar le forze agli sposi. La sposa presenta alla suocera i panni insanguinati, affinchè ella riceva una soddisfazione, ossia si convinca che la sposa era novizia, e le due suocere, al primo loro incontro, si mostrano, con reciproci rallegramenti, gli stessi panni. L'uso è antico e sparso non pure tra gli Indo-Europei, ma anche tra i Semiti e gli Egizii.

Presso Adamo Oleario, che viaggiava in Persia nell'anno 1637, trovo riferito il seguente uso persiano. Celebrate le nozze, se la sposa non era vergine, lo sposo usava rinviarla, tagliandole talora anche il naso o le orecchie (il taglio del naso si usava pure nell'India, come rileviamo da un racconto del Panciatantra, per punire le mogli infedeli); se la sposa invece era vergine, lo sposo mandava ai parenti le prove della verginità ed allora banchettavasi allegramente per tre giorni. A tali festini venivano spesso invitati poeti, i quali portavano sovra un piatto un [235] albero i cui rami erano carichi di frutti. L'albero doveva simboleggiare la verginità della sposa. Ogni astante cerca di carpirne un frutto; se gli riesce, il marito deve riscattarlo con un regalo; se il rapitore, invece, vien sorpreso in flagrante, deve restituire al marito cento volte più ch'ei non ha preso.

Il marchese Orazio Antinori mi assicura d'aver visto l'indomani della consumazione d'un matrimonio, a Maratona, in Grecia, spiegati sulla finestra della camera nuziale i panni insanguinati. Nella Piccola Russia questi venivano portati processionalmente pel villaggio; e da pochi anni soltanto vennero sostituiti da una simbolica bandiera rossa, come può rilevarsi da un quadro di Sukoloff, che rappresenta una festa nuziale. Se la pubblica allegrezza per la sposa deflorata è tanta, non può recar meraviglia che lo sposo abbia potuto per la contentezza della trovata e tolta verginità, dare talora in premio alla sposa tutta o quasi la sua fortuna. Questa liberalità dello sposo chiamavasi col nome di morgincap o morgengabe o dono del mattino, poichè nel mattino che succedeva alla notte del consumato matrimonio soleva, nel medio evo, lo sposo germanico spogliarsi di una parte delle sue sostanze, in favore della fanciulla ch'egli avea fatto diventar donna. Nel codice dell'imperator Lodovico (XII, 134) il morgengabe è definito «un regalo fatto alla donna pel massimo de' pregi ch'ella abbia ricevuto da Dio[447]» e di cui ella fa sacrificio al marito. Il diritto Longobardico[448] stabilisce [236] già tuttavia che il regalo dello sposo non possa eccedere la quarta parte del suo avere; ma che l'ordine fosse male osservato si può rilevare dalla ventesima dissertazione del Muratori[449] e dalla preoccupazione di quasi tutti i nostri Statuti comunali per impedire le eccessive donazioni per parte de' mariti. Che l'uso poi non fosse esclusivamente germanico, ci consta dal sapere come la sposa greca, dopo la prima notte nuziale (νὺξ μυστική) fosse pure, oltre che dai parenti, come negli usi nostri, generosamente regalata dal marito.

La sposa indiana, dopo la prima notte, per dieci giorni non usciva dalla casa maritale; la sposa nostra, generalmente, vi si trattiene per otto; il pudore la nasconde alle ciarle indiscrete del mondo, il pudore, per rispetto al quale lo sposo del Lago Maggiore è sollecito ad alzarsi il mattino per levare i puntelli che la brigata, volendo far vergogna alla sposa, pose nella notte alla casa, come se il ludus Veneris, per troppa energia, avesse potuto farla crollare. L'antica formola indiana invita la sposa a salire lieta sul talamo, ma a destarsi col primo raggio del mattino; e questa è pure la sollecitudine continua delle spose pudiche e prudenti; ma la brigata maligna non lo permette sempre. Nel Trentino essa ha cura di mettere assi alle finestre o di chiuderne le esterne [237] imposte, affinchè il primo raggio del mattino indicato dal poeta indiano non risvegli gli sposi, e la vergogna li sorprenda quando accade che fra le risate del volgo si levino a giorno avanzato. Così nemmeno la luna di miele, che è pur tanto invidiata e tanto fuggitiva, può dirsi priva delle sue amarezze; le cure della fanciulla non son finite; quelle della donna hanno già principiato; e, fra le une e le altre, si agitano speranze miste di timori, ed illusioni piene di disinganni. La giovine sposa ha sempre fretta di divenir madre per togliersi a tanta smaniosa incertezza; così all'uccello non sembra mai suo il nido, finch'esso non vi abbia covata, nudrita e addestrata al volo una novella prole. [239]


LIBRO QUARTO


LE NUOVE NOZZE


I.
Quando le nozze vanno a monte.

Vi sono tre casi di nuove nozze: il primo, per causa di rifiuto e divorzio; il secondo, per causa di morte; il terzo, per causa di vecchiaia. Ne' due primi casi vi è separazione; nel terzo, confermazione degli sposi.

Il rifiuto suppone la suprema autorità del marito che rinvia la moglie, il divorzio suppone una separazione consentita tra le due parti, che non si accordano. Ma diverse le cerimonie, se le nozze vanno a monte innanzi di essere consacrate o dopo la loro consecrazione. In Germania allo sposo o alla sposa in fallimento si dava un corbello vuoto; nella Piccola Russia, una zucca, equivalente a cosa vuota; e in Francia nocciuole, per indicar forse al pretendente o alla fanciulla respinta che per loro è ancora tempo da inezie infantili, come il marito romano spargeva ai fanciulli le noci, per significare ch'egli rinunciava [240] ai loro giochi[450]. In Toscana, d'uno sposo fallito si dice ch'egli ebbe la stincata o gambata; presso il Lago Maggiore, ch'egli ha preso la tela del sacco[451]; nel Canavese, ch'egli ha cavato un ceppo[452] o che venne buttato giù. Essendosi poi anticipato dallo sposo qualche pegno od arra, si restituisce o si ritiene secondo l'uso romano[453] e statutario[454], per rispetto alla colpabilità del disertore.

[241]

Per quasi tutta l'Italia, poi, corre l'uso di spargere crusca o segatura o cenere fra la casa della chiesta fanciulla e quella dello sposo fallito, come a dimostrare ch'egli fece una cosa inutile, ossia, come si dice, un buco nell'acqua. Per ragione analoga, in Germania, si sparge la via di paglia trita alla fanciulla che, recandosi a marito, non si trova più vergine[455].


II.
Nozze di vedove.

La moglie ripudiata o che separavasi dal marito soleva restituirgli le chiavi dal marito confidatele, simbolo di domestico dominio[456]. Il marito nella casa è sovrano, e a lui spetta il diritto di perdonare e di punire; quindi allora che, per caso, la moglie battesse lui, o lo picchiasse, egli viene sottoposto alla pena dell'asino, o sia a cavalcare un asino con la faccia rivolta verso la coda di esso, la quale, svergognato, egli deve pure tenere in mano[457]. Una pena simile fu, non ha molto ancora, inflitta nella valle di Stura ad un marito che si lasciava picchiare dalla propria moglie[458].

[242]

Ma non basta: muore il marito: e la casa deve farsi deserta; e la moglie ha da seguirlo nella tomba: la moglie che sopravvive, sopravvive soltanto per la sua infamia, e la vedova che si rimarita viene dai testimonii dello scandalo perseguitata. Questo è, pur troppo, l'uso indo-europeo diventato barbaro. Ora con tale uso, se ne combina un altro che trasse le prime origini da un sentimento di paura, poichè appare dagli stessi inni vedici che i mariti temevano essere fatti morire dalle loro mogli; l'uso vo' dire che trasse migliaia e milioni forse di vedove indiane a perire miseramente sul rogo, per scellerato impulso de' brâhmani, [243] i quali convertirono l'uso in un vero comandamento religioso, affidati a certe mostruose apparenze del mito che sembravano legittimarlo. In Grecia, lo sposo non si degnava di menare esso stesso la vedova; se la faceva, in vece, condurre da un amico, o parente, il νυμφαγωγός. A Roma, nessuna cerimonia si compieva pel matrimonio delle vedove. In Germania, oltre alla paglia trita che si spargeva e si sparge per la via percorsa dalla vedova sposa, pretendevasi pure in qualche luogo dai parenti del primo sposo un'ammenda in danaro[459]; in Francia usava il barbaro charivari[460], di cui il solo nome vi si conservò: in Italia, sotto il nome di scampanata (Toscana) o tucca [244] (Pesaro) o facioreso (Novi), vive ancora la cosa, per rimediare forse alla quale, od allo scandalo supposto nel matrimonio delle vedove, a Perugia, secondo Angelo Degli Ubaldi, giureconsulto del secolo decimoquinto, le vedove si sposavano solamente di notte. Era antichissima opinione in Italia che l'anima dell'estinto marito dovesse rattristarsi per le nuove nozze della vedova già sua sposa[461]; il titolo di univira, che troviamo dato nelle antiche iscrizioni alle mogli d'un solo marito, era, di certo, per ragione di encomio[462]; e le penitenze che i sacerdoti de' primi secoli cristiani imponevano alle vedove che si rimaritavano mostrano che la chiesa stessa cristiana le disapprovava[463]. Nel Napoletano la vedova dovea tagliarsi i capelli e farne sacrificio al marito estinto; ed oggi ancora, a Mineo, in Sicilia, essa deve andare alla chiesa coi capelli arruffati[464]. Così la chiesa segue le superstizioni e le feconda con novello apparato; le superstizioni secondate menano quindi allo scandalo; la chiesa allora interviene per farlo cessare; ma nè il suo veto, nè quello di alcuni Statuti comunali[465] valsero a far cessare l'indecente abuso [245] che la inerte indifferenza de' governi italiani ha fino a' dì nostri tollerato. Esso disturba tuttora molte nozze di vedove nelle campagne del Vercellese, di Cuneo e di Pinerolo in Piemonte, di Novi Ligure, della Valtellina, del Comasco, del Trentino, del Pistoiese, del Pesarese, dell'Umbria e dell'Abruzzese teramano; dura spesso tre sere, e non ha limite, e cagiona talora avvenimenti assai luttuosi, se gli sposi non si affrettano a placare l'insolente brigata, invitandola a copiose ed elette libazioni, licenziandola quindi con volto festivo e quasi riconoscente. Il volgo è una bestia selvaggia che non rinuncia agevolmente alle sue vecchie abitudini; e quella delle scampanate per le vedove è una tra le più bestiali.


III.
Nozze d'argento e nozze d'oro.

Di argento si chiamano le nozze che si rinnovano da sposi vissuti insieme d'accordo per venticinque anni, d'oro le seconde nozze degli sposi, dopo cinquant'anni di felice unione.

Queste ultime, per essere più rare, riescono pure più commoventi. [246]

Esse si usano anche in Piemonte, ove la cerimonia principale consiste nell'andata in chiesa.

Procedono a due a due, e la processione viene aperta dai due bambini più piccoli dell'ultima generazione; seguono gli altri, per ordine di età, fino ai due vecchi che la chiudono.

Il prete benedice le nozze, ma naturalmente non dà più l'anello, per la stessa ragione che non permette di ridarlo alle vedove. Si torna dalla chiesa nello stesso ordine con cui vi si è andati, e i parenti si raccolgono a banchetto intorno ai loro due vecchi; si mangia, si beve e si ride più che la gravezza degli anni ai due vecchi non conceda; e si balla anche, aprendosi e rinnovandosi dai vecchi sposi le danze antiche. Ma la troppa allegrezza, ne' vecchi, fa paura; l'indomani della festa è spesso giorno di lutto, e, con lo stesso ordine, la medesima comitiva ritorna spesso alla chiesa; ma nessuno più ride; le nozze d'oro hanno lasciato ai vivi un'eredità di lugubri gramaglie, simili a quelle del sole che indossa i suoi abiti più belli, quando, dal remoto occidente, lancia alla terra l'ultimo suo sorriso. [247]


APPENDICE

[249]


I.
USI NUZIALI VENETI
(Raccolti da Dom. Giuseppe Bernoni).

I primi passi.

Apena che i tosi xe grandi el so pensier xe de catarse la morosa, perchè, come la dona no pol star senza l'omo[466], gnanca po l'omo no pol star senza la dona[467].

Co' i s'à trovà la regazza che ghe dà a genio, alora i cerca de darse a conosser. Prima, dunque, i ghe spassisa soto i so balconi e i ghe dà dele ociae; po i va de note e i ghe canta dele canzon, minzionandola anca per nome[468], e dopo, a poco a poco, i ghe tien drio co' la vien fora de casa, e i la saluda. Alora i stà a osservar cossa che fa la regazza; e se i vede che la ghe tien drio co i oci quando i passa, e che la ghe risponde quando i la saluda, i tol a sperar ben, e i se fa coragio, i ghe dimanda se la xe contenta de farghe l'amor[469].

La tosa, per solito, tol tempo tre giorni a pensar. Passà sti tre giorni, la risponde al toso che l'à dimandada, che la sarave anca persuasa de farghe l'amor, basta che nol la mena a torzio, e che i genitori ghe permeta[470].

Quando la regazza no xe contenta e no la vol saverghene de sto moroso, no la se fa vedar ai balconi e la resta su la so camara, e, se lu seguita a passar, la ghe canta a drio dele canzon, con dito che nol staga a pensar altro a ela[471].

[251]

El permesso.

De regola no pol un toso far l'amor co 'na tosa, co' i genitori de ela no ghe permete[472].

Dunque, se sto toso ga bone intenzion, el va elo, o el manda un'altra persona, dai genitori, a vedar se lori xe contenti ch'el ghe fazza l'amor. Alora i genitori tol informazion, e, se i cognosse che el toso xe un bon toso, e che el xe per la regazza[473], e che ela sia contenta, i ghe dà tempo quindese giorni, un mese, do mesi, conforme, perchè i fazza la prova.

[252]

La dimanda.

Passà sti quindese giorni, o el mese, o i do, se sti morosi no se comoda, i se lassa; e se inveçe i se comoda, alora, in un giorno che se stabilisse, i genitori dela regazza fa un disnar, o 'na çena, e el toso va a sto disnar, o çena, co so pare e co so mare, e là el fa la dimanda dela tosa, e per primo [253] pegno el ghe regala un picolo aneleto[474] o qualche altra cossa. Co' el l'à dimandada, el va a farghe l'amor ogni oto giorni, e anca de più, se i genitori dela tosa xe contenti[475].

El segno.

Dopo la dimanda vien el segno[476].

El segno xe un anelo d'oro[477], che el moroso dà [254] a la regazza, perchè tutti cognossa che la xe impegnada e che nissun altro no la pol dimandar.

In quela che el ghe dà l'anelo, el tol anca el tempo per el matrimonio: sto tempo pol esser sie mesi, un ano, do ani e anca più, conforme che i so interessi ghe permete.

Dunque, da là un toco che i ga fato la dimanda, se i morosi trova d'esser contenti tuti do, i stabilisse la zornada per el segno, e alora i genitori de ela parecia un altro disnar, o una çena, che se ciama segno, e là el moroso ghe dà sto anelo ala regazza e 'l tol el tempo per el matrimonio, e tuti cognosse sti sposi.

Sul segno va pare e mare del toso e un pochi de parenti de elo e de ela.

Dopo l'anelo, ela xe novizza e lu sposo[478], e el pol andarghe in casa magari ogni sera.

Nassendo discorsi[479], se ela lassa el moroso, ghe toca dar indrio l'anelo; e se inveçe xe elo che lassa la morosa, a ela ghe resta tuto quanto, e lu no ga dirito d'aver gnente indrio[480].

Regai tra morosi.

Fra morosi e morose se açeta e se dà regai.

I regai che fa el moroso ala morosa de regola xe questi:

Da Pasqua: una fugazza co do botiglie de çipro o de malega; da Nadal: una scatola de mandolato e un vaseto de mostarda; dai Morti: una scatola de fava; da S. Martin: i maroni; da S. Marco: el bocolo[481].

Se el vol po, el ghe dà qualcossa anca el dì del so nome de ela, e cussì el primo de l'ano; ma no xe de dover.

Le tose adesso usa darghe ai morosi dei fazzoleti de seda[482] o una siarpeta co un pontapeto. Una volta el costume gera de darghe un per de tirache recamae, co i so fiocheti in colori e col cuor in mezo[483] e un per de ligambi.

No xe permesso po de dar e gnanca de açetar petini, santi, libri de ciesa, forfe e aghi, perchè i petini xe roba per strigarie; i libri e i santi xe dispiaçeri; la forfe xe lingua cativa, e i aghi xe roba che ponze. E chi dona de sta roba no se marida sicuro.

[257]

El portar de la sposa.

Co la ga l'anelo, alora la regazza scominzia a pareciarse el so portar. Sto portar xe la roba d'atorno e la roba che ocore per la casa.

Andando in casa de la madona, no la ga altro dover che de fornir la camara da leto de tuto quelo che bisogna: no andando, alora ghe toca tuto a ela, che vol dir: camara da leto, tinelo e anca la cusina. Se po i genitori de la sposa no pol, ela fa la camara da leto, e el sposo fa la cusina, che xe tuto quelo che sta sul fogher, come caldiera, stagnada, farsora, caena, trepíe, secio e scaldaleto, perchè tovagie, tovagioi, veri e piati ghe toca a la sposa.

La camara da leto dei sposi deve aver una coceta da matrimonio col so pagiazzo, stramazzo de lana, cavazzal e do cussini; do comò, do scabei, sie careghe e un specio.

Oto giorni avanti el matrimonio la sposa co so mare va in casa nova, e la se parecia tuto quanto.

El sposo no tol in consegna gnente e nol fa nissuna carta; ma se la sposa mor, e no la lassa fioi, tuto torna a la so famegia, fora che el leto che resta al sposo, co la vera da matrimonio.

El compare de l'anelo.

El compare de l'anelo lo seglie el sposo tra i so amiçi, o tra i conossenti dela so famegia. [258]

La comare xe la mugier del compare, o, se nol ga mugier, so mare o la so morosa.

El dover del compare xe:

El giorno avanti el matrimonio el deve mandar a la sposa 'na scatola granda de confeture co drento un bambinel de zucaro.

Assieme a la scatola de confeture el ga dover de mandarghe un bel bochè de fiori sechi, e, se el xe un compare cortesan, anca el so pedestal co la so campana de vero.

Dopo, el deve mandar ala ciesa quatro candele de çera per la messa dei sposi; e più grosse che le xe, xe megio.

Co' i sposi va al pranzo, i va in gondola; e quatro de ste gondole toca al compare.

Dopo el disnar vien la tola bianca, e el compare ga dover de mandar per la tola bianca sie botiglie de malega o de çipro, e sie de rosolio, che forma dodese.

La bonaman al nonzolo de la ciesa toca al compare, e cussì toca anca a elo de dar qualcossa ai povareti, che, co' i sposi va in ciesa, i trova per strada.

E po ghe sarave el regalo a la sposa — un per de recini, o un manin, o un pontapeto; — ma adesso no i ghe bada, e pochi xe i compari che fa sto regalo[484].

[259]

El giorno che i seglie.

I matrimoni se fa quasi sempre de domenega, perchè, se xe de luni, i sposi vien mati; se xe de marti — marti, martirio — i fa un bruto fin; se xe de mercore e de zioba, sti giorni no xe boni gnanca lori; se xe de venare — venare curto termine — i mor presto; e se xe de sabo; de sabo, no, perchè de sabo piove e fa cativo tempo, e po de sabo no se marida che i vedui[485].

Sul mese no i ghe bada, tuti xe istessi, e i se marida co i vol.

[260]

Regai a la sposa.

Do o tre zorni avanti el matrimonio tuti i parenti e conossenti va a trovar la sposa, e tuti ghe porta dei regai: se la sposa xe povareta, i ghe porta robe da torno, come traverse, cotole, fazzoleti; e se la xe cussì e cussì, i ghe porta de le galantarie, come recini, manini, pontapeti[486]. Tuti sti regali ela la li tien sora 'na tola perchè tuti veda.

La sposa se parecia.

I vestiti de la sposa xe do: uno per la ciesa e uno per el pranzo, che xe el megio.

I vestiti ghe toca ai genitori dela sposa, e el sposo no ga altro pensier che quelo dela vera[487].

Co' la va in ciesa la se mete in testa 'na veleta negra, e co' la va al pranzo, la se mete 'na bandina de fiori sechi[488].

La benedizion del pare.

Dopo la pareciada e avanti che riva el sposo, la sposa va in camara de so pare, e là la se ghe buta in zenocion, e, pianzando, la ghe dise che el ghe perdona se la ga fato qualcossa, e la ghe dimanda la so benedizion[489]. [262] Questo xe un giorno che la sposa pianze e ride.

El sposo ariva.

El sposo vien a levar la sposa col compare e co la comare e co i so genitori e parenti.

Elo xe vestio de stofa qualunque, magari in giacheta, perchè in ciesa el va come el vol, e xe al pranzo che el se mete i megio vestiti che el ga, e roba che nol gabia mai portà.

Apena che el xe in casa de la sposa, el va dai genitori de ela, el ghe fa un pochi de complimenti e el ghe presenta el compare; dopo, col compare, el va dela sposa e el fa istesso[490].

[263]

I sposi va in ciesa.

I va in ciesa che xe ancora scuro, perchè i matrimonî se fa a la prima messa.

Tanto se i va in gondola, come se i va a pie, la sposa va avanti col compare, po vien el sposo co la comare, e po i genitori de elo e de ela, e dopo i parenti[491].

Co' i va in ciesa, se ghe xe qualche can che sbragia, i sposi va mal, parchè can che sbragia porta drento l'ano malatia, becaria[492] o prigionia; se inveçe ghe xe qualche can e che sto can no sbragia, tuto va ben, e i sposi sarà fedeli, perchè can porta fedeltà; e se po ghe va drio un gato, alora xe tradimento, e i sposi stà inquieti sempre infin che i vive. Intivando in t'un zoto, xe disgrazie e malore, e intivando in t'un gobo, i sposi gavarà fortuna. Co' i va in ciesa e che piove e tira vento, se dise che i sposi ga magnà fora de la pignata[493], e no i pol andar ben; ma se piove solamente, alora, gnente, la sposa va co l'abondanza.

[264]

A l'altar.

In ciesa che i xe, la sposa, el sposo e el compare se inzenocia su 'na bancheta pareciada a posta, e tuti [265] i altri i stà da drio, inzenociai anca lori. El sposo xe a banda dreta, e el compare a banda zanca dela sposa.

La vera la mete prima el prete in çimeta del deo, po vien el sposo, che la mete a so posto, in dove che la ga da andar[494]; e questa xe 'na vera che no se pol più cavar. Dopo, el compare mete l'anelo nel deo de mezo, e xe per questo che el se ciama compare de l'anelo: sto anelo po xe quelo che el sposo ga regalà a la sposa quando el ghe fava l'amor. Quando che de primo intro la vera no va ben drento e che la se intopa, el xe un matrimonio che no va ben de sicuro.

Al prete per la messa ghe va do franchi o do franchi e mezo, che ghe toca al sposo; al nonzolo, un franco e anca più, perchè el toca bezzi dal sposo e anca dal compare; a la ciesa po resta le quatro candele de çera che ghe manda el compare.

El rinfresco.

Dopo la messa vien el rinfresco[495].

Sto rinfresco i lo fa a casa dela sposa e el ghe toca ai so genitori; e se no xe a casa dela sposa, i lo fa a un cafè o a una biraria, e alora el ghe toca al sposo.

Al rinfresco va tuti quei che xe invidai: parenti, amisi, conossenti.

Prima i porta l'aqua de limon, o, se la xe zente povareta, l'aqua col mistrà, po el cafè coi baicoli, po el rosolio cole mandole, e dopo el çipro, o la malega cole fugazzete e i buzzolai.

Dopo el rinfresco la sposa resta a casa dei so genitori, e intanto la se parecia per el pranzo.

El pranzo.

El pranzo xe ai quatro o cinque boti.

I lo fa ne le megio locande, anca se i xe cussì e cussì, perchè in quel giorno no i ghe bada; e va a ordinarlo el sposo qualche giorno avanti.

Oto parte del pranzo toca al sposo — la soa, quela dela sposa, quele del compare e dela comare, e quele dei genitori de elo e dela sposa — i altri, quanti che i xe, paga ognun la so parte, perchè al pranzo no ghe xe inviti, e va, dei parenti e amiçi, chi vol. Chi no vol star al pranzo, o no vol pagar, va sul'ora dela tola bianca, e anca lori porta qualcossa: torte, botiglie, fugazze... cussì.

Monta prima su 'na gondola la sposa col compare, po su un'altra el sposo cola comare, dopo su un'altra pare e mare del sposo, e po su un'altra i genitori dela sposa: i parenti monta su altre gondole, quatro per gondola, i omeni spartai da le done.

Co' i monta in gondola per andar al disnar, tuto el popolo core a vedarli, e ognun dise la soa.

A l'ato del smontar se ferma le gondole dela sposa [268] e del sposo, e smonta prima i parenti e i genitori, po el sposo: l'ultima de tuti xe la sposa, e i parenti e tuta la compagnia ghe va incontro a farghe festa.

El posto dela novizza xe a metà tola, e ghe stà a fianco el compare, e de fazza la ga el sposo cola comare a fianco; i veci de casa xe ala testa dela tola, e i altri dove che i vol.

De consueto el pranzo xe questo: — Un bocal de vin a testa e del megio — risi coi figadei — lesso (carne e polastri) — rosto co la salata — fritura de figà e de çervele indorae[496].

Po vien la tola bianca: torte, tortioni, bodini, e in mezo un crocante fato far a posta, co drento un oseleto.

Al punto che la sposa co un cortelo spaca sto crocante e salta fora l'oseleto, scominzia i viva a la novizza, e chi dise barzelete, e chi indovinei, chi storiele da ridar e chi altre robe. Tosi e tose gnente a tola, perchè la xe 'na zornada che tuto xe lecito, e no sta ben che ghe sia tosi, e manco po putele.

Intanto che i ride, che i canta, e che i se la conta, la mare de la novizza va a far la parte de la confetura che ga mandà el compare, e la ghe ne dà un poca a tuti, scominziando dala sposa, ma el compare e el sposo resta po senza, perchè el compare ghe la renunzia a la novizza, e el sposo ala comare.

I bali e soni.

Co i ga terminà el pranzo i leva via la tola e va su el balo. [269]

El primo balo xe dela novizza col compare, el secondo del sposo cola comare — e no va su altri in sti do bali; — dopo va in balo chi voi, e la sposa bala squasi sempre col compare, parchè in quel giorno la xe tuta de elo[497].

Se bala fin a meza note, e anca fin a un boto e ai do boti, e alora la compagnia compagna a casa i sposi, e i va a casa anca lori.

I bali e soni ghe toca al sposo.

Soli.

Soli che i xe, i sposi se spogia, e... i va in leto.

A leto la sposa ga da aver sempre la dreta; e cussì se la dreta xe viçina a la porta, se volta el leto.

I sposi va in leto tuti do d'acordo, parchè chi va in leto prima mor prima, e cussì i lassa la lume impizzada sin che la se destua ela sola, parchè se la destua la sposa mor prima ela, e se la destua el sposo mor prima elo.

I oto giorni che segue.

A la matina, apena che xe giorno, la mare de la novizza va in camara dei sposi a portarghe el cafè co i vovi drento; e co i xe levai, ela ghe fa el leto, e nissun altro in quel zorno ghe pol metar man[498]. Se la novizza no ga mare, va una sorela, che sia maridada, o una qualche so àmia.

Quel giorno i fa un disnar a casa dei sposi, e ghe [270] va el compare, i genitori de elo e de ela, e un pochi de parenti: sto disnar ghe toca al sposo, ma anca el compare fa qualcossa[499].

Per oto giorni la novizza deve star in casa senza mai sortir — cussì almanco fa anca adesso le tose de bon sesto e quele che no vol esser criticae — e la riçeve le amighe, i parenti, i conossenti che va a farghe visita. In sti oto giorni va so mare a farghe le spese e tuto quelo che ghe ocore[500].

I do vestiti dela sposa — quelo dela ciesa e quelo del pranzo — resta per do giorni destirai sul leto dei sposi, e tute le amighe e conossenti li va a vedar, e ognuna dise la soa.

Passà i oto giorni, la sorte vestia col vestito da sposa e la va a messa col sposo anca elo vestio col vestito da nozze. La messa i la va a scoltar in ciesa S. Marco, magari che i staga a Castelo o in fondi a S. Marta.

Dopo la messa, i va dal compare che li ga sposai, a farghe visita, e po da la so famegia de elo, e là i resta a disnar.

Alora, tuto xe terminà; i sposi torna a casa, i xe sposi veci, e anca lori pol cantar:

Finito el carneval, finiti i spassi,
Finito de magnar boni boconi;
Un fogio de carta e 'na pena da lapi:
Finito el carneval, finiti i spassi!

[272]


II.
USI NUZIALI CÒRSI
(Raccolti da A. Provenzali — Livorno, G. B. Zecchini, 1874.)

Matrimoni e vescovati son dal Cielo destinati, questo già si sa, ma in Corsica non si contentano, come i babbi e le mamme in generale, di dare una mano al destino; vorrebbero rendersene padroni addirittura, e tenaci negli amori come negli odii, il desiderio di perpetuare i primi, muove talvolta i genitori a fidanzare fino dalla culla i loro figliuoli. Seduta presso la culla della sua bambina, la madre còrsa vagheggia col pensiero il giorno in cui la vedrà sposa felice, e cantandole la ninna-nanna descrive i costumi nuziali del suo paese.

Recherò qui alcuni versi di una di queste canzoni singolari, che ne compendia i principali, e mi servirà quasi di testo.

Quandu anderetti sposata
Purteretti li frinèri[501]
N' anderetti incavalcíata
Cun tutti li mudracchèri[502]
Passeretti insannicciata[503]
A caramusa imbuffata.[504]
[273]
Lu sposu n'andrà davanti
Cu li sò belli cusciali
Vi saranno tutti quanti
Li sò cugini carnali
Alla Zonza di Tavèra[505]
Vi faranu la spallera[506].
Quand'arrivate a lu stazzu[507]
Duve avete poi da stani,
Surterà la suceroni,
E bi tuccherà le mani;
E bi sarà presentatu
Un tinedru di caghiatu[508].

Frequenti sono i matrimoni fra consanguinei e si considerano come i meglio auspicati: — L'equa core e lu sangue strigne, sogliono dire, e: — Fra i nemici la spada, fra i parenti l'amore.

I costumi patriarcali dell'isola favoriscono queste unioni. In molti paesi i giovinetti e le fanciulle si dilettano de' giuochi che simboleggiano le nozze o almeno l'amore. Non soltanto come altrove nella stagione quando il cuore sembra aprirsi ai dolci affetti, ma in ogni lieta solennità si porta in giro un albero fronzuto, si pianta dinanzi alla casa delle belle, e lì canti e suoni senza fine. Altre volte, e specialmente per S. Giovanni, invece di piantare lu macchiu, si brucia un tronco e spesso un albero intiero, fanciulle e giovinetti intrecciano le danze intorno alla grande fucaraja, e prima di separarsi si abbracciano cordialmente salutandosi col nome di compari e comari di abruschiu[509].

Questi ed altri simili giuochi amorosi sono più frequenti nella valle del Tàravo e nei monti del Coscione ove è maggiore la innocenza dei costumi, e [274] dove i matrimoni si sogliono contrarre in più tenera età.

Appena una ragazza tocca i sedici anni, se è niente niente belloccia e non le si conosce alcun amoretto, le comari brontolano queste od altre parole: — Ogni scuffiaccia bole la sua barittaccia, e quest'occhiu di sole, questo specchiu d'e zittelle non avrà il suo innamuratu! — E i poveri genitori si sentono rintronare il poco gentile proverbio: — Donne e vinu sbruglia magazzinu. — E la mamma che si strugge di trovare un buon marito alla figliuola, intanto che lo cerca, le ricorda i sacramentali proverbi: — Donna di finestra, donna disonestaDonna di specchiu distrughie la casaAlla donna pazza piace più lu cembalu che lu frenu.

Nè dal canto suo il babbo si dà pace, finchè non vede il figliuolo colla sua brava sposa al fianco e gli va ripetendo: — Dona bona, bale più che uno casaleDona da bene val più di ogni beneDona bona bale una corona — ed altre massime simili, tanto che, persuaso alfine che Senza moglie a lato l'uomo non è beato, e che — Chi ha la dona a lu locu ha vinto lu jocu[510] — si decide a scegliere una compagna.

Nulla dirò dei pronostici, giudizj e pregiudizi che guidano questa scelta, nè del modo di fare la domanda, o del ricambio dei doni nuziali, chè ciò menerebbe per le lunghe, correndo grande varietà fra i diversi cantoni e, come dicono gli stessi isolani: — In Corsica tanti paesi e tante usanze.

Il Valery ne cita una singolarissima. Egli afferma che a Bastèlica fino al 1817 non si soleva celebrare nozze in chiesa se non per la Madonna di agosto, lo che non impediva che in ogni tempo, e più specialmente durante la vendemmia, si facessero solenni promesse di matrimonio, suggellate da una festa domestica detta dell'abbraccio, perchè tutti gli astanti avevano diritto di abbracciare la sposa, la quale dopo il ballo se ne andava a convivere collo sposo, aspettando l'agosto seguente per santificare l'unione. [275]

Quasi tutte le spose còrse vanno fornite di un compiuto abito nazionale, del quale noterò le faldette[511], il telu e il mandile. Le faldette o fallette sono un'acconciatura di seta o di filo nero o celeste scuro che copre il capo a guisa del velo comunemente chiamato mesere. Si attacca alla vita con delle cordelline, è piuttosto ampio, tanto da poter ricoprire le braccia e le mani. Il telu è una specie di faldetta, ma più piccolo, e non essendo attaccato alla vita somiglia più al mesere. Il mandile è un fazzoletto che le popolane portano, come le donne di Procida, attorcigliato al capo ed annodato con bel garbo da parte. In casa lo tengono talvolta anche le signore. E di toilette basti. Ho voluto far cenno delle faldette perchè tengono frequentemente luogo del velo nuziale e della cuffia bianca arricciata che portano le novelle spose.

Veniamo ora al giorno solenne, giorno di gioia pura, di universale allegrezza, nel quale anche le inimicizie talvolta cessano, o per lo meno fanno tregua, perchè nulla turbi la santità del rito.

In molti villaggi la sposa trova sui gradini dell'altare un cestello ricolmo di fiori e di frutte che suol tenere in mano durante la benedizione.

Salutati dagli spari dei masculi (mortaletti) e dalle acclamazioni del popolo, gli sposi escono di chiesa, e nei paesi più ricchi di cereali, lungo la via si suol gettare in capo alla sposa riso, grano e farro, come augurio di fecondità.

Oltre quest'uso che ricorda le cerimonie nuziali indiane, greche e latine ve ne sono altri parimente di origine antichissima. Tutte le volte che la sposa passa vicino ad un torrente vi tuffa le mani e prega [276] il Signore che le mantenga l'anima e il corpo puri come quella limpida onda.

In alcuni villaggi dei distretti di Ajaccio e di Sartène, nei monti di Coscione, e nella Valle del Niolo si suol fare lungo corteggio alla sposa. Gli uomini che spesso a cavallo l'accompagnano al villaggio dello sposo, sono chiamati nel dialetto oltramontano Mudracchèri e nel cismontano Mugliacchèri (da mulier). Arrivati a mezza strada, s'incomincia una bizzarra pantomima. I parenti della sposa si fingono corrucciati e risoluti di riportarla seco; ella stessa mostra di non voler proseguire il cammino. Lo sposo domanda il perchè. Si risponde che la fanciulla deve ritornare alla casa paterna. Egli allora la prende bravamente per un braccio, e, forte dell'autorità del Vangelo, le comanda di seguirlo. I parenti cercano opporsi, gridano, minacciano, si dà mano ai bastoni e alle schioppette. La sposa si mostra perplessa, frattanto vengono i paceri: la pace è presto fatta e ricomincia l'allegria con forti grida e schioppettate all'aria. Talvolta il contrasto è mosso dalle parenti e dalle amiche della sposa, e non occorre dire che in tali casi il baccano è maggiore, come infiniti sono i dispettucci che la malizia di tutte quelle donne immagina per far disperare il povero sposo.

Anche presso i Romani i genitori della sposa si fingevano pentiti di lasciare la figliuola partire dalle pareti domestiche per andare in altra casa. Alcuni viaggiatori narrano di aver trovato una simile costumanza presso gli abitatori della Polinesia. Ma non allontaniamoci tanto.

Oltre i Mudracchèri anche i Frinèri fanno parte del corteggio nuziale, anzi lo precedono. Si chiamano così alcuni giovani che portano una conocchia (Frenu) ornata di nastri e fiocchi e con un fazzoletto pendente dalla cima a guisa di banderuola.

Spesso si usa fare la Travata e Parrata detta anche Spallèra, specie di siepe o serraglio, che s'inalza nelle vie per cui passa il corteggio, e si fa dalla gente del villaggio in cui la sposa va a prender dimora. Quello dei Mudracchèri che riporta il trionfo [277] del vanto[512], cioè galoppando giunge primo alla parrata, ha il diritto di offrire alla sposa su di un canestro pieno di fiori le chiavi della casa coniugale, congratulandosi con poesie, come ad esempio questa:

«Che mai cerchi, o peregrina,
In un lido a te straniero?
Non più oltre t'incammina,
Chè vietato t'è il sentiero.
Ma se sei la sposa amante,
Di colui che t'è dappresso,
Deh! t'arresta un solo istante
E avrai libero l'ingresso.
Ora accetta, o bella, in dono
Di bei fior questo mazzetto,
Fior che dolci pegni sono
Di un fraterno e puro affetto.
Poi del tetto conjugale
Prendi tu le chiavi ancora,
In cui scevra di ogni male
Possa far lunga dimora.
Ora il cielo benedica,
Cara sposa, il vostro imene
E con man prodiga e amica,
Vi ricolmi di ogni bene!»

Presi i fiori e le chiavi, la sposa ringrazia la comitiva, fa un cenno, e la parrata si leva, la gente dei due villaggi si ricambia dimostrazioni di affetto e insieme unita accompagna la sposa fino alla casa dello sposo.

Sulla soglia, per lo più adorna di fiori e ghirlande di lauro, sta la suocera, non burbera in volto e colla mestola alla cintura, come in tanti altri luoghi, ma raggiante di gioia dà la mano alla nuora e le presenta il mazzo delle chiavi, per affidarle il governo della famiglia, quindi le porge una conocchia ed un fuso ornati di pimpinelle, e la saluta con questo canto che si chiama della buona ventura[513]: [278]

«Siate boi la ben venuta,
Cara sposa in questa casa,
Che boi siate bona e astuta
Ne so' certa e persuasa.
Diu vi dia qui bona sorte,
Longa vita e santa morte.
Ecce ormai la vossa rocca
Cu lu fusu e cu la lana,
Di accudì tuttu a boi tocca
Ch'e' so' becchia e pocu sana.
Ora entrate e Diu ci dia
Pace e gioia. E cusì sia!

Beninteso che molte suocere rivogliono subito le chiavi, e dopo essersi date pro forma il titolo di vecchie, a quattr'occhi colla nuora parlano un altro linguaggio.

Una signora di Corte mi raccontava che la sua suocera, che fu per lei una seconda madre, non appena si erano trovate sole le aveva detto: Di grazia, voi che d'ora innanzi sarete chiamata la sposa, non permettete che io sia detta dai servi la padrona vecchia.

Finita la canzone, la suocera presenta agli sposi un barattolo di latte quagliato, essi ne prendono una cucchiaiata, quindi ne gusta tutta la compagnia. Intanto la più stretta parente del nuovo marito avvolge un lungo nastro color di rosa dietro le spalle della coppia felice e la trae seco nella sala, ove è già apparecchiato il banchetto nel quale non manca mai di figurare il piatto nazionale detto Fiadone, torta fatta di uova e brocciu, che è una specie di ricotta dolcissima composta di fior di latte, miele o zucchero.

Prima di sedersi a tavola, usa in alcuni luoghi che allontanati per un momento gli uomini e i ragazzi, le donne fanno sedere la sposa su di uno staio pieno di grano, e toltane ciascuna una manciata gliela versano sul capo, girandole attorno e cantando in coro la seguente ballatetta, cogli augurii [279] espressi nella quale io termino ben volentieri questa cicalata:

Dio vi colmi di ogni bene,
Figli maschi in quantità,
Senza duoli e senza pene.
Dio vi accordi lunga età,
Poi vi accolga in Paradiso,
L'un dall'altro mai diviso!

FINE.

NOTE:

[1] Açvâlayana Gr'ihyasûtra. I

[2] Ennio, presso Festo, ha:

Ducit me uxorem sibi liberûm quærendûm gratia,

e Varrone, presso Macrobio, va più in là: «uxorem liberorum quærendorum causa ducere, religiosum est.». Presso gli odierni Parsi, il marito piglia una seconda moglie, se la prima sia sterile, e assoggetta la prima alla seconda.

[3] Gajus, I, 108: «Sed in potestate quidem et masculi et feminæ esse solent; in manum autem feminæ tantum conveniunt.»

[4] Cfr. Valerio Massimo, II, 16.

[5] Ita quod moriatur si viro suo placuerit.

[6] Rubr. 75: Quoniam est inhonestum verecundiam facere mulieribus, statuimus quod quicumque masculus fecerit alicui mulieri bonæ conditionis et famæ iniuriose cadere de capite vel acceperit vettam vel drapellum vel velectum vel pannum quem in capite deportaret, puniatur pro vice quolibet in XXV lib. den.

[7] Si trova nelle Addizioni agli Statuti di Corsica, Lione 1843: «Avendo avuto notizia che si vada sempre più addimesticando l'abuso già tanto tempo introdotto di baciare in istrada pubblica e di attaccare secondo il vocabolo di quel paese, cioè di levare la scufia, o dar di mano, o di fare altri atti di famigliarità alle giovani, perchè impossibilitate queste dal pregiudicio che nell'altrui opinione ne sentono a più maritarsi con altri siano costrette a sposarsi con loro, ecc.»

[8] Statuti di Gallese, pubblicati in Gallese nel 1576, lib. V: «Perchè egli è cosa concedente che nelle feste solenni celebrate dalla santa chiesa cattolica romana e parimenti dalla nostra città s'abbino da ornare ed onorare con gli lumi maggiori che si possono, e somigliantemente per manutenere le buone e laudabili consuetudini di questa nostra città di Gallese, per il presente capitolo, statuimo ed ordiniamo che tutti gli artigiani della nostra città di Gallese siano obbligati e debbano ogni anno perpetuamente un mese avanti la festa della solennità del glorioso San Famiano advocato et Protettore della nostra Patria, creare due Rettori della loro arte, quali Rettori così creati, abbiano da esercitare il loro ufficio del Rettorato per un anno continuamente, e debbano fare un Talamo, o vero un Cirio, ad uso e stil di Roma, e detto Cirio basti per tutta l'arte, sino che serrà buono adoprare e detti Rettori abbino cura e debbano processionalmente farlo portare per tutta la città acceso, ecc.»

[9] Elio Spartiano, nella vita di Elio Vero, presso gli Scriptores Historiæ Augustæ; ed Th. Vallaurius, Augustæ Taurinorum, 1853: Patere me per alias exercere cupiditates meas. Uxor enim dignitatis nomen est, non voluptatis.

[10] Essa ci viene già ricordata nel Mahàbharàta.

[11] Tra i latini, per esempio. Quindi Varrone, presso Nonio: Sic in privatis domibus pueri liberi et pueræ ministrabant; ed Ovidio, ne' Fasti, a proposito di un sacrificio domestico:

Stat puer et manibus lata canistra tenet.
Inde ubi ter fruges medios immisit in ignes
Porrigit incisos filia parva favos.

[12] «Signor ambasciatore.»

[13] «Che volete voi.»

[14] Cantando questo versetto le fanciulle e il capo di casa fanno alcuni passi indietro.

[15] Le fanciulle si avanzano di nuovo col capo di casa.

[16] «Io voglio una delle vostre figlie.»

[17] «Quale volete voi?»

[18] «Qual mestiere farà ella?»

[19] Vedi il capitolo Sulla dote nel secondo libro di quest'opera.

[20] «Pigliatevela pure ch'ella è vostra.»

[21] Vedi nel primo libro di quest'opera, il capitolo intorno al messaggero d'amore e quello intorno alla chiesa.

[22] Cfr. Kuhn u. Schwarz: Norddeutsche Sagen, Märchen u. Gebräuche, Leipzig 1848 e, in questo libro, il capitolo che intitolo: «Gli sposi si provano.»

[23] Ecco, in qual modo, lo descrive il Fanfani, nel suo Dizionario dell'uso Toscano: «Verde chiamasi la pianta del bossolo che si mantiene sempre verde. Nella quaresima è costume che due, specialmente gl'innamorati, spiccano una o più foglie di verde e la custodiscono gelosamente, guardando di non la perdere; e se l'uno la perde, dee dare all'altro o questa o quella cosa pattovita fra loro. Ciò si dice fare al verde, e ogni volta che i due si trovano insieme, l'uno dice tosto all'altro: fuori il verde

[24] Vedi ancora, in questo primo libro, il capitolo che descrive «come si fa l'amore

[25] Cfr. Atharvaveda, VI, 89.

[26] Cfr. Weber Indische Studien, V.

[27] Cfr. Schönwerth e Weinhold citati dal Weber negli Indische Studien.

[28] Cfr. Gelli, nella Sporta, atto 5.º, scena 5.ª «Io ti so dir, Lapo, che tu avevi digiunato la vigilia di Santa Caterina, a tor la moglie che tu avevi tolta.»

[29] Corniscarum divarum locus erat trans Tiberim cornicibus dicatus, quod in Junonis tutela esse putabantur.

[30] Accipitrum genera sexdecim invenimus; ex iis Egituum claudum altero pede prosperrimi augurii nuptialibus negotiis. Hist. Nat, X. 8.

[31] Nihil fere quondam majoris rei nisi auspicato, nec privatim quidam gerebatur. Quod etiam nunc auspices nuptiarum declarant, qui re omissa nomen tantum tenent.

[32] «A portare i fuscelli per fare il nido.»

[33] VII, 38.

[34] Vedi, nel secondo libro di quest'opera, il capitolo che s'intitola: «Gli sposi incoronati.» — L'uso medesimo della focaccia con le fave, esisteva pure in Francia, secondo Chéruel, Dictionnaire historique des institutions, Meurs et Usages de la France. «Il etait d'usage, depuis un temps immémorial, et par une tradition qui remontait jusqu'aux saturnales des romains, de servir, la veille des Rois, un gâteau dans lequel on enfermait une féve qui designait le roi du festin. Ce gâteau des Rois se tirait en famille. Les cérémonies qui s'observaient en cette occasion, avec une fidélité traditionnelle, ont été décrites par Pasquier dans ses Recherches de la France (IV. 9). Le gâteau, coupé en autant de parts qu'il y a de conviés, on met un petit enfant sous la table, lequel le maître interroge sous le nom de Phébe (Phoebus ou Apollon), comme si ce fût un qui, en l'innocence de son âge, representât un oracle d'Apollon. À cet interrogatoire, l'enfant rêpond d'un mot latin: domine (seigneur, maître). Sur cela, le maître l'adjure de dire à qui il distribuera la portion de gâteau qu'il tient dans sa main; l'enfant le nomme ainsi qu'il lui tombe en la pensée, sans acception de la dignité des personnes, jusques à ce que la part soit donnée où est la féve; celui qui l'a est réputé roi de la compagnie, encore qu'il soit moindre en autorité. Et, ce fait, chacun se déborde à boire, manger et danser. Tacite, au livre XIII de ses Annales, dit que dans les fêtes consacrées à Saturne, on était dans l'usage de tirer au sort la royauté.»

[35] Rivista Europea — Anno III, vol. 2.º fasc. 1.º

[36] Rivista Europea. Anno V, vol. 3.º fasc. 1.º

[37] Ed. Th. Vallaurius: Quum amissa uxore aliam vellet ducere, genituras sponsarum requirebat, ipse quoque matheseos peritissimus; et quum audisset esse in Syria quamdam, quæ id genituræ haberet, ut regi jungeretur, eandem uxorem petiit....

[38] Nella versione Tibetana tradotta dal prof. Foucaux: Histoire du Bouddha Sakya Mouni.

[39] Op. cit.

[40] Nel Comasco è il proverbio:

La rôsada de san Giovan
La guariss tüc'c'i malann.

Vedi le Canzoni popolari comasche, raccolte dal dottor G. B. Bolza, Vienna, 1867; e un canto popolare spagnuolo, riferito dal Caballero (Cuentos y poesias populares Andaluces):

La mañana da San Juan
Cuaja la almendra y la nuez,
Asi cuajan los amores
Cuando dos se quieren bien.

[41] Noto, 1874.

[42] Cfr. pure per lo stesso uso Avolio, Canti popolari di Noto.

[43] Suppongo che il Pitré col nome di carciofo selvaggio intenda qualificare il semprevivolo.

[44] «Se tol tre amoli; uno e'l se pela tuto, e uno el se pela mezo, e uno el se lassa come ch'el xe; e se va via, e resta le amighe; e queste sconde sti tre amoli soto tre piati, uno per piato. Alora se vien fora, e se va coi i oci bendai, e se tol quel piato che se vol. Se se tol el piato dove ze l'amolo pelà, se va a star da povereta; se se va a torse quelo de l'amolo mezo pelà, se va a star cussì e cussì; e se se tol quelo de l'amolo intiero, se va a star da signora.» Credenze popolari veneziane raccolte da Dom. Gius. Bernoni; Venezia, Antonelli. 1874

[45] Da un articolo di Clemet-Mullet, pubblicato nel N. 56 della Revue Orientale et Américaine.

[46] La Baltique. Paris, Hachette.

[47] Si confrontino gli otto acervi dell'uso indiano, nel capitolo: Gli sposi si provano, in questo medesimo primo libro.

[48] Vedi Tommaseo, Canti greci.

[49] Firenze, 1876, terza edizione, pag. 327-329.

[50] Vedi Mahàbhàrata, vol. 1, 5873-5875.

[51] Tuttavia era già romana la superstizione che fosse di cattivo augurio lo starnutare di primo mattino, e di buono invece lo starnutare nel pomeriggio.

[52] Vedi le mie Fonti vediche dell'Epopea.

[53] Quindi venne l'uso nostro di far riposare gli scuolari il giovedì.

[54] Vedi Rocholz, Deutscher Glaube und Brauch, vol. 2, pag. 42. Berlino, 1867. Le granate, con le quali la tradizione popolare si rappresenta le streghe, appartengono evidentemente al medesimo mito.

[55] Vedi, in questo libro, il capitolo che s'intitola: L'autorità del padre e del fratello nelle nozze.

[56] Presso Orelli ed Henzen si trovano iscrizioni le quali ricordano mogli romane morte a 13, a 12 ed anche ad 11 anni. Trovo poi nelle Petri Excerptiones, come la fanciulla poteva a sette anni venir fidanzata e a dodici sposarsi. La stessa età per le promesse è fissata da Modestinus, Differentiarum, 4.

[57] Dovevano informarsi di certo a tale diritto gli Statuti di Lucca, editi a Lucca nel 1539, i quali concedevano la facoltà di menar moglie, quantunque non matura.

[58] Cesare: «Intra annum vero XX feminæ notitiam habuisse in turpissimis habent rebus.»

[59] Nell'editto di Liutprando, art. 112, ediz. Baudi di Vesme e Neigebaur, leggo: «De puella unde antea diximus, ut non ante XII annos legitima sit ad maritandum, sic modo statuimus, ut non intrante ipso duodecimo anno, sed expleto, sit legitima ad maritandum. Ideo autem hoc diximus, quia multos intentiones de causis istais cognovimus, et apparuit nobis immatura causa sit ante expletos duodecim quod annos.»

[60] Vi furono tuttavia eccezioni.

[61] A questo ideale s'accosta il proverbio palermitano: «Omu di vintottu e fimmina di dicidottu.» Termine estremo specialmente per la donna, poichè un altro proverbio, pure palermitano, soggiunge: «Figghia di dicidott'anni, maritala o la scanni.» Ciò non toglie naturalmente che donne di maggior età in Sicilia non si maritino, e poichè mi trovo col discorso a Palermo, mi piace riferire la descrizione assai lepida che fa Ricordano Malaspini, o chi per lui, nella sua Storia Fiorentina, del matrimonio e parto di Costanza, madre di Federico II:

Il papa Clemente «trattò con Costanza sirocchia del re Guglielmo che era monaca, e d'anni 50, e fecela uscire del monastero, e dispensò ch'ella potesse essere al secolo e usare matrimonio. E occultamente la feciono partire di Sicilia e venire a Roma; e la chiesa la fece dare per moglie al detto Arrigo imperatore. Onde appresso ne nacque colui che poi fu chiamato Federico secondo imperatore, che tante persecuzioni fece alla chiesa, indi dietro, e non senza giudizio di Dio essendo nato da monaca sacrata e d'età d'anni 50; che era quasi impossibile a natura di femmina di partorire figliuolo. E troviamo che quando la detta Costanza imperatrice era gravida del detto Federico, si sospettava per il paese, che per la sua antichità non potesse avere figliuoli nè essere grossa. Onde s'ordinò ch'ella partorisse nel mezzo della piazza di Palermo sotto un padiglione. E si mandò bando: che quale donna volesse andare a vedere, potesse. E assai ve ne andarono e vidonla; così cessò il sospetto.»

[62] Si confrontino nelle novelline, gli allievi e le allieve delle fate, che non dovevano mai vedere alcuno e star di continuo nelle tenebre, fino al dì delle nozze; il fondo di tali novelline è evidentemente mitico, e allude ora al sole, ora all'aurora che escono dalla notte.

[63] La suegra del diablo presso i Cuentos y poesias populares Andaluces, raccolti dal Caballero:

Yo te quisiera querer
Y tu madre non me deja
El demonio de la veja
En todo se ha de meter.

[64] Ib.

Aunque pongan a tu puerta
La artilleria real,
Y a tu padre de artillero,
Con tigo me he de casar.

[65] Atto 4.º, scena 6.ª.

[66] Fra gli altri si canta questo rispetto un po' ardito:

Fior di mentuccia
Pigliam lo scoppietto e andamo a caccia
Per dar l'uccelletto a Mariuccia.

Più assai decente un canto-serenata, che gli amanti nell'Abruzzo teramano vanno accompagnati da chitarra o cornamusa a cantare sotto le finestre delle belle ed incomincia:

Luna di notte e sol di mezzogiorno,
Stella Dïana e paradiso eterno, ecc.

[67] Zitella, e qui, particolarmente, fidanzata.

[68] Damigella, donzella, in accordo col damo, che è fidanzato.

[69] Fiore.

[70] Bellezza.

[71] Squaglia.

[72] A stilla a stilla.

[73] Bello.

[74] Codesta.

[75] Piccola mano.

[76] Bionda treccia.

[77] Quando.

[78] Si ingaggierà, si impegnerà.

[79] Spiega o spingi.

[80] Bandiera.

[81] Signora.

[82] Faccietta.

[83] Altiera.

[84] Bianchezze.

[85] Splendore.

[86] Di un sole nascente.

[87] Lo stendardo.

[88] Qui.

[89] Signora Filomena.

[90] Reco qui la traduzione italiana:

— Bella fanciulla dal grembiule a strisce,
Siete contenta che le mie brache tocchino il vostro grembiule?
— Il mio grembiule è di canevaccio,
Convien toccarlo con buona grazia.
— Oh! bella fanciulla, sta ella fresca l'acqua nella secchia?
— Ella sta fresca e dolente.
— Se io tornassi un'altra sera, sareste voi contenta?
— O contenta o no, per una volta, non conviene dir di no.—
— O bella fanciulla, che sapete tanto bene rispondere,
L'acqua del mare va a bell'onde.
— O bell'onde, o bei salti,
Io so rispondere questo ed altro.
— Bella fanciulla, il vostro amore è egli pari al mio?
— Se il mio fosse pari al vostro, saprei darvi risposta.
— Bella fanciulla, il vostro amore è egli pari al mio?
— Il mio è sotto il tavolo, il vostro è a casa del diavolo.

[91] Venite ad aprire.

[92] Aperto.

[93] Neanche vi voglio aprire.

[94] Io.

[95] State.

[96] Mi fate, o pure, secondo la lezione del Celesia, m'è fatt, cioè, mi è fatto.

[97] Dolore, crepacuore.

[98] A me, mi.

[99] Abbiate.

[100] Io vorrei scrivere.

[101] Vi lascio la buonasera.

[102] L'anello.

[103] Chi ha macinato, insacchi. Io debbo questi particolari al signor A. Bertolotti che primo pubblicò la canzone Martina de' Canavesani nelle sue geniali Passeggiate nel Canavese. — Vengo pure avvertito come nel Pesarese, a Fenestrelle e in Calabria usino canti improvvisi in occasione di nozze; ma non sono riuscito a procurarmene.

[104] La traduzione italiana suona così:

— Oh! buona sera, vegliatrici.
Pel corpo mio, buona sera.
Oh! buona sera, vegliatrici,
Vegliatrici, buona sera.

— Chi è egli che c'è lì fuori?
Pel corpo mio, chi c'è lì?
Pel sangue mio chi c'è egli fuori?
Chi è egli? chi c'è li?

— Io son Martino di Madonna,
Pel corpo mio, io son Martina,
Io son Martino di Madonna,
Pel sangue mio! Martino Martina!

— Dove se' tu stato, Martina?
Pel corpo mio, dove se' tu stato?
Dove se' tu stato, Martina?
Pel sangue mio, dove se' tu stato?

— Alla gran fiera, o vegliatrici,
Pel corpo mio, alla gran fiera,
Alla gran fiera vegliatrici.
Pel sangue mio, alla gran fiera.

— Che hai tu comprato per la fiera,
Pel corpo mio, che hai tu comprato?
Che hai tu comprato per la fiera?
Pel sangue mio, che hai tu comprato?

— Un bel cappellotto, vegliatrici,
Pel corpo mio, vegliatrici, un cappellotto,
Un bel cappellotto, vegliatrici.
Pel sangue mio, vegliatrici, un cappellotto.

— Apritemi l'uscio, vegliatrici.
Pel corpo mio, apritemi l'uscio,
Apritemi l'uscio, vegliatrici,
Pel sangue mio, apritemi l'uscio.

— Ecco aperto, Martina,
Pel corpo mio, l'uscio è aperto,
Esso è aperto, Martina,
Pel sangue mio, l'uscio è aperto.

[105] Phaedromus s'accosta alla porta della vergine Planesium e canta: «Quid si adeam ad fores atque occentem?» Palinurus: «Si lubet; neque veto, neque, jubeo, etc.» Phaedromus: «Pessuli, heus, pessuli! vos saluto lubens, vos amo, vos volo, vos peto atque obsecro, Gerite amanti mihi morem amoenissimi, etc.» Sembra una delle nostre serenate.

[106] A motivo del loro caldo negli amori, che li rende pure filarmonici alla loro maniera. I Romani nelle calende, e none di maggio, sacrificando al Dio lare, incoronavano di pani un somarello, probabile simbolo di fecondità.

[107] Canti popolari toscani, 2.ª edizione.

[108] Ciò appare da una nota di Benedetto Curzio al quinto Arresto d'Amore di Marziale d'Alvernia, ricordata dal Minucci, in una sua lunga nota al Malmantile del Lippi: «Prima die maii mensis juvenes pluribus ludis ac jocis sese exercere consueverunt, arborem sæpenumero deportantes, ac in loco publico, aut etiam ante alicujus egregii viri januam, vel frequentius amicae fores plantantes, vestitam nonnunquam promiscuis adamantibus, intersignis atque emblematibus.» L'uso de' maggi, è, del resto, popolarissimo in Francia ed in Germania.

[109] Luciano, Cenni sulla Sardegna.

[110] L'espressione italiana corbellare ha un senso somigliante, e proviene da corbello; corbelli o tasche chiamano in Toscana i testicoli; così pure l'espressione analoga minchionare.

[111] Riv. Europea, anno V, vol. I, fasc. I, pag. 90.

[112] Volete dunque toglier marito?

[113] Vi piacerebbe la mia persona?

[114] Vi piacerebbe la casa nostra?

[115] Magari fosse!

[116] Sentite il babbo mio o la mia mamma.

[117] Gli amori di Abrocome e d'Anzia volgarizzati da Anton M. Salvini. Pisa, 1816.

[118] Così è chiamato l'intromettitore Agnolo di Giovanni De' Bardi pel matrimonio di Francesco Guicciardini, ne' Ricordi autobiografici del medesimo, vol. X delle Opere inedite, pubblicate dal compianto Giuseppe Canestrini.

[119] In molti luoghi del Piemonte.

[120] Presso il Lago Maggiore.

[121] Nel Vogherese.

[122] A Riva di Chieri e a Gallarate.

[123] Nel Pesarese e nel Fanese.

[124] Nel Bolognese.

[125] Proxeneta lo chiamavano gli antichi. Vedi Hotman: De veteri ritu nuptiarum.

[126] Bacialer nel Canavesano.

[127] Vedi Villemarqué, Barzaz Breiz (Chants populaires de Brétagne).

[128] Vedi la Relazione del Symes.

[129] Gr'ihyasùtra.

[130] Tacito, Germania, rammenta fra i doni nuziali tedeschi: «boves et frenatum equum et scutum cum framea gladioque.»

[131] Semi-angioli e semi-demonii indiani.

[132] Mahàbhàrata, vol. 1, 3384, 3385.

[133] Vol. 1, 4091.

[134] Così Dràupadì incorona l'eroe vittorioso.

[135] E, a Lomello, si dice che matrimonio e vescovato sono da Dio destinati; nel quinto atto della Tancia del Buonarroti, scena ultima:

In buona fè gli è vero quel dettato,
Ch'un parentado in cielo è stabilito.

[136] Così portar caldo il latte da lontano, attraversare le fiamme, trovar l'acqua della vita, uccidere il mostro, strappare al mostro il vero tesoro, fabbricar castelli d'oro, combattere con la sposa stessa, travestita da Moro terribile, strappare al mostro tre capelli, ecc.

[137] Hahn, Griechische und Albanesische Märchen.

[138] Livorno, 1824, pag. 116.

[139] Vol. I, c. XIII, pag. 13.

[140] Vol. I, c. III.

[141] Questi ultimi, in un loro inno, presso il Kalevala, la chiamano la lunga panca dell'ospitalità.

[142] Le Monténégro contemporain, Paris, Plon, 1876.

[143] La vita della terra d'Otranto, nella Rivista Europea, 1876.

[144] Anco, presso i Germani, il bianco e il turchino erano due colori sacri. Vedi Rochholz, Deutscher Glaube und Brauch. Berlin, 1867, p. 191-285, II Band.

[145] Per informazione del prof. G. B. Giuliani, che la visitò e studiò a palmo a palmo.

[146] Vedi Lamarmora, Voyages en Sardaigne de 1819 à 1825; e il capitolo di questo libro che intitolo: Come la fanciulla si domanda.

[147] Veggasi una prova dello sposo tedesco, nel capitolo che intitolo: Mentre la sposa si prepara, in questo stesso primo libro.

[148] Vedi la Raccolta di viaggi del Ramusio.

[149] Vedi Camarda, Appendice alla Grammatologia comparata della lingua albanese, e, in questo primo libro, il capitolo che tratta della Dote.

[150] Vedi più oltre il capitolo che parla della Dote.

[151] Le 12 tavole: «In liberos suprema Patrum auctoritas esto, venundare, occidere liceto....»

[152] Petri Exceptiones: «Mulieres liberos in potestate non habent, ideoque filii et filiæ sine consensu matris matrimonia contrahere possunt. Quod non possunt facere sine consensu patris, in cujus potestate sunt.»

[153] Editto di Rothari, art. 214, ed. Baudi di Vesme. «Si quis liberam puellam absque consilium parentum aut voluntatem duxerit uxorem, componat anagrip solidos vigenti et propter faida alios XX; de mundium autem qualiter convenerit et lex havet, sic tamen si ambo liberi sunt.»

[154] Vedi Gar, Biblioteca Trentina, disª XVI-XVIII. Trento, 1861, art. 74: «Statuimus, si quæ fœmina ad sui postam, sine consensu patris, vel si non haberet patrem, sine consensu fratris, vel si non haberet patrem nec fratrem, sine consensu matris, nuberet alicui ignominioso, vel alicui longe minoris conditionis, quam ipsa, privetur et privata sit ab omni successione paterna, materna, fraterna et sororina ipso facto; et hoc si nupserit ipsi ignominioso ante vigesimum quartum annum; si vero post vigesimum quartum annum nupserit tali viro, tunc privetur tertia parte haereditatis tantum.»

[155]

Injuria abs te afficior indigna, pater;
Nam si Cresphontem existimabas improbum,
Cur me huic locabas nuptiis? sin est probus,
Cur talem invitam invitum cogis linquere?

Un somigliante rimprovero torna nello Stichus di Plauto, I, 2, 73:

Nam aut olim, nisi tibi placebant, non datas oportuit
Aut nunc non aequum est abduci, pater.

[156] In Piemonte, il proverbio dice:

Pan e nus
Vita da spus.

In Albania usano invece le nocciuole; quindi la chiesta nuziale, presso un canto popolare, edito dal Camarda:

M'ha mandato sua signoria
Per uno staccio,
Per una focaccia,
Per una fanciulla
Bellina,
Io non la tocco, non l'ammazzo,
Ma la regalo di pecore e di capre,
E le do pane e nocciole,
Or me la dai, o che mi dici?

Vedi il capitolo che tratta de' cibi e banchetti nuziali, nel terzo libro di quest'opera, e il capitolo primo del quarto libro.

[157] Cap. 270; presso il Du Cange, ed. Henschel, sotto la voce Forismaritagium «Se aucun vilain de qui que se soit se marie avec vilaine d'autre liue, sans le coumandement dou Seignor de la vilaine, le Seignor dou vilain, à qui sera mariée la vilaine estrange, rendra au Seignor de la vilaine un autre en eschange à la vilaine, de tel auge par la connaissance de bonnes gens. Et se ils ne treuvent vilaine, qui la vaille, il li donra le meilleur vilain qu'il aura d'auge de marier; et cil qui sera marié à la vilaine estrange meurt, le Seignor dou vilain doit avoir son eschange, se la vilaine torne à son premier Seignor.»

E nel capitolo seguente: «Se aucune vilaine vait de aucun cazal en autre, qui ne soit de son Seignor, et le Seignor du lieue ou elle sera venue, n'a pooir de li marier, il doit donner à son Seignor une autre vilaine en eschange, à la connaissance de bonnes gens sans faillir.»

[158] Trovo ricordata, presso Rabelais, la livrea nuziale, quando Panurgo annunzia il suo proposito di menar moglie «Je vous convierai à mes noces; vous aurez de ma livrée.» Vedi ancora, per la parte del feudatario, nel terzo libro, i due capitoli che trattano de' cibi e banchetti nuziali e del jus primæ noctis. È tuttavia possibile che la livrea nuziale distribuita a tutti i convitati delle nozze sia un emblema della dignità signorile degli sposi, la compagnia de' quali rimane la loro corte. Veggasi il capitolo che tratta degli sposi incoronati.

[159] Vedi Du Cange, ed. Henschel, sotto la voce Maritagium, e Chéruel, Dictionnaire historique des institutions, moeurs et coutumes de la France. «Dame, vous devez le service de vous marier.»

[160] Vedi, nel terzo libro di quest'opera, il capitolo che tratta del jus primae noctis.

[161] Presso Du Cange, ed. Henschel, sotto la voce Maritagium: «Cum per experientiam didicimus quod quamplures Dominæ regni nostri, spreta securitate, quæ per legem et antiquam consuetudinem regni Angliæ capi solet et debet ab eis, ne se maritari permitterent sine consensu et voluntate nostra, non requisito super hoc nostri assensu, unde tam nobis quam Coronæ nostræ et damnum et opprobrium emerserunt.»

[162] Morale di Tiruvalluvar.

[163] E non sono i preti quelli che prima e dopo Gregorio VII l'abbiano fatta. Il loro vizio è antico, come possiamo rilevare dallo scandalo che ai padri della chiesa dava la condotta del primo clero, e dal passo che segue di Landolfo seniore cronista milanese, relativo ai tempi di Ariberto (II, 35): «Humanam ac fragilem naturam sciens; qui sine uxore vitam in sacerdotio agere videbantur viris uxoratis ordinis utriusque ne ab illis inhoneste circumvenirentur, semper suspecti erant.» Concordano i lamenti di Pier Damiano, di Andrea, monaco vallambrosano, e di altri scrittori contemporanei e posteriori, poco sospetti di parzialità verso i detrattori della chiesa.

[164] Nel parallelo fra Demetrio e Antonio.

[165] Scriptores Historiæ Augustæ, ed. Th. Vallaurius: «Uxores ducendo ac reiiciendo ac novem duxit, pulsis plaerisque praegnantibus.»

[166] Svetonio, Iulius Caesar: «Helvius Cinna, tribunus plebis, plerisque confessus est, habuisse se scriptam paratamque legem, quam Caesar ferre jussisset, cum ipse abesset, uti uxores liberorum quaerendûm causa, quas et quot vellet, ducere liceret.»

[167] XIII, 1.

[168] Vedi Gar, Biblioteca trentina, dispense III-VI.

[169] Statuti municipali di Rovigno, Trieste, 1851; III, 51.

[170] Volgarizzamento dell'anno 1451: «Ad emendare la malizia de li homini et la nequitia de le femmine le quali non desistono usurpare contro Dio la sancta madre chiesia et lo sancto matrimonio adunando moglie ad moglie fermamente ordinando dicemo che qualunque mosso da lo spirito cattivo havente la sua legittima moglie ardiscerà pigliare l'altra moglie, e se ne sarà facta accusa o querela de lui et serà facta legitima proba per testimonii o vero per publico instrumento paghi libre cinquecento, la quale pena se non poterà pagare sia arso.»

[171] Quello, per esempio, di Civitavecchia qui sopra ricordato.

[172] De bello Gallico: «Britanni uxores habent deni, duodenique inter se communes, et maxime fratres cum fratribus et parentes cum liberis; sed si qui sunt ex hi snati, eorum habentur liberi a quibus primum virgines quæque ductæ sunt.»

[173] Vedi il primo libro del Mahàbhàrata.

[174] Tuttavia una strofa dell'Atharvaveda (lib. XIV) lascia supporre la poliandria. Quando la sposa è giunta alla casa maritale, si invitano gli uomini a seminare in quel campo fruttifero. La legge permette poi alla donna che il marito non feconda di unirsi ad un altro parente perchè fecondi il suo campo o khsetra.

[175] Selections from the Mahàbhàrata, pag. 66, in nota.

[176] Le Mahàbhàrata; onze épisodes tirés de ce poéme epique; nell'Introduzione.

[177] Lalita Vistàra, tradotto sopra la versione tibetana dal professore Foucaux.

[178] VIII, 21.

[179] Statuti Criminali dell'isola di Corsica. Lione, 1843.

[180] Art. 222. Edicta regum Langobardorum, ed. Baudi di Vesme «Si quis ancillam suam propriam matrimoniare voluerit ad uxorem, sit ei licentiam; tamen deveat eam libera thingare, etc.»

[181] Pure furono sempre vietati dalla legge romana connubii fra patrizii, e, non che schiavi e schiave, liberti o liberte o figli di liberti e liberte, e specialmente istrioni. La legge su questo punto era tanto severa, che se la figlia di un senatore sposava un libertino, il padre veniva espulso dal Senato. E presso Paulus abbiamo: «Qui senator est, quive filius, neposve ex filio, proneposve ex filio nato, cujus eorum est, erit; ne quis eorum sponsam, uxoremve, sciens, dolo malo habeto libertinam; aut eam quæ ipsa, cujusve pater materve artem ludicram facit, fecerit, etc.»

[182] Seneca ha, nel lib. IV De Benefic. «Promisi tibi filiam in matrimonium; postea peregrinus apparuisti. Non est mihi cum extraneo connubium.» E Macrobio, nel primo de' Saturnali: «peregrinis nulla cum Romanis necessitudo.» L'avere sposata Cleopatra e Berenice, straniere, fece gran torto, presso i Romani, al triumviro Antonio e a Tito imperatore.

[183] Quelli di Gallese almeno ne adducevano una ragione scusabile; si temeva che l'ingresso di sconosciuti nella città, per via di matrimonio, vi portasse canaglia. Così, nelle Constitutiones di Ancona, si richiedeva, perchè il forestiero potesse pigliar moglie nella città, ch'egli vi dimorasse almeno da due anni; il che viene quanto a dire ch'egli vi fosse sufficientemente conosciuto.

[184] Elio Spartiano, presso gli Scriptores Historiae Augustae, ed. Th. Vallaurius. «Interest scire quemadmodum novercam suam Antoninus duxisse dicatur; quæ cum esset pulcherrima et quasi per negligentiam se maxima corporis parte nudasset, dixissetque Antoninus: vellem si liceret, respondisse fertur: si libet licet. An nescis te imperatorem esse et leges dare non accipere? Quo audito, furor inconditus ad effectum criminis roboratus est; nuptiasque eas celebravit, etc.»

[185] De vita excellentium imperatorum: «Neque enim Cimoni fuit turpe, Atheniensum summo viro, sororem germanam in matrimonio habere. At id quidem nostris moribus nefas habetur.»

[186] Il caso nefando è riferito così dall'oratore Lisia, presso Ateneo (XII, 16): «Navigando insieme nell'Ellesponto Assioco e Alcibiade, in Abido, menarono in comune due mogli, Medonziade e Xinocepe. Quindi essendo loro nata una figlia, nè sapendo essi se da Assioco o da Alcibiade, come fu in età da marito, dormirono pure con essa, con la quale se usava Alcibiade diceva essere dessa figlia di Assioco, se Assioco, di Alcibiade.»

[187] III, 18.

[188] Nella leggenda di Çakuntalâ presso il Mahâbhârata sono indicate otto maniere di matrimonii indiani, quello ad uso brâhmanico (brâhmah), quello ad uso degli dêi (dâivas), quello ad uso dei sapienti rishi (ârshas), quello a modo di Prâgèapati, cioè fatto col solo intento di ottener prole (prâg'âpatyas), quello ad uso dei demonii celesti (âsurah), quello ad uso dei musici, ballerini ed angeli celesti, cioè il matrimonio per amore, per inclinazione, il matrimonio gandharvico (gândharvah), quello ad uso dei rakshasi o mostri rapitori, cioè il matrimonio fatto col rapimento della sposa (râkshas), e infine il matrimonio a uso de' mostruosi selvaggi antropofagi piçâc'i (pâiçâc'as). Al guerriero erano leciti il matrimonio per amore e il matrimonio per rapimento; i matrimonii a uso de' demonii e de' piçâc'i, ossia la sola congiunzione carnale fatta per violenza o per sorpresa non erano leciti ad alcuno, od al più alle infime caste sociali.

[189] «Ieri a sera.»

[190] «La mia mammina.»

[191] «Mi osservò», ma come chi vuole interrogare.

[192] «Ove.»

[193] «Io ci vado.»

[194] «Bella.»

[195] «Guidamici, indicamelo.»

[196] «Un tantino.»

[197] «Io ne godo.»

[198] «Vossignoria.»

[199] «Non ho senso, son fuori di me.»

[200] «Non vedo.»

[201] Andria:

Hac fama impulsus, Chremes
Ultro ad me venit, unicam gnatam suam
Cum dote summa filio uxorem ut daret.
Placuit, despondi; hic nuptiis dictus est dies.

Propriamente, era il padre della ragazza o sponsa sperata quello che spondebat; il giovine o sponsus speratus dal padre suo stipulabatur.

[202] Cfr. i matrimonii di Devayánì e di Draupadì, presso il Mâhabhârata, I, 3379, 3380, 7341.

[203] Buonarroti, Tancia, atto 4.º, scena 4ª. E un canto popolare toscano, presso il Tigri:

Saprai pur, bello, che legati siamo,
E sposar tu non puoi altra persona.
Colla man destra femmo il toccamano,
E colla lingua ci demmo parola.
Se tu con altra in Chiesa ti dirai,
Le tue pubblicazion fermato avrai.

Secondo la Sporta del Gelli (scena 6.ª, atto 5.º), basta la stretta di mano fra il suocero e il genero:

Franzino: «Siate testimoni, spettatori; ponete su la mano.»

Ghirigoro: «Eccola.»

Franzino: «Padrone, ponete su la vostra.»

Alamanno: «Perchè? Eccola.»

Franzino: «Buon pro vi faccia a tuttaddua; la Fiammetta vostra figliuola è moglie qui di Alamanno mio padrone.»

[204] Isidorus Hisp., lib. 2. De Divin. Offic., cap. 15: «Quod in primis nuptiis, anulus a sponso sponsæ datur, sit nimirum vel propter mutuæ dilectionis signum, vel propter id magis, ut eodem pignore eorum corda jungantur.»

[205] «Anuli subarratio non est de substantia matrimonii, sed pro signo et pro quadam investitura.» Cfr. Monterenzio, negli scolii delle Sanctionum et Provisionum inclitæ civitatis studiorumque matris Bononiæ. Bologna, 1569, t. 2.º

[206] Lib. 3, tit. I. Cfr. Baronius, Ann. 58, num. 51 et seg. — L'editto di Liutprando, art. 30: «Si quiscumque sæcularis parentem nostram saecularem disponsat cum solo anulo, eam subarrat et suam facit.»

[207] E un altro canto popolare toscano:

Dissi: Quell'uomo, datemi un anello,
Che c'è me' pa' che mi vuol maritare,
E mi vuol dare a un giovan di castello,
Io voglio un giovanin che sia 'l più bello.

[208] Per mezzo di un ambasciatore; così agli ambasciatori del re di pagania d'oltremare, la principessa Orsola di Ungheria, nella Leggenda di questa santa, presso il Del Lungo, dice: «ed allora compieremo il matrimonio e la convenzione carnale; e al quale se voi siete mandati a ciò e se voi avete balìa aiutoria, per cagione di compiere tutto lo suo intendimento, datemi l'anello per nome del figliuolo di messere lo re d'Oltremare.»

[209] Nella novella della Gualdrada, ove all'onesta fanciulla Ottone III consegna l'anello della promessa in nome di Guido, lo sposo che le destina.

[210] Novella ventesimaprima, ove si ricorda la sola buona azione di che abbia forse meritato lode in sua vita il duca Alessandro de' Medici. Udito come due cortigiani avevano tradito una povera fanciulla, egli si reca presso la medesima in compagnia di loro e «cavatosi un ricco anello di dito, lo porge a colui che promesso aveva di prenderla per donna e disse: «sposala.» In Francia, in simili casi, colui che era obbligato a sposare, dovea ricevere invece di un anello metallico, per segno d'infamia, un anello di paglia. La paglia ha un originario significato fallico. Cfr. Chéruel, Dictionnaire historique des institutions, moeurs et coutumes de la France.

[211] Cfr. Weber. Op. cit.

[212] Io ricordo il caso di Maria di Borgogna, impegnata per tal modo col duca Massimiliano d'Austria, riferito nelle Memorie del Commines, Cologne, 1615, p. 507, 508: «Ainsi d'aucuns commencérent à pratiquer le mariage du fils de l'Empereur, à present Roi des Romains: dont autresfois auoit esté paroles entre l'Empereur et le duc Charles, et la chose accordée entre eux deux. Si auoit l'Empereur une lettre faite de la main de la dite Damoiselle, du commandement de son Père et un anneau, où il y avoit un diamant.»

[213] La nationalité Serbe d'après les chants populaires.

[214] «Despondeo tibi filiam meam in honorem et uxorem et dimidium lectum, in seras et claves.» Presso Stiernhoek, citato dal Mittermaier, Grundsätze des gemeinen deutschen Privatrechts.

[215] Un simile uso viveva tra i Romani, quando si trattava dai loro ambasciatori per la pace; un lembo ripiegato della toga significava pace: disteso, invece, guerra.

[216] Ossia la sposa; cfr., nel secondo libro, il capitolo che tratta degli Sposi incoronati.

[217] Lo sposo; come sopra.

[218] Tali fazzoletti e asciugamani sogliono essere riccamente ricamati in rosso.

[219] Cioè, «non fate il battimano.»

[220] Cioè, non avvicinate i due lembi delle pelliccie ripiegati.

[221] Vi si parla di Massimino Giuniore: «Desponsata illi erat Junia Fadilla, proneptis Antonini; quam postea accepit Toxotius eiusdem familiae senator, qui periit post præturam, cuius etiam poemata exstant. Manserunt autem apud eam arrhæ regiæ, quæ tales (ut Junius Cordus loquitur, harum rerum perscrutator) fuisse dicuntur monolium de albis novem, reticulum de prasinis undecim, dextrocherium cum costula de hyacinthis quatuor, præter vestes auratas et omnes regias, ceteraque insignia sponsalium.»

Nelle Petri Excerptiones poi trovo questo precetto: «Si quis uxorem ducere aliquam voluerit mulierem et in tempore sponsalium aliquid ei arrharum nomine, causa futuri matrimonii, dederit, veluti anulum, monile, pelles vel aliud simile, si per mulierem steterit, quominus matrimonium sequatur, nisi justa causa impediat, reddat arrhas in duplum, vel etiam in quadruplum, si forte ita pactum fuerit inter eos. Sin vero per virum steterit, nisi justa causa interveniat, tunc arrhas amittat, vel si pactus est, quadruplum.»

[222] Cfr. Glossarium Cavense, citato dal Du Cange sotto la voce Meta.

[223] Nella descrizione che ci fa Jacopo Salviati delle nozze di Bernardo Rucellai con Nannina de' Medici, la caparra o mancia che lo sposo dà alla sposa appare di fiorini 100 larghi e mani 1000 di grossoni.

[224] Abruzzo Ultra I.

[225] Venti centesimi.

[226] Intendi, sposa.

[227] Due lire italiane.

[228] Se lo sposo era un bràhmano, poichè, se guerriero, dovea cedere al prete maestro una terra, se agricoltore o mercante, un cavallo.

[229] Secondo il Birlinger, Volksthümliches aus Schwaben, usa tuttodì lo stesso dono in Isvevia; la vacca accompagna il carro della sposa. — Fra i doni nuziali germanici, figura pure il gallo. Cfr. Simrock, Handbuch der Deutschen Mythologie (nell'Arpinate si dà una gallina al prete); in Francia, usava il dono d'un cavallo alle ragazze che accompagnavano la sposa. Cfr. Chéruel, Dictionnaire des institutions, Moeurs et coutumes de la France.

[230] Cfr. Atharvaveda, lib. 14.

[231] «Lo sposo.»

[232] Anche fra i Turchi trovo ricordato un somigliante dono nuziale. Cfr. Ubicini, La Turquie actuelle.

[233] Miçkievic', Canti Illirici.

[234] Plinio, VIII, 48: «Lanam cum colo et fuso Tanaquil, quæ eadem Coecilia vocata est, in templo Sangi durasse, prodente se, auctor est M. Varro, factamque ab ea togam regiam undulatam in aede Fortunæ, qua Servius Tullus fuerat usus. Inde factum ut nubentes virgines comitaretur colus comta cum fuso et stamine.»

[235] Cfr. Tommaseo, Canti Côrsi. In Corsica chiamano freno la conocchia.

[236]

Die bekommt den besten Mann
Die am besten spinnen kann.

Cfr. Deutsche Lieder in Volkes Herz und Mund, Leipzig, 1864.

[237] Relazione della sua ambasciata al regno d'Ava.

[238] Presso i Romani doveva essere di lana pecorina; si confronti il nastro rosso e nero di lana, che le spose indiane portavano, secondo i gr'ihyasùtra, e le spose della Germania meridionale portano, secondo Schönwerth.

[239]

Robins m'aime
Robins m'a
Robins m'a demandée,
Si m'arà.
Robins m'acata cotele
D'escarlate bone et bele
Soukanie et chainturele
A leur i va.

Cfr. Nisard, Des chansons populaires, t. 1.

[240] Cfr. Der Nibelunge noth; la cintura sembra simbolo di verginità.

[241] Cfr. Léouzon Le Duc, La Baltique.

[242] Cfr. Tommaseo, Canti Greci.

[243] Così neppure la cintura di lana rossa e le calze bianche con impronta gialla, che, presso i Brettoni, i bazvalan e il breutaer ricevono in dono. Cfr. Villemarqué, Barzaz Breiz, Chants populaires de la Bretagne.

[244] Governo di Tver.

[245] Per notizia che me ne reca l'avvocato Valenziani di Roma.

[246] Cfr. Lamarmora. Voyages en SardaigneDomenech, Bergers et Bandits, Souvenir d'un voyage en Sardaigne. — Mercato è il bacio che Ottone III, presso il Bandello, e Piero d'Aragona, presso il Boccaccio, danno in fronte alla giovine sposa; essi se ne creano cavalieri, dopo averla dotata; e così hanno comprato il diritto del bacio.

[247] Cfr. Scriptores historiæ Augustæ; Aureliano fece sposare a Bonoso la gota Hunila, vergine di regio sangue, a fine di strappare dalle confidenze di lei i segreti della formidabile sua gente, e però scrisse, fra l'altro, a Gallonio Avito suo legato in Tracia: Nunc tamen quoniam placuit Bonoso Hunilam dari, dabis ei, iuxta breve infra scriptum, omnia quæ precipimus: sumptu etiam publico nuptias celebrabis. Brevis munerum fuit: tunicas palliolatas hyacinthinas subsericas: tunicam auro clavatam subsericam librilem unam, interulas dilores duas, et reliqua quæ matronæ conveniunt. Ipsi dabis aureos Philippeos centum, argenteos Antoninianos mille, aeris sestertium decies.

[248] Statuta Casalis Majoris, Milano, 1717; «Statutum est, quod Mariti de coetero non teneantur, nec debeant fecere uxoribus donationem propter nuptias, nec morgincap, nec aliquid aliud ultra promissionem dotis, quam acceperint ab Uxoribus.»

[249] Si veggano nella novella 137, di Franco Sacchetti, le beffe che vi si fanno già dello Statuto fiorentino, per ciò che spetta gli ornamenti delle donne, le quali, mutando nome alle cose, ingannavano facilmente la legge. E perchè i lettori possano formarsi un'idea delle minuzie nelle quali si perdevano i nostri Statuti, recherò loro un brano degli Statuti di Fano e alcuni brani degli Statuti di Firenze del 1415 (lib. IV. Ordinamenta circa sponsalia et nuptias). I primi dicono: «Declarantes quod nullus dare possit simil et semel uxori seu sponsæ pannum granæ sive scarlactum et pannum sirici; nec dare possit ultra duas vestes ut superius dictum est; neque possint dari d.nabus neque portari unquam valeant p. d.nas vestes aliquæ panni deaurati, nec possint portare supra dorsum vel in capite ornamenta aurea vel argentea vel de perlis; vel alicuius alterius generis in totum valoris ultra viginti ducatorum sub pœna et bamno cuilibet portanti vestes seu ornamenta contra formam p.entis statuti decem ducatorum pro qualibet veste et qualibet vice de dotibus earum applicandorum co.i Fani, etc.» E i secondi: «Nulla persona audeat, vel præsumat, nec etiam possit in forzerino, vel scatola, vel aliqua alia re alicui mulieri nuptæ, antequam viro tradatur, nec postea pro usu huiusmodi mulieris mittere, aut portare, aut mitti aut portari facere aliquas perlas, naccheras, vel lapides pretiosas in grillanda, in frenello, cordono, cordiglio, cintura vel alia re apta ad cingendam, vel in formaglio, vel in fregiatura, ricamatura, abbottonatura, aut fogliettis nec aliquo alio modo pro usu huiusmodi mulieris valoris ultra quadraginta florenos auri, sub poena, etc. Et quod nullus sponsus, quando in civitate Florentiæ vel ejus comitatu dabit anulum matrimonialem eius sponsæ seu uxori, possit eidem dare, vel mittere ultra duos anulos, qui non possint, nec valeant excedere valorem seu costum duodecim florenorum auri intra ambobus, etc.» Non meno intolleranti poi gli Statuti di Perugia (Perugia, 1526): «Quod nulla uxor cuiuscumque conditionis existat quæ ad maritum iverit possit nec debeat donare vel largiri alicui consanguineo mariti aut alteri cuicumque personæ aliquod munus vel aliquam rem consistentem in pondere numero vel mensura, nec ipsum munus aut rem possit accipere ab aliqua persona ex parte viri vel alia quacumque persona.»

[250] Al tempo di Giovanni Villani, come appare dalla sua cronaca lib. 2, c. 9, dovea già questa parola avere un altro senso: «E feciono la Legge, che ancora si chiama Longobarda; e tengono ancora e' Pugliesi, e gli altri Italiani in quelle parte, dove danno Monualdo, overo il volgare Monovaldo alle donne, quando si obbligano in alcun contratto; e fu buona e giusta legge.»

[251] Renier Michiel, Origine delle feste veneziane.

[252] Libro IX:

Ho di tre figlie nella reggia il fiore,
Crisotemi, Laodice, Ifianassa.
Qual più d'esse il talenta a sposa ei prenda
Senza dotarla, ed a Peléo la meni.
Doterolla io medesimo e di tal dote
Qual non s'ebbe giammai altra donzella.

[253] III, 2:

Nolo ego mihi te tam prospicere, qui meam egestatem leves;
Sed ut inops infamis ne sim; ne mi hanc famam differant,
Me germanam meam sororem in concubinatum tibi
Sic sine dote dedisse magis quam in matrimonium.

[254] Presso Nonio, XII: «Nubentes veteri lege Romana asses tres ad maritum venientes solere pervehere, atque unum quem in manu teneret et tamquam emendi causa marito dare, alium quem in pede haberent in foco Larum familiarum ponere, tertium quem in sacciperione condidissent compito vicinali solere resonare.»

[255] Tacito: Dotem non uxor marito, sed uxori maritus offert. E per il medio evo Germanico, il Mittermaier (Grundsätze des gemeinen deutschen Privatrechts) scrive: «Der Ausdruck: Dos kommt zwar in den alten Deutscher Rechtsquellen vor; allein er bezeichnete damals nur ein vom Ehemanne der Frau bei Eingehung der Ehe angewiesene Vermögesstück, und noch zuweilen kommt in Mittelalter in diesem sinne Dos vor.»

[256] Cfr. Chéruel, Dictionnaire historique des institutions, moeurs et coutumes de la France.

[257] Se la fanciulla è forte, ben fatta e bella, il prezzo è di 100 toman o 160 toman (4640 o 6960 franchi circa). Per una donna ordinaria il futuro sposo paga una dote di 60 od 80 toman. Se la ragazza poi ha qualche difetto fisico, assai meno. — Per chi ami tal genere di confronti, rilevo da Ricordano Malaspini (o chi per lui), quali erano le doti che nel principio del secolo decimoterzo si davano in Firenze alle fanciulle da marito: «Libbre cento era comune dote, e libbre dugento o trecento era tenuta a quel tempo grandissima dote, avvegnachè il fiorino d'oro valea soldi venti.» E dal Chronicon Placentinum del Musso, presso il Muratori, Rerum Italicarum scriptores, t. XVI, quali erano nel secolo decimoquarto le doti a Piacenza; «Magnæ dotes nunc oportet dari. Et communiter nunc dantur in dotem Floreni CCCC et Floreni D et Floreni DC auri et plus.» Le principesse portano talora in dote regni ed imperi; quindi leggiamo, per esempio, nella vita di Marco Antonino scritta da Giulio Capitolino, presso gli Scriptores Historiæ Augustæ: «Multi autem ferunt Commodum omnino ex adulterio natum; siquidem in Faustinam satis constat apud Caietam conditiones sibi et nauticas et gladiatorias elegisse; de qua cum diceretur Antonino Marco, ut repudiaret, si non occideret, dixisse fertur: «Si uxorem dimittimus, reddamus et dotem.» Dos autem quid erat, nisi imperium quod ille ab socero, volente Hadriano adoptatus, acceperat?»

[258] Trieste, 1861, II, 24.

[259] Trieste, 1861, II, 77.

[260] Lucca, 1539, lib. II, c. 25.

[261] R'igveda, X, 85.

[262] Cfr. il Codice diplomatico del regno di Carlo I e II d'Angiò edito dal Del Giudice. Napoli, 1863, vol. I, pag. 45 dell'appendice.

[263] «Lectum genialem (che è il letto matrimoniale) quem biennio ante filiæ suæ nubenti straverat, in eadem domo sibi ornari et sterni expulsa atque exturbata filia jubet, nubet genero socrus.»

[264] Traduco dal Lamarmora, Voyages en Sardaigne.

[265] Anche nella valle d'Andorno (Biellese), sono parecchie fanciulle che portano in varii cestoni il corredo della sposa alla sua nuova dimora. A Monte Crestese, nell'Ossola, una ragazza porta la conocchia; un'altra, il corredo entro una gerla. A Civita di Penne una sola donna, al finire della funzione di chiesa, si avanza col carico di cuscini, lenzuola e coperte nuziali, e accompagna gli sposi alla loro dimora.

[266] Questo arancio de' Sardi può forse rappresentare i pomi d'oro, consueto dono per le nozze eroiche, presso l'antica poesia serba e scandinava.

[267] Anche nella valle d'Andorno, fanno parte del corredo due scodelle e due cucchiai; e la nuova coppia se ne deve servire, finchè duri la luna di miele.

[268] L'uso, come di sopra vedemmo, è intieramente romano.

[269] L'asino.

[270] Così gli Statuti di Firenze del 1415, lib. IV: «Quod nulla domina possit portare vel portari facere, mittere vel mitti facere forzerinos ad domum sui mariti valoris ultra sexdecim florenorum.» Gli Statuti di Perugia (Perugia, 1526) permettono al corredo delle spose due sole vesti di gala (honorabiles). Negli Statuti di Narni (Narni, 1716, lib. III, cap. 67) si concedono soltanto «panni lanæ pro Muliere, duo lecta pannorum, unum soppedanium de ligno.» Più liberali di minuzie gli Statuti di Gallese (Gallese, 1576, lib. II), ove si comprende pure il regalo per lo suocero e per la suocera. «Vestis ricca et zona argentea pro honore sit in arbitrio contrahentium matrimonium. Una reticella serici fini ponderis quinque unciarum, alia vera reticella similis serici ponderis trium unciarum. Lectum unum lanæ seu plumæ, cum capitale ponderis, scilicet lanæ librarum triginta quinque, si plumæ librarum quinquaginta, unum par linteorum sponsalium trium telorum quolibet linteo, justæ et decentis misure; una coperta lanea nova, una capsa lignea seu duo Forzerii lignaminis, una tobalia magna, duo tuballeoli albi, duo torzaroli bombacis, quatros bendoni etiam bambacis, septem toballeoli albi ampli, quinque alii toballeoli extremi, et si sponsa invenerit in domo viri socrum afferat secum unam petiam panni tele septem brachiorum canape, seu lini, si etiam invenerit socerum quod autem sit socer solus debeat secum afferre dictam petiam tele quatuordecim brachiorum: Quatuor subiculus seu camisas foemineas sponsalitias, unum sciuccatorium p. capite et unum toballeolum p. lecto.»

[271] Atto 4.º, scena 5ª.

[272] Cintura.

[273] Un ornamento del capo.

[274] II:

Officium cras
Primo sole mihi peragendum in valle Quirini,
Quae causa officii? quid quaeris? nubit amicus,
Nec multos adhibet.

[275] Cfr. Villemarqué. Chants populaires de la Bretagne.

[276] Cfr. il racconto di Auerbach: La pipa.

[277] Mi parrebbe che in questo caso, sia il senso che meglio convenga al disputato epiteto di puer felicissimus; ecco, del rimanente, il testo medesimo di Servio: «Aqua et igni mariti uxores accipiebant. Unde et hodie faces prælucent et aqua petita de puro fonte per puerum felicissimum vel puellam quæ interest nuptiis, de qua solebant nubentibus pedes lavari.»

[278] . . . . . λάβε μου, Σκάμανδρε, τὴν παρθενίαν

[279] II, 15.

[280] Cfr. Becker. Charicles, III.

[281] Libro XIV. Cfr. gli Indische studien di Weber.

[282] Considerato come purificatore. L'acqua che le fanciulle annoveresi gettano dietro la loro compagna che si marita, mi sembra pure avere un simbolo di purificazione. Cfr. Kuhn und Schwarz, Norddeutsche Sagen, Märchen und Gebräuche. Leipzig, 1848.

[283] Cfr. Plutarco, nella Vita di Romolo.

[284] Presso la Raccolta de' canti popolari Siciliani, ordinata da Lionardo Vigo.

[285] Cfr. Camarda. Appendice al Saggio di Grammatologia comparata della lingua albanese.

[286] Presso Festo: «Regillis, tunicis albis et reticulis luteis utrisque rectis, textis susum versum a stantibus pridie nuptiarum diem virgines indutæ cubitum ibant ominis causa, ut etiam in togis virilibus dandis observari solet.»

[287] Origine delle feste veneziane.

[288] Cfr. Simrock, Handbuch der Deutschen Mythologie.

[289] A Riva di Chieri.

[290] Cfr. la cronachetta, presso i Canti Côrsi del Tommaseo.

[291] Si rammentino le reticelle color d'arancio delle spose romane, citate da Festo.

[292] Queste ultime portano sopra la cuffia un fazzoletto di Cambrì o d'altra tela fina pendente sugli omeri.

[293] Nell'India meridionale usano il tali, una specie di figuretta di divinità fecondatrice, per un nastro, color zafferano, a 108 fili finissimi, sospesa al collo delle donne maritate. Cfr. Lazzaro Papi, Lettere sulle Indie Orientali.

[294] L'üss d'bosch.

[295] Cfr. Villemarqué. Op. cit.

[296] Cfr. Camarda. Op. cit.

[297] Anche nella poesia popolare russa vedemmo già personificato lo sposo in uno sparviero; nella poesia vedica, lo sparviero porta l'ambrosia, figura del fallo che porta il seme genitale.

[298] Dopo pubblicato questo libretto uscì a Londra (Ellis e Green, 1872) un libro prezioso intitolato: The songs of the Russian people by W. R. G. Ralston, ove un lungo e interessante capitolo (pag. 262-308) è consacrato ai canti nuziali della Russia. A tale capitolo rinvio il lettore che volesse più ampie notizie sopra le nozze russe.

[299] La palma si dà alle vergini; cfr. l'uso del vescovo di Como nel capitolo del primo libro che s'intitola: Ricambio di doni nuziali.

[300] Il padre, il babbo.

[301] Cfr. Tommaseo, Canti greci.

[302] Cfr. Tommaseo, Op. Cit.

[303] Cfr. Sztachovicz, Braut-Sprüche und Braut-Lieder auf dem Heideboden in Ungern. — Anche ne' Sassoni Siebenbürgen si accompagnano gli sposi che lasciano la casa della sposa, per recarsi in chiesa, con alcuni versetti di benedizioni. Cfr. Schuster. Siebenbürgisch-sächsische Volkslieder, Sprichwörter, Rätsel, Zauberformeln und Kinder-Dichtungen, Hermannstadt, 1865. — Leggo poi in una vita di Buddha (The life or Legend of Gâudama the Buddha of the Burmese, by the rev. P. Bigandet) come, per le nozze di lui, i Pounhas abbiano pure versato acqua benedetta sopra la testa degli sposi. L'uso dell'acqua benedetta versata sul capo degli sposi è pure vedico. Cfr. Weber, Indische Studien, v.

[304] In Piemonte, suole la stessa sposa portare tanti giri di dorini (ghiandette d'oro) intorno al collo, quante sono le migliaia di lire ch'essa ha di dote.

[305] Cfr. Villemarqué, Op. cit.

[306] Cfr. Kuhn und Schwarz. Op. cit.

[307] Cfr. Domenech. Op. cit.

[308] Cfr. Martigny. Dictionnaire des antiquités chrétiennes.

[309] Libro IV.

[310] Cfr. nel primo capitolo di questo libro, l'uso delle antiche spose veneziane.

[311] Presso la Raccolta di Canti popolari Siciliani, fatta da Leonardo Vigo.

[312] Cfr. Festo, sotto la voce corolla; e Catullo, In Nuptias Juliæ et Manlii:

Cinge tempora floribus
Suaveolentis amaraci.

[313] «Jam quidem virgo tradita est, jam Corona sponsus, jam palmata consularis, jam cyclade pronuba, jam toga Senator honoratur.» — Cfr. pure i vetri del Garucci ove appare lo stesso Gesù Cristo ad incoronare gli sposi.

[314] Da un disegno presso il Lamarmora, entrambi gli sposi sardi appaiono incoronati.

[315] Uso di Sinigaglia, nelle Marche. — Dalla risposta di Nicolò I, papa, ai Bulgari, cap. III, presso il Muratori, Antiquitates italicæ, dissertatio vigesima, de actibus mulierum, rilevo come gli sposi bulgari dovessero portar corona e come gli sposi italiani fossero soliti ad assumere le due corone in chiesa «.... Post hæc autem de Ecclesia egressi Coronas in capitibus gestant, quæ semper in Ecclesia ipsa sunt solitæ reservari.» Forse dette corone erano metalliche.

[316] Nella risposta sopra citata del papa Nicolò I: «Velamen illud non suscipit, qui ad secundas nuptias migrat.»

[317] Tertulliano si lagnava già delle cristiane che non voleano velarsi, mentre le arabe si coprivano tutta la faccia: De Virg. vel. 17: «Indicabunt vos arabiæ ethnicæ, quæ non caput sed faciem quoque ita totam tegunt, ut uno oculo liberato contentæ sint dimidiam frui lucem quam totam faciem prostituere.» Che l'uso di velarsi poi presso le donne che si maritano o maritate, fosse pure indiano, lo argomentiamo da una prova negativa, presso il Lalita-Vistàra, secondo la versione che dal Tibetano ne fece il Foucaux: «Cependant Gopâ, la jeune femme de la famille de Çâkya, en présence de son beau-père, et de sa belle mère, et des gens de la maison quelqu'ils fussent, ne voilait pas son visage. Et ceux-ci se disaient, en la blâmant avec sévérité: Ne conviendrait-il pas de reprendre cette jeune femme qui n'est jamais voilée?»

[318] Flammeo amicitur nubens ominis boni causa, quod eo assidue utebatur flaminica, id est flaminis uxor, cui non licebat facere divortium. — Lo sposo indiano vela oggi egli stesso la sposa appena terminate le funzioni. — In Tessaglia, la sposa tiene il velo fino alla casa dello sposo.

[319] Cfr. Muratori. Antiquitates Italicæ, Diss. XX.

[320] In Germania, gli sposi devono stare tanto vicini, mentre il matrimonio si celebra, che nessuno possa fra loro vedere. Cfr. Kuhn und Schwarz, Op. cit.

[321] Cfr. Kalevala, 20 runo, versione di Léouzon Le Duc, Paris, 1868.

[322] L'uso è alquanto somigliante; ma ignoro di qual colore sia il tappeto che copre lo scanno e il tavolo, sopra i quali è fatta discendere in Sardegna la sposa, presso la soglia della casa maritale.

[323] Ecco il formulario:

Cfr. Chéruel, Op. cit.

[324] Lo Statutum Synodale Nicolai Episcopi Andegavensis, ann. 1277, cap. III (presso il Du Cange, Op. cit.): «Intelleximus nonnullos volentes et intendentes matrimonium ad invicem contrahere, nomine matrimonii potare, et per hoc credentes se ad invicem matrimonium contraxisse, carnaliter se commiscent. Verum cum per hoc nullum matrimonium contrahatur, et ob hoc quoniam plures jam fuerint decepti, vobis firmiter injungimus, quod frequenter et in publice Ecclesiis parochialibus vestris dicatis, quod per prædicta ejusmodi matrimonium nec sponsalia contrahantur.»

[325] Nella cena, che si fa la vigilia delle nozze, in Russia (governo di Mosca) i convitati bevono vino e dicono: è amaro. Allora i due sposi si abbracciano come a provare che l'amaro diviso diventa dolce.

[326] Cfr. Regaldi. La Dora.

[327] Cfr. Lamarmora. Op. cit.

[328] Op. cit.

[329] Symes. Op. cit.

[330] VIII, 4, 27 «hoc erat apud Macedones sanctissimum coeuntium pignus, quem divisum gladio uterque libabat.»

[331] Op. cit. «Cfr. Die sieben Schritte beim Ordale und vor Allem Kuhn's Angaben über den Siebensprung. Vestphäl. Sagen, wonach dieser Brauch bereits der indogermanischen Urzeit anzugehören scheint.»

[332] Scena ultima: il vecchio Nicolò dà in isposa al famiglio Bigio la serva Caterina:

Bigio: Io voglio tôr qui la vostra fante di cucina.

Caterina: Vedi, balordo, di' madonna Caterina.

Bigio: La signora Caterina, e copularmi come comanda la legge.

Nicolò: Fa prima un salto.

Bigio: Ecco fatto.

[333] Quindi Citranguy, nella tragedia Tamulica, sopra Saranga: «Regina, voi siete capace di legare e scuotere una montagna con un pugno di capelli; di innalzare un padiglione nuziale, senza aiuto di colonne.»

[334] Lib. IV «intrare debeant in unam ecclesiam ordinatam pro libito voluntatis et in eadem ecclesia sponsalitia huiusmodi debeant celebrari et non alibi sub poena, etc.»

[335] Modena, 1864.

[336] Sessione 24, c. I.

[337] Cfr. Manzoni, I Promessi sposi: cap. VI. «Il signor curato va cavando fuori certe ragioni senza sugo, per tirare in lungo il mio matrimonio; e io invece vorrei spicciarmi. Mi dicon di sicuro che, presentandoglisi davanti i due sposi, con due testimonii, e dicendo io: questa è mia moglie, e Lucia: questo è mio marito, il matrimonio è bell'e fatto.»

[338] Cfr. Kuhn und Schwarz. Op. cit.

[339] Lire 1, o 1 50 o 2 50.

[340] Centesimi 25.

[341] Cfr. Statuta Castri Fidardi (Castelfidardo), Maceratae, 1588, lib. quartus: «Item statuimus et ordinamus quod in sponsalitiis ipsis, vel postea quacumque ipsorum occasione, nullus audeat cereos vel cereum seu fatioletta apportare, sed pecuniam tantum solvat et offerat ad Altare; et qui contra fecerit. etc.»

[342] Cfr., nel terzo libro, i capitoli che s'intitolano: La pronuba, e Il Jus primæ Noctis.

[343] Cfr. Villemarqué. Op. cit.

[344] Cfr. Domenech. Op. cit.

[345] Cfr. Weber. Op. cit.

[346] De Rerum natura, IV:

Nec divina satum genitalem numina quoiquam
Absterrent, pater a natis ne dulcibus unquam.
Appelletur, et ut sterili Venere exigat aevom;
Quod plerumque putant, et multo sanguine moesti
Conspergunt aras, adolentque altaria donis,
Ut gravidas reddant uxores semine largo.
Nequidquam Divom numen, sorteisque fatigant.

[347] «Pervenit ad nos, quod dum quidam homines ad suscipiendam sponsam cujusdam sponsi cum Paranympho et Troctingis (specie di giocolieri che saltano) ambularent, perversi homines aquam sordidam et stercora super ipsum jactassent, etc.»

[348] Lib. III: «Si quis proiecerit lapides ad domum, vel super domum alicuius tempore quo ibi fierent nuptiæ.»

[349] Editi a Città di Castello, 1538: «Statuimus et ordinamus quod nullus audeat vel presumat projicere lapidem vel petrudinem (sic) aliquam vel facere aliquem rumorem ad domum alicuius nuptias celebrantis de die vel de nocte.»

[350] Cfr. Mutinelli. Lessico Veneto.

[351] Cfr. Miçkievic'. Canti Illirici.

[352] Tale, per esempio, è il tamburello a sonagli che usa negli Abruzzi.

[353] Cfr., di sopra il capitolo che intitolai: La parte del prete.

[354] Cfr. Weber. Op. cit.

[355] Cfr. i miei Studi sull'Epopea Indiana.

[356] In uno studio speciale sovra l'Epopea latina, pubblicato nel Libero Pensiero di Parma, nell'anno 1868, ho tentato mostrare come la vera e sola epopea latina sia nella vita di Romolo, personaggio eminentemente mitico.

[357] Ἑλληνικόν τε καὶ ἀρχαῖον ἔθος

[358] Il Carmen nuptiale ci offre un'idea di tali contrasti:

At tu ne pugna cum tali coniuge, virgo.
Non aequum est pugnare, pater quoi tradidit ipse,
Ipse pater cum matre, quibus parere necesse est.
Virginitas non tota tua est, etc.

[359] Da lettera del prof. Ferdinando Santini.

[360] Cfr. il capitolo seguente.

[361] Cfr. Sztachovicz. Op. cit.

[362] «Staccatu.»

[363] «Apparatu.»

[364] «Costui adunque (un tal di Prato) sapendo ch'un suo amico menava moglie, pensò subito, come è usanza di queste contrade, di farle un serraglio.»

[365] Dico forse inedito, perchè non vorrei che qualche eruditissimo e gentilissimo bibliofilo mi venisse tosto, se io pubblico per inedito ciò che forse non lo è più, a dare accusa di falso, come avviene tanto spesso in queste care controversie dei nostri letterati; quasi che ci fosse così gran merito a scoprire un manoscritto, quando questo manoscritto si trova inscritto a catalogo; quasi che provenga molta più gloria a chi copia da un manoscritto che a chi copia da un libro; quasi che ogni copiator di manoscritti diventasse un Angelo Mai. Io do per inedito lo scritto che segue; se non lo è, poco male; io lo ripubblico perchè nessuno lo conosce, o tanto pochi ne hanno notizia da non riuscire superflua una nuova edizione. Per dare poi il suo a chi spetta, debbo ancora soggiugnere come fu una indicazione del dotto ed ora compianto bibliotecario della Magliabecchiana cav. Canestrini, che mi pose il manoscritto fra le mani. È una inezia per la quale parrà che io spenda troppe parole; ma poichè sovra tali inezie si spacciano e si pretendono, in giornata, diplomi d'immortalità, è bene avvertire il lettore che io non vi pretendo affatto.

Considerazioni sopra l'usanze mutate nel presente secolo del 1600 cominciate a notare da me, cav. Tommaso Rinuccinj, l'anno 1665 e con pensiero d'andar seguitando fino a che Dio benedetto mi darà vita, trovandomi nell'età d'anni 69.

Nozze.

Concluso che era un Parentado, gl'interessati dell'una e dell'altra banda, ne davano conto, o in persona alli più prossimi parenti, o per mezzo d'un servitore ai più lontani; poi per il giorno stabilito a uscir fuori la fanciulla in abito di sposa s'invitavano le parenti fino in terzo grado ad accompagnarla alla messa; e nell'uscir di casa s'incontravano alla porta una mano di giovani, che facevano il serraglio, che era un rallegrarsi colla sposa de' suoi contenti, e mostrare di non volerla lasciar uscire, se non donava loro qualcosa, al che rispondeva la sposa con cortesia, e dava loro, o anello, o smaniglio, o cosa simile, et allora quello che haveva parlato (che era sempre uno de più giovani e riguardevoli della truppa) ringraziava e pigliava a servire la sposa, con darli di braccio sino alla carrozza o per tutta la strada se s'andava a piedi, come per lo più seguiva, e al ritorno a casa restavano a banchetto tutti quei parenti e parente che erano stati invitati, e quelli del serraglio restavano licenziati. L'anello si dava poi in altro giorno, nel quale si faceva una colizione grande di confettura bianca, et un festino di ballo, dove era sala capace, o pure si giuocava a Giulé, se era stagione da vegliare. Nel mettersi a tavola ai banchetti, c'era un uomo in capo alla sala che con una listra, che haveva in mano, chiamava per ordine de' gradi di parentela ciascuno; e così senza confusione andava ciascuno al suo luogo, le donne da una banda, e gli uomini dall'altra. Mentre erano a tavola al banchetto delle nozze, soleva ordinariamente comparire con mandato di quello, che haveva parlato nel serraglio, che riportava alla sposa in un bacile di fiori, o con guanti d'odori, il regalo che haveva havuto da lei, e lo sposo rimandava il bacile con 30-40, e fino in 60, e 100 scudi, secondo le facoltà, de quali se ne serviva poi quello con gli altri compagni in una cena tra loro, o in fare una mascherata, o altra festa simile.

Si dismesse poi il far il serraglio, perchè cominciarono alcuni a servirsi del denaro in uso proprio; onde questo costume non si riconosce adesso se non in Corte, che quando una delle dame della Ser.ma Gran Duchessa se ne va sposa a casa sua, i paggi del Gran Duca vi fanno il serraglio e la servono sino alla porta del palazzo, e fanno poi del denaro un banchetto tra di loro.

Si dismesse ancora ne' banchetti il chiamare i parenti nel mettersi a tavola con l'ordine del grado del parentado, onde pare ne siano nati due disordini, cioè, che non tutti gl'invitati sanno in riguardo degli altri il loro grado, e si mettono a fare insieme tante cerimonie, per voler mandare in su gli altri, che genera confusione, e disagio per chi è di già al suo posto. E l'altro, che in vece di molti parenti si invitavano degli amici, che si pongono a tavola mescolati tra quelli e qualche volta questi amici sono tanti, che escludono dall'invito molti parenti (per non esser la sala capace di tante persone) che si va perdendo quella famigliarità, che dovrebbe essere tra i parenti.

S'è anco dismesso il dar conto del parentado ai parenti in persona o per mezzo d'altri, ma s'è introdotto di farlo per polizza, scrivendosi in un quarto di foglio. N. dà conto a V. S. Ill. che ha maritata la N. sua figliola o sorella al sig. N. in via tale, e si consegnano ad un servitore o altra persona domestica di casa, che le porta dove vanno, lasciandole in casa di ciascuno. E perchè molti hanno cominciato, per meno briga, a fare stampare queste polizze, pare che si possa credere, che l'usanza s'introduce comunemente.

La funzione dell'anello s'è fatta quasi sempre in casa, se bene qualch'uno l'ha voluto, per devozione, dare in chiesa, e le spose vestivano quel giorno di bianco, e con una veste che aveva le maniche aperte fino in terra, ma poi s'è dismesso, e il colore, e la foggia, vestendosi ciascheduna sposa all'uso dell'altre donne, e di che colore più li piace.

[366] Plauto, nella Casina, IV. 3:

Age, tibicen; dum illam educunt huc novam nuptam foras,
Suavi cantu concelebra omnem hanc plateam hymenaeo.

[367] «Et se (lo sposo) menerà la ditta donna, fatta la festa delle nozze dal dì della ditta traduttione, guadagni i frutti, le rendite e l'entrate de' beni di essa donna. Et dal dì della ditta festiva e pubblica traduttione, tutti i beni della ditta donna, posti nell'inventario, si intendino e siano per autorità del presente Statuto assegnati et dati per dote allo sposo, sia, o non sia seguita la copula carnale, o che la ditta donna sia pubere, ovvero che la sia impubere.»

[368] Per esempio, nel Piemonte e nel Trentino.

[369] Histoire du Buddha Sakya Mouni traduite du tibétain par Foucaux.

[370] Sztachovicz. Op. cit.

[371] Tommaseo. Canti greci.

[372] Lib. IV: «In domo nuptiarum nocte sequenti post dictam diem nuptiarum post tertium sonum campanae, quæ pulsatur de sero alle tre, non possit danzari, sonari, carolari, vel tripudiari, et quod contra fecerit puniatur, etc.»

[373] Code du Cérémonial par Mme la comtesse de Bassanville. Paris, 1867: «La mariée se retire de bonne heure avec sa mère, en évitant d'être vue; c'est manquer de savoir-vivre, que paraître s'apercevoir qu'elle se dispose à s'en aller. Le marié quitte la soirée peu de temps après la mariée. Il choisit le moment où l'on danse pour ne pas être remarqué.»

[374] Cfr. Atharvaveda, lib. XIV, presso gli Indische studien di Weber, v.

[375] Zeitschrift für Deutsche Mythologie.

[376] Casina:

Sensim super attolle limen pedes, nova nupta.

[377] In Nuptias Juliæ et Manlii:

Transfer omine cum bono
Limen aureolos pedes
Rasilemque subi forem.

[378] De bello Pharsalico:

Turritaque premens frontem matrona corona
Translata vitat contingere limina planta.

[379] Cfr. Rossbach. Untersuchungen über die Römische Ehe, Stuttgart, 1853.

[380] Giornata terza, atto secondo, scena 18.ª.

[381] XXIV:

... E se talvolta o suora
O fratello o cognata, o la medesma
Veneranda tua madre (chè benigno
A me fu Priamo ognor) mi rampognava,
Tu mansueto, con dolce ripiglio,
Gli ammonendo, placavi ogni corruccio.

[382] Cfr. Foucaux. Histoire du Bouddha Sakya Mouni.

[383] La Dora.

[384] Un tinello di quagliata; cfr. Tommaseo, Canti Côrsi.

[385] Cfr. Mittermaier, Grundsätze des gemeinen deutschen Privatrechts. Cfr. la formola tedesca nel XIII capitolo del primo libro di quest'opera.

[386] Sant'Ambrogio, Epistola 47 a Syagrio: «Quo mulier offensa, claves remisit, domum revertit.»

[387] Ed. Henschel, 1840-50.

[388] Cfr. Kuhn und Schwarz, Op. cit.

[389] Abbastanza singolare è l'uso nei conviti nuziali della colonia tedesca di Val Formazza nell'Ossola, e poichè il libro onde lo rilevo ci offre un intiero capitoletto interessante relativo a quegli usi nuziali, lo riferisco qui nella sua integrità. Il libro porta questo titolo: Peregrinazioni d'uno zingaro per laghi ed alpi, di Valentino Carrera (Torino, 1861), ed alle carte 249, 250, 251, 252 leggiamo il capitoletto seguente: «Stamane per tempissimo che appena la cuspide dello Sternehorn s'indorava ai primi raggi del sole, ed ancora soffiava nella valle la notturna brezza, uscito dalla capanna per godere il sempre nuovo spettacolo dell'aurora e bagnarmi in quella frescura, ecco a capo del ponte di Wald un drappello di questi buoni montanari che recano a battesimo un neonato. Il padrino, coperta la testa d'un cappello di feltro tutto ornato di lunghi nastri svolazzanti e la persona d'un lungo mantello — qualunque sia la stagione — porta al tempio il pargoletto per esservi battezzato, tenendolo nascosto sotto le falde del pallio: sicchè il Formazzese al primo uscire alla libera luce dei campi non ha le molli donnesche carezze, ma cammina sotto quei ruvidi panni ad educarsi ad una vita tutta laboriosa e parca.

E di tanto mi fu cortese la sorte che mentre io me ne sto quassù badaluccando s'ammogliasse il gallo della checca del villaggio di Zumsteg.

Tutti gli amici ed i vicini sono concordi a festeggiarne le nozze con incondite canzoni, con moltissimi spari d'archibugio e di pistola, onde tutti gli spechi montani e valloncelli attorno ne echeggiano lungamente. Al partire della sposa dal natìo casale nessuno compare a far evviva: un canto, un colpo di carabina sarebbe un insulto. Così gli sposi s'avviano coi pochi più stretti di sangue al tempio. Appena usciti, ecco loro incontro una frotta di giovani stranamente mascherati che li saluta con fragoroso tuonare delle armi. Uno di questi, coperto d'una sottile maglia le vive carni, malgrado la brezza quasi invernale del mattino, precede gli altri e dalle penne, ond'ha ornato il capo, appare quale caraibo. Egli tiene spiegata nella destra una piccola bandiera bianca orlata di fettuccie rosse, quasi simbolo di pace e d'amore. A parte le antitesi dell'abito colla temperatura, il nostro giovinotto fa bella mostra di tarchiate membra e di sporgente petto, quale scolpiva Spartaco il Vela. Questo altro che inchina sul bastone la gibbosa persona, ti rappresenta al vivo un vecchierello di cent'anni fa, coll'abito rosso, le scarpe fibbiate, cappello a tre punte e lo sparato della camicia trinato, tutto splendente di cento bottoni che non hanno pari se non lo scudo d'Achille.

Questi dalla persona sottile, dritta ed alta come un pino, si è travestito da donna con non poca ingiuria al bel sesso.

Alto là! Ecco una cricca di furfantelli ha sbarrato la strada: gli sposi non oltrepasseranno la barriera se non distribuiscono ad ognuno un fazzoletto. Durante il cammino gli amici continuano allegramente ad assordare collo sparo delle armi i poveri sposi gongolanti per tanta festa. Al giungere al casolare dello sposo la strada è nuovamente barricata con una tavola imbandita di ciotole e di boccali: nuovi evviva: nuove libazioni, nuovo fragore.

Pagato anche qui il dazio e sgombrato il passo, essi si recano all'abituro dello sposo, ove nella stufa li attende un desco tutto carico di caci, di carni salate. La sposa s'assiede a capo del tavolo, mentre lo sposo fa da coppiere: mesce ad ogni istante ai convitati, pago dei loro evviva; in quel giorno la sua casa è di tutti, chiunque ha diritto di cioncare a sua posta quando ha fatti voti per la felicità della sposa.

Accade qualche volta, mi si disse da un burlone, che sopravvenuta la notte, lo sposo è ancora a digiuno, poichè nessuno ha pensato a lui ed egli solo ebbe a pensare a tutti.»

[390] «Hanno fatto tante nozze e tanta allegria; ed io ero dietro l'uscio; non mi hanno neanche dato una fetta di pera (peruzzo).»

[391] Perugino.

[392] Sardegna.

[393] Sicilia.

[394] Tal nome si dà ad una specie di pasticcietti abruzzesi, intrisi nel mosto.

[395] Trentino.

[396] Grecia antica. Cfr. Becker. Charikles, III.

[397] Cfr. Musso. Chronicon Placentinum, presso il Muratori, R. It. Ser. XVI: «Secunda die in nuptiis dant primo longetos de pasta cum caxeo et croco et zibibo et speciebus. Et post, carnes vituli assatas; et post, lotis manibus, antequam tabulae leventur, dant bibere et confectum zuchari et post dant bibere.»

[398] Antico uso fiorentino; cfr. gli Statuti di Firenze del 1415, lib. IV.

[399] Sparge, marite, nuces; jam deserit Hesperus Oetam

[400] In Nuptias Juliæ et Manlii:

Neu nuces pueris neget
Desertum domini audiens
Concubinus amorem.

Da nuces pueris, iners
Concubine. Satis diu
Lusisti nucibus. Lubet
Jam servire Thalassio.
Concubine, nuces da.

Sordebant tibi villuli,
Concubine, hodie atque heri
Nunc tuum cinerarius
Tondet os. Miser, ah miser
Concubine, nuces da.

[401] Pane e noci, Vita da sposi.

[402] Cfr. Caballero. Cuentos y poesias populares andaluces, nel cuento che s'intitola: La suegra del diablo. «Siendo para Panfila el pelar la pava una perspectiva mas halagüeña que la caldera de la lejía, dejò que se degañotase su madre, y acudió à la reja.»

[403] Lo riferisco in nota per la sua stranezza:

Che bel piasì ch' l'è p'r mi
Esse si tant bin vestì.
Im ved propi a sté bin
In grassia d'l spus Giuvanin.
S'era bütame a t'rmolé,
Quand la cüsinera l'è vnüme a ciapé;
Ma, avend sentì che, p'r mia mercede,
Am fasìu vnì a pusséde
Tüta la bela cumpagnia
D' sta spusiña tant'alegra e ardìa,
Sübit sunt vultame in alegrìa.
Oh! am pias pi esse an mes a ste spusiñe
Ch'andè tüt 'l dì cun cule galiñe.
An sissì i god üna perfeta tranquilità
Suvra sta taula tan bin parià.
Pitu l'é 'l me nom e sun ün nubilass,
L'ai mai fait nen autr che mangié e andé a spass.
Oh! l'ai propi sempre mangià e beivü alegrament
A vnì fin adess che vöi fé me testament.
Mi vöi pa fé cum a fan certi fasöi
Ch'as fan d'tuiru fin an s'y öi,
Pöi a fan nen testament p'r nen discürbì i so anbröi.
'L fatt me l'è franc e liber; d'nans e drè l'é tüt me.
A j'é pa ün ch'a pössa ciameme i me dui dné.
Andé dunque dal nudar; i vöi agiüsté bin i me afé,
P'r ch'ai sia pöi nen da litighé.
Sì a j'é i testimoni ch'a sun Simon Gervas e Peru
Carlin Bastian Giüspin e Toni 'l gneru.
Chiel, sur nudar, ch'a scriva vuluntré; che lu vöi cuntenté
P'r l'ultima scritüra che i l'ai da fé.
Lass i me oss a ün can bel gross.
La mia carn la lass a la cüsiniera e quand a sìa bin agiüstà,
A smijrà bin buña à tüta quanta la taulà.
Tüta la mia piüma pi fiña
Ch'a serva a fé la pajas'tta p'r büté ant cula cün'tta.
E arivand la necessità,
A sarà pöi già parià.
Oh! adess a j'é 'ncura 'l nudar,
Vöi pa passé da avar.
I lass dal bech an sü e dal pnass an giù:
E se a n'a pa pru, ch'as grata 'l cü.

[404]

Missa haec face,
Hymenaeum, turbam, lampadas, tibicinas.

[405] «O voi, padre della sposa, vi presenteremo la penna d'oca; ora che avete maritata la figlia conviene pagarle la dote. O voi, padre dello sposo, vi presenteremo il fior di ortica, affinchè non la teniate nè peggio nè meglio che se fosse vostra figlia. O voi, signora sposa, che siete sì ben vestita, ci sembrate il nostro mandorlo quand'esso è sì bene fiorito. O voi, signore sposo, che siete sì bene vestito, voi sembrate il nostro pesco quando è sì bene fiorito. O voi, signora sposa, vi presenteremo il ramo, e se l'uomo non è bello sarà tanto più gentile. O voi, signore sposo, vi daremo da intendere che abbiamo portati questi fiori, perchè ce li facciate vendere.»

[406] «Voi, signora sposa, vi presenteremo una ghianda bucata; quando l'uomo venga per battervi, pigliate la valle de' prati. S'ella si trova lesta, si butta giù dalla finestra; se si trova snella, essa piglia la valle dei prati.»

[407] Dintorni di Fenestrelle.

[408] In Nuptias Juliae et Manlii.

[409] Gli Statuti di Modena, pubblicati e illustrati dal Campori, prescrivevano che sole 12 persone, oltre la famiglia, potessero intervenire al banchetto nuziale; e lo stesso Campori cita il banchetto di un Rossi con una Sanvitale, al quale presero parte 1214 uomini, 386 donne e 300 servi; egli è vero che si trattava in questo caso di nobili, i quali si mettevano quasi sempre sopra la legge.

[410] Cfr. De Habitu Virginum, opera, 1726, p. 179: «Quasdam virgines non pudet nubentibus interesse, et in illa lascivientium libertate sermonum colloquia incesta miscere, audire quod non licet dicere, observare et esse præsentes inter verba turpia et temulenta convivia, quibus libidinum fomes accenditur, sponsa ad patientiam stupri, ad audaciam sponsus animatur.»

Varrone, presso Nonio Marcellino: «Pueri obscoenis novae nuptulae aures restaurant.»

Nè si risparmiavano le pronube; quindi San Gerolamo, nell'Epistola a Geronzia: «Responde mihi, carissima in Christo filia. Inter ista nuptura es? Quem acceptura virum? Cedo? fugitivum; an pugnaturum? Quid utrumque sequatur intelligis, et Fescennino carmine terribilis tibi rauco sonitu buccina concrepabit, ut quas habeas pronubas, habeas forte lugentes.»

[411] De Civitate Dei, lib. 6, cap. IX: «Cum mas et fœmina conjungantur, adhibetur deus Jugatinus. Sit hoc ferendum. Sed domum est ducenda quæ nubit; adhibetur deus Domiducus; ut in domo sit, adhibetur deus Domitius; ut maneat cum viro, additur dea Manturna. Impletur cubiculum turba numinum, quando et paranymphi inde discedunt. Adest dea Virginensis et deus pater Subigus et dea mater Prema et dea Pertunda et Venus et Priapus. Virginensis quidem ad hoc ut virgini zona solvatur; Subigus ut viro subigatur; Prema, ut subacta, ne se commoveat, comprimatur.»

[412] Cfr. Nieuport, De ritibus Romanorum.

[413] Veggasi quanto abbiamo scritto, in proposito, nel capitolo dei pronostici.

[414] Cfr. Hotman, De veteri ritu nuptiarum: «rapi solebat fax nuptialis, qua prælucente nova nupta deducta fuerat ab utrisque amicis, ut ait Festus, ne aut uxor sub lecto viri, aut vir in sepulchro comburendam curaret, quo utraque mors propinqua alterius captari putabatur.»

[415] Cfr. il cap. IV del secondo libro.

[416] Antiquitates Italicæ, diss. XX. De actibus mulierum. Gli sposi «a sacerdote monebantur, ut ob reverentiam Sacramenti eo die et sequenti nocte a commercio carnali abstinerent. Imo erant, qui per biduum et triduum subsequens observandam indicerent continentiam.»

[417] Cfr. Becker, Op. cit.

[418] Cfr. Hotman. Op. cit. — Macrobio, lib. I, c. 15: «Primus nuptiarum dies verecundiæ datur.» — Ricordo poi ancora l'ordine che dà Romolo, presso Dionigi d'Alicarnasso, II, ai giovani romani che rapiscono le Sabine di serbarle caste per una notte, quindi menarle: «καὶ φυλάττειν ἁγνὰς ἐκείνην τὴν νύκτα.»

[419] In Allgäun e Bettringen; Cfr. Weber. Op. cit.

[420] Cfr. Ubicini. La Turquie actuelle.

[421] Cfr. novella 154 «.... essendo le nozze di Genova di quest'usanza ch'elle durano quattro dì e sempre si balla e canta, mai non si proffera nè vino, nè confetti, perocchè dicono che profferendo il vino, e' confetti, è uno accomiatare altrui; e l'ultimo dì la sposa giace col marito e non prima.»

[422] Cfr. Kuhn und Schwarz. Op. cit.

[423] Cfr. Simbrock. Op. cit.

[424] Saturn. I. 16.

[425] Cfr. un contratto di matrimonio del 1462, presso il Du Cange. Op. cit. «Convenerunt ulterius dicti domini de Altoforti et de Ulmo, patres dictorum sponsi et sponsæ futurorum, facere sollempnisari dictum matrimonium de dictis sponso et sponsa in primo sponsalio, post festum nativitatis Domini proxime venturum.»

[426] Cfr. Ovidio. Fast. V:

Si te proverbia tangunt,
Mense malas Maio nubere vulgus ait.

[427] Op. cit., ultima edizione, sotto la voce Burghenglish: «Burghenglish, Rastallo vetus est Consuetudo in Burgo veteri, in quo, si pater relictis pluribus filiis decedat, secundogenitus ei solummodo succedit in terris et tenementis, quibus saisitus erat in burgo, cum decessit, vi istius consuetudinis; quam etiam locum habuisse in familia Hœstratam auctor est Ludovicus Guicciardinus in Descr. Belgii. Ea autem Lex obtinet in Comitatu et urbe Nottinghamensi, ut habet Christoforus de S. Germano in Dialogo de Legibus Angliæ cap. VI: Natu Minimus domicilium principale habebit, in Leg. Hoeli Boni ed. Wotton, pag. 346 Quem usum in pluribus locis viguisse testantur Mittermaier, princip. Jur. Germanici.

[428] Cfr. la mia Storia dei viaggiatori Italiani nelle Indie orientali. Livorno, 1874.

[429] Cfr. l'inno 85.º del 10.º libro del R'igveda.

[430] Cfr. ib. e il lib. 14.º dell'Atharvaveda, presso gli Indische Studien di Weber, V.

[431] Cfr. Chéruel. Op. cit.

[432] Op. cit. — «Sciendum est (così nelle Leges Scoticæ, lib. IV, cap. 31) quod secundum asisam terræ, quæcumque mulier fuerit, sive nobilis, sive serva, sive mercenaria, Marcheta sua erit una juvenca, vet 3 solidi, et rectum servientis 3 denarii. Et si filia liberi sit, et non domini villæ, Marcheta sua erti una vacca, vel 6 solidi; et rectum servientis 6 denarii. Item Marcheta filiæ Thani vel Ogetharii, 2 vaccae vel 12 solidi.... Item Marcheta filiæ Comitis, est Reginae, 12 vaccae.» In quem locum sic Skeneus (l'editore delle Leges Scoticae): «March equum significat prisca Scotorum lingua. Hinc deducta metaphora ab equitando, Marcheta mulieris, dicitur virginalis pudicitiæ prima violatio et delibatio, quæ ab Eveno rege, dominis capitalibus fuit impie permissa, de omnibus novis nuptis, prima nuptiarum nocte. Sed et pie a Malcolmo III sublata fuit, et in hoc capite certo vaccarum numero et quasi pretio redimitur.» — «Nemo (così le Leges Hoeli Boni Regis Valliae cap. 21) feminam det viro, antequam de mercede domino reddenda fidejussorem accipiat. Puella dicitur esse desertum Regis et ob hoc Regis est de ea amachyr (pretium virginitatis) habere» — «Scribit præterea vir doctissimus Daniel Pabebrochius ad Vitam S. Foranni Abbatis Walciodorosensis, eam præstationem pro redemptione primæ noctis nuptiarum a servis glebae exigi etiamnum a praediorum dominis in Belgii, Frisiae ac Germaniae aliquot tractibus: ad quam etiam consuetudinem referendum illud videtur, quod olim Ambianensis Episcopus in suos dioecesanos jus sibi competere asserebat, videlicet ut iis qui noviter nuptias inierant, tribus prioribus noctibus post earum celebrationem una non liceret, nisi certa pecuniæ summa ei persoluta; quod quidem (prohibitum Litter. Philippi VI anni 1336 et Caroli VI anni 1338) tandem penitus abrogatum fuit Abbavillensium petitione Aresto Parlamenti Parisiensi 19 Martii anno 1409; nisi forte id juris sibi arrogarit Episcopus, quod Concilio Carthaginiensi IV, can. 13 «sponsus et sponsa, cum benedictionem acceperint eadem nocte pro reverentia ipsius benedictionis in virginitate permanere» jubeantur — Oblinuit et in Galliis nostris pessima Marchetae consuetudo sub nomine Cullage vel Culliage, ut in hac voce observat D. De Lauriére in Gloss. juris Gallici ex Instrum. ann. 1507 cap. de Reditu Baroniæ S. Martini le Gaillard: «Item a le dit seigneur (le comte d'Eu) audit lieu de Saint Martin droit de Cullage quand on se marie.» Singulare autem factum hoc de re refert Boerius Decis. 297 num. 17: «Ego vidi in curia Bituricensi coram Metropolitano processum appellationis in quo rector seu curatus parochialis prætendebat ex consuetudine primam habere carnalem sponsae cognitionem, quae consuetudo fuit annullata, et in emendam condemnatus. Et pariter dici audivi, et pro certo teneri, nonnullos Vasconiæ dominos habere facultatem prima nocte nuptiarum suorum subditorum ponendi unam tibiam nudam ad tatus neogamae cubantis, ant componendi cum ipsis.» Eamdem hanc consuetudinem extitisse apud Pedemontanos, quam Cazzagio vocabant, testis est Historia Sabaudiæ. — Huius moris appendix est quod legitur in Pacto ann. 1318 inter. Joan. de Berbigny dom. de Dercy et habitatores ejusdem villæ ex Reg. 59 Chartoph. reg. 150: «Se aucuns de mourans en ladite ville de Dercy, il devoit et estoit tenut à amener sa famme de au giste en la devant dite ville de Dercy, la nuit que il s'esposoit, et se famme de Dercy se marioit à aucun de dehors, elle devoit et estoit tenue à gesir a Dercy la nuit qu'elle esposoit.» Mi sembra finalmente un resto del jus primæ noctis il tributo di una moneta d'oro che presso il Chronicon Poloniæ di Boguphalus, il tedesco, figlio del re, reclama da Walther, il robusto, che porta via Ildegonda (Heldegund) e da quanti altri passeranno con una vergine.

[433] Cfr. Bandello, p. terza, nov. 54.ª

[434] Trento, 1856; il documento, a proposito de' diritti abusivi assunti dal tiranno Gundebaldo e suoi antecessori, si esprime così: «Item quod hangarias et honera ab ipso Patre et Avo suis sibi factis in totum tollantur et cassentur uti sunt... et fruictiones primæ noctis de sponsabus.»

[435] Passeggiate nel Canavese.

[436] Così, per esempio, è noto che Federico Barbarossa distrusse Chieri; il popolo chierese, memore di quel terribile avvenimento, dice che il nome della città proviene dall'avere il Barbarossa, dopo averla distrutta, esclamato: non sei più chi eri. — La tradizione, conforme alla storia, fa discendere Annibale dal Cenisio, per Val di Susa, Giaveno, Avigliana. A Giaveno il rozzo popolo ritiene che Annibale passando di là abbia detto in latino jam veni, onde sia venuto il nome della città. Tali etimologie provano al tempo stesso la ignoranza del popolo e la tenacità della sua memoria tradizionale.

[437] «Posuerunt, ut vidi, bigliam unam in foramine culi per vim Joanninae De Rege, et ipsam per vim nudam ire et deambulare faciebant per locum Vischarum ponendo ignem in vulvam ipsius.» I popolani di Vische alla loro volta «illustrem Dominum Jacobum nihilomine suspicantem, dum venaretur armata manu circonvenerunt et multis illatis vulneribus misere occidunt et quod inauditum est et calamum a scribendo estrahit ob atrocitatem rei, membrum ejus virile abscindunt et in os inserunt.»

[438] Il solo che, a mia notizia, abbia discorso un po' lungamente del tusinaggio è il Durandi (Della Marca d'Ivrea. Torino, 1804, p. 118, 119); ma non ha di certo risoluta la questione, che meriterebbe, ci sembra, di fermare l'attenzione speciale di alcuno tra i più sapienti investigatori delle nostre storie. Ecco in quali termini il Durandi si esprime: «Alla relazione de Bello Canepiciano, che Pietro Azario finì di scrivere nel gennaio del 1363, si potrebbero aggiugnere altri accidenti occorsi di poi, se stesse bene continuar la storia degli orsi e delle tigri. Ma le popolazioni del Canavese, stanche di soffrire, fecero alla fine ciò che pur sogliono far i popoli stracchi e angarieggiati da troppe gravezze: ruppero ogni freno e si concertarono insieme per resistere ai loro signorotti e spegnerli. Dinominarono tusinaggio cotesta loro unione o lega e tusino o tuchino ciascun de' collegati. Intendeano d'indicar con siffatto nome una sola volontà in tutti di scuotere il giogo e vendicarsi. Assai uccisioni vi seguirono, e mali gravissimi. Il conte di Savoia s'interpose più volte tra il popolo e que' nobili e con la generosa sua moderazione gli riuscì di metterli di accordo, massimamente nel 1385. Ma coloro poi ritornavano ad affliggere il popolo e nei primi anni del secolo decimoquinto, e n'era freschissima la memoria di quello, allorchè in un contratto di affrancamento a pro de' terrazzani d'Agliè de' 20 giugno 1423 si scrivea che «Tempora dicti tusinaggii omnes homines Canapitii erant multum dominis rebelles, et dominos suos tradiderant oblivioni, nec in servitiis eorum dominorum ambulabant, sed potius in destructionem personarum et bonorum.» «Da più altri documenti di quella età ho pur raccolto che il mentovato tusinaggio veniva a dire una cospirazione di tutti i popolani contro de' feudatari dirizzata a liberarsi da mille gravezze e molestie, e a distrugger quelli ed usurparne i beni, per rifarsi de' mali insino allora patiti. Ma non è chiaro donde cotal nome derivi...»

[439] Op. Cit., V.

[440] Les parents et les proszci ayant achevé le contrat, on convient du jour où l'époux devra envoyer le cortége nuptial pour recevoir la prétendue. Dans cet intervalle le fiancé fait choix de deux parents ou de deux amis, chargés de servir de parrains à sa future; ce sont les djevers ou paranymphes de l'ancienne Grèce. Il invite également tous les jeunes gens de sa connaissance qui devront figurer dans le cortége destiné à aller prendre la fiancée; ce sont les svati. Dès l'aube du jour arrêté pour les épousailles, et même dès la veille, si la rèsidence de la jeune fille est éloignée, la joyeuse compagnie des djevers et des svati, formée tout entière de cavaliers, quand on le peut, et emmenant avec elle une monture destinée à la jeune épouse, après avoir bu le coup de l'étrier, quitte la maison du futur, et, précédés d'un porte-étendard ou bariaktar, chantant, caracolant, tirant des coups de fusil, se porte à la rencontre d'un cortége semblable envoyé par les parents de la fille. Au moment où les deux troupes sont en vue l'une de l'autre, les deux bariaktari, se portant en avant, simulent un combat de quelques instants, puis, mettant pied à terre, dansent, s'embrassent et déchargent leurs pistolets. Tous arrivent enfin devant la maison de l'épousée, sur le seuil de laquelle ils trouvent, prêts à les recevoir, les parents de la fille, à l'exception toutefois du père et de la mère. Les djevers se présentant alors réclament la mère, l'informent de leur mission, et demandent qu'il leur soit permis d'emmener la promise. La mère doit s'opposer à leur dessein, pleurer à la rigueur, jusqu'à ce que, calmée par les présents qui lui sont offerts, elle accorde un dernier consentement. Le cortége des svati pénètre alors dans la maison où se trouve ouvert un coffre, don du fiancé, et géneralement acheté au bazar de Rieka ou à Scutari. Ce grand bahut, peint en couleurs voyantes, est destiné a recevoir les cadeaux que chacun se fait un devoir d'apporter, et consistant en toute espèce d'objets de toilette ou même d'ustensiles de cuisine, destinés à constituer à la fois et le trousseau et le ménage de la jeune épouse. Pendant ce temps la mère et les amies de la jeune fille ont emmené celle-ci, et s'occupent à la revetir des atours qui ont été préparés, depuis la chemise de fine soie de Scutari, aux larges manches brodées, jusq'à la yaketa de velours surchargée d'or. Au frère de la mariée incombe le devoir de faire tomber de sa tête la kapa, emblème de verginité, qui couvrait son front de jeune fille, et qui le voile sévère dè l'épouse va désormais remplacer. Cependant la table est ouverte aux svati; les handjars entament à grands coups les moutons rôtis; le vin, le café et l'eau-de-vie circulent; et tandis que devant la porte de la maison retentissent, dans un cercle de danseur, les cris et les arquebusades, de joyeux brindisi saluent la mariée prête au départ.... Escortée à droite et à gauche par ses djevers et suivie par les bruyant svati, la nouvelle épouse gagne enfin la maison où elle va commencer une nouvelle vie. Sur le seuil de celle-ci elle aperçoit la starictchina qui vient à sa rencontre, portant dans ses bras un jeune enfant qu'il offre à ses caresses (conformemente al rito vedico, ed anche al brettone); cérémonie emblématique et présage heureux des devoirs maternels qu'elle aura bientôt à remplir. Au tour de sa belle mère de lui offrir ensuite une pomme qu'elle doit, autant que possible, jeter pardessus le faîte de la maison; si elle n'y réussit pas, c'est de moins bon augure. Le cortége tout entier a envahi la maison des époux, le festin des svati commence, tandis que les djevers vont sans façons s'asseoir sur le lit nuptial où le mari vient leur offrir les mets et les libations. A leur tour de s'occuper de la jeune femme, et de faire pour elle tous les frais de galanterie auxquels le mari, en qualité de maître, ne saurait condescendre sortout sous des yeux étrangers. Le soir venu, les parrains accompagnent encore la jeune femme dans la chambre nuptiale où l'époux se rend à son tour, après avoir reçu la bènédiction du chef de la famille. Les djevers rejoignent enfin la compagnie joyeuse, qui, rassemblée autour du foyer, en disperse les tisons et les cendres jusqu'à ce qu'on lui ait servi l'eau-de-vie et les figues sèches.» Frilley et Wlahovitj. Le Montenegro contemporain; Paris, Plon, 237 e seg.

[441] Cfr. Sant'Agostino. De Civitate Dei, VII: «Sed quid hic dicam? cum ibi sit et Priapus nimis masculus; super cujus immanissimum fascinum sedere nova nupta jubebatur, more honestissimo ac religiosissimo matronarum».

[442] Presso Plutarco.

[443] Cfr. Caballero, op. cit., cuento della Suegra del diablo: «Cuando los novios se iban a retirar a la camara nupcial, llamò la tia Holofernes a su hija y la dijo: Cuando estàn Vds. recogidos en su aposento, cierra bien todas las puertas y ventanas; tapa todas las rendijas, y no dejes sin tapar sino unicamente el agujero de la llave. — Toma en seguida una rama de olivo bendito, y ponte a pegar con ella a tu marido hasta que yo te avise; esta cerimonia es de cajon en todas las bodas y significa que en la alcoba manda la mujer».

[444] Traduco così l'epitalamio di Gallieno, presso Trebellio Pollione, tra gli Scriptores historiæ Augustæ: «Fuit autem Gallienus (quod negari non potest) oratione, poemate atque omnibus artibus clarus. Huius est illud epithalamium, quod inter centum poetas precipuum fuit. Nam quum fratrum suorum filios coniugaret, et omnes poetæ græci latinique epithalamia dixissent, idque per dies plurimos, quum ille manus sponsorum teneret, ut quidam dicunt, sæpius ita dixisse fertur:

Ite, ait, o pueri, pariter sudate medullis
Omnibus inter vos: non murmura vestra columbae,
Brachia non hederae non vincant oscula conchae.

Anche alle noci che lo sposo distribuiva ai fanciulli, Servio attribuisce lo stesso scopo che aveva l'epitalamio: «Vulgare est ideo spargi nuces, ut rapientibus pueris fiat strepitus, ne Puellae vox virginitatem deponentis possit audiri».

[445] Gli eleganti Fescennini di Claudiano, per le nozze di Onorio imperatore con Maria, possono essere un saggio dell'arditissimo genere di poesia:

Et labris animam conciliantibus,
Alternum rapiat somnus anhelitum.
Amplexu caleat purpura regio;
Et vestes Tyrio sanguine fulgidas
Alter virgineus nobilitet cruor.
Tum victor madido prosilias toro,
Nocturni referens vulnera praelii.
Ducant pervigiles carmina tibiae,
Permissisque iocis turba licentior
Exultet, tetricis libera legibus.
Passim cum ducibus ludite, milites;
Passim cum pueris ludite, virgines.

[446] Meritano, in proposito, di venire ricordati due proverbii tedeschi ed uno francese. I primi dicono: «Ist das Bett beschritten, so ist das Recht erstritten:» e «Wenn die Decke über dem Kopf ist, so sind die Ehegatten gleich reich»; e nei Coutumes francesi: «au coucher gagne la femme son douaire».

[447] Cfr. Mittermaier, Op. cit.

[448] Cfr. Edicta Regum Longobardorum, ed. Baudi di Vesme, e particolarmente l'editto di Luitprando, art. 7.º «Si quis Longobardus morgincap conjugi suæ dare voluerit quando eam sibi in coniugio sociaverit, ita decernimus, ut alia die ante parentes et amicos suos ostendat per scriptum a testibus rovoratun, et dicat, quia Ecce quod conjugi meæ morgincap dedi, ut in futuro pro hac causa perjurio non percurrat. Ipsum autem morgincap nolumus ut amplius sit, nisi quarta pars de ejus substantia qui ipsum morgincap fecit».

[449] Ont. It., De actibus mulierum.

[450] L'uso invece delle nocciuole nella valle d'Andorno, citato al sesto capitolo del primo libro, sembra invece contenere un opposto significato. Cfr. pure una nota del nono capitolo nel primo libro.

[451] Tolt sü el drapún, ossia preso il sacco vuoto, o sia che fu messo nel sacco.

[452] Cfr. L'uso abruzzese del chiedere la sposa, per mezzo d'un ceppo. A Ceppo di Natale, come ho già avvertito, incominciano generalmente tra noi a fervere gli amori che conducono a nozze; ma cavare un ceppo può forse avere un altro senso, cioè fare una fatica inutile, una grande fatica non compensata da un effetto corrispondente.

[453] Cfr. Hotmann, Op. cit. «Quod, si a pactione sponsus et sponsa discederent, repudiumque fierit, multabatur is qui causam praebuerat; si sponsa, arrhas in duplum reddere debebat; si sponsus, non repetebat.... Quod si neuter præbuisset causam dissolvendorum sponsaliorum, cessabat huiusmodi poena».

[454] Cfr. Sanctionum ac provisionum inclitæ civitatis studiorumque matris Bononiæ, t. II, Bononiæ 1569 «statuimus et ordinamus quod aliquis vel aliqui dictorum patrum, fratrum, patruorum et aliorum auctoritatem seu curam vel gubernationem habentium domicellaram postquam in sponsas promiserint, seu destinaverint, non audeant vel præsumant ipsas alicui alteri in sponsas promittere vel destinare vel in matrimonio collocare, sub pœna cuilibet prædictorum contrafacienti ducentarum librarum Bon. in quam ipso iure et facto incurrant».

[455] Cfr. Kuhn n. Schwarz, Op. cit.

[456] Chéruel, Op. cit.

[457] Cfr. Du Cange, Op. ed. cit., s. v. Asinus.

[458] Per relazione del prof. Cr. Baggiolini. — E, a motivo della sua singolarità, riferirò pure l'aneddoto di un marito piemontese che la moglie avea battuto in pubblico. «Nel 1858, alla Chiusa di Cuneo, certo M., per soprannome B., panattiere, si lasciò pubblicamente schiaffeggiare dalla moglie. I comuni di Chiusa, Peveragno, Beinette e Boves danno ricetto ad una società di cenciosi, per appartenere alla quale, ognuno deve provare di non avere alcuna camicia, che il cappello sia bucato in quattro punti almeno, i calzoni e l'abito a più repezzi di colori diversi, e che siano privi del necessario per campare. Questa società, che ha i suoi statuti e un proprio capo addimandato il re e residente a Boves, capitando qualche caso di cui facciano cenno i suoi statuti, e quello sopra descritto ne è uno, si raduna tutta nel paese dove il caso avvenne. Nel 1858, si portarono essi pertanto alla Chiusa, in numero di circa quattrocento, sulla piazza del Pallone, e vi si accamparono e attendarono colle loro marmitte. Allora il re, dopo averli arringati, li invitò a fare il debito loro, chiudere cioè, prima la bottega del M., apporvi i sigilli ed innalzarvi davanti come una barricata di letame. Messe poi le guardie, perchè non fosse distrutta l'opera loro, gli altri si facevano regalare dagli abitanti il vitto, promettendo restituzione. Ma questa non venne mai, ed il M., dopo otto giorni d'inferno, non aiutato punto dalla polizia, che, per rispetto alle consuetudini, lascia fare, dovette discendere a patti col re, sborsargli una grossa somma di denaro, e consegnargli molti ettolitri di grano e di vino, senza del che non avrebbe potuto liberarsi». Per relazione di mio fratello Luigi, ispettore delle tasse, in quegli anni, esattore alla Chiusa.

[459] Cfr. Mittermaier, Op. cit.

[460] Cfr. Chéruel, Op. cit. Vi si cita pure il caso di Carlo V, che prese parte ad uno di tali baccani nel 1392, e per la pece che aveva addosso, corse rischio di bruciar vivo. Del charivari o chiarivarium, chalvaricum francese così parlavano (presso il Du Cange, Op. cit.), gli Statuti Sinodali della Chiesa d'Avignone nel 1337: «Cum sponsæ ad eorum traducuntur hospitia de ipsorum domibus bona more prædonum rapiunt violenter, pro quibus pecuniarias ab invitis redentiones extorquent, quas expendunt in scurrilitatibus et comessationibus inhonestis, quæ Malprosiech damnabiliter appellant.... faciunt ludos obnoxios, quos ut eorum verbis contra honestatis labia utamur in placitis nominant Chalvaricum». «Qui dum contingit viros aut mulieres ad seconda vota pertransire et matrimonialiter conjungi, et dum in Ecclesiis matrimonia fidelium et benedictiones nubentium celebrantur sponsum et sponsam circumstantes vociferando percutiunt.... quod ipsi tales derisores, raptores divini, perturbatores officii et sacramentorum officia contemnentes, Chalvaritum in vulgari facientes seu fieri procurantes, a prædictis excessibus penitus et omnino desistant sub pæna excommunicationis».

[461] Cfr. Muratori, Op. cit.

[462] Cfr. Martigny, Op. cit.

[463] Cfr. Fleury, Les moeurs chrétiens.

[464] Ma, al ritorno, tre amiche comari l'attendono; l'una distende e liscia i capelli, un'altra li intreccia, la terza li annoda e fa su.

[465] Cfr. gli Statuti di Gallese, lib. II, Gallese 1576. «Volendo noi obviare a molti scandali e romori che potrebbono nascere per il far delle travate e scampanate alle vedove statuimo et generalmente ordinamo che nessuno tanto Gallesano come anche forestiero di qual si vogli grado o conditione ardischi sotto qual si voglia pretesto far campanate, ne travate alle vedove o vedovi che si rimaritano nella nostra Città di Gallese nè tanpoco alle case loro farci alcuno impedimento sotto la pena di scudi tre per chiasche persona e volta, non ostante altro abuso che in contrario de questo per l'addietro fosse stato tollerato».

[466]

Me vogio maridar, e no sò co chi;
Se passa Nane, ghe vôi dir de sì;
Se passa Toni, ghe vôi far de oceto,
Se passa Bepi: siestu benedeto!

[467]

L'omo senza la dona è 'na pignata
Piena de aqua, lontana dal fogo;
Chi ga giudizio pol considerare:
L'omo senza la dona no pol stare.

[468] Eccone un saggio:

Dago la bona sera a questa casa,
Al pare e mare e quanta gente siete!
E la Marieta xe mia inamorata,
Quela che in casa vostra voi tenete.
Mi passo per de qua e no la vedo;
Ela xe in leto, e mi tremo dal fredo:
Ela xe in leto col papà e la mama,
E mi, meschin, la piova me bagna.

E così le seguenti che diconsi serenade:

Vieni, cara, ala finestra,
Dal balcon butite fora;
Dame almanco un quarto d'ora,
Che co ti vorìa parlar.
Vieni, bela, a la finestra:
Xe 'l tuo amante che ti ciama,
E l'è quelo che ti ama,
Che te porta tanto amor.
Mi son soto i tuoi balconi
Co le mani giunte al peto:
Vieni, vieni, el mio dileto,
No me fare più penar.
Vegna lampi e vegna toni
Che paura no i me fa:
Co' so' soto i tuoi balconi
No me pare da morir.

[469] Nelle campagne di Spilimbergo, sopra Udine, e precisamente a Barcis: «El toso ciapa un soco (zocco) e el lo mete su la porta de la casa in dove che stà la regazza che el ga in idea, e se ela lo tira drento, l'è segno che la xe contenta de farghe l'amor; e se la lo lassa là, gnente, no la ghe ne vol saver.»

A Polcenigo, pure in provincia di Udine: «I se impianta co le nosele (nocciuoli). A la festa, dopo vesparo, i tosi va a ziron co ste nosele, e i ghe ne esibisse ale tose che i ga in idea: se le açeta, bisogna che le ghe ne toga çinque, perchè

Una no xe da dar,
Do no xe da tor,
Tre xe d'amor,
Quatro xe da mati,
Çinque xe da inamorati.

[470]

Moroso belo, fe' come i morosi:
Dal padre mio andeme a dimandare;
E se mio pare ve darà risposta,
Vegnì da mi, che so' la sposa vostra.

[471] La più comune è questa:

Ti passi per de qua, ti passi indano:
Ti frui le scarpe e no ti ga guadagno;
Ti frui le scarpe e po anca le siole:
No t'aspetar da mi bone parole.

[472] A mantenere viva questa usanza sembrami ispirato questo canto:

Mio pare e mia mare
I gera sul camin
E i fava discorseti
Per maridarme mi;
Ma mi so' stà più scaltra,
Me l'ò trovato mi:
M'ò tolto un ziogadore
Che zioga note e dì;
El m'à ziogà la dota,
E 'l m'à ziogà anca mi.

[473] Sfoglio la mia raccolta edita ed inedita dei Canti popolari, ed omettendo ogni commento, riporto i seguenti:

No vogio più garofoli in pitèri
E gnanca far l'amor co marineri;
I marineri spuzza da catrame:
Tute le pute i fa morir da fame.

Tuti sti marineri, quando piove,
Tira la paga e ghe ne magna nove;
Tuti sti marineri, co' è bon tempo,
Tira la paga e ghe ne magna çento.

Done, no ghe ste' crede a marineri:
I xe gelosi e pieni de sospeto;
'Na cossa sola mi ve vogio dir:
'Na note a l'ano i dorme sul so leto.

Tuti me dise: Bela, no lo tor
Lo mariner, chè 'l te farà morire;
Se el me farà morir, e cussì sia:
Sposar lo vogio, el xe l'anima mia.

No vogio nè limoni, nè naranze,
E gnanca pescaori cole calze;
No vogio nè limoni, nè çedroni,
E gnanca pescaori coi calzoni.

Ti credi d'esser nata 'na regina!
De un pescaor no ti te vol degnare;
E ti te degnarà d'un fornareto,
Ch'el te portarà el pan co'l fazzoleto.

No vogio un pescaor che sa da pesse;
Nè manco un ortolan che va sui orti;
Nè manco un mariner che va in marina:
Ma vogio un bel mercante da farina.

Pute, no fe' l'amor co calegheri!
I calegheri ga 'na trista fama;
I calegheri ga 'na trista fama,
Che tuto quel che i ciapa i se lo fragia.

No vogio nè garofoli, nè fiori,
E gnanca far l'amor co servitori;
I servitori toca come i gati,
La sera e la matina i lica i piati.

[474]

Ti passi per de qua gramo e dolente,
Ti credi de parlar col padre mio;
E ti te porti un aneleto in deo,
Ma el to pensier no 'l se confà col meo.
El to pensier no val 'na gazeta:
Ti ti xe rico e mi so' povareta.

[475] Ecco come nelle campagne sopra Spilimbergo, su quel di Udine, il giovane si presenta alla casa della fidanzata per chiederla ai genitori: «Vien el zorno dela dimanda, e el toso va a casa dela regazza, e co' el xe sula porta, el dise: «Se comandè che vegna drento, vegno drento; se de no, resto de fora». Alora, se i genitori dela regazza ghe risponde «vegnì drento che ghe xe logo anca per vu», l'è segno che i xe contenti de darghe la tosa; e se no i ghe risponde gnente, no i vol saverghene de elo.»

Questo uso può trovare spiegazione nella seguente villotta dettatami da una donna di que' dintorni:

Gaveva 'na chitera e l'ai venduda
Per no saver sonar napoletana;
Gaveva una morosa e l'hai perduda
Per no saver parlar cola so mama.

A Carpenedo, piccolo villaggio del vicino comune di Mestre, si dà alla dimanda un certo che di pubblicità: «La dimanda i la fa la terza festa de Pasqua. In quel zorno se tien fiera de nose, nosele, carobe, naranze, brustolini, e de botiglie de rosolio; e i tosi che fa la dimanda va da sti frutarioi e i se compra un tovagiol pien de ste robe e do o quatro botiglie. Alora i speta che sia terminà vesparo, e quando la zente vien fora de ciesa, i tol suso sto tovagiol e i va a casa dela morosa; e cussì tuti vede.»

[476] Detto anche: el pegno, el tempo e l'anelo.

[477]

In mezo al mare ghe xe ciare case,
La Rizziolina che tanto me piase;
Se so papà me la volesse dare,
L'anelo d'oro ghe voria donare:
L'anelo d'oro e la veleta fina,
Per contentar la bela Rizziolina.

Quest'altra ricorda forse un uso più antico:

E vustu che te ama? dame ete,
E dame la corniola e 'l cura-rece;
E vustu che te ama? dame ò,
E dame la corniola e 'l figarò.

Ad Alpago, in provincia di Belluno, lo sposo, per segno, dà alla sposa le gusele e un guselon (aghi d'argento da testa) co i tremoli, e corre obbligo alla sposa di acconciarsene il capo per farne mostra nel successivo primo giorno festivo, allorchè si porta alla chiesa.

A Polcenigo, in quel di Udine: «Una volta, la capara, gera un talero; adesso invece squasi tuti ghe dà 'na forfe co una caenela, una britola e i zocoli. Ela ghe dà un fazzoleto bianco e un altro scarlato.» [255]

A Roveredo, pure in provincia di Udine: «El contrasegno xe do roche, una da filar canevo e una da filar stopa, ben tornìe e co le so figure de omo e de dona; un famegio per tegnir sula roca; una britola per scarsela, e una forfe cola so ranceta. Co se vede ste robe se dise: quela xe impromessa. Per tuto el tempo che i fa l'amor el toso ga da mantegnirghe ala tosa i zocoli e anca el capelo, e se lu va via militar, bisogna che fazza el dover la famegia de elo.»

Ad Azzano, pure su quel di Udine: «Per segno el toso ghe dà tre o quatro file de corai co una stela d'oro, e ela ghe dà un fazzoleto o un per de tirache.»

A Clauzetto, stessa provincia: «Perchè la regazza comparissa el moroso ghe dà un ciamisot (veste a sacco) cola so çintura, e un per de scapini.»

[478]

De quindese ani m'ò fato novizza,
De sedese ani so andada a l'altare,
De disisete go cantà la nana,
E de disdoto i m'à ciamato mama.

[479] Disgusti.

[480] A Roveredo su quel di Udine: «El moroso tien conto de tuto, e se caso mai ela lo lassa, bisogna che la ghe paga tuto dopio quel che la ga avuo.» E ad Azzano: «Se xe ela che lassa elo, bisogna che la ghe daga tuto indrio, e bisogna anca che la ghe paga i giorni che lu ga persi per ela e fin le scarpe che el ga fruà.»

In quest'ultimo paese (Azzano) corre poi l'uso che segue: «Quando un toso lassa la morosa, sto toso tol de le piante de fava e el buta sta fava dala so porta fin a la porta de la morosa; e cussì tuti sa che la tosa xe libera. El fa la sterneta la domenega de matina a bonora, e chi passa per andar a messa dise: «El fantat ga lassà la pupata.» Da ciò è derivato il detto dar la fava che si adopera colà per significare l'abbandono che fa un amante dell'altro e che corrisponderebbe alla stincata o gambata dei Toscani, ed al balo d'impianton dei Veneziani. A questa usanza, che io credo diretta allo scopo di rendere pubblica la libertà ridonata alla giovane anzichè intesa a colpirla di spregio, allude il canto che qui riporto, sebbene incompleto:

El mio moroso m'à cargà de fava

. . . . . . . . . . . . . .

E la to fava gera tuta sbusa:
L'ò semenada e no la xe nassuda;

E la to fava la gavea i carioi:
L'ò semenada e xe nassuo i fasioi.
[256]

A Vito d'Asio, su quel di Udine: «I ghe semena de la calçina, carboni, pagia, scartozzi su tuta la strada, scominziando da la porta de la tosa fin ala porta del moroso, e questo se ciama far la porcita, perchè la vien a esser na cosa sporca.»

[481] Bottone di rosa. La festa di S. Marco ricorre il 25 aprile, e quindi questo regalo, che in altro tempo sarebbe di poco o niun conto, in quel giorno ha un pregio non indifferente, come primizia della nuova stagione.

E a proposito di fiori, ecco una nina-nana che dà a conoscere il conto in cui è tenuta dagli amanti l'erba odorifera denominata maggiorana:

Fame la nana, pomo inzucarà,
Viso da mazorana strapiantada!
La mazorana è 'l megio fior di erba:
Meterla in boca par che la ve inçenda;
Meterla in sen, la sa da mile odori,
E la xe quela che sostien l'amore.

[482]

— Quel fazzoleto che ti porti al colo
L'astu rubato, o l'astu tolto a nolo? —
— No l'ò rubato e gnanca tolto a nolo;
La mia morosa me l'à messo al colo! —

[483]

Sia benedete le ricamadore,
Che ghe ricama el cuor ai so morosi!
Punto per punto le ghe fa 'na stela,
E in mezo 'l peto le ghe forma el cuore.

[484] Ad altri impegni probabilmente va incontro il compare, e chi amasse saperne, legga:

«El compare del'anelo xe de consueto anca el compare del primo putelo, che vol dir el compare de san Zuane.

»Apena che el xe avisà che la sposa ga partorìo, el ga dover de mandarghe una strica de carne, un polastro, e do vovi su un çestelo.

»Dopo i destina el giorno che i ga da batizar. El pare e el compare i va in ciesa a pie, e la comare-levatriçe, cola tosa che porta la creatura e co quela che porta l'arzentaria, le va in gondola.

»La gondola e la candela per el batizo ghe toca al pare, e al compare ghe toca pagar la comare-levatriçe, la tosa che porta la creatura e quela che porta l'arzentaria, e i do nonzoli.

»Dopo el batizo i fa el rinfresco: alora el compare va al leto de la partoriente, e, dandoghe la man, el ghe sporze el regalo per ela e per la creatura: a ela el ghe dà diese, dodese e anca quindese lire, e per la creatura, se la xe 'na putela, el ghe dà un bel per de recini, e se el xe un putelo, un per de veroni (recini da putei), o se de no, un granelo de diamante per meterlo a la recia dreta.

»Come santolo de sto putelo, o de sta putela, se sta creatura resta senza genitori, bisogna che el se la toga con elo, perchè el vien a esser so pare. Se po el bambin morisse, alora el ga dover de mandar la zogia, 'na bandina e quatro mazzeti de fiori per la cassa.

»Dopo vien la cresema, e se el xe un putelo, sta cresema la fa el santolo, e se la xe 'na putela, so mugier.

»E po, se sa, ghe xe i regai, e cussì el compare nol la termina più.»

[485] Ad Azzano, provincia di Udine: «I giorni per le nozze xe el luni, el mercore e el sabo. El marti no se deve mai far nozze, e gnanca po el zioba, perchè el zioba xe el giorno che le strighe se petena per andar a spasso.»

Così a Vito d'Asio: «De zioba no se se marida, e gnanca po se se petena, e quele che se petena xe rimarcae.»

A Burano, in provincia di Venezia: «El zioba xe el giorno che le strighe se parecia per andar a far strighezzi, e cussì de zioba nissun se marida.»

[486] A Clauzetto, su quel di Udine: «La domenega prima de maridarse, la sposa va a grim, che vol dir ala çerca. La va co una so àmia, o co un'altra dona, in tute le case del paese e anca fora via. Va avanti l'àmia, o la dona, e la dise: «eco qua la sposa»; alora quei dela famegia va e i ghe regala quelo che i crede: 'na tovagia, un tovagiol, del canevo, cussì... o anca soldi.»

[487] La vera è d'oro:

Gegia bela! co' te vedarò i anèi,
Alora podarò dir che ti è novizza;
E co' te vedarò la vera d'oro,
Alora mi dirò che per ti moro.

Allo stesso modo che, nel concetto popolare, l'anelo e la vera hanno un diverso significato (essendo l'anelo il simbolo di un legame tra amanti, e la vera il simbolo di quello tra sposo e sposa), così anche nella forma differenziano l'uno dall'altra. L'anelo è propriamente quell'anello che [261] si vede adorno di fregi o che porta incastonata una corniola o qualche altra pietruzza, come la così detta turchina, e così pure quello che ha la forma di un serpente attortigliato; e la vera è invece quell'anello che non ha fregi od ornamenti di sorta ed è affatto liscio, il quale con questa sua semplicità e colla maggiore solidità che presenta, dinota come il vincolo che reca sia forte, e come ormai per gli sposi sia giunto il tempo dei serî propositi.

A Polcenigo, Azzano, Budoja: «La vera xe d'arzento, e cussì xe d'arzento anca le çinque o sie verete che el sposo deve dar a la sposa. L'anelo inveçe, che toca al compare, xe d'oro.»

[488] Così anche a Burano: «La sposa va in ciesa magari co l'indiana o un sial su la testa; al pranzo po la va col vestito che la s'à fato e co 'na bandina de fiori in testa.»

A S. Giovanni di Polcenigo, in provincia di Udine: «Tute le done che compagna i sposi ga qualche fior in testa e i nastri da drio le spale, e i omeni ga 'na girlanda sul capelo; ma la sposa e el sposo no ga gnente, e cussì se conosse quei che xe sposi.»

Ad Aviano, pure in provincia di Udine: «Tuti quei dela compagnia, omeni e done, porta sul capelo fiori e girlande, ma i sposi gnente, e i se veste de scuro». Da quest'uso trae argomento il seguente canto, che ebbi da una donna di quei paesi:

Se vado a nozze, vôi andar pulita,
Chè vôi parer più bon dela novizza;
Se vado a nozze, vôi andar galante,
Chè vôi parer più bon de tute quante.

A Sotto-Marina di Chioggia: «La sposa va in ciesa co un velo negro in testa e co una palma de fiori sechi in man. Quando che la xe viçina a l'altar, el campanaro ghe tol sta palma e el la mete su l'altar, e dopo terminà la messa, el ghe la dà ancora, e cussì ela torna a casa sempre co sta palma in man.»

[489] Ad Azzano, in provincia di Udine: «La benedizion el pare ghe la dà la sera avanti, dopo che xe stà stimà e portà via la dota: el ciama sta so fia sula so camara, e el scominzia sempre co ste parole: «Adesso xe andà via la to roba,. e.. e diman ti andarà via anca ti!..»

Nella campagna di Chioggia la sposa in atto di abbandonare i genitori così canta:

Tiogo partenza, la tiogo pianzendo
E lagrimando per tuta la via;
La mano al peto e la boca disendo:
A revederse, cara mama mia!

[490] Nella campagna di Chioggia allo sposo non è permesso entrare nella casa della sposa, ma conviene che il padre, o altra persona incaricata, si porti presso la sposa, e le dimandi formalmente se è persuasa e disposta di mantenere la data parola. Avuta risposta affermativa, entra colla sua compagnia, e allora si fa il così detto parentado, cioè lo sposo si rivolge ad ognuno dei componenti la famiglia della sposa, e dice ad alta voce: — alla sposa: vu sè mia sposa; al padre: vu, mio missier; alla madre: vu, mia madona; al fratello: vu, mio cugnà; e così via via.

A Roveredo, su quel di Udine: «El sposo lassa la compagnia su la strada, e el va in casa, e el ghe dise a so pare e a so mare de la sposa: — «Me permeteu che mena a messa vostra fia?» Lori ghe dise, che el la mena pur; alora el va in camara de la sposa e el ghe toca la man: — «Te dago la man da mario» — e ela ghe la dà a elo. Dopo el toco de la man, el va a levar la compagnia, e va drento tuti, e el compare va dala sposa e el ghe sporze la bona man (un fiorin), e la sposa ghe sporze un fazzoleto rosso a ogio.»

Lo stesso anche a Polcenigo di Udine: «El sposo lassa i parenti su la strada, e el va drento in casa, e el dixe: — «Madona, missier, me voleu dar la vostra fia?» — e lori ghe risponde: — «Tolevela pur e menèvela via.»

Nella campagna di Conegliano lo sposo regala la sposa di un per de scarpete. Ad Alpago invece il paio di scarpete è dallo sposo regalato alla madre della sposa.

Ad Annone, in provincia di Venezia, il compare dell'anello, nell'atto di invitare la sposa a recarsi alla chiesa, fa scorrere nelle mani di lei una moneta del valore di due o tre lire.

[491] A Burano, in provincia di Venezia: «In ciesa no i va che in çinque — i sposi, el compare, la comare, e un'amiga o 'na cugnada de la sposa — e nissun altro: la sposa va avanti in mezo a le do done, e el sposo stà da drio col compare.»

Ad Annone, in provincia di Venezia: — Prima del rito religioso la sposa è attorniata dai soli proprî parenti e lo sposo dai suoi: dopo il rito succede lo scambio, e così i parenti dello sposo passano a festeggiare la sposa, e quelli di questa passano allo sposo.

A Malamocco: «Tuti quei de la compagnia se provede de confeture, e i le buta a la zente che i incontra, e co' i va a casa i le buta dai balconi.»

Così anche a Sotto-Marina: «Quei de la compagnia tien confetura in scarsela, e tanto ne l'andar, che nel ritornar dala ciesa, i la buta a tuti quei che i trova per la strada, o che ghe va a drio.»

A Burano: «Apena che la sposa entra in casa del sposo, el capo de la famegia ghe va incontro e el ghe buta sul viso una brancada de confeture, e po el fa istesso col sposo. Al pranzo po svola sempre per aria confeture, nosele, bomboni, e se spande vin in tola.»

A Vito d'Asio: «Per dove deve passar i sposi, i ghe buta dei fiori». E ad Azzano: «Le famegie dei sposi tol del pan e i lo tagia a tochi e i ghe ne dà ai povareti.»

A Polcenigo: «El giorno che le spose va in ciesa per maridarse, le se mete 'na cotola roversa perchè nissun ghe possa far strigarie. Una, perchè no la s'aveva messo gnente, co' la xe stada in ciesa e che el prete ga dimandà se la xe contenta, ela no la ga savesto risponder nè de sì, nè de no, parchè i la gaveva strigada.»

Ad Azzano, in provincia di Udine: «Parchè le strighe no possa far gnente, la sposa destira un pinzo de la so traversa sula bancheta in dove che i se sposa, e el sposo ghe mete un zenocio suso.»

A Vito d'Asio: «Per no esser strigae, le spose, co' le va in ciesa, se mete 'na cotola e un corpeto roverso.»

[492] «Becaria vol dir che la sposa partorirà malamente.»

[493] E anche: i ga magnà fora del piato; e a Burano: i ga rascà la pignata; e ad Azzano: i à licà la farzora.

[494] A S. Giovanni di Polcenigo: «La vera, prima, el prete la presenta al deo: po, el compare la manda più suso, e po el sposo el la fa andar a so posto.»

[495] Nella campagna di Chioggia, dopo il rito religioso, si fa [266] un momentaneo divorzio, poichè lo sposo con tutti gli uomini dell'una e dell'altra parte, e la sposa con tutte le donne, si portano a pranzare ognuno a casa propria.

A Mezzamonte di Polcenigo, provincia di Udine: «La compagnia, co la riva a casa del sposo, la se ferma in cortivo, la tol in mezo la sposa, e la scominzia a cantar:

Portène l'onoranze su la porta,
Se no la sposa la ne torna nostra;
Portène l'onoranze sul cortivo,
Se no la sposa la menemo in drio;
Portène l'onoranze su la strada,
Se no la sposa la menemo a casa.

Alora uno de casa vien fora co del vin e el dà da bevar a tuti quanti, e alora questi lassa la sposa, e alegri i va in casa, i va a tola e i magna. Se no i ga del vin, i ghe dà del rosolio o dei altri liquori.»

A Portogruaro, provincia di Venezia: «Apena che i vede rivar la sposa co la so compagnia, el mezzeta tira el colo a una galina, e el se mete a zigar: «Viva la sposa, la galina xe morta.» Alora va fora el pare del sposo co del vin e el ghe ne dà a tuti, scominziando da la sposa; e po va la mare che compagna la sposa a vedar la casa, e la ghe dà la scoa in segno che la deve star soto la madona, che la xe dipendente e che la madona ghe comanda.

La galina serve el diman per far el brodo ai sposi.»

Nella campagna di Chioggia, quando lo sposo va a ricevere la sposa, le intuona questo canto, coll'accompagnamento di strumenti, mentre la comitiva gli fa coro:

Aro, aro, co quei bovi bianchi,
Adesso vien co mi a vangar i campi;
Aro, aro, co quei bovi rossi,
Adesso vien co mi a vangar i orti.

Quando sono prossimi alla casa dello sposo, la sposa, da festevole, ridente e allegra che era, si fa appassionata e piangente: allora uno della comitiva, avanzandosi verso la casa, così canta:

Cara madona, vu butève fora,
Che vien vostro fio e vostra niora;
E vostro fio vien qua ridando,
E vostra niora vien qua pianzando.

Pronta all'invito la madona esce e si fa incontro alla sposa; si abbracciano, si baciano, e la sposa riceve una scopa, o un cesto, od altro oggetto di casa, a seconda delle incombenze [267] alle quali la si vuole destinata, e viene quindi condotta a visitare le varie parti della casa.

Ad Azzano: «Va avanti el pare o el barba dela novizza a dimandar ai genitori del sposo se i xe contenti de riçever in casa la novizza: alora vien fora la madona, o la più vecia de la casa, co i brazzi averti e le maneghe revoltae suso, e la va incontro a sta novizza e la ghe dise: «Niora, se' parona de drento e po de fora!» e la la ciapa per man, e la la mena in casa. Intanto el più vecio de la famegia tira el colo a 'na galina, e alora tuti se mete a zigar: «Eviva, eviva! eviva la galina morta e la novizza viva!» e là i porta fora del vin e tuti beve e i fa alegrie.»

Ad Annone corre lo stesso uso. Il mezzeta, che è la persona che combinò il matrimonio, si fa avanti e chiede se si permette alla sposa di entrare in casa, e intanto che la suocera esce e va ad abbracciare e baciare la sposa, si fa il sagrificio della galina, fra gli evviva, alla galina morta e novizza viva, di tutti i parenti.

[496] Ad Alpago, provincia di Belluno: «I mazza un vedelo, e i lo cusina in tante maniere, e no i magna che vedelo.»

Ad Annone, in provincia di Venezia, le famiglie un po' comode fanno due desinari: uno di questi nella casa della sposa prima del rito religioso, e l'altro nella casa dello sposo dopo celebrato il matrimonio. Fra le vivande, il così detto sguazzett, che si fa con polli tagliati a piccoli pezzi e con molte droghe, gode di una speciale preferenza.

[497] A Sotto-Marina, di Chioggia: «El primo balo lo fa el compare cola sposa. Alora la sposa no intra più in balo: la va de suso su la so camara da leto, e là la riçeve le visite dei parenti e conossenti e a tuti la ghe dà el cafè e la ghe dà le cartoline dei confeti.»

[498] A Polcenigo (Udine): «La sposa ala matina la ghe dà a so madona, o a la più vecia dela casa, la megio camisa che la ga.»

Così anche ad Annone, Azzano, Budoja, e in altri luoghi.

[499] Ad Annone:Questo desinare si fa nella prima successiva domenica in casa degli sposi, e non vi intervengono che i soli genitori della sposa, il che dà motivo a dire che i va a stimar i dani: nella domenica poi che viene dopo si fa un terzo desinare, o pranzo, nella casa paterna della sposa, al quale intervengono anche i genitori dello sposo; e quest'uso è detto far la rebaltagia.

[500] Quest'uso si mantiene anche a Sotto-Marina di Chioggia. «Per oto giorni, sempre vestia da sposa, la resta in casa, la riçeve visite e la fa tratamenti.» [271]

A Vito d'Asio, sopra Spilimbergo di Udine: «Le spose, che pol, rispeta i oto giorni, e le resta in casa, e le lavora de calze». A Budoja, pure in provincia di Udine: «Le spose stà in casa tre o quatro giorni o anca più, e perchè no le staga in ozio, so madona ghe dà da far 'na camisa per el sposo.»

A Burano: «Le spose che va ancora ala vecia resta in casa sie o sete giorni; le altre, po, sorte magari el giorno drio.»

Ad Azzano la cosa procede altrimenti: «La sposa se alza a scuro e prima de tute: la va in cusina e la impizza el fogo, po la va a trar do seci de aqua, e dopo la fa el magnar ai porsei e ale galine, e quel giorno ghe toca far tuto a ela. La seconda matina la va po a lavorar in tei campi col capelo da nozze in testa.»

Nei dintorni di Padova, lo stesso uso: «La sposa ghe toca levarse prima de la madona e de le cugnae e ghe toca destrigar la casa e lavar i piati, le pignate, le caldiere e tuto quanto à servìo per el pranzo de le noze, perchè questo xe el so dover del primo giorno.»

[501] Portatori della rocca.

[502] Accompagnatori della sposa.

[503] In sussiego.

[504] Al suono di cornamusa gonfiata.

[505] Villaggio nel distretto di Sartène.

[506] Serraglio.

[507] Dimora.

[508] Un secchio pieno di giuncata.

[509] Questa consuetudine si riscontra pure nei montanari scozzesi. Vedi fra gli altri The fair maid of Perth, or S. Valentine's day nella seconda serie delle Chronicles of the Canongate di W. Scott.

[510] Raccolta di proverbi còrsi del Tommaseo e del Mattei.

[511] È foggia che va declinando e non si porta per solito che in chiesa. Elegante non si può dire al certo, sì bene modesta al sommo e dicevole a vestirla nei sacri ufficj, perocchè sembra contribuire a raccoglimento della persona la quale nell'orare in siffatta acconciatura somiglia le immagini di alcune Madonne degl'insigni pittori antichi.

F. D. Falcucci. La Corsica antica illustrata nella storia, nella geografia, e nel dialetto. (Opera inedita).

[512] V. Grimaldi, Marietta di Vico, Racconto storico.

[513] V. Histoire illustrée de la Corse del chiarissimo abate Galletti.

INDICE

   
Prefazione Pag.   9
INNANZI DI ENTRARE IN MATERIA
Scopo del matrimonio 17
LIBRO PRIMO
Prima delle nozze
I. Quando la fanciulla è bambina 21
II. Quando la fanciulla cresce ivi
III. Pronostici 27
IV. Come si fa l'amore 49
V. Il messaggiero d'amore 66
VI. Il matrimonio per libera elezione 68
VII. Gli sposi si provano 74
VIII. L'autorità del padre e del fratello nelle nozze 80
IX. Nozze per ordine superiore 83
X. Nozze per procura 87
XI. Monogamia, poligamia e poliandria 88
XII. Nozze fra parenti 93
XIII. Come la fanciulla si domanda 99
XIV. La sposa si accaparra 110
XV. Ricambio di doni nuziali 112
XVI. La dote 122
XVII. Il corredo 128
XVIII. Mentre la sposa si prepara 135
XIX. Il bagno; la sposa si veste 139
LIBRO SECONDO
Le nozze
I. Come sono vestiti gli sposi 145
II. Lo sposo arriva 148
III. Il pianto della sposa 153
IV. Prima delle sacre funzioni 155
V. Gli sposi incoronati 159
VI. Gli sposi velati 161
VII. Il tappeto degli sposi 164
VIII. Gli sposi inanellati 165
IX. Comunione di cibi e di bevande 166
X. Intorno all'altare 168
XI. Ove le nozze si celebrano 170
XII. La parte del prete 171
XIII. Augurii di fecondità alla sposa 174
XIV. Allegrezze perchè si fa la sposa 176
XV. Il rapimento della sposa 179
XVI. Il serraglio 182
XVII. Per istrada 187
XVIII. Danze nuziali 189
XIX. Sulla soglia 192
XX. La suocera 194
XXI. Il dominio della sposa 198
XXII. Cibi e banchetti nuziali 199
LIBRO TERZO
Il matrimonio si consuma
I. Si prendono gli augurii 211
II. Giorni per le nozze e loro durata 214
III. Il jus primæ noctis 219
IV. Il paraninfo e la pronuba 227
V. Gli sposi soli 231
VI. Epitalamio 232
VII. Il giorno dopo 234
LIBRO QUARTO
Le nuove nozze
I. Quando le nozze vanno a monte 239
II. Nozze di vedove 241
III. Nozze d'argento e nozze d'oro 245
APPENDICE
I. — USI NUZIALI VENETI
(Raccolti da Dom. Giuseppe Bernoni).
I primi passi 249
El permesso 251
La dimanda 252
El segno 253
Regai tra morosi 256
El portar de la sposa 257
El compare de l'anelo ivi
El giorno che i seglie 259
Regai a la sposa 260
La sposa se parecia ivi
La benedizion del pare 261
El sposo ariva 262
I sposi va in ciesa 263
A l'altar 264
El rinfresco 265
El pranzo 267
I bali e soni 268
Soli 269
I oto giorni che segue ivi
II. — USI NUZIALI CORSI
Raccolti da A. Provenzali 272

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (Ràmàyana/Ramayan.a, Devayánì/Devayànì, Draupadì/Dràupadì, Çakuntalà/Çakuntalâ, bràhmani/brâhmani, medio-evo/medioevo e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.