The Project Gutenberg eBook of L'olmo e l'edera

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Title: L'olmo e l'edera

Author: Anton Giulio Barrili

Release date: July 9, 2007 [eBook #22024]
Most recently updated: January 2, 2021

Language: Italian

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L'OLMO E L'EDERA

VOLUME I.

Tip. della Società Cooperativa.

L'OLMO E L'EDERA

RACCONTO
DI
ANTON GIULIO BARRILI
Volume primo

  MILANO
  E. TREVES & C., EDITORI

1869.

Proprietà degli Editori

A ENRICO DESCALZI

_Sebbene io non l'ho per un lavoro eccellente, ma perchè ho deliberato di mettere sopra ognuno de' miei libri il nome di un amico, amo intitolare a Lei, uno dei pochi carissimi, questo mio racconto, che non sarà po' poi la cosa più brutta del mondo in questo genere di manifatture letterarie.

Intorno alle quali vorrei pur dire alcun che, tanto per levare l'appiglio ad una riprensione che mi potrebbe esser fatta, del non sapere io uscire a cercare le mie inspirazioni e i miei temi fuori di porta Pila, o di porta Lanterna. Ecco il secondo romanzo, e, contando gli altri in corso di stampa, il quarto che s'è allogato tra le mura di Genova. Ora, è tutta in Genova la vita italiana? O non s'ha a vederci un po' d'amore del campanile, in questo non badare che a lei?

No, l'amore del campanile non c'entra per nulla. Ella sa, gentile amico, che amo casa mia, e mi sento morire dal mal del paese quando sono lontano da questa prediletta mia terra; ma avrebbe il gran torto chi ascrivesse a cotesto il restringer ch'io fo l'orizzonte dei miei quadri, e non volesse vederci in quella vece il dito della necessità, siccome vo' dimostrare ai benevoli.

A me, anzi tutto, la non m'entra, di celebrare l'unità, col far nascere a Roma, o a Firenze, ciò che ho copiato, bene o male, dal vero, nel mio piccolo spazio di terra, sotto il mio lembo di cielo; chè non vo' far dipinture stonate. E poi, mi venisse anco fatto di dettare un romanzo fiorentino pretto sputato, e' riuscirebbe forse più schiettamente italiano?

Noi (s'ha da mettere in sodo) non abbiamo in Italia l'urbs, il cuore, il capo, e il ventre della nazione in una sola città. La Francia, rispetto a vita sociale, è tutta quanta a Parigi, come l'Inghilterra a Londra; ma da noi gli è il caso contrario. Firenze, Milano, Napoli, Palermo, Genova, Venezia, Roma, Bologna e Torino (Ella vede che le pongo a mazzo) sono esse tutta l'Italia, e ognuna di esse, insieme coi caratteri comuni a tutte, porta i suoi caratteri particolari. Valentuomo colui che meglio saprà cogliere la fisionomia di uno tra questi centri della vita italiana, e meglio allogare le sue fantasie nelle strade e nelle usanze della città ch'egli conosce più addentro! Parlo, s'intende, del romanzo di costumi; che per lo storico, la bisogna corre diversa, essendo mestieri di studiare i luoghi colla storia tra mani, giusta le impressioni che balzano fuori dal raffronto.

Io dunque, genovese, serberò fede a Genova. Ma anco a danno della diffusione de' miei libri? Sì, certamente, e perchè no? Alle corte, chi legge i nostri libri? chi li compera? Egli è già molto quando si rifà le spese della carta e dell'inchiostro; le penne e la fantasia ci si mettono per sovra mercato. Dov'è l'editore italiano? E a cui profferisce volonteroso i suoi tipi e il suo danaro[1]?

Salvo tre o quattro, giunti a fatica sui greppi del Parnaso librario, nè tutti con meritata autorità di nome, ogni scrittore ha da industriarsi colle sue mani, farla da autore, da editore e da spacciatore della sua mercatanzia, E chi è poi, di questi tapini, che rompe le porte Scee ed introduce il suo cavallo di legno, carico di volumi, nella città non sua?

Per chi ha fisso il chiodo di scrivere, e di stampare dopo di aver scritto, non rimane che la propria. E qui non c'è nemmanco da cantar vittoria. La città nella quale si vive, alla quale si dimanda il sussidio di quattrocento lettori, vuol essere, rispettivamente al libro, spartita in tre classi. V'hanno coloro che comprano; amici e conoscenti, i quali, come non pretendono che l'orologiaio regali loro un oriuolo, nè il mercatante un sacco di grano, così non pretendono che l'autore faccia loro un presente di quel libro che egli ha già dovuto pagare al tipografo; ottimi cittadini che vedono il nome dell'amico sulle cantonate e si ricordano di passare dal libraio (che intanto la è tutta strada) per pagare un cortese tributo all'amor delle lettere. V'hanno coloro che leggono, e lodano lo scritto, o la buona intenzione dello scritto, ma pigliano il libro ad imprestito. V'hanno finalmente coloro che lo scherniscono, senza averlo comprato, nè letto. Ora dimando io, come ha da cavarsela il povero autore, in un simile stato di cose?

Noi italiani, quanti siamo a saper leggere e scrivere, non ci adoperiamo punto, per fare un po' di strada al libro italiano. La stampa periodica non reputa ufficio suo prestarsi a quest'opera di grande utilità, e molto per colpa sua (lo si lasci dire a me, laureato in questa magra disciplina), gli scrittori intisichiscono coi loro libri nelle rispettive cerchie di mura. Per contro, la stampa sullodata aiuta, e grandemente, a far comperare da tutti il libro forastiero. L'annunzio facilmente accolto, la volubile loquacità del novelliere parigino, la notizia bella e fatta, che non c'è altra fatica a pigliarla, fuor che un colpo di forbici, finalmente l'andazzo, la necessità di mostrarsi al fatto d'ogni novità letteraria che sia strombettata tre mesi a tutti i trentasei venti della bussola, fanno sì che il libro francese sdruccioli alla lesta da noi, aspettato, ammirato, salutato, come una nave che dopo una lunga fatica di mastri d'ascia e calafati, finalmente abbandona il cantiere, per tuffarsi nel suo elemento.

Nè io mi lagnerei di cotesto, se cogli italiani si adoperasse del pari. Ma di questi, o per noncuranza, o per deliberato proposito, si tace. Gran mercè quando s'è amici: imperocchè il giornale tira giù quattro righe, ma senza ombra di pensamento, senza lume di critica, così alla dozzinale, come si va scodellando la minestra ai poveri sulla porta dei conventi: ed allora, la è grazia profumata. Donde avviene che ogni lettore italiano sa il nome, non pure dei quattro o cinque luminari della scienza_ _e dell'arte forastiera, ma eziandio delle costellazioni minori, e financo delle nebulose; ma nulla, o quasi, degli autori nostrani, e il milanese non ha notizia del napoletano, nè il fiorentino del torinese. Quel po' di notorietà che si spande, dopo lungo anfanare, tra letterati, è un semenzaio di pettegolezzi, una società di mutua denigrazione.

Io quasi vorrei proporre ai giornalisti e scrittori italiani un congresso, per sciogliere inter pocula questi problemi: a che giova la proprietà letteraria, se il libro non val nulla? che vuol dire che facciamo sempre la pappa altrui, e alle cose nostre non provvediamo? se il libro è una buona cosa, come arte e come industria, come decoro letterario e come fonte di guadagno per molta gente, perchè non aiutiamo ad arricchire il paese? e se non lo è, perchè ci lagniamo della scarsità dei buoni studi tra noi?

A tali distrette è la letteratura italiana! E se non facciamo ancora uno sciopero (che forse sarebbe il meglio, e nessun compratore della nostra derrata se ne recherebbe più che tanto) rimanghiamo tuttavia i più gran scioperati del mondo, e quando lavoriamo, c'è nell'opera nostra la svogliatezza di chi lavora senza mercede; non c'è ordine, non comunanza di propositi, non cospirazione di intendimenti. Siamo una dozzina di scuole, che tutte si adoperano alla spartita, che tutte cominciano dal loro abbicì, e non riescono a capolavori.

E avanti così, poichè così vuole la nostra fiacchezza. Uno si ferma disanimato a mezza strada, e ripiglia l'avvocatura; l'altro s'agguata ad una cattedra, contento di marcirvi; un altro muore d'inedia. Povera arte, povera scienza, fino a tanto che nessuno si capaciti della necessità d'un rimedio…..

Ella ora, gentile amico, condoni la tantaféra, ed ami il suo

Di Genova, il 26 maggio 1867._

ANTON GIULIO BARRILI.

[1] Questo, ed altre cose che seguono, non sono più vere per me, siccome dimostra il fatto della presente edizione, che è la seconda del libro, e potrebbe dirsi più ragionevolmente la prima; tanto l'antecedente fu ristretta per numero di copie, e soffocata per angustia di mercato. Amo cionondimeno lasciarle correre, come furono scritte dapprima, per non avere a ritoccare la dedicatoria, nella quale v'hanno, io mi penso, considerazioni giustissime intorno alle grame condizioni della vita letteraria italiana. E prego il cortese editore a lasciarle correre del pari, rammentando che repetita juvant, e per molti rispetti, se non per tutti, verranno a taglio anche adesso.

            Aprile, 1869
                                            A. G. B.

L'OLMO E L'EDERA

I.

Racconto una storia vera, giusta il mio costume, che dovrebb'essere di tutti coloro i quali non sono molto esercitati nell'arte del novelliere. Facile è lo inventare, e ci si mette quanto a dir male del prossimo; difficilissimo, poi, dare alle sue invenzioni la evidenza del vero, lumeggiarle con quei tocchi di pennello che le fanno balzar quasi dalla tela. I fatti, per tal guisa affastellati, si tengono ritti per miracolo; i caratteri, dipinti di maniera, non istanno nè in riga nè in spazio; gli è insomma un guazzabuglio, il quale non mette nulla in rilievo, nulla, se non forse la tracotanza dell'autore.

Io, digiuno di studi, e non rallegrato che da una scarsa vena di fantasia, ho pigliato da un amico il savio consiglio di non dipingere mai, se non quello che ho veduto; di non scrivere se non quello che m'è rimasto impresso nella memoria, de' casi miei, o degli altrui. E qui mi soccorre eziandio l'autorità di un grande scrittore, il quale ebbe a dire come inventare non fosse poi altro che ricordarsi. Ma egli dovette pure ricordarsi di grandi cose, poichè ne inventò di così svariate e mirabili; laddove io, uomo di corta memoria, non vi dirò che una storia semplicissima, che mi parrà molto se starete a leggerla, senza badare a chi scrisse.

Siamo dunque intesi; varietà poca, o nissuna; ma verità da capo a fondo. E cotesto non dico per accattar fede al racconto, il quale, del resto, è fatto col debito riserbo, con nomi mutati e prudenti contraffazioni; sibbene (e vo' dirlo candidamente) per farmi benevola quella parte di gentili lettori, i quali pigliano maggior gusto alla narrazione di cose che sanno essere un giorno accadute.

Ora, narrando a memoria, debbo lasciare in bianco l'anno e il mese da cui la mia storia incomincia. Ma se il lettore genovese ricorda in che stagione si rappresentasse sulle scene del teatro Carlo Felice, e per la prima volta, il Ballo in Maschera del maestro Verdi, egli può scrivervi di suo pugno la data.

Era per l'appunto in quell'anno e in quella stagione; sulle scene del teatro Carlo Felice si rappresentava, non so se per la decima o per l'undicesima sera il Ballo in Maschera, e non c'era più in platea quella frequenza di spettatori che è (salvo il diverso giudizio degli impresari) il malanno delle prime rappresentazioni.

Scemata la calca, il teatro diventa, per così dire, una famiglia; rimangono i consueti frequentatori, che si conoscono tutti tra loro; si gira liberamente da un capo all'altro dell'emiciclo, dando un saluto a diritta, una stretta di mano a sinistra, appuntando il canocchiale sulla mostra di avorii molli che fa la marchesa Collalto, sui diamanti della signora Vallechiara, sugli occhi della signorina Morati che brillano assai più dei diamanti e, a parer mio, valgono anche di più; si naviga insomma con placido remeggio in un lago di cui si vedono d'ogni parte le sponde, di cui si conosce ogni promontorio, ogni golfo, e sto per dire ogni seno.

Quella sera, adunque, nel secondo intermezzo dello spettacolo, ero andato a piantarmi comodamente, e senza paura di gomitate, contro la parete circolare della platea, e là, fantasticando non so che cosa, volgevo sbadatamente le lenti del binoccolo su questo e su quello dei palchetti di seconda fila. Ma siccome non c'è viaggio che non abbia la sua stazione, anche il mio binoccolo fece sosta, e lunga sosta, al palchetto della marchesa Bianca di Roccanera, quella meravigliosa bruna, che parecchi de' miei lettori rammentano di certo, dalla persona snella, dal portamento di ninfa, celebrata pel ricco volume dei neri capegli, attorcigliati con leggiadra negligenza là dove il conte Ugolino amava mettere i denti all'arcivescovo Ruggieri, e ricadenti sul collo in due larghe ciocche crespate, che le davano un'aria (ma intendiamoci bene, un'aria!) di malinconia incantevole.

La marchesa Bianca ci aveva un'altra aria eziandio, che non s'ha a dimenticare in un ritratto come questo. Sebbene ella avesse già varcato i venticinque, e i suoi occhi, quando a caso si posavano su qualcheduno, avessero virtù di trapassargli il cuore e lasciar nella ferita l'impressione gelida dello strumento omicida, la ci avea pure un non so che di vergineo, anzi d'infantile a dirittura, che traspariva da tutti i suoi modi, e guai a chi ci si fosse lasciato cogliere; imperocchè quel candore, se non era artificiale, era pur tuttavia il più pericoloso di tutti gli artifizi, come quello che era in lei un retaggio della natura, una forma, un'apparenza, una lusinga di più, della quale essa era come inconsapevole, ma che, anco inconsciamente, le serviva per tirarle ai piedi quegl'incauti, che poi dovevano morire assiderati sulla soglia del santuario, sempre chiuso com'era.

Io ho parlato colla marchesa Bianca due volte appena, in tutto quel tempo ch'ella stette a Genova, ma tuttedue le volte in carnevale, colla maschera sul volto. L'incantesimo di quella sua meravigliosa bellezza o di quel candore vergineo fu tale, che la paura soverchiò la fidanza, e cansai sempre le occasioni di esserle presentato. Dell'anima mia nel mondo di là non so che debba accadere; ma se l'inferno c'è, non voglio cominciare a provarlo nel mondo di qui; però, dopo averne saggiato una volta, temporibus illis, fuggo le pene dello spirito come il diascolo l'acqua santa. Egli c'è a questo proposito un adagio, triviale se volete, ma calzante: «il cane non torna dove fu bastonato

La marchesa Bianca sembrava non saper nulla della sua tentatrice bellezza, o, se ella lo sapeva, le doveva parere la cosa più naturale del mondo; donde avveniva che non ne facesse pompa. Ma ogni suo gesto, ogni volger di ciglio, facevano scorgere quella bellezza sotto un aspetto nuovo e sempre migliore del primo. E cotesto, siccome ho detto, senz'ombra d'artifizio. Sia che la si facesse guardare di profilo o di fronte, sia che arrovesciasse il capo e mostrasse una fila di denti candidissimi e piccini, sia che pensierosa aggrondasse le lunghe ciglia sugli occhi semichiusi, ella era sempre la più bella, la più desiderata tra le donne. Arguta e colta com'era, neppure si avvedeva di dire cose leggiadre, e mostrava di accorgersi sempre di quelle che si dicevano a lei, o dintorno a lei. Segnatamente per le sue sorelle in Eva, ella era cosiffattamente buona, da parere, non che magnanima, spensierata. Figuratevi che la dicea schietto alle sue amiche qual veste o quale acconciatura di capo ella avesse divisato mettere per la festa da ballo della Prefettura, o per altra delle pochissime a cui si aprivano le sale de' suoi pari. E quelle subito ad imitarla; ma, quantunque facessero, la sarta non conferiva loro quel garbo della persona, quella grazia che spesso è ascosa in una piega da nulla, come gli amorini nello zendado di Venere.

Tutto insomma era natura in costei. Nata bella in una culla d'oro, cresciuta in mezzo a tutti gli agi di un lusso intelligente, tra i profumi della nativa eleganza, io credo che ella succhiasse l'arte col latte. Credo eziandio che facesse versi, ma sarei pronto del pari a scommettere che non avesse imparate mai le regole della prosodia. Ella era, giusta la frase culminante della adorazione mascolina, un angelo sceso in terra, ma un angelo femmina, s'intende, a cui fossero state recise le ali per tornarsene in cielo. La qual cosa, quanto sia vera per gli angeli, dicano i teologi. Per la marchesa Bianca, io reputo che un po' meno di bellezza e un po' più di cuore, non avrebbero guastato, anzi avrebbero reso più ragionevole il paragone.

Ho fatto un lungo discorso della marchesa di Roccanera, in primo luogo perchè le cose rare vogliono una più grande attenzione, e poi perchè la era l'unica donna che io guardassi molto, a que' tempi. Non l'amavo, e, come ho già detto, fuggivo le occasioni di accostarmi a lei; ma, poichè era bellissima, mi pareva che, veduta ad una ragionevole distanza, colorisse alla mia mente il tipo della donna; e in lei guardavo un tipo, non altro; consolavo un affetto d'artista, soddisfacevo ad una curiosità di studioso. Così, allorquando m'ero ristucco colle noie della vita giornaliera, me ne andavo a teatro, dove sapevo di trovar la marchesa, al davanzale del suo palchetto, nel suo solito posto, colle spalle rivolte alla scena; andavo a piantarmi ben lontano da lei, all'altro fuoco dell'elisse; e laggiù, confuso nella moltitudine, mettevo mano allo strumento di Galileo e investigavo il mio tipo, facendovi su ogni sorta di dotte considerazioni. Ero come l'astronomo che guarda una stella lontana nello spazio, ne misura il volume o la densità, ne arguisce la temperatura e tutte l'altre proprietà fisiche.

Da cotesto argomentate che cosa io facessi per l'appunto in quella sera donde piglia cominciamento la mia narrazione. Senza desiderio di lei, senza invidia del marito, senza fastidio de' cavalieri serventi, che facevano la dozzina come i segni dello Zodiaco, m'ero posto a contemplare la bellissima donna. Ella in quel momento, col gomito fermo, alzava ed abbassava in cadenza la mano, percuotendo leggermente il velluto del davanzale con un occhialino di madreperla, raccomandato all'anulare da una sottil catenella d'oro. Guardavo quella manina sottile che scherzava col suo gingillo meno prezioso di lei, e quel braccio che usciva, stupendamente tornito e stupendamente bianco, da un'onda di pizzo nero. Dal pizzo i miei occhi salivano all'omero ignudo (faticosa salita dove si sarebbe voluto far sosta ad ogni tratto, come su per gli scaglioni della piramide di Chèope), e dall'omero, considerata l'impervia dirittezza del collo, spiccavano un salto sul viso. La marchesa Bianca rideva; rideva pazzescamente, ascoltando certi complimenti che, col viso curvato a poca distanza dal suo, le andava sciorinando Eugenio Percy, seme forastiero trapiantato in terra nostra, uno dei più ricchi, dei più eleganti e dei più colti cavalieri di Genova.

Mentre io stava fantasticando di questa guisa, una mano posata sulla mia spalla e il suono di una voce nota, mi vennero a rompere il filo delle considerazioni. Erano la mano e la voce di Guido Laurenti.

—Sempre fermo al tuo posto di combattimento!—mi disse egli sorridendo.

—Sì, al mio posto, ma non già di combattimento, come tu dici. Io sono neutrale, come l'Inghilterra; e tu?

—Io! qui certamente più dell'Inghilterra e di te.

—Che vorresti tu dire, Laurenti? O perchè saresti più neutrale di me?

—Non guardi tu la Roccanera?—mi chiese egli.—Non è ella, per tua stessa confessione, la donna che tu guardi più volentieri da un pezzo?

—Sì, la guardo, e che perciò? È uno studio innocente il mio, e null'altro. Quella donna mi piace, come a te, naturalista famoso, un coleòptero dalle ali più vagamente screziate, o una bella conchiglia dell'epoca terziaria, e ne faccio argomento di studio. Poi, dove giungo io? Pianto forse una spilla nella tenera corazza del coleòptero, o porto la conchiglia nella mia stanzuccia? Tu lo vedi; mi contento a guardarla da lunge; piglio da lei quello che non mi potrebbe negare, che non desta la gelosia di nessuno, e che non mi costa la menoma fatica ad ottenere.

—Lassù,—rispose Laurenti—ce n'è un altro il quale vorrebbe qualcosa di più.

—Si serva, se così piace a lui e alla dama.

Laurenti stette un tratto senza rispondere, ma guardando sempre col suo binoccolo verso il palchetto della Roccanera; poi, seguendo il filo di un interno ragionamento, esclamò a bassa voce:

—Povera Luisa!

—Tu hai toccato il tasto;—soggiunsi.—Ma che vuoi, Laurenti? questi signori uomini sono tutti d'una pasta, o, per dir meglio, d'una mota. Le donne per fermo hanno ad essere migliori di noi; e non già perchè abbiano un altro sangue nelle vene, ma perchè più gelosamente educate. Del resto, la signora Luisa si consolerà anche lei, come tante altre.

—T'inganni, ideologo, e consenti che il naturalista t'insegni qualcosa. Ella è su d'un letto, sfinita, abbandonata alle cure prezzolate de' suoi servi, e senza un amico che la conforti, al capezzale. Intanto il signor Percy, la cagione di tutti i suoi mali, è qui, a fare il cascamorto presso quest'altra. Che te ne pare?

—Ah! se la è così, mi duole della Roccanera, che non capisce queste cose.

—Ella? O che vuoi che le ne importi? Tu che studi quel corpo celeste (e non si può negare che lo sia) hai forse trovato che abbia una densità centrale da potersi mettere in conto? In quel corpicino snello, il cuore non c'è che come un centro ai canali del sangue, ma non pretendere che faccia altro. Quelle, amico mio, sono donne incaricate da Dio dell'alta e bassa giustizia in materia di amore. Fanno pagare a certi uomini, in sospiri, angoscie d'ogni maniera, e talfiata anco in colpi di pistola alle tempie, i dolori, le angoscie, che essi hanno cagionato a lor volta. Laonde io penso che siano necessarie nella economia sociale, come tanti altri malanni, imperocchè, senza di loro, non ci sarebbe più giustizia in questo mondo per le donne tradite.

—Sono sconfitto, Laurenti; dò un calcio alla ideologia e mi metto a studiare di scienze naturali. Del resto, io non ho mai pensato che madonna fosse diversa da quella che tu la dipingi, e per giungere a cotesto non ho avuto mestieri di studiarla. In quanto a lui, fa la sua strada. Dieci anni di amore, dei quali bisogna contarne quattro di catena, gli hanno fatto sentire il bisogno di scuotere il giogo. Egli ha fatto come una delle tue crisalidi, dopo una troppo lunga dimora nel bozzolo.

—Egli è un tristo!—interruppe Laurenti.

—Un tristo? e perchè? qui posso darti lezione io, Laurenti. Questa che tu biasimi, è la natura dell'uomo, come della crisalide.

—Lo credi? Sarà: ma, dato il caso, a me pare di non essere di questa specie di animali.

La conversazione tirava al serio; Laurenti s'era fatto buio come un'imposta chiusa. Stava per cominciare il terz'atto dell'opera, e l'amico mi porse la mano, a mo' di commiato.

—Te ne vai?

—Sì, me ne vado.

—Aspettami, vengo anch'io.

—O che?—mi disse egli, accompagnando la frase con un sorriso ironico.—Non rimani a studiare la densità della tua stella?

—Ti pare? La m'è venuta in uggia maledettamente.

—Ma se lo dicevo io!—esclamò Laurenti.—E ci voleva tanto a persuadersene?

Ciò detto, Laurenti ficcò il suo braccio sotto il mio, e ambedue ce ne andammo a passeggiare all'Acquasola, facendo un dialogo scucito e malinconico, in continuazione di quello che ho riferito ai lettori.

II.

Chi ha conosciuto Guido Laurenti? E chi si ricorderebbe di lui, anco se io dicessi il suo vero nome? Nessuno, io credo; imperocchè egli era un giovine modesto, il quale non faceva parlare di sè, e il suo modo di vivere non attirava l'attenzione di alcuno; perchè se ne stava quasi solo ed aveva pochissimi amici, cheti e modesti come lui; perchè, finalmente, nel fatto delle relazioni sociali, quattro o cinque anni di assenza sono l'eternità, o poco meno.

Egli è sparito da Genova, e nessuno ha chiesto, un mese dopo la sua partenza, che cosa fosse avvenuto di quel giovine biondo, dallo sguardo e dal portamento severo, che si vedeva qualche volta per via; perchè lo si chiederebbe adesso? I due o tre che lo conoscevano un po' da vicino, sono dispersi anch'essi sulla faccia della terra; poi gli eventi molteplici e tempestosi di questi ultimi anni sono passati su di noi tutti, ed hanno cancellato perfino la sua pallida figura dall'albo delle ricordanze, fuggevoli come la impronta fotografica che non è stata anche fermata sul vetro dal…. aiutatemi a dire….. dal cloruro d'oro. Unico suo amico rimasto sulla breccia, e non immemore mai, so che c'era, perchè l'ho amato di molto; so che è andato via, perchè l'ho accompagnato alla calata del porto, dond'è partito per alla volta d'Alessandria d'Egitto, perchè ricevo spesso sue lettere, ed una or non è molto da Bombay, nella quale mi dice che certamente non tornerà più in Europa.

Ell'è una storia semplice, la sua; è la storia di un gentil cuore, ed io amo raccontarvela, perchè onora la specie umana, la quale, pigliata in complesso, si disonora tanto al cospetto di Dio, con tutte le sue ire ingenerose e i suoi ignobili amori.

Guido Laurenti era l'ultimo rampollo di una ricca famiglia della Liguria occidentale, il che è quanto dirvi che era ricco egli stesso; ma, più assai che di danaro, era ricco d'ingegno e di nobiltà di carattere. Non pativa difetto di nulla per essere noverato e celebrato tra i primi; ma non gli andava a' versi, e se ne stava da sè, vivendo alla cheta, con pochi amici e molti libri, che sono i migliori amici del mondo.

Quando io lo conobbi, egli dimorava in una di quelle gaie viottole, così frequenti a Genova, dove la montagna, disposta ad anfiteatro, manda verso il piano tante collinette digradanti. Le piccole valli sono diventate, o diventano, larghe e magnifiche strade: su per le colline laterali s'inerpicano le viottole, tra muri di giardini e di ville, e fianchi di palazzine gelose. Ora io non dirò in quale di tante viottole dimorasse Laurenti; indovinate, tra quelle di S. Gerolamo, dei Cappuccini, di S. Bartolomeo degli Armeni, e qualchedun'altra lì presso.

La casa era piccina; due piani, con sei camere per ciascheduno; dipinta da fuori di colore aranciato, che era una vaghezza a vederla; uno dei lati coperto, fino al cornicione del pian di sopra, da una spalliera di gaggia e di gelsomini; al pian terreno la sala, il salotto, il tinello, la cucina, la cameretta del servitore e quella di una vecchia fante, o cameriera che fosse; al pian di sopra la camera da letto, lo spogliatoio, la biblioteca, e tre camere per gli ospiti di Laurenti, che erano coleòpteri, lepidòpteri, uccelli, pesci, rettili impagliati, conchiglie, denti ed altri avanzi di animali e piante fossili.

Imperocchè, già lo sapete, studio prediletto e passatempo di Guido Laurenti era la storia naturale. Egli aveva incominciato colla botanica e colla entomologia, scienze vicine di casa, come è vicino l'insetto al fiore, ma era presto salito per tutti gli altri rami delle scienze naturali. Non si è appassionati cultori della flora, senza darsi anche allo studio della fauna, nè dell'una e dell'altra, viventi, senza correre alle estinte, le cui forme sono eternate nel grembo della terra. Gli è uno studio che affascina, e accade allo studioso come a quel tale cacciatore della leggenda, che fu condotto dai voli di un merlo fantastico da un capo all'altro d'Europa. Dalla osservazione della natura in tutti i suoi grandi periodi, nasce il desiderio di approfondire le origini. L'antichità della terra, scritta in vaste pagine stratiformi, conduce difilati al problema della costituzione della materia, a quella sostanza vaporosa che turbinò un giorno nello spazio, agitando e rassodando in sè medesima tutti i germi delle cose. Per tal guisa, di naturalisti si diventa astronomi; si corre di analogia in analogia, di ipotesi in ipotesi, a bisdosso delle comete; si naviga da Marte ai pianeti telescopici, da Giove a Saturno, a Urano, a Nettuno, e si è balestrati fuori del sistema solare a investigare i segreti della Via lattea. La scienza è una grande catena; la cellula che forma il tessuto organico del microscopico infusorio e le sterminate migliaia di mondi che si riflettono in un cantuccio di lente del vostro telescopio, sotto la pallida forma di una nebulosa, sono i due capi della catena, che ambedue si saldano nell'infinito, nello infinito dove l'anima, sbigottita dapprima, vacilla e dubita di sè stessa, poi confidente si addorme.

Guido Laurenti era tutto a questi studi geniali, alternando le materie, e la teorica colla pratica. Mattiniero come le lodole, dava le prime ore alla botanica del suo giardino, volonterosamente inchinandosi a tutti gli uffici del perfetto giardiniere. Sarchiava, innaffiava le sue aiuole, potava i rami, curava le margotte, maritava le viole e i garofani, creava nuove famiglie di tulipani, fantasticava le camelie azzurre. Poi ordinava in battaglia sempre nuove legioni di scarabei, di farfalle e d'altre minute bestiuole, a complemento delle sue collezioni; perdeva le ore intorno alle antenne di un grillo, alle alucce di una libellula, con una sollecitudine, con una pazienza da scienziato tedesco.

E adesso i lettori benevoli non me l'abbiano in conto di un arido professore, di un pedante noioso. Già, le scienze naturali sono lo studio di chi ha cuore, e giovano a serbargliene la nativa freschezza. Nell'involucro dell'entomologo e del botanico, come dell'astronomo, c'è sempre il poeta, giusta il più profondo significato della parola. So bene che cotesto sembrerà un paradosso a molti, pei quali il sentimento, fior di poesia, sta tutto e si mostra nel passeggiare a caso, colla testa in aria e gli occhi svagati, nel contorcersi a teatro per un gorgheggio di soprano, nel far la cera languida ad una donna e susurrarle settenarii, e sopratutto poi nello aver ribrezzo d'ogni cosa materiale. Un uomo il quale applichi l'algebra a quelle stelle lucenti che piovono una luce sì tepida sui nostri amori, o dia un nome semibarbaro e latino, per amore di classificazione, a que' bei fiori che noi offriamo, insieme coi rilievi del nostro cuore, alle dive della ribalta, non può essere che un pedante, un arnese da museo, un tomo in folio che manda odore di rinchiuso, cinquanta passi discosto.

A costoro basterebbe rispondere che il più gran poeta del secolo, Goethe, è stato uno scienziato di vaglia, e lo studiare di chimica non parve disdicevole al creatore di Margherita e di Werther. Uno scrittore francese, e dei più originali, fa ancora, io credo, il giardiniere a Nizza, ed è tanto superbo di aver dato il nome ad una nuova varietà di camelie, come di averlo stampato, a molte migliaia di copie, nelle storie di Sous les tilleuls e di Fort en thème. Non gli è dunque vero che lo studio della natura inaridisca la mente. Egli è per l'appunto nello indagare la vita dei minimi che si aguzza lo ingegno alle più sottili analogie, e si fa la mano a tutte le varietà degli umani sentimenti. Gli amori misteriosi delle piante, le simpatie che governano il mutamento dei colori nei petali della viola del pensiero, o della camelia, iniziano meglio d'ogni altra cosa al segreto lavorìo delle passioni. La scienza non apparta dalla umanità, e da nessuna delle sue ineffabili consolazioni. Chi sa come sia formato il microscopico rotifero, che vive in una goccia d'acqua, che si dissecca e muore con lei, pronto a rinascere alla prima stilla che inumidisca la inerte materia, può spesso divinare gli arcani patimenti del cuore, e la potenza dei rimedii infinitamente piccoli sulle piaghe più grandi.

La casa di Laurenti, il giardino e il terrazzo (loggiato al pian terreno e terrazzo di sopra) erano dunque un tempio della scienza. Egli era sempre lassù; salvo qualche visita al Museo dell'Università, dove andava a studiare con Lessona, e le gite autunnali dei monti, egli usciva di rado dal suo nido. Faceva pochissime visite, e non avea altra distrazione che il teatro Carlo Felice, perchè amantissimo della musica.

E il cuore?—chiederanno le lettrici.—Giovane, come voi dite, non amava egli? Tutto quel piccolo mondo di intelligenza e di gentilezza non era avvivato, riscaldato dalla presenza di una donna?

III.

No, la donna non c'era; ma, poichè racconto ogni cosa, non posso negare che c'era stata. Laurenti aveva ventott'anni, come mi pare d'avervi detto, e se non ve l'ho detto, sappiatelo adesso; ora e' non si giunge a quell'età senza aver sentito almeno una volta le trafitture dell'arciero bendato.

Quello di Laurenti era stato uno di quegli amori poggiati sul falso, tormentosi come un cattivo sogno, che toccano talfiata, acerbo tirocinio del cuore, ai giovinetti inesperti. Egli s'era a diciott'anni invaghito di una donna, non bella davvero, ma che pareva ed era celebrata bellissima, come tutte quelle che sanno far risaltare qualche fisico pregio con arte maravigliosa, lo circondano di svenevolezze, parlano al cuore dei riguardanti coi sogni che lasciano concepire, colle speranze che lasciano nascere, o che coltivano quotidianamente, colle vaporose malinconie, coi sorrisi, tenendo gli adoratori in un'aria impregnata d'acque nanfe e di arabici profumi. Le quali cose, accortamente vestite di seta o di velluto, accomodate con vezzi di perle e diamanti, vi creano di punto in bianco la regina delle donne, in quel regno effimero, che dura molto, solo perchè si mutano e si rinnovano i sudditi.

Costei, ch'io ho conosciuto al pari di Guido Laurenti, aveva sudditi molti, seguitata, corteggiata, adulata, e perciò senza un micino di cuore. La donna che è centro di molte adorazioni è stata paragonata al sole in mezzo ai pianeti; ma in verità io non conosco immagine più falsa di questa, sebbene tutti l'adoperiamo sovente. Quella apparenza estrinseca che ha giovato a rendere accetto il paragone, anche qui è fallace come in altre cose moltissime. Sta bene che una di cosiffatte regine da salotto e da teatro dia l'immagine del sole, e i suoi adoratori appariscano altrettanti pianeti, i quali fanno la loro brava rivoluzione intorno a lei, sempre attratti nella sua orbita e tenuti in riga del pari. Ma guardate per bene oltre la scorza dell'apparenza e vedrete che il paragone non corre più. Il sole attira i pianeti, dà loro la luce e il calore, fa germogliare le piante, produce la temperatura, che è condizione di vita ad ogni organismo, fa godere, amare, vivere insomma. Che fa, in quella vece, una delle donne di cui si ragiona? Dà luce, calore e vita ai suoi pianeti? No certo; ella non spande nè luce, nè calore, nè vita; tutto riceve da essi, e non rende mai nulla. Gli adoratori sono altrettanti fuochi che l'hanno tolta per centro, che la irradiano, la riscaldano, o tentano riscaldarla. Tentano, notate bene, tentano! Invero quella levigata superficie si riscalda un tratto; la prima crosta, l'epidermide, sente il frizzare di quelle lingue fiammanti; ma il centro, il nocciolo dell'astro maggiore, è un gelo eterno, e ogni alito infocato che giunge fin là, si converte in ghiacciuolo. Quei pianeti che danzano intorno a lei, come le mitologiche Ore intorno al Tempo, le dicono che essa è bella, che è adorata, che il suo regno è felice; raggiano verso di lei con tutta la potenza della gioventù e della passione; essa non riverbera nulla, è un corpo opaco, e le rare fosforescenze che a volte ella sprigiona, simulando la luce e il calore, non giungono neppure ai poveri pianeti; le gode qualche cometa, che viene turbinosa dalle profondità dello spazio a descrivere la sua curva violenta vicino a lei, per dileguarsi da capo.

Ad una di cotai donne aveva dato il mio Guido le primizie de' suoi affetti soavi. Novellino agli inganni, aveva fatto la sua scuola, e bisogna soggiungere, ad onor suo, che mai scuola tornò più profittevole di quella. Egli è dato cadere in trappola così agli accorti, come agli sciocchi; senonchè gli sciocchi vi rimangono, e gli accorti se ne cavano fuori. Ora, Laurenti, quantunque non senza difficoltà, nè senza danno, se n'era cavato; aveva patito, ma alla guisa delle anime forti, e non lo avea fatto scorgere. Il futuro entomologo aveva (condonatemi la frase) dato di piglio al suo cuore infermo; lo aveva aperto, arrovesciato e strizzato, per ispremerne fin l'ultima goccia d'umor guasto; poi, rasciutto, lo aveva rimesso a posto e s'era dato anima e corpo allo studio, gran rimedio alle anime affannate.

Ecco perchè non c'era nulla nel cuore del giovine naturalista; ecco perchè non c'era un'immagine di donna negli arcani penetrali della sua vita operosa.

Santa quiete dell'anima! Come il filosofo di Orazio, ma non disutile, nè paganamente beato come lui, Guido Laurenti se ne stava nella sua solitudine, monaco di un ordine nuovo, senza un espresso voto di verginità, e senza desiderio di infrangerlo. I nobili cuori hanno di cosiffatte calme, come i grandi mari; e stanno allora, le vele penzoloni, aspettando le etèsie.

Ma un giorno (allorquando si racconta, e' bisogna sempre giungerci, a questo benedetto ma e a questo benedetto giorno), egli avvenne che Guido Laurenti facesse una piccola variante nelle sue consuetudini giornaliere. Egli soleva dedicare la mattina al suo uffizio di giardiniere, e il pomeriggio alla passeggiata; ma quel giorno, dopo il desinare, per non so quale ragione, si trattenne in casa, e in cambio di andare alla sua solita gita, scese in giardino e andò a sedersi con un libro tra le mani, a quel posto dove era uso sedersi la mattina, dopo avere inaffiato i suoi fiori.

Qui cade in acconcio uno scampolo di descrizione. Il giardino di Laurenti era una lista di terreno, che correva per forse cinquanta metri lunghesso la collina, e dal lato della scesa era sostenuto da uno spesso muraglione, del quale ogni acquaio, ogni screpolatura, alloggiava un cespo di semprevivi, di capperi o d'altre pianticelle di facile contentatura. A' piedi del muraglione si dilungava comodamente una conserva di piante esotiche, ultimo lembo di un vasto giardino, anzi di una villa signorile, che andava a far capo ad una palazzina gialla, il cui piano superiore e il tetto rilevato a quattro acque, col suo parafulmine in cima, si vedevano sbucare da una selva di magnolie e di allori. Intorno a quella palazzina era il vero giardino, con ogni maniera di fiori; e tra il giardino e il muraglione saliva dolcemente una larga prateria, qua e là seminata di fiori disposti a canestri, di salci, larici pigmei, e tutta corsa da stradicciuole sabbiose che serpeggiavano per ogni verso, fino alla conserva anzidetta.

Quel giardino era sempre stato argomento d'invidia pel nostro botanico. Ogni mattina, dopo aver curato i suoi fiori, egli andava a sedersi sul ciglio del muraglione, e contemplava quell'orto delle Esperidi. Misurava la vastità di quel terreno coltivato, così difficile a trovarsi nel centro della città, paragonandola coi pochi metri del suo giardino pensile, e stava guardando lunga pezza, con fanciullesca attenzione, i lavori di quel beato giardiniere che aveva spazio così largo da albergare tanta varietà di magnifiche piante della flora dei tropici.

Il luogo dove il nostro botanico andava a sedersi, era presso un olmo di smisurata altezza, appartenente al giardino inferiore, ed ultimo avanzo di un lungo viale che era stato disfatto, per cedere il campo alla prateria. Quel malinconico superstite di una rigogliosa dozzina di olmi, sacrificati alla moda britannica, saliva co' suoi rami più su del giardino pensile di Laurenti. Il muraglione, per tutto quel tratto, era coperto di edera, e i lettori già capiscono che cosa ne avvenne; che cioè l'edera, come una donna innamorata, aveva un bel giorno gettate le sue braccia al collo, vo' dire al tronco, dell'albero maestoso. Amplessi tenaci, che si ripeterono in breve su per i rami, producendo tra l'albero e il muro una sequela di pittoreschi festoni e una lieta figliolanza di neri corimbi. Marito e moglie, era una vaghezza a vederli. Non curante della proprietà altrui, smesso perfino quel ritegno naturale che vieta alla donna di fare il primo passo, l'edera s'era maritata, e Dio misericordioso aveva benedette le nozze. I rispettivi proprietarii, che non s'erano accorti degli amoreggiamenti, non si vollero riscaldare il sangue quando il pateracchio fu fatto, e la prescrizione passata. Poi, la consuetudine di vederli uniti (e vi so dir io che facevano assai miglior figura di certi matrimonii) fu tale, che allorquando il proprietario di sotto fu per atterrare i due filari di olmi del suo viale all'antica, non gli diè l'animo di far mettere la scure sull'ultimo albero, e di vedovare quella tenera, quantunque assai nodosa, consorte.

Per amore di verità debbo dirvi che egli non ci si piegò tutto ad un tratto, e stette anzi in forse per qualche dì. Ma finalmente vinse la pietà, e, più ancora che la pietà, il pensare che in fin de' conti quell'olmo era l'ultimo del viale, che era molto accosto al muraglione, e in quella che sarebbe rimasto come una rarità, non avrebbe fatto impedimento, nè sconcio.

IV.

Colà dunque, sul ciglio del muraglione, dov'era anche un sedile di pietra addossato al murello, andava a sedersi Laurenti, nell'ora in cui il giardiniere di sotto girava attorno alle sue piante e le ripuliva dai pericolosi baci della rugiada, con larghi spruzzi d'acqua del suo anaffiatoio, innanzi la levata del sole.

Il vedersi ogni mattina, l'uno giù e l'altro su, aveva recato una certa dimestichezza tra Guido e il giardiniere. L'uno signore, l'altro bracciante, s'erano indovinati i medesimi affetti nelle medesime occupazioni; ma non avevano impreso ancora a discorrere insieme. Il giardiniere, quando giungeva col suo anaffiatoio e col suo sarchiello fino alle ultime aiuole, nel vicinato dell'olmo, alzava il naso verso il sommo del muraglione, donde gli sorrideva il viso biondo del giovine signore, rischiarato dai primi raggi del sole, e metteva la mano al cappello. Laurenti rispondeva al saluto con un grazioso cenno della mano o del capo, e la conversazione era finita.

Egli per tal modo non aveva mai chiesto di chi fosse la villa; il caso non l'aveva mai condotto a udire il nome del padrone, e, non affacciandosi colà che di buon mattino, mai berretta di velluto ricamata d'oro, mai veste serica tra i meandri fioriti, mai corsa chiassosa di allegri fanciulli sul prato, aveva rivelato a Guido Laurenti gli abitatori di quella palazzina gialla, il cui tetto rilevato a quattro acque sbucava, là in fondo, da una selva di magnolie e di allori.

Ma un giorno (ripiglio finalmente il mio ma e il mio giorno) Laurenti ruppe la consuetudine, e andò nel pomeriggio a sedersi presso la sua edera e presso l'olmo dei vicini.

Mai giorno di primavera era stato così serenamente bello; mai raggio più tiepido di sole aveva svolte per l'aria, in sottilissime vaporazioni, le fragranze dei fiori. Bei giorni, momenti beati, nei quali l'uomo, penetrato da quei raggi di sole, rallegrato da quelle fragranze, si sente vivere con voluttà, dimenticando un tratto la grave molestia dell'esser nato!

Guido aveva un libro tra mani, l'Eneide di Virgilio; un libro di scuola, che aveva tradotto da capo a fondo sulle panche di prima Umanità, e che però non avea più da leggere per amor di novità, ma che amava pur di leggicchiare a spizzico, nelle ore di ricreazione. E già, sostenuta insieme con Enea quella brutta burrasca suscitata dal consiglio di Giunone, egli aveva dato fondo nella rada di Tunisi, o poco presso, e andava a caccia su per la costa, prevedendo l'apparizione della cacciatrice divina che lo avrebbe fatto andare bel bello fino alle porte di Cartagine.

Senonchè, per effetto di distrazione, egli s'era fermato a mezza strada. Faceva quattro esametri di viaggio, e poi si baloccava a veder volare una mosca. I balsamici effluvii, il tepore dell'aria, il cheto remeggio di una nuvoletta rosea nelle diafane lontananze dell'orizzonte, quei raggi obbliqui che andavano a rifrangersi sui vetri delle finestre e sulle banderuole dei tetti circostanti, lo distoglievano ad ogni tratto dal primo libro dell'Eneide. Si rimetteva a leggere alcuno di quelli esametri divinamente armoniosi, scandendone a voce sommessa i melodici numeri (i latinisti che mi leggono capiranno benissimo questa voluttà delle voluttà), ma al primo rompersi del periodo in un emistichio del verso seguente, egli ricadeva subito nella sua contemplazione.

Gira, rigira, di fermata in fermata, gli occhi di Laurenti erano andati a posarsi su d'un bel pino domestico, che sorgeva nella villa sottostante, come una rarità di vegetazione; dio Termino piantato sull'estremo lembo della prateria, accanto al sentiero maestro che andava a nascondere i suoi meandri tra le magnolie del giardino.

Quel pino lo condusse a pensare alla casa paterna e ai felici giorni della prima adolescenza, allorquando suo padre lo faceva alzare per tempissimo per averlo compagno alla caccia, ed egli, sebbene non gli andasse a' versi quella maniera di passatempo, era lieto di correre su pei monti insieme con suo padre, di aiutare il rustico servitore a portar le gabbie degli uccelli di richiamo, le verghette di ferro e la pania da distendervi sopra.

Colà, sul ciglio di una costiera piantata di piccole roveri, un grosso pino segnava il cominciamento di una nuova regione vegetale. Di là passavano a stormi i pellegrini dell'aria, i fringuelli, i cardellini, le cingallegre, i fanelli; e là, disposta ogni cosa per bene, le verghette impaniate tra i rami dell'albero, i richiami tra i cespugli, ambo ascosi in un cappannuccio di frasche, attendevano il passaggio degli spensierati, che, attratti dal canto traditore dei compagni prigionieri, venivano a dar ne' panioni, donde non c'erano santi che potessero cavarli.

Il santo era qualche volta Guido Laurenti, cioè quando il padre suo si partiva di là, lasciandolo solo nella tesa. L'adolescente non pensava più agli uccelli. Accoccolato nel suo nascondiglio, col viso appuntellato sulle palme, e gli occhi nel vano dell'apertura, stava fantasticando una vaporosa forma di donna; vedeva la castellana, o la fata dei luoghi, scendere dalle rovine di un antico maniero e sedersi ai piedi di quel pino, e sè medesimo, nobilmente vestito di velluto, con le calze divisate di bianco e di rosso, il giustacore serrato ai fianchi, una berretta piumata capricciosamente posta a sghembo sui biondi capegli, stare a' piedi di quella gran dama, baciarle per tutti i versi quella mano bianca ch'ella gli aveva abbandonata tra le sue, e canticchiarle la sua prima ballata d'amore.

Il dar d'uno sciame di lucherini nell'albero, lo sbatter dell'ali che sempre più si invescavano sulle verghette fallaci, il pigolare doloroso dei poveri pennuti, lo risvegliavano dalla sua estasi. Sbucava sollecito dal suo capannuccio, si arrampicava sull'albero, e andava a spiccare i tapinelli, badando a non strappar loro le penne maestre; ripuliva dal vischio le loro graziose zampine, e li rimandava con Dio, in nome di quella bellissima dama che era sparita pur dianzi.

Poco stante capitava il babbo.—Orbene, non c'è stato nulla?—Nulla, babbo; uno sciame di lucherini ha dato nei rami, ma la pania non teneva e non ho fatto a tempo per coglierli; se ne sono volati via.

E il babbo, che notava i piumini sulle verghe e la buona presa del vischio, a non credere un'acca dei discorsi dell'adolescente, a sgridarlo un tratto, ma compiacersi in cuor suo delle invenzioni del figlio, pur promettendo che non l'avrebbe più condotto ad uccellare con lui.

Bei tempi, bei tempi! e chi non ha di somiglianti memorie, piccoli quadri dell'adolescenza, che si richiamano, si ridipingono e s'incorniciano tra le meditazioni dell'uomo adulto, belli di quella velatura ineffabile che distende sovr'essi la lontananza degli anni?

Ed ecco come la vista di quel pino, sull'ultimo lembo della prateria sottostante, faceva fantasticare Laurenti, seduto presso il suo muraglione, colla sua Eneide tra mani.

L'illusione delle circostanze era perfetta; non ci mancava neppure la castellana.

Essa era laggiù, com'egli l'aveva sognata adolescente. Capelli neri e morbidi, chiusi in una reticella di filo d'oro, le cui larghe maglie non ne scemavano la lucentezza; la persona svelta e di graziosi contorni, a cui aggiungevano maestà e leggiadria le molli pieghe di una lunga veste di seta cenerognola e uno sciallo rosso di Persia, lavorato a fogliami, negligentemente raccolto intorno alla vita.

Alla distanza in cui era, non si poteano distinguere i lineamenti del viso, ma s'indovinavano regolari e bellissimi, al soave effetto che facevano da lunge. L'ovale un tal po' allungato di quella faccia, la carnagione bianca, pallida come di una bella morente, richiamavano alla memoria una di quelle madonne in cui il pennello di Carlo Dolci ha così mirabilmente accoppiata, compenetrata quasi, la bellezza col patimento della materia, di guisa che il rimirarle vi sveglia ad un tempo la voluttà negli occhi e l'angoscia nel cuore.

Laurenti rimase estatico a quella vista, senza sapere se vedesse da senno, o se per avventura non fosse quella una continuazione delle sue ricordanze giovanili. Poi, come avviene per simiglianti immagini del passato che fanno insieme tenerezza e sgomento, si sentì sopraffatto, e si fe' scorrere una mano sul fronte, quasi sperasse in tal modo dileguar dalla mente la diletta visione. Si provò a ripigliar l'Eneide e proseguir la lettura; ma il primo emistichio che gli cadde sott'occhi «Et vera incessu patuit Dea» non fece altro che richiamarlo all'argomento della sua contemplazione, e ricondurgli lo sguardo sotto quell'albero di pino.

La dea era pur sempre colà, innanzi agli occhi suoi, dea al volto, al portamento, all'incesso. Ella era tuttavia sotto l'ombrello del pino, ma veniva lentamente in su pel sentiero sabbioso, la testa un tal po' reclinata sull'omero, come persona stanca, una mano al seno sui capi dello scialle, che senza quel ritegno sarebbe caduto, mentre l'altra, che si potea scorgere da lontano bianca e sottile, penzolava mollemente lungo le pieghe della veste fluente.

Non era quella un'illusione per fermo. Il giovine meravigliato richiuse sull'indice le pagine aperte del libro e rimase intento a guardare la bianca apparizione. Per la prima volta dacchè dimorava lassù, egli vedeva qualcheduno, oltre il solito giardiniere, nella villa sottostante. La divinità misteriosa di quel tempio era là, pallida, sfinita, ma bella, come la principessa della favola, chiusa da un incantesimo di mago geloso in un castello dalle mura di diamante.

La pallida signora si muoveva lentamente su pel sentiero, dando un'occhiata, ora a questo, ora a quello dei fiori delle aiuole circostanti. Ella si soffermava spesso, non tanto per guardarsi dintorno, come da lunge pareva, quanto per aspirare a labbra socchiuse (labbra di pallido corallo!) quell'aria tepida e ristoratrice. Appena ella fu presso ad un sedile di ferro dipinto, vi si lasciò andare la persona, come se fosse stanca oltremodo della via; adagiò gli omeri contro la spalliera, e rimase inerte, colle dita intrecciate, le braccia prosciolte, e gli occhi languidamente rivolti verso il sole, che si nascondeva allora dietro i monti d'Arenzano.

Anch'ella, povera bella, fantasticava; ma, più infelice di Laurenti, ella soffriva, e le memorie che le tornavano in mente non erano punto liete, nè caramente malinconiche, come quelle del giovine naturalista.

Venne la notte, ed ella era ancora sul suo sedile, nella istessa postura; Guido medesimamente fermo a guardarla, coll'indice tra le pagine del libro.

L'ultimo filo di luce del crepuscolo rischiarò la doppia comparsa del giardiniere che andò a dar la mano alla signora per ricondurla nella palazzina, e del servitore di Laurenti che, temendo non s'infreddasse, da quell'uomo prudente ch'egli era, portava il cappello per coprir la testa al padrone.

V.

Un nuovo e più vivace elemento entrava nella vita di Guido Laurenti. Era una bella e nobile vita la sua, intelligente, studiosa, operosa, e si disponeva acconciamente a diventar feconda d'intendimenti generosi. Ma il calore non c'era; non c'era quella tal cosa che fa dire col poeta latino: «spiritus intus alit». Egli era, se posso giovarmi del paragone, come un bel disegno senza colore, o come un bel paese senza luce, il che poi torna lo stesso, imperocchè i colori non sono che le sette persone di quella santissima Settenità. Ora, quel nuovo elemento era come l'alba che rischiara il paese, facendolo nuotare dapprima in una vaghissima nebbia, tinta a gradi con tutte le più soavi temperanze della tavolozza dell'iride, e dandogli da ultimo que' toni più giusti, que' lumeggiamenti ricisi, che fanno risaltare ogni cosa in tutta la sua schietta bellezza, colla debita osservanza a tutte le leggi della prospettiva.

Tutte queste belle cose, che io dico del resto così male, non le disse a sè stesso, nè mal nè bene, il mio giovine protagonista. Egli non fece esame di coscienza allorquando, dopo aver pigliato il suo cappello dalle mani del servitore, stette ancora un pezzo immobile a guardare colà dove la bella gentildonna era sparita nel buio della sera, e non pensò neppure a farlo, quando con passi lenti e misurati rifece il viale del suo giardino per tornarsene in casa.

A che cosa pensava egli, mutando i passi dell'uomo pensieroso? A nulla, proprio a nulla. E del pari senza pensare a nulla, entrò in casa, appiccò il cappello alla prima gruccia del cappellinaio, e andò svogliato a sedersi su d'un divano del suo salotto.

Per la prima volta dopo dieci anni si sentì senza desiderio di metter mano a cosa veruna; se il servitore, vedutolo entrare colà, non si fosse affrettato ad accendere la lucerna, egli non avrebbe pensato a chiedere un po' di lume. E non pensava a nulla, non gli veniva neppure in mente di chiedere a sè stesso il perchè non pensasse a nulla.

Si alzò, e poichè si vide dinanzi il cembalo, andò a sedersi alla tastiera, su cui non metteva le dita da parecchi mesi, e accesi i torchietti, si fece a suonare quella stessa musica che vide squadernata sul leggio. La era una mazurka, ed egli suonò la mazurka; poi diede di mano ad un altro quaderno, e suonò quel che c'era, dalla prima all'ultima nota, senza nemmanco badare al genere del pezzo. Senonchè, la era musica in minore, e il minore è come le ciliegie, che una tira l'altra; e Guido Laurenti, senza metter mano ad altri quaderni, suonò una infilzata di romanze malinconiche, andando da ultimo a immorbidirsi in quella famosa del Verdi: «Quando la sera, al placido» con tutto quello che segue.

L'amore entrava, come i lettori vedono: c'era già la sera, e il placido chiarore del cielo stellato.

Egli tuttavia, ripeto, non ne sapeva nulla, e continuava a suonare come se fosse stato quello lo studio e il passatempo di tutte le sere, in cambio della Trasformazione delle specie di Darwin, o del Cosmos di Alessandro Humboldt.

Così del resto avviene mai sempre. Se l'uomo al primo mutar dell'aria fosse sollecito a mettere la sua brava flanella, non ci sarebbero più reumi nè bronchiti. E se ai primi segni di una simpatia, ma proprio ai primi, un uomo assennato facesse il suo esame di coscienza, pesasse il pro e il contro sulla bilancia, i rischi e i guadagni, io metto pegno che non andrebbe più innanzi. Ma, passano due giorni, e la flanella non è giunta a tempo per isviare la tosse; passano cinque, e i gagliardi propositi non custodiscono più dai colpi di un affetto veemente. La malattia è nei bronchi; la passione è giunta al cuore, e arrivederci col senno di poi!

Il primo pensiero di Laurenti (gli era proprio tempo che tornasse a pensare!) fu per la gentildonna veduta pur dianzi; ma era un pensiero innocente, naturale come la curiosità, legittimo come la compassione del prossimo. Ed ecco poi in che forma logica gli si dipanò nella mente, in quella che stava seduto al cembalo, cogli occhi sopra uno dei torchietti accesi:

«…..Povera donna! mi pareva molto stanca. Che male avrà? Era bianca come la cera intorno al lucignolo, e liquefatta del pari. Che la sia offesa nei polmoni? Sì certo; son queste le malattie in apparenza più dolci, che uccidono a gradi, e non c'è bisogno di starsene inchiodati in un letto per sentirsi morire. Si sfiaccola come questa candela; ci si rimette ogni giorno uno strato di vitalità; si ama sempre più la luce, il calore, quanto più vanno mancando di dentro; poi, la cera liquida, giunta all'ultimo strato, si riversa nella padellina, il lucignolo si abbatte, stride, e buona notte!

«Povera donna! Ma perchè non cura la sua salute? Le son malattie da badarci per bene. I medici le hanno sentenziate insanabili, poichè essi guardano alla interna rovina di un organismo e non alle cause morali che la guidano, come soprastanti alle opere di demolizione. Questi mali s'hanno a pigliare anch'essi pel loro verso; vuolsi curar l'anima in pari tempo del corpo. È ci vuol altro che olio di fegato di merluzzo! S'ha da svagare il malato, fargli mutare sensazioni, mutando paese, e via via. La dama è ricca. A quella palazzina e a quel magnifico giardino dee rispondere un largo censo. Perchè si lascia sgretolare a quel modo dal male!

«Chi sa? forse la ci avrà le sue millanta ragioni a non muoversi. Si è a volte legati in un paese con funi di canape, a volte con fili di seta… che tengono assai più forte del canape. E invero un marito non può essere impedimento a fare quello che la cura del proprio corpo consiglia; laddove un amante… Un amante! e perchè?…»

La supposizione dell'amante non pareva gli andasse molto a' versi. La masticò un tratto fra i denti, quindi balzò in piedi con piglio d'insofferenza.—Vadano in malora gli amanti!….. esclamò.—E le amanti!—soggiunse, ma più sommesso, come chi senta di dire una mezza bugia a sè stesso. E uscito dal salotto, andò a cangiar vestimenta, zufolando (egli che non zufolava mai); quindi uscì, dopo aver detto al servitore che sarebbe tornato tardi, poichè andava al teatro Carlo Felice; e uscì zufolando pur sempre.

Quella per fermo era serata di musica!

Il teatro Carlo Felice quella sera aveva faccia di legno. Laurenti, il quale non s'era più ricordato d'essere in lunedì, se ne addiede come fu alla porta; ma non se ne dolse; che anzi! Egli aveva detto al servitore e a sè medesimo che andava a teatro, soltanto per dire qualcosa, e gli parve una ventura di dover appiccare la voglia all'arpione.

Ha mai pensato il lettore che siamo sempre in due, dentro di noi, o, per dir meglio, che il nostro noi è composto di due persone, che una vuole e l'altra disvuole, e quella che vuole o disvuole più tenacemente non è sempre la prima per ragione di dignità? Egli avviene spesso nel nostro interno come un dialogo, un battibecco inavvertito, una sorda puntaglia, e le gambe e le mani nostre non eseguiscono sempre i comandi della parte più autorevole. La parte seconda, che è la materia, l'istinto, o quel diavolo che vorrete, pensa anco lei, e talfiata ragiona anche meglio dell'intelletto; testimone il fatto degli ubbriachi che non si rompono mai il nomine patris, e trovano sempre la toppa dell'uscio di casa, senza mestieri del lumicino della ragione.

Ora, uno dei due contendenti voleva che Guido andasse a passeggio; e fu proprio quello che si rallegrò nella mente sua, quando il capo di casa trovò chiuso il teatro.

Laurenti se n'andò dunque girelloni per la città, ma con una spasimata voglia di salire. E fu di tal guisa condotto per una strada larga, nella quale non si vedeva anima viva, e che egli per conseguenza potè popolare di morti a sua posta, vo' dire delle sue ricordanze giovanili, delle care imagini de' suoi parenti, e perfino de' suoi compagni di scuola, allorquando pigliava i primi granchi nel mare del sapere, chiamando le lettere dell'alfabeto con nome sempre diverso da quello che avevano avuto, dai Pelasgi fino al tempo presente.

Erano, in fin dei conti, innocentissime meditazioni, e non c'era nulla a ridire. Ma chi avesse potuto (come fa il lettore dietro la scorta di un minuto racconto) notare le speculazioni di Laurenti dal ciglio del muraglione, e scorgere nel suo soliloquio accanto al cembalo il germe di una simpatia per la signora della palazzina gialla, avrebbe anche notato che quella strada nella quale era ito a meditare, andava per l'appunto a far capo, indovinate dove! alla palazzina gialla.

Per la chiusa del primo giorno, non c'era male davvero!

VI.

Il giorno seguente, mattiniero come al solito, il giovine botanico si diede tutto alle sue piante, e proseguì la sua opera di giardiniere accurato fino all'ora dell'asciolvere. Dopo i fiori, stando alle consuetudini, avrebbero dovuto venire gl'insetti; ma per quel giorno gl'insetti non ebbero molestia, e i trattati di entomologia dormirono sugli scaffali.

I fiori, poveretti, avevano sempre bisogno di qualche cosa; e in particolar modo quelli che stavano sul murello, sull'ultimo lembo del muraglione, che riusciva meno discosto dall'albero di pino. Laggiù c'era sempre qualche pianticella da curare, qualche mala erbuccia da sterpare, qualche ramo da tener ritto.

Tra questi lavori giunse l'ora del pranzo; poi giunse la sera. E sull'imbrunire, quando tacciono i mille rumori confusi del giorno, quando le fragranze delle erbe e dei fiori salgono come una vespertina preghiera della natura verso il cielo azzurro, una bella rosa di Torino e un magnifico garofano, che stavano vicini su quell'ultimo lembo del muraglione che ho detto, se avessero avuto parola umana, avrebbero fatto udire una conversazione curiosa. E' la fecero invero nella lingua loro, e nessuno avrebbe a risaperne verbo; ma io, costretto dal mio uffizio di romanziere a saper tutte le lingue, a origliare i soliloqui delle anime, a intendere perfino i sospiri, ho inteso anche quel dialogo, e posso riferirvelo dalla prima all'ultima parola.

—Ohè, vicino!—disse la rosa al garofano, toccandolo leggermente col sommo delle foglie agitate dalla brezza.—Dormite forse?

—Non dormo;—rispose il garofano—pensavo. E voi madonna?

—Io ho desiderio di far quattro chiacchere. Avete sentita la rugiada di quest'oggi?

—Sì, madonna, e vi so dir io che m'ha fatto un gran bene.
Tuttavia……

—Tuttavia, che cosa?

—Tuttavia, egli c'è stato un momento che mi sono provato a dir basta. S'intende acqua e non tempesta. Figuratevi, madonna, che ho preso la risciacquata per cinque volte alla fila.

—Com'io per l'appunto; ma io non me ne sono lagnata.

—Oh, voi siete buona come il carbonio di cui ci nutriamo; ma confessate che la è stata una cosa insolita. Gli altri giorni non s'è mai andati oltre le due.

—Gli è verissimo; quest'oggi il giardiniere ci ha avuto una gran sollecitudine per noi. Vedete, bel vicino, egli m'è stato attorno in un modo da dover essergli grata per tutto il tempo ch'io viva. Ci avevo già cinque o sei di que' brutti animaletti i quali s'inverdiscono del nostro sangue; ed egli, buonino, me li ha cavati con un fuscellino, che solo a sentirlo mi facea tenerezza.

—E a me, madonna, ha levato di dosso un bruco villoso…… sapete, di quelli che poi fanno i farfalloni……

—Son carine, le farfalle, con quelle loro ali screziate e asperse di polverina d'oro!

—Sì, ma i bruchi son pure le moleste bestiaccie. Io rinunzio alle farfalle, madonna, se, per vedermele poi aliare dattorno, ho da lasciarmi strofinare dall'epa di quei vermiciattoli neri. Insomma ei me lo ha tolto dai piedi, e poi mi ha strappato alcune foglioline avvizzite che mi erano uggiose.

—Gli è un bravo e bel giovinetto—disse la rosa di Torino.—Io non rifinisco mai di guardarlo, e certo il primo bottone ch'io farò, vuole rassomigliargli di molto.

—Badate, madonna! e' riuscirà troppo pallido.

—Ah, sì, gli è un giovine malinconico e sempre sovra pensieri…..

—Avete veduto—interruppe il garofano,—che cosa faceva egli quest'oggi?

—Che cosa?

—O non avete notato quell'arnese che si recava spesso davanti agli occhi, e che teneva qui sul murello, vicino al mio vaso, per averlo sempre sotto la mano?

—Sì, sì, un coso con due buchi lucidi, che devono esser fatti per guardare da lunge. E' lo alzava e lo abbassava ad ogni tratto, sempre nella direzione del giardino di sotto.

—Benissimo, ma usando sempre la precauzione di mettersi dietro le vostre foglie, o dietro le mie.

—Che cosa vorrà dire, vicino?

—Chi sa? Certo non lo avrà fatto per guardare il tempo.

—Ottimo giovine,—proseguì la bella rosa, che avea fermo il chiodo in quella considerazione.—Lo vorrei veder contento. Per me, vo' dirvela schietta, se ha da essere così impensierito, amo meglio che non mi dia da bere nemmanco un fil d'acqua.

—Oh, questo poi!—esclamò il garofano.—Io qui non mi accosto alla vostra opinione.

—Signor egoista!

—Madonna tenerina!

Un terzo interlocutore, dalla voce sonnacchiosa e burbera, venne a rompere quel dolce colloquio. Gli era un geranium triste, il quale stava lì presso, nell'angolo tra il muraglione e un muro di tramezzo, che separava il giardino di Laurenti da un camperello contiguo.

—Sì, adesso bisticciatevi ancora! La notte è fatta per dormire, e voi altri non lasciate pigliar sonno a nessuno.

—Che cos'ha quest'altro?—mormorò la rosa sbigottita al garofano.

Il garofano mulinava una risposta, ma non trovandola lì pronta e tale da offerire a madonna un alto concetto della sua dignità mascolina, non rispose un bel nulla.

Intanto il geranio proseguiva:

—Già, i contenti sono sempre incontentabili; hanno dieci e vorrebbero aver quindici, poi venti, e via discorrendo. Io che sto dietro questo muro…..

—Comodamente al riparo dalla tramontana!—interruppe beffardo il garofano, che aveva trovato la parola da dire.

—Io che sto dietro a questo muro—ripetè, senza dargli retta, il geranio—io non ho avuto uno sguardo del vostro Narciso, nè uno spruzzo d'acqua per cavarmi la sete. M'avesse detto: crepa! Già, io ci ho il peccato addosso di non essere sul murello, daccanto a voi altri. Il bruco che egli ha tolto da voi, messer garofano garbato, egli me lo ha gittato sopra di me senza neppure guardarsi da fianco. Ora voi non vi ringalluzzite tanto, madonna rosa! Io ci ho un occhio per foglia, e da qui, sporgendo il capo, ho potuto vedere che cos'è tutta la sua tenerezza per voi.

—E che cos'è?—si provò a dire sgomentita la rosa di Torino.

—Ah, ah! gelosa! C'è laggiù, in quel giardino, una bella signora, più bella di voi a gran pezza….

—Da che parte?—chiese pronto il garofano—da che parte, ch'io non l'ho veduta ancora?

—Là, dietro quella selva di magnolie e di allori. La viene qualche volta a diporto, per quel sentieruolo a manca. Ieri il vostro amico è stato per due ore a contemplarla. Oggi non la è venuta affatto, ed egli ha avuto un bell'aspettarla, e darvi da bere a voi altri, e cavarvi i bruchi, signor garofano, e spidocchiarvi, signora rosa…

—Oibò!—disse la rosa, arricciando le foglie.

—Eh! io non ve le so dire le belle parole; dico acqua all'acqua, e non so come il vostro bel giardiniere battezzi quelli sconci animaletti che ci avete voi sulla persona, bella schifiltosa! Del resto sappiatelo: la dama per tutt'oggi non s'è vista, ed egli se ne strugge… ve lo so dir io, se ne strugge!

—Adesso, crepa di rabbia!—aggiunse mentalmente il geranio a guisa di perorazione, e si messe a dormire, contento come chi pensa d'aver fatto un'opera buona.

—Povero giovine!—mormorò la bella rosa di Torino, e reclinò pensierosa le sue foglioline.

VII.

Tre giorni passati a meditare di continuo su d'una cosa, la solitudine, che è potentissima esca ai vigorosi affetti, e più di tutto dieci anni di vita senza amore, avevano dato Laurenti in balia della passione, e così profondamente scolpita nel suo cuore la imagine della bella sconosciuta, da non poterla più cancellare.

Allorquando egli venne finalmente a pensare sulla natura de' suoi sentimenti, allorquando, rientrato un istante in sè medesimo, si addiede della gravezza del male, chiuse gli occhi e gridò: non è vero.

Non è vero! Frase presto detta; e intanto egli era sempre inteso a guardare la palazzina gialla e gli cuoceva di non veder più comparire quel bianco viso di donna.

Uno dei primi e dei più noti sintomi di quella affezione cardiaca che non è considerata in alcun trattato di patologia, ma che tutti conoscono, e molti conservano allo stato cronico, è il girandolare che si fa nei pressi di una certa abitazione. Si gira, si va, si viene, ma non si esce mai dai paraggi dell'Isola ignota; si bordeggia, si getta l'àncora in vista, come farebbe una fregata in crociera.

Un altro sintomo è quella curiosità di sapere un certo nome. Si adoperano, per soddisfarla, tutti i più sottili artifizi; si passeggia più volentieri coi ciceroni della cronaca cittadina; si stringe la mano con maggior piacere alle persone che hanno qualche attinenza colla Dea, ancora senza nome, e solo per farlo cascare, questo benedetto nome, a guisa di un diamante smarrito che si cerchi, tra i ritagli di una conversazione capricciosa.

E questi sintomi c'erano ambedue. Guido Laurenti, chi avesse voluto trovarlo, era in giardino, o per quella tal via che metteva alla palazzina, ma senza veder mai la bella innominata. Poi, di sera andava a teatro, in traccia di gente chiacchierina; ma senza cavarne un costrutto. E per vero, non avendo mai veduto la dama per via, nè in altro luogo di ritrovo, non sapeva da che parte incominciare, non poteva metter le mani su chi la conoscesse, o di persona, o di nome.

Un giorno la fortuna gli condusse tra piedi un conoscente, persona curiosa che andava per le vie alte della città, a dare un'occhiata ai nuovi edifizi. L'occasione non aveva che tre capegli sul cranio, ma Guido li afferrò destramente, conducendo il compare per quella tal via che sapete, e là domandandogli di chi fosse quel palazzo rosso, di chi quel bianco, di chi quella casa grigia, e via discorrendo, sempre con aria sbadata e per mo' di chiacchera.

Di tal guisa, tirando innanzi, seppe finalmente che la palazzina gialla era la villa Argellani.

—Argellani! che gente è?

—Non so;—rispose l'amico—forastieri, che l'hanno comperata, credo, dai Visdomini. L'uomo è morto, lasciando la vedova, che deve starci di casa.

E' fu tutto quanto potè sapere Laurenti; ma era già molto; una vedova ed un cognome!

La Argellani, ei l'avea già udita nominare, epperò non gli giungea nuovo il parentado; ma quando, e in che modo, non rammentava. E il nome di battesimo? quello era il busilli.

Così egli rimase senz'altro lume, a mezza strada. A chi far capo? Chiederne ai ciceroni della cronaca, gittar loro innanzi quel nome per avere tutte le altre notizie, gli parea cosa disdicevole; inoltre, siccome avviene agli innamorati, sembrava a lui che il primo venuto gli avrebbe letto il suo segreto negli occhi.

Meditò, meditò, ma non gli venne alcun partito che valesse. Parlare col giardiniere! sì, certo; quello era lo spediente migliore, anzi l'unico buono; ma come fare? La conoscenza c'era; ma non andava oltre il saluto, e la cosa era come passata in giudicato. O come avrebbe fatto per entrare in discorso con lui?

Il giardiniere diventava, issofatto, un gran personaggio, e per accontarsi ragionevolmente con esso lui, ci voleva proprio una diplomazia di quella più fine, una diplomazia da Talleyrand, e da Metternich.

Ci pensò una notte e un giorno; finalmente ebbe trovato lo spediente. Era molto arrisicato, e poteva anco non approdare; ma il nostro diplomatico non ci aveva da scegliere tra parecchi il più acconcio; gli bisognava sperimentare quel solo che avea potuto trovare.

Uscì a tarda notte in giardino. Il cielo era buio, e propizio al gran misfatto. Giunse fino al muraglione, presso ad una bella pianta di camelie, che era una rarità della specie; sollevò il vaso tra le palme, lo sospese fuori del murello, e lo lasciò spietatamente cadere nella prateria sottostante.

Quindi si allontanò sollecito da quel luogo, ma non tanto, che non udisse il tonfo del vaso.

—Povera camelia!—esclamò, affrettando il passo: e fu quella l'orazione funebre dell'uccisore alla sua vittima.

Come aspettasse impaziente il mattino, potete argomentarlo, o lettori. All'alba era già in piedi. Scese in giardino, ma senza ardir nemmanco di guardare dov'era rimasto il vuoto nella fila dei vasi, e se ne andò ad inaffiare le sue aiuole più lunge, da dove nessuno, che fosse nella prateria, avesse potuto veder spuntare il sommo della sua testa. Un'ora passò; quindi un'altra mezz'ora, e già egli pensava che la sua camelia fosse perduta senza utilità, allorquando udì levarsi dai piedi dell'olmo una voce che gridava:

—Signore! signore!

Il cuore gli balzò in petto; ma e' non si mosse. Intanto la voce ripigliava più forte: signore! ohè, signore?

Si avanzò allora fino al murello, e si provò a guardare. Gli era per l'appunto il giardiniere, che aveva rizzato la povera pianta, e stava col viso in aria a cercare di lui. I cocci del vaso erano sparsi sul terreno, ma il terriccio di castagno era agglomerato tuttavia intorno alle radici; la vittima respirava ancora.

—Signor…. signor…. La mi scusi; non so il suo riverito nome.

—Laurenti, ai vostri comandi, brav'uomo.

—Signor Laurenti, veda….. questa è roba sua;—proseguì il giardiniere, levandosi con una mano il cappello, e additando la camelia coll'altra.

—Che? come?—gridò Laurenti.—Oh la mia povera camelia! E come mai la è caduta? Forse il vento….

—Oh, non ha tirato vento, stanotte;—rispose il giardiniere.—Sarà stato quel tristo d'un Grigio. Sa Ella? un gatto bellissimo, ma e' ci ha il ticchio di scorazzar la notte, per dar la caccia ai topi. Si sarà arrampicato per l'edera fino alla fila dei vasi, e avrà fatto lui il malanno.

—Ah!—esclamò Laurenti. E siccome il Grigio non era lì per protestare, la calunnia ebbe corso.

—Mascalzone d'un Grigio!—proseguì il giardiniere,—se lo colgo, n'ha a toccare una serqua!

—Oh no; povera bestia!—disse Laurenti, che non voleva far bastonare un innocente, quantunque gli giovasse lasciarlo accusare.—Esso ha operato a fin di bene per ammazzarci i topi, e non gli s'ha a dare un castigo. Poi non è un gran male, quello che ha fatto; soltanto mi rincresce un tratto per quella pianta….

—Sicuro, una bella pianta! Camellia maculata Adhemari!—sentenziò il giardiniere dopo averne esaminati i bianchi petali chiazzati di rosso cupo.—Ma per ventura non la s'è fatta un gran male. Il peso del vaso la fece cader ritta.

—Ah, manco male.

—E purchè la sia rimessa subito in terra.. Veda, non ci ha che un ramo guasto, ma il tronco è sano, e le radici del pari; la terra non pare quasi che abbia fatto quel salto.

—Manderei a torla;—soggiunse timidamente Laurenti,—ma non ho il servitore in casa.

—Che! la porto io;—rispose il giardiniere, alzando il cespo da terra con molta accuratezza.

—Voi? Mi duole davvero che v'abbiate a pigliare questa molestia.

—Son pochi passi, signor…. signor Laurenti. C'è qui presso la postierla che mette nella viottola; due salti e sono da Vossignoria. Ah Grigio, Grigio! Ne fa sempre qualcheduna delle sue.

E così accagionando il povero Grigio, l'amico giardiniere s'incamminò per la discesa del prato, verso la postierla che aveva accennata a Laurenti.

Il nemico era dunque costretto ad accettare battaglia. Il primo colpo da gran capitano era fatto; e' bisognava saper fare il secondo; entrato in dimestichezza col giardiniere, cavargli le parole di bocca.

Laurenti andò a riceverlo sull'uscio di strada. Gli era un uomo sui cinquantacinque, piuttosto alto della persona, robusto e vegeto, dalle labbra tumide, indizio di bontà, e dagli occhi limpidi ed arguti. I capegli corti e brizzolati, in ragione dell'età; sulle guancie, sul mento e sul labbro superiore si scorgeva quella tinta turchiniccia che è segno di una folta barba, ma accuratamente rasa di fresco; e che fosse rasa di fresco, ante lucem, e per mano del suo legittimo padrone, lo dicevano cinque o sei tagli disposti in tutti i versi, con qualche goccia di sangue rappreso sui margini. Portava una camicia di tela grossolana, ma di bucato, il collare della quale si ripiegava in due lasagne sulle risvolte di un panciotto di pannolano cenericcio, partito a quadrelli, come i calzoni; ed aveva il capo coperto da un cappello di feltro nero, dalla testiera bassa e tonda, e dalla tesa larga, come usavano un tempo i cavalieri, e come usano adesso i contadini della Polcevera. Del resto, in maniche di camicia, come soleva stare tutto il giorno.

Entrò col cespo di camelia tra le braccia, salutando il giovanotto con quel sorriso che vuol dire: ci conosciamo, e non occorrono altri complimenti.

—Dove vuole Vossignoria che mettiamo questa povera ammalata?—disse egli, appena ebbero fatti pochi passi nel viale.

—Di qua, se non vi spiace, galantuomo.

—Galantuomo, sì certo, e Giacomo per sovrappiù, con licenza di Vossignoria;—aggiunse il giardiniere, che, come il lettore ha già veduto, era uomo faceto anzichenò.

—Orbene, Giacomo, venite qua, in fondo al giardino. C'è molta terra di quella che si confà alle camelie e posta a solatìo. Qui la metteremo, ed il Grigio sarà bravo, se verrà a buttarmela giù.

—Gatto indemoniato!—disse Giacomo, mentre deponeva il suo fardello sul ciglio dell'aiuola.—Se non fosse perchè distrugge i topi… Già, con licenza di Vossignoria, gatti e donne, diceva mio padre, buon'anima, nemici necessarii.

—O come, tutti a mazzo? chiese Laurenti, ridendo.

—Perchè no? Così gli uni, come le altre, debbono stare in casa; ma gli uni amano far le scappate sui tetti, e le altre….. volesse Iddio che ci andassero! In quella vece, amano andare attorno, con tanto di crinolino, e orecchini d'oro, e fanno gettare i quattrini a palate.

—Siete ammogliato, forse?

—No, per la grazia di Dio. Non nego d'essere stato lì una volta per pigliarla pur io; ma la donna ci ha avuto più giudizio di me, e n'ha sposato un altro. Baie, in fin dei conti; o dove diamine sono andato a parare?

—E chi ha cura delle vostre robe, e chi vi ammanisce il desinare?

—Che! o non ci ho le mani, io? Un po' d'acqua in pentola, poi un pizzico di sale, e il suo bravo spicchio di manzo a bollire, fino a che non sia cotto, o che il Grigio non me l'abbia cavato fuori, come fa qualche volta. Oh, non ha paura lui che la pentola scotti.

—Gli è proprio un gatto terribile, questo Grigio?

—Sicuro, ed io l'avrei già fatto correre di buone gambe, se egli non fosse il cucco, il beniamino, della signora Tonna.

Quella signora Tonna fu come una stilettata nel cuore di Laurenti. Tonna! Aspettava un nome leggiadro, e si udiva dir Tonna. Non già che, se la signora della palazzina si fosse chiamata Tonna, ei non l'avrebbe amata del pari; forse quel nome, portato da lei, sarebbe diventato anche bello. Ma per la prima volta, così alla sprovveduta, sentirsi a dire: la signora Tonna!

Chiedo scusa per Laurenti a tutte le signore Antoniette che mi leggono, se egli non potè mandar giù quel diminutivo, così poco vezzeggiativo, del loro nome, e se io pure sono costretto a pensarla come lui. Elleno poi, in nessun caso, neppure nel santuario della famiglia, non si lascino chiamar Tonna, nè Tonietta, e sarà tanto di guadagnato per tutti.

—Chi è la signora Tonna?—dimandò il giovinotto, dopo una breve sosta.—È la vostra padrona, forse?

—O che, le pare? È la donna di casa, la governante, e che so io; vecchia zitellona che biascia paternostri, legge le Vite dei Santi e mangia biscottini.

Laurenti respirò con tanto di polmoni, come dovrebbe respirare
Encelado, se gli levassero l'Etna dallo stomaco.

Intanto il trapiantamento della camelia era condotto a buon fine, e il giardiniere dilettante, non volendo lasciarsi fuggire il giardiniere maestro, fino a che non si sbottonasse del tutto, lo tenne a bada col fargli vedere per ogni verso il teatro delle sue geste agronomiche e botaniche, considerate con molta attenzione, e lodate con acconcie parole dal sentenzioso orticoltore.

—Vossignoria conosce il mestiere a menadito. Già, loro signori, quando ci si mettono, vengono a capo d'ogni cosa.

Sempre intento a trovare un nuovo appicco al discorso che gli premeva, Laurenti condusse Giacomo a vedere le sue raccolte entomologiche, i suoi ofidii, i suoi batracii ed altre simiglianti bellezze della natura vertebrata. Le quali cose veggendo, e in particolar modo alcuni mostricini e pezzi patologici conservati nello spirito, il Giacomo spalancò la bocca ed inarcò le ciglia.

—Ma Vossignoria è medico!

—Medico e chirurgo;—soggiunse Laurenti—ma non ho studiato quest'arte, se non per impratichirmi in alcuni rami delle scienze naturali, e non ho mai più fatto un salasso, nè scritto una ricetta.

—Oh, non importa;—ripigliò il Giacomo.—Vossignoria ha da essere pur sempre un uomo che sa il fatto suo, da quello che vedo. Non fo per entrare nelle sue faccende, che non mi risguardano, e ricordo il proverbio dei miei vecchi: «impacciati ne' fatti tuoi;» ma Ella fa molto male a non esercitare una professione così bella. O che, mi canzona? Quel toccare il polso ad una persona, e veder subito, ad occhi chiusi, che cosa ci ha dentro di guasto; trovare per ogni male il suo rimedio, come io lo trovo per le mie piante….. E dire che le mie piante, quando hanno male, le si capiscono subito, e i rimedii si contano sulle dita; laddove per gli uomini, e per le donne, gli è un altro paio di maniche. Ma io vado fuori del seminato, con queste mie chiacchere…..

—No, caro Giacomo; amo anzi molto di barattare quattro parole colla brava gente del vostro stampo.

—Grazie della sua bontà!—rispose commosso il giardiniere, e nella commozione si lasciò andare a stendergli la sua mano callosa.—Verrò, con sua licenza, a vederla qualche volta, e per fare qualcosa, le darò anche una mano in giardino. Vossignoria, per esempio, mi scusi veh!… ma non la mi sembra aver molta pratica delle margotte.

—Avete un subbisso di ragioni; fo tutto d'inspirazione, come vedete, e avrò caro che mi correggiate. Ma… le vostre visite non dispiaceranno poi… al vostro padrone?

—Che padrone? Io non ho padroni. La mia signora, che è sola in casa e comanda lei, è una dama come va, e non sarà dolente, quando lo sappia, che io faccia qualche cosa per un così buon vicino, e sopratutto così cheto, che non lo si sente mai.

—Che cosa volete voi dire?—dimandò ansioso Laurenti.

—Dico quello che è. Veda, due anni or sono, ci stava qui una famiglia chiassosa che nulla più; mezza dozzina di marmocchi che facevano un casa del diavolo; poi una fantesca che gridava come una spiritata, con una vociaccia da schiuder le orecchie ai sordi; poi de' buontemponi che venivano a giuocare alle pallottole col capo di casa…. Insomma, la mia povera signora non poteva uscir mai nel giardino, che ella ama pur tanto; non poteva affacciarsi mai sulla prateria qui sotto, a cagione di quel diavoleto.

—Non l'ho mai veduta;—disse Laurenti con piglio sbadato.

—Bravo, perchè Vossignoria guarda le nuvole, sia detto con sua buona licenza. Ma noi l'abbiamo veduta, sul muro accanto all'olmo, proprio l'ultima volta che la signora venne in giardino.

La conversazione diventava importantissima pel nostro innamorato; laonde, facendo uno sforzo supremo per vincere il suo turbamento, si affrettò a sostenerla con quest'altra frase posticcia:

—Ama molto i fiori, la vostra signora?

—Oh molto; ma, poverina, non può goderne come vorrebbe. La è giù di salute, e v'hanno giorni che non le dà neppur l'animo di uscire all'aperto.

—E che cos'ha?

—Non so; Ella non vuol saperne di medici, e dice che non è nulla, che il suo male passerà presto. Ma io non ne credo un'acca.

—E la gente di casa perchè non cerca di persuaderla?

—Oh, signor Laurenti!…..—rispose Giacomo, stringendo le labbra.—La è tutta gente che pensa al suo guadagno e non guarda più in là. La governante, quella del gatto, è una beatella egoista, che è contenta di pigliarsi gli spogli della padrona e far roba per sè. Il cameriere è uno zotico, che non parla mai; le due fanti peggio che peggio; insomma, la veda, l'unico che si curi un tratto della signora sono io, io Giacomo Vernazza, suo giardiniere.

—E siete un uomo a modo;—gli disse Laurenti, mettendogli una mano sulla spalla. Iddio vi compenserà dell'amore che portate alla vostra signora.

—Oh se Dio la sentisse, signor Laurenti…

—E che cosa?….

—Nulla, nulla! Acqua in bocca; se no, dico qualche eresia da dovermene andare a confessare dal Papa.

—Comunque sia,—ripigliò Guido—sta a voi di persuaderla a mandare pel medico.

—Eh, non sono già stato a farmelo dire. Quindici giorni fa, ho tanto picchiato che la mi ha detto; fa a modo tuo; e il medico ce l'ho condotto. Ha toccato il polso, ha guardato la lingua, gli occhi, la pelle, ha fatto una dozzina di domande, poi ha ordinato certe acque, del moto, dei vescicanti, e poi se n'è andato via. La padrona lo ha lasciato fare, lo ha lasciato dire, l'ha accompagnato fino all'uscio con gli occhi, e con un sorriso malinconico, e poi non ha fatto un bel nulla. Del resto, salvo il moto, che mi pare utilissimo, in tutte le altre cose che ha detto il magnifico, ci ho fede come nella settimana dei quattro giovedì.

—E perchè? Non siete voi che poco fa dicevate tanto bene dei medici.

—Sì, sì, ma non di quello, che mi pareva, con licenza di Vossignoria, un asino calzato e vestito.

Guido era cosiffattamente accorato, che non potè nemmanco ridere dei motti del giardiniere.

—E nessun amico di casa la consiglia?—soggiunse egli.

—O chi vuole che la consigli, se non viene in casa nessuno? Ma, la non dubiti, ci penserò io. Sono una bestia, con sua licenza, ma le mie buone inspirazioni di tanto in tanto ce l'ho. Ora Ella scusi la chiaccherata, che è stata lunga oltre il bisogno; ma sono fatto così: quando posso aprire il cuore, lo spalanco addirittura.

—Bravo, Giacomo! a rivederci.

—A rivederci sicuro. E con questo, fo di cappello a Vossignoria.

VIII.

Per l'anima di Laurenti fu quello un giorno di sole. Imperocchè, avete a sapere, o lettori, che l'anima ci ha i suoi giorni di sole, e i suoi giorni di nebbia, i quali non concordano sempre colle notizie meteorologiche dell'Osservatorio. Laonde, egli può essere giorno di nebbia fitta, ed anco di burrasca, per voi, quando per tutti gli altri mortali risplende il cielo e sale a venti gradi il mercurio nel termometro di Réaumur; laddove, per contro, e' sarà giorno di sole per voi, quando pioverà a catinelle. Io, verbigrazia, mi ricorderò sempre di una splendida giornata, quando un fitto nevischio….. o che diamine? ero sul punto di raccontarvi i fatti miei.

Insomma il ghiaccio era rotto, e squagliato nel medesimo tempo. Il giardiniere gli era diventato amicissimo, e stavano già come pane e cacio. La signora lo aveva veduto, pensava qualche volta a lui, poichè a lui era debitrice di quella tranquillità, di quella solitudine, che le consentivano di uscire a diporto nella villa. Nessuno andava a visitarla; non c'era dunque un amante, neppure un cavaliere servente che aspirasse a diventarlo. Quante buone notizie, e tutte scovate in fondo ad un vaso di camelie!

Non sapeva ancora il suo nome; ma, innanzi a tutto quello che già gli era noto, il nome non faceva più caso, come dapprima. La conoscenza era avviata, e, a giudicarne da quel tanto che ne aveva cavato, non gli sembrava che tutte l'altre novelle importanti dovessero farsi molto aspettare. La bella innominata era inferma, poverina! ma sarebbe risanata; ancora non vedeva il come, ma certamente e presto.

Gli era un giorno di sole, davvero, e Laurenti vedeva bella ogni cosa.

Uscì a diporto. Il giardino gli pareva troppo stretto, per contenere una gioia così grande. Venti minuti dopo, gli pareva stretta la cerchia delle mura. Corse dai Busnelli, si fe' sellare un bel baio che teneva nelle loro scuderie, e andò a fare una trottata verso il bel paese di Quinto. Gli bisognava respirare largo, muoversi a precipizio, in cadenza coll'allegra torma dei suoi nuovi pensieri.

—Donna divina!—pensava egli, mentre le zampe ferrate del suo cavallo scalpitavano sul ponte levatoio di Porta Pila;—ed io ho vissuto tanto da presso a lei, senza vederla, senza accorgermi di nulla! Ho respirato la medesima aria che ella respira…. Sì, e mi giova respirarla più da vicino. Oramai, bisogna che io la veda. Il male è fatto; sono innamorato come un pazzo…. Ed è poi un male? Ella non è una di quelle civette, che fanno caccia di adoratori, povero stuolo di prigionieri che esse appendono la notte, chiusi nella reticella de' loro capegli, daccanto al capezzale, perchè consolino i sogni delle spensierate dormenti. Ella, poverina, è sola, sempre sola, ammalata…. Ma risanerà…. sì certo! Non si può morire così, quando sorridono la gioventù e la bellezza. Inoltre, ha da essere una donna d'alto sentire. Quando il Giacomo narrava della visita del medico, mi pareva di vederla, tranquilla, sorridente, a guardare il pericolo, disposta a lasciare una vita che non le importa punto. Imperocchè, ella non ama nessuno; il suo cuore è vuoto d'affetti; forse non ha amato mai di un affetto verace e profondo….—

Il cavallo galoppava su per l'erta di San Martino d'Albaro, e il cervello del cavaliere galoppava del pari.

—L'amerò dunque. E perchè no? Ella pure mi amerà. Un affetto profondo vince sempre la prova, se la donna che si ama ha almeno tanto di cuore. E l'amore che narrano i Greci aver dato anima alla statua di marmo, non riscalderà costei, non le ravviverà le fonti della vita? Che male è il suo? Non è certamente offeso il polmone, come io ho fantasticato l'altro dì. Giacomo me lo avrebbe detto, se così fosse. Ella ha forse patito di una lunga malinconia, di qualche tormento di cuore, tutte cose che lavorano sordamente, ma presto, in un organismo sensitivo. La donna è già di per sè una macchina così delicata…. imperfetta a forza di finitezza! Gli è un paradosso cotesto? No; gli estremi si toccano. Dio ha messo troppe cagioni di fisici patimenti in quel fine involucro che è stato la sua ultima opera.—

A questo punto del soliloquio di Laurenti, il cavallo, dopo aver corso a galoppo serrato quel lungo tratto di strada che è dalla scesa di San Martino fin oltre il sasso memorando di Quarto, e di là fino alla villa De Fornari, accorgendosi che il cavaliere non badava a lui, aveva rallentato la sua corsa, passando dal galoppo al trotto, e dal trotto al passo. Ed anche i pensieri di Laurenti mutarono metro.

—Come avvicinarmi a lei? Qui giace il nodo. O non sarebbe probabile che, dopo aver fatti così facilmente i primi passi, non giungessi più oltre? E invero, come vederla? come venire a capo di parlarle? Rimarrò sempre sull'uscio del paradiso, a ragionare col custode giardiniere? Tra Giacomo e lei c'è l'abisso della disparità di stato, e meglio varrebbe per fermo la conoscenza di uno sciocco ganimede, che le andasse a far visita una volta alla settimana….—

Il pensiero di cosiffatte difficoltà lo ricondusse a pensare dov'era. La veduta dei piani di Quinto gli rammentò che era già troppo lontano da Genova; e lì, appoggiar di sprone a sinistra, girar le redini e voltare il cavallo a ponente, fu un punto solo. Il baio sentì che il cavaliere si ricordava finalmente di lui, e su a galoppo verso casa.

—Bravo, Beppo, corriamo, e alla bottega da caffè di San Martino ci sarà il pezzetto di zucchero.

Parole che il generoso animale dovette intendere per fermo, imperocchè raddoppiò di zelo e di lena, e dieci minuti dopo, era dinanzi alla bottega da caffè, per pigliarsi la sua mercede e una carezza del padrone.

Alla prima svolta della discesa, la veduta della città si offerse intiera agli occhi di Laurenti; ma egli non si curò che di un punto, il quale si scorgeva spiccatamente sulla costiera dell'anfiteatro, la palazzina gialla; la palazzina gialla che pareva sorridergli da lunge, con le gelosie spalancate.

—Oh, risanerà! risanerà!—esclamò egli, spingendo lo sguardo per quelle finestre.—Con questo bel sole, con questa mitezza di cielo, le rifioriranno i bei colori sul volto. Io farò di vederla…… le parlerò ad ogni costo. I mezzi non mancano, solo che si sappia cercarli….

Qui, egli non potè fare a meno di sorridere, pensando ai suoi mezzi famosi, e alla Camellia maculata Adhemari.

Questa cavalcata fu cagione che egli giungesse a casa tardissimo, che già era trascorsa l'ora consueta del pranzo. Ma egli non era mai stato gastronomo, e quel giorno poi, lo stesso Apicio, ne' suoi panni, non avrebbe badato alla tavola. Mangiò in fretta e quasi nulla, come tutte le persone turbate da un'improvvisa allegrezza e fu sollecito ad alzarsi.

Le disgrazie non vengono mai sole, e le venture vanno anch'esse appaiate. Quello doveva essere giorno di festa intiera, dappoichè la fortuna attendeva Guido Laurenti in giardino, dov'egli corse, appena ebbe mandato giù l'ultimo boccone.

Si assise nel suo posto prediletto; come Don Abbondio si messe le dita nel collare per poter dare una guardata a destra e a manca; ma non ebbe da compiere quella doppia voltata di testa, e rimase fermo a destra. Domineddio aveva fatto un miracolo per lui; la signora stava in giardino.

Ella era vestita come la prima volta che egli l'aveva veduta, e passeggiava per quel medesimo sentieruolo sabbioso, il quale, uscendo dal fitto delle magnolie, saliva costeggiando la prateria fino alla conserva delle piante esotiche a' piedi del muraglione. Il fidato giardiniere le veniva rispettosamente da fianco, additandole questa e quella delle zolle fiorite, e ragionandovi su, da quel sapiente uomo ch'egli era, e che i lettori conoscono. Ella guardava ma con aria distratta, dove il giardiniere voleva, e probabilmente gli dava retta del pari. Come fu giunta presso l'albero di pino, parve volesse fermarsi; ma cotesto non doveva entrare per fermo nei divisamenti del Giacomo, imperocchè le accennò la conserva, ed ella si ripose in viaggio, come chi non vuole fortemente una cosa, e si lascia guidare dal consiglio altrui.

Guido la vedeva giungere, con quel suo passo misurato e leggiero, che parea non toccasse la terra. Lo strascico della veste fluente conferiva maggior verità a quella illusione degli occhi. Egli allora aperse il suo Virgilio (benedetto Virgilio!) e fe' mostra di leggere; ma tra gli occhi suoi e il sommo della pagina correva una linea retta, che un matematico avrebbe potuto prolungare fino ai piedi della bellissima inferma.

Man mano che la si avvicinava, si scorgevano meglio i suoi lineamenti. Il viso era ovale perfetto; il fronte prominente era mezzo nascosto, ma non tanto che con si potesse indovinarne la forma purissima, da due liste di capegli neri e lucidi che scendevano ad accarezzare le tempie, e sparivano sotto i due capi di tulle bianco, orlati a ricami di seta nera, di una cuffia che portava in testa per custodirsi dalla prima impressione dell'aria. Grandi sopracciglia arcate pendevano, temprandone la vivezza, sulle nere pupille che balenavano dal centro di un globo bianco azzurrino, e venivano in fila sottili a congiungersi quasi sulla radice di un naso diritto, grecamente diritto, e grecamente reciso alle nari, dove una curva leggiadra scendeva a profilare il labbro più soave che mai fosse dato di scorgere. Le labbra dovevano essere state di corallo, ma il loro natio colore si era smarrito affatto, come il colorito della pelle, sul volto, nel collo e nelle manine affilate.

L'interna malattia traspariva da quella carne mirabilmente composta ad espressione di bellezza femminea, e tanto più traspariva, quanto più leggiadre erano le forme, sulle quali essa stendeva i suoi pallidi colori. Nella mente dell'innamorato osservatore si agitavano le ricordanze del medico, e il medico, pigliando dall'innamorato il senso della divinazione, mormorò, guardando quel volto scolorato, la parola: anemia.

Intanto, più la leggiadra inferma si avvicinava, e più Guido Laurenti accostava il libro agli occhi, fingendo di leggere arrabbiatamente. Voltava le pagine ad ogni tratto, come se ad ogni carta del suo Virgilio, edizione Lugduni, notis brevioribus, tabulisque geographicis adornata, ci fossero dieci esametri in cambio di trentacinque.

E si noti che qualcosa leggeva; i suoi occhi, quasi per isgravio di coscienza, qualche emistichio lo beccavano al volo; ma la mente era giù, a carezzare i capegli della bella signora, a scherzare coi capi svolazzanti di tulle, della sua cuffia leggiadra; ed essi, i poveri occhi, non poteano rimanersi che non guardassero a destra, non dissimilmente da scolaretti in castigo che stanno a rimasticare la lezione, vigilati dal pedagogo, e danno sguardi furtivi e frequenti ai più felici compagni che scorrazzano allegri nel sottoposto piazzale.

Ora, in quella ch'ei si provava a leggere tre esametri intieri, rosso in viso come una ciliegia, poichè si vedeva tanto vicina la dama e ne udiva la voce salire fino a sè per la prima volta, soave come un susurro della brezza, fu scosso improvvisamente dalla festevole parlantina del giardiniere.

—Signor Laurenti, buon giorno!

—Oh, buon giorno, Giacomo.

—E come va la camelia?

—Bene, grazie tante;—rispose Laurenti, come se gli fosse stato chiesto di una persona di casa.

Ma in quelle due frasi di risposta egli aveva cercato di mettere tutta la più gentile melodia della sua voce. Poscia, levatosi in piedi, salutò con un profondo inchino del capo.

La signora che alla esclamazione di Giacomo aveva alzata la testa, per naturale corrispondenza, rese il saluto.

Cotesto fu un attimo; ma anche in un attimo Dio aveva fatto la luce, che doveva rischiarare il creato in eterno.

Laurenti, fortemente turbato, ripigliò la lettura, o, per dir meglio, il suo atteggiamento di lettore; la dama, poi che ebbe risposto al saluto, ricondusse lo sguardo nella serra, per le cui aperte vetriere il Giacomo le accennava le piante.

—Veda, signora Luisa,—diceva egli—quella pianta d'alto fusto, dalle larghe foglie disposte ad ombrello, è il banano, della famiglia delle musacee, che fa quei frutti eccellenti… ma non qui. Ne fa invece l'ananasso, della famiglia delle narcisoidée, che Vossignoria vede qui basso.

—Bello!—disse la signora, con voce lenta e fievole.—E questa, che pianta è?

—Pianta di pepe; arbusto della famiglia delle…..

Non seguirò il dotto giardiniere nella infilzata delle sue classificazioni, per non riuscire uggioso al lettore benevolo. Il Giacomo parlava ad alta voce, collo scopo manifesto di farsi udire dal giovine naturalista, e dargli un buon concetto della sua sapienza botanica; ma che cosa importa al lettore la sapienza del Giacomo?

La signora prese un ramoscello che il giardiniere spiccò per lei dall'arbusto, un ramoscello di verde cupo, dalle foglioline lanceolate e dall'odore aromatico; quindi, a lenti passi, com'era venuta, si ritrasse di là.

Guido la seguitò lungamente cogli occhi; contò ogni sassolino che i suoi piedi calpestavano; poi la vide sparire tra le magnolie e gli allori.

Poco dopo la signora Luisa, anche la luce del giorno se ne andò via.

Ma non se ne andò Laurenti, il quale non si addiede nemmanco della notte sopraggiunta. Per lui, il muraglione, la prateria, l'aria tuttaquanta, erano rischiarate da una striscia luminosa, come la luce elettrica, via lattea spiccata dal cielo e distesa lunghesso il sentieruolo sabbioso.

O non era stata quella una gran giornata di sole per l'anima sua? Quante cose in un giorno! E come l'aria, rischiarata dal passaggio della bellissima donna, doveva essere popolata d'immagini graziose, di dolci speranze e di promesse arcane!

Luisa! Bel nome! Egli lo sapeva finalmente, e stava con fanciullesca cura a pronunziarlo, non come si fa a Genova, ma scandendolo in tre sillabe: Lu-i-sa, e sibilando un tal poco l'esse, alla maniera toscana.

E' non era un nome strano, di quelli che certi capi scarichi impongono alle bambine, per dare importanza di eroine da romanzo o da dramma alle loro creature grame. Gli era un nome quieto, gentile, dolce a pronunziarsi e dolce ad udirsi: Luisa!

E' non era Elisa, nome da mettere in endecasillabi morbidi e flosci come quelli di… acqua in bocca, per non farci maledire dal secolo, che li ha in gran pregio; non era neppure Eloisa, nome da far ricordare la badessa del Paracleto, innamorata d'un teologo, o la svizzera di Gian Giacomo Rousseau, innamorata di un astrologo sconclusionato. Era Luisa, modestamente, umanamente e soavemente Luisa.

Questo nome gli suonò nell'orecchio tutta la notte e il giorno vegnente; questo nome gli balzò spiccato dal viso e da tutti i contorni della signora, quando egli la rivide un'altra volta in giardino, sicchè gli pareva non potesse ella in altro modo chiamarsi.

E il modo di avvicinarsi a lei? Dov'era il secondo vaso di camelie che dovesse, rompendosi a tempo, condurlo a fianco della bella signora?

In verità, debbo dirlo ad onore di Laurenti, e' non ci avea più pensato. Que' pochi fatti, quelle poche impressioni che mi sono provato a narrarvi, gli formavano come un viatico che gli sarebbe bastato per un mese di strada. Più tardi certamente sarebbe venuto il desiderio di nuove cose; imperocchè nessuno ignora esser l'amore una specie di scala di Giacobbe, il cui capo è arrembato all'uscio del paradiso e salito il primo piuolo si vorrebbe salire il secondo e così via via fino a tanto che non si giunga a cantare le litanie coi serafini. Ma Laurenti avea fatto un po' di sosta, come per misurare l'altezza a cui era giunto, e già gli pareva un bel tratto.

Il momento di ripigliar la salita, anzi di spiccare un gran volo a dirittura, veniva intanto senza che egli se ne accorgesse, senza che ei lo aiutasse, o vi si disponesse colla tensione dei nervi.

Una sera, verso le nove, egli stava nella sua biblioteca (ma non potrei giurarvi che studiasse) allorquando udì scampanellare all'uscio di strada. Si fece alla finestra, in quella che il servo, uscito dal pianterreno, andava ad aprire.

—Chi mai può essere, a quest'ora, e con tanta premura di entrare?

—Presto, presto!—gridò una voce affannata—dov'è il signor Laurenti?
Venga subito, subito!

Laurenti aveva già riconosciuto la voce del Giacomo, e innanzi che egli finisse di parlare, aveva fatte le scale.

—Eccomi, Giacomo, eccomi qua. Che ci è di nuovo?

—La signora sta per morire, Dio mio! Non le si sente più il polso. La faccia presto, per carità!…..

Laurenti non istette a pensare; si morse il labbro fino a far sangue; afferrò il cappello, e giù a furia per la viottola, oltrepassando il Giacomo, che pure non andava di gamba malata. Come fu alla postierla della villa Argellani, vi si cacciò sollecito: il giardiniere la rinchiuse da dentro, e ambedue corsero, volarono per la prateria, fino alla palazzina gialla.

IX.

Guidato dal giardiniere, Laurenti entrò in quel sancta sanctorum, pur dianzi inaccessibile, di tutte le sue quotidiane adorazioni.

La prima persona che incontrò, fu un'adiposa femmina, dalla faccia bitorzoluta con qualche pelo sul mento e gli occhi mezzo chiusi da palpebre carnose, la quale ei riconobbe, senza averle parlato mai, per la signora Tonna, la governante di casa. Costei, che non istarò a dipingervi, poichè non ne franca la spesa, era una di quelle donne tutte miele in apparenza, affettuose a parole, ma che non si muoverebbero da un seggiolone per dar la mano a chi casca, buonissime a dire una terza parte di rosario secondo la vostra intenzione, perchè non hanno altro da fare, ed egoiste nel profondo dell'anima.

—Ecco il medico!—gridò il Giacomo, appena l'ebbe veduta—ecco il medico!

Laurenti, nella furia del correre e del pensare alla signora che si moriva, non pose mente al grido del giardiniere. Egli era corso perchè Giacomo ne lo aveva pregato, e perchè si trattava della signora Luisa; ma non si fermava a considerare il perchè egli fosse stato chiamato, e non altri, a darle soccorso.

Ma il Giacomo sapeva benissimo quello che faceva. Il lettore ricorderà ch'egli pretendeva di avere di tanto in tanto delle buone inspirazioni. Ora la buona inspirazione che egli aveva avuto fin dal momento del suo primo colloquio con Guido Laurenti, era quella di chiamarlo lui, come medico, a curare la sua bella padrona.

E la inspirazione, lasciando da parte l'amore di Guido che egli non conosceva, era ottima. La signora Argellani andava sempre peggiorando; i ragionamenti e i consigli del medico che aveva chiamato, non le erano sembrati buoni e non ci aveva punto badato. Anche il Giacomo, nel suo buon senso, aveva inteso che quella della signora non era una malattia da risguardarsi soltanto sotto l'aspetto fisico, ma che, derivando da cause morali, chiedeva rimedio del pari alla scienza del fisico e alla sapienza del metafisico. Intendiamoci bene; non erano queste le parole che gli venivano in mente a colorire il concetto; ma il concetto c'era, e il concetto s'incarnava nel nome di Laurenti, di quel savio e modesto giovine addottorato in medicina, che sapeva tante cose e che studiava sempre.

—Questo è un uomo che mi va a genio;—aveva detto il Giacomo—e poichè un medico s'ha a chiamare oggi o domani, tanto meglio che sia lui. Egli finalmente non si contenterà di fare una visita e di scrivere una ricetta.—

Nato il concetto, rimaneva da lavorarci attorno, considerarlo per tutti i versi. E più il Giacomo lo considerava, e più gli piaceva. Nel fatto, c'era una sola, ma grande, difficoltà a metterlo in pratica. Come avrebbe egli persuaso la sua signora, che non volea saperne di medici, a chiamare il vicino, giovanotto sconosciuto nell'arte d'Ippocrate, e all'apparenza più fatto per dare immagine di Marte che non di Esculapio?

Egli dunque stava cercando l'occasione, e rimuginando disegni, l'uno più strambo dell'altro; allorquando l'occasione si offerse da sè, e tanto facile, che il nostro buon Giacomo se ne spaventò, e l'avrebbe voluta più difficile, più lontana eziandio.

Ma in fin de' conti, non l'aveva fatta lui, nè chiamata. Si dolse dell'improvviso male che aveva colto la padrona, e se ne dolse tanto più, in quanto che, sulle prime, a lui uomo ignaro di siffatte cose, era parso assai più grave di quello che invero non fosse, ed aveva creduto la padrona in articulo mortis. Ma il suo primo pensiero, appena si parlò di chiamare un medico, fu quello di metter la mano sul giovine vicino. E per verità, fu tutto amore per la signora, e amore intelligente, che gli fe' pigliare la strada della collina, anzi che quella del piano.

Laurenti fu fatto passare dalla governante in un salotto, e di là nel pensatoio della signora Argellani, dov'ella aveva i suoi libri e il suo telaio da ricamo, quindi nella camera da letto.

Egli penetrava a bella prima nel santuario della dea; ma il suo turbamento non gli consentì di badare a cotesto, nè allo sfarzoso buon gusto che aveva presieduto all'arredamento di quella camera.

Su d'un letto a baldacchino di seta azzurra come i paramenti della camera, adagiata sul copertoio di raso color di rosa, trapunto a fiorami, era la signora Argellani, vestita ancora, ma col seno discinto. Le sue fanti, non avendo avuto tempo nè agio a spogliarla, si erano fatte ad agevolarle il respiro a furia di forbici, tagliando per tal guisa la vita della veste, il busto e lo scollo di una camicia di tela battista, che pendeva arrovesciato a brandelli.

Il giovine si accostò al capezzale. La signora era bianca e fredda come persona morta; e tuttavia, sebbene così fredda e bianca, cogli occhi chiusi e le labbra scolorate, appariva bellissima; quel collo e quel seno, mirabilmente modellati, davano immagine di quelle stupende forme di cera nelle quali l'arte rivaleggia colla natura, e fa, Dio mi perdoni, pensare assai più che la natura viva.

Fu prima cura di Laurenti mettere la mano al polso e quindi sul cuore della supina, per accertarsi che la vita non l'avesse abbandonata. Ma giammai indagine di medico fu fatta con più casta riserbatezza. Egli non aveva nè occhi nè senso che per esplorare le pulsazioni del sangue e i battiti del cuore. E nulla sentì; solo un lieve sudore che gli inumidì le mani additava il patimento di quella povera carne senza colore, e insieme col patimento la vita.

Lo stato d'anemìa era evidente, e una breve osservazione da vicino raffermò nell'animo di Laurenti il concetto ch'egli si era formato pochi giorni innanzi, vedendo la signora Argellani da lunge. L'anemìa, questo brutto male che (parlo agli ignari di medicina e di grechi paroloni) significa privazione, scemamento considerevole della sostanza del sangue, era visibile nello scoloramento dei tessuti, nella scomparsa dei vasi sottocutanei; donde l'estremo pallore della pelle e delle membrane mucose delle labbra, nelle quali qualche vaso filiforme portava a mala pena un po' di color roseo sbiadito.

Luisa era come una povera pianta, che aduggia, intristisce, sottratta alla benefica azione della luce. Che grave rammarico aveva fatte le tenebre intorno a lei? Qual era il sole della sua vita, che, oscuratosi ad un tratto, le scemava negli interni meati e le scolorava il sangue, nutrimento necessario dell'organismo umano?

Questa era la incognita che Laurenti avrebbe voluto scoprire. E intanto chiedeva alle fanti che cosa avessero fatto per richiamarla in sè stessa.

—Le abbiamo spruzzato il viso,—risposero,—con acqua di fior d'arancio.

—Che! Non serve a nulla. C'è acqua di Colonia?

—Credo di sì,—rispose la signora Tonna, avvicinandosi allo specchio, dove erano boccette di acque odorose.

Ma siccome la signora Tonna, da quella tranquillona che era, non si spicciava punto, Guido corse egli stesso a rovistare in tutti quelli arnesi del mondo muliebre.

—C'è dell'acqua di Felsina;—disse la governante,—ma di Colonia non ne trovo.

—Acqua di Felsina? tanto meglio; è più aromatica. Prendete qui, voi altre, strofinatele con quest'acqua il petto…. più giù…. sul cuore, mentre io le ne stropiccio le mani. Così va bene; ancora, ancora, fino a tanto che ricuperi i sensi.

—Oh Gesummaria!—esclamò la signora Tonna, lasciandosi cadere su d'una scranna—povera signora! E adesso crede Lei che potrà rimettersi?

—Sì, certo, non dubiti. Vede? La comincia a muover le labbra; queste frizioni aromatiche fanno il loro effetto. Ma che modo le è venuto male? Forse qualche commozione improvvisa?….

—Oh no, signore; io stava di là, nella mia camera, e mi disponevo a venirle a chiedere se avesse bisogno di me, per andarmene a dormire. Poichè, sappia, signor dottore, che io patisco di nervi; la fatica prolungata mi fa male, e bisogna che mi metta a letto di buon'ora…. Questa sera son certa che passerò una cattiva notte…. molto cattiva. Figurarsi! Dopo un colpo così forte….

—Ma, signora Tonna!—le gridò spazientito il Giacomo, che stava sull'uscio, cogli occhi addosso a Laurenti, e già lo vedeva mordersi le labbra,—Non è del suo mal di nervi che le domanda il dottore, bensì della padrona, per sapere in che modo la è caduta in svenimento.

—Ah sì, perdevo la testa!—soggiunse la pacifica governante.—Ero dunque venuta qui presso, nella camera accanto, per chiedere se aveva nulla a comandarmi. La signora stava sdraiata sul lettuccio, ma non ci badai, perchè la c'è tutte le sere e non parla mai, anche quando ci son io a tenerle un po' di compagnia. Le parlai e non mi rispose; solo mi accennò colla mano che me ne andassi pure; ma io mi avvidi che soffriva, e fu un miracolo di nostro Signore che non ubbidissi; poichè subito dopo mandò un gemito e mormorò: mi sento morire. E allora io chiamai gente, perchè ha da sapere che io non posso veder patire una mosca, e mi coglie subito il mio male…. un brutto male….

—Ma,—interruppe Laurenti,—Ella ha detto, se ho inteso bene, che la signora è tutte le sere a meditare sola e silenziosa nel solito posto.

—Tutte le sere, e alla stess'ora! Oh la non dubiti, che non manca neppure una volta. Già, e' bisogna dir tutto…. Ella si stanca con quelle sue passeggiate in giardino, così cagionevole com'è; ed io l'ho raccomandato più e più volte al Giacomo, che la lasciasse tranquilla. Egli è qui presente, e può dire se non è vero.

Il Giacomo incominciò a rispondere crollando le spalle, come colui che non menava buone alla signora Tonna le sue fisime intorno ai danni del moto.

—Oh che?—soggiunse poi,—L'aveva da star sempre murata in casa? Ella ci sta fin troppo per sua elezione, la povera signora; che se noi non le si dice di muoversi un tratto e di scendere a respirare, un poco d'aria, ella starebbe di continuo sdraiata sul suo lettuccio a contare i moscherini che volano.

—Egli ha ragione;—disse Laurenti.—Queste sono malattie che tolgono insieme colle forze la volontà, e s'ha da vincere, col moto continuo, colla mutazione dell'aria, quella naturale propensione che hanno gli ammalati a stare fermi. Così pure è necessario che siano distolti da quella malinconia del pensar sempre. L'eccesso della vita intellettuale riesce a danno della vita fisica, e non aiuta a far sangue.

In quella che così ragionavano, la signora Argellani si mosse e diede un gemito. Laurenti, il quale l'aveva sempre tenuta per mano, proseguendo a stropicciarle le estremità coll'acqua di Felsina, s'inchinò rasserenato verso di lei.

La vita era a poco a poco tornata; il sangue rifluiva liberamente. Poco dopo, la signora Luisa aperse gli occhi, sebbene a mezzo, e senza guardare in nessun luogo.

—Stia di buon animo, signora;—le disse dolcemente il giovine.—E' non è stato nulla…. un po' di debolezza soltanto.

—Dove sono?—mormorò ella,—Mio Dio! La vita non mi ha dunque abbandonato?

—Oh, che cosa dice mai?—esclamò la signora Tonna, che si era affrettata ad avvicinarsi al capezzale.—Vossignoria ha avuto un po' di male, come l'altra volta; ma noi tutti le siamo sempre stati dattorno….

—Grazie, mia buona Antonietta, grazie! E così dicendo, la signora Argellani aperse gli occhi del tutto, provandosi a guardare. La prima cosa che vide, fu lo stato suo, la persona discinta; e una fiamma pallida e lieve le serpeggiò sulle guancie. Laurenti intese il pensiero dell'inferma, e afferrato un capo del copertoio di raso sul quale era adagiata, fu sollecito a ravviarlo sul petto ignudo; ed ella, seguendo degli occhi quel braccio di persona ignota che le stava daccanto, si volse a guatare il giovine, tra spaurita e curiosa.

—Non abbia timore, signora;—le disse egli allora, per rispondere in qualche modo a quella muta interrogazione.—Sono un amico.

—Gli è il medico,—soggiunse Giacomo, facendosi innanzi anco lui,—ed io sono andato a chiamarlo in fretta, appena mi fu detto che Vossignoria si sentiva male.

—Un cattivo medico, in verità;—ripigliò Laurenti.—Ma in un momento di bisogno, val meglio che nulla.

—Grazie anche a Lei, signore;—disse la bella inferma, stendendogli la mano;—ho molto sofferto, ma le sue cure mi hanno giovato, e adesso mi par di rinascere.

—Aiutiamo dunque, e presto, la madre natura. Ella incominci a mettersi a letto senz'altro, che intanto noi penseremo al rimanente.

Ciò detto, si ritrasse, perchè le sue donne avessero agio a spogliarla, e dopo avere ordinato qualche pozione che le confortasse lo stomaco, andò a sedersi nel salotto vicino, per meditare sulla malattia di quella donna gentile, ma anzitutto per raccogliere e mettere a sesto i suoi pensieri confusi.

Colà seduto a fantasticare da solo, gli avvenne di innamorarsi della malattia, come già s'era innamorato della donna. Il cuore e la mente erano interessati del pari in quella grand'opera. Poter vincere quel male, e restituire il sangue in quelle vene colme di linfa! Egli in quel punto si pentì davvero di non aver confortato colla pratica assidua lo studio di quell'arte salutare, che gli appariva tanto più nobile allora, in quanto che doveva rivolgersi a salvare una vita cotanto preziosa per lui. Ora questo per lui significava per tutto il mondo. Il mondo senza quella donna gli sarebbe paruto a gran pezza più paurosamente nero di quel sogno sulla distruzione delle cose, che Lord Byron descrisse in versi tali da mettere i brividi addosso ad ogni generazione di lettori.

Salvarla, salvarla! Ma come? Il suo consiglio senza guida si aggirava in un circolo vizioso di ragionamenti, come un povero disgraziato nel labirinto di Creta, senza il filo pietoso di Arianna.

La causa, pensava egli, la causa morale di questa malattia, chi la indovina? Che giova sapere come si restituisce al sangue la materia colorante, se quel nemico nascosto, invisibile, seguiterà a guastare il faticoso lavoro della scienza? Si sa che il nemico c'è, e che veglia ai danni vostri! mirabile scoverta! Ma dove sia, donde venga, come sia forte, la scienza di tutta la facoltà riunita, non saprebbe chiarirvi.

Gli è un uomo; sì certamente un uomo! Ma è vivo, o morto, rammarico del passato, o angoscia del presente? O forse non è nè l'una nè l'altra cosa? La negazione dell'amore, la mancanza di questo necessario elemento di vita in un cuor sensitivo, non potrebbe inaridire le fonti della esistenza in quella gentil creatura, come, e forse peggio di un amore violento?

Ogni cosa è possibile. I segni della clòrosi sono cosiffattamente somiglianti a quelli dell'anemia, da farle parer quasi gemelle, ed esse, come si scambiano a vicenda i caratteri, così avviene che possano anco scambiarsi le cause.

Il nemico, il nemico! Scoprire il nemico nascosto; gli è questo il problema.

Così pensava Laurenti, seduto su d'un seggiolone, coi gomiti appuntellati sull'orlo di una tavola rotonda che sorreggeva una gran lucerna di bronzo dorato. La lucerna era accesa, ma la luce, sebbene gli illuminasse la fronte, non gli rischiarava punto i pensieri.

Questo è il problema!—disse, e cangiò postura. Nel muoversi a quel modo, gli venne veduto un volume, legato stupendamente, colle carte dorate e le iniziali della signora impresse a fuoco sulla coperta. Le mani gli corsero a quel libro, mentre il pensiero era altrove, e macchinalmente ne apersero i fermagli.

Era quello un albo da ritratti, o alla prima figura che gli cadde sott'occhio, un pensiero gli balenò nella mente. La soluzione ch'io cerco si avrebbe a trovare qui dentro? Se un amante c'è, vediamo dove può essere stato collocato. L'albo è la raccolta di tutti gli amici e di tutti i conoscenti effigiati. Ma costui, come indovinarlo? Dove metterò il dito, per dire: egli è qui? Cerchiamo intanto; di solito, smaglianti ritratti dell'uomo amato si mettono nelle ultime carte, confusi fra una signora grinzosa, un parente lontano, od altre persone di minor conto, per modo che non risaltino agli occhi del riguardante curioso.

Sfogliò il libro con molta cura; vide persone note, ma nessuna figura d'uomo gli parve colorire il concetto ch'egli s'era formato. Uno solo lo trattenne alquanto a pensare, un solo ritratto d'uomo, che veniva dopo quello della marchesa di Roccanera, anzi, chiudendo il libro, combaciava con esso.

—Chi è costui? Ah, lo ricordo, il Percy; un bel giovine, in fede mia; occhi neri e grandi; capelli nerissimi e lucenti; i contorni finissimi; ma egli c'è alcun che di duro, di sarcastico, in questa fisonomia che vuol parere soave. Gli è stato messo accanto alla marchesa Bianca, alla Bianca, come dicono i nostri eleganti, e ci sta bene. L'altro giorno erano insieme all'Acquasola, ella su d'un magnifico leardo pomellato che correa l'ambio, ed egli su quel sauro che ha comperato per quindicimila lire dal Nelli di Rovereto, e il Nelli le ha subito perse in una notte al Casino. Ma che diamine vo almanaccando io? Qui non c'è l'uomo ch'io cerco, e forse ha ancora da nascere. Quella è una malattia la cui causa morale è una negazione, e non altro.—

Buttata là questa sentenza, e l'albo sulla tavola, si alzò più contento, per ritornare nella camera della signora Argellani.

La bella inferma si era addormentata, e la lieve respirazione, il battito regolare del polso, sebbene assai debole, facevano testimonianza del buon effetto delle frizioni aromatiche e della pozione corroborante che aveva bevuto poco prima.

Egli stette a contemplarla un tratto, al fioco chiarore del lumino da notte, posato sulla lastra marmorea del tavolino, accanto alla cortina del capezzale. Com'era bella in quella tranquilla postura, e com'era dolce quel sonno!

L'opera sua per quel giorno era finita, e con essa si dileguava in quel momento l'ansietà del medico che indaga ed aiuta lo scioglimento di una crisi. Allora il giovine cominciò a guardare con altri occhi, vo' dire cogli occhi del cuore, la signora Argellani, e a misurare il gran passo che aveva fatto in quella sera, nel corso di due o tre ore. Egli si vedeva là, nel santuario, accanto a quella donna che poco innanzi ei temeva di non dover avvicinare giammai; si vedeva solo, autorevole, al suo capezzale, angiolo custode del sonno, e certamente suo salvatore più tardi.

Così almeno pensava e prometteva a sè stesso, con quella fidanza generosa che è propria dei giovani, e segnatamente degli innamorati.

Studierò, diceva in cuor suo; la scienza, interrogata dall'amore, non ha segreti, Studierò, consulterò, vaglierò tutte le sentenze dei maestri, pur ch'io sottragga questa bella creatura alla morte.

Poi, sempre guardando alla dormente, si ritrasse dalla camera sulla punta de' piedi, e uscì dalla palazzina, dopo aver raccomandato che non turbassero il sonno all'inferma, e detto che sarebbe tornato alla mattina vegnente.

X.

È mia opinione che il sole non spuntasse mai più splendido dal monte di Portofino, che in quel giorno il quale segui la visita di Laurenti alla sua bella vicina.

So bene che molti si proveranno a darmi sulla voce, mettendo fuori le loro ricordanze personali (e chi non ci ha le sue, lampi di gioia viva in un cielo di tenebre!) o quelle dei loro amici; ma io tengo fermo, e non patisco osservazioni. Essi notino, del resto, che nell'anima di Guido Laurenti si riunivano, si maritavano anzi, due consolazioni: l'amore nascente che ottiene la sua prima vittoria, e la coscienza d'essere stato utile in qualche modo alla persona amata.

Il giovanotto s'era addormentato con cinque o sei libri di medicina tra le pieghe del suo coltrone, e si svegliava più tardi del solito. Però, quando fu alzato, vide che il servitore aveva fatto egli stesso il giardiniere, e maneggiato l'inaffiatoio per lui; cosa che non era accaduta tre volte in un anno.

Si vestì con la sua eleganza consueta, che era gemella della semplicità; passeggiò alquanto pei viali; poi quando gli parve ora, scese nella viottola, e spinse l'uscio del giardino di sotto, che il Giacomo aveva già aperto secondo la sua intenzione.

Il Giacomo, dal canto suo, quantunque non avesse nulla a fare laggiù, stava baloccandosi nella prateria, e rimondava un salice, che ci aveva la gran ventura d'essere vicino a quella postierla per cui doveva entrare il Magnifico.

—Buon giorno a Vossignoria—gridò il giardiniere, appena lo ebbe veduto.—Questa mattina ella ha aspettato l'alba dei tafàni per alzarsi da letto.

—Sì, ero un po' stanco. Ma come va la signora?

—Benissimo, e sia benedetto il medico che l'ha curata! Io ci ho proprio avuto una buona ispirazione, e me ne voglio vantare, quantunque i miei vecchi dicessero che chi si loda s'imbroda. Sa Lei, signor Laurenti? L'ispirazione m'è venuta quando eravamo in casa sua, dove, per sua grazia, mi condusse a vedere quella filza di bestiuole e di barattoli. E veda un po' se non ho fatto bene; la signora ha detto che da tre mesi in qua non aveva più avuto un sonno così tranquillo come stanotte. Bravo, signor Magnifico, e bravo io che l'ho tirato giù dal suo muraglione!

—Voi dimenticate, caro il mio Giacomo, che prima d'esser tirato giù da voi, vi avevo tirato su io stesso con una pianta di camelia…… che io avevo tirato giù a bella posta.

Il lettore intenderà di leggieri che quest'ultima parte del suo ragionamento, Guido non l'avea messa in parole, e se l'era tenuta gelosamente per sè.

—Del resto, buon Giacomo,—proseguì il giovane,—la gran medichessa è stata sempre la natura. V'hanno sostanze semplici le quali fanno tutto, e l'uomo se ne piglia immeritamente il vanto, come se fosse lui l'inventore, il creatore delle sostanze stimolanti e delle deprimenti che un giorno a caso conobbe, nè tutte per bene, e che battezzò tutte con orribili nomi. Nel caso della vostra signora, e' non c'era a far altro che stimolare un tratto l'inerte materia, e questo ho fatto io, senza molta fatica.

—Sì, sarà vero, ma queste sostanze bisogna saperle adoperare a tempo e luogo. O che, mi canzona? Vossignoria è un gran mago, e non vuol sentirselo a dire.

Laurenti si messe a ridere, e salutato il buon giardiniere, si avviò verso la palazzina.

Anche per la signora Argellani il sole s'era levato più bello, quel giorno. Ella s'era alzata alla sua ora consueta, e stava seduta presso la finestra, a bere la tiepida aria del mattino, quando Laurenti entrò nel suo pensatolo.

La donna gentile arrossì lievemente, come poteva una povera anémica, vedendo il suo giovine Esculapio.

—Signora,—balbettò egli, inchinandosi profondamente, come per nascondere la sua commozione—già alzata a quest'ora?

—Sì, mi sentivo meglio, assai meglio dei giorni scorsi;—rispose la signora Argellani,—ed ho voluto poterle testimoniare col fatto la efficacia delle sue cure. Ma anzitutto il suo nome, perchè io lo ricordi come quello di un amico…..

—Guido Laurenti, signora, e desideroso di meritare questo titolo.

—Già siamo buoni vicini;—disse ella;—ma io per verità non sapevo che Ella fosse medico, e che il rimedio stesse accanto alla malattia, con un semplice muro di separazione. Qui tutti la credevano un naturalista, e più particolarmente un botanico.

—Mi diverto, signora; lo studio è una grande consolazione alla gente sola, e fa bella la solitudine stessa.

—Alla sua età!

—Ho già vissuto molto, signora, e senza lo studio, che apre nuovi orizzonti allo sguardo dell'anima, avrei potuto finir male. Ma parliamo di Lei; come va il polso?

—Veda;—gli rispose la signora Argellani, sporgendogli il braccio.

—Non c'è male; ma sono troppo piccole pulsazioni. Signora, badiamo bene; qui c'è una malattia di sfinimento, che alla sua età (lasci che parli anch'io dell'età) che alla sua età non ci dovrebbe essere. Ora, se io le ragiono liberamente della sua malattia…..

—Oh non ho paura, io!—interruppe la signora Luisa sorridendo malinconicamente.—Amo anzi che mi si parli così.

—Sta bene, e ciò mostra la buona tempra dell'animo suo; ma io non ho poi da dirle nulla che metta alla prova il suo coraggio;—rispose Laurenti.—Se io le ragiono liberamente della sua malattia, egli è che il suo organismo non ci ha punto colpa, sibbene il pensiero.

La signora Luisa non fe' motto, quantunque Laurenti si fosse fermato a bella posta per avere una parola di lei, da riappiccare il discorso. Ella in quella vece chinò la testa e guardò il pavimento.

—Orbene, gli è il pensiero che fa guerra all'organismo, e in Lei, signora, l'organismo ha resistito e resisterà ancora un pezzo; ma non bisogna far troppo a fidanza con esso. Quello che è accaduto ier sera non deve ripetersi.

—Oh lo desidero anch'io;—esclamò con atto di sgomento la signora
Argellani—Fu invero una brutta visione. Stavo seduta pensando…..

—A che cosa?—interruppe Laurenti.

Quella dimanda parve riuscisse molesta alla signora, poichè, fattasi anche più pallida dell'usato, alzò gli occhi a guardar fiso Laurenti.

—Signora—proseguì egli—non le paia disdicevole la mia dimanda. Chi le parla è un medico, e quando anche non lo fosse, Ella ha voluto cortesemente salutarlo col nome di amico.

—Sì, sì, e perchè alla perfine tacerei?—disse l'inferma, dando in uno scoppio di pianto improvviso.—Stavo pensando a morire. Mi pareva d'essere già supina nella bara, ad attendere il mio ultimo momento. La campagna tutt'intorno era bella; un usignuolo cantava tra i rami di un albero dietro la mia testa: più lunge mi pareva di scorgere una strada e centinaia di allegre persone che andavano e venivano, ragionando e ridendo, senza accorgersi punto di me. Ma le son fanciullaggini, coteste…..

—No, signora; rispose Laurenti, prendendole affettuosamente la mano—La prego anzi a continuare.

—Orbene, mentre l'usignuolo cantava, ed io avrei pur voluto scorgerlo; mentre quella moltitudine allegra andava a diporto, mentre il cielo era sereno e una brezza leggiera correva per l'aria, facendo stormire le fronde, a me andava man mano affievolendosi il respiro. La vita se ne andava, e mi pareva di vederla, come un umor diafano, rifuggirsi dalle estremità, rifluire verso il cuore, dove c'era uno spiraglio, per cui quell'umor diafano svaporava, svaporava sempre. Io non potevo muovermi; le mani e le braccia, che già erano gelide, non mi obbedivano più, siccome avrei voluto, per metterle contro quello spiraglio aperto e chiuder dentro un rimasuglio di vita, tanto almeno ch'io potessi veder dileguare in fondo della scena quella allegra processione di felici, e udir l'ultimo gorgheggio dell'usignuolo che seguitava a cantare. Volevo gridare, ma non mi veniva fatto; lo sforzo anzi non faceva che aiutare, precipitare, lo svaporamento di quell'umor diafano che rifluiva al cuore, ed io, con gli occhi sbarrati, ne stavo a contemplare la spaventosa consunzione. E il vapore saliva, saliva in leggieri vortici che non mi era dato di respirare, imperocchè quella brezza che se li rapiva, non giungeva mai fino alle mie labbra. Oh, fu un lungo e terribile sogno che io non vorrei rifare per fermo.

Così dicendo, la donna gentile si nascose il viso tra le palme, singhiozzando amaramente.

Guido stette un momento sovra pensieri; quindi, accostandosi a lei, le disse con accento soave:

—Signora, desidera che io le spieghi il suo sogno?

—Ella?

—Sì, io; non ho la scienza dei magi antichi, ma ho fede che il mio poco ingegno riesca ad interpretare il suo sogno, e meritarmi il suo favore, come la interpretazione di un altro sogno meritò a Giuseppe ebreo la grazia del Faraone. Vuol dunque udirmi?

—Ella è il mio medico, sebbene da ieri soltanto;—disse la signora
Luisa—ed ha il diritto di farsi ascoltare.

—Orbene, signora, la sua triste visione dice apertamente una cosa: che Ella ama la vita.

—Io?—esclamò l'inferma, accompagnando la parola con un amaro sorriso.

—Sì, Lei. Non l'ama certamente come l'amano tanti, per le sue gioie materiali, pe' suoi sollazzi, ma l'ama, perchè è istinto della creatura amar quello che il creatore le ha dato; perchè infin de' conti, nella vita più malinconicamente vissuta, egli c'è sempre alcun che di leggiadro, di gentile, poniamo il canto di un usignuolo invisibile, la favella arcana di una onesta coscienza, o il soffiar della brezza, o un raggio di sole, alito e luce di poesia, che i crassi vapori della tristizia dei più non possono dileguare nè spegnere nelle anime elette. Guai se non fosse così; guai se l'istinto della conservazione non fosse riposto qui, nel profondo del cuore. Chi di noi non vorrebbe farla finita, e rompere ad un tratto questa catena di miserie? Il suicidio, atto di aberrazione, quando non è una pena volontariamente inflitta alla colpa che si giudica da sè, diventerebbe la cosa più normale del mondo. Ella ama la vita, signora; Ella ama la vita, inconsapevolmente, come l'amo io apertamente, dopo aver bevuto la sua coppa, e sentito che era amara. Dunque, signora, mi lasci parlare, mi consenta di entrare nel segreto del suo cuore, colla discreta autorità del medico e dell'amico. La sua malattia è una di quelle che crea il pensiero, e in esse si compiace; ed Ella si strugge, perchè il pensiero, dopo aver dato argomento al male, assiste inerte ai suoi spaventosi progressi.

—È vero!—disse la signora Argellani, guardando in viso, non senza curiosità, quel vecchio di ventott'anni, dai capegli biondi e dagli occhi cilestri che le parlava a quel modo.

—Ora,—proseguì Laurenti,—come il pensiero sta seduto a contemplare la propria rovina, così le sue membra si prostrano, e direi quasi che rifuggono dal moto, se il rifuggire non indicasse moto egli medesimo. Ecco perchè, più le sue forze si scemano col distrursi della sostanza vitale, più Ella ama rimanersi immobile, seduta lunghe ore su d'una scranna; ecco perchè il pensiero ha modo di foggiarsi una bara e adagiarvisi dentro ad aspettare la morte. Non è così?

L'inferma accennò dal capo, in atto di assentimento.

—Così seduta, non turbata da alcuno, perchè è padrona in casa sua, e può sorseggiarsi a sua posta quel veleno soave, Ella pensa, pensa di continuo. Il sangue, in cui vanno sempre scemando la materia colorante e le altre parti più sostanziali, s'è fatto più acquoso, a gran pezza più leggiero, e scorre dieci cotanti più rapido. Donde un facile mutarsi di pensamenti e d'imagini; i dolori della vita….. Io non conosco, nè m'attento d'indagare i suoi, signora; ma ci debbono essere, ed io li considero come un elemento della mia argomentazione…. I dolori della vita, dico, le fanno ressa, si affollano intorno al cuore, esalano al cervello di continuo, si trasformano in pallide visioni, le quali per l'appunto riflettono lo scemarsi della vita nelle sue vene, e il suo struggersi in tenui vapori; e qui la mente si offusca, il cervello dolora, fischiano gli orecchi, le idee cozzano, si confondono, la lingua s'impaccia, e sventuratamente non c'è tanta vitalità insita nelle fonti, per rifluire vigorosa alle estremità, e dissipare quella orrenda pressura.

—È vero tutto ciò, è spaventosamente vero!—disse la inferma crollando mestamente il capo.

—Or bene, signora, tutto ciò ha da finire. Gli stimolanti della scienza possono in cosiffatte agonie richiamare la vita, ma fino a tanto che la loro efficacia non siasi perduta, consumata dalla consuetudine sulle regioni cardiache e sulle estremità delle membra. Ma all'interno vuolsi provvedere, perchè coteste agonìe non si ripetano. Le sostanze ferruginose, i tonici, i cibi analettici (tutte parole che io non le starò a spiegare, perchè la scienza non perda anch'essa la sua materia colorante) debbono rinnovare il sangue, e ravvivare l'organismo per conseguenza. Alla complicità assassina del pensiero debbono far guerra i mezzi igienici, che consistono principalmente nel moto, nel mutamento dell'aria, cose tutte che recano novità di sensazioni e, disviando gradatamente l'animo dalle sue morbose consuetudini, finiscono a cacciar di sede l'interno nemico.

La signora Luisa stette anch'essa un poco sopra pensieri, come solea fare il suo interlocutore; poi gli rispose con quella lentezza che le era dimestica:

—Ella parla divinamente, signor dottore. Intendo ora com'Ella abbia saputo incantarmi il Giacomo, il quale non sa discorrere più che di Lei. E certo, se a me premesse molto di ricuperare la salute per godere la vita, io potrei mettermi ad occhi chiusi nelle sue mani, ed esser sicura del fatto mio. Ma innanzi di pensare a risanare, bisognerebbe che rinascesse in me il desiderio di vivere.

—Ma questa che Ella mi chiede sarebbe la convalescenza;—rispose Laurenti—ora nessun medico, sia pur Boherave redivivo, potrebbe condurla di primo salto a cotesto.

—Vede Ella dunque? Io non desidero la vita. Soltanto mi spaventa il dolor fisico; quello svenimento di iersera mi ha fatto paura, lo confesso. Ma se io potessi andarmene chetamente, senza una commozione violenta…..

—Ma perchè, Dio santo, perchè?…..—proruppe Laurenti, cogli occhi gonfi di lagrime.—Questo, signora, è odio di sè, e un'anima eletta non ha da sentire di così brutte passioni.

—Odio? no—rispose l'inferma.—Io non ho mai odiato nessuno, lo giuro a Dio che mi ascolta, e che Ella ha invocato. Non odio neppur me, povera creatura, che non ho mai fatto male ad alcuno. Ho a tedio ogni cosa, ecco tutto, senza frasi sonore, senza ira, senza rammarico.

Laurenti non seppe rispondere più nulla. Quella malattia resisteva a tutti i suoi consigli, a tutte le sue esortazioni. Chinò il capo, chiuse il volto nelle palme, e stette immobile, silenzioso, mentre nel profondo del suo cuore infuriava la tempesta.

Il soave accento della signora venne ad interrompere quel lungo silenzio.

—Suvvia, che cos'ha? che cosa ho detto io di male?

—Oh, gli è doloroso, signora, ciò che Ella dice, e più doloroso ancora ciò che fa pensare altrui. Perchè dispregia la vita? La vita è triste, ma è santa del pari, come tutte le tristi cose. V'hanno dolori da temprare, lagrime da tergere, adorazioni da innalzare, splendori da scorgere, e ci lasceremmo intristire nello sconforto? Il mondo, o signora, ha pure le sue gioie severe, le sue consolazioni profonde, che francano la spesa di vivere.

—Lo credo anch'io, signor Laurenti; Ella, come uomo, ha potuto trovarle, e nella sua operosa gioventù saprà prepararsi il conforto della età matura. Ma che faremmo noi donne, noi deboli, noi diseredate di questo gran patrimonio dell'umana attività?

—C'è apparenza, non sostanza di verità, in ciò che Ella dice. Io le concederò che la donna, o per natura sua, o per diversità di educazione, ma sempre per tirannia di consuetudine, non apparisca chiamata a partecipare ai gaudii multiformi della operosità umana. Ma, dicendole tirannia di consuetudine, ho detto ogni cosa. La educazione si può mutare; la natura si tempera col mutarsi della educazione.

La signora Argellani rispose a queste parole con un sorriso d'incredulità che messe Laurenti al punto di volerla convincere.

—Ella sorride?—soggiunse egli.—Voglia starmi ad udire. Andrò un po' fuori della medicina, ma che importa? Poi, con una malattia come la sua, anche il mio ragionamento potrà riuscire un rimedio.

—Vediamo dunque il rimedio—disse la signora Argellani.—Ella ha da dimostrarmi che la donna può partecipare alle grandi consolazioni della operosità umana. Io ho detto che non può; Ella dice che potrebbe, se non fosse la consuetudine. Io dico ciò che è; Ella ciò che dovrebbe essere. Ora io la avverto, signor dottore, che il mostrar la terra promessa da lunge, il dire «così potreste essere» non è punto un rimedio.

—Ho io detto cotesto?—rispose Laurenti.—La donna apparisce non chiamata a certe cose, ma pur ch'ella voglia, può dare una mentita a tutte le teoriche de' suoi avversarii. Poi, egli non è detto che tutte le supreme consolazioni della attività, consistano nel dar leggi ai popoli, nello scoprire i segreti della natura, nel sottoporre a teoremi il finito e l'infinito. V'hanno gaudii più conformi all'odierno modo di vivere della donna, i quali superano di gran lunga quelli dello scienziato e del pensatore, ed Ella non vuol metterli in conto?

—E quali sono?—chiese la signora Luisa.

—La storia progressiva della educazione e della importanza della donna nell'umano consorzio li dimostra assai meglio d'ogni mio ragionamento;—rispose il giovine.—Andando per due o tremil'anni a ritroso nella storia della civiltà, noi vediamo il ginecèo essere l'antica forma dell'esistenza femminile in quella medesima società di cui siamo gli eredi. Colà, in que' tempi, la donna non è che strumento di voluttà. I figli stessi che essa dà alla luce, non li educa lei. Sparta ed Atene educano i figli in comune; Roma stessa li sottrae per tempissimo alla madre, per metterli sotto la bacchetta del precettore. L'adolescente romano canzona sua madre intorno alle segrete trattazioni del Senato, e gli scrittori applaudono a quell'arguto sennino, imperocchè le donne non hanno da entrare nelle faccende dei loro mariti e figliuoli, ma da starsene in casa, alla conocchia ed al fuso, per meritarsi l'epitaffio della matrona romana: Casta vixit, lanam fecit, domum servavit. L'unica donna libera dei tempi antichi era la cortigiana, l'eteria; la quale, per conseguenza, era la sola che fosse utile a qualche cosa nel mondo, dappoichè intorno a lei convenivano, come oggi nella conversazione di una gentildonna, i più ragguardevoli personaggi, ed ella inspirava i filosofi e i magistrati, governava la repubblica ed esercitava il più bel diritto del reggitore di Stati, il diritto di grazia. Per tal modo la famiglia, diventando presso che inutile, tornava uggiosa all'uomo. Quella importanza che si negava alla moglie, alla sorella, alla madre, alla donna di casa, era acquistata dalla eteria, col sacrificio del pudore, il quale in fondo in fondo non doveva parer troppo grave, se era fecondo di tanti benefizi per lei.

—Fin qui, disse la signora Argellani, salvo l'ingegno del mio ottimo medico, non vedo nulla che faccia al caso mio.

—Ora vengo al buono, gentil signora, rispose Laurenti sorridendo.—La società cristiana ha trasformato la donna, o, per dir meglio, ha accettato la trasformazione che il cozzo di parecchie nazioni, la fusione di un nuovo metallo di Corinto, avevano recata nel suo grembo. Certo, per dar ragionevole nascimento all'uomo-dio, bisognava immaginare una donna superiore a tutte le altre, un vaso d'elezione. Ma se Maria nei primi tempi cristiani è già grande, non è ancora la Madonna, la consolazione degli afflitti, la madre della misericordia, la regina dell'amore. Il gran miracolo dell'affetto, nei primi tempi di cui parlo, è compiuto dalla donna di Magdalo, anche essa un'eteria, che sparge d'unguenti preziosi i piedi del Nazareno, che li asciuga col volume dei suoi capegli, che è la prima ad affermare il mistero della risurrezione. La vera donna, il tipo della società moderna, si manifesta più tardi, quando la società germanica e la società giudaica si confondono nella nuova fede, quando la Vestale romana, la profetessa di Rugen e la profetessa d'Israele, scompaiono, e rimane, giganteggia la forma femminile più umana e più vera, che è rappresentata dalla donna teutonica che combatte sui carri, e dalla gran madre dei Maccabei, Nella nuova società, la donna è già considerata come l'educatrice dei proprii figli, la consigliera del marito, il compimento dell'uomo. Cotesta gran novità ha portato i suoi nobilissimi frutti. Nel medio evo la donna è già elemento potentissimo di civiltà; essa ingentilisce il costume, accende gli animi alle mirabili imprese, e, dopo aver presieduto le corti d'amore, detta un poema a Dante, un canzoniere a Petrarca. Ancora un passo innanzi, ed ella stessa contenderà all'uomo gli allori, sarà viaggiatrice ardita con Ida Pfeiffer, scienziata insigne con Maria Sommerville, scrittrice e pensatrice profonda con Giorgio Sand. Se ella possa diventar pari all'uomo, non so, e non voglio indagare, poichè mi è noto che in tante e tante cose lo ha superato. Ma veniamo al caso nostro, signora. Ella è sola, ha cuore e mente, e nessun ostacolo allo svolgimento della sua operosità. Quanta libertà di azione, che alla più parte delle donne è vietata, sta raccolta nelle sue mani! Ed Ella non vorrà usarne? Si lascierà vincere da arcane malinconie, si lascierà morire come la povera vittima dell'antico ginecèo, perchè l'uomo, il sultano, l'aveva posposta ad un'altra?

—Non intendo il paragone;—disse la inferma rizzando il capo e guardando in volto Laurenti, come se volesse indagar negli occhi di lui un intento riposto di quelle sue ultime parole.

—Ed io non ho voluto fare un paragone;—rispose prontamente ii giovine.—Le chiedevo in quella vece se le paresse dicevole una imitazione di quella fatta.—

La signora Luisa stette un tratto silenziosa; poi, a mo' di commento a tutto il discorso del suo medico, si fece a dirgli:

—Queste sue argomentazioni, delle quali riconosco il pregio, sono molto generiche, e non mi persuadono ancora della utilità del vivere, per una donna mia pari.

—Perchè? C'è egli bisogno di intender tutto? Si opera secondo il proprio cuore, secondo il proprio consiglio. L'attività è l'uomo. Fare, fare, è l'impresa gentilizia di questo grande ignorante che è l'uomo, di questo credente nel cuore, scettico nella mente, che Goëthe ha incarnato nel suo Fausto. Fare, fare; ed è perdonato anco l'errore, e i patti col diavolo, anco se scritti col proprio sangue, non tengono; chi più ha operato, colla coscienza di voler giungere al vero, ha salvato l'anima sua. Infine, o signora, chi saprà dire il perchè siamo nati? E se cotesto non si potrà saper mai, perchè fermarci a mezza strada? Operiamo con retti intendimenti; non turbiamo l'ordine prestabilito. Ella, che si reputa un granellino di sabbia, la cui scomparsa non abbia a guastare, e nemmanco ad essere notata, può essere in quella vece necessaria a qualche cosa per utile di qualcheduno, o a qualcheduno per utile di qualche cosa. Mi avvedo che comincio a ragionare come un filosofo tedesco, ma la sostanza è vera.—

Il naturalista filosofo si fermò, aspettando qualche nuova obbiezione da combattere; ma la signora Luisa era rimasta muta. I concetti che egli aveva svolti le giravano confusi per la mente, come una musica nuova di cui non s'è anco potuto cogliere il senso melodico.

—Dunque,—proseguì egli, a mo' di perorazione—farà Ella ciò che io le ho detto?

—Non so, signor Laurenti.—E perchè, poi?…

—Perchè? Già lo ho detto le sode ragioni. Se queste non approdano, metterò mano alle scherzevoli. Pensi Ella che il suo medico è giovane; che ha bisogno di una clientela, e che se Ella si lasciasse morire, e' si farebbe canzonare da mezzo mondo, e l'altra metà non vorrebbe far capo a lui. Ella dunque vede che si può esser sempre utili a qualche cosa.

—Oh, se la mia missione in terra ha da esser questa…—disse la signora Luisa.

—Ho trovato questa,—rispose Laurenti—poichè Ella non ha voluto saperne delle altre.

—Intendo benissimo; ma anche per questa, mi ci vorrà la vocazione, e in verità non la sento ancora, sebbene io vorrei pare far cosa grata ad un amico come Lei. Non creda del resto che io desideri morire; la verità si è che non mi sento la voglia, nè il bisogno di vivere. Ella faccia i suoi esperimenti; gli è ciò che io possa consentire al mio medico; ma penso che sarà una vana fatica.

—Vedremo!—sclamò Guido, e si alzò, poichè notava che quella lunga conversazione aveva affaticato lo spirito della signora Argellani.—Del resto, tornerò domattina.

—Ella sarà sempre il benvenuto.

—Come medico?

—Come amico.

—Torna lo stesso, infin de' conti. Gli amici sono ottimi medici, ed io ci guadagnerò una doppia laurea. Ella intanto si attenga alle ordinazioni del suo…. amico.

Com'egli fu uscito dalla camera, la signora Luisa si fece a meditare su tutte le cose che egli le aveva detto, ma con pochissimo frutto, imperocchè il dolore che la donna gentile ci aveva nel profondo, non la perdonava a nulla, pari all'orribile tenia che si cela nelle viscere e distrugge il cibo, volto al sostentamento del corpo.

—Buon giovine e forte intelletto!—pensò la donna gentile.—Se fa il medico, salirà presto in rinomanza. Ma la sua fama e' non ha certo a cominciarla con me.—

E sospirò. Il suo pensiero era già altrove.

XI.

La malattia della signora Luisa appariva ostinata oltre ogni credere, e Laurenti scorgeva come fosse malagevole il vincerla, imperocchè tutto quanto egli avrebbe tentato di fare, coll'aiuto della scienza, per rinnovare il sangue in quel morente organismo, sarebbe stato quotidianamente combattuto, contramminato, distrutto dall'interno nemico.

Questo nemico e' lo aveva sentito, quasi lo aveva veduto. Alcune frecciate, accortamente tratte, avevano colto nel segno, e l'interno struggitore avea dato cenno della sua assidua presenza.

A chi non è egli avvenuto, nei dì dell'infanzia curiosa e sollazzevole, di andarsi a sdraiare su d'un prato, quando l'erba è falciata, e la terra lascia scorgere, tra ciuffi di verde reciso, tutti i misteri della sua crosta? Si notavano allora certi buchi, artisticamente scavati tra le radici della gramigna o del sermolino, che andavano in linea diagonale nel profondo della terra, e dato di piglio ad un fuscellino, il più diritto e il più lungo che si potesse trovare, si frugava leggermente in quella piccola tana, fino a tanto che non si vedesse sbucar fuori un animaletto nero, dalla corazza rabescata. Era il grillo solitario, il notturno cantore, che faceva capolino sull'uscio, e si rintanava sollecito.

Questo ricordo d'infanzia tornò alla mente del giovine. Il negro animale, stuzzicato dalle sue dimande improvvise, era comparso più volte, mostrando le sospettose antenne, ma s'era rimbucato da capo. La sua presenza era posta in sodo, ed oramai, per sloggiarlo, e' bisognava lavorar di fine, usare accorgimento e prudenza, ma non dargli più tregua.

Ella non vuole essere risanata, pensò, dappoichè non vuol consolarsi, riamare la vita. S'ha dunque da risanarla a suo malgrado, e senza che veda, senza che sospetti il come. Disturbiamo il suo pensiero, non gli diamo più agio di operare, e sarà tanto tempo guadagnato pel lavorìo della scienza. La natura farà il rimanente. Nei recessi dell'anima stanno rimedii sottili, imponderabili, ignoti, ma potenti, efficaci, solo che abbiano il modo di svolgersi. E' fu un sassolino, spiccatosi dal monte, che scese a rovesciare la statua. L'operosità latente, stimolata da un nonnulla, in certe occasioni particolari, si sveglia e riedifica; il germe, bagnato da una goccia di rugiada, si fa pianta e prospera anco in una fenditura di marmo.

Laurenti argomentava benissimo, e il suo cuore indovino metteva le fondamenta di un ottimo sistema terapeutico. Ma egli v'era alcun che di maggiore, di più efficace, che gli veniva in aiuto, e che egli per fermo non poteva scorgere, non che mettere in conto, poichè quella tal cosa era egli, egli stesso. La signora Argellani non aiutava il suo medico, non lo secondava nei generosi conati ch'egli faceva per arrestare lo struggimento delle sue forze vitali. Ma intanto un nuovo elemento era penetrato nella sua esistenza, e creava necessariamente consuetudini nuove. Il ghiaccio era rotto; la primavera alitava dintorno a lei, tutti i suoi stimolanti profumi, tutti i suoi vivaci tepori. La bella inferma credeva di esser sempre sola col suo rammarico, e non lo era già più. Il suo deserto era popolato, e un'aria di giovinezza, spirando da tutti i lati, recava i germi della vita nuova. Stava daccanto a lei l'apparenza del medico; ma sotto quella spoglia tranquilla, palpitava il cuore, ardeva la mente dell'innamorato, che doveva circondarla di una rete invisibile, operare per la sua anima, ingombra dal tedio d'ogni cosa, quello che aveva operato la fantastica volontà di un altro innamorato per gli occhi di Caterina di Russia, allorquando fiorivano i giardini e sorgevano i villaggi lungo la brulla strada che essa doveva percorrere.

Ora, questo innamorato, fin dal primo momento aveva impreso a fabbricare la sua rete. Uscito dalle stanze della inferma, era andato dal Giacomo, diventato di botto suo primo assistente, ad indettarsi con lui per tal cosa che questi dovesse fare nel giorno medesimo.

La conseguenza di questo dialogo si fu che, verso il cadere del sole, la signora Argellani scese a diporto in giardino.

Era fiacca, come al solito, la donna gentile, e dopo aver passeggiato per pochi minuti, come fu presso l'albero di pino, si adagiò sul rustico sedile, e rimase immobile per contemplare le nuvole rosee dell'occidente. L'immagine del suo medico era le mille miglia lontana.

Ma il medico, lontano dalla sua mente, non era distante dall'albero di pino. Egli veniva lentamente pel sentieruolo, col capo chino, col suo solito libro tra mani, e si avvicinava a lei, che finalmente allo scalpiccio de' piedi sulla ghiaia, volse gli occhi dalla sua parte, e si addiede della sua presenza.

La prima impressione che quella vista fece nell'animo della signora Argellani, fu di molestia; ma, cortese com'era, si pentì tosto, e volse al suo medico il più affettuoso saluto.

Laurenti intese quel senso di molestia, e si sentì stringere il cuore; ma vide il pentimento subitaneo e si riebbe. Il volto diafano della signora era uno specchio fedele di tutte le interne sensazioni.

—Signora, le disse egli inchinandosi, le chieggo scusa e licenza ad un tempo di venirla a turbare nella solitudine del suo giardino. Ero venuto a cercare del Giacomo, del mio amico e collega in botanica.

—Ella non ha da chiedere nè licenza nè scusa, signor dottore, ed è qui, come lassù, padrone assoluto.

—Grazie; ed io vengo per l'appunto a far atto di padronanza.

—Ah! esclamò là signora con un sorriso che invitava a proseguire.

—Sì, soggiunse Laurenti, debbo impadronirmi d'una bella varietà di viole del pensiero, la quale io non ho, e il suo giardino ne ha parecchi esemplari. Così passeggiando sono sceso ne' suoi dominii….

—Col fidato volume tra mani, aggiunse la signora.

—Fidato davvero; è il mio Virgilio.

—Come? Dalla scienza alla poesia?

—Sissignora, ma poesia latina.

—Che differenza ci vede ella, signor dottore?

—Grandissima. Qui c'è la fragranza arcana della lingua disusata; però si studia ogni frase, si colgono intime bellezze di espressione che nella lingua nostra non si avvertirebbero nemmanco.

—Ed ecco una consolazione che noi povere donne non possiamo avere, noi sbandeggiate dagli studi classici.

—Ah, Ella si ricorda della conversazione di stamane? Questo è buon segno, almeno per me!

Ciò detto, e per non prolungare un dialogo che la signora Argellani aveva cominciato per mero debito di cortesia, Laurenti si volse al giardiniere, che stava pochi passi discosto a sarchiellare un'aiuola.

—Orbene, Giacomo; la mia pianta…

—Oh, non se l'ha mangiata il lupo, signor Magnifico, ed è laggiù che l'aspetta. Se Vossignoria vuole portarsela con sè, venga e la leveremo da terra.

—Signora,—disse Laurenti, volgendosi alla donna gentile—potremo averla patrona in opera di tanto rilievo?

—Volentieri.

E la signora Argellani si alzò: ma Guido non le offerse il braccio, sebbene ne avesse una voglia spasimata. Con quella donna ci voleva giudizio, e l'amore, che lo fa perdere a tanti, ne dava al giovine naturalista una libbra di più.

Egli anzi, con quella facilità che è sempre l'eccesso dello stento, si messe a chiaccherare di botanica e di orticoltura col Giacomo, dei proverbi contadineschi sul bel tempo e sulla pioggia, e di altre cose simiglianti, con le quali io non eserciterò per fermo la pazienza del benigno lettore. Venne poscia una filatessa di considerazioni sulle figure che erano rappresentate dai quattro petali screziati della viola del pensiero; quella per esempio che il Giacomo levava da terra per lui, era il ritratto parlante di un professore di greco di sua conoscenza…. e sapeva il greco del pari. Considerazioni che fecero ridere la signora Argellani, quantunque ne avesse così poca voglia nel cuore.

Ma erano pallidi sorrisi, come dicono i francesi con efficacia d'immagine. La gentil donna non era punto distratta; anzi seguitava la conversazione, e con quella eletta cortesia che è pregio naturale delle grandi anime, tenea vivo ella stessa il dialogo, aiutava le arguzie a sbocciare. Senonchè, mentre le labbra parlavano e sorridevano, in fondo al cuore c'era il vuoto, e di tanto in tanto ella ne sentiva gli arcani stringimenti.

Intanto venne la notte, e colla notte l'eterno discorso della rugiada, che invita a mettersi al coperto. Guido stava per accomiatarsi, ma la signora Argellani lo invitò ad entrare in casa, ed egli si tenne i suoi saluti tra i denti.

Era quella la tristissima ora, l'ora saturnia della giornata, per quella povera bella. Era l'ora in cui, in altri tempi, il campanello scosso mandava il più argentino dei suoi squilli, e poco dopo il servitore, sollevando la portiera del salotto dov'ella stava a lavorare, o a suonare il cembalo, diceva le consuete parole: «il signor Eugenio Percy.»

Egli entrava e portava la luce con sè. Ragionavano di nonnulla, nei primi tempi, stavano a guardar la luna dai vetri delle finestre, si bisticciavano fanciullescamente per una fettuccia, per una acconciatura di testa, per un'aria di ballo; ma i nonnulla dicevano una cosa sola; la luna sollevava nei loro cuori la marea di un solo sentimento; tra le loro contese, tra gli sdegni e il volar degli strali, danzava sempre, si rigirava uno spirito folletto colle alucce di farfalla, il quale spandeva filtri amorosi nell'aria e avvelenava le punte col miele.

Più tardi, non si guardava più la luna, non si contendeva più di nonnulla; era in quella vece un intimo favellio, un ricambio di dolci pensieri, una melodia susurrata, sospirata anzi, nella nicchia d'un sofà di velluto, colle mani strette nelle mani, gli occhi incantati negli occhi. Poi la lettura di un libro, spesso interrotta, o insensibilmente trasmutata in un'estasi; poi l'attesa di lui, fino a tanto che ella si fosse vestita per andare a teatro: poi un mondo di cose, e tutto in quell'ora, tutto ricordato in quell'ora, riassunto in quell'ora.

E quell'ora, già consacrata da tanto affetto, era vuota. I bei giorni erano finiti; il nodo si era spezzato; ma quell'ora non poteva essere dimenticata, per le consuetudini che essa richiamava alla mente.

A me duole di averlo a dire, perchè mi si darà forse, ed immeritamente, nota di materialista. La consuetudine è un forte vincolo; ella rafforza l'affetto quando è vivo e lo fa parer vivo quand'esso è già morto. Per tal guisa durano certi amori e certe amare ricordanze che la dignità offesa dovrebbe aver discacciate dall'anima. Imperocchè, se il cuore sanguina, la ragione può rimarginare la ferita; ma la consuetudine, quest'abito morboso della esistenza, offende i nervi anche dopo il risanamento, e riproduce la sensazione del dolore.

Quell'ora dunque era vuota; nessuna novità veniva mai a turbarne la solitudine dolorosa, e la povera inferma, seduta in un angolo del suo pensatolo, suggeva più veleno in quell'ora che in tutto il rimanente della giornata. Guido Laurenti, senza conoscere la cagione, aveva indovinato il male, anzi il punto culminante del male.

Entrato nel salotto della signora Argellani, egli stette a discorrere di cento cose. Ella era un tal poco distratta: ma era già molto che non fantasticasse da sola. Di discorso in discorso, di palo in frasca, si venne a ragionare di viaggi, e Laurenti si fece a dirle della mania ch'egli aveva da giovine di correre il mondo, mania tanto più forte, quanto egli era più impossente a soddisfarla.

Suo padre amava che egli studiasse; danari quanti ne voleva, ma non si muovesse per nissun pretesto da Genova. Un giorno, cionondimeno, fatti gli esami del primo anno di medicina, e' gli aveva mandato un bel gruzzolo di monete, perchè contentasse la sua voglia di andare a Roma. Quel viaggio e' lo aveva in mente da un pezzo, e gli parea mill'anni di non mettersi la via tra le gambe; ma l'uomo propone, e gli amici dispongono. I danari del babbo erano andati in mano di uno strozzino, per salvar dalla prigione un suo amico e parente, che era meno ricco e più scapato di lui, Come cavarsela con suo padre? E sopratutto, come cavarsi la voglia di fare una gita? Pensa, ripensa, e' non trovò altro partito che quello di viaggiare nelle proprie tasche, e dettare una relazione del viaggio, per mandarla a suo padre.

Gli era un bel paese davvero, sebbene un po' brullo. Anzitutto non c'era da snocciolare nemmanco una lira in beveraggi a' cocchieri; il conto dell'oste si pagava colla massima agevolezza; i ciceroni non costavano nulla. La scatola dei solfanelli lo conduceva a dotte considerazioni sul progresso delle industrie; il fil di seta col quale erano cucite quelle tasche, lo guidava fuori del laberinto, e di costura in costura lo portava a passare la Manica. Una lettera, un sigaro, erano accidenti importantissimi del viaggio. La scoperta di un ultimo scudo nel taschino del panciotto, era un amico, un compaesano trovato a mezza strada. Il conto del sartore che lo aveva vestito, poteva adombrare benissimo un incontro di briganti che lo avessero spogliato. E giù di questa conformità. Il padre aveva letto, aveva riso, ed aveva mandato qualche altro migliaio di lire a suo figlio, perchè andasse a viaggiare da senno.

Il racconto era condito di piacevolezze, di argute considerazioni, di modeste reticenze. La signora Argellani, da distratta si fece attenta, si lasciò andare in balia di nuove sensazioni, e viaggiò anch'essa col suo medico, diventato di punto in bianco umorista, sulle orme di Enrico Heine e di Giuseppe Revere.

Suonarono le dieci. La negra cura per quel giorno era vinta; il medico otteneva il suo primo trionfo, senza rullo di tamburi e senza suono di trombe.

Nè fu la sola. Il giovanotto, diventato prudente come la serpe della Scrittura, aveva diradate le sue visite mattutine, poichè il permesso di scendere dopo il pranzo nella villa Argellani, gli recava la dolce consuetudine di veder la signora con manco cerimonie, e accompagnarla di prima sera in casa, dove stava a ragionare una o due ore con lei. Gli era un medico, un amico ed un vicino insieme; condizione complessa, irta di difficoltà, imperocchè egli aveva sempre qualche cosa a temere. La donna malinconica, infastidita del vivere, poteva un bel giorno non vedere altro in lui che il medico ostinato a risanarla, e ribellarsi alle sue cure. L'interno nemico, stretto soverchiamente, potea rivoltarsi anco lui, e condurre la signora Argellani a sospettar dell'amico, a diffidare delle cortesie del vicino. Gli bisognava dunque temperare accortamente una cosa coll'altra, star di continuo all'erta, indovinare qual lato dovesse porre in rilievo, qual altro dissimulare. Fatica improba, che solo un profondo amore potea far sembrare gradita.

Le ore dopo il pranzo erano, come ho detto, consacrate al giardino. Virgilio rallegrava il viaggio dalla postierla fino all'albero di pino; quindi andava a dormire nelle tasche della giubba, e cominciavano le svariate conversazioni. La signora era di mente colta come di cuor delicato, e Laurenti sapeva farla pensare, com'ella sapeva farlo parlare. Si usavano cortesie a vicenda, e le ore passavano rapide come baleni.

I pallidi sorrisi, le dolci malinconie, i subitanei stringimenti di cuore, rispondevano ai diversi stati dell'animo della signora Argellani. Ma intanto la natura operava, e le nuove consuetudini si filtravano inavvertite nel suo delicato organismo. Guido Laurenti, il quale, per tutta la gente di casa, era il Magnifico, vo' dire il medico, e che ci aveva acquistato una grande autorità, dettava la lista della colazione e del pranzo; poi, col pretesto di procacciare sonni lunghi e tranquilli all'inferma, le dava a bere i suoi tonici, le sue pozioni ferruginose, e le andava man mano rinnovando il sangue nelle vene.

Non se ne addava ella punto? No certamente, poichè non le accadeva mai di pensarvi su. La sua melanconia non era apertamente turbata, ed ella lasciava che il medico facesse a modo suo. I modi del giovine erano prudenti e cortesi; la conoscenza di lui non riusciva di peso, ed ella non poteva scorgere in lui un amante.

O come non lo vedeva?—chiederà taluno. Le donne vedono sempre ogni cosa.

Sì, benigno lettore, esse vedono sempre ogni cosa, ma quando non abbiano in mente una di quelle preoccupazioni, le quali tolgono di badare al rimanente. Vi è egli mai avvenuto di amare una donna, la quale vi usava ogni maniera di cortesie, e frattanto non andavate innanzi di un passo? Quella donna, se vi rammenta, pensava ad un altro, e voi, poverino, voi non eravate che un semplice amico. Noi, pigliati a mazzo, uomini e donne, non abbiamo cuore che per chi piace a noi, e quando il cuore non c'è, egli avviene eziandio (salvo il caso di una dichiarazione, la quale non consenta più di ignorare) egli avviene, dico, che non ci sia neppure la mente. E voi, un bel giorno che quella lunga adorazione sulla soglia del tempio v'era paruta troppo lunga, fattovi un cuor da leone, incominciavate a parlare. Ella a prima giunta si meravigliava di quella novità, poi vi compiangeva, s'industriava a consolarvi con melate parole, e finalmente vi metteva, sebbene con tutti gli onori dovuti ad un cuor generoso, fuori l'uscio di casa. Voi tosto a maledire il giorno, l'ora e il momento che l'avevate veduta; voi a farle colpa de' suoi superbi disdegni, e perfino delle sue gentilezze. Povera donna! Come si è spesso ingrati ed ingiusti per ragion d'egoismo!

Non mi si dica dunque che le donne vedono tutto. Vedono, quando non hanno altra immagine che loro ingombri la vista. Se il loro cuore è tranquillo, sì certamente elleno si accorgeranno del vostro amore, anche quando sia ai cominciamenti, anche prima che ve ne accorgiate voi medesimo. Ma pur troppo, con tutta la loro avvedutezza, con tutta la loro perspicacia, le povere donne hanno la benda sugli occhi, quando amano e soffrono.

E nulla vedeva, di nulla si accorgeva, di nulla sospettava la signora Argellani. Vi ho già detto che ella non si addava quasi dell'opera del medico, e che ignorava affatto il lavoro possente della nuova consuetudine. Il rimedio arcano, imponderabile, si era svolto dai recessi della sua anima, ed operava inavvertito come la dose dell'omeopatico.

Guido Laurenti, dal canto suo, cercava sempre il nemico, e lo combatteva gagliardamente, efficacemente, senza conoscerlo ancora.

XII.

Impastata, se così può dirsi, di bellezza e di fiele, per modo che l'interno umore spandendosi sul volto gli conferiva un'aria antipatica, e per contro la bellezza delle forme faceva a molti dimenticare di chieder novelle dell'anima, la signora Perrotti Maria Aurelia al fonte battesimale, era una delle più eleganti dame di Genova, e delle più reputate eziandio.

Ella teneva conversazione il lunedì, nel suo sontuoso quartierino di via Palestro, e convenivano colà tutti coloro che cantassero e chiacchierassero di più entro la cerchia daziaria della capitale ligustica. Colà tenori, baritoni e soprani dilettanti assassinavano Verdi e Rossini; colà, vecchie che volevano parer giovani, stolidi di ogni età e d'ogni risma, Veneri pensionate, Adoni in disponibilità, assassinavano la riputazione del prossimo. Le novelle del giorno, i pettegolezzi della civil compagnia, passando pel salotto della signora Aurelia, uscivano rifatti nella forma più corretta, come la pasta bianchiccia che si mette nella cartiera, esce tesa, levigata ed asciutta sul cilindro, per modo che ci si potrebbe già scrivere.

Aveva un amante la signora Perrotti? Oibò, la era una rispettabilissima dama, e la maldicenza aveva abbastanza ossequio figliale per lei da non rivoltarsi contro sua madre. Io medesimo vi giuro che ella non amava nessuno, e che nessun uomo, di que' tali che onorano una donna dandole l'incenso dei loro affetti, s'era mai innamorato di lei. Ve l'ho dipinta bella, e non v'era alcuno per verità che non la salutasse tale; anzi a molti piaceva; ma i cuori più ardenti, fattisi da presso a lei, sbollivano gradatamente; intorno a quella donna, senza saperne il perchè, si gelava. I coraggiosi c'erano stati, ma non di que' tali che ho detto più sopra; ed io potrei narrarvi una storia…. Ma non la voglio commettere a questi fogli, perchè pur troppo non fo altro che copiare dal vero, ed anco i meno facili conoscitori di maschere, potrebbero dire: è la tale!

Costei un giorno, dieci anni innanzi i tempi di cui ho impreso a narrarvi, insuperbiva della corte spietata che le faceva Eugenio Percy. Ma la Argellani in quel torno era capitata a Genova, e il signorino, attratto da quella nuova e più efficace bellezza, aveva levato prontamente l'assedio che ancora non era scavata la seconda parallela. L'amor proprio, che di tutti gli amori è il più permaloso, aveva toccato una ferita mortale. Ma la signora Perrotti se n'era ricattata a misura di carbone. Percy non aveva anche baciato il sommo delle dita alla bella Argellani, che già il suo trionfo era strombazzato ai quattro venti. Il signor Argellani, vecchio Alcibiade che se la spassava a Milano, lunge dalla bella moglie, ma molto vicino ad una prima donna di mezzo cartello, di mezzana bellezza e di mezzana virtù, vide pioversi le lettere anonime che assassinavano la fama (intemerata, vi so dir io, intemerata) di sua moglie, e gli parvero un'ottima ragione per ravvicinarsi sempre più al mezzo cartello sullodato, e chieder poscia una separazione in formis.

Il processo era fecondo di scandalo, e c'era a Genova chi se ne stropicciava le mani e l'acquolina gli correva alla bocca. Ma il vecchio Alcibiade, un bel giorno (io lo chiamerò proprio un bel giorno) era capitombolato da cavallo e s'era rotto una gamba. La cangrena era sopraggiunta e se lo aveva beccato, lasciando libera la mal maritata signora Luisa, e gli amici dello scandalo con un palmo di naso. La donna gentile stette fuori di Genova qualche tempo; poi tornò, e vivendosene sola, fuori di scena, ridusse anche le male lingue a tacere. Infatti, che cosa di nuovo rimaneva loro da dire, se tutto il peggio già l'avevano detto, quando non era anco vero?

Le rare comparse in teatro, lo andar sempre a diporto in carrozza e fuori di città, l'avevano come appartata dal mondo. Pochissime signore andavano a farle visita, tra le quali la signora Perrotti, che giurava d'esserne innamorata e di non poter vivere senza di lei. Diplomazia femminile, che potrebbe dare dieci punti dei sedici ai gran maestri dell'arte politica!

Senonchè, anche le visite da lunga pezza erano cessate. La malattia era stata un ottimo pretesto per la signora Argellani a non muoversi di casa, e in breve quelle poche visitatrici, amiche del buon tempo, e ligie al cerimoniale, avevano spulezzato. Da tre mesi non se n'era veduta una alla palazzina gialla, nemmeno la signora Aurelia, quella che non potea vivere senza vederla!

Il lettore può dunque argomentare come fosse gran meraviglia per tutta la gente di casa, veder giungere un dì, verso le due dopo il meriggio, la signora Perrotti, inamidata, impettita, colla piuma bianca sul cappellino, e un gran galano sotto il mento, per visitare l'inferma.

La gente di casa non sapeva che in tutti i ritrovi e conversazioni di Genova, dove la signora Argellani era conosciuta, correva la voce di un peggioramento della sua malattia. Già i medici, a detta di ognuno, l'avevano data spacciata; epperò la signora Perrotti, la sua buona amica, non poteva ritenersi dallo andare da lei, per vedere che figura facesse un'amica moribonda. Il cuore di alcune donne ha delle strane consolazioni!

La signora Luisa era in quel punto seduta nel suo salotto, insieme con Guido Laurenti, che le aveva portato un libro nuovo, promessole la sera innanzi. Ella cominciava a provare i benefici effetti della cura assidua, affettuosa del suo medico. I colori della bella salute non erano anche tornati sulle sue guance smarrite, ma per chiunque l'avesse veduta un mese innanzi, il miglioramento era notevole, e prometteva grandi cose.

Quando le annunziarono la signora Perrotti, ella rimase stupefatta, e fu molto che potesse sollevarsi a mezzo dal sofà, come in atto di farsi incontro alla Aurelia, che correva ad abbracciarla.

—Or bene, come va questa bella inferma?—disse la Perrotti, dopo aver fatto scoppiettare le labbra asciutte sulle guance della signora Luisa.—Ma bene, in verità! Qui c'è odore di miracolo…

La signora Aurelia aveva pur ragione a maravigliarsi, dappoichè lo stato della Argellani non rispondeva punto al ritratto che le avevano dipinto i benevoli.

—Mia gentile Aurelia—le disse la signora Luisa, ricambiandola di atti cortesi—io ti ringrazio davvero della buona memoria che hai conservata di me.

(volume secondo)

—Che, che! Figurati se io non pensavo alla mia Luisa! Non ho potuto correre, come avrei pur voluto, prima d'ora, per tante cose che avrò a dirti più tardi. Già saprai che il Gigi è stato a letto anche lui parecchie settimane, pel suo solito male; poi i figli di mia sorella da rimandare in collegio, dove non volevano stare… Insomma ognuno ci ha le sue da contare. Ma finalmente eccomi qui! Come son lieta di vederti, la mia buona Luisa!

E così parlando con una volubilità straordinaria, la signora Aurelia stava girando e rigirando per tutti i versi, accarezzando e mettendosi sul cuore, le manine sottili della signora Argellani.

Laurenti era lì presso, in uno stato d'angustia che ognuno intenderà di leggieri. Egli già stava per mettere la mano sul suo cappello e prender commiato, allorquando la signora Argellani, vedendo come l'amica sua lo avesse già più volte guardato, si fece a dirle, accennandolo:

—Il dottore Laurenti, al quale io sono debitrice della vita.

—Ah!—esclamò la signora Perrotti, guardando fiso il giovine—sono lieta di conoscerlo. Signor dottore, se Ella ci risanerà la nostra bella Luisa, noi le vorremo un gran bene.

—Grazie—rispose Laurenti alzandosi, e facendo un inchino;—ma la signora Argellani risanerà, perchè è giovane e forte, ed io non ci avrò merito alcuno.

—Troppa modestia, signor dottore!—ripigliò a dire la Perrotti, in quella che stava notando il turbamento del giovine;—la gratitudine di tutti gli amici della mia bella Luisa, non può venir meno per simiglianti dichiarazioni. Ma sai, Luisa, che tu sei grandemente mutata? Tu mi sembri già fuori di convalescenza, e noi vogliamo vederti in mezzo a noi, senz'altro indugiare.—

Queste erano le parole proferite dal labbro; ma ecco che cosa pensava intanto la signora Perrotti:

—Qui c'è del segretume, e bisogna metterlo in chiaro. Me la davano spedita dai medici, ed ella è qui seduta nel suo salotto, col suo medico accanto… un medico che non si sa chi sia, nè donde venga… un medico molto giovine, troppo giovane, e bello per giunta alla derrata, il quale si turba, perde le staffe appena gli si mettono gli occhi addosso. A me non le si danno ad intendere! L'innocentina! Era lì per morire! E la ci ha il cascamorto a' fianchi!… Qui c'è del segretume, dico, ed ho fatto assai bene a venire.

Intanto la signora Argellani rispondeva alle cortesie della Perrotti:

—Mia buona Aurelia, sono così fiacca, ed ho così poca voglia di muovermi!

—E che fatica ci hai tu da fare? Ti metti in carrozza, e via. Tutti i lunedì in casa nostra c'è sempre il fiore della buona compagnia. Canta la Morati, con una vocina da soprano che innamora, e un buon gusto, poi, un buon gusto… E la Roccanera! Quella fa bene ogni cosa; canta, e si accompagna sul cembalo in un modo!…..

Gli occhi della signora Argellani si rabbuiarono, al ricordo di quel nome di donna.

—La è davvero una bella donnina!—continuò la Perrotti.—Dicono che i suoi occhi non abbiano riscontro in tutta Genova, ed io, imparziale come sono, lo ammetto. La gentilezza de' suoi modi, il suo ingegno, poi, non temono rivali. Che te ne pare, mia buona Luisa? Non la è un ottimo acquisto per le nostre serate? Se tu non ti lasciassi intristire in casa, se tu volessi tornare a risplendere in mezzo a noi colla tua bellezza e la tua bontà, come in altri tempi, certo anche le più belle dovrebbero tremare; ma che vuoi? Chi si ritira dal campo, perde la battaglia.—

Laurenti non poteva patire quella parlantina, innocentissima in apparenza, e piena di tradimenti nel fondo. Egli, avvezzo da molti giorni a notare ogni cosa, e cogliere i sospiri al volo, vedeva come la signora Luisa soffrisse a quelle parole della sua visitatrice. Ed egli pure si sentiva a disagio, ma, fiutando la guerra, non perdeva una sillaba.

—Anche il Percy, sai, è venuto ai miei lunedì. Che farfalla, Dio buono, che farfalla gli è mai! E da te, cara Luisa, non è venuto da molti giorni?

—Nè da giorni, nè da mesi;—rispose la signora Argellani, posta alla tortura.—Io non vedo nessuno da un pezzo.

—E allora perchè raccontarmi una frottola?—disse la caritatevole amica, con aria di chi faccia una domanda a sè stesso.—Or saranno due settimane, gli ho chiesto di te, ed egli mi ha risposto che stavi benissimo. Io perciò ho creduto che fosse stato a vederti. Ma guardate un po' che cavalieri, a' dì nostri! Non parlo per Lei, signor dottore; ma invero i signori uomini hanno oggimai certe consuetudini!…. Cavalli, cani, giuoco e bellezze di palcoscenico! Bisogna vederli in teatro, metter fuori le braccia dai palchetti e dagli scanni, per far pompa d'applausi!…. A proposito di teatro, sai, Luisa? Abbiamo un'ottima prima donna, una francese, un fior di bellezza, checchè ne dica il Percy. Figurati che l'altra sera, da me, c'è stata a questo proposito una discussione coi fiocchi. La Bianca affermava, e con ragione, che fosse bellissima; Percy s'era incaponito a dire di no, e indovina il perchè? Te lo do alle mille.

—Non saprei…..—si provò a dire la signora Argellani.

—Eh, capisco che bisognerà dirtelo. Percy non voleva che la prima donna fosse bella, perchè non aveva gli occhi della Bianca, i capegli della Bianca, il profilo della Bianca, e giù una litania di questa fatta, che gli die' causa vinta. È molto arguto il Percy….. ma, a dirti il vero, mi diverte qualche volta e non mi piace mai.

—Signora, che è? si sente male?—gridò Laurenti, balzando dalla sedia ed accostandosi alla signora Argellani, che egli era sempre stato a guardare attentamente, fino a quel punto.

La donna gentile si sentiva diffatti venir meno, e, non osando farsi scorgere, s'era aggrappata, per tener ritta la persona, al bracciuolo del sofà, mentre gli occhi smarriti, stravolgendosi nelle orbite, troppo chiaramente mostravano il patimento dell'anima.

—Nulla….. Nulla…..—rispose ella, chetandolo con un cenno della mano distesa.—Il caldo mi soffoca….

—Oh, povera la mia Luisa!—gridò, strillò la Perrotti, giungendo le mani.—E che fare adesso, signor dottore?

—Aprire quella finestra, anzitutto!—rispose Laurenti; poi, volgendosi alla inferma, si fece a dirle:—Animo, signora; un po' di calma, e il male passerà subito. Senta l'aria fresca che viene…. Io già le aveva raccomandato più volte di non stare così rinchiusa, e ier l'altro, per l'appunto, Ella ebbe a pentirsi di non avermi voluto dar retta.—

Non era vero niente; ma Guido aveva notato ogni cosa, aveva indovinato che crudel passatempo fosse venuta a pigliarsi quella pietosa amica, e non voleva che il patimento improvviso della signora Argellani potesse rimanere senza una spiegazione ragionevole innanzi a quella donna impastata di bellezza e di fiele.

Che ella fosse persuasa dalle invenzioni di Guido Laurenti non vi dirò; certo in apparenza le menò buone, e ne tolse argomento a parecchie esortazioni, affinchè la sua Luisa, la sua cara Luisa, volesse ascoltare i consigli di chi le voleva bene ed amava vederla risanata prestissimo.

Frattanto il giovine che voleva salvar le apparenze per gli altri, tradiva sconsideratamente sè stesso. L'ansietà che traspariva dagli occhi e dal gesto, era a gran pezza maggiore di quella che avrebbe potuto manifestare, in un caso più grave, il medico più dimestico, più stretto in amicizia alla persona inferma. In genere, il seguace di Esculapio, come quegli che intende le ragioni del male, e che ha fatto il callo a tutte le commozioni, non si spaventa, non si riscalda oltre misura. Guido, in quella vece, era come tramortito, bianco nel volto come un cencio lavato, e se la signora Argellani non fosse stata là, adagiata sul lettuccio, cogli occhi stralunati e le membra prosciolte, si sarebbe potuto credere che l'ammalato fosse lui.

—Ah, ah!—pensava la signora Perrotti, guardandolo di sottecchi.—Il medico ha perduta la testa. E si voleva darla ad intendere a me! Vedete l'innocentina che si moriva d'affanno per l'abbandono di Percy, e già si diceva che fosse per innalzarsi il rogo, come la regina di Cartagine. Che l'amor proprio abbia patito, s'intende; ma far l'eroina da romanzo, poi, figurarsi! Il consolatore è un bel giovine, in fede mia. Se Percy lo vede, metto pegno che va in collera. Quell'altro là è un vanitoso, il quale s'immagina che tutte le donne abbiano a morire per lui, e non può credere che una, piantata in asso da lui, si consoli con un altro. La Roccanera lo ha sulle corna, e quando egli se ne sarà persuaso, il che non tarderà molto, e' vuol starmi fresco davvero! Bene, bene; qui c'è da far quattro chiacchere per lunedì sera. Ma anzi tutto andiamo a darne notizia a qualche amica; intanto, qui non ho altro da fare.—

E finito questo monologo, si alzò per andarsene.

—Se tu avessi bisogno di me, e se io potessi esserti utile, rimarrei. Ma qui sono d'impaccio e null'altro, mia cara Luisa, e il tuo ottimo medico e la signora Tonna porranno ogni cura a farti riavere da questo male passeggiero. Non è egli vero, signor dottore, che sarà una cosa da nulla?

—Certamente, signora; un po' d'aria, un po' di moto, e cosiffatti vapori si dileguano subito.

—Ne sono proprio contenta!—esclamò la Perrotti.—Addio dunque, Luisa; fatti animo. Io, se avrò domani un ritaglio di tempo, verrò ad abbracciarti risanata, e se non potrò io, manderò il servo a pigliar le tue nuove.

—Grazie, mia buona Aurelia;—rispose l'Argellani stendendole la mano—a rivederci—

Fatte ancora quattro parole col dottore per raccomandargli colei che essa amava più degli occhi suoi (frase che si adoperava fin dai tempi de' Romani, e che ha perduto ogni efficacia, come tutte le frasi vecchie), la signora Perrotti, inamidata, impettita, se ne andò, gittando un bacio col sommo delle dita alla Luisa, e simulando di asciugarsi una lagrima.

La signora Argellani aveva resistito a quella conversazione con una virtù non minore per fermo di quella dei martiri cristiani, che si lasciavano tanagliare il petto senza mettere un lamento. Il non essere ella andata del tutto fuori dei sensi, potrebbe citarsi come una testimonianza dei trionfi che ottiene un semplice sforzo di volontà senza altro estrinseco aiuto. La virtù dell'animo l'avea tenuta col fronte alto, e le labbra sorridenti; la virtù dell'animo le aveva dettate quelle parole: «mia buona Aurelia» che certamente non avevano ottenuto licenza dal cuore. Ma appena la Perrotti fu andata via, ella ruppe in un grido: «è male! è male!» fe' per alzarsi dal sofà, come se volesse sottrarsi al patimento che stava per vincerla, ma tosto ricadde contro la spalliera, priva di forze e di sensi.

Guido per ventura era là, pronto a soccorrerla con tutti i partiti dell'arte sua. La casa era sossopra: le fanti facevano una cosa; un'altra il giardiniere; la signora Tonna non faceva nulla, ma era già molto che non lisciasse il gatto, o non biasciasse paternostri; Laurenti, poi, badava a tutto e si faceva obbedire a puntino. Per tal guisa, il male, combattuto sui cominciamenti da una intelligente volontà, non ebbe agio a sopraffare la donna gentile, come avea fatto la volta innanzi, e non v'ebbe altro danno che la paura.

Ma qual cuore fosse quello di Guido, lascio che vel pensiate voi, o lettori. Le parole della caritatevole amica gli avevano aperto gli occhi, e quegli occhi correvano assiduamente dal volto della Perrotti al volto della Argellani, cogliendo sensi arcani di espressione, così nel viso del carnefice, come in quello della vittima. I nomi della Roccanera e del Percy avevano scosso l'inferma; la narratrice delle loro geste aveva sorriso, e non era uscita dall'argomento. Nulla era sfuggito alla attenzione di Laurenti. Il nemico c'era, ed era colui che la Perrotti aveva nominato. Glielo diceva il cuore; glielo diceva il turbamento della donna gentile; glielo diceva più apertamente di ogni altra cosa la malvagità che trapelava dall'accento affettuoso della signora Perrotti.

Il colpo che la signora Argellani aveva ricevuto, lo aveva sentito pur egli, ed era stato così poderoso che egli ne era rimasto a prima giunta sbalordito, senza aver tempo nè modo a pensarvi, senza misurare nemmanco la grandezza del dolore. Certo il colpo non gli dovea tornar nuovo; chè, intelligente com'era, il suo nemico e' lo aveva indovinato fin da principio. Le prime impressioni sono sempre le più giuste. Più tardi la sua perspicacia, esercitata nel vuoto, s'era smarrita. Alcune considerazioni sulla malattia dell'Argellani, voluta derivare dalla negazione anzi che dalla prepotenza dell'amore, lo avevano addormentato, ed egli era a mezzo del più bel sogno che uomo potesse far mai, quando la voce stridula della signora Perrotti era venuta improvvisamente a svegliarlo.

E' fu un brutto ridestarsi pel povero Guido; il suo castello di carte, tirato su con tanta costanza, con tanto affetto, era crollato ad un soffio. E bisognoso egli stesso di aiuto e di conforto, aiutava e consolava la inferma, la quale lo ringraziava delle sue cure, delle sue consolazioni, con parole fatte per tribolarlo di più, per cacciare più profondamente il verrettone nella ferita.

—È inutile, è inutile ogni cosa!—gli aveva ella detto, porgendogli amichevolmente la mano.—Cominciavo a chetarmi, a dimenticare. Ma la fatalità mi perseguita; il passato mi uccide. Adesso, Ella sa il mio segreto, signor Laurenti, e sa perchè non ho più nessun desiderio di vivere.

XIII.

L'amore è una triste cosa, e sto per dire una delle più gravi malattie dei tempi odierni. Non già che fosse sconosciuto agli antichi, chè sarebbe dir troppo; ma ogni lettore assennato vorrà ammettere che quella passione, rozza forma dell'istinto, passò per molte e molte filiere lungo il corso dei secoli, innanzi di affinarsi a quel modo che oggi si nota, e di aguzzarsi tanto, da penetrar nelle carni a guisa di pugnale.

Le svariate e progressive forme della educazione umana hanno temperato, mutato ogni cosa, e l'amore anzi tutto. L'uomo primitivo, colui che s'innoltrava nella boscaglia armato di una accetta di selce, non sentì altro nel cuore che la voce confusa dello istinto brutale. La donna non gli fu data da santità di connubio, ma dal furto, dalla rapina, e il giorno delle nozze non fu celebrato da geniali conviti, nè da canto di bardi. Chiusa nella spelonca, ella amò il suo rapitore, perchè era forte, perchè combatteva le fiere e portava a lei le spoglie sanguinose; perchè le ornava il collo coi denti del mostro ucciso, o con le pagliuzze del rilucente metallo, raccolte nel letto dei fiumi. Essa lo temeva e lo desiderava ad un tempo; non lo rispettava, non lo amava ancora. Ed egli, poi, non riconosceva che il diritto della forza; quando si sentiva offeso, combatteva; quando la donna gli andava a versi, combatteva ancora. La vita era la guerra; la soddisfazione dell'istinto era il trionfo.

Più tardi, fu gran segno di civiltà la donna chiusa in uno scompartimento della tenda. La famiglia creò le consuetudini; le consuetudini assunsero forma ed autorità di legge. Allora la donna non si rubò più; si ebbe dai parenti, in pegno d'alleanza, o in mercede di prestati servigi, sempre come una cosa, e senza dolersi molto, o rompere il patto, se ella aveva gli occhi cisposi. Si pigliava la donna come moglie, o come serva, ma non la si amava ancora; ella per contro incominciava ad amare colui che la rendeva feconda. Per lei, talfiata, se bella, si facevano guerre; il nemico calava sulla tribù come un avvoltoio sulla preda; uccideva il padrone, e ne ereditava la donna, timida creatura, senza volontà per resistere, senza odio per respingere l'amplesso di mani insanguinate.

Il greco ed il romano, tutti intesi alla vita pubblica, non hanno tempo per gli affetti soavi. La donna che amano e cantano, non è mai la moglie, ma una facile bellezza, straniera alla famiglia, Lalage, Lesbia, Cinzia, e tutte l'altre regine dell'ode e della elegia, sono donne intorno alle quali si perde la umana dignità, donne che fanno piangere in distici Catullo, Tibullo e Properzio, ma non uccidono nessuno. L'amore è un arciero bendato, che scaglia le sue frecciate perfino a Giove, suo avolo; ma nessuno muore per le conseguenze della ferita. Paragonate cotesto con Werther e Jacopo Ortis.

Antichi esempi di forti amori ve n'ha, ma feroci, teatrali, cantabili, come la forma tragica od epica per cui gli hanno fatti passare i signori poeti. L'amore da pari a pari, che si filtra in tutte le costumanze, in tutte le bisogne della vita, è scaturito dal medio evo, da questo gran crogiuolo di cose nuove, da questo ricostruttore del mondo. La donna nelle più umili sfere sociali è già la compagna dell'uomo; nelle più alte è, più che compagna, regina; tende a superarlo, e ne verrà a capo, imperocchè essa ha più virtù, più affetto, più sottile intelligenza di lui. Egli è ancora per molti rispetti lo schiavo della materia; essa è già la forma eterna, il weibliches Wesen del dottor Fausto, la diva degli antichi. Anchise che fu innalzato al talamo di Venere, Peleo che ottenne in maritaggio da Giove la più bella delle sue oceanine nipoti, non sono più a' tempi nostri invenzioni mitologiche. Il mondo appare a prima giunta più materiale, ed è in quella vece dieci cotanti più poetico di prima. Si soffre per l'amore, perchè l'amore si è immedesimato nella vita. È egli vero che noi diventiamo più deboli, più infermicci, diventando più civili? Le armature degli avi ci opprimono col loro peso, nè più verremmo a capo di tendere l'arco di Ulisse. Per contro, un dardo che a' tempi andati vellicava la cute, oggi ci entra nelle carni e ne uccide. L'amore è una malattia. Chi lo avrebbe mai detto ad Ippocrate?

Guido Laurenti era infermo da senno. Come fu uscito dalla casa Argellani e si ridusse nella sua camera, pianse a guisa d'un bambino, ma le lagrime non valsero a sollevarlo. Il suo caso era grave. Se la signora Luisa fosse stata una donna leggiera, la quale avesse stuzzicato l'amor suo per farsene giuoco di poi, egli avrebbe potuto odiarla tre mesi e disprezzarla per tutto il rimanente della sua vita. Questi odii e questi dispregi, anco sragionati (poichè non sempre si ha ragione intiera contro la donna che ci offende) aiutano a vivere, e danno, se mi è consentita la frase, il tono, il chiaroscuro alla vita. Ma come odiare la donna gentile, che era innocente d'ogni artifizio, d'ogni lusinga più lieve con lui? E come sperare di farsi amare da lei, da quella donna diventata necessaria alla sua esistenza, se nel cuore di quella donna era scolpita l'immagine di un altro? Pari alla vezzosa Minoide, abbandonata dormente sul lido di Nasso, egli non vedeva scampo, nè uscita, nè speranza, nè tregua.

Uscì finalmente di casa, dopo avere stancata la mente in ogni più disperato proposito. Aveva giurato di non andar più da quella donna; ma come fare? Non era egli il suo medico? E doveva lasciarla morire, perchè essa non lo amava e non lo avrebbe amato giammai? Era dicevole, onesto, generoso, il fuggire da lei?

Questa interna battaglia durò molti giorni. Il povero giovine voleva e disvoleva; malediceva e pregava; rimpiangeva le gioie della materia e la vita sollazzevole che avrebbe potuto fare, ad annegarvi dentro quella delicatezza di sentire che è sempre ragione di tanti patimenti; cercava gli amici e li sfuggiva; andava a consolare l'inferma, poi correva a teatro, dove qualche volta vedeva il Percy, e si struggeva a guardarlo. Se avesse potuto sfogarsi contro di lui! Ma la vendetta gli avrebbe forse divelto l'amore dal seno?

Intanto la donna gentile era sospesa tra la vita e la morte. La scienza di Guido la teneva in vita, senza salvarla, senza allontanarla d'un passo dall'orlo pauroso del nulla.

Fu questo dolente spettacolo quotidiano che rafforzò nell'anima tribolata di Laurenti il più generoso consiglio: rimanere al suo posto, contenderla con ogni sua possa alla morte, o morire con lei. Questa specie di patto, di compromesso tra il suo dolore e il dovere, valse a calmarlo, e, mostrandogli la morte come una uscita aperta nel fondo, a farlo rimanere, tranquillo in apparenza e sereno, presso la povera donna.

La malattia della signora Argellani, fatta più grave dalla ricaduta, non era di quelle che inchiodano la loro vittima sul letto. V'erano giorni ch'ella stava alzata e scendeva anche in giardino; ma lo sfinimento era manifesto, e riusciva più doloroso a vedersi, in quanto che si scorgeva la bellissima donna attendere tranquillamente a tutte le consuetudini della vita.

Un giorno, con dolce violenza, egli l'aveva condotta a diporto in capo alla prateria, vicino alla conserva delle piante esotiche. Là seduta, ella stava guardando in aria, senza fare parola.

—A che pensate, signora?—le chiese Guido, mettendo per la prima volta nel suo discorso la forma amichevole del voi.

—Penso al sole che muore;—rispose Luisa.—Vedete che dolce morire, senza improvvisi contrasti di luce e di tenebre! I raggi si vanno allontanando man mano dalla terra; poi le nuvole, anch'esse, di rosee si fanno pallide; giunge il crepuscolo…. e tra poco la notte, inavvertita quasi, apportatrice di calma.

Laurenti si nascose il viso tra le mani, per celare le lagrime che gli rompevano improvvise dagli occhi; ma il singhiozzo, che non potè nascondere del pari, fece volgere dal suo lato la signora.

—Perchè piangete, amico mio?

—Oh, voi mi fate un gran male con simiglianti discorsi!—proruppe egli a dire.—Ho la disgrazia di esser giovine, e di non saper conservare la serenità dell'animo, dinanzi alle malattie come la vostra, nelle quali la prima cagione è la volontà, e che assumono, già ve l'ho detto una volta, il carattere del suicidio. Morire! morire, perchè un uomo non vi ama!….

—No, signor Laurenti; mi conoscete assai poco. Io morirò perchè la vita non mi par bella, nè desiderabile punto. Anche gli uomini possono aver contribuito a farmela parer tale, ma non è per essi che io muoio.

—Sofisma!—esclamò il giovine,—Voi, intanto, infastidita del presente, rimpiangete il passato.

—Se ciò fosse vero, ve lo direi schiettamente;—rispose la donna gentile.—Credetemi, amico; e che io possa perdere la stima di un uomo generoso come voi siete, se io non penso ora, e fermamente, che, posta innanzi a me la scelta tra la più misera esistenza e il ritorno delle prime illusioni, non istarei in forse un solo momento ad eleggere quella. Ma, noi, povere donne, siamo pur troppo come quell'edera lassù, che dal vostro muraglione è andata ad allacciarsi al tronco dell'olmo. Non l'avete mai osservata, voi?

Guido sospirò, e non rispose.

—Or bene, io l'ho guardata spesso, e sempre con tenerezza ineffabile. Essa è il nostro simbolo, sebbene l'abbiamo così mal battezzata nel dizionario dei fiori; essa è il simbolo del cuore, di cui le sue foglie hanno quasi la forma, di cui le sue costumanze riproducono la vita. «Où je m'attache, je meurs» bella impresa che fa trovata, io credo, da una povera figlia d'Eva, la quale guardò una pianta di edera prima di me, e vi riconobbe l'immagine sua!

—L'uomo, dunque…… sempre l'uomo!—esclamò, con accento di amarezza Laurenti.

—Sì, l'uomo, se così volete,—soggiunse la signora Argellani,—ma non già un certo uomo. Strappate quell'edera dall'albero, al quale s'è abbarbicata, ed ella muore. Ma muore ella forse perchè non può più avvinghiarsi a quell'albero, e pendere in graziosi festoni dai rami? No, signor Laurenti; essa muore perchè è stata divelta, schiantata ed infranta. Noi siamo come l'edera; divelte dal nostro luogo di elezione moriamo; ma non istate a credere che rimpiangiamo l'affetto degli uomini dappoco, e che moriamo perchè esso ci manca; dite piuttosto che siamo le vittime dei nostri errori, e paghiamo largamente colla vita un fallato giudizio. Io dunque non rimpiango nulla, se non forse di aver fatto perdere il tempo al mio ottimo medico.

Guido la ringraziò con un cenno del capo, ma non rispose motto. Egli pensava a mille cose in un tempo, e, tra i concetti che gli giravano confusi nella fantasia, gli pareva che dovesse esserci il buono. Però stava cercando, e non rispondeva nulla a quel disperato ragionamento. Ma come gli parve di aver trovato, si alzò in piedi e le disse:

—Mi avete promesso di venire domani a fare una gita in carrozza.

—Sì, e non disdico la mia parola. Sarà la mia ultima uscita. A che ora verrete?

—Alle undici, se non vi dispiace.

—No, certo; e dove andremo?

—Perchè questa curiosità? Quando io vi ordino qualche pozione, domandate voi come si chiama?

—Avete ragione, e poichè non c'è nulla che m'abbia a risanare, mi farò presso di voi un merito di non chiedervi nulla.

Laurenti stette muto per la terza volta; ma per la prima volta, accompagnandola in casa, le offerse il suo braccio. Ella del resto era molto stanca, e ne aveva bisogno per reggersi in piedi.

XIV.

Era una bellissima giornata, una di quelle giornate che fanno nascere nell'anima dei poveri condannati al lavoro quotidiano, il desiderio di una modesta entrata e di una carrozza per uscirsene alla campagna. Il cielo limpido, trasparente, rasserenava lo spirito e tingeva d'azzurro i pensieri; l'aria fresca del mare temperava la vampa del sole e ristorava i polmoni.

Fuori della città, i terrapieni, i fossi e le praterie, si smaltavano di margheritine, oracolo a buon prezzo per le fanciulle innamorate. I mandorli, i peschi, i peri fioriti, ornavano co' loro pennacchi bianchi e rosei le falde dei colli, non abbastanza inverdite dalle fronde novelline degli alberi. Rideva tutt'intorno quella giovine bellezza di natura che il pittore, costretto a cavare i suoi effetti dalla abbondanza delle frasche, dalle balze sassose, dai campi biondeggianti, non può ritrarre con efficacia; bellezza che forse apparirebbe falsa e stonata sulla tela, ma che parla al cuore e lo soggioga con tutte le grazie innocenti della prima gioventù. Oh primavera, gioventù dell'anno! Gioventù, primavera della vita!

La carrozza della signora Argellani uscì per via Carlo Felice e via Giulia, verso porta Romana. La signora Luisa non aveva sulle prime badato a questo itinerario; ma, come fu alla porta, chiese a Laurenti:

—Perchè non siamo andati per porta Pila? Dove mi conducete voi?

—Vi contento, signora;—rispose Guido.—Mi dicevate un giorno che sareste andata molto volentieri…..

—A Staglieno; me ne ricordo. Ma ricordo altresì che voi mi avevate risposto…

—Che non era ben fatto; sì certo, vi ho risposto così.

—Che la vista dal camposanto faceva male;—proseguì la Luisa.

—Sì, anche questo; ma oggi ho mutato pensiero,—disse il giovine, sospirando—Voi non volete più essere di questo mondo; i consigli degli amici non valgono a rattenervi, e bisognerà lasciarvi fare a modo vostro. Andiamo dunque al camposanto, ed avvezziamo gli occhi alla nuova dimora. Anch'io, signora, sono molto stanco di vivere.

—Voi! e perchè?

Laurenti le rispose con un'altra dimanda.

—Ah, credete di aver voi sola cagioni di rammarico e tedio della vita? Non tutti i forti dolori si manifestano negli occhi, o si dipingono sulle guancie.

Così dicendo, chinò la testa sul petto, e non fece altre parole. La signora Argellani non cercò di riappiccare il discorso, e ambedue fecero la strada in silenzio, fino al termine della malinconica gita.

Come furono al camposanto, la carrozza si fermò; Guido saltò a terra ed aiutò la signora a discendere, in quella che il custode della necropoli, aperto il cancello, si faceva incontro ad essi col berretto in mano.

Magnifica dimora è il cimitero di Staglieno, e quando sarà finito, nessun'altra città d'Italia potrà vantare il somigliante per ricchezza di marmi e di disegno. Tutto quanto il genio capriccioso di un pittore potrebbe fantasticare per darci immagine di una antica città, arcate sovrapposte ad arcate, templi, colonne, monumenti sovrapposti a gradinate gigantesche, giuoco mirabile di linee in prospettiva, pensile orto babilonese di architettoniche meraviglie, che si innalza a guisa di piramide sul fianco della montagna, tutto ciò si vede, non dipinto, non fantasticato, ma vero, ma edificato, scalpellato, a Staglieno. La morte è maestosa lassù; mirabile effetto del complesso, dell'armonia del tutto, contemplata da una giusta distanza.

Io non so (e chi può sapere siffatte cose?) che mala fine faranno le mie ossa. Ma dovunque e comunque io avessi a morire, non vorrei essere sepolto nel camposanto di Staglieno. Colà lo sfarzo opprime; colà il solito orpello della vita, la consueta menzogna, vi seguono nella morte, e non c'è per compenso un filo di verde, di cui un amico, venendo a salutarvi, possa dire: è succo della sua carne. Per me, ho sempre sognato una modesta fossa ed una modesta pietra, sulla cima di un poggio che guardi al mare, a' piedi d'un albero di pino, il mio albero prediletto, che ho amato da ragazzo pe' suoi frutti che andavo avidamente sgusciando sul focolare domestico; da giovinetto per le sue resinose fragranze che mi facevano bello il dimorare nella boscaglia; da giovine perchè piaceva a lei, e più tardi perchè in terre lontane mi raffigurava la mia prediletta, la mia sacra terra di Liguria.

Così vorrei dormire il sonno eterno, lontano dalle visite cerimoniose dei viventi e dalla mala compagnia dei defunti. Ma ohimè, quando morrò, e se morrò nel mio letto, il mio sogno non gioverà a nulla, anco se confidato alla carta bollata di un testamento. I becchini verranno a pigliarmi, armati della legge municipale, e mi toglieranno anche la libertà della sepoltura. Libertas! Libertas! I nostri padri scrivevano questo motto, insieme coll'arma della repubblica, sulla porta delle prigioni.

La signora Argellani e Guido Laurenti entrarono sotto le arcate del cimitero. Luisa non era stata da molti anni colà, e ogni cosa le sapeva di nuovo. Avvezza poi da qualche tempo ad accarezzare nell'animo suo il pensiero della morte, quella vista non le strinse il cuore punto punto, e, sospesa al braccio di Guido, ella si fece anzi a correre spedita come una giovinetta curiosa che entri per la prima volta in un bel giardino annesso al palazzo in cui essa ha da metter dimora.

Cotesto non isfuggiva alla gelosa attenzione del giovine, e il suo cuore si riempiva di amarezza. Essa è felice, pensava egli, è felice perchè sente d'essere vicina a morire e non s'avvede, e nulla le dice che qui, daccanto a lei, c'è taluno che l'ama, e che morirà se ella muore! Che s'ha egli a dire di quella potenza magnetica che fu fantasticata svolgersi in raggi invisibili da tutti i nostri pori, circondare un corpo, un'anima diletta, e stringerla in una cerchia di arcani effluvii che la inebbriano e la soggettano a noi? Baie di cerretani! Se questa possanza non fosse una invenzione, la mia volontà l'avrebbe sprigionata, e a questa donna non balzerebbe ora il cuore per l'allegrezza, pregustando la voluttà della morte.

Ma se la signora Argellani non sentiva l'influenza magnetica del braccio a cui era sospesa, ella non istette molto a sentire l'influenza malinconica delle tombe.

—È un bel luogo—disse ella, dopo aver varcato le prime gallerie—ma è molto triste. C'è troppa bianchezza di marmi.

—Eh, signora mia!—rispose Guido, crollando la testa.—Ci vuol pure un po' di lusso, dopo la morte. La menzogna, che ci veste e che ci guida nella moltitudine dei vivi, dovrà forse fermarsi alla porta del cimitero?—

In quel momento un gran mausoleo (un mausoleo in tutta la forza del vocabolo, poichè era la tomba di un re di danari, se non di provincie, ed era stato eretto da una nuova Artemisia) si parò davanti agli occhi dei due visitatori.

—Chi dorme là dentro, ch'io non vedo la scritta?—chiese la signora
Argellani

—Un padre di famiglia, o signora. La vedova e i figli inconsolabili ci hanno speso cinquantamila lire. Gli è un magnifico monumento, in verità; le statue delle tre virtù teologali sono assai finamente condotte nel più bel marmo che si scavi a Carrara; quel ritratto è parlante. Era il banchiere Corradenghi, un uomo savio e liberale, che fece tanto bene al prossimo. Lasciò venti milioni di sostanza. Poveri suoi figli, abbandonati in così tenera età dalle cure paterne! La moglie, poverina, la conoscete voi, quella bionda signora, piccina e graziosa, che avrà oggi i suoi quarantaquattro anni e l'usufrutto del patrimonio, sua vita naturale durante? Il bassorilievo è del celebre Ghisolfi, quel tale che l'accompagna sempre a teatro e a diporto. L'epigrafe dev'essere stata commessa a quel valente professore del Federici, ma oramai non si sa come appiccicarla qui, a cagione di un certo aggettivo inconsolabile, che ci starebbe proprio a pigione.—

La signora Luisa chinò il capo a quella infilzata di tristi verità.

—Siete crudele!—disse ella.

—Ma giusto, ma veritiero. Non son mica un'epigrafe, io, e non sono stato pagato per parlar qui in un modo, e lasciar pensare ed operare più lunge in un altro. Del resto, non c'è da far colpa a nessuno; tale il morto, tali i superstiti.—

Qualche lettore schizzinoso dirà che Laurenti poteva tenersi in corpo le sue considerazioni, dappoichè nella casa dei morti disdice la satira. Ma a cotesto si risponde: disdirà la satira nel cimitero, quando non c'entri più il panegirico, nè la bugia. In quanto a me, narratore fedele, ma anco un tantino mallevadore dei discorsi de' miei personaggi, non reputo sconvenevoli le note sarcastiche di Laurenti, imperocchè esse hanno riscontro nella consuetudine di tutti. Una mano sul cuore, lettori miei, e rispondetemi la verità. Chi di voi, andando a visitare un cimitero, non è stato tirato a simiglianti considerazioni, se non forse più acerbe?

Laurenti, poi, ci aveva la sua ragione particolare, a dire la verità nuda e cruda. Il suo disegno era pietoso, come vedrete a suo luogo.

Egli condusse la signora Argellani dinanzi ad un nome illustre nella scienza, e là, cavata una bella rosa che aveva tenuta nascosta sotto le risvolte dell'abito, la depose modestamente sull'urna.

—Che cosa fate?—gli chiese la signora Luisa, guardandolo in volto, e vedendo una lagrima tremargli negli occhi.

—Mando un saluto ad un amico, ad un maestro. Costui, signora, fu grande e fu umile. Hanno innalzato un monumento al suo ingegno; nessuno lo ha fatto al suo cuore, che fu più grande dell'ingegno a gran pezza. Povero e venerando amico! Vivo, lo avevano fatto commendatore; si ascoltavano le sue parole come altrettanti responsi; ed era onore grandissimo accompagnarsi con lui per le vie; ma una bronchite ha rotto il filo a tutte le ammirazioni, a tutti gli ossequi. Ossequi ed ammirazioni, si sono raccolti, sdebitati in questo marmo; l'affetto solo non reputa di avere saldato il suo debito alla rara bontà dell'animo, che faceva di quest'uomo un consolatore degli afflitti, la provvidenza degli sventurati. Imperocchè quest'uomo, o signora, è morto povero in una casa presso che vuota: quello che egli possedeva, lo avevano i bisognosi; la grande autorità ch'egli avrebbe potuto mettere a frutto per sè medesimo, fu sempre spesa a profitto d'altrui.

—Non siate adunque egoista,—soggiunse intenerita la donna gentile,—e consentite che anch'io metta la mano su questa rosa, per associarmi coll'animo al vostro tributo affettuoso. Ora voi, colle vostre parole, mi dimostrate che non è tutto menzogna in questi luoghi, come avevate detto pur dianzi.

—Ho io detto ciò in forma assoluta? No certo. E poi, anche il mio ricordo, che cos'è? La virtù di quest'uomo vive nelle mie ricordanze, ma come una pallida immagine del passato. Io, che l'ho amato come un padre, io vivo senza di lui, non sento la necessità di stargli daccanto. Gli altri, poi, e parlo dei buoni, leggono le sue opere, ma non hanno bisogno di salutar vivo l'autore. Vengono qui a caso, guardano con reverenza la sua tomba, e poi se ne vanno a desinare, forse un tal po' melanconici, per la visita fatta alla casa della morte, ma senza mandar giù un boccone di meno. Questa è la morte, o signora, e questa è la vita.—

Fecero alcuni passi in silenzio, chè ognuno dei due ci aveva da meditare su quel tema. Là presso era una porta, che metteva, per un ampio giro di scale, ad una galleria superiore. E per di là Guido fece salire la signora, affinchè ella cansasse la fatica di una lunga rampa all'aperto.

Sull'ultimo pianerottolo di quella scala, si apriva lateralmente una di quelle gallerie chiamate, con nome latino, colombarii; lunga sequela di nicchie aperte nei fianchi delle pareti, nelle quali si mettono le casse, e che poi si chiudono con un accoltellato di mattoni, sul quale si dà l'intonaco, e si appiastra l'epigrafe col suo numero d'ordine. Questa dei colombarii è la forma più triste della morte.

La signora Argellani, guidata dal medico, entrò nell'aria soffocata del colombario, e le si strinse il cuore alla vista di quella bassa vôlta, di quelle pareti le quali parevano doverla opprimere, man mano che si fosse inoltrata in quell'andito.

—Ohimè!—disse ella, guardando compassionevolmente quelle nicchie.—Come si ha da stare a disagio qui dentro! E non c'è fiori, non ghirlande, che dimostrino il memore affetto dei parenti e degli amici, a questi poveri rinchiusi!

—Che volete, signora? Si dimentica presto. C'è un'ora di viaggio, a venire fin qua.

—Ah, ecco delle foglie secche;—soggiunse ella;—gli avanzi di un mazzolino!

—Povera Caterina!—esclamò Guido, fermandosi a guardare là dove s'era fermata la signora.

Gli occhi della Argellani corsero allora a leggere l'epigrafe.

—Ah!—disse la donna gentile.—È qui la Caterina Stella?

E rimase immobile a guardare la nicchia, in atto di chi medita, col mento raccolto tra il pollice e il medio, il gomito stretto al seno, e l'altra mano penzoloni lungo le pieghe della veste.

Guido stette taciturno un tratto a contemplare quella statua vivente della meditazione, e indovinando i tristi pensieri che le ingombravano la mente, si fece daccanto a lei, parlandole in tal guisa:

—Sì, la Caterina Stella. Eccola lì, dietro questa parete sottile, tra quattro assicelle di quercia. Oltrepassate questo muro, spiate tra le fessure di quelle tavole cogli occhi della mente, e la vedrete, la Caterina Stella, il cui casato era così leggiadro tema di bisticci, foggiati a complimento. I suoi capegli d'oro, pari a quelli di madonna Laura, cantati da nuovi Petrarca, dipinti da un altro Simon Memmi, sono là entro, disciolti, senza la natìa lucentezza, corrosi dal tarlo. Quel volto ovale, quella bianchezza mirabile di carnagione, quegli occhi che mandavano faville….. non c'è più nulla! Vi ricordate della Caterina Stella ne' suoi bei tempi? C'era ressa di adoratori dintorno a lei, sebbene il marito fosse geloso come una fiera, e minacciasse pur sempre di mordere. Il Riccoboni lo dicevano il preferito tra tutti i suoi cavalieri, sebbene il Cigàla avesse avuto tre duelli per lei, e sebbene il Grandi, a chi ne parlava, dicesse con una certa sua aria misteriosa che le erano tutte chiacchere. Ella avrebbe forse trentadue anni, se vivesse; e sono già otto anni che la è qui povera Stella senza luce, povera Pleiade scomparsa dal firmamento! Io vengo qualche volta a vederla, e ho sempre notato che ella non ha mai avuto un fiore da nessuno, ella che ne riceveva tanti, il dì della sua festa, il 19 di Maggio! Nessuno de' suoi tanti adoratori, neppure quel tale che per lei si aperse nel petto una ferita, dichiarata risanabile in quaranta giorni, vien qui a piangere sulla tomba di lei, di lei che li aveva tutti quanti sotto il suo palchetto in teatro, pronti a raccogliere e voltare a sè ognuna delle occhiate che ella mandava sbadatamente in giro, o posti in sentinella sotto le sue finestre per cogliere il momento che ella si facesse a sollevare lo sportello della gelosia.

—E questi fiori secchi?—dimandò la signora Argellani.

—Sapete chi li ha posti qui?—disse Laurenti.—Il marito. Squallido come un tronco d'albero sul quale sia caduta la folgore, il solo amante vero che ella abbia avuto, fu lui. Gli altri tutti, allegro stuolo di farfalle, si sparpagliarono per l'aria. Egli in cambio, ogni anno, ogni mese, ogni settimana era qui, presso la sepoltura di sua moglie, e qui l'ho veduto entrar io molte volte. Ma oggi, anche lui s'è stancato, ed ha chiamato un'altra compagna sotto il vedovo tetto. Il suo dolore ha vissuto sette anni, e non ha potuto durare più a lungo neppur esso. Chi la ricorda più, ora, la povera Caterina dai capegli d'oro? Io, a caso, venuto qui insieme con voi. Tra i viventi che si accarezzano e si addentano laggiù, in quel popoloso centro di affetti e di rancori, la sua immagine non torna più alla mente di nessuno; il suo nome non è più sulle labbra di amici o di nemici; ella è morta due volte. Chi pensa all'orma sua sul selciato di Via Nuova, o sul battuto dell'Acquasola? Ah, bella cosa, in fede mia, bella cosa il morire!—

La signora Luisa era rimasta grandemente turbata da quel discorso doloroso del suo medico; ma l'ultima frase la scosse.

—E perchè no?—disse ella.—Bella cosa, pur sempre!

—Sì,—incalzò Laurenti,—bella cosa davvero! Con questa luce che splende fuori, voi sarete qui, rinchiusa in uno di questi androni, soffocata in una di queste nicchie, col capo da questa parte e i piedi dall'altra. Non vedrete più la terra, il mare, i fiori, sorriso di Dio. Qui sempre, sola, sola! Una volta all'anno, le cerimoniose usanze del mondo tireranno quassù un branco di curiosi viventi, che non volgeranno nemmeno uno sguardo su voi; gente felice, o distratta, dimentichevole sempre, che verrà a fare la sua passeggiata, e sarà molto, imperocchè i cento presenti faranno pensare ai centomila che stanno lontani. Se i morti pensano, se l'anima loro rimane e in qualche modo si dà pensiero del suo abito logoro, e' debbono pure dolersi di aver posto il loro affetto in cuori di sasso, di aver sudato per figli ingrati, di aver patito per chi non rammenta più che fossero nati. E allora che pensieri, che amarezze, nella notte di quelle nicchie sconsolate! Addio, Caterina dai capegli d'oro! Io non ho mai vegliato sotto le vostre finestre, non ho mai desiderato uno de' vostri sguardi fiammanti; pure, non vengo mai al camposanto, senza salire quassù, a salutarvi e portarvi le novelle degli uomini che vi hanno dimenticata.—

Ciò detto, Guido si volse alla donna gentile che stava ad udirlo.

—Ed ecco, o signora, per chi spesso si muore. L'amore…. bella cosa! Pigliatevi il fastidio di morire per cotesto, di lasciare il sole, i supremi diletti della intelligenza, le ineffabili consolazioni della fede, della carità, della speranza, il gusto delle arti, la curiosa investigazione delle scienze, la ricerca delle anime buone che intendano la vostra, e colla vostra facciano manipolo contro il volgo profano! Il Nume, a cui v'immolate, merita davvero il sacrifizio di questi nonnulla!—

—E le vostre consolazioni non tradiscono del pari? La ricerca delle anime buone non conduce ella forse di sovente in inganno?

—Sì, di sovente; ma chi cerca trova; gli inganni sono fermate, sono ostacoli, che non debbono disanimare i generosi, come il mal esito di uno sperimento non disanima il cultore della scienza. Del resto, il paragone tra l'amore e le altre consolazioni di cui vi ho parlato, non corre. Lo scienziato che studia, non si avvilisce punto per aver fallita la strada; l'uomo che ha errato nel giudicare degli altri, non si disonora a sperare che nuovi amici valgano meglio dei primi; laddove nelle cose di amore, segnatamente per le donne, il cercar molto, il far troppi sperimenti, conduce alla abbiettezza. Ma, appunto perchè non si possono moltiplicare le prove, appunto perchè bisogna starsene alle prime, non s'ha nemmanco a sentenziare sommariamente e condannarsi da sè a scontar la pena di un errore. Gli affetti mal posti, quando si riconoscono tali, contristano; ma non dobbiamo altrimenti lasciarci sopraffare; tanto più che l'amore, considerato in sè stesso, non è punto necessario alla vita.

—Dite da senno?

—Del migliore ch'io m'abbia. Anche in me, per avventura, la pratica potrà romper guerra alla teorica; ma, ch'io ami o no, non rileva, non toglie nulla alla bontà della tesi. E la mia tesi è questa, che si può vivere senza amore, che fuori dell'amore v'hanno gioie sublimi, altissimi conforti. Nè già pretendo che ognuno abbia ad intenderla così. Tutti vogliono provare, ed hanno diritto a provare. Ma io parlo per le anime inferme, che hanno provato e patito. L'amore non deve uccidere; non si ha da sacrificare a lui l'esistenza. Io lo considero come uno dei colori che compongono l'arcobaleno della vita, come un elemento che affina le anime, iniziandole al dolore ed alla pietà. Ma, passato l'amore, grandi cose rimangono ancora; rimane, verbigrazia, la carità, questa altissima tra le passioni, che ha tante forme, tante diramazioni quante sono le forme, i meati, della operosità umana.—

La signora Argellani era fortemente commossa. Il luogo, le dolorose sensazioni, il parlare tra sarcastico ed affettuoso, tra sdegnoso e malinconico, del giovine Laurenti, avevano destato un tumulto di pensieri, una vera rivoluzione nel suo spirito infermo.

Erano intanto usciti all'aria aperta, ed ella si era seduta su d'uno scaglione presso un cortiletto, dov'era la postierla del camposanto, che mette alla viottola sul dorso della montagna. Là seduta, la donna gentile stava raccolta in sè stessa, quasi ad udire il suono delle vigorose parole di Laurenti nel profondo della sua anima, suono che svegliava tanti echi e destava tante voci confuse.

Dopo una breve pausa, Guido si mosse, e nelle zolle erbose che facevano tappeto a' piè di un muricciuolo, colse una margheritina, che portò alla signora Argellani.

—Sarà,—disse egli—un ricordo del cimitero che porterete in città.

—E voi,—si fece ella a dire, seguendo il filo dei pensieri che internamente rivolgeva, in quella che pigliava il fiorellino dalle mani del giovine—non avete nessuna memoria qui dentro?

—Nessuna, salvo quel venerando amico che vi ho detto.

—Non una donna?—proseguì la signora Luisa.—E che cosa venivate così di sovente a far qui?

—A passeggiare. Le urne fanno bene allo spirito, anche quando non siano tutte urne di forti. Venivo qui a passeggiare, a pensare, per tutti coloro che non pensavano punto.

—Credevo che solo una morta avesse potuto tirarvi qua…..

—Una morta….. sì c'è stata una donna morta, ma non della morte materiale; però essa non dorme nel cimitero. L'ho sepolta qui….—così dicendo, Guido accennava il cuore—e la pietra, che vi ho posta sopra, non s'ha più da smuovere.—

La signora Luisa, a queste parole, alzò gli occhi per guardare in volto Laurenti, e, per la prima volta, nel suo medico, nell'amico, vide un fratello nel dolore.

—E perchè—chiese ella—non discacciarla del tutto dal vostro cuore?

—No, signora; bisogna ricordar sempre. Perdonare è da generoso; dimenticare è da stolto. Ricordare dunque, ma non morire, perchè non abbiano a riderne gli sciocchi.

—Potreste aver ragione;—soggiunse ella, con aria pensierosa.—La morte è assai brutta qua entro.—

Un lampo di gioia balenò negli occhi di Laurenti, ma la signora
Argellani non se ne addiede.

—Andiamo via—disse ella, poco stante, al suo compagno.—Mi sento oppressa da quest'aria di tomba.—

Laurenti fu sollecito ad accompagnarla verso la porta, che era chiusa da un semplice saliscendi.

—Andiamo in giù per la viottola—le disse egli—e non avrete a rifare la strada in mezzo al marmo e alle croci.—

XV.

La loro comparsa sul limitare, disturbò i negozii ad un crocchio di fanciulli che stavano là giuocando per terra, raccogliendo sassolini sopra cocci di stoviglie e pezzetti di lavagna, sucidi, scalzi, moccicosi, coi capegli arruffati, le vesti sbrandellate, come è agevole argomentare di ragazzaglia del contado, ma tutti pieni di salute e allegri come passere.

—Ecco la vita daccanto alla morte!—esclamò Laurenti.—La filosofia filtra i suoi esempi dappertutto.

I marmocchi s'erano levati in fretta, e due più grandicelli, e per conseguenza più ruvidamente soggettosi, giuocarono di calcagna, lesti come ramarri all'avvicinarsi dell'uomo.

—Che bel bambino!—disse la signora Argellani, adocchiandone uno, che era rimasto fermo, e che era meglio in arnese degli altri.—Come ti chiami?

Il fanciullo non rispose, e spalancò i suoi occhi azzurri per guardare la bella signora.

—Via, sii buonino! Come ti chiami?—ripetè ella, accarezzandolo.

—Non lo so—borbottò il fanciullo, dimenando le spalle e chinando gli occhi sopra un coccio che teneva tra mani.

Ma la signora Luisa, a cui quella scena campestre risvegliava nel cuore quella passione pei bambini che tutti sentiamo, segnatamente quando non ne abbiamo dei nostri, volle averne l'intiero e proseguì:

—Vuoi venire a star con me?

—No!—rispose asciuttamente il fanciullo.

—E perchè? Ti metto forse paura?

—No!—ripetè egli, che quella parola la sapeva dire per bene.

—E perchè dunque non vuoi venire con me?

—Perchè voglio stare con mia madre.

—Carino! E dov'è tua madre?

—È in casa.

—E dov'è la casa?

Il marmocchio, stretto da tutte quelle dimande, non rispose più nulla.

—Prendi;—entrò a dire Laurenti.—Questo lo porterai alla mamma.

E gli messe in mano uno scudo. Il ragazzo lo guardò; parve paragonarlo col coccio, poichè lasciò tosto cadere quest'ultimo, voltando e rivoltando invece con molta curiosità quel nuovo balocco che gli luccicava tra le dita; poi si mosse per andarsene, dando ragione a quello scettico che lasciò scritto:—«volete levarvi uno dai fianchi? dategli in mano cinque lire.»

—Come si dice, Giovannino? Fa una riverenza al signore e alla signora, e di' loro: grazie tante!—

Queste parole erano dette da un nuovo personaggio, di genere femminino, cioè dalla madre del ragazzo, che era capitata allo svolto della viottola, chiamata colà dai fuggiaschi.

—Grazie!—borbottò Giovannino, udendo la voce della madre, presso la quale fu sollecito a ricoverarsi.

—È vostro figlio?—chiese la signora Argellani.

—Sissignora; e scusi se gli è un orso. Ma quando gli è in casa parla anche troppo. Che cos'è questo? che cos'è quest'altro? E giù una litania di domande e di ciarle, che m'introna la testa.

—È un bel biondino, e vi somiglia di molto.

—Oh, non lo dica, per carità; gli è tutto il suo povero padre.

—Siete vedova?

—Per mia disgrazia, sì.

—Oh, poverina! Ed è molto?

—Saran tre anni a San Giovanni Battista, e al mio piccino, che allora lo portavo ancora nel seno, ci ho voluto mettere il nome. Oh, beati Loro, che li hanno qui, i loro morti da vedere. Io, disgraziata, non posso nemmeno andare a dire un deprofundis sulla tomba del mio povero Sandro.—

E così dicendo, la contadina si asciugò due grosse lagrime col lembo del suo grembiale.

—Dove è morto?—chiese Laurenti.

—Lassù, per l'Italia, a San Martino. Oh, me lo aveva detto, quando lo richiamarono sotto le armi: «Maddalena, non ti vedrò più, e morirò d'una palla, o d'inedia, lontano da te.» Ed io allora: «Che hai, Sandro? Non ti accorare; tornerai. Fatti onore…» E mi scoppiava il cuore a dirgli così, proprio come mi scoppia adesso che me ne ricordo. E lui a dirmi: «Ama mia madre e mio padre, poveri vecchi, che ti hanno sempre voluto bene, come se tu fossi la loro figliuola. Ama nostro figlio, e se io non debbo vederlo, non gli dare un altro padre, che metta le mani addosso al mio sangue…» Oh, poveretto, così buono! Il dì ch'io avessi a sposarne un altro, vorrei morire maledetta, e non andar nemmeno a riposare nel sagrato.

—Sarà morto da valoroso, il vostro Sandro…

—Oh per questo, sì certamente, e ci ho accanto al letto la sua medaglia al valor militare, che se l'ha guadagnata appunto quel giorno. Il signor sindaco, a cui l'ha mandata il colonnello, ha voluto venire egli stesso, per sua grazia, a portarmela… Oh, mio povero Sandro! La mi pareva bagnata del suo sangue, quando l'ho vista, e sono caduta come morta sul pavimento.

—Povera donna!—mormorò la signora Luisa, voltandosi a Laurenti.—Guardate; il dolore la rende anche più bella. Suvvia, buona Maddalena, fatevi animo; mirate il vostro bambino, che a vedervi piangere, fa greppo egli pure. Accompagnatemi a casa vostra, se non è lunge; berrò volentieri un bicchier d'acqua, e mi siederò, perchè sono stanca oltremodo. Mi consente il mio medico, di bere un bicchier d'acqua?

—Sicuramente, e' non c'è nessun male.

La Maddalena si rasciugò le lagrime e si fece con rispettosa sollecitudine innanzi alla signora Argellani, per additarle il cammino, lieta e superba dell'onore che le faceva quella gran dama.

Era una bella giovane, la Maddalena, e certo essa non lo ignorava. Sandro glielo aveva detto le tante volte, prima di condurla in moglie, e non rifiniva di dirglielo tutti i giorni; più tardi, gliene faceva testimonianza il ronzar continuo di certi mosconi intorno alla villa e qualche stornello cantato di nottetempo nella viottola, che a lei faceva alzare disdegnosamente le spalle tra le lenzuola. Ma, se ella sapeva di avere un viso piacente, non sapeva per fermo come fosse elegante la sua persona, come il taglio della vita fosse aggraziato, il piede fatto al tornio, le mani piccine, la carnagione finissima, sebbene il sole l'avesse un tal po' abbruciacchiata e sparsa di minute lentiggini.

Simiglianti bellezze non sono rare nei pressi delle grandi città. E' si direbbe che il tipo della bellezza, gelosamente custodito dalla tradizione, accarezzato dall'ozio, rammorbidito dalla frescura, rinfrescato mai sempre dagli esemplari del buon gusto e da tutte quelle misteriose affinità che ne governano la riproduzione nei centri popolosi, spiri alcunchè della sua arcana virtù nelle circostanti campagne, sicchè le rustiche madri, come le cavalle di Erittonio, secondo narra Omero, fecondate da Borea, partoriscono talfiata di cosiffatte Veneri campestri che il pittore girovago ammira, e si affretta a ritrarne la fuggitiva immagine nell'albo, e che il cacciatore contempla, dimenticando i tordi e le quaglie, troppo spesso assenti dalle nostre colline.

—Siete bella, Maddalena!—le disse la signora Luisa, appoggiandole amorevolmente il braccio sulla spalla.

—Oh! Vossignoria dice per celia!—rispose Maddalena.—Ella, sì, può tenersene, che è bella come la Madonna. Ma, La mi scusi, veh! se metto la lingua dove non istarebbe a me. Ella ha da far del moto, stare allegra, perchè mi pare che La non s'abbia riguardo.—

Luisa sospirò e non rispose.

—Brava, Maddalena, ditegliele anche voi, due ragioni in croce!—gridò Laurenti che veniva dietro, dando la mano al Giovannino, suo amicone dopo la faccenda dello scudo.

Frattanto erano giunti dinanzi ad un rustico portone, sull'arco del quale c'era una Madonna nella sua nicchia, colla scritta Salve, solve, salva, miracolo di epigrafia bisticciosa di qualche letterato secentista. Maddalena, fattasi da un lato, introdusse gentilmente i suoi ospiti per un sentieruolo sassoso, il quale s'inerpicava tra due file di macìe, coronate di ulivi e peschi fioriti, fino alla casa colonica, dov'ella abitava.

Daccanto all'uscio di quella casa, e sopra un ceppo d'albero, segato a mo' di sedile, stava a soleggiarsi un bel vecchio, dal volto arsiccio, incorniciato da due ciocche di capegli bianchi, che gli uscivano dalla risvolta di una berretta di lana rossa, e cadevano sui larghi solini arrovesciati di una camicia bianca, il cui sparato lasciava scorgere le corde vigorose del collo e il sommo del petto villoso. Egli se ne stava là, colle spalle appoggiate al muro, e le braccia incrociate, che uscivano abbrustolite dalla rimboccatura delle maniche, a guardare le persone che salivano il sentieruolo; ma come la signora Luisa fu giunta al ripiano della casa, si levò da sedere, e cavatasi la berretta, fece un profondo inchino.

—Buon giorno a Vossignoria;—disse egli, con quella facile cordialità rusticana che par zotichezza ai pratici del nostro riguardoso galateo.—Ella ha fatto bene a venirsene un tratto quassù. C'è alto come in Paradiso; ma quando ci si è, con sua licenza, non si direbbe mai di andarsene via.—

—Padre,—disse Maddalena al suocero,—la signora è venuta a bere un bicchier d'acqua e riposarsi un tantino.

—Vino! Oh, ce ne abbiamo del buono, grazie al cielo, quantunque le annate siano scarse. E non fo per dire, ma ce n'ho un barlozzo di quel bianco, che è passante come l'acqua, e a berne un dito, prima di desinare, fa venir l'appetito. Mariangela! Mariangela! Fatevi innanzi!

—Vengo, vengo;—rispose una voce di dentro.

—Non vi state a pigliar fastidio per me;—disse la signora
Argellani—non chiedo che un bicchier d'acqua.

—Gli è un po' sordo, signora,—disse Maddalena,—ed è l'unico difetto del mio bravo suocero.

Poi, accostandosi al vecchio, gli disse a voce alta:

—La signora vi ringrazia, padre mio, ma non vuole che un po' d'acqua.

—Ah!—soggiunse egli, ridendo,—l'acqua è buona, e fa gli occhi belli. La nostra è di fontana, e l'appanna il vetro come i sorbetti. Io preferisco due dita d'acqua rossa, perchè son vecchio, e il vino, con sua licenza, è il latte dei vecchi. Mariangela, andate ad empir la brocca alla fontana del Coppo!

—No, vado io,—disse la Maddalena che già usciva di casa colla brocca in mano.

Mariangela, una vispa donnina sui sessanta, degna Bauci di quel Filemone, era intanto venuta fuori con due sedie per la signora e per Laurenti; ma egli diede la sua a Luisa, perchè stesse più a suo agio, appoggiando i piedi sulle stecche, e andò comodamente a sedersi sull'erba, di riscontro a lei, presso il primo palo di un anguillare di viti.

Poco stante, la bella Maddalena fu di ritorno coll'acqua, e, risciaquati i bicchieri, ne offerse alla signora Argellani e a Laurenti. Quell'acqua meritava davvero gli elogi del vecchio. La fontana del Coppo, anzi il Coppo, come dicevasi per brevità, godeva di una fama di freschezza singolare a dieci miglia discosto.

Mentre bevevano, e Guido anzi si faceva empir da capo il bicchiere, il Giovannino era andato a ficcarsi tra le ginocchia del nonno, per mostrargli lo scudo.

—Bella moneta!—esclamò il vecchio. Ce ne vogliono cinquanta di queste, tutti gli anni a San Michele, per pagar la pigione. Quando c'era tuo padre, le si raggruzzolavano più presto; due mesi di viaggi a Genova, colle ortaglie e le frutte, e si metteva anche qualcos'altro di costa; ma ora….

—E non ho buone gambe da andarci io?—disse la nuora.

—Che! ti pare? una bella e delicata creatura come sei tu, Maddalena, far di queste corse tutte le sante mattine? Si guadagnerà meno; si farà anche un po' di digiuni, oltre quelli che la Chiesa comanda, e non ci si pensi più. Il Santo poi non è un cattivo giovine, e quando può, non tralascia di andare.

—Chi è il Santo?—chiese la signora.

—È un brav'uomo,—rispose Maddalena,—un povero trovatello che mio suocero ha tolto con sè, per fornire i lavori più gravi, che egli, co' suoi sessant'anni sulle spalle, non potrebbe più fare. Ah, quando ci è mancato il Sandro, si è perduto ogni cosa.

—E come vanno le vostre faccende?

—Non bene, signora. I tempi sono grami; le raccolte scarseggiano, e non c'è punto riprese. La vigna ci ha la maledizione addosso: gli ulivi anch'essi hanno dato poco frutto nell'ultima annata; delle ortaglie si è cavato qualcosa, ma non già come ai tempi del Sandro. Egli si alzava per tempissimo; correva a Genova in quattro salti; faceva buon negozio, e tornava ancora a tempo per tutto il rimanente. Non è vero, padre mio? Guadagno scemato, e spesa più grande!

—Grande! Sì! è grande, la villa—disse il vecchio, che stava attento a raccogliere il più che potesse delle parole di Maddalena—è troppo grande oggi, e mi fa sentire quelli che mancano.

—Consolatevi, buon padre!—gli disse la signora, tirandolo dolcemente a sè, per parlargli nell'orecchio;—il Sandro vi manca, ma avete acquistato una buona figlia.

—Oh, quanto a questo, la dice una verità sacrosanta. Maddalena lavora per due, e poi, vuol bene ai suoi vecchi, e Dio la benedirà. O che, crede che io non le capisca, certe cose? Gli orecchi non mi servono più molto, ma gli occhi vedono meglio e più lontano di prima. Bella com'essa è, i partiti le fioccano attorno, ma essa non vuol saperne, e lascia che cantino.

—Padre, padre,—gridò intenerita la bella nuora, facendosi rossa come una brace,—e potreste credere che io lascierei, anco per tutto l'oro del mondo, la casa del mio Sandro, di lui che mi ha voluto tanto bene? Veda, Vossignoria; qui tutto mi fa ricordare di lui. Qui, dov'Ella è, Sandro stava seduto a far sempre qualcosa, quando ci aveva finita la sua giornata…. Ed erano faticose le sue giornate! Quando egli aveva sudato pei campi fino a sera, e' non aveva anche finito, ma dava l'acqua pei solchi dell'orto. E' non erano che sassi, e lui a furia di sudore, li ha fatti diventare una buonissima terra, dove si ricava il meglio del podere. E questo bel filare di viti, chi l'ha messo, se, non lui?….

—Va a prendere il ritratto del Sandro e la sua medaglia, che la signora veda!—interruppe il vecchio, che aveva capito tutto, parte udendo, colla mano raccolta intorno all'orecchio, e parte indovinando ai gesti e agli atti della nuora.

Maddalena non se lo fece ripetere, e corse in casa per spiccar l'uno e l'altra dalla parete.

La signora Argellani prese in mano il ritratto, e si fece a contemplarlo insieme con Laurenti. Il Sandro era vestito da sergente, del settimo reggimento di fanteria, e a malgrado delle basette che gli coprivano il labbro superiore, e della disparità degli anni, si vedeva che Maddalena non aveva detto bugia a sostenere che il Giovannino era tutto suo padre.

—Era sergente?—esclamò Guido.

—Sì, e avrebbe anche potuto diventare ufficiale, perchè sapeva leggere e scrivere;—s'affrettò a rispondere la vecchia madre.—Quando ei ci ha mandato il ritratto da Milano, ci ha scritto una lettera, che tutti ne hanno fatto le maraviglie. Il mio povero figlio!….

E ciò detto, la vecchia andò a sedersi sulla soglia, nascondendo la fronte tra le mani.

La signora Luisa intanto s'era posta a guardare la decorazione.

—Or bene, che ne pare a Vossignoria?—disse il vecchio.—Se l'ha guadagnata, il Sandro! Non le davano mica a tutti, allora!….

—E come l'ha avuta!

—Oh lo abbiamo saputo da un suo compagno;—prese a dire la Maddalena—e' pare che in quel giorno le cose non andassero molto bene, e il re aveva detto: «figliuoli, o facciamo noi San Martino lassù, o i tedeschi vengono a farlo da noi». Allora il capitano della compagnia disse: «ragazzi, c'è quel cannone lassù, che seguita a fare un fuoco indiavolato. Sei uomini di buona volontà per andare ad impadronirsene, e fo avere la medaglia a tutti». Chi saltò fuori il primo? Sandro. Piglia con sè i primi che escono dalle file, e li conduce dietro ad un ciglio di terra, fino a cinquanta passi discosto da quel maledetto cannone. La mitraglia rompe fuori, e si spande con fracasso. Uno casca morto, due altri si trascinano carponi; ma il Sandro, con gli altri due, corre addosso al cannone, lottando disperatamente contro i cannonieri, a colpi di bajonetta e di calcio, come venivano meglio. Insomma, il cannone fu preso, ma Sandro era ferito a morte, ed ebbe appena il tempo di alzare il cappello sulla punta della baionetta, facendo cenno ai compagni di affrettare il passo, e gridare: viva l'Italia!—

Qui Maddalena si fermò, e diede in uno scoppio di pianto.

—Maddalena! Mariangela!—gridò il vecchio contadino.—Vi ho già detto che non voglio veder piangere nessuno. Viva l'Italia! L'ha gridato mio figlio, e lo griderò anch'io. L'Italia mi ha preso il mio Sandro, ma ora nessuno verrà più a metterci i piedi sul collo. Ero ragazzo, quando vennero qui inglesi e francesi a far le fucilate su queste montagne, e mangiavano e bevevano senza pagare lo scotto!…..—

Quel povero vecchio l'aveva trovata egli, la buona ragione. I mali della servitù gli avevano fatto intendere i pregi della libertà; specie di argomentazione ex absurdo che valeva tutti i ragionamenti a priori del mondo.

Guido Laurenti era commosso da quella magnanima semplicità. Là, in mezzo alla gente dei campi, aveva trovato l'idilio e l'elegia; ma certo e' non pensava di averci a trovare per giunta l'epopea.—Voi ragionate dirittamente;—andò egli a gridare all'orecchio del contadino,—ma io penso che non andrete molto d'accordo col parroco.

—Oh, dica Don Venanzio quel che gli pare; le sue ragioni non m'entrano. Dio ha fatto la terra per gli uomini e gli uomini per la terra. Ognuno ha da essere padrone in casa sua. Questa è la mia opinione; e poi, male non fare, paura non avere.

E il vecchio contadino, inconsapevole apostolo della religione naturale, si andò a sedere sul suo ceppo d'albero, come un uomo, se non per avventura contento di sè, certo tranquillo nella coscienza.

—Animo, buona madre; animo, buona moglie!—disse Laurenti alle donne.—Pigliate esempio dal capo di casa, e non istate a piangere; pensate a questo piccino, immagine di Sandro, che verrà uomo a sua volta, e sarà un bravo figliuolo come suo padre.

—Lo spero bene;—soggiunse Maddalena.—E' va già a scuola, ed ha molto amore allo studio.

—Davvero, Giovannino? Vai già a scuola? Sai leggere?

—Conosce le lettere;—rispose Maddalena,—alla sua età, è già molto.

—Orbene, leggi un po' qui!—disse Laurenti, cavando di tasca un taccuino, e scrivendovi un verso colla matita, a lettere maiuscole.—Che cos'è questo?

—Elle!—rispose il bambino.

—Bene; e questo?

—U, Lu….

—Ma benissimo! Sai già compitare?

—I… Lui… esse… a… sa… Luisa!—proseguì il marmocchio, più contento di Archimede, quando ebbe a gridare il suo storico Eureka.

—Ma bravo Giovannino!—gridò Laurenti, ammirato.—Eccoti un altro scudo. Luisa; sì, proprio, Luisa!

—È il nome della signora?—chiese Maddalena.

—Sì;—rispose Laurenti, non senza arrossire un tantino.

Maddalena si accostò al vecchio, che stava contemplando la scena, senza capirne un'acca, e gli disse all'orecchio:

—Giovannino ha letto il nome della signora, che si chiama Luisa.

—Riverisco la signora Luisa;—soggiunse il vecchio.—E il suo signor marito come si chiama?

Così dicendo, il vecchio accennava del gesto Laurenti; e i lettori argomenteranno di leggieri come questi si facesse rosso a quella dimanda. Guardò in viso la signora, e anch'ella, non potendo arrossire, appariva fortemente turbata da quell'errore innocente. Laurenti, allora, dopo averle dato una seconda occhiata, colla quale pareva volesse chiedere scusa, si volse a Maddalena e le disse:

—È in errore vostro suocero; la signora Luisa non è che mia sorella.

Maddalena stette un tratto incerta (sono così perspicaci le donne!), poi ripetè al vecchio le parole di Laurenti.

—Ah, mi scusino le Signorie Loro;—disse il vecchio contadino.—Credevo proprio che fossero marito e moglie. Che bestia! Dovevo bene accorgermi che si rassomigliano. E si vorranno bene, a quanto pare. Egli è ben fatto, amarsi tra fratello e sorella…. Un fratello e una sorella, sono, con loro licenza, come il palo e la vite.

—O come l'olmo e l'edera;—mormorò Laurenti, tanto che potesse udirlo la signora Argellani.

La signora sorrise dolcemente dell'errore del vecchio, della spiegazione trovata e della considerazione del suo medico; poi, come per rompere quella conversazione che traeva al difficile, volse la parola al fanciullo:

—Giovannino, tu dunque non vuoi venire con me?

Il fanciullo stette zitto, dondolandosi nel suo solito modo.

—Suvvia, rispondi!—entrò a dirgli la madre.—Vuoi andare con questa bella signora?

In cambio di rispondere, anzi forse per rispondere meglio, il
Giovannino si aggrappò alla veste di Maddalena.

—Lasciatelo stare, Maddalena; egli non mi ama punto.

Cotesto non pensava il fanciullo, e lo significò facendo greppo a quelle parole della signora Argellani, che lo abbracciò teneramente, non badando alle sue vesti di seta perlata che a quella stretta non ci guadagnavano per fermo.

—Manco male!—disse ella.—Tu dunque mi ami un pochino. E verrai colla mamma a trovarmi?

—Sì, sì!—gridò Giovannino rasserenandosi in viso e battendo le palme.

—Ti darò delle chicche; ti comprerò un bell'abitino pel dì delle feste, e dei libri colle immagini, per imparare a leggere.

Fu quello il colpo di grazia per la ritrosia del fanciullo. Ma egli ricordava lo scudo di Laurenti, il quale non era di là da venire, come le chicche, l'abitino e i libri; e la sua gratitudine si manifestò con una dimanda che risguardava appunto il generoso donatore.

—E questi ci sarà?

—Come, questi?—gridò Maddalena.—Ti saresti per avventura allevato con lui? S'ha a dire questo signore; hai capito?

—Sì, ci sarò anch'io;—soggiunse Guido temperando l'effetto del rimprovero materno con una carezza.

—Carino!—proseguì la signora.—Fate che vada sempre a scuola, Maddalena, e portatemelo qualche volta a Genova. Vi lascerò il mio nome e il mio ricapito. Signor fratello, scriveteglielo voi su d'un pezzetto di carta.

Sorridendo di quella parentela che egli stesso le aveva imposta, Laurenti cavò il taccuino, e spiccandone un foglietto, vi scrisse il nome della signora col ricapito della palazzina gialla. Ciò fatto, la signora Argellani si alzò per accomiatarsi da quella buona famiglia.

—Ora, disse Maddalena, se Vossignoria non si è annoiata nella compagnia di povera gente come noi, venga a trovarci qualche volta. L'aria è così buona quassù, e non potrà farle che bene!

—Sì, grazie, verrò;—rispose la signora, ed aggiunse a voce più sommessa, come parlando tra sè medesima:—se pure non dovrò venirci a stare per sempre.

La contadina udì le parole e indovinò il senso riposto; però, afferrando con impeto affettuoso le mani della gran dama, si fece a ragionarle così:

—Che dice Ella mai? Perchè queste tristi parole? Vossignoria ha da vivere, perchè è giovine e bella, ha da vivere per esser felice e far gli altri felici. Sono rari già troppo i buoni, a questo mondo!

La signora Luisa rispose a quella voce del cuore con un malinconico sorriso e strinse le mani a Maddalena; poi si volse al vecchio per prender commiato da lui.

—Ancora cent'anni di vita così vegeta e robusta!—gli disse ella nell'orecchio.

—Son troppi, son troppi!—rispose il contadino;—ma se verranno, non li manderò via certamente.

Intanto giungeva Mariangela, che era andata lì presso a raccogliere alcuni fiori per farne un mazzolino. Erano garofani e mughetti salvatici, pratelline e ramoscelli di timo, che la buona vecchia legò con un virgulto di ginestra, e li offerse alla signora Argellani.

—Grazie, buona madre; andrò a casa, fiorita come una sposa. Ci ho anche una margheritina…. la vostra, signor fratello.

—Ah, credevo che l'aveste perduta…. gittata via.

—Bravo! e dove avete mai veduto che io faccia così poca stima delle cose che mi sono regalate? Eccola qui!—

Laurenti chinò il capo, in atto di chi riconosce il suo torto, ma in verità per nascondere la commozione che lo avea preso, al veder la margheritina uscire dallo sparato della veste di Luisa.

Poco stante, scendevano dalla collina, accompagnati dai contadini, Guido da un lato e Maddalena dall'altro, aiutarono la signora a far quella strada sassosa fino al piano, dove li aspettava la carrozza.

—A rivederla, signora!—le disse Maddalena, come la vide tranquillamente adagiata.—Io non le ho ancora parlato che una volta, e l'amo già, direi quasi, come una sorella, se non fosse che Ella è una gran signora e io una povera contadina.

—Maddalena, ricordatevi che in questa terra, qui presso, noi ridiventiamo tutti uguali, e chiamatemi pure sorella. A rivederci, dunque; portatemi il Giovannino, perchè vo' fargli da madrina, sebbene io non l'abbia tenuto al battistero.

—Che importa? e' sarà per la cresima, quando verrà il tempo di pigliarla. Ho detto bene?—

La signora Luisa sorrise all'augurio, e la carrozza partì al trotto per alla volta di Genova.

Gli avvenimenti della giornata, avvenimenti psicologici, s'intende, erano stati tanti e così affollati, che i due compagni di viaggio non reputarono dicevole di stare a barattar parole. La signora guardava i suoi fiori, e pareva tutta affaccendata a considerarne i colori e a contarne le foglie; Guido stava spiando colla coda dell'occhio quello che essa faceva, ed aveva aria di guardare sbadatamente il paese.

—Che cosa fa ella adesso?—pensò egli, vedendola deporre il mazzolino e ripigliare in mano la margheritina che egli le aveva donata. Ma non istette molto a venirne in chiaro, poichè la signora Argellani volgendosi a lui, gli disse:

—Permettete? Vorrei fare una dimanda a questo fiore, e per farla bisogna che lo guasti.

—Oh, fate pure; ma che cosa volete chiedergli?

—Se vivrò.

—E in che modo?

—In un modo semplicissimo; per sì e per no.

—Gli è un giuoco inutile, poichè il vivere è in voi quistione di volontà, e potete saperne da essa quanto vi torni.

—No, io non ne so nulla, non voglio nulla da per me. Se la margheritina non mi dirà di no, accetterò il responso. Vedete? incomincio. Sì, no, sì, no, sì….

—Badate, signora; avete strappato due petali in una volta….

—Orbene, un no di più, e vado innanzi. No, sì, no, sì,…. no…..

—E sì—gridò Laurenti, respirando liberamente.—La è propria finita con un bel sì. Oramai siete condannata a vivere.

—Che!—rispose la signora, lasciandosi andar la persona contro la spalliera della carrozza.—Gli è un giuoco e null'altro; voi lo avete detto pur dianzi.

—No, no; voi lo avete voluto come un responso, e adesso bisognerà rassegnarsi. La vostra volontà non c'entrava, diceste; orbene! non l'adoperate adesso per far contro all'oracolo.—

La signora Argellani non rispose più nulla, e fu silenzio fino alla palazzina gialla, dove ella discese, e Guido prese commiato da lei.

XVI.

Nel ringraziarlo della sua cortese compagnia, la signora Argellani aveva detto a Laurenti come ella si sentisse stanca e pensasse di andare a riposarsi di buon'ora. Donde avvenne che quella sera, rotte le sue consuetudini, il giovine rimase come un pesce fuor d'acqua, nella agonia della incertezza, che è la peggiore di tutte. Dopo il desinare andò a passeggiare pel giardino, ma non c'era nè luce, nè aria, nè fiori per lui. Uscì per la città, ma non sapeva dove andarne a parare; tornò a casa e aperse un libro, ma non potendo reggere alla lettura, uscì di bel nuovo, e andò viaggiando all'impazzata, in uno stato d'animo che gli innamorati intenderanno; temendo e sperando, facendo e disfacendo senza posa castelli in aria, d'ogni forma e d'ogni misura.

Come a Dio piacque, giunse la notte, e colla notte un po' di sonno. Il mattino seguente, quattordici ore erano passate, e cotesto parve un sollievo a Laurenti, il quale scese per tempissimo in giardino ad inaffiare le sue piante, e poi, per far ora, se ne andò ad erbolare su pei terrapieni, fuor delle mura.

Egli aspettava le dieci con impazienza, e intanto, cercava di ingannare il tempo, sradicando giusquiamo, euforbia e cicuta. Quella mattina era consacrata proprio allo studio dei tossici. Suonarono le dieci, ed egli non si mosse di lassù castigando sè stesso con altre due ore di quel molesto indugiare; di guisa che, allorquando fu per tornarsene a casa, già era il tocco dopo il meriggio.

—C'è stato nessuno a cercar di me?—chiese egli al servo.

—Non so;—rispose questi.—Io sono stato fuori per tante cose, e sono tornato poco fa.

Laurenti entrò in casa coll'animo scombuiato, e stringendo i pugni dentro le tasche della spolverina.

—Ah!—esclamò la governante, appena ebbe veduto il padrone.—Che cosa ha, che le vedo gli occhi così stralunati?

Crollò le spalle a quella dimanda della donna, e si volse alla scala per salire nelle sue stanze; ma non aveva anche posto il piede sul primo scalino, che il servo si fece innanzi per presentargli i giornali e le lettere tolte dalla posta.

—Sta bene…. Ma qui c'è una lettera che non viene dalla posta. Chi l'ha portata?

—Il giardiniere di casa Argellani;—rispose la governante.

—E perchè non dirmelo subito, che ci era questa lettera? E' poteva trattarsi di cose rilevanti….

—Ma se Vossignoria è giunta appena adesso…. Non ho avuto ancora il tempo di parlarle….

—Benissimo; avete ragione.

E così dicendo, salì frettoloso al piano superiore; corse nella sua camera, e andatosi a sedere presso la finestra, ruppe il suggello, cavò un foglio scritto su tutte le quattro facce, d'una scrittura fitta e sottile, che cominciava colla parola amico e finiva col nome della signora Argellani. Ora, come gli tremassero le dita, e come il sangue gli rifluisse veloce dal cuore alle tempie, sel pensi ognuno che abbia ricevuto la prima lettera di una donna amata.

La prima lettera d'una donna amata! E' non v'è cosa al mondo che valga questo preziosissimo dono. Pensare che quella mano sulla quale imprimereste tanti baci, si è appoggiata sulla carta per formar quelle lettere; che quegli occhi, dai quali implorate uno sguardo fuggevole, vigilavano la scrittura; che quella mente, nella quale vorreste regnar solo, dettava i pensieri e le parole; e tutto per voi, non pensando che a voi! Egli è perciò che le cose di minor rilievo, i nonnulla, acquistano un pregio grandissimo; le virgole che determinano il più semplice concetto, parlano un'arcana favella all'anima vostra; uno svolazzo di penna, la filettatura di una maiuscola, sembrano dirvi «ti amo» poichè tutta quella gentile fatica è stata fatta per voi, non pensando che a voi.

Anelante, turbato, Laurenti spiegò il foglio e lesse la lettera della donna gentile.

«Amico,

«Consentite che vi scriva, poichè non mi verrebbe fatto dirvi a voce tutti i nuovi e confusi pensieri che mi vanno turbinando nella mente. Ho bisogno davvero di vederli uscir neri dalla penna in parole formate, per raccapezzarmi io medesima in questo tumulto di sentimenti, in questo brulichio di nuove paure e di nuovi desiderii. Forse, anco volendo e potendo, non ardirei farvi la confessione che ora commetto alla carta.

«Debbo ringraziarvi, amico mio? Sì certamente, perchè voi siete stato l'angiolo consolatore nelle tenebre della mia agonia, aiutatore, benefattore accettato e deriso ad un tempo, imperocchè io ho sfruttato i soccorsi momentanei della vostra scienza ribellandomi poi a tutte le sue lontane deduzioni e cercando in cuor mio di farla mentire. Il ringraziarvi non è dunque altro che un rendere giustizia, abbenchè tarda, alle vostre cure amorevoli.

«Io (quasi arrossisco a dirvelo) non desidero più di morire. E non m'abbiate, per carità, in conto di una paurosa femminuccia! La scena del mondo aveva orizzonti nuovi, che io, chiusa tutto intorno da nuvole fitte, non avevo saputo scorgere. Voi, medico pietoso dell'anima, avete squarciato un lembo di quegli uggiosi vapori, nei quali io stava per addormentarmi, disperatamente tranquilla, e m'avete fatto trapelare in lontananza il cielo sereno.

«È una assai triste cosa la morte. In quella che voi parlavate, io mi sono misurata nella buca, ed ho veduto che ci si stava a disagio. Inoltre, quel silenzio immane, pesante come una cappa di piombo…. ed eterno, mi parve orribile, orribile! Chi lascia ricordanza ed affetti dietro di sè, può morire. Forse la certezza del rimpianto altrui, fa della morte una raffinatezza di voluttà. Ma soli, soli sempre, e nulla che ci ricordi…. e dal mondo, per cui si muore, nessun profumo che salga fino a noi, triste cosa per fermo, eterno ghiaccio che ci avviluppa, e, siccome avete detto voi così acconciamente, ne uccide due volte!

«Egli m'è sovvenuto di certa leggenda antica, di que' poveretti che andavano al camposanto sepolti senza lenzuolo, e il dì dei morti, uscendo da terra per andare a salutare i parenti e gli amici, non avevano un cencio di che coprire le loro miserevoli nudità. Vedevano i compagni, ben coverti dalla pietà ricordevole dei superstiti, valicar leggieri la soglia del camposanto e correre colla brezza notturna fino all'abitato, per deporre un freddo bacio sulla fronte dei cari viventi, raccolti a meditazione dintorno al focolare domestico. Ed eglino, poveretti, nulla! Eglino, dimenticati dal mondo, erano costretti a rimanersi vergognosi nel sacro recinto, e a richiudersi intirizziti nella fossa.

«Vedermi morta là dentro, senza affetto, senza rimpianto, vedermi a dormire ignorata, obliata in eterno, senz'altro compenso della comune allegria dei superstiti, che una menzogna scolpita sul marmo, argomento al sogghigno dei riguardanti curiosi, fu una amara lezione, della quale io vi sono debitrice.

«Ma dove avete imparato voi, cuore di donna in petto virile, il segreto di scuotere la fibra intorpidita dall'agonia, di cogliere un dolore nel profondo, di irritarlo, di cacciarlo da tutte le sue ridotte, suscitando a congiura tutte le ire dormenti, tutte le speranze affievolite di un'anima che più non intendeva sè medesima, e soffocarlo, nell'impeto supremo di tutte quelle forze collegate? È la scienza forse, che vi ha fatto indovino, mago e ricreatore di spiriti?

«Vi ricordate di quei bambini che si trastullavano sulla porta del cimitero? Ohimè, come la vita è vicina alla morte! ma, per contro, come il rimedio è provvidenzialmente vicino al male! Cari fanciulli! Essi non sanno nulla della vita; ignorano se dalle sue battaglie deriverà ad essi la morte o il trionfo, il dolore o la gioia; ma vivono e sorridono, e più tardi, giunti all'età dell'affetto, avranno desiderii e speranze, conformi alla legge che tutti trascina. Certo avranno a patire, e taluni anche a desiderare di non esser nati mai. E frattanto, il far del bene a costoro, anco per renderli infelici, è un bisogno dell'anima, ufficio gentile della virtù e fonte di gaudii ineffabili. La rondinella che porta pagliuzze al nido e cibo ai figli seminudi, adempie al precetto dell'amore e fa opera buona, anco se intenda che quei poveri pennuti, appena potranno volare, affaticheranno vanamente le ali per lunga distesa di mari, o cadranno fulminati dal piombo del cacciatore crudele, che addestra l'occhio e la mano ad uccidere le indifese creature di Dio. E Maddalena vive maternamente così; ella soffre in pace e spera che il suo Giovannino rassomigli a Sandro, al continuo argomento de' suoi affettuosi pensieri.

«Vo' fargli del bene, al Giovannino, se vivrò. Egli del resto non dovrà serbarne gratitudine a me, sibbene a voi solo, mio nobile amico, che avete guidato i miei passi.

«Quante belle cose sono da farsi nella vita! Sì, credo anch'io che si possa vivere senza l'amore. Davanti al sepolcro di Caterina Stella ho pensato, pesato anzi la vacuità di questi affetti fuggevoli, che non sopravvivono alla morte, spesso nemmeno alla gioventù e non valgono il sacrifizio di noi medesimi.

«Anch'io penso con voi che v'abbiano buoni e malvagi nel mondo, e che bisogni amare i buoni, dimenticare i malvagi. Anche i buoni sono deboli, ed hanno il loro lato gramo, quello in cui la materia vile predomina. Perdonare, non dimenticare il male che si fa; comportare le debolezze, render giustizia alle virtù; non disperare della specie umana, far del bene, operare insomma, operar sempre, e non curarsi del premio; è questa una buona e consolante dottrina.

«Cotesto pel cuore. Per ciò che riguarda la mente, è conforto grandissimo, e gaudio dell'intelletto che riverbera su tutta l'esistenza, studiare, indagare il vero in ogni ragione di cose, diventar lucidi come il prisma, poter come esso rifrangere la luce più pura, e scomporla in sette colori.

«Ah, noi donne siamo pur disgraziate! Nessun lavoro di educazione, nessuna voce amica ci chiama a queste regioni dove saremmo tanto più felici quanto più ci sentiremmo nobili. In quella vece ci si rinchiude nella cerchia dei mezzi conforti della mente, dei mezzi gaudii del cuore, nè certo i più eletti, e poi ci si comanda di vivere!

«Infine, che vi dirò? Voi mi avete disvelata a me stessa; io mi sento, per opera vostra, rivivere, e voglio vincere, se fia possibile, il male, che uscito dallo spirito, mi regna ancora nel sangue. Fate voi; la vostra scienza mi aiuti.

«Come vi ricompenserò? Voi non badate a mercede. Appena vi ho scorto, v'ho inteso amico sincero, e pietoso a me per comunanza di affanni. Voi avete molto patito, ma, forte per natura, armato di ingegno e di virtù, vi siete sollevato di per voi nelle più alte regioni, dove non giungono i grossi vapori della materia, e operate il bene per la necessità dell'animo vostro. Che cosa potrei io profferirvi? E che cosa avrei io da profferirvi, che già non abbiate, vo' dire la contentezza interna, il sorriso sereno della vostra coscienza?

«Addio! L'orologio suona le nove, e mi sento spossata. Vo a letto, e dormirò tranquilla, aspettando che questa lettera vi giunga domani per tempo. Voi siete mattiniero, e la leggerete mentre io dormirò, forse sognando di essere risanata da voi. Addio, dunque vi aspetto.

«LUISA».

XVII.

Vi aspetto! Luisa aveva proprio scritto così; cionondimeno Laurenti si fermò un'ora a pensare su quella lettera dopo averla letta tre volte. Due opposti sentimenti combattevano l'anima del taumaturgo, nel considerare che egli faceva il suo miracolo; la gioia dell'artefice che vedeva per opera propria, mercè una divinazione spontanea, rinascere a vita quella povera morente, e il dolore di scorgere com'ella lo avesse inteso a puntino.

Il poter vivere senza l'amore, era la cosa che la signora Argellani avesse meglio capito tra tutte le massime del giovine; era la dottrina che ella aveva fatta sua, midollo delle sue ossa, globulo del suo sangue. Egli è infatti dimostrato da lunga esperienza che un concetto comune, facile e piano, difficilmente trionfa, come quello che non fa profonda impressione; laddove il paradosso ha maggiore efficacia, e gli è appunto per via di paradossi che il mondo cammina. Ma che cos'è alla perfine il paradosso? Un'idea contraria a quella che si ha comunemente per vera; donde non consegue che possa chiarirsi assurda. Buona nella sostanza, ella si fa stimolante per la forma; ora le ròzze che tirano il carro del progresso hanno davvero bisogno di stimolo.

Un paradosso di questa fatta era appunto la massima di Laurenti che si potesse vivere senza l'amore. Concetto giusto fino ad un certo segno, come tanti altri che si presentano sotto la forma: «si può vivere senza questo,» alla qual forma il popolo, che grossamente ma direttamente ragiona, usa sempre rispondere: «ma con questo si vive meglio.»

Intanto, con quella sua lettera, Luisa diceva chiaro a Laurenti di aver fatto pro' delle ricette, ma di non avere inteso punto il cuore del medico. Facendolo troppo alto, non lo considerava più come un uomo. E cotesto non si poteva ascriverle a torto, imperocchè simiglianti sformazioni sono la cosa più naturale del mondo. Noi, quanti siamo, non immagineremo mai Socrate innamorato; lo vedremo sempre filosofante, perfino nella casa di Aspasia.

Guido insomma si avvedeva, leggendo la lettera della signora Argellani, di aver fatto opera sottile a suo danno, di essersi, come dice argutamente il proverbio, aguzzato il palo sulle ginocchia.

—Ma infine, pensò egli alzandosi in piedi, che importa che io abbia a patirne il danno, se ella risana? Percy è morto nel suo cuore, ed io l'ho salvata; questo è l'essenziale. Oramai la cura andrà da sè; la scienza darà i suoi medicamenti, infonderà il ferro nel sangue, discacciandone la linfa sovrabbondante; la mite stagione, l'aria, il moto delle membra e la calma dello spirito, le rifioriranno le guancie. Animo, su! Percy è morto. E poi, quando sarà risanata, morrò io.—

Questo pensiero, già parecchie volte accarezzato dal suo dolore nei profondi inesplorati recessi dell'anima, gli si affacciò al tribunale del raziocinio, armato di tutti gli arnesi della logica.

—Che cosa farei io, senza l'amore di quella donna? Si può egli vivere senza l'amore, quando non si disprezzi chi ve lo ha inspirato? Sono io tal uomo da andar co' sotterfugi, per vie coperte, a guadagnare tratto tratto un po' di terreno? Son io tale da accontentarmi alla sua amicizia? Son io uomo da consolarmi, da poter vivere senza di lei? È tale la mia tempra, da piegare innanzi alle difficoltà, da sviarsi tranquilla di rincontro agli ostacoli?

A tutte queste dimande, il raziocinio inflessibile rispondeva di no.

—Orbene, la risanerò affatto, e ne morrò io. Ripeterò sulla mia persona l'esperimento di prosciugar le vene ad un sano, per rinnovare il sangue e rinfrescar la vita nelle vene del moribondo.

Questa deliberazione, considerata per tutti i lati, gli parve buona, e la prese. Andò allo specchio, e gli sembrò di avere il volto sereno, quasi ilare pel fatto proposito. Sorrise alla sua immagine, si ravviò alla lesta i capegli, si vestì elegantemente come un forte che va a morire, e si recò difilato in casa Argellani.

La signora Luisa era nel suo salottino, intenta a cominciare un ricamo sul telaio. La vita si risvegliava in lei, e colla vita il desiderio di ripigliare i suoi consueti passatempi. Era ancora un po' fiacca per la gita e per le commozioni del giorno innanzi, ma piena di volontà; e colla volontà in aiuto, si fanno miglia di molte.

Il povero Guido non l'aveva mai veduta così bella come in quel punto, e in quell'operoso atteggiamento; ma chiuse gli occhi, o, per dir meglio, comandò ai suoi occhi di non vedere. Si fece in cambio a ringraziarla della sua lettera, la quale gli dimostrava com'ella avesse cavato profitto dai consigli del suo medico, e di tal guisa non mettesse a nudo la pochezza del suo sapere.

Ad ogni costo, e in breve, ella voleva essere risanata. Il ritorno alla vita si palesava in lei con una tal potenza di desiderio, da insuperbire ogni altro discepolo di Galeno che non fosse stato Laurenti. Ma egli, poveretto, era tutto umile in tanta gloria, e rimaneva oppresso dai ringraziamenti della bellissima inferma. Le toccò il polso con molta gravità, cercando di dimenticare che le sue dita premevano le carni della donna gentile; ordinò alcune pozioni; le disse che sarebbe tornato più tardi per condurla in giardino, e partì mezz'ora dopo che era entrato da lei.

E' fu un medico e nulla più; si ristrinse nel suo ufficio, come la chiocciola si rannicchia nel suo guscio; e di fuori appariva tutto gaiezza, tutto sorrisi, mentre sentiva lo schianto nel cuore.

Più tardi, in giardino, fu la medesima cosa. Uditrice la signora Luisa, e' fece una lezione di botanica col Giacomo; parlò della pioggia e del sereno con una mirabile franchezza. La donna gentile si stancò della passeggiata, ed egli le offerse il braccio per ricondurla in casa. Seduto accanto a lei sul canapè, si pose a leggerle un canto dell'Ariosto, facendole assaporare le prelibate dolcezze del racconto e la scioltezza di quelle stanze divine, fino a tanto gli occhi non le diventarono piccini dal sonno, e allora egli prese commiato.

Per tre o quattro giorni durò in quel modo, salvo che, in cambio di condurla a passeggio pel giardino, l'accompagnò in carrozza a fare qualche gita verso il bel paese di Pegli. La sottile brezza marina rinvigoriva il petto all'inferma; le resinose fragranze del pino ridestavano le inerti fibre; quel muoversi, quel mutar di vedute e di pensieri, le rallegravano lo spirito. Egli spiava con sollecita cura il rinnovarsi di quella esistenza preziosa, precorreva col pensiero impaziente il tempo che dovea risanarla, ed uccidere lui. E Luisa non si addava di quelle interne battaglie; ella si lasciava ire in balìa di tutte le sue rinnovate sensazioni, curiosa, inconscia e serena come il fanciullo che per la prima volta esca dal suolo natale per correr nuovi paesi; raccontava con affettuosa dimestichezza ciò che sentiva; dimandava ingenuamente ragione d'ogni cosa al suo medico; guardava sempre dinanzi a sè, e non volgeva mai gli occhi da fianco.

Egli frattanto, nelle ore che gli restavano disutili (ed erano molte ed eternamente lunghe) si condannava allo studio, e poichè s'era accorto che a meditare sui libri presto perdeva il filo della lettura, ricadendo nei soliti molesti pensieri, correva all'impazzata su per le circostanti montagne ad erbolare, ma più ancora a farneticare da solo. Dura vita che nessun uomo di cuore vorrebbe vivere un mese!

Un mattino, tornando a casa da una di quelle corse rabbiose, fu grande la sua maraviglia al vedersi venir tra le gambe il Giovannino, vestito da festa e razzimato, lisciato, come un putto dell'Albani, il quale, dopo aver ricevute le sue carezze, lo tirò per le falde dell'abito verso il viale, in capo a cui gli fece vedere la signora Argellani, seduta sul muretto, accanto all'olmo, e la Maddalena ritta, poco lunge da lei.

La signora Luisa non aveva mai posto piede in casa sua; però argomentate come rimanesse stupefatto al vederla colà, e seduta là appunto dove egli si stava quel giorno che per la prima volta aveva veduto lei, e l'amore gli era penetrato come una freccia avvelenata nel seno.

—Oh! Era tempo!—esclamò la donna gentile, appena lo ebbe veduto.

—Signora….—balbettò egli;—io non potevo certamente aspettarmi…..

—Zitto, per carità, coi vostri complimenti! Sapete che non mi vanno a sangue…. e se m'andassero a sangue, chi sa? a quest'ora sarei già insanguinata, o non sarei caduta inferma. Vi piace il bisticcio?

—Molto, signora; l'ammalato, che celia sulla sua infermità, è sul punto di mandarla a quel paese. Ma…..

—Ma infine vorreste sapere perchè sono venuta qua; non è egli vero? Vi contenterò subito. Maddalena è scesa la seconda volta a Genova per salutarmi, e il Giovannino, che non vi ha visto la prima, s'è richiamato per violazione di patti. Allora abbiamo pensato di venirvi a cercare, ed è un'ora che siamo quassù. Ma dove siete stato, voi?

—Ad erbolare, signora.

E qui Laurenti mostrò un fascio di pianticelle raccolte sui greppi.

—Ma sapete che voglio venire anch'io?—disse la signora Argellani.—Voi raccoglierete erbe, ed io darò la caccia alle farfalle.

—E' sarà un grande onore per me; ma le vi faranno correre e sudare di molto, quelle che già abbiano messe le ali. Quelle altre poi che sono ancora nel primo stato di bruchi, o in quello di larve, vi faranno ribrezzo.

—Orbene, io raccoglierò le erbe che mi direte, e voi le farfalle, i bruchi, e quello che vorrete; oppure io starò seduta su di un sasso muscoso a vedervi correre. Vi torna, così?

Laurenti fece un profondo inchino, e si avvicinò a stringerle la mano. Quella donna, per fermo, anco noncurante, non si poteva che amarla, dirò meglio, adorarla.

Il Giovannino fece gran festa a Laurenti, che gli regalò un bel libro di storia naturale, pieno d'immagini dipinte d'ogni maniera d'animali, cominciando dall'uomo. Quindi, fatta vedere partitamente la casa a' suoi ospiti, Laurenti scese con essi alla palazzina gialla.

Lungo il tragitto, appoggiata al suo braccio, la signora Argellani diceva a Guido:

—Se sapeste come mi sento meglio! come sono contenta! Non mi ricordo più di nulla, non penso più a nulla. Oggi vivo per vivere, e più tardi vivrò per studiare, per rallegrarmi lo spirito, per fare tutto il bene che potrò.

Discorso che stringea il cuore a Laurenti! Ed io morrò per voi! pensava egli frattanto.

Poco stante, Maddalena si accomiatò, e la signora Argellani la fece ricondurre nella sua carrozza fino a Staglieno.

—Vi eravate dimenticato di quella brava gente?—chiese la donna gentile a Guido, come furono soli.

—Sì;—rispose egli asciutto.

—Cattivo dottore! E non ricordate già più che quei buoni contadini ci hanno avuto la parte loro, mercè vostra, s'intende, in quella giornata che io reputerò sempre il principio della mia seconda vita?

Un amaro sorriso sfiorò le labbra di Laurenti.—Ed ella lo crede?—pensò egli—Ed ella può giudicarmi così dimentico?

E fatte alcune altre parole, se ne andò, pensando che le donne non avevano più che tanto di cuore.

Quel giorno medesimo, andando pensieroso per via, s'avvenne in un amico.

—Ohè, Laurenti, come va?

—Bene.

—Con che abbondanza di parole lo dici! Tu m'hai l'aria d'uomo che non istà bene affatto, se non per avventura di corpo, certamente di spirito.

—Tu vuoi celiare, oggi. E quando mi hai tu veduto diverso?

—Oh, parecchie volte, ma invero nei tempi passati; chè ora, come dicono i toscani, o non ti si vede, o quando ti si vede non ti si può parlare. Laurenti, Laurenti! Tu se' innamorato fradicio.

—Io? se' pazzo?

—Lo so di buon luogo.

—Che sei pazzo?

—No, che tu sei innamorato. Ti dico e ti ripeto che lo so. Figurati che se n'è fatto gran chiaccherare l'altra sera in fiorita compagnia…. in casa Perrotti, insomma.

—Che? come?—proruppe sbigottito Laurenti.

—Ah, vedi? Cascano i filinguelli al paretaio….

—Casco io? T'inganni; io argomento in quella vece che nelle chiacchere alle quali tu accenni ci sia una bella e buona malignità femminile.

—In quanto è a cotesto, avrai forse ragione. La signora Aurelia è un Asmodeo diventato femmina. Ma, in fin de' conti, non ti si faceva ingiuria a dire che sei il medico di una bellissima signora, che tu sei innamorato di lei, o ella….

—Taci; quei signori non sanno quel che si dicano. In tutto cotesto, salvo il negozio del medico, non c'è ombra di vero. E dimmi, fu pronunziato il nome?

—Mi pare di no, ma tutti capivano. I connotati c'erano tutti, e il nome lo si aggiungeva del proprio, nel fondo della coscienza.

—E tu non hai protestato?

—Io, amico carissimo? Ora sei tu il pazzo, non io. O come? Si dice innanzi a me che il mio Guido è avviluppato in una ventura amorosa con una bellissima dama (e la dicevano invero bellissima), che egli è contento, od è ad un pelo di esserlo; ed io, amico suo, dovrei saltar fuori a sacramentare che non è vero? che cotesto è impossibile, perchè Laurenti è brutto, spiacente, e non ha da trovare una donna che gli getti il tulipano dalla finestra? Di amici che possano farti simiglianti servigi vattene a cercare altrove, Laurenti mio, non nello studio del primo avvocato di Genova (primo per ingegno s'intende, e non per copia di mali negozi), dove io sto facendo conclusioni, senza conchiudere mai nulla per me.

—Hai ragione, chetati, hai ragione. Ma in quello che s'è detto dai Perrotti non c'è ombra di vero, sai? te lo giuro per la memoria di mia madre.

—Perdio, lo credo anco senza bisogno che giuri. Ma infine, perchè ti nascondi da ogni sguardo profano?

—Tu sai che è sempre stato il mio costume di vivermene soletto; ed ora sto appunto per andarmene…

—Che?

—Sì, vado a Milano.

—O quando?

—Dimani; vado a passare alcuni giorni laggiù, dove alcuni amici mi aspettano. Tu, se odi ancora a sparlare, puoi dire chiaro e tondo che io non sono neppure a Genova; poichè, alla fine, una calunnia, segnatamente quando risguardi una donna, se si può levarla di mezzo con due parole….

—Dici ottimamente, e, non dubitare, ti servirò a misura di carbone.

—Addio, dunque!

—Addio; buon viaggio, e fammi una retata di pallide lombarde.—

Verso sera Laurenti andò dalla signora Argellani, come aveva promesso. La conversazione non fu molto ordinata, nè ricca di belle novità, sebbene la donna gentile fosse d'un umor gaio oltre l'usato. Pensando alla sua partenza, che gli era nata in mente a mezza strada come una felice inspirazione, Guido non badava molto a tener vivo il dialogo con quelle immaginose parlate che egli sapea fare su d'ogni tema, solo che gli si desse appiglio con quattro parole.

Come fare a dirle che parto? pensava il giovine, mentre la donna gentile gli venia raccontando le sue pensate di quel giorno.—Il mio viaggio è nato lì per lì, senza preparazione, senza avvertimento di sorta… Ma infine, che cosa le importerà che io me ne vada? Ella oggimai non ha bisogno del medico, ed io d'altra parte non debbo a nissun costo lasciar credere alla gente che amo questa donna, cosa pur troppo verissima, e che ella ama me, il che non è punto vero. Ella amar me? Ella avvedersi solamente che io l'amo?…

Tutti quei bei pensamenti lo condussero finalmente a dire ad alta voce che la mattina seguente egli doveva partire per alla volta di Milano.

—Che? voi partite?

—Si, signora; parto.

—O come, aspettate a parlarmene adesso?

—Perchè stamane…. non ci ho pensato punto. Un amico di là mi prega di andare;… un amico d'infanzia…

La signora Argellani era rimasta attonita a quell'annunzio improvviso. Il pensiero che Laurenti, il suo medico, che ella era avvezza a vedere di continuo, se ne andasse da Genova, anco per una diecina di giorni, non le era venuto in mente giammai.

—Gli è strano!—pensò ella—gli è strano!

E fu per guardare colla coda dell'occhio la faccia di Laurenti; ma si trattenne, e si ristrinse a dirgli:

—Dunque ve ne andate domattina!

—Sì, ma vi lascio in convalescenza cosiffattamente avviata, che non può fallir più.

—Oh non dico per cotesto, signor dottore, che diffatti io mi sento rinata, e per vivere la mia seconda vita non ho d'uopo che di attenermi alle vostre ordinazioni. Mi duole in quella vece di veder partire gli amici.

—Starò pochi giorni—disse Laurenti alzandosi a mezzo dalla scranna per accompagnare quelle parole con un inchino, e voltarle ad un ringraziamento.

Pochi minuti dopo, si congedò, ed uscì dalla palazzina co' denti chiusi e i pugni stretti, come per vincere lo sforzo che il dolore gli faceva di dentro. E intanto la signora Luisa pensava a quella improvvisa partenza, ripetendo tra sè: «gli è strano davvero! Che cos'ha il signor Laurenti, che io non lo riconosco più?»

XVIII.

LUISA A LAURENTI

«15 aprile….

«Amico,

«Grazie della vostra lettera, sebbene la si facesse aspettare un po' troppo. Cattivo dottore! Sei giorni a Milano, senza mandarmi quattro versi per raccontarmi qualcosa di voi e chiedere novelle della vostra convalescente! E poi, mi scrivete due paginette asciutte, per dirmi…. che cosa? Aspettate, le rileggo; non c'è proprio nulla, e non sono nemmanco due paginette. La prima incomincia a mezzo il foglio, e la seconda ha quindici versi a stento, mettendo nel conto l'ultimo paragrafo dei soliti complimenti, il devotissimo servitore ed il nome.

«Basta, se non avessi da ringraziarvi dell'esservi finalmente ricordato di me, avrei a sgridarvi ben bene. Ma non lo fate più, se no posso andare in collera a dirittura.

«Io vivo, amico mio, e potrei dire che vivo bene, se non fossi un pochino annoiata. Mi manca la vostra utile compagnia, il vostro leggiadro conversare. La è colpa vostra, d'avermi così male avvezzata. Ogni cosa che noi vedessimo, anco un fil d'erba, era argomento a svariate considerazioni, nelle quali io centellava la vostra scienza multiforme, senza pompa, senza occhiali, e sopratutto senza tabacchiera…. Ora argomentate voi quante ore della giornata mi rimangano disutili e sciocche.

«Scendo nel giardino per tempo, ad aiutare, o, per dire più veramente, ad impacciare il Giacomo, quando inaffia le aiuole. Giungo così, seguitandolo, fin sotto all'olmo; saluto la vostra edera, e poi torno in casa all'ora dell'asciolvere. Il cuoco non si diparte dalle vostre leggi, non ardisce pensare a novità nel reggimento di questo povero regno dissanguato, dissestato, che è il mio. Fuor di metafora, mangio prosaicamente dei pezzi di carne arrostita, che mi dipinge le labbra innanzi di andare a far sangue in petto, e bevo vino di Bordò. Il verde è sbandeggiato dal regno; perfino la innocente lattuga è condannata, come un pericoloso cittadino, un agitatore di popoli. Quindi mi metto a passeggiare da capo, ma all'ombra della casa, e dopo un'oretta vo a lavorare un tantino, quando non giungono visitatori; i quali sapete chi siano; la Maddalena e suo figlio.

«La Maddalena è già venuta due volte, dacchè siete partito; e ieri l'ho fatta rimanere a pranzo con me. Il Giovannino studia, e vi manda tre baci, tre soli! Gli ho chiesto se vi voleva bene, e mi rispose di sì; quante sacca, e mi rispose tre. Egli ha in mente il numero tre, simbolo forse de' suoi affetti infantili che si incarnano in sua madre, in voi, e nella vostra umilissima cliente.

«Sapete già che mi è tornata la mania del ricamare, come intermezzo a studi più gravi. Per punirmi delle mie passate malinconie, ricamo le più prosaiche pantofole che vi possiate immaginare. La signora Tonna, vedendomi lavorare con tanto fervore e metter seta e fili d'oro in forma di fiori e rabeschi, s'è posta in mente che io voglia mandare un'offerta a Roma; la qual cosa mi ha fatto ridere, ma proprio di cuore. Leggo poi di astronomia nel trattato di Arago, e di storia naturale nei libri che mi avete donati; faccio insomma un intriso di scienze, che non ardisco ancora battezzare col nome di studio.

«Dopo il pranzo, mi metto in carrozza e me ne vo fino a Pegli, o dall'altra banda fin oltre Nervi; respiro aria marina, e torno, a luna alta, in casa. E qui non apro più un libro; me ne vo a letto, e dormo subito della grossa, come un filugello, non già sognando di far seta, ma di essere tranquilla e contenta in uno di que' paesi fantastici che voi m'andavate qualche volta dipingendo, senza averli veduti più che tanto.

«E voi? Se non vi è troppo grave tener mezz'ora la penna tra le dita, come faccio io senza fatica, ditemi un po' quel che fate. E intanto ricordatevi della vostra riconoscente amica, ma non divotissima serva

«LUISA.»

LAURENTI A LUISA.

17 aprile….

«Signora,

«Io vegeto. Questa sarebbe l'unica frase che io dovrei mettere in carta, per darvi le più certe e le più chiare novelle de' fatti miei, Sed si tantus amor casus cognoscere nostros, cioè se voi avete tanto desiderio di conoscere particolarmente e diffusamente come io vegeti, incipiam, comincierò.

«Mi alzo anch'io di buon mattino, e vado a contemplare i monumenti di questa bella ed illustre città; poi in Brera a meditare su d'un quadro di Raffaello, o all'Ambrosiana a scartabellare vecchi codici, come un erudito, e senza intendervi nulla, del pari.

«Più tardi, all'ora in cui i milanesi si alzano da letto, vo a far colazione al caffè Martini, dove si scambiano le prime parole della giornata. Sto a sentire le chiacchere di certi buontemponi, intorno all'ultimo amante della contessa tale, intorno alla festa della tal altra, o i giudizi sul ballo della Canobbiana, o i commenti sull'ultimo articolo del Pungolo. Quindi si piglia una carrozza e si va a desinare fuori le porte; o si desina in città e si esce a fare una cavalcata sui bastioni col dottor C. uno dei miei più cari amici, il quale ha un umore come il mio; poi si va a teatro, e da capo al Martini, o al Cova, o dove meglio torna al mio bizzarro collega.

«Ma quello che io faccia davvero, non so. Per rompere un tratto la monotonia del vivere, siamo andati fino a Bergamo, a salutare la statua di Torquato Tasso nella più malinconica piazza antica che io abbia veduta mai; di là fino a Brescia, e, Dio cel perdoni, fino a Lonato. Se non ci fossero i tedeschi, saremmo andati fino a Venezia. A Lonato, un bel paese che ha una chiesa più grande del naturale, ho visitato le rovine di un castello dei Veneziani, dal sommo del quale si vede il lago di Garda. Mi parve di scorgere il mare, e non ebbi pace fino a tanto non giunsi a Desenzano, dove mi imbarcai per Sirmione, a visitare gli avanzi della villa di Catullo. Ma non mi chiedete ricordi; viaggio con desiderio fino alla meta; quando giungo, mi passa la voglia, e non vedo l'ora di tornarmene via.

«Eccovi la mia vita; sono stanco, e sapete il perchè? Io credo di averlo indovinato. Di tanto in tanto, sul mare della vita vi colgono di cosiffatte calme moleste; non tira una bava di vento; la vela non giova, e non s'ha braccia per andare a remi. Io sono in questo misero stato, e se non fossi il vostro medico e non temessi colle opere di far contro alle mie stesse parole, potrei dirvene di belle, circa la utilità della vita.

«Voi intanto risanate, che siete chiamata a risplendere nel mondo per bellezza e bontà. Io pure ho speranza di vincere questa fiacchezza, e venir presto ad ammirare l'opera mia…. anzi a baciarle le mani.

«GUIDO.»
LUISA A LAURENTI

«Amico,

«Ho letto attentamente la vostra lettera, e mi sono convinta che avete lo spirito infermo assai più di quello non vogliate parere. Ogni cosa vi tradisce; perfino l'arguzia vi esce stentata dalla penna; il vostro stile è arido e smorto; volete fare un racconto e non riuscite che ad una infilzata di fatti, da lasciarvi indietro una tavola cronologica.

«Io non so le cagioni del vostro male, e quelle che voi dite non sono cagioni, ma segni piuttosto e poetiche dipinture del male. Tuttavia v'hanno rimedi che giovano a tante malattie, e vo' dirvene uno. Sapete di che cosa avreste bisogno, voi? Di lavorare. Lasciate che faccia un po' la medichessa, e cerchi di risanarvi a mia volta. Lavorate; scrivete per esempio un libro, voi che sapete tante cose; non vi restate inoperoso, poichè l'ozio, se non è padre di tutti i vizi, come l'hanno detto gli antichi, è certamente il padre di molti dolori.

«E poichè sono venuta, io povera donna, a parlarvi su questo tono, lasciatemi dir tutto. Io pure incomincio a credere che fosse errore qualcosa di ciò che ho creduto, come voi di ciò che avete detto per consolarmi lo spirito. Egli è verissimo, e lo sento io dentro di me, che si possa vivere senza l'amore, ma quando lo si abbia provato, non prima. Ora voi, mio ottimo amico, avete anche un amore a provare, quello della famiglia. Voi siete giovine, atto a far felice una donna e ad esser felice per lei. O perchè non ne trovereste una fra tante, bella, buona e colta, da poterla rifare a vostra immagine, riflesso della vostra anima generosa? Voi l'amerete molto, ed ella vi amerà; i vostri passatempi saranno i suoi; i vostri studi, i vostri viaggi ugualmente. Se saprete cavarla fuori dalle sue frascherie, da' suoi nonnulla, dalle sue vanità muliebri, vera rovina del nostro sesso, ella vedrà la parte più degna della vita, v'intenderà, e voi sarete la sua guida; l'avrete innalzata nelle regioni del vostro pensiero, ed ella saprà tenervisi a pari.

«A proposito di donne, sapete chi fu da me ieri mattina? La Perrotti. Ella è venuta a congratularsi con me del mio risanamento, e davvero non s'è congratulata invano. Quando ella è giunta, io, forse per la prima volta dacchè mi conoscete, era colorita in viso, e la poverina non ha potuto nascondere la sua maraviglia dispettosa. Mi ha invitata all'ultimo de' suoi lunedì, che si chiudono con una gran festa da ballo; e chi sa? son donna da accettare l'invito.

«Addio; non istate a smarrirvi per le vie di Milano e venite presto a vedere la vostra sincera amica

«LUISA.»

Se io non temessi di offendere il lettore, mostrando di dubitare della sua perspicacia, vorrei pure appiccicare un commento a questo carteggio. Solo per coloro che hanno letto più sbadatamente, dirò brevi parole.

Luisa era annoiata e non sapeva il perchè; ne accagionava il mancare improvviso della scienza chiaccherina del suo medico, e non indovinava che a mezzo.

Laurenti si sentiva morire, ed egli sì lo sapeva, il perchè; ma, non dandogli l'animo di dirlo a colei che era debitrice a lui della ricuperata salute, se n'era fuggito come un codardo che ha paura del male, e, nella fuga diventato anche ingiusto, non le scriveva e si adirava contro di lei.

Ella infine si era addata di qualche cosa. Riscontrando alcuni fatti, alcuni pensamenti, aveva veduto balzarne una scintilla di vero; ma non voleva ancora aggiustar fede a sè stessa. E intanto scriveva una lettera piena di pessimi consigli, pessimi come tutti quelli che danno le signore donne, quando e' non escono loro dal cuore.

—Oh, ella non mi amerà giammai!—aveva detto Guido, percuotendosi il fronte colla palma della mano, alla lettura di que' paragrafi.—Ella può credere che io amerò un'altra donna! Sì certo, lo può credere, se non si è neppure avveduta che amo lei, disperatamente lei! E adesso tornerà nei geniali ritrovi, nei teatri, nelle conversazioni… bene, bene, tre volte bene!

E passeggiando a passi concitati per la camera ripetè due o tre volte con Shakespeare, sebbene la citazione c'entrasse come i cavoli a merenda:

—Fragility, this name is woman!—

XIX.

Egli era un sontuoso appartamento, quello della Perrotti, in via Palestro. Le sale non erano stragrandi, come quelle dei vecchi palazzi, ma spaziose abbastanza, e la quantità teneva luogo dell'ampiezza, imperocchè di due quartierini, posti al medesimo piano, se n'era fatto un solo, e ci stava ad agio in una fila di salotti, dove, alle conversazioni del lunedì, o a qualche festa da ballo, conveniva la miglior compagnia, vo' dire la più ricca e la più sfoggiata di Genova.

Oltre la sala da ballo, i salotti da conversazione e la credenza, c'erano le camere da giuoco sacre al goffo tradizionale, giuoco genovese pretto sputato, contro cui si sono rintuzzate le armi della moda, tiranna ordinatrice di whist e di lansquenet, come di crinolini rigonfi e di vesti sfiancate, di spalle ignude e di capigliature tolte a prestanza. Là, il signor Cesare Perrotti, perdendo quasi sempre di bei danari, s'era guadagnato il nome di magnifico, egli che usava lesinare la mattina sui venti centesimi in piazza de' Banchi, egli che non aveva mai reso servizio ad un amico in angustia.

Del signor Cesare Perrotti vo' appunto raccontarvene una che vi darà un giusto concetto dell'uomo. Un giorno fu da lui un tale, suo conoscente e degnissima persona, per chiedergli un migliaio di lire ad imprestito. Costui non era ricco, siccome vi tornerà agevole argomentare dal bisogno che aveva; ma gentiluomo perfetto qual era, e universalmente stimato, metteva la sua onoratezza a guarentigia della restituzione. Il signor Cesare Perrotti non poteva dirgli asciuttamente di no, nè come ricco mercatante, nè come uomo che la pretendeva a gran signore. Ma rastiate il Russo, dice il proverbio, e sotto l'intonaco v'apparirà sempre il barbaro. Ora sotto l'intonaco del signore e del ricco, c'era sempre il Perrotti.—Mi duole, rispose egli all'amico bisognoso, mi duole davvero di non potervi accomodare di questa somma. Come sapete, io traffico insieme col Branca, e nella nostra ragione di commercio c'è una clausola molto fastidiosa, che m'ha più volte vietato di far servizio agli amici, quella cioè di non far mai imprestiti sulla cassa comune.—Ma, aveva risposto quell'altro, egli non è già alla casa Perrotti e Branca che io domando questo servizio…—Sì, sì, intendo quello che volete dirmi, ma lasciatemi finire. Io, sempre per questo malaugurato atto di società, non piglio dalla cassa che ventimila lire all'anno, per mantener la famiglia, e il mio socio del pari. Ora, che cosa si fa con ventimila lire all'anno? Io lo domando a voi. Mettete su casa, tenetela in piedi con un certo decoro, senza scialaquo, e ve ne accorgerete al finir di dicembre! Avevo ancora tremila lire di sparagni, e le ho imprestate la settimana scorsa ad un tale, che conoscete anche voi, e rimarreste grandemente meravigliato se vi dicessi il nome. Già capisco che quelle tre mila lire io dovrò segnarle tra le partite perdute, ma tutti facciamo la nostra parte di minchionerie. Figuratevi, amico mio, se non vi accomoderei di questa piccola somma, sol ch'io potessi!….. Per fortuna, se non posso io, ci saranno cinquanta altri che si ascriveranno a ventura di darvi una mano in questo vostro bisogno.

In questa guisa si sgabellò il Perrotti; ma quanti altri non s'avranno a riconoscere in questo bozzetto? Imperocchè, già m'è occorso di dirvelo, io copio dal vero, e posso dire a parecchi, con Orazio Flacco alla mano:

        ……mutato nomine, de te
    Fabula narratur.

E adesso gli è tempo di indossare il vestito nero, coi guanti paglierini, e di entrare nella festa da ballo dei Perrotti.

La signora Aurelia aveva già raccolti in casa tutti i suoi convitati. Nelle sue sale, alla luce dei doppieri, splendevano le più celebrate bellezze ligustiche, ornate, o no, di blasone, la Cisneri, la Roccanera, la Morati, la Vallechiara e tante altre. Tra gli uomini si notavano il Nelli di Rovereto, che aveva rassegnate da poco tempo le sue spalline di maggiore per non allontanarsi dalla Torralba, della quale era più che mai invaghito, il Pietrasanta, il Percy. Seguiva poi uno sciame di farfallini, solita mercatanzia, anzi zavorra di tutte le feste da ballo, senza di cui la contraddanza non avrebbe più il numero giusto di figure, e la polka o la scozzesa lascierebbero troppe signore a far tappezzeria di rincontro alla parete. Grande era lo sfarzo, non di diamanti, poichè la era una festa senza cerimonie (così almeno dicevano i padroni di casa), ma di sete, merletti, e foggie che avrebbero indotto in tentazione anco il povero Sant'Antonio.

Le danze erano per cominciare, allorquando un accalcarsi di uomini nelle prime sale, un pissi pissi, un voltar gli occhi curiosi tutti da un lato, annunziarono l'arrivo di una bella signora. La padrona di casa le era già andata incontro, e la conduceva nel folto della compagnia, in mezzo a due ale di riguardanti ammirati.

Era la signora Argellani, vestita di raso bianco con uno strascico abbondante, gli sgonfi della veste, i cappii e il dinanzi della vita raffermati da ramoscelli di fiorellini della memoria (vergiss-mein-nicht), i quali facevano eziandio bella mostra di sè nelle treccie nere, e col loro castissimo colore azzurrognolo non offendevano la bianchezza del volto, anzi giovavano a metterne in rilievo quel po' d'incarnato che già cominciava a mostrarsi sulle guance della bellissima donna.

Il vecchio signore che la accompagnava, era tutto pomposo, e andava in gota contegna, con quell'aria che vuol dire alla gente: ammiratemi ed invidiatemi. Ma chi non li conosce e non li pesa, questi innocenti amici di tutte le donne, piante parassite sull'albero della bellezza, talfiata draghi posti a custodia, che si contentano di guardare il pomo e non lo toccano mai? Veri servitori delle gran dame, e' vivono vicino ad esse, ma sempre in anticamera, e se qualche volta hanno sui visitatori il vantaggio di vederle nelle ore indebite, si ha a credere che ciò avvenga perchè le dame sullodate non li hanno neppure in conto di uomini.

L'apparire di quella donna produsse una vera rivoluzione negli animi, e mentre molti ammiravano quella stupenda figura, molti altri avrebbero voluto essere invisibili agli occhi suoi. La più parte dei convitati la conoscevano, e parecchi tra essi, uomini e donne, le erano stati dimestici, ma l'avevano a poco a poco lasciata sola; v'erano anzi taluni ai quali non era neppur sembrato dicevole allontanarsi da lei con un po' di rispetto alle convenienze sociali; ed erano i più famigliari. Ella stessa, dal canto suo, s'era lasciata andar giù, aiutando in tal guisa l'oblio dell'universale. Percy l'aveva abbandonata; che le importava del rimanente? Ferita nel cuore, ella si lasciava morire, e dimenticare innanzi d'esser morta, ma non odiava, non disprezzava nessuno; la sua maggior vendetta era stata quella di mettere nell'albo il ritratto del Percy accanto a quello della marchesa Bianca. Atto puerile forse, ma indizio d'anima nobile. E così ridotta allo stremo, si appartò dal mondo, siccome il mondo si appartava da lei. Se non che ella era inferma, morente, e la sua generosa noncuranza non iscusava punto l'oblio di quella gente tra la quale era vissuta, alla quale aveva dato i più belli anni della sua giovinezza.

Cotesto farà intendere ai lettori che spero benevoli al mio racconto, come il vederla risanata, rientrar d'improvviso in iscena, riuscisse a molti peggiore di una mazzata fra capo e collo, e in taluni destasse come una ansiosa curiosità, in tal'altri il rimorso.

Tra questi ultimi più colpevole e più fieramente combattuto il Percy; al quale la sua apparizione gelò il sangue nelle vene come se fosse stata la testa di Medusa, sicchè egli non ebbe nemmanco la forza di muoversi dalla scranna su cui stava seduto presso la marchesa Bianca di Roccanera.

Povero regnatore di salotto! Egli era da qualche tempo assai giù. I suoi vagheggiamenti non gli avevano fruttato un bruscolo presso quella superba, che gli usava sempre le solite cortesie, ma gli faceva scorgere molto chiaramente che il suo gli era tempo sprecato. La marchesa Bianca non amava altri che sè; il leggiadro Percy, diventato suo adoratore, aveva saziato la sua vanità, e non c'era per lei più altro da spremerne. Per tal modo egli era capitombolato nel fosso, innanzi di afferrare i bastioni, e non è a dire com'egli fosse avvilito di quello smacco. La vergogna, soltanto la vergogna, lo riteneva colà, argomento alle beffe dell'universale, dispettoso, ingrugnato con lei, che fingeva di non addarsene punto, in quella che faceva buon viso alle cavalleresche gentilezze del duca di Marana y Cuelva, un giovine spagnuolo che correva per suo diporto da un capo all'altro del mondo, e si riposava un tratto a Genova di un suo recente viaggio alle Indie.

Donna di buon gusto, e di fino accorgimento, quella marchesa Bianca! Senza muoversi, e sopratutto senza commuoversi, ella sfiorava l'etnografia, facendo un albo di adoratori di tutte le razze. Chi sa che a furia di studiare, di raffrontar tipi diversi, ella non giunga alla scimmia! Gli è questo, dicesi, l'ultimo passo degli scienziati odierni, e certo, senza mestieri del dicesi, è l'ultimo passo di molte superbe, le quali, dopo aver molto cercato, e molto rifiutato, fanno capo a qualche gramo personaggio, diventato di botto l'archetipo della specie.

Lo stato di Percy era compassionevole davvero. La signora Perrotti non gli aveva lasciato trapelar nulla di quella apparizione improvvisa. E come d'altra parte avrebbe ella potuto dargliene sentore? La relazione di lui colla signora Argellani era come tante altre che si stringono e si rompono di continuo in questa nostra società bastarda. Tutti sapevano di quella intrinsichezza, ma tutti dovevano ignorarla del pari. Egli andava in casa della Luisa, come tanti e tanti altri; era sempre dove ella era, e mai dov'ella non fosse; ognuno poteva mormorarne alla spartita, nessuno buttargli sul viso quella indebita frase: voi, voi siete l'amante. La signora Perrotti non poteva dire a Percy, anche se lo avesse veduto i giorni innanzi, «badate che verrà l'Argellani» senza aver l'aria di sapere che c'era stato del fuoco e poi del ghiaccio tra i due, e che egli non aveva nemmanco ricordato il suo debito di cortesia verso l'inferma.

E poi, che serve? la signora Perrotti non si dava un pensiero al mondo delle angustie di quel leggiero corteggiatore di donne; ella badava a restituire in trafitture profonde i colpi toccati alla sua vanità. In quel battibuglio che ella pensava di far nascere, ce n'era per lui, vecchio ingrato, come per tante donne, regine di fresco, alle quali doveva sicuramente nuocere l'apparizione di quella donna, fantasma del passato, bellezza rinnovata, resa più efficace dalla oscurità in cui s'era lungamente costretta. La Luisa Argellani ricordava all'Aurelia, impastata di bellezza e di fiele, ciò che questa aveva patito per lei; ma poteva essere anco un'arma potente, un carro falcato da scagliarsi contro altri nemici, a vendicare più recenti sconfitte. Arcani del cuore! È egli mestieri di altre parole per farli intendere ad ogni generazione di lettori?

Ora l'effetto del carro falcato fu grande, più grande di quello che non s'argomentasse l'Aurelia. Come è bella! dicevano gli occhi di tutti, voltandosi alla nuova venuta. Intorno agli altri soli (soli che ricevono luce e calore, come ho già detto al principio di questo racconto, e non ne danno ai pianeti), intorno agli altri soli s'era fatto un ambiente freddo; v'ebbero donne le quali si credevano amate, e in quel momento sentirono mancarsi qualcosa d'attorno, e sto per dire l'aria respirabile. L'ammirazione era tutta laggiù; i pianeti raggiavano tutti verso la signora Argellani.

La bellissima donna sorrideva; di sotto all'arco eminente delle lunghe sopracciglia, i suoi occhi mandavano lampi, ma non già di tempesta; l'incarnato del volto non diceva soltanto la ricuperata salute, ma eziandio la modesta contentezza della vittoria. Strinse affettuosamente la mano alla Roccanera; si lasciò presentare qualche nuovo cavaliere, e presto fu dintorno a lei un crocchio di gentiluomini, una gara di motti leggiadri.

E intanto che faceva il Percy? Egli stette parecchi minuti sopra di sè; poscia, come uomo che dopo aver lunga pezza combattuto, si ferma ad una deliberazione che non gli par buona, ma che è pure l'unica a cui possa appigliarsi, si armò di coraggio e si fece innanzi. La signora Luisa aveva notato ogni cosa, ma il suo viso sereno non lasciava trasparir nulla delle fatte considerazioni.

—Posso io salutare la signora Argellani?

—Oh, signor Percy, Ella può farlo certamente. Io non ho dimenticato i miei vecchi amici.

Ella aveva detto queste parole con tanta cortesia e insieme con tanta misuratezza, che nessuno degli iniziati ai pericolosi nascondimenti di quel dialogo, potè scorgervi ombra di seconde intenzioni. Le donne stesse, che pur capiscono tante cose, non capivano nulla di quella schietta urbanità, non potevano cavarne un costrutto. Ella non aveva premuto della voce su nessuna parola; quella sua risposta era stata una musica, un sorriso, ma senza affettatura, senza ostentazione di sorta.

—Ah!—disse alla sua vicina un tale che s'imputava a volerla indovinare.—La è sempre innamorata come prima. Non vedi quei ramoscelli di non ti scordar di me? L'Argellani è sempre stata quella dei simboli. La viene per riconquistare il Percy…..

—E ne verrà—a capo—rispose l'amica,—perchè la Bianca lo tiene da un pezzo sull'uscio, a morire dal freddo.—

In breve, passato di bocca in bocca, recato da un crocchio all'altro, fu quello il concetto universale. Percy stesso, senza saper nulla di que' ragionamenti, vedendosi così bene accolto da lei ed onorato di particolari discorsi, se pure non lo disse chiaramente a sè medesimo, certo ne adombrò in cuor suo e ne accarezzò quasi inconsapevolmente il pensiero.

La marchesa Bianca era in gran faccende pel ballo, ed egli ne fece suo profitto per rimanere da presso alla Luisa, non già solo con lei, ma di brigata con altri parecchi, i quali tenevano vivo il discorso.

In un intermezzo delle danze, il crocchio si accrebbe. Il duca di Marana si faceva presentare dalla padrona di casa alla signora Argellani. Era un bel giovine, il duca di Marana y Cuelva; forte di ricchezza e di nobiltà in un mondo nel quale non si pregiano che queste due cose; d'ingegno e di cognizioni svariate, che lo facevano amare dagli uomini assennati; di modi leggiadri e magnifici, che lo rendevano accetto alle donne. Se fosse uomo da lasciare il suo cuore in pegno, non era noto, e non si poteva ancora argomentarlo dal corteggiar che faceva la marchesa Bianca; ma io potrò parlarvene con più agio in un'altra storia, vera come questa, che mi farò a raccontarvi, se m'accorgerò che a questa facciate buon viso.

La presentazione del duca di Marana fu il colpo di grazia per gli ondeggiamenti del Percy. Ah, ah! pensò egli. Costui che corteggiava la Bianca, or viene a' piedi della Luisa!…. Ma qui non troverà certamente vanità di femmina da accarezzare.

E questo pensiero intanto accarezzava la sua. La Luisa, quella Luisa che egli aveva abbandonata per correr dietro alla marchesa Bianca, valeva ben più di costei, se l'adoratore novello della Roccanera disertava con armi e bagagli per venire nel campo della Argellani. Ora cotesto, meglio assai che le grazie evidenti della persona di Luisa, significò a lui l'efficacia di quella rinnovata bellezza, e lo fortificò nel suo folle proposito.

—Signora—disse il Marana, inchinandosi davanti alla Luisa,—io non mi sono fatto presentare a Vostra Mercede soltanto per ossequiarla, ma eziandio per iscrivere il mio nome nel suo libriccino, se egli c'è un foglietto bianco per me. Mi concede Ella l'onore di una contraddanza, o d'altro ballo che non abbia impromesso?

—Signor duca, io debbo, con mio grande rammarico, negarle questo nonnulla, come agli altri gentili cavalieri che me ne hanno richiesta. Son fresca di malattia, e non ardisco ancora provar le mie forze.

—Mi duole—soggiunse il Marana;—ma Vostra Mercede non avrà certamente negato a nessuno la grazia di rimanerle vicino.

—Oh questo poi no.—

Il duca di Marana si sedette presso a lei, pigliando il posto che gli offriva cortesemente un amico, e cominciò allora una gaia conversazione che non dovea garbar punto al Percy. Il cuore di costui pativa un'aspra battaglia, al vedere Luisa tanto cortese col giovine spagnuolo; la qual cosa lo conduceva all'amarissima considerazione che quella bellissima era stata sua, e che egli non era più nulla per lei, nè aveva più ragione a dolersi.

Luisa cionondimeno era sempre pari a sè stessa, e non faceva differenza tra lui e il Marana, od altri de' suoi ammiratori stretti a crocchio d'intorno al sofà sul quale essa stava adagiata. A lui spesso volgeva la parola amorevole, incuorandolo a parlare, ed egli notò che ella, avendo per caso a ragionare della marchesa Bianca, ne disse un gran bene, senza che dalle sue parole trapelasse pure un'ombra di rancore. Ma così fatto è il cuore dell'uomo, che perfino quelle schiette lodi tornavano amare al Percy, il quale avrebbe amato meglio scorgervi uno zinzino di gelosia.

Alla credenza, dove il duca di Marana la condusse, fu un vero trionfo per la donna gentile. Il ballo, quando ripigliò, ebbe a rimanere un po' fiacco, per la contumacia ostinata dei cavalieri. Sissignori, cotesto avvenne, contro tutte le buone creanze. Ognuno di que' vagheggini pensava che la sua assenza non avesse a far sconcio, e per tal modo ne rimasero una dozzina, a far le viste di satollarsi, ma nel fatto per non allontanarsi dal contemplare la regina della festa, che tale essa era stata salutata per acclamazione…. di votanti maschi, s'intende.

Luisa che si addiede di quella diserzione dal ballo, e non voleva po' poi farsi odiare oltre il bisogno dalle sue sorelle in Eva, fu costretta a mandare, con dolci esortazioni, parecchi de' suoi conoscenti nella sala delle danze.

Uno dei più renitenti ebbe l'impertinenza di rispondere, così forte che tutti potessero udirlo:

—Vado, signora, vado, ma solo perchè ella me lo comanda.—

Bel complimento invero per la dama alla quale egli andò a chieder l'onore di una mazurca.

Della signora Argellani, che era là seduta a sostenere gli assalti della ammirazione verbosa di otto o dieci cavalieri, le galanterie foggiate a madrigale, e gli inni ristretti, lampeggiati in languide occhiate; della signora Argellani, dico, si notava la nobile compostezza, si levavano a cielo le risposte leggiadre, si respiravano avidamente i sorrisi. Uccisa dai caritatevoli rimpianti delle donne, ella rinasceva nello spirito innamorato degli uomini. E chi aveva ardito dire ch'ella fosse imbruttita, se era anzi bellissima, e nessuna delle più celebrate per eccellenza di forma poteva entrare a paragone con lei? Che occhi profondi! che profilo delicato! che collo voluttuosamente tornito! E giù una filatessa di pregi, in lingua pigliata a prestanza dal pittore e dallo scultore. I signori uomini sono assai materiali quando nei loro crocchi ragionano delle bellezze di una donna, e ci hanno del brutale nella loro ammirazione.

Ma brutale o no, l'effetto era grande. Perfino la rinomata bellezza della marchesa Bianca aveva impallidito dinanzi alla regale maestà di persona della nuova venuta, e dinanzi alla divina serenità di quel viso. Fu insomma un subisso, una battaglia campale, una vittoria per quella rinnovata bellezza che appariva d'improvviso, tremenda, irresistibile, giusta il biblico paragone, come oste schierata in campo.

«Non ti scordar di me» dicevano umilmente i suoi fiori; ma il trionfo oltrepassava que' modesti desiderii. In quella che taluni si pentivano d'averla dimenticata, il suo regno era assicurato su salde basi nel cuore di tutti. Ella rientrava loricata, catafratta, in quella società dove il suo petto inerme aveva ricevuto un colpo terribile, e dond'era uscita semiviva; vi rientrava col cuore sano, libero e forte, educata dai suoi danni a conoscere uomini e donne, a non amare nè odiare; magnanima, non fiaccamente pietosa; superba, non orgogliosa, come colei che sapeva la sua forza e si sentiva di tutti a gran pezza migliore.

E nessuno la aveva intesa, quella pericolosa guerriera; nessuno aveva indovinato il segreto dell'anima sua generosa.

Cotesto doveva tornar fatale al Percy.

Il giovinotto aveva fatto male i suoi conti, come tutti coloro che lasciano far d'abbaco alla propria vanità. Meglio per lui se avesse dato ascolto alla vergogna, la quale gli diceva di non osare. Ma la vanità era a tortura; la gelosia di quella donna che era stata sua, rinasceva più gagliarda, quanto più gli altri tutti la dicevano bella e colle parole e con gli occhi. Gelosia e vanità lo persuasero a ridiventar tenero; dopo essere stato villano. Infine, per chi era il dolce richiamo di quei fiorellini simbolici che le adornavano tutta la persona, se non per lui, per l'antico ed unico amante? Se ella avesse incominciato un romanzetto amoroso col suo medico, siccome era stato bisbigliato da qualcheduno, perchè sarebbe venuta alla festa da ballo? E perchè, dato il caso di un capriccio che l'avesse fatta uscire dal suo eremo, perchè il medico, che pure dicevano essere un giovanotto, non c'era anche lui? No, no, il medico non c'entrava punto; quell'amore sbocciato di fresco tra una ricetta e una toccata di polso, era una calunnia bella e buona; Luisa non amava nessuno; dunque….

Il dunque veniva pe' suoi piedi; dunque ella poteva amar lui, anzi lo amava ancora, non aveva mai tralasciato di amarlo. Que' fiori erano una confessione ed una preghiera: o non era quella una donna che aveva aspettato di ripristinarsi in salute, per tornare, armata di tutto punto, fresca e bella come prima, a ripigliarsi il suo? Sì certo, la era così, non poteva essere altrimenti.

Fatti tra sè questi bei ragionari, Percy colse il momento che potè dirle due parole da solo, e fattosi animo le susurrò questa frase:

—Mi permettete di venire ad implorare perdono?

Ciò detto, chinò gli occhi a terra e stette tutto tremante ad aspettare la risposta. Fu quello un momento terribile per lui; la terra gli mancava sotto i piedi, e dimenticandosi di aver ragionato con tanta logica pur dianzi, già si sentiva fulminato da uno sguardo e da una parola di superbo dispregio.

Ma egli, chinato com'era, non vide lo sguardo, e la parola giunse in quella vece al suo orecchio dolcissima e carezzevole.

—Perdono? di che, sig. Eugenio? di non essere venuto a vedermi? Oh, non avete bisogno di scuse; io ho inteso benissimo lo stato vostro. Sarete stato trattenuto….

—Sì;—s'affrettò egli a soggiungere, cogliendo imprudentemente il pretesto che ella gli offriva;—compiangetemi; ho avuto molti torti con voi, ma vi giuro….

—Oh, ve li ho già perdonati, i vostri torti;—proseguì la signora Argellani.—Noi donne intendiamo di molte cose, senza bisogno che ci si dicano, e impariamo ad essere generose… Ma non parliamo di ciò; ecco qui il duca di Marana che torna.

—Questa donna ha da ridiventar mia!—esclamò tra sè il Percy, e in quella che l'altro si avvicinava alla signora, si pavoneggiò da lunge in uno specchio che copriva tutta la parete di rincontro. Le grazie irresistibili del suo volto non erano punto scemate, e il nostro eroe, rifattosi animoso, pensò con lieta baldanza a que' tempi in cui sapeva ridere e piangere così bene, e commuovere a suo talento quel cuore di donna.

Povero vanitoso! Mezz'ora dopo, egli e il duca di Marana accompagnavano la signora Argellani fino alla sua carrozza dov'ella salì in compagnia del vecchio custode che ho già fatto conoscere di profilo ai lettori.

Quella notte la marchesa Bianca se ne andò a casa soletta; chè non poteva parerle compagnia quella di due o tre vagheggini di second'ordine, solite ombre di Percy, quando c'era lui per ricondurla da teatro o da qualche veglia notturna.

Intanto alla signora Luisa, nel salire in carrozza, era parso di raffigurare sul margine opposto della strada il volto mesto e severo di Guido Laurenti. Il cuore le balzò forte nel petto; rispose a mala pena poche scucite parole ai complimenti di commiato de' suoi accompagnatori, e si rannicchiò pensierosa nel fondo della carrozza, che pigliava al piccolo trotto la discesa della via.

XX.

Se tu lo avessi veduto, o Percy, quello sguardo! Se tu lo avessi sentito, quel sobbalzo repentino del cuore di lei! Certo la baldanza ti sarebbe svanita, e più tardi, la speranza di riconquistare il terreno perduto, di essere riamato da lei, non ti avrebbe popolato di sogni leggiadri la solitudine del notturno riposo.

Il cuore ragiona assai comodamente talvolta, allorquando il raziocinio è fuori di casa ed egli va a sedersi sulla scranna deserta del vicino. Tira a sè tutti i più minuti particolari e i più inconcludenti, per farne manipolo a sostegno di ciò che egli desidera; storce a nuove e inaspettate apparenze le cose, sicchè coloriscano meglio i suoi dirizzoni; non dissimilmente da un avvocato storcileggi che fa forza agli articoli del codice, per far parere il dritto storto e il torto dritto. Senonchè il leguleio vede il baco della argomentazione, e Percy non vedeva quello della sua; anzi avrebbe dato del pazzo a colui che gli avesse detto come tutti que' nonnulla da lui posti a mosaico non avessero cemento da tenerli uniti, e come Luisa nel fondo del cuore ci avesse ben altra immagine che la sua.

Io non fo, lettori umanissimi, un romanzo a guisa di trappola, per cogliervi alla sprovveduta colle mie invenzioni; e neppure vo' tenervi a bada con meditate reticenze e bene architettate sospensioni. Se io tenessi voi sulla corda, potreste darla di santa ragione a me, che ho scritto per fare una dipintura di caratteri, la quale non debba avere altro pregio, salvo quello del vero, dell'umile vero. Però, non voglio (sebbene sarebbe stato più fine accorgimento) aspettare altre otto o dieci pagine per dirvi che Luisa non pensava punto a riconquistare il Percy. Ma il Percy le era necessario, e per averlo a' piedi ella non ebbe neppur bisogno di artifizi, di lusinghe donnesche; egli aveva dato nella pania di per sè, e la pania non era stata che la naturalezza della donna gentile. Il perdono della noncuranza, temperato dalla cortesia di un'anima che non voleva ricordarsi di aver patito, egli, ingegno volgare, lo aveva interpretato come un dolce richiamo ad altri tempi, che la sua sconfinata baldanza, memore di tutti i trionfi ottenuti, gli faceva credere di poter rinnovare.

Alla dimane, come fu ora di visita, andò a salutarla, vestito con studiata eleganza di foschi colori. Ella lo accolse colla stessa serenità, colla medesima dimestichezza della sera innanzi. Ma egli non poteva tenersi in que' modesti confini dov'ella stava così agevolmente; volle scusarsi del passato, e per iscusarsi, mentì, sebbene ella non gli chiedesse nè menzogne, nè scuse. Parlò della marchesa Bianca come di un capriccio nel quale era stata impegnata la sua dignità mascolina; lasciò intendere che dal suo trionfo medesimo era stato costretto a rimaner lontano da quella che non aveva mai tralasciato di amare; che poi la vergogna, il timore di averla offesa, e che so io, lo avevano tenuto in disparte, vicino ad una donna che non gl'importava un bruscolo; ed ella diffatti, la signora Luisa, aveva potuto vedere co' suoi occhi com'egli se ne fosse liberato senz'altri riguardi.

Tutto ciò sembrerà orribile ai lettori, imperocchè io ho già detto come stessero le cose tra lui e la Roccanera; ma se cotesto è orribile, non parrà altrimenti inverosimile, nè strano. Quanti, mettendosi con un po' di buona voglia a frugare nella loro coscienza, non ci troveranno la colpa di una così trista bugia, che non parve delitto, solo perchè fu sussurrata all'orecchio di un amico? Calunniare una donna è la cosa più agevole del mondo. La veduta delle esterne apparenze aiuta la credibilità nell'animo di chi ascolta; tutti vi hanno veduto aliare intorno a quella donna, come l'ape dintorno al fiore; che cosa c'è di più naturale che il fiore abbia aperto il calice de' suoi profumi e dato ascolto all'amoroso ronzìo dell'alato raccoglitore di miele? La credulità del mondo è come una macchina bene inoliata; date col dito sul primo congegno e la macchina va, stritolando a vostro benefizio la prima riputazione che le avrete messa tra i denti.

Luisa stette silenziosa ad udire i racconti apologetici del bruno Percy. Aggiustava ella fede a quelle triste invenzioni? Io non saprei dirvelo; forse non vi badava più che tanto. Egli del resto non raccontava le cose appuntino; chè ella non lo avrebbe consentito; ma si aiutava a furia di mezze parole, rigiri di frasi e reticenze sottili, che adombravano il pensiero, senza metterlo in evidenza, e facevano indovinare il nome della donna, senza che fosse mai pronunziato.

L'arrivo di nuovi visitatori interruppe la difesa di Percy, il quale non potè nemmeno sapere che impressione avesse fatto il suo discorso nell'animo di lei. E frattanto, Laurenti non si vedeva comparire.

Il giorno seguente, fu la medesima storia, con questo solo mutamento che il Percy era accompagnato dal duca di Marana. Dopo un'oretta di conversazione, piacque a Percy di invitar la signora a scendere un tratto in giardino; ma la signora Argellani non ne volle sapere, perchè era un po' stanca; padroni essi, se ci volevano andare.

—Oh, non sarà mai!—gridò il Marana.—Un giardino senza fiori, non è un giardino.

Perchè ricusava di scendere in giardino la signora Argellani? Temeva forse di far vedere in sua compagnia il Percy a Guido Laurenti, che certamente doveva essere appiattato dietro i vasi del suo muraglione! O forse non voleva guastare il giardino, sacro ai soavi rapimenti di un nuovo affetto, oltre i quali ogni passo di piede profano sarebbe paruto un sacrilegio?

Io, per me, mi accosto più volentieri a quest'ultima sentenza.

Frattanto quattro giorni passarono, quattro giorni segnati a nero dalla assiduità del Percy e di molti altri visitatori dei due sessi. E di Laurenti nessuna notizia; le sue finestre erano sempre chiuse.

Era proprio lui che essa aveva veduto, nel salire in carrozza? La donna gentile voleva dubitarne, ma non le veniva fatto. Tra pel buio della strada e per la fretta del salire, ella non lo aveva ben guardato; ma l'impressione che aveva risentito dalla vista di quel malinconico personaggio sul margine estremo della via, era stata così violenta da non consentire alcun dubbio intorno alla materiale presenza di Guido. Quella veduta aveva operato su lei come una corrente elettrica; ora una semplice rassomiglianza, un dubbio, avrebbero forse potuto far tanto?

Come a Dio piacque, venne il quinto giorno, e suonarono le due dopo il meriggio. La signora Argellani era seduta nel suo salotto col bruno Percy, e col duca di Marana che veniva per la seconda volta a salutarla, quando fu annunziato il signor Guido Laurenti.

Lascio pensare a voi quale effetto facesse, e segnatamente in quel punto, il semplice annunzio. Luisa tremò tutta; a Percy, memore delle ciarle altrui intorno al medico della signora, si strinse il cuore; solo il duca di Marana rimase tranquillo ad aspettare la comparsa del nuovo venuto.

Dopo dieci secondi, che bastarono a Percy e alla signora Argellani per ricomporsi, ma non già per avvedersi scambievolmente del loro turbamento, Laurenti apparve sull'uscio. Egli era pallido come la morte, severo nel portamento, accigliato nel viso, sicchè non parve più a Luisa quello di prima. E invero egli non era più quel Laurenti che col suo Virgilio tra mani si avanzava modesto pel sentieruolo della villa verso l'albero di pino, a' piedi del quale ella stava seduta; non era più quel Laurenti che le diceva un inno di amore cogli occhi, innanzi di volgerle la prima parola.

Questo mutamento vide Luisa nella occhiata fuggevole che volse a lui, mentre egli entrava con passo misurato nel salotto, volgendosi al canapè sul quale ella stava seduta. In quel viso sparuto, in quegli occhi affondati nelle orbite, ella lesse il lavorìo distruttore di un lungo soliloquio. L'amore, con tutti i suoi patimenti, con tutte le sue collere, trapelava da quel volto e da quegli sguardi severi.

E frattanto dovergli sorridere, come al più spensierato, al più gaio de' suoi visitatori! E frattanto dovergli rivolgere una di quelle parole in cui non si potesse indovinare l'accento della pietà, sorella dell'amore! Povera donna! Era quello un tristo momento per lei; o essere male intesa da lui, o sospettata dagli altri.

Mentre questi pensieri si agitavano confusi nella mente di Luisa, gli occhi di Percy e di Laurenti si scontrarono, acuti e gelidi come lame di pugnale; chè amendue si sentivano nemici implacabili e fatali.

—Finalmente!—esclamò Luisa, simulando il più gaio sorriso.—Ella è di ritorno, signor Laurenti?

—Ella!—ripetè amaramente in cuor suo il giovine Laurenti.—Ella! Ella! Si torna allo stile di cerimonia, a quanto pare. Donne, donne, avrò io sempre a provarvi mutevoli, fugaci come l'onda?—

Questo pensò, e frattanto si avvicinò a lei per stringerle la mano; ma il pensiero comandava agli atti, e la sua mano freddamente toccò la mano di Luisa, senza quella pressione che dice tante cose nel fuggevole ma veemente scocco di una scintilla elettrica fra nervi e nervi. E Luisa del pari non aveva ardito stringere la mano di Guido.

—Quando è Ella arrivata?—gli chiese la donna gentile, così per tener vivo il discorso.

—Ieri a sera, signora, e non ho voluto lasciar passare la giornata senza venire a chieder sue nuove.

—Il signor di Marana; il signor Percy!—disse ella presentando i suoi visitatori a Laurenti; quindi, voltasi ai due nominati, presentò loro il nuovo venuto, a cui soggiunse andar debitrice della ricuperata salute.

I tre s'inchinarono leggermente, salutandosi a vicenda; ma il duca di Marana, il quale senza saperne il perchè, sentiva d'essere la testa più tranquilla della conversazione, fu il solo che si facesse a parlare.

—Signor Laurenti,—disse egli,—io sono lieto di conoscerla, e di unire i miei ringraziamenti a quelli di tutti i sinceri amici della signora Argellani. Avevo udito parlare della sua scienza e m'è accaduto, come a tanti altri in simili occasioni, di crederla un vecchio professore. L'autorità del sapere si dipinge sempre nella nostra mente coi capegli grigi; ma quind'innanzi io sosterrò ch'essa li ha biondi, o neri, e sarà tanto di guadagnato per l'onore della gioventù calunniata.

—Io la ringrazio, signor di Marana;—rispose Laurenti arrossendo.—Qui per l'appunto il gran medico, se non è stato un giovane (che non posso attribuirmi questo vanto) è certamente stato la gioventù, ed io non ho fatto che secondarla.

—La modestia del dottor Laurenti si giova perfino dei bisticci—interruppe Luisa.—Ma ora, Ella ci dica un po' che cosa ha fatto a Milano.

—Nulla che franchi la spesa di essere raccontato, signora mia. Ho passeggiato, ho curiosato, mi sono distratto, come si può fare in ogni altra città.

—Non in tutte, signor dottore!—gridò il duca di Marana.—Qui Ella casca in una materia nella quale io mi tengo baccelliere. In ogni città si può passeggiare e curiosare, non già distrarsi. La vera distrazione e' bisogna andarla a cercare molto, ma molto lontano, e non certamente nei ristretti confini dell'Europa.

—In India, per esempio, come ha fatto Ella!—disse Luisa sorridendo.

—Appunto, in India. Colà si vive una vita nuova, ed io non ho potuto dimenticare l'antica se non colaggiù. In ogni città di Europa, il sole, il tramonto, la luna, e tutte le ore della giornata mi richiamavano alla mente ore simiglianti vissute a Madrid, e colle ore mi rinnovavano nel cuore i maledetti stringimenti di una travagliata giovinezza. Le conversazioni, i teatri, le passeggiate di Parigi, di Vienna, di Napoli, mi mettevano sempre sotto gli occhi le tertullie, i teatri, il Prado della mia nativa città. Il raffronto mi perseguitava dovunque; la negra cura saliva in arcioni con me, e mi guastava il piacere del correre; un cappellino di donna elegante che io vedessi a passare per via mi faceva giungere all'anima i dolori che m'erano già derivati da un altro cappellino e da un'altra veste di seta. La conformità del costume in tutti gli angoli di questa vecchia Europa non mi dava pace nè tregua.

Una parentesi, e sarà breve. In quella che il duca di Marana proseguiva il suo ragionamento, Guido cercava uno sguardo di Luisa. Ma gli occhi della signora cansavano sempre i suoi. Percy le era seduto vicino, e la dardeggiava di malinconiche occhiate; ella sorrideva ai discorsi del Marana e poi andava a finire il sorriso dal lato di Percy. Le era caduto il fazzoletto, e Percy s'era chinato sollecitamente a raccoglierlo: donde i muti ringraziamenti e gli inchini scambievoli.

Il cuore di Laurenti durava un'aspra guerra, una tortura così acerba da togliergli perfino la coscienza di sè.

—E dica, signor di Marana,—soggiunse egli,—come è venuto a capo di distrarsi dalle sue cure laggiù? Come ha potuto dimenticare?

—La contento in poche parole. In India c'è, sto per dire, un altro sole; almeno ei non rassomiglia punto a quello d'Europa. Là non c'è tramonto; l'astro maggiore se ne va dall'orizzonte insalutato hospite, e al giorno succede improvvisa la notte. C'è già dunque il risparmio delle malinconie del crepuscolo. Là, il dramma è la guerra cogli uomini e colle fiere; la conversazione si fa colle tigri, delle quali si odono i ruggiti in lontananza. I fiori di quella regione non ricordano i mazzolini di rose e viole che si offrivano in Europa ad una bella spensierata o crudele; le jungle di folti bambù e di liane avviluppate in giganteschi festoni non le rammentano i querceti dove Ella è andato a nascondere i suoi primi dolori. Io là, signor Laurenti, ho amato Sumitra… un elefante sul cui dorso andavo alla caccia della tigre, e il cui barrito mi annunziava l'appressarsi del nemico. Ad Ellora ho ammirato i templi scavati nel sasso, e mi piacquero quelle immani divinità dai mille piedi, dalle mille braccia, e dal viso terminato in proboscide, poichè non arieggiavano nessuna fisonomia di cristiani. Insomma l'ho detto, la natura è al tutto diversa colà, e la dea della bellezza, che da noi si chiamerebbe Venere ed avrebbe il viso bianco, laggiù porta il nome di Lacmi, ed è tutta dal capo alle piante di color cioccolatte.

—Ella ne parla con molto affetto, dell'India!—soggiunse la signora
Argellani.

—Sì, perchè io le sono debitore della pace dell'anima. Ero infermo e l'India mi ha risanato. Ero partito dall'Europa colla morte nel cuore, e sono ritornato pieno di vita, e così forte che ho potuto rivedere Madrid senza tristezza, e le persone che mi avevano fatto patire, senza che il mio cuore accennasse con un battito più frequente di averne sentito la vicinanza.

—Veda che strano concatenamento di pensieri e di cose!—esclamò Laurenti.—Ella parla dell'India, signor duca, ed io ci andrò tra pochi giorni….. sebbene io non abbia da andare a cercarvi altre medicine che quelle della sua flora così ricca e svariata.

—Ella in India?—proruppe Luisa; ma seppe frenar subito il ribollimento del sangue; di modo che, allorquando Laurenti volse gli occhi a lei per risponderle, non ebbe a notare che uno sguardo sereno e freddo, e quello sguardo gli gelò il cuore, dove accanto alla menzogna già stava per germogliare il rammarico di averla detta.

—Sì, in India, o signora. Mi è stata offerta una missione scientifica; ed era da ricusare o da accettare sui due piedi. L'ho accettata, e debbo per conseguenza recarmi ad Alessandria d'Egitto; di là fino al golfo Persico…

—Oh, non faccia questo viaggio senza visitar le rovine di Babilonia e di Ninive!—interruppe lo spagnuolo giramondo.—Quello è uno spettacolo mirabile, fecondo di commozioni, in mezzo alle quali l'antiquario diventa poeta.

—Certamente farò com'Ella mi consiglia, e vedrò anche Balsora e Bagdad, la città del califfo Arun Al Rascid, la culla meravigliosa delle Mille e una notti; poi m'imbarcherò per Bombay.

—Benissimo, e le raccomando, quando sarà a Bombay, di dare una scorsa fino ai templi d'Ellora. Felice Lei, signor dottore! Se le mie faccende non mi tenessero ancora per qualche mese in Europa, chi sa? mi salterebbe il ticchio di partire con Lei. Sono due anni da che ho lasciato que' paesi, e mi paion già mille.

—L'aspetterò a Madras, sulla costa del Coromandel;—rispose Guido che provava un amaro diletto a parlare di quel suo viaggio imminente, natogli pur dianzi nel cervello.

—Sta bene, siamo intesi. Io già ho sempre avuto in pensiero di tornarvi, e la sua presenza sarà un incentivo di più.

—E' pare—disse Luisa,—che nasca una grande amicizia tra il signor di Marana e il signor Laurenti!

—Sotto gli auspici di Vostra Mercede, come no?—rispose con galanteria il Marana.—Il dottore è un giovinotto come me, sebbene io ci abbia qualche anno più di lui; egli è un dotto, ed io un dilettante di scienze; ecco dunque pareggiati i conti fra noi due. Abbiamo, da quanto ho potuto intendere, i medesimi gusti, e perchè, se egli l'accetta, non gli profferirei la mia schietta amicizia?

—Grazie, signor di Marana!—soggiunse Guido commosso, mentre si alzava per stringergli la mano.—Quando Ella vorrà, vogliamo correre l'India da cima a fondo.

—Dalle vette nevose del Davalagiri fino al capo Comorino! rispose lo spagnuolo.—A Lei il viaggio riuscirà certamente più profittevole che non a me; ma che importa? Ella sarà il capitano ed io il sopraccarico; imparerò comodamente quello che avrà studiato Lei, e le insegnerò quel poco che so per esperienza, cioè dove si trovano le più belle tigri e i più sperticati boa.

—Che orrore!—gridò la donna gentile.—Dunque ella, signor dottore, ci ha portato questa bella novità da Milano?

—Non da Milano signora; da Torino, dove ho passato questi ultimi giorni.

—Questi ultimi giorni!—pensò Luisa.—Il disegno è dunque nato qui a
Genova… dopo la sera di lunedì.

La signora Argellani si tenne naturalmente queste considerazioni per sè, e proseguì a voce alta:

—Anch'io ho in animo di viaggiare, ma non andrò così lontano. Poichè la salute m'è tornata, piglierò il bordone di pellegrina e andrò, secondo l'antica usanza, a sciogliere il voto a qualche santuario famoso.

—Davvero… Ella partirà?—chiese turbato il Percy, che fino a quel punto era stato tranquillo e sorridente vicino a lei.

—Sì, partirò; ma non si ponga in mente, per carità, che io voglia andar molto lunge. L'Oberland della Svizzera e le sponde del Reno avranno pure qualche eremo dove io possa andarmi a rinvigorire le membra affralite.

—L'Oberland! il Reno!—pensò il bruno Percy.—Anch'io potrò andare da quella parte quando mi aggradi.

Questo pensiero gli restituì la calma e gli fece rifiorire il sorriso arrogante sulle labbra.

A Laurenti, in quella vece, il cuore si stringeva, si gelava sempre più. Se egli rimaneva ancora dieci minuti nel salotto della signora Argellani, certo schiattava, non potendo contenersi più oltre.

Si alzò allora per accomiatarsi da lei.

La signora Luisa, turbata anch'essa, si alzò del pari; gli porse la mano, che egli toccò a mala pena, e guardandolo in viso con una cert'aria ansiosa che il Percy non poteva scorgere, seduto com'era dietro di lei, ma che bene notò il duca di Marana, gli disse:

—Ci vedremo?

—Sì;—rispose asciutto Laurenti.—Verrò di questi giorni a ricevere i suoi riveriti comandi.

E inchinatosi a lei, stretta convulsivamente la mano al duca di Marana, salutato severamente quell'altro, uscì con rapido passo dal salotto.

Il giovine addolorato non vedeva nemmanco la strada; le lagrime, non potendo uscire, per la vergogna, dagli occhi, gli offuscavano la vista. Come fu a casa, nella solitudine della sua camera, si lasciò andar bocconi sul letto, mormorando tra i singhiozzi che gli facevano gruppo alla gola:

—Oh, mio povero cuore! mio povero cuore!

XXI.

Io non ho l'animo crudele di uno sgherro o d'un giudice del Sant'Uffizio, da compiacermi a noverare i patimenti di Guido in quella brutta giornata. E v'hanno poi di cotali dolori che non si possono descrivere e che non intende neppur bene colui che li prova; dappoichè essi, per la loro intensità medesima, gli tolgono la coscienza dell'essere.

Egli fu nella notte, in mezzo al silenzio di ogni cosa creata, che Laurenti cominciò a leggere nella sua anima afflitta, a raccogliere i suoi dolori e ordinarli in forma di pensieri. La mezzanotte era suonata, quando egli, che ancor non era uscito dalla sua camera, sentì il bisogno di muoversi e di respirare un'aria manco soffocata di quella. Aperse la finestra, e la brezza notturna e l'azzurro del cielo stellato, parvero chetargli un tratto lo scompiglio della mente.

Dalla finestra della signora Argellani si scorgeva un po' di lume che trapelava dalle stecche della persiana.

«Non dorme ancora;—pensò Laurenti—che fa ella? Ricorda le gioie della sua bella giornata, rinnova nel suo cuore le fiamme che vi accesero i lunghi sguardi del suo innamorato Percy! Io ho lavorato per gli altri, mi sono affaticato per gli altri, ho messo per altri il cervello a partito…. Gran colpo che ho fatto! gran vittoria che ho riportato! Ma forse non lo avrei fatto, forse non mi sarei affaticato del pari, sapendo che doveva tornarmene questo premio? O si ha da far il bene solamente per l'utile che se ne spera? Guido Laurenti sarebbe egli diventato un'egoista?»

Mentre egli così pensava il lume si spense nella camera della donna gentile.

«Dormi, dormi, e ti consolino i sogni, le immagini leggiadre delle feste a cui torni fidente e serena. Va, dove certo ti aspettano i sogni del tuo Percy; senti la stretta del suo braccio che poderoso ti sostiene, mentre i vostri piedi si aggirano in cadenza nel vortice della danza e il suo alito infuocato ti bacia i capegli. Egli così tenero non pensava a te, egli non ti faceva argomento de' suoi sogni, allorquando tu ti spegnevi a poco a poco nella solitudine del tuo dolore. Allora, chi sedeva al tuo capezzale, chi interrogava ansioso le lievi pulsazioni del tuo cuore, chi persuadeva la vita all'anima tua, mentre la infondeva nelle membra, chi viveva della tua esistenza e ti faceva partecipe alla sua, era un ignoto, era Guido Laurenti, il quale aveva giurato di restituire i bei colori della salute e della giovinezza al tuo volto e morire egli di poi; imperocchè egli ti amava e il cuore gli diceva che, risanata, non avresti più dato il cuore a nessuno.

«Morire! Aveva giurato di morire per lei…. pazzo, tre volte pazzo! A che terrei la promessa? a chi dunque! Si muore, quando non si ardisce dire alla donna salvata: amatemi in ricompensa del benefizio; l'amore vi ha fatto male, che importa? tornate a patire per me. Ma questa donna oggi ama un altro; anzi riama l'antico. Che altro significa il rinato desiderio delle feste? che altro il ritorno del Percy ai piedi di lei? Ed ella che lo comporta e sorride!….

«Dio santo, avete voi così plasmata di fango la più bella delle vostre creature, ch'ella abbia senza vergogna e senza rimorso da ricader nelle braccia all'uomo che l'ha abbandonata, e ritorna a lei per amore di novità, senza avere patito con lei? Cosiffatti amori, accesi soltanto dalla vista di due labbra vermiglie, che sfuggono il sudario della morte e tornano colla risurrezione della carne, sono invero una profanazione della dignità e della logica. E perchè non ha inteso ella cotesto? Perchè!…. La è stoltezza, la mia, a domandarlo. C'è forse mai stata virtù di logica, o senso di dignità, nel cuor vostro, o figlie di Eva? O non siete voi piuttosto quelle che noi vi andiamo immaginando, noi adoratori degl'idoli fatti colle nostre mani, e di attributi scaturiti dal vaneggiamento delle nostre contemplazioni? Il camaleonte muta i colori secondo che la luce percuote il suo tenue involucro di membra; noi vi illuminiamo coi raggi della nostra mente, vi coloriamo coll'iride delle nostre passioni, e voi risplendete. Uno spensierato gaudente che passi da vicino, vi scorge suffuse di roseo, irradiate di splendori, opera tutta dell'amore di un artefice affettuoso. Ed egli allora, che non ha fatto nulla per voi, che non ha sudato all'opera, che non vi ha neppure guardato quando giacevate smorte e dimesse, egli allora si fa innanzi sollecito, si pone fra il disgraziato artefice e voi, si piglia egli la luce, si beve egli il calore.

«Ed io ho studiato tanto, senza sapere tutto ciò? Povero uomo, suda sui libri, rapisci i segreti alla terra ed al cielo! Ma che dico io di libri? E l'esperienza dolorosa del passato! Mio povero cuore, viscere smemorato che sei, o non ti valse a nulla aver patito gli aspri tormenti una volta? Tu sei ricaduto stupidamente nell'inganno; hai soffocato nel tuo profondo il primo suono di quella corda già offesa da un antico strappo, la quale avrebbe potuto con le sue stridule vibrazioni dare il segnale d'allarme alla ragione dormente. Va; se non fosse che Laurenti non dee morire pel signor Percy, saprei soffocarti ben io in una violenta affollata, in una mareggiata improvvisa di sangue».

Così pensando, si tolse dal vano della finestra, ov'era rimasto fino a quel punto; corse allo stipo, e aperto un cassettino, ne cavò una boccetta che gittò sdegnosamente a terra. Il cristallo si ruppe, e quelle poche goccie di liquore che v'erano rinchiuse, spruzzarono il pavimento.

«Va, disperditi, veleno che dovevi uccidermi, senza che rimanesse traccia di te, così ch'io rimanessi fulminato, senza che altri, anco a spararmi le membra, potesse ascrivere la mia morte a disperato proposito! Va, disperditi; io non farò altro che castigare il mio cuore, flagellare, rompere per sempre la malaugurata corda dell'amore. Andrò in India…. partirò subito… due o tre giorni basteranno per dar sesto a tutte le cose mie…. Buon padre! egli mi ha fatto il triste dono della vita, ma egli mi ha lasciato altresì la ricchezza, per custodirmi contro i mali della turpe necessità. Io non sarò un Prometeo incatenato sullo scoglio; io correrò lontano lontano, dove non vedrò, dove non udrò nulla, più nulla!…

«È egli vero che si possa dimenticare, come asserisce il duca di Marana? Gli amori di vent'anni, sì certo; ma gli amori di trenta….. gli ultimi….. che! che! troppo profondo è lo schianto. Si cancella il solco; ma il vallo romano di Caledonia, ma il canale di Neco nell'istmo egiziano, si scorgono ancora dopo diecine e diecine di secoli. No, io non la dimenticherò; ma ella almeno non mi vedrà a patire, e il suo Percy non avrà a sorridere di compassione. O potrei io rimanere vicino a lei, spettatore dolente, e spregiato? O forse potrei vivere qui solo, a nutrirmi di memorie, a contemplare quel mazzolino di fiori secchi che ella un giorno mi ha dato, e che hanno aria di deridermi al capezzale?…..»

A quel povero mazzolino, già i lettori lo vedono, era minacciata la sorte del veleno. Laurenti si mosse per ispiccarlo dalla parete; ma appena lo ebbe afferrato, gli caddero le forze e lo sdegno, e così, coi fiori tra mani, si lasciò andare su d'una scranna, dove rimase a contemplarli malinconicamente.

«Fu un bel giorno, o divina, quello in cui mi avete donato questi fiori salvatici, dimezzando il mazzolino che vi aveva offerto la vecchia contadina. «Siete voi, mi diceste, che mi avete condotta lassù, dov'è incominciata davvero la mia guarigione ed è giusto che ne abbiate la parte vostra.» Sì, l'ho avuta la parte mia, e con buona misura eziandio! Poveri ramoscelli di timo e di sermollino, voi soli direte come io l'ho amata, e come sarei stato felice se il vecchio suocero di Maddalena si fosse apposto al vero, quando ebbe a credere che Luisa fosse mia…… mia…..»

Il ricordo di quell'errore del contadino condusse l'addolorato giovane nella regione dei sogni. Vivere con quella donna, anco a patto di dover comandare agli impeti della passione, sarebbe stato il colmo della umana felicità. Ed egli, forte dell'amore di quella donna, la rapiva agli sguardi, alle adorazioni profane del volgo. Quelle regioni lontane dov'egli andava per disperazione, gli profferivano un asilo pe' suoi amori felici, E già si vedeva colà, a mutare i passi lenti con lei in una di quelle grandi foreste, dove un largo padiglione di musacee e di liane intrecciate non lasciava penetrare la sferza del sole. Le ancelle, vestite dei variopinti tessuti di Madras e Mazulipatnam, uscivano dallo chattiram con larghi ventagli di acacia per venirle a rinfrescar l'aria sul viso, mentr'ella se ne stava adagiata nel suo letto pensile, saldato ai noderosi rami di due alberi di mangifere. Ed egli, seduto daccanto a lei, le stava leggendo un dramma di Calidasa o un canto del Ramayana, nella lingua sacra dei Bramini, che essi avevano imparata per loro diletto e ad inganno del tempo. Per vivere in quella guisa, che non avrebbe fatto egli? Come Visvamitra, il gran re penitente, di cui narra Valmiki nel suo immane poema, egli si sarebbe rassegnato a mille e mille anni di ascetismo, pur nella speranza di essere innalzato dalla virtù della sua contemplazione al triplice regno di Indra, al firmamento azzurro de' suoi desiderii.

Un dolore immenso, profondo, senza speranza di tregua, ha pure di simiglianti allucinazioni, come la sete prolungata ha i suoi miraggi nelle arene del deserto. Spaventose allucinazioni, quando svaniscono; dolorosi miraggi, quando il pellegrino trafelato giunge al luogo dove la fata morgana gli aveva fatto scorgere il pozzo di Nachor.

Fu un triste svegliarsi, quello di Guido! Ripose nel suo luogo il mazzolino, mentre le lacrime gli innondavano le guancie, e recatosi allo scrittoio, cominciò una lettera per quella donna da cui voleva accomiatarsi senza pure vederla.

«Luisa,

«Vi ho amato; ho sognato. Vi amo ancora, ma il mio sogno s'è dileguato ed ho scorto la dolorosa verità. Povero stolto, che volevo risanar gli altri, e sono caduto infermo io medesimo! Ma io porterò la pena dell'errore; amate, siate felice, io mi allontanerò dagli occhi vostri per sempre.

Non vengo a prender commiato da voi; chè non potrei vedervi contenta e sorridente a fianco del Percy, dell'uomo che riamate, e per contro mi riuscirebbe troppo gran peso il mesto addio, consigliato al vostro cuore da una sterile pietà….»

Qui Laurenti si fermò per rileggere lo scritto; ma com'ebbe scorso il foglio, gittò la penna con atto di sdegno, e fece la carta in pezzi.

—Che Percy! Debbo io scrivere quel nome? E debbo mandare una lettera che la faccia ridere di compassione? Scriviamone un'altra, e il cuore si tenga in disparte.—

«Signora,

«Il bisogno di provvedere alle cose mie per un viaggio così lontano come ebbi l'onore di annunziarle, non mi consente di venire a rassegnarle gli atti del mio profondo ossequio, siccome sarebbe debito insieme e desiderio per me. Poi, debbo dirle ogni cosa? Si prova rammarico a dipartirsi dagli amici, a il commiato è sempre un doloroso momento per tutti. Non si è buoni medici, senza affezionarsi un pochino ai clienti; non si è veduta una gentile inferma tutti i giorni, senza pigliare quella tal simpatia che deriva dalla intrinsichezza. Ecco perchè….»

—Perchè… perchè coteste sono fanciullaggini, e coll'aria di voler nascondere il vero, farò ridere due volte, in cambio di una. Un nobile dolore ha egli da aver vergogna a mostrarsi? Percy vedrà la lettera! La veda pure. Io starò disgraziatamente ancora parecchi giorni a Genova. Venga egli a sorridermi sul viso, e vedrà, in fede mia, che bel giuoco! Suvvia, un'altra lettera, e sia l'ultima.

«Signora,

Perdonatemi! Io partirò senza venire a dirvi addio. In verità, non mi sento di rimetter piede in quella palazzina gialla dove ero entrato come un amico, e dove sono rimasto come un innamorato. Perchè non ardirei confessarvelo? Vi ho amato, sì, vi ho amato, e voi forse ve ne sarete avveduta. Voi non amate me, e di cotesto mi sono accorto ben io. Donna gentile, perchè verrei io a piangere a' vostri piedi, cagione di rammarico per la vostra anima pietosa? Noi non possiamo comandare al nostro cuore; nè voi voltarlo ad un affetto che non era spontaneamente venuto, nè io a soffocarvi il mio, nato vigoroso, ribelle ad ogni argomento della ragione.

Perdonatemi dunque, o signora, e siate felice. Un giorno, pensando allo scomparso amico, non ricorderete ch'egli…. che il suo affetto vi abbia mai cagionato un dolore….

—Legga pure il Percy questa frase, e sorrida, se gli dà l'animo! gridò il giovine; quindi seguitò a scrivere:

  «La è questa, l'unica consolazione che porterà seco, in terre
  lontane, il vostro

GUIDO LAURENTI.»

XXII.

Alla dimane, quando la lettera fu al suo ricapito, Guido ebbe dolore d'averla scritta. Ora gli pareva di soverchio patetica, ora troppo compassata; ad ogni modo poi gli pareva che in cambio di scriverla, avrebbe saviamente e cortesemente operato ad andare in persona a licenziarsi dalla donna gentile.

Tutti ragionamenti dettati dall'agonia del non doverla vedere più mai, quella bellissima che lo aveva ridotto a quel punto. Ma la era fatta, e non c'era rimedio.

La giornata passò non affatto male, tra per l'operosità concitata degli apprestamenti di viaggio e per le corse che ebbe a fare fuori di casa.

C'è sempre un mondo di nonnulla a cui provvedere, innanzi di cangiar paese. C'è, verbigrazia, da pensare alle cose che si porteranno seco, e a quelle che si lasciano: c'è da ordinare le sue carte, bruciare le inutili e quelle segnatamente che risguardano altrui. E qui, fermate, commozioni ad ogni tratto! In que' foglietti che vengono tra le mani, foglie disperse della Sibilla, v'hanno pensieri fuggevoli che fanno ricordare con amarissima voluttà il giorno in cui furono scritti; v'hanno lettere che bisogna rileggere, fragranze del passato che si aspirano più e più volte, quasi per provare da capo sensazioni lontane; v'hanno di certi fogli, di certi ricordi che non si ardisce distruggere così sui due piedi, epperò si ripongono sull'orlo del tavolino, per modo che abbiano ad essere gli ultimi sacrificati, quasi che nel tempo che gli altri si mutano in cenere, dovesse sopraggiungere tal cosa che li avesse a scampare dal fato comune.

Fornita quella mesta bisogna, che si portò via tutto il mattino, Laurenti uscì di casa per andare dal suo banchiere a metter sesto alle cose sue, la qual cosa non riuscì punto difficile, dacchè tutto l'avere di Guido era posto a frutto nei banchi, o nelle cartelle del debito pubblico. Rimaneva la casa col giardino, dov'egli abitava; ma per questo negozio il giovine stava appunto accarezzando un disegno che vedrete di poi.

Venne quindi la volta dei servi da congedare e da consolare nel tempo istesso, poichè erano gente buona e molto affezionata a quell'ottimo padrone ch'egli era. Guido li accomiatò da gran signore, lasciando a tutti larga memoria di sè.

In queste ed altre faccende giunse la sera. Tornandosene a casa, trovò il giardiniere della signora Argellani, che lo aspettava sull'uscio.

—Buon giorno, ed anzi buona sera a Vossignoria!—disse il Giacomo levandosi il cappello.

—Oh, Giacomo,—rispose Laurenti, facendo uno sforzo grandissimo per sorridergli—che buon vento vi mena quassù?

—Buono? Chi sa? Vossignoria ne fa di belle, in fede mia!

—Io? che cosa?

—O che, le pare? andarsene così, senza dire: addio bestia!…..

—Giacomo, gli è necessario.

—Necessario un….. presso che nol dissi! la mi perdoni, veh! Sono un uomo troppo vecchio per potermi cangiare. Chi l'ha nell'ossa lo porta alla fossa. Che Vossignoria se ne vada, s'intende; ma non dire neppur crepa al povero Giacomo….

—Ma sono ancora qui;—rispose Laurenti—voi mi vedete, ed io posso stringervi la mano….

—Sì, ma non già per grazia di Vossignoria, sibbene perchè la signora me lo ha detto. Ma che? e' sembra proprio che si siano dati la posta! anche la signora se ne va….

—Davvero, Giacomo? e dove?

—A Firenze; così ha detto stamane, e lascio pensare a Vossignoria che pianti in casa!

—Ma non voleva andare in Isvizzera?….

—Oh, io non so nulla di cotesto. Ha detto Firenze…. per ragioni di famiglia…. Pare che la ci abbia un'eredità da raccogliere…. delle liti, e che so io! Poi, ha detto che vuol cambiar aria per compiere la sua guarigione…..

—Ella fa molto bene;—soggiunse Laurenti.—Io stesso le avevo consigliato di andare a passare qualche mese fuori di Genova.

—Qualche mese! Altro ci è; vuole andarsene del tutto.

—Ma come? perchè!

—Che vuole che ne sappia io? Ci ha da esser qualcosa nell'aria, che diventano tutti matti; la signora…. Lei, con sua licenza….

—Oh dite pure, io non me ne reco; matti dunque?….

—Sicuro, ed io, scusi se ardisco mettermi nella brigata, io sono il terzo matto.

—O come?

Così dicendo, Laurenti stette a guardare attentamente il giardiniere, che si faceva grave, sostenuto, come chi si appresta a fare un discorso di molto rilievo.

—Signor Laurenti, ho a dirle una cosa; ma non rida per carità.

—No certo; non è mio costume neppure.

—Bene! Come Vossignoria sa, il povero Giacomo è solo…..

—Lo so.

—Non ha parenti; i suoi vecchi sono tutti iti; non ha moglie, grazie al cielo, nè figli per conseguenza; non ha altra affezione che per la sua signora, e la sua signora se ne va…..

—Orbene?

—Mi lasci dire! Avevo cominciato a voler bene a qualcheduno….. da povero villano, s'intende; ma insomma, anche l'amore della povera gente vale qualcosa…. e questo qualcheduno se ne va anco lui! Che cosa resta il povero Giacomo? Un vecchio ceppo di castagno, buono da grattargli il fradicio per far la terra alle camelie, e da buttare il rimanente sul fuoco!… Mi stia a sentire! Il Giacomo ha pensato una cosa, con licenza di Vossignoria…..

—Dite, dite!

—Vossignoria se ne va laggiù alle Indie, a fare il naturalista. Il Giacomo, non fo per dire, è un giardiniere che sa il fatto suo, e qualcosa ha pure imparato, in cinquant'anni di vita; è robusto; gli piace la fatica; ama vedere un po' di paese anco lui…

—Ho capito, Giacomo, ho capito…..

—No, non basta! Il Giacomo può essere buono ancora a qualcosa, come aiutante, come servitore, come….. e perchè no? come padre. Senta, ho venticinque anni più di Vossignoria….. Chi la aiuterà come il Giacomo, quando correrà la campagna? Chi avrà cura di Lei, come il Giacomo, quando le verrà un po' di male? Sì, l'ho detto e lo sostengo, come un padre…. come un padre….

E le lagrime gocciolavano a quattro a quattro sulle guancie abbronzate del vecchio giardiniere.

—Giacomo! gridò Laurenti, abbracciandolo—voi siete il più brav'uomo che io mi conosca. Qua la mano, e contratto fermato! Ma la signora lo sa?

—Sì, gliel'ho detto.

—E che cosa vi ha risposto ella?

—Che faccio bene, e che se Vossignoria mi piglia con sè, sarà un gran piacere per lei, che in tal modo sarà più certa di avere notizie di Vossignoria.—

Stranezze del cuore umano! In fondo a quello di Laurenti cominciava come un barlume di speranza, un punto di luce, pari a quel lumicino dei racconti della nonna, fievole ancora, che non lasciava indovinare se fosse di castello lontano, o di tugurio, o di carbonaia boschereccia, ma che pure facea rinascere da morte a vita l'eroe disgraziato della favola.

—Orbene, Giacomo—disse Laurenti—preparate le cose vostre; noi partiremo posdimani a sera per alla volta di Corfù.

—È lontano Corfù?

—Sì, di là dall'Italia, e ci andremo sull'Amerigo Vespucci. A Corfù troveremo un'altra vaporiera che ci porterà in Alessandria d'Egitto.

—E avanti sempre!—gridò il giardiniere.—Ma se lo dicevo io, che sono il terzo matto! chi non le fa in gioventù le fa in vecchiaia, e nessuno ne scampa.—

Il giorno seguente, Guido vedeva giungere il Giacomo con tutte le sue carabattole in una piccola valigia che depose in anticamera.

—Già fatto?

—Sì; io non ho come Vossignoria da provvedere a tante cose, Sono come la chiocciola che ci ha addosso ogni suo avere.

—Vi siete già congedato dalla vostra padrona?

—No, ci torno stassera, poichè ella non partirà fino a domattina.

—Così presto?

—Sì; la dice che egli è un negozio di molta urgenza, quello che la fa andare a Firenze.

—E la sua casa, chi ne avrà cura?

—Oh per questo la ci ha il suo notaio, un fior di galantuomo…..

—Chi è costui?

—Il signor Marinasco; non lo conosce Vossignoria?

—Sì, un'ottima persona davvero! E poichè mi fate ricordare che debbo andare da un notaro per certe faccende, mi recherò appunto da lui.—

Un'ora dopo, Laurenti entrava nello studio del notaro Marinasco, a fare un atto di donazione della sua casa.

Il notaro fu un tal poco maravigliato quando udì il nome del donatario.

—Questo ragazzo è nato vestito,—mormorò egli tra i denti.—E' non avrà neanco a piatire coi vicini di sotto, per ragion di confini.—

Io spero che l'avveduto lettore avrà capito la cagione di questa maraviglia del notaro, e perchè borbottasse di confini, e di ragazzi che nascevano vestiti.

Fu triste, assai triste, l'ultima notte che Laurenti passò nella solitaria dimora. La sua anima sconsolata, posta nel giorno a continua tortura dalla fretta degli apprestamenti e da tutte le altre cure della partenza, era caduta in una specie di rilassatezza, nella quale c'entrava anco per molto la prolungata insonnia di quei giorni, così tristamente fecondi d'ogni maniera di dolori.

Scese a passeggiare in giardino. La notte, stellata, azzurra, trasparente, sembrava irridere colla sua imperturbabile calma alle procelle del cuore di quel giovine che stava ritto presso il muraglione, vero simulacro della pochezza umana al cospetto dell'infinito. Guidato dall'invisibile auriga, il Carro seguiva l'eterno viaggio; Cassiopea, i Gemelli, la cintura d'Orione, splendevano colle loro forme più ricise in mezzo a quelle miriadi sterminate di corpi celesti nelle profondità dello spazio. Il firmamento era muto, tranquillo, come l'immensità di cui esso appare unica forma visibile ai mortali; ed egli, povero microcosmo, agitato, sconvolto da violenti uragani, non contava nulla in quel gran mare dell'essere.

«Addio, mia povera casa! addio, lembo di cielo che sorridi a questa conca di terra popolosa, dove ho vissuto così tranquillo tanti anni come in mezzo al deserto. Ah, fossi rimasto mai sempre intento a guardarvi, o stelle del mio cielo, a indagare i vostri segreti, o fiori del mio giardino!

«Nulla! nulla! nemmeno un saluto! Ella parte dimani…. questa mattina, anzi; chè oramai sono le tre dopo la mezzanotte. Ma che cuore ha costei, che non sente neppure il bisogno di dire all'amico, all'uomo che l'ama e che ella non vedrà mai più: perdonate, io non posso amarvi, ma sono triste del vostro dolore?

«Forse ha ragione; forse nel suo cuore di donna ella ha sentito essere manco acerbo fuggire, che darmi un ultimo addio, nel quale io non avrei scorto che un atto cortese di pietà, di quella pietà che io ricuso!»

Questi erano i pensieri di Laurenti. Dopo aver corso da capo a fondo il viale, dopo essersi fermato più volte a contemplare la palazzina Argellani che appariva opaca nel fondo, e cercato di ricreare una forma bianca sotto l'albero di pino, il cui ombrello si dipingeva foscamente riciso nel primo strato azzurro che lasciassero discoperto le digradanti colline, l'assiduo evocatore di amare ricordanze andò a fermarsi presso il noto sedile di pietra, accanto ai rami dell'olmo.

Ella non era per fermo venuta a salutare quel punto estremo della sua villa, innanzi di partire! Che cosa doveva importarle degli amplessi tenaci dell'edera, di quell'idillio di piante nel quale egli, ebbro d'amore, aveva raffigurato un idillio di cuori, il sogno della sua vita?

Diede un lungo sguardo di malinconia a quelle nozze verdeggianti, un lungo sospiro a quelle ricordanze amarissime; spiccò una fogliolina d'edera, in forma di cuore, poi un'altra, e le ripose ambedue tra le faccie del suo taccuino; quindi si lasciò andare sul sedile, spossato di membra e di anima, senza volontà, senza pensieri.

La natura, così a lungo dimenticata, voleva la parte sua. Guido cadde in un sonno profondo, tosto visitato da un sogno che io chiamerò sogno di prigioniero, imperocchè l'uomo privo di libertà, impedito da catene, sogna sempre l'aria aperta, i viaggi, l'uso infine di tutti quei diritti che gli sono menomati dal chiavistello e dalle sbarre del carcere; e Guido, abbandonato dalla donna gentile, sognò che essa gli era daccanto, e che ambedue adagiati in una nuvoletta rosea veleggiavano verso l'orizzonte lontano, in mezzo a soavi splendori di cielo, le mani nelle mani, gli occhi amorosamente fisi negli occhi, e mormorandosi a vicenda: ti amo!

Quando si svegliò, il sole era già alto e scottava la lavagna su cui egli s'era sdraiato. Intorno a lui stavano rispettosamente aspettando, e vigilandolo che non cadesse a terra, i servi e il buon giardiniere.

—Ma che diamine è saltato in capo a Vossignoria di dormire qui all'aria aperta, per buscarsi qualche malanno? O non sa che la rugiada è tanto veleno che si filtra tra carne e pelle a chi sta smemorato a pararla?

—Sì, sì, ma che volete? Ero stanco e mi sono addormentato qui, senza pure avvedermene. Che ora è?

—Sono le dieci suonate da un pezzo.

—Ah, gli è troppo tardi, ed ho ancora molte cose da fare!—

Gli era venuto in mente di chiedere al Giacomo se la signora Argellani fosse partita, e se gli avesse lasciato qualche cosa da dire a lui; ma si ritenne, parendogli poco conforme alla dignità del momento. Si vergognava anzi d'essersi lasciato cogliere in quel luogo, dando argomento a sospetti, e mostrando la sua debolezza alla gente.

Questo pensiero lo raffermò nel proposito di non chiedere nulla al Giacomo e di mettersi in mare senza parlargli di lei. Ella era partita senza mandargli un saluto; buon viaggio! Ella non si curava punto punto di lui; così doveva finire! Insomma, e' flagellò il suo cuore, lo stritolò, se mi è consentita la frase, sotto il martello della logica, e pari al fanciullo spartano a cui la volpe nascosta sotto la tonaca addentava le carni, compose il suo viso a noncurante alterezza.

Dopo essersi convenevolmente rassettato, uscì di casa per andare a salutare due o tre amici, i soli che s'avesse, e il lettore che rammenta il cominciamento di questa storia ricorderà, chi fosse uno tra essi.

—Dunque, te ne vai?

—Sì, parto stassera.

—Guido, gli è un acerbo dolore quello che ti spinge così lontano da noi…..

—Che!….. Parto perchè ho desiderio di vedere un po' di mondo.
Dolori, io? E per che cosa? Per chi?—

E tirò giù per cinque o sei minuti su questo metro; ma poi, tanto era l'affetto suo per l'amico, finì a confessare ogni cosa.

Quell'amico e gli altri più intrinseci che vide, gli tennero compagnia a pranzo. Ei non era più il Guido Laurenti de' tempi andati, severo ma tranquillo, pensieroso ma cortese negli atti e nelle parole. Tranquillo era in apparenza, ma il viso sparuto accennava i patimenti dell'anima; per consolare gli amici che erano tristi della sua partenza, rideva a sbalzi e celiava fuor del costume; ma la celia e il riso gli erano spesso interrotti da subitanei stringimenti di cuore, e allora gli si scombuiava il volto e pareva che tutte le facoltà vitali si raccogliessero di dentro, a soffocare, se pur veniva fatto, una cura, un'angoscia che voleva sopraffarlo.

Anche il dulcis amor patriae parlava in que' momenti supremi più forte nel cuor di Laurenti che non avesse mai fatto da prima. Ad ogni piè sospinto gli accadeva di fermarsi per raccogliere i suoi pensieri; ogni piazzetta, ogni crocicchio, dimandava un lungo sguardo di affetto; perfino certe faccie di viandanti, che gli erano un po' più dimestiche, gli facevano rallentare i passi. Persone e cose alle quali per lo innanzi non usava badare più che tanto; persone e cose che lo commovevano allora, come quelle che gli davano imagine della sua terra, della sua terra da cui si allontanava per sempre.

Finalmente giunse la sera. Gli amici, dopo un'ultima libazione, per render propizio Nettuno, e dopo lunghi e ripetuti abbracciamenti, si separarono da Guido sulla calata del porto. Egli scese col Giacomo in un canotto, che si allontanò subito dalla riva a furia di remi, poichè l'ora era tarda, e la caldaia dell'Amerigo Vespucci accennava coi suoi nuvoli di fumo di non aver tempo da perdere.

XXIII.

Intenderà l'agonia di Guido Laurenti colui il quale s'è violentemente strappato dalla sua terra, col duro proposito di non tornare mai più.

Triste cosa, acerbo strazio dell'anima sferrare dal lido e dover dire: ecco, è l'ultima volta che io vedo tutto ciò! La rondine lascia per terre lontane il nido saldato con tanta assiduità di cure al trave della casa ospitale; ma come l'anno è trascorso, la rondine torna a pispissare, con l'ali aperte e ferme, dintorno al nido abbandonato. L'uomo che lascia la patria, a lui cara per le consuetudini della vita, cara per la ricordanza dei dolori, l'uomo che rompe di tal guisa la trama sottile de' suoi affetti, soffre, io mi penso, come la pianta che, divelta dal suolo, lascia nel profondo le sue più dilicate radici. Il cuore sanguina, e il patimento non si disacerba col piangere; regna anzi sul volto una calma severa, ma dentro ribolliscono, lava ardente, le collere tutte, i rancori, i furori dell'anima.

La notte era alta, e la vaporiera s'innoltrava brontolando nella fosca distesa del mare. I passeggieri, gente assai tenera della propria salute, erano scesi nel salotto per non buscarsi infreddature. Guido solo rimaneva sul cassero di poppa, seduto, colla testa sprofondata nel cavo degli omeri, che si appuntellavano forte al capo di banda del piroscafo, e cogli occhi aggrondati, che guardavano verso terra.

Genova, quantunque vicina, non si vedeva già più. I contorni della montagna erano spariti, confusi nel buio dell'atmosfera, e in cambio di quel mirabile anfiteatro di palazzi e di case variopinte che è così bello a vedere di giorno, si scorgeva un fantastico anfiteatro di bagliori, disposti a capricciosi scaglioni in un fondo d'azzurro cupo. Parevano stelle, fuochi fatui, sospesi a centinaia sulla superficie del mare.

Qualcheduno dei passeggieri radunati nella sala di prima classe, si dilettava a suonare il cembalo, e le gaie battute di un valzer giungevano fino agli orecchi di Guido. Ma quali pensieri danzavano nella sua mente, al suono di quella musica? Tristi pensieri; danza turbinosa.

Dov'era in quel momento Luisa? Egli non ne aveva più chiesto al Giacomo: ma certo ella era sulla via di Firenze. Non voleva pensare a lei, e ne discacciava sdegnosamente l'immagine; ma quella immagine, figlia del suo spirito infermo, gli tornava a balenare negli occhi, ed egli invano tentava di chiuderli, come il fanciullo allo spesseggiare dei lampi in una notte tempestosa, dappoichè la luce penetrava le palpebre e gli ripeteva quella sensazione molesta.

Fu una notte tormentosa, a gran pezza peggiore delle altre, come quella che gli recava i primi dolori della disperazione. Tutto era finito; gli ultimi stami erano recisi: nè più speranza, timidamente vagheggiata nel profondo del cuore, di mutate venture; nè più agio a pentimenti della sorte capricciosa; la sentenza era irrevocabile, chiuso il libro dei fati.

Giunse l'alba, e il povero condannato era tuttavia seduto al suo posto, cogli occhi sbarrati, ma senza veder punto quel miracolo di bellezza che è lo spuntar dell'aurora in alto mare.

Il cielo s'imbiancava man mano; poi di temperanze in temperanze, riusciva di un azzurro carico, simile a quelle dipinture cinesi, fatte di turchiniccio, a vaporosi contorni, una fusione insomma di cielo e di mare. Ma l'aurora dalle rosee dita, come l'hanno chiamata i classici, cominciava a spargere il suo color prediletto dal balzo d'oriente; i vapori si diradavano, le leggi della prospettiva incominciavano a trionfare. Le nuvole, allungate in cirri fantastici, risaltavano tinte di rosso sulla linea dell'orizzonte, donde emergevano, nereidi mattiniere, le isole e le coste del Tirreno.

L'Amerigo Vespucci, come la nave di Giasone, s'innoltrava baldanzoso in mezzo a quel risveglio di deità marine; ma Guido, ben diverso dagli argonauti, non vedeva nulla, nè splendori di cielo, nè luccicar d'onde guizzanti, nè variopinti sereni in lontananza. Tutto chiuso nella sua cupa tristezza, egli non badava a quella grandiosa veduta. Le maraviglie della natura, come quelle dell'arte, vogliono mente calma e serena; colui che ha l'anima oppressa, non dà retta alle esterne sensazioni, legge senza intendere, guarda senza vedere. Egli badò soltanto ad alcuni viaggiatori i quali uscivano dai camerini, per venire a godersi la prima frescura, e pensò che se gli altri uscivano, egli doveva andarsi a rinchiudere, poichè non voleva farsi scorgere, così rabbuffato e sciatto com'era.

Ma in quella che si alzava per scendere, vide comparire dall'orlo del cassero di poppa la testa del Giacomo, il quale saliva la scaletta per venire da lui.

—O come?—gridò il giardiniere, vedendo sulla persona di Laurenti e sul viso i segni della insonnia prolungata.—Non ha dormito, Vossignoria? Male, male! Se la va di questo passo quando saremo laggiù, non vuol durarla di molto.

—Tanto meglio, Giacomo, tanto meglio! La vita non franca davvero la spesa di essere vissuta. Ma vedete un po' che stupendo mattino!

Era il primo sguardo che Laurenti volgeva a quel risveglio della natura.

—Mattino! mattino! altro che mattino!.. borbottava tra i denti il giardiniere.

—Che paternostri dite voi ora?

—Oh, lo so io, quello che dico. Il viaggiare è assai bello, e contemplare il levar del sole piace anco ai cacciatori di pernici; ma sarebbe assai meglio dormire nelle ore del sonno. Se Domineddio ha fatto il giorno e la notte, gli è segno che ci aveva le sue gran ragioni.

—Che cosa volevate da me, Giacomo?

—Ah, ora che ci penso…… ma in verità non ardisco parlarne…… Si figuri Vossignoria che ho fatto la più grande bestialità del mondo, e bisogna che Ella me la perdoni.

—Che cosa?—gridò Laurenti turbato.

—Vede? Vossignoria si riscalda già il sangue.

—Ma che cosa, in nome di Dio, che cosa?—incalzò Guido spazientito, il quale indovinava che nell'errore del Giacomo si trattava della donna gentile.

—Vossignoria mi perdonerà? ripetè il Giacomo.

—Sì, sì, vi perdono. La fatalità mi perseguita, ed io non darò cagione a voi dei colpi ch'ella mi avventa. Suvvia, dite, che cosa avete fatto di male?…

—Ecco! avevo una lettera fin da ieri mattina, per consegnarla a Vossignoria; ma Ella è stata sempre fuori; alla sera poi tutti que' bravi signori, amici di Vossignoria, mi hanno fatto alzare il gomito un po' troppo. Lo sciampagna non è acqua…. ed io, oltre a quello che mi mettevano nel bicchiere, ho trincato anche quello che Vossignoria non voleva mai bere.

—Giacomo, non mi tenete in aria coi vostri racconti! Quella lettera…..

—L'ho giù nel camerino, e se Vossignoria la vuole.

—Se la voglio! Andate, correte a pigliarla!

L'accento di Guido era cosiffattamente imperativo, che il Giacomo non istette a baloccarsi più oltre, e scesa la scala a precipizio, disparve nel vano della boccaporta.

Laurenti avea la febbre addosso. Che cosa era scritto in quella lettera! Che fatalità pesava su lui, da farlo partire senza che il Giacomo si ricordasse di dargli quel foglio, nel quale certamente v'era la sua vita o la sua morte?

Così pensando, rimase inchiodato sul sedile, ansante, sgomentito, ad aspettare che il Giacomo tornasse. Questi venne finalmente venne con aria contrita, il manigoldo, tenendo la lettera tra le mani.

Guido gliela strappò dalle dita; ma come l'ebbe afferata, non gli diè l'anima di rompere tosto il suggello. Guardò il cielo con atto disperato, come per accusarlo, nella piena del suo dolore, di quel calice d'amarezza ch'egli era forse sul punto di bere; quindi, scuotendo il capo, aperse la lettera e lesse:

«Guido,

«Bisognerà dunque cadervi a' piedi e gridar mercè? Voi temete di porre a risico la vostra dignità, parlando; e quando parlate, siete già lontano, come se aveste paura dell'effetto delle vostre parole.

«Vi amo; vi ho sempre amato, fin da quel giorno che mi avete condotta al camposanto, o per dire più veramente, egli fu in quel giorno che mi accorsi di amarvi. Che? credete voi forse che alla margheritina io dimandassi soltanto se sarei risanata?

«V'hanno di tali cose che non si può, non si ardisce, non si dee dirle a voce. Ma pensateci un tratto voi stesso e poi giudicate. Poteva io operare diverso con voi? Potevate voi fraintendermi a quel modo? Io, povera donna abbandonata da tutti, dovevo andare incontro alle vostre mezze confessioni? La passione di un gentiluomo par vostro, so di meritarla; ma un giorno sarebbe pure venuto che voi avreste pensato a quello stato di cose nel quale vi eravate per la prima volta imbattuto in me, e Luisa non poteva correre il risico dei vostri pentimenti.

«Ecco perchè ho riconquistato il mondo, innanzi di dirvi una parola, o di udirne una simigliante da voi. Ho veduto molti a' miei piedi, e vi giuro che ad ottenere cotesto non mi bisognarono lusinghe. Direte che fu vanità, o non crederete piuttosto che la dignità mia voleva così?

«Intanto, vedete quello che ho fatto. Quel regno che mi tornava in balìa, io l'ho rispinto, non esso me. Io esco regina, regina per tutti, salvo per voi che avete voluto vedermi ginocchioni, udire la mia confessione, in quella che io avrei avuto il compenso di molti patimenti ad udire la vostra. Ora tutti sanno che sono partita da Genova, dove non tornerò. Ho annunziato che andavo a Firenze, dove non mi troveranno di certo. Che importa a me? Vo a vivere una vita nuova, e per viverla debbo dimenticare affatto la prima.»

Una vita nuova! Dove? La lettera non diceva altro, si fermava a quel punto.

Guido non intendeva nulla di quel mistero. La confessione di quella divina lo aveva commosso per modo che non sapeva più dove fosse, se in terra o in cielo; la chiusa poi lo teneva sospeso nell'abisso, tra il cielo e l'inferno.

Il vecchio Giacomo era sparito, mentre egli leggeva. Si alzò agitato per andarlo a cercare, ma non potè fare un passo verso la scala. Dall'altra banda del cassero e' vedeva comparire il giardiniere, che col suo cappello in mano aiutava una signora a salire lassù.

Quella signora era vestita di seta cenerognola, a larghe pieghe; portava uno sciallo rosso di Persia mollemente raccolto intorno alla vita, e sulla bruna capigliatura aveva posato un cappellino di velluto alla foggia garibaldina, colle sue tre penne rosse nella risvolta della fronte.

Il cuore di Guido Laurenti fu per rompersi a quella vista, e le sue labbra mormorarono un nome: Luisa!

La donna gentile che già era salita sull'ultimo gradino, volse gli occhi sfavillanti verso di lui, gli sorrise, e si pose un dito sulle labbra, accennandogli che si volesse chetare.

Giacomo rideva di sottecchi, il susornione!

Allora Guido ricadde sul sedile, sopraffatto dalla gioia improvvisa; e come poco innanzi aveva mormorato il nome di Luisa, così mormorò ancora quest'altre parole:—regina delle donne!

Il sole in quel punto usciva radiante sul mare, e un lungo sprazzo di luce inondava la tolda dell'Amerigo Vespucci, che parea navigare in un oceano di splendori. La costa e le isole vedute in distanza, circonfuse di azzurro e di ranciato, non avevano apparenza di terre conosciute, ma piuttosto di regioni fantastiche alle quali due anime innamorate andassero a chiedere l'oblio del volgo umano e l'ombre propizie al più verecondo, al più nobile affetto che mai infiammasse creature mortali.

FINE.

NOTA DI TRASCRIZIONE

Sono stati corretti i seguenti refusi dell'originale:

anfiteatro, manda verso il piano tante colinette

Per amore di verità debbbo dirvi che

dell'uomo. Cetesta gran novità ha portato

—Che bel bambimo!—disse la signora

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