The Project Gutenberg EBook of L'ignoto, by Salvatore Di Giacomo

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Title: L'ignoto
       Novelle

Author: Salvatore Di Giacomo

Release Date: December 27, 2009 [EBook #30771]

Language: Italian

Character set encoding: ISO-8859-1

*** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK L'IGNOTO ***




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SALVATORE DI GIACOMO

L’IGNOTO
NOVELLE

LANCIANO
R. CARABBA
EDITORE


Proprietà letteraria

Le copie non firmate dall’Autore sono dichiarate contraffatte.

Lanciano, tip. dello Stabilimento R. Carabba, I-1920.


INDICE

L’ignotopag.     1
Pesci fuor d’acqua25
«Cocotte»47
Il posto65
Vecchie conoscenze75
Donna Clorinda95
Suo nipote113
Un «caso» 127
Addio, Carolina...139
Totò cuor d’oro151
Quella delle ciliege163
Quarto piano, interno 4177
Federica189

[1]

L’IGNOTO

[3]

I

Sul Piazzale di Porta Roma erano poche persone. Era deserta la via del laboratorio pirotecnico, deserta la via di faccia ad essa, ove, sul principio, è la semplice e nuda fabbrica dell’Arcivescovado a cui seguono altre fabbriche basse e la Riviera Casilina, recinta da una fila di casette rossastre.

L’ora del tramonto avanzava. Un lume dorato che poc’anzi avea tutto infiammato, nel lontano, il fuggevole dosso de’ Tifati si raccoglieva in coda a’ monti, ove la terra e la collina s’univano e pareva che l’ultima arborea decorazione di quelle gobbe immani sprofondasse nell’immensa e aperta campagna, verso Roma lontana. Tutto intorno taceva di quel triste silenzio invernale che pesa su Capua, città di chiese e di caserme.

Sul ponte del Volturno, con le spalle rivolte alla Riviera Casilina, e ritta sul parapetto, si stagliava sul livido cielo la statua di S. Giovanni Nepomuceno: un rigido braccio era steso al [4]fiume e la mano spiegata ne benediceva il queto cammino trascorrente lungo le umide rive, a occidente. Erano ancora illuminate, in quel marmo barocco, la testa del santo e il busto suo quasi tutto: le membra inferiori, già investite dall’ombra, avevano apparenza confusa. Sotto la statua, addossati al parapetto, due uomini contemplavano il tramonto, e di volta in volta accennavano a qualcosa, lontana in quel punto, nota soltanto agli occhi loro o alla loro immaginazione poi che di faccia ad essi, oltre al ponte ferroviario, parallelo a questo su cui stavano e ch’è di remota origine, nulla pareva che turbasse, lungo il fiume e nel cielo e nel piano sterminato, la silenziosa agonia del giorno. A un tratto una fuggente nuvola s’agitò e si scompose alle origini del ponte di ferro, mascherate da un breve caseggiato e dagli erici della sponda. Apparve un treno, fischiante, nero, sterminato: il treno di Roma, che per due o tre secondi fuggì su per le arcate fragorose e d’un subito sparve, come insinuandosi, rimpetto, nelle viscere della collina, alla opposta sponda del fiume. Palpitarono nell’aria, per pochi attimi, l’eco lamentosa dell’ultimo sibilo della macchina e un lieve fumo diffuso, che poi subito si sciolse. Allora i due uomini si spiccarono dal parapetto e, parlando piano, con le mani in saccoccia, col capo basso, scesero lentamente dal ponte nella piazza. Alle spalle loro cominciava a nereggiare la torre del ponte; la scaletta che va fino al[5] sommo di essa or appena s’intravedeva. Ma un lume brillò a un tratto in cima a un palo forcuto, piantato in uno de’ balaustri del ponte e proprio dove esso quasi s’unisce alle mura della torre: e allora gli ultimi gradini biancheggiarono, mentre il soldato che aveva acceso il lume scivolava lungo il palo, saltava dal parapetto a terra e scompariva sotto l’androne abbuiato, la cui sonorità fu brevemente risvegliata da un acuto zufolìo che cessò pur subito. Si rifece il silenzio, e il vecchio ponte rimase deserto.

Chi si fosse in quell’ora, arrivando dal Corso Appio, soffermato sul Piazzale di Porta Roma, avrebbe potuto cogliere nel suo momento più penetrante lo spettacolo della caduta del giorno. Le cose più vicine allo sguardo erano il fiume, il ponte antico, le rive oscure e la torre che terminava il passo del ponte: di là dalla riva erano campagne invisibili, nascoste, e più in là finalmente apparivano monti, con interrotto disegno, coloriti d’un verde ancor fresco. Un rosso lume persisteva ov’essi inclinavano al piano. Qui l’ultima fiamma del sole v’accendeva le cime d’un bosco; ma, sotto quel dolce fuoco, il fiume, lento, quasi immoto in quel punto, non se ne colorava. Rispecchiava invece la verde collina che gli sovrastava, e le acque luccicavano verdeggiando, immobili come quelle d’un lago percosso dal placido lume della luna. Un ponte di ferro, nero e tagliente, correva su quell’acque.[6] E sul ponte, e sul fiume, e sul tramonto era un cielo minaccioso, per ove alcune nuvole basse si rincorrevano, si gonfiavano a mano a mano e s’aggrovigliavano: le loro creste mobili e serpentine lambivano nell’alto un pezzo di cielo rimasto pallido e puro, e lentamente lo conquistavano. Fra tanto, come generata dalla lontana e invisibile campagna, una massa vaporosa, grigiastra e fitta, assorgeva rapidamente all’orizzonte. Era come una uguale cortina di fumo che si levasse da terra e cercasse di raggiungere le nuvole. Le investì, a un tratto, e con quelle si confuse e si diffuse. Nel medesimo tempo fu un borbottìo dietro quella cortina, un rombo lieve e trascorrente, che per poco parlò pur al dosso dei monti con più debole voce, e quivi si spense. Adesso il cielo s’era tutto oscurato. Tuttavia persisteva ancora, in coda a’ Tifati, il lume del sole: una fiamma sanguigna, diminuita ma tuttora viva, ardeva ancora in quel punto.

II

Un’ombra scivolò rapidamente sotto il muro dell’Arcivescovado, e a un tratto se ne spiccò e prese forma, dirizzandosi al Ponte di Annibale. Una donna. E pareva giovane, dall’agile incesso e dal disegno della persona. Pareva: da che le pieghe di uno scialle scuro, che dalla testa le ricascava sulle spalle e sul petto, le ombreggiavano[7] la faccia. L’ora già tarda rafforzava il pallido mistero di quel volto, biancheggiante, con apparenza indefinibile, tra lo sparato dello scialle. Tuttavia, com’ella, per un momento, quasi irresoluta, s’arrestava sul piazzale, un fanciullo la riconobbe e le si fece da presso. Il fanciullo veniva dal Corso Appio, e andava verso Riva Casilina. Portava la cartella dei suoi libri attaccata al dosso con due brevi corregge che gli passavano sotto le ascelle, e in una mano aveva una riga di legno con cui, camminando e zufolando, a volta a volta si percoteva la coscia.

—Oh, Letizia!—esclamò.

E ristette davanti alla donna, interrogandola con gli azzurri occhi contenti, pieni di candido e inconscio riso infantile.

La donna, sorpresa, si trasse addietro e si guardò attorno. Altri non era in quel luogo in fuori di lei e dello scolaretto; le loro due figure nere, vicine, differenti, si disegnavano nella vastità del piazzale su cui non ancora era scesa l’ombra. La donna tremava, borbottava parole che il fanciulletto non riesciva a comprendere. Lo guardò, a un punto, smarritamente, come se più non lo riconoscesse, e seguitò a restar muta.

—Dove vai?—disse il piccino.

E subito soggiunse:

—Io vengo dalla scuola. Oggi la scuola è finita più tardi. Ora vado a casa. Ho i guanti: guarda.[8]

E le mostrò la mano inguantata, in cui serrava il quadrello. L’altra egli aveva ficcata nella saccoccia dei pantaloncini fino al gomito. La cavò lentamente e la levò, spiegata. Era gonfia e arrossata; l’epidermide vi si screpolava sul dosso e si rigava di piccoli solchi lividi.

—Vedi... Ho i geloni.

Ella taceva, guardandolo. Non lo ascoltava. Il piccino tornò a domandare:

—E tu dove vai, Letizia?

Ora ella, improvvisamente, si piegava su di lui, gli gettava un braccio attorno al collo, si traeva addosso il ragazzetto obbediente, sorridente ancora. E come egli credeva che gli volesse dare un bacio, atteggiò e appressò le labbra. Ella non lo baciò. Gli mormorò rapidamente, guardandolo negli occhi:

—Tu non devi dire a nessuno che m’hai vista! Hai capito? A nessuno!

E l’atto e il suono della voce furono così imperativi che il ragazzetto, istintivamente, si ritrasse, e ritorse la faccia e cercò di liberarsi. Ma Letizia gli prese il mento nella mano, costrinse più dolcemente quel piccolo volto quasi impaurito, e lo rigirò, e si chinò fino a disfiorarlo col suo. Ripetette, con voce più bassa, con un soffio di voce:

—A nessuno! Dimmi che non lo dirai a nessuno!... Me lo prometti, Paolino? Senti, guardami! Guarda Letizia tua... Me lo prometti?...

Il piccino balbettò:[9]

—Sì... sì... Non lo dico a nessuno.

Ora Letizia lo baciava forte sulla guancia. Egli le mormorò sulla gelida gota:

—E alla mamma tua? Neppure?...

—No!—fece Letizia, come inorridita—Vuoi dirlo a mamma!...

—No, no!—promise il piccolo.

E si chinò e raccolse il quadrello che gli era sfuggito. Ora lo brandiva nella piccola mano inguantata. Ripetette, solenne:

—A nessuno!

Si rincamminò a piccoli passi. A metà della via la infantile sua curiosità lo punse: si volse. Letizia moveva al ponte, dirittamente, e la sua figura nera si rilevava, con fine disegno, sul tramonto. Parve a un tratto, ch’ella, soffermata, incerta, facesse per tornare addietro. Subito lo scolaretto riprese la sua strada verso Riva Casilina. Ma sul punto d’arrivare a un vico verso il quale s’indirizzava egli si fermò ancora una volta, e tornò a guardare dalla parte del piazzale già lontano. Ora Letizia, immobile, in mezzo al gran ponte, contemplava il fiume dal parapetto. Il segno della sua testa liberata dallo scialle, del suo busto proteso, delle sue braccia, lungo le quali lo scialle ricascava e s’allargava a’ gomiti puntati sul parapetto, era preciso. Il fuoco del tramonto ella raggiungeva col capo eretto, immoto. Una dorata aureola s’effondeva attorno a quel capo e quasi lo penetrava e lo immaterializzava.[10] Pareva che in quel rosso vapore esso a momenti fosse per dissolversi, mentre al vento lieve ed opposto una ciocca di capelli, a volta a volta, vi palpitava e, investito dallo stesso vento, un lembo dello scialle sbatteva i fili della sua frangia su quell’incendio lontano.

III

Due, tre volte, perdutamente Letizia s’era quasi sospinta dal parapetto sul fiume tacito e lento. Aveva chiuso gli occhi, s’era allungata sul largo parapetto col busto, col ventre, lasciando penzolare le gambe dentro del ponte; e con le braccia stese, irrigidite quasi sul vuoto, aveva aspettato che una forza misteriosa, invocata, implacabile, la sospingesse improvvisamente. Ma al senso pauroso del vuoto s’erano ritratte le sue braccia pian piano, gli occhi suoi s’erano pian piano aperti e subito rinserrati sull’acqua torbida e oscurata, e più rilassato e inerte era rimasto quel corpo senza volontà, sul parapetto. Ora ella quasi temeva di spiccarsene, anzi le pareva che nel punto in cui fosse per scivolare a terra qualcosa dovesse risospingerla e precipitarla. Rimase prona sul balaustro: poi riaperse pianamente gli occhi e riguardò il fiume, di sotto. Il Volturno trascorreva lento e silenzioso tra le quattro arcate di fabbrica imperatoria. L’acqua torva pareva, a tratti, stagnante, così tardo era[11] il suo cammino. Ma a quando a quando dei gorghi l’agitavano, e su per la giallastra sua superficie si rincorrevano pezzi di fradicio legno e batuffoli di paglia o di fieno. S’oscuravano di qua e di là le rive. Più avanti, sotto il ponte ferroviario, al punto ove esso cominciava a far gomito, l’acqua, incorrotta, luceva come uno specchio.

La donna interrogò un’ultima volta il fiume. Ora ne saliva un alito d’umidità, e dal liquido fangoso, che alle lor basi immani lambiva i pilastri quadrati degli archi, s’esprimeva quasi un fascino freddo.

—Che morte!...—ella mormorò.

E come, nell’atto in cui s’indugiava, le cupe acque la tentavano, l’attiravano ancora, un improvviso tremito la percorse tutta. Ritrovò a mala pena la forza di lasciarsi scivolare sul ponte, dal parapetto, e a questo addossarsi, quasi mancando. Confusamente le appariva, adesso, uno spettacolo nuovo: sulla destra l’Arcivescovado, e poi le case basse, e poi una via che procedendo lungo quelle case si restringeva e, nell’alto, ancora più in là, sul cielo bianchiccio, la cupola della chiesa della Santella: in fondo, rimpetto a lei, l’alto anfiteatro della Riviera Casilina il cui largo arco a un punto era terminato dalla fabbrica rozza e massiccia della polveriera. Le finestre di Riviera Casilina rattenevano ancora il lume del tramonto e se ne accendevano. Abbasso, quasi[12] sull’argine del fiume, l’infame contrada Mazzamauriello infilava su d’un sentiero invisibile le sue due o tre losche casucce a un solo piano.

Con la bocca serrata, con le braccia penzoloni, voltando le spalle al tramonto, Letizia non distoglieva lo sguardo da quel gruppo di case. Di là, su pel fiume, le pareva che le arrivasse una voce, un susurro, un appello. Fascinata, immobile, ella rimase lì, ritta tra le ombre che scendevano rapidamente sul ponte.

L’ora scoccò all’Arcivescovado. Letizia si volse attorno, percossa da quel suono. Era notte. S’era spento l’incendio del bosco, il cielo s’era chiuso, un velo plumbeo subitamente era sceso sulla Riviera Casilina e la nascondeva. Nell’ombra, alcune forme confuse passavano sullo spiazzo e si disperdevano. Allora ella mosse dal ponte verso il Corso Appio. Traversò lo spiazzo con celere passo, tutta raccolta nello scialle, affrettandosi. E pure sul punto di penetrare nel Corso illuminato e popolato, per un momento ella si soffermò e parve incerta.

—Andiamo!—mormorò a un tratto—Volontà di Dio...

Rabbrividì, come se avesse bestemmiato. Si tappò la bocca con un lembo dello scialle, quasi per soffocarvi, nell’atto stesso che le pronunziava, le parole sacrileghe. Ma ora, davanti a lei, luminoso e romoroso, il Corso Appio quasi la irrideva: alcune donne ridevano forte sulla soglia d’una[13] bottega, un cuoiaio canticchiava presso alla sua, appoggiato allo stipite, e con un cicaleccio allegro, parlando di cose vane e giovanili, sbucavano da un palazzo tre o quattro fanciulle e passavano.

—Sì, sì!—ella fece, disperatamente—È volontà di Dio!...

Entrò nel Corso Appio e andò avanti, risoluta.

IV

Procedeva, senza fermarsi, con la testa bassa. In Piazza dei Giudici, ove metteva il primo tratto Del Corso, da un globo enorme si diffondeva la luce elettrica e il vaporoso pulviscolo d’una pioggerella fitta e fredda roteava, penetrato da quel lume, per breve spazio attorno. Alle prime avvisaglie della pioggia i capuani avevano abbandonato la piazza; vi s’indugiavano ancora un gruppetto di soldati d’artiglieria, due carabinieri ammantellati, gravi, lenti, solenni, e lo scemo di Vico Cimino, un piccolo uomo di forme e di fisonomia scimmiesche, le cui membra piteciche ora s’aggrovigliavano al palo del lume elettrico, sferzate dalla pioggia e tremanti.

Come Letizia passò davanti all’Arco Mazzocchi una folla d’operaie del laboratorio pirotecnico ne uscì con alte voci confuse, imprecanti alla pioggia, e si rincorse lungo la murata del Municipio, e trascorse verso Porta Napoli.[14]

Letizia si mescolò a quella folla e andò avanti ancora. Di tratto in tratto se ne spiccavano due o tre operaie e pigliavano, per rincasare, altre strade. Presso Porta Napoli la comitiva non si componeva più che di tre di quelle donne, le quali a un tratto si misero a scappare, rincorrendosi, strillando, sollevando e raccogliendo le sottane, e presto scomparendo nel buio. Letizia s’arrestò. Si guardò attorno, cercando di risovvenirsi. Poi fece ancora quattro o cinque altri passi e sparì anch’ella in un palazzetto a una delle cui finestre del primo piano penzolava, sbattuta dal vento, la tarlata insegna d’una locanda.

Ascese la scala a tentoni. Non v’era lume; ma ella conosceva il numero dei gradini e il posto della porticina. A quella picchiò due volte, colla mano spiegata.

—Viene...—fece di dentro una rauca voce maschile.

S’aperse la porta e un fiotto di luce dilagò sul pianerottolo. L’uomo che l’aveva schiusa reggeva un lume nella destra e cercava di affisar bene la sconosciuta. Poi si trasse addietro per lasciarla passare.

—Be’?—disse, dopo avere cautamente rinchiuso l’uscio—In che vi devo servire?

Levò il lume fino al volto della donna e con l’altra mano fece riparo alla fiamma.

Ma ora ella si liberava dallo scialle, lo raccoglieva[15] sul braccio e gli si rivelava, immobile, ritta di faccia a lui, e muta, e tutta illuminata dalla fronte al petto.

Allora l’uomo esclamò:

—Gue’! Letizia!... Ah, tu sei, dunque?

E voltandosi a una porticina socchiusa, dietro la quale borbottava una vecchia voce femminile, annunziò:

—È Letizia di Riva Casilina... Letiziella... Quella del furiere...

Letizia si coperse la faccia. Cessò il borbottìo dietro l’uscio socchiuso. E la voce senile, mentre l’uomo riponeva il lume sulla mensa dalla quale s’era levato, rispose:

—Buona sera... Ora vengo.

—È Chiarina—disse l’uomo, e sedette daccapo alla tavola—Ha le gambe enfiate, con rispetto, e le unge con una pomata che si vende a Napoli. Ha un’emicrania da cavallo, per giunta...

Additò una seggiola.

—Mettiti a sedere... Vuoi crescere?

—Vi devo parlare—disse Letizia.

—Be’... Dunque siedi. Che mi dici? E il furiere che fa?

—M’ha lasciata.

—Il furiere?...—e con la mano spiegata l’uomo percosse la tavola—Possibile? Hai sentito, Chiarina?...—e si girò sulla seggiola, e si voltò a parlare forte all’uscio socchiuso—Dice che il furiere l’ha lasciata...[16]

—Vengo...—ripetette la voce.

Don Placido, un tipaccio rossigno, quasi calvo, animalesco, allungò la mano a un piatto colmo di stufato d’agnello e se ne recò un pezzo alla bocca, strappandogli, co’ forti molari, fin le ultime cartilagini. Si versò del vino. Sotto il lume, agguantata al collo della bottiglia, la sua mano tremava come per impeto di sangue pulsante: sul dosso vi rigurgitavano le vene enfiate e le dita unte e vellose, terminate da unghie rose e piatte, lucevano del recente contatto della vivanda. Un alito impuro emanava da quella stanza e dai suoi abitatori, come un fiato di anime e di materie corrotte. Dal mensale insudiciato, chiazzato di larghe macchie d’unto e di vino, si sprigionava un lezzo disgustevole.

—Sentite, don Placido...—disse Letizia subitamente—Io non posso restare più, a Capua. Capite, don Placido?... Sono rovinata, e la rovina mia non la posso nascondere più...

L’uomo la guardò fisamente. Poi, con gli occhi piccioli e vivi, percorrendolo tutto s’indugiò a interrogare quel corpo palpitante e raccolto.

Letizia arrossì. Radunò in grembo lo scialle e ve lo rattenne con le pallide mani spiegate.

—Ho capito—disse don Placido.

E si grattò il capo con l’indice della sinistra: poi con quello della destra e col pollice strinse e trasse avanti il labbro inferiore. Levò la testa, e parve che interrogasse il soffitto.[17]

Domandò, più piano:

—E a casa tua?

—Sono fuggita.

—Quando?

—Ora.

—Sei andata da lui?

—Inutile. Sono venuta qui.

—Parla più basso.

Seguì un silenzio. La grondaia del cortile gorgogliava: il romore era distinto, continuo. La pioggia non era cessata. Don Placido moderò la fiamma del lume, si levò, fece pesantemente due o tre passi nella stanzuccia e Letizia lo udì borbottare:

—Evviva il furiere!... E bravo!... Evviva!...

All’improvviso le si piantò di faccia, presso alla tavola. Le chiese bruscamente, brutalmente:

—Be’?... E ora che vuoi fare?... La vita?

Ella aperse le braccia e chinò la testa.

Don Placido, dopo un poco soggiunse:

—E a Napoli ci andresti?

—A Napoli?...—balbettò Letizia.

—Vi ho un amico. Ti raccomanderò... La città è grande, vedrai... E qualche altra vi ha fatto fortuna...

Lo interruppe un colpo di tosse che arrivava da un’altra camera la cui porticina, alle spalle di Letizia, era pur chiusa.

Letizia trasalì e l’uomo si mise a ridere.

—È la bionda—disse, con una occhiata a[18] quell’uscio—È una di Caserta. Parte a momenti per Napoli e io l’accompagno alla stazione.

La breve tossicina si fece udire un’altra volta, ma ora don Placido non vi badò.

—Per questo ti domandavo se ti piace Napoli. Se ti piace allora... vedi... puoi dirti fortunata, vi andrete assieme... Con la bionda. Ora deciditi. Hai capito? Grande città, gran gente, gran rumore, gran vita. Mica questi sordomuti di Capua, angiolo mio...

Tese l’orecchio. Pioveva ancora: il borbottìo della grondaia era superato dal crepitare della pioggia che percoteva il cortile.

—Se vuoi vedere la bionda è di là, in cucina. Si chiacchierava, appunto, quando sei arrivata. E s’è voluta nascondere: si vergogna. Be’, se vuoi vederla... Intanto io vado per un affare mio, fino all’Annunziata. E parla pure con Chiarina: tra femmine vi intenderete meglio...

A voce alta, mentre cercava il mantello e il cappello, annunziò:

—Vado fino all’Annunziata, Chiarí...

La voce rispose dall’oscurità:

—E il treno?...

—Parte alle dieci...—E don Placido, aperse la porta delle scale—V’è il tempo. Torno subito.

Sulla soglia si voltò a Letizia:

—La casa la conosci: accomodati pure. Aggiustati con Chiarina...[19]

Uscì. La porta si richiuse e Letizia rimase sola.

Si guardò attorno, guardò l’uscio piccolo dietro del quale ella indovinava donna Chiara, l’orribile vecchia, gigantesca come il marito, quasi calva, dall’occipite rigato di filze di capelli tinti, copiosa di carne molle, e ondeggiante dal petto enorme e floscio sul ventre...

Si levò in piedi. S’era mossa quella porta. Ma era il gatto. Apparve sbadigliando, un gatto grigiastro e avanzò, lentamente. Vide Letizia: si fermò, la guardò, poi, rincamminandosi, scomparve nella penombra.

Letizia sospinse la porta della cucina.

V

La bionda era seduta a una tavola, presso al focolare. Poggiava le mani aperte e la faccia su qualcosa che pareva un fagotto. Un lieve soffio inclinava accanto a lei la fiammella d’un lume a olio piantato sulla tavola tra le bucce d’un’arancia.

Letizia urlò:

—Marta!...

Ma come? Oh, Dio! Dio! Quella che il furiere aveva presa dopo di lei, quella per la quale l’aveva lasciata! Marta, Marta, là dentro! Nella casa di don Placido!...

La bionda, come istupidita, la bocca schiusa, gli occhi incertamente affisati, allungava la testa[20] nell’ombra. Poi congiunse le mani, come accordandole a una muta implorazione. E Letizia, che s’appressava, la udì infine mormorare con voce quasi di pianto:

—Tu si’ Letizia d’ ’a Riva Casilina...

E a un tratto si sentì afferrare le mani, se le sentì avvincere ai polsi e piegò, e quasi s’abbandonò su quel corpo palpitante e un po’ molle da cui, nell’ombra afosa della stanzuccia, vaporava un alito tepido di gioventù e di salute.

La bionda balbettava:

—Mbe’, perdòname, perdòname!...

Ora piangevano, piano, sedute vicino, così vicino che i loro ginocchi si toccavano e la scarsa fiamma della lampa, di volta in volta investita e piegata dal soffio esterno, stentava a disegnare e a separare que’ due corpi quasi immoti...

VI

—Avanti, avanti!—urlava don Placido, nella notte, correndo lungo la Via della Stazione—Ora ci verrà addosso tutta l’acqua del santissimo cielo! Ah, Corpo di Cristo! Avanti!...

L’ombra sua nera e veloce scivolava e fuggiva su’ muri. Le donne lo seguivano, tenendosi per mano, chiuse ne’ loro scialli pesanti, inciampando, di tratto in tratto, ove si faceva più fitta l’oscurità. Così passarono per via Gran Quartiere,[21] poi davanti alla Villa Ferdinandea le cui statue impallidivano confusamente, poi davanti al teatro. Adesso arrivavano alla porta vecchia della città. Sotto l’androne si scaldavano a una grande fiammata di fascine due guardie di finanza, e quella di piantone canticchiava, con le mani in saccoccia, addossata a uno stipite.

—Salute!—le gridò don Placido, seguitando a correre.

—Salute e bene!—gridò la guardia.

Adesso le loro ombre s’inseguivano sul ponte delle fortificazioni: sotto gli stivaloni di don Placido l’acciottolato crepitava. Sui fossati, sulla vallata di Capua era sceso un velario oscuro.

—Avanti! Siamo arrivati!—egli urlò ancora—Io vado pe’ biglietti. Prendo la terza! Passate per l’ultima porta a destra e aspettatemi sul marciapiedi...

Bruscamente apparve la fabbrica della Stazione. Letizia si volse. Tutto era scomparso nella notte, dietro di lei: la città, la campagna, i bastioni. Nessuna luce brillava quasi più in quel lontano. Tutto finiva. Allora stese le braccia verso Capua e singhiozzò perdutamente:

—Addio! Addio! Addio!...

Poi si sentì trascinare dalla bionda, che quasi la sollevava, e si ritrovò sul marciapiedi, davanti al treno nero, interminabile. La macchina sbuffava. Un vento umido e freddo la percosse in faccia. Udì confuse voci e a un tratto urlare:[22]

—In vettura! In vettura!

Uno sportello si spalancò. La bionda salì per la prima, stese le braccia, afferrò Letizia e se la trasse dentro. Lo sportello si chiuse sbatacchiando. L’impeto del treno che s’avviava le gettò l’una addosso all’altra.

Lo scompartimento era quasi deserto. Due fattori fumavano sul sedile opposto, e subito si misero a parlare di derrate, d’olio, di vino, a voce alta. La pioggia sferzava i vetri dei finestrini.

VII

—Arriviamo...—le mormorò Marta, a un tratto.

Per più d’un’ora, senza parlare, senza neppure guardarla, se l’era tenuta a fianco, stretta, avvinghiandola quasi, rinserrando la stretta a ogni scossone del treno. Ora le parlava sottovoce, rapidamente, quasi all’orecchio.

—Ascolta... Napoli non la so, non ci sono mai stata. Dicono ch’è una città grande, immensa, pericolosa, un inferno... M’ascolti?...

Letizia assentì con un moto del capo.

Marta continuò:

—Ci ha perdute lo stesso uomo. Bene, non importa... Senti... Siamo come due sorelle, ci siamo conosciute da tanto tempo... Pensa così, come penso io. E tu ora mi vuoi bene, e io ti voglio bene... Senti...[23]

E la voce s’inteneriva sempre più, maternamente, e tutte e due quelle donne palpitavano. I fattori seguitavano a parlare, più basso.

—Io non ti lascerò mai!—balbettò ancora la bionda. E in quel patto cercò le mani di Letizia e le strinse—E tu giurami lo stesso! Tu non mi devi lasciare!... Ho paura di Napoli... Senti... Dimmi che m’aiuterai, che mi difenderai... Letizia, giuralo! Giuralo a Marta, a questa povera disgraziata!...

Letizia rispose, con un soffio di voce:

—Sì, sì... giuro...

Il treno entrò sotto la tettoia e passò sugli scambii con un fragore assordante. I fattori si levarono e agguantarono le loro valigie. Una voce, due, tre urlarono nell’oscurità:

—Napoli! Napoli! Napoli!...

Marta si buttò giù e stese le braccia alla compagna. Si spalancarono in quel punto gli sportelli di tutte le vetture e vomitarono sul marciapiedi un’ondata di soldati. Il ventottesimo d’artiglieria, il reggimento del furiere, era partito con loro da Capua. Ora i primi ranghi si formavano in fretta, sotto la tettoia, e confusamente s’udivano altre voci, e lampeggiavano altre armi laggiù in coda al treno.

Gli ufficiali gridavano i loro ordini e correvano qua e là lungo il treno.

—Vieni!—disse Marta, trascinando la compagna.[24]

Sorpassarono i cancelli, s’arrestarono per un momento, ignare, indecise, sotto le arcate dell’uscita sulla piazza.

Era quasi la mezzanotte. La pioggia batteva sul selciato. Migliaia di lumi, alti, bassi, ora bianchicci, ora rossastri occhieggiavano nella vasta piazza e dalle vie circostanti, ove le case apparivano e sparivano in una nebbia nera che a volte pareva che le dissolvesse.

Le due donne, attonite, irresolute, scesero dal marciapiedi. Ma quel fiume di soldati che le aveva rincorso fu sopra di loro d’un subito, e le sospinse, e le separò. Passò tutto il reggimento, quasi fuggendo, sotto la pioggia. Letizia fu ricacciata sotto i giardini, dalla parte del Vasto. Ella sbarrò nell’oscurità i suoi grandi occhi azzurri pieni d’orrore.

E urlò:

—Marta!... Marta!

Nessuno le rispose.

Letizia si sentì mancare. S’addossò a un fanale. Raccolse la voce e con uno sforzo supremo chiamò ancora:

—Marta!... Marta!... Marta!...

Nessuno, nessuno...

Ora ella era a fronte dell’ignoto, nella misteriosa notte del suo destino.

Sola.


[25]

PESCI FUOR D’ACQUA

[27]

I

—Son deciso, ecco!-ripetette seduto di faccia a me alla medesima tavola, il mio compagno d’ufficio de Laurenzi—Ormai son deciso a resistere! E staremo a vedere! L’ufficio? I doveri dell’ufficio? L’orario? Ma l’ufficio non conta nulla, mio caro, a fronte di tutta una vita, di tutti i ricordi che v’inchiodano al posto ov’è stato il padre. Il padre, capisci? E io dunque dovrei rinunziare alla scrivania di mio padre, alla stanza dov’è stato mio padre, all’aria che ha respirato mio padre! Ah, sì per esempio! Ma voglio vederlo, perdio!

S’interruppe. Il cameriere, uno de’ più anziani di quella ignobile gargotte ove s’andava a far colazione tra preti, avvocati, studenti e cantanti del teatro vicino, ora gli poneva davanti un piatto di baccalà alla livornese fumigante in una brodaglia rossastra. Gli occhi miopi del de Laurenzi s’appressarono al piatto e vi si sprofondarono e lo interrogarono avidamente: tra[28] quel vapore succulento le nari di un lungo naso floscio palpitarono e si dilatarono.

—Alla livornese, professore—disse il cameriere—Poi me ne parlerà. E appresso ha ordinato?

—Un formaggio e un finocchio.

—Il vino solito?

—Solito.

Si mise a mangiare, voracemente. E io, che avevo terminato il mio modesto asciolvere, sorseggiando un caffè e fumando mezzo toscano mi misi a guardarlo come se lo vedessi per la prima volta.

Alto, magro, con le spalle incurvate, con una gran barba grigiastra e incolta pel cui pelo intricato or si disseminavano le briciole del pane e le gocce del brodo untuoso, con orribili mani dalle dita nodose e lunghe che parevano artigli, mal vestito, tutto chiuso in un vecchio cappotto stinto e rattoppato il cui bavero che un tempo era stato ornato di pelo marrone or ne serbava solo quattro o cinque ignobili ciuffetti, il mio compagno di ufficio de Laurenzi, un uomo sui sessanta anni suonati, incarnava pittorescamente la pietosa straccioneria del travettismo. Ammogliato, carico di figliuoli e di piccoli debiti pe’ quali il suo stipendio era strappato a brani e giorno per giorno alla cassa dell’economo, egli era un di quelli sciagurati il cui contatto uggioso ve ne sollecita quasi a non[29] indulgere alle volgari abitudini e a’ miserabili vizii, ma ch’io m’inducevo a creder degno, il più delle volte, della più malinconica commiserazione.

Era stato—raccontava—giornalista di grido, nell’Alta Italia, a’ suoi be’ tempi: lo era ancora qui, adesso, in una gazzetta quotidiana che stentava parecchio la vita e nelle cui trascurate colonne il de Laurenzi poneva, di volta in volta, certe sue rievocative narrazioni partenopee scialbe e sciatte, disseminate di ampollosi rimpianti e miserabilmente intessute sulle cronache de’ giornali del tempo, in cui frugava tutta la santa giornata.

Nella biblioteca governativa, ov’ero anch’io, il de Laurenzi era entrato quando essa aveva a capo un prelato di cui bastava soltanto soddisfare l’olimpica vanità per guadagnare, se non la stima, la indifferente acquiescenza. Morto costui la biblioteca non aveva più potuto offerire alle gratuite libertà che l’ex giornalista vi s’era conquistate un comodo asilo remuneratore. Ora bisognava lavorare e frequentare l’ufficio. Il nuovo bibliotecario era severissimo: guardava nel registro d’ingresso degl’impiegati, segnava le ore e i minuti a’ tardi arrivati, mandava in giro, di volta in volta, ordini del giorno in cui si raccomandavano lo zelo, l’ossequenza all’orario, la diligenza ne’ compiti, e pretendeva che tutti firmassero quelli ukase in segno di rispettosa adesione.[30]

Una schiavitù, sissignori: una soppressione spietata, implacabile, dell’ingegno e della personalità, una scettica considerazione dell’io pensante e creante, degli altrui nervi, dell’altrui cultura quando non fosse quella delle scienze naturali e delle matematiche, nelle quali quel nuovo direttore era spaventosamente agguerrito.

Ah, sì: portate in questi polverosi e silenziosi antri, foderati della storia cartacea del pensiero umano, portatevi, se vi riesce, la giovialità, l’arditezza, il libero arbitrio, la poesia, l’indipendenza: portatevi il vostro talento, la vostra modernità, le vostre abitudini sincere e svegliate, se vi vorrete vedere a mano a mano sfiorire tutta codesta ancor viva giovinezza dell’animo vostro! Mio Dio, che aridità e che tristezza tra queste mute pareti, gravi d’in folio e d’enciclopedie: tra queste mura sorde a ogni voce impulsiva e pur così impregnate de’ pettegolezzi, delle invidie e delle guerricciuole che costituiscono il tessuto connettivo della vita degl’impiegati, il continuo esercizio della loro parola aspra e mordace, l’alimentazione quotidiana dell’ozio e dell’ignoranza del loro pensiero!

Che diamine, dunque, pretendeva di non volere lasciare qui, come un brano del suo cuore dolente, il mio compagno de Laurenzi? E di dove gli veniva tutto questo attaccamento atavo-topografico, espresso con tanto impeto melodrammatico? Io non sapevo, in verità, figurarmi[31] e ammettere tra il baccalà alla livornese e l’evocazione paterna alcuna tollerabile analogia. Quest’uomo dunque componeva con tanta assoluta ignoranza della loro espressione dissimile le sensazioni della psiche e la più brutale delle soddisfazioni fisiologiche?

—Comprenderai—disse lui, quasi come per rispondere al mio pensiero, e dopo aver vuotato il suo terzo bicchiere di vino bianco siciliano—comprenderai ch’io mi trovo nelle biblioteche non per le mie aspirazioni, non per elezione mia. Ti pare? Un impiego governativo! Cioè una sgobbatura! Una servitù! Ma, poi che là dentro mio padre, ch’era uno studioso, è stato impiegato anche lui e ha vissuto metà della sua vita io vi ho voluto iniziare come una tradizione metodica ed esemplare nella storia di queste successioni familiari. Usciamo?

—Usciamo. Bada ch’è ora di tornare lassù.

De Laurenzi afferrò un tovagliolo e si forbì le labbra, in fretta, e poi lo buttò sulla tavola tutto insudiciato, come uno straccio. Si levò: cacciò la mano nella profondità d’una delle saccocce del suo cappotto, vi pescò e ripescò per buon tratto, e infine cavò fuori quell’artiglio armato d’un mozzicone di sigaro.

—Andiamo—mi fece, dopo avere acceso il mozzicone.

Sulla soglia della trattoria s’arrestò, per ricominciare il discorso.[32]

—E così eccomi in guerra aperta col signor direttore. Si capisce: io sono uno straordinario, pel momento: io sono entrato nel sancta sanctorum senza i titoli che ci vogliono. Titoli? E il mio ingegno, il mio passato? Questi signori non vedono che bibliografia, schedatura, inventarii. E guai a chi è qualcuno o qualcosa! E poi sotterfugi, rapporti segreti, denunzie: ecco la loro maniera di battagliare. Ora, come l’hanno insegnato anche a me, loro mandano ufficii—e io mi dò per malato e vado a Roma.

Si scappellò, con un saluto profondo.

Colui ch’egli aveva salutato gli fece pur di cappello e passò via, in mezzo a quattro o cinque altri che lo accompagnavano e con cui discuteva calorosamente.

Lupus in fabula—disse de Laurenzi—L’onorevole Maliberti. Non lo conosci?

—No.

—Vuoi che ti presenti, un’altra volta?

—Ma no!...

—Fai male. Una potenza, sai. È lui che m’ha presentato al ministro. Ed è così che sono a posto, adesso.

Riaccese il suo mozzicone di sigaro, che s’era spento. E soggiunse:

—Vedrai, mio caro. S’è battagliato, a Roma, giorni addietro. Ma l’ho spuntata, questa volta. Francamente, se io fossi te, cercherei di conoscere l’onorevole. Non sei elettore, tu? No?[33] Come, non sei elettore, non ti sei fatto inscrivere?...

Affrettavo il passo. Egli s’accorse della poca attenzione onde accoglievo le sue parole e s’arrestò, a un tratto.

—Tu dunque rientri in ufficio?

—E tu non ci vieni?

—Io no. Vado al giornale. Ho un articolo da correggere in bozze di stampa. E mi preme più quello, naturalmente.

Feci l’atto di rincamminarmi.

—Se domandano di me...

—Ho capito...

—Ecco... Si potrebbe inventare una frottola. Un figlio malato, per esempio. L’influenza. Si può dire che mi sono venuti a chiamare da casa mia, d’urgenza. Una malattia a tua scelta. E poi mi telefoni al giornale. D’accordo?

—Sì—mormorai—d’accordo.

Egli s’era già allontanato, a gran passi, trascinando pel fango di via Costantinopoli le sue scarpacce inzaccherate sulle quali sbattevano, molli e intrise di mota, le bocche larghe e logore de’ suoi pantaloni.

Ora passava un carro funebre, di quelli che fanno continuamente la via di Foria e s’avviano al cimitero. Il de Laurenzi, curvo, con la mano alla falda del cappello, scivolò accanto all’enorme e nero carrozzone dalla cui cimasa dorata pareva che volessero spiccare il volo, ad[34] ali spiegate, quattro polisarcici angioli di legno. La via, su quel transito, s’era fatta silenziosa, a un tratto. E a me parve che tanto da quel lento carro come da quell’uomo pur funebre si sprigionasse in quel punto una medesima espressione mortuaria il cui senso mi durò dentro per qualche secondo. Poi tutto si tolse dalla mia vista. Ma sopra di me e sull’animo mio, mentre m’avviavo alla porta del mio ufficio, pesava ancora, come l’ultimo segno di tanta malinconia, un cielo invernale plumbeo e greve. L’aria mi pareva satura d’una umidità uggiosa, e associata a tutta quella tristezza, a tutta quella miseria.

—Spero che non mi chieggano di costui!—m’auguravo, salendo le scale della biblioteca.

Come mi seccava di dover mentire, se mai! Una collera sorda, commista d’insofferenza e di sprezzo, mi sommoveva contro quest’uomo che intendeva piegarmi a una ripugnante complicità. Lui tenero dell’ufficio, della stanza paterna, della vita di quel luogo severo e nobile—lui, così svogliato, così cinico, così pronto a barattare la sua dignità e il suo amor proprio con una menzogna da scolare?

Un uomo di quasi sessant’anni![35]

II

—Stazza l’aspetta—mi disse l’usciere di guardia alla porta, come mi vide—Ha domandato di lei più volte.

—Stazza? E che vuole? Dov’è?

—Nella stanza del direttore.

Era uno degl’impiegati più anziani, un uomo eccellente, nel cui bonario sorriso io m’abbattevo ogni mattina, da quattro o cinque anni che frequentavo l’ufficio: il solo sincero sorriso che ritrovassi là dentro. Nella biblioteca Stazza era entrato a trent’anni; ora ne aveva sessantacinque suonati. Era ancora un colosso: nelle sue larghe mani poderose s’ammucchiavano pile enormi di libri, ed egli le reggeva e le portava qua e là senza alcuno sforzo visibile, con le braccia tese, lento, paziente, tranquillo. E come la pratica scienza del luogo ove quasi aveva vissuto tutta la sua vita ve lo ritrovava acconcio e disposto alle fatiche più improbe, egli non se ne stancava. Si conosceva illetterato, sapeva la insufficienza della sua cultura, meno che mediocre e null’affatto accresciuta neppure dalle più immediate e continue comunioni co’ sapienti compagni locali e con i lettori—e però badava, offerendo e adoperando come un valore succedaneo la forza delle sue membra poderose, a compensare questa sua grande pochezza spirituale.[36]

Di volta in volta, quando per cercare qualche libro mi capitava di entrare nella sua stanza—ov’egli non s’era fatto portare che una delle più vecchie e più umili scrivanie e due seggiole, una delle quali per riporvi il cappello—la bonaria semplicità di quell’uomo mi vi tratteneva per un pezzo. Era la mezz’ora in cui Stazza si concedeva un breve riposo. Facevamo quattro chiacchiere: io addossato a uno scaffale, con tra le mani il libro che mi occorreva, lui seduto alla sua scrivania, coi gomiti sulla tavola.

Una volta, non so come, non ricordo più perchè, gli chiesi, sorridendo:

—E lei crede che si possa aver passione per la biblioteca, noialtri?

Stazza, serio, socchiuse gli occhi, con quel suo solito vezzo di quando voleva dir cose gravi.

—Si possa? Si deve, caro collega. Guardi, io non ho moglie, non genitori, non fratelli. E per me la biblioteca è la moglie, è la madre, qualcosa come una famiglia. Penso, talvolta, che avrei avuto quasi il diritto di nascere qui, in una di queste stanze. Lei ride?

—No, anzi, trovo naturale. S’intende, naturale per lei che non fa altro, che non conosce altro, perdoni.

—Già, lei fa un’altra vita. E poi...

Rimase in forse un momento. Poi soggiunse, con aria di sincera umiliazione:[37]

—E poi lei sa tante cose ch’io non so. E poi è giovane, e ha da pensare a tante altre cose.

—No, non è questo. Dica che ciascuno non comprende se non quel che ritrova in se stesso.

—Sarà. Ma glie ne voglio dire una: stanotte, per esempio, sa lei che cosa ho sognato? Il nostro gatto rosso che scorrazzava nella sala degl’incunaboli.

Sorrideva, candidamente. In quel punto mi sentii quasi intenerito da quella innocenza pacata e soddisfatta, illuminata, come da un dolce riverbero dell’anima, da due limpidi occhi azzurrini. No, non ponevo, è vero, quell’inconscia virtù in relazione con tante altre della vita, più stimabili, più alte, e non mi pareva di doverne cavare ammaestramento: quella era una forma nulla, una espressione quasi brutale di accontentamento, l’indizio ignaro e pietoso d’una natura inferiore, tranquillamente passiva. Tuttavia quella felicità fortificante, d’un tonico effetto morale, pareva che mi volesse ammonire sulle cose della vita.

O non avevo davanti a me un essere ch’io forse giudicavo troppo frettolosamente? La mia fantasia, disposta ad architettare, ora mi offeriva un più sottile giudizio intorno ad esso: io gli supponevo, adesso, una rinunzia progressiva, una riduzione continuata delle sue pretensioni, delle[38] sue speranze, della sua libertà, e tutto questo mi sembrava mascherato da quel faccione rosso e pletorico, traspirante una giovialità e una contentezza fanciullesche e rischiarato da un sorriso perenne.

Così, talvolta, quando potevo coglierlo in qualche momento in cui mi si mettesse tutto quanto sott’occhi, io facevo scorrere sulla superficie di quest’uomo il mio sguardo investigatore, e tentavo di penetrarla. Sapevo ch’egli era solo, che in casa non aveva che una vecchia serva, che l’abito suo di trovarsi sempre pel primo in ufficio e d’uscirne sempre l’ultimo—urtante metodicità per gli apprezzamenti d’un malato di nervi com’io sono—non s’era mutato una sola volta da quando Stazza era entrato in biblioteca. Costui dunque non aveva avuto gioventù, passioni, disillusioni, scoraggiamenti? Che cosa era nel passato di questo gigante rubicondo che violentava e superava tutte le leggi impulsive alle quali tre quarti dell’umanità va soggetta?

Finii per arrendermi a quella impenetrabilità pacifica e indifferente. Ma un senso di tedio e di stanchezza mi allontanò dal mio compagno. Lo incontravo, ci salutavamo freddamente, ed io gli sfuggivo, accrescendo così, senza forse desiderarlo, il numero delle persone la cui comunione mi diventava, là dentro, ogni giorno più insopportabile.[39]

III

Entrai nella stanza del direttore.

Stazza, impiedi davanti alla costui scrivania, si voltò. Mi venne incontro e mi tese le mani.

—Mille scuse! Ma io non potevo andarmene senza averla salutato. Addio, caro signore... Io me ne vado.

Interrogavo con gli occhi il direttore e gli altri miei compagni, che circondavano Stazza, silenziosi.

—Un fatto deplorevole—disse il direttore, rompendo il silenzio—L’ottimo nostro Stazza è stato collocato a riposo. Ci lascia.

—Come!—esclamai—Così! Di punto in bianco?

Stazza chinò la testa.

Il direttore con la punta del tagliacarte additò un foglio sulla sua tavola.

—M’arriva ora la comunicazione ministeriale. Le solite sorprese. Ma, Dio mio, non avrei mai immaginato!...

Le mani di Stazza mi si protendevano, tremanti. Lasciai cadere in quelle le mie, e le strinsi, due, tre volte. Guardai in faccia il colosso: era turbato, ma si sforzava di parer tranquillo. Soltanto s’era arrossato un poco più agli zigomi. Si passò una mano sulla fronte, si[40] guardò intorno, tornò a voltarsi verso la tavola del direttore, smarritamente.

—Dunque...—gli balbettò—Se lei mi permette... Vado. Spero bene di rivederla, qualche volta...

—Macché! Ma vuole andarsene proprio adesso? Ma v’è tempo. Guardi, faccia come se il decreto non glie l’avessi comunicato ancora...

—No, no!—disse lui—Mi permetta, mi scusi. Voglio essere ossequente...

—Peccato!—esclamò il direttore, come lo vide uscire e scomparire dietro l’uscio—Dopo trent’anni!

Si levò, s’incamminò fino alla porta, si arrestò sulla soglia. Di fuori s’udivano le voci degl’impiegati, la voce di Stazza che si licenziava, confuse.

Il direttore rientrò. Andò al balcone, guardò nella via, senza badarvi.

Eravamo rimasti soli. Egli tornò addietro, s’appressò alla scrivania, vi cercò qualche carta, la lesse e la buttò lì, sulla tavola, con un moto sdegnoso.

—Mi permette?—chiedevo.

—Guardi, guardi!—esclamò—Guardi un po’ con chi mi sostituiscono quel disgraziato. Aspetti un momento... Legga pure.

Mi pose quella carta sotto gli occhi.

—Come! De Laurenzi!

—Già, s’intende. Ha brigato e v’è riescito.[41] Entra in organico e prende il posto di Stazza.

Soggiunse, dopo un momento, rimettendosi a sedere alla sua scrivania:

—S’accomodi pure.

IV

Passò un mese. In questo tempo gli studenti fecero chiasso, al solito, e ruppero vetri e banchi: l’Università fu chiusa e il numero de’ lettori, nella nostra biblioteca, s’accrebbe del doppio. Vi fu un gran da fare e Stazza fu dimenticato. Soltanto qualche volta, in un momento di tregua, il suo nome ricorreva nel vaniloquio degl’impiegati raccolti nella sala della distribuzione intorno all’ultimo bollettino del ministero, ove apparivano—già indicati, con una crocetta, da qualche necrologo de’ nostri compagni—i nomi di coloro che o eran morti o erano stati collocati a riposo. La constatazione de’ decessi e de’ ritiri—un refrigerio per i superstiti—occupava quelle constatazioni e quelle conversazioni fredde e indifferenti; per lo più si discuteva sugli anni di servizio del croce segnato o sulla somma della sua pensione. Ma la psicologia di queste sparizioni—un legame di troppo sottili e pietose induzioni che in altri spiriti potevano forse rampollare dall’esame di casi somiglianti—non[42] veniva certo a turbare l’animo de’ miei compagni. Stazza, dopo tutto, sottobibliotecario a tremila, liquidava, come si dice, quasi dugento lire al mese. Una fortuna per un illetterato, una tabula rasa come lui, che la doveva a quei benedetti tempi borbonici ne’ quali era così facile di entrare, senza le qualità di cultura che vi occorrono, in un instituto scientifico come di mettersi a tavola in una pubblica taverna.

—Vuol vedere Stazza?—mi fece un di que’ giorni l’usciere addetto alla spolveratura della mia camera.

Con uno strofinaccio tra le mani s’era avvicinato al balcone chiuso e guardava nella via, attraverso a’ vetri.

—Venga, venga! Eccolo lì...

Mi levai e corsi al balcone.

—Lo vede?

—Dov’è?

—Non lo vede? Lì, seduto fuori al caffè di rimpetto. Lo vede? A quel tavolo a sinistra della porta. Eccolo che leva gli occhi. Guarda quassù, guarda i nostri balconi.

—Difatti.

Il colosso era lì, seduto a un tavolinetto tondo sul quale stavano il vassoio e la chicchera del caffè. Posava le mani sulle ginocchia e di volta in volta alzava gli occhi e li faceva trascorrere sulla facciata della biblioteca, lentamente.[43]

—Così fa ogni giorno, da un mese—disse l’usciere.

E ripassò il panno sui vetri perchè vedessi meglio.

—Arriva al caffè sulle nove ore, si mette a sedere lì fuori, e vi resta fino a mezzodì. Poi torna dopo pranzo e si rimette allo stesso tavolino e non se ne leva che alle quindici.

—E tu come fai a saper tutto questo?

—Me l’ha detto il caffettiere. Il signor Stazza gli dà una lira al giorno, per l’incomodo.

Mi rimisi a sedere, pensoso. L’usciere, che non si partiva dal balcone, rideva e continuava a guardare rimpetto. E come l’alito suo tepido appannava la vetrata di volta in volta, egli tornava a soffregarla con lo straccio.

—Insomma,—seguitava—la biblioteca non se la vuol proprio scordare. Se n’è dovuto andare e nemmeno la lascia in pace. Adesso ci fa all’amore da lontano, tutti i giorni.

Non risposi. Ordinavo macchinalmente un mucchio di schede ed aspettavo, con una certa nervosità, che l’inserviente smettesse e se ne andasse.

—Ecco che s’addormenta... Venga a vedere. S’è addormentato...

Tornai a levarmi e mi accostai daccapo alla vetrata. Stazza aveva allungato un braccio sul tavolino e reclinata la testa sul braccio. Il cappello di paglia gli era scivolato di su le ginocchia[44] a terra. Un lustrascarpe, che aveva posta la sua cassetta all’ombra, a pochi passi, glie lo raccoglieva e lo posava sul tavolino, accanto al vassoio.

L’ora meridiana avanzava: il sole batteva su’ muri. Uscì, a un tratto, dalla bottega il garzone del caffettiere e si mise a girar la manovella per fare abbassare la tenda, che scese, lenta. Sul deserto e largo marciapiedi, su’ tavoli, su Stazza si diffuse un’ombra uguale, per buon tratto.

Mancava qualche diecina di minuti alla chiusura della biblioteca. E svogliatamente, aspettando che trascorressero, ricominciavo a ordinare le mie schede. L’inserviente se n’era andato: le vaste sale, fino a poco prima turbate dal molesto vocio de’ distributori, s’acchetavano, adesso, in una pace profonda.

Improvvisamente—mi dimenticavo nella mia bisogna—il grande orologio della stanza de’ manoscritti suonò le quattro. Vibrò quel suono nel silenzio, con un tintinno allegro, come di cristalli percossi. Era l’ora. M’avviai alla porta.

Ma, sulla soglia, uscendo, m’arrestai, sorpreso. Lì sulla soglia, sul ballatoio, su per le scale vedevo agitarsi una folla attonita, mormorante, che quasi m’impediva il passo.

Risaliva le scale, di furia, Pandolfelli, un distributore.

Una voce gli chiese, dal balaustro del ballatoio:

—Di’, è vero? È vero?...[45]

Pandolfelli rispose, alto:

—Sì, è morto.

Mi vidi di faccia l’inserviente, in quel punto. Apriva le braccia, smarrito.

—Stazza!—mi fece.

E battè palma a palma, convulso:

—Lì davanti al caffè, poco prima. Un colpo. Si ricorda? Quando pareva addormentato.

Apparve il direttore, pallidissimo. Accorrevano altri compagni. Tre o quattro lettori s’indugiavano sul ballatoio, senza comprendere.

Il direttore mi chiese:

—Scende?

Non mi sentivo la forza. Ma lo seguii, e ci seguirono pur tutti gli altri.

Nella via, come uscimmo dal palazzo della biblioteca, il caffè ci apparve subito, rimpetto.

La folla si pigiava davanti alla porta.

Pandolfelli si fece largo ed entrò nella bottega.

Subito ne riuscì, annunziando:

—L’hanno posto in una vettura e portato ai Pellegrini. Ma era morto. Ho parlato col medico che s’è trovato a passare. Una sincope.

Uscì sulla via il padrone del caffè, con le lagrime agli occhi.

—Quel povero signore! Che disgrazia, hanno visto? Veniva qui ogni giorno, sempre alla medesima ora. Anzi, ieri, m’aveva detto, col suo solito buon sorriso: Lei si meraviglia, non è vero? Già: sono puntuale. Mi hanno mandato[46] via di là—e mi mostrava il palazzo ove stanno lor signori—ma io ci continuo a stare, col pensiero, almeno.

La moglie del caffettiere, una piccola donnetta, era uscita anche lei sulla strada.

Mi pose una mano sul braccio. Mormorò:

—Ma è vero che l’hanno mandato via?

La guardavo, senza risponderle. Udivo dietro di me le voci, tranquille, dei miei compagni.

Diceva Pandolfelli a un altro:

—È morto in orario, hai visto?

La voce di quello che segnava le crocette fece notare lenta:

—Un posto vuoto.


[47]

«COCOTTE»

[49]

I

Erano le cinque ore del mattino. La grande lampada posta davanti alla statua di legno di Sant’Ignazio ardeva nella cappella del carcere femminile di Santa Maria ad Agnone, ancora addormentato. Fra poco le recluse avrebbero udito la campana della sveglia e sarebbero scese a borbottare le solite preghiere nella penombra di quel tempietto freddo e malinconico, i cui quattro finestroni affacciano sul tortuoso vicolo afrodisiaco intitolato dallo stesso nome delle prigioni e frequentato da soldati e da male femmine.

In quell’ora—l’ottobre era agli ultimi suoi giorni—il vicolo, affatto deserto, offriva a’ sorci o a qualche cagnuolo abbandonato e vagante la copiosa vettovaglia de’ suoi rifiuti e della sua spazzatura, ammonticchiati qua e là. Due fanali a gas, dal muro di faccia alle carceri—il muro cieco e altissimo d’un monastero di Clarisse—stendevano due braccia di ferro, una delle quali, spiccandosi di su la piccola porta antica del monastero, coronata da un festone marmoreo e dallo[50] stemma quattrocentesco d’una famiglia illustre, si puntava proprio rimpetto a uno dei finestroni della cappelletta e ne inquadrava la sagoma sulla interna e prospiciente parete della chiesuola, ove parte d’un vecchio quadro se ne illuminava anch’essa, vagamente. L’altro fanale, molto più lontano, stava sulla garitta della sentinella, addossata allo stesso muro claustrale lì ove il vicolo cominciava a far gomito, e a qualche passo dalla porta delle prigioni.

Il silenzio era alto, la notte fresca.

La sentinella—un soldato di fanteria, che s’era posto il fucile ad armacollo—passeggiava con le mani in saccoccia, e zufolava. Talvolta, lasciandosi a dietro per buon tratto la sua garitta, allungava il passo fino all’arco depresso ed oscuro ove il vicolo sbucava, nell’alto, sulla deserta via de’ Santi Apostoli. Talvolta, soffermandosi, piantato sulle gambe allargate, il soldato interrogava lungamente, con gli occhi in su, quella fetta di cielo che le alte mura della prigione e quelle del monastero pareva che attingessero con le loro creste taglienti: un pezzo di cielo sereno, rischiarato come da un lume prossimo ed invisibile. Era imminente l’alba. Difatti, a poco a poco, cominciò a mancare sulla interna parete della chiesetta quel riverbero giallastro che il lume del fanale vi stampava. Si liberarono a mano a mano dall’ombra l’altare, le scranne in fila, le pareti coperte di vecchie tele e di quadretti votivi,[51] il piccolo confessionale di cui lo sportello era rimasto schiuso, e uno scarabattolo a vetri, custodia d’un presepe addossato a uno de’ pilastri.

Pareva come se da gran tempo quel luogo fosse rimasto abbandonato: vi avevano conquistato ogni angolo le ragnatele, la poca cura della suppellettile ve la lasciava coprirsi di polvere o di muffa e l’umidità esalava un tanfo di terriccio rimosso. Continuando la luce a mostrare quelle cose la breve navata del tempio anch’ella se ne abbeverò a poco a poco tutta quanta. Si svelò, dietro l’altare, la porticina della sagrestia, e l’altare medesimo, carico di frasche e di candelieri, si bagnò tutto del freddo chiarore mattinale: la tovaglia ad orlo ricamato che v’era stesa sopra vi sembrava appiccicata con l’acqua. E come, per un vetro rotto d’uno de’ finestroni, penetrava là dentro il vento a quando a quando e sibilava, qualche volta, davanti alla statua di Santo Ignazio, la fiamma della lampada, investita da una folata più veemente, allora si inclinava e pareva che si volesse spegnere a un tratto.

Era giorno, adesso. Le ore suonavano al vicino orologio dal palazzo della Vicaria, lente e chiare. Nel vicolo s’arrestò in quel punto il romore de’ passi della sentinella: il soldato contava que’ rintocchi della campana e aspettava il cambio. Difatti s’udirono altri passi frettolosi e pesanti accostarsi dal lontano e subitamente davanti alla garitta si posarono sul selciato, con un romore[52] breve e ferreo, i fucili: una voce dava la consegna, nel silenzio: e la voce della sentinella rimossa le rispondeva piano, brevemente. Poi daccapo risuonarono i passi cadenzati, e s’allontanarono.

D’improvviso la porticella della sagrestia s’aperse tutta quanta. A una a una entrarono di là nella chiesa dodici suore della Carità e sedettero a un banco, rimpetto all’altarino. L’ultima, una vecchietta, si chiuse la porta a dietro e rimase in piedi, ritta, d’avanti alla mensola dell’altare. Non s’era udito romore e quelle donne erano come scivolate sul pavimento: dalle loro gonne molli e copiose non s’era partito alcun fruscìo. Ora, nella mezza luce, le cornette bianche s’allineavano, immobili.

Un colpetto di tosse ne scosse una, per qualche tratto.

II

La suora addossata all’altare si fece il segno della croce e disse:

—Sorelle mie, questo in cui ci troviamo per ordine della nostra reverenda madre generale è il carcere femminile detto di Santa Maria ad Agnone. Fino ad ora la cura delle sciagurate donne che sono qua dentro è rimasta affidata ai Gesuiti. Ma vi sono tante necessità, tante circostanze, non so come dire, per cui in una prigione[53] femminile valgono meglio le donne che gli uomini. Insomma, s’è creduto necessario di farci venire qui a regolare non dico meglio, perchè i buoni padri Gesuiti lo hanno fatto assai bene per quindici anni, ma con affetto, con amore di sorelle, con tutte le cure di cui hanno bisogno, queste povere anime vissute nel peccato.

S’interruppe. Il suo sguardo percorse la bianca fila delle cornette e vi frugò sotto, come a interrogare le pallide facce che ombreggiavano, in parecchie delle quali sarebbe stato difficile leggere: erano volti da cui nulla traspariva per gli occhi, erano pupille immote, inespressive, abituate al riverbero della passività di anime apatiche, depresse dalla preghiera e dalla regola.

—Ho ancora qualche cosa da dirvi—soggiunse la superiora.

E mentre la chiesuola si rischiarava tutta quanta e di fuori già suonavano voci confuse nel vicolo, ella annunziò con voce più alta e più lenta:—Non tutte voialtre rimarrete qui, in servizio. Vi resterò io con otto di voi. Basteremo.

Subitamente fu picchiato forte all’uscio della chiesa. Di fuori, dal vasto cortile ove le recluse s’adunavano ogni giorno, una rauca voce femminile urlò:

—Monache! Monache! Ove siete?...

La superiora additò l’uscio alle compagne e ordinò:

—Aprite.[54]

La porta s’aperse. Un fiotto di luce si riversò dal cortile nella chiesa e ne illuminò le ultime scranne. Tre o quattro donne apparvero sul limitare dell’uscio e vi si arrestarono, irresolute.

Una di esse, con le mani in cintola, protese la testa arruffata.

—Ma dove siete?—gridò.

S’udiva, nel silenzio, il loro ansimare: come se avessero voluto per le prime arrivare alla porticella della chiesa quelle donne respiravano forte. E, fra tanto, per la scala dei dormitorii altre recluse scendevano di furia nel cortile, urlando, ridendo, schiamazzando.

—Fuori, fuori!—strillò una che sopraggiungeva—Venite fuori, monache! Vi vogliamo vedere!

Si fece largo tra le compagne, stese le braccia e tornò a gridare, in fondo alla chiesa:

—Fuori! Fuori!

Le fece eco un urlio assordante.

—Fuori le monache!

Il cortile s’era affollato. Cento braccia si levavano, cento bocche continuavano a urlare. Sul pozzo che non s’usava più e sulla cui bocca era stata posta una tavola, tre o quattro delle recluse erano saltate in piedi, per veder meglio. E a un tratto, nella folla, avanzando, le suore apparvero e si raccolsero in un silenzioso gruppo, di faccia al pozzo.

La superiora balbettò:

—Figliuole...[55]

Gli urli copersero la sua voce. E si mescolarono a quello schiamazzo spaventevole le apostrofi più insultanti, le più feroci invettive, delle risate scroscianti, delle frasi impure e minacciose. Intanto la scala de’ dormitorii seguitava a rifornire il cortile: ora, più lentamente, scendevano le anziane, orribili megere, discinte, qualcuna scalza perfino, qualcuna appoggiata a un bastone.

Vi fu un momento di silenzio. La fila delle suore si rinserrava. Strette l’una all’altra, pallide, palpitanti, gli occhi pieni dell’orrore della scena, esse affisavano sullo spettacolo insolito il loro sguardo impaurito. E s’udiva in quel silenzio un balbettio cadenzato, quasi un canto sommesso: una idiota sedeva al sommo della scala dei dormitorii e cullava sulle ginocchia un fantoccio di stracci la cui testa informe aveva incappucciata in una piccola cuffia bianca. Il fantoccio andava su e giù in grembo all’idiota, ed ella, piegata su quel sudicio fagotto, seguitava a ninnarlo:

—Oh, oh! Dormi, figlio... oh, oh!...

—Taci!—le gridò una vecchia—Finiscila!... Tutta la santa giornata il lamento di questa scema!

—Insomma?—fece un’altra, rivolta alla superiora—Tu non parli, eh, mamma grande?

—Ve lo dico io perchè non parla—esclamò un’altra—Questa santa donna...

Scoppiò a ridere. E mosse incontro alla suora, minacciosa.[56]

III

Era una delle più singolari di quelle sciagurate. Alta, bionda, vestita d’un camice roseo dalle larghe maniche orlate d’un pizzo gialletto che s’era sciupato e sbrandellato, ella aveva dei braccialetti a’ polsi, e al collo nudo un filo d’oro da cui pendeva una medaglietta. Con la mano sinistra ora raccoglieva sul fianco la vestaglia, e appariva da quel lato, fino al polpaccio, la gamba calzata di seta nera; a’ piedi aveva scarpini bianchi, trapunti, d’un taglio elegante, e li trascinava su pel sudicio selciato del cortile. Certo era stata bella un tempo: ma adesso faceva paura. La sua voce rauca, alcoolizzata, d’un timbro maschile, superava tutte le altre. Un tremito spasmodico le percorreva di volta in volta le labbra, a’ cui umidi angoli si raccoglieva una lieve e lucente schiuma bavosa. De’ grandi occhi azzurrini nei quali palpitava quell’aura epilettica onde lo sguardo si esprime singolarmente tra il terrore e lo spasimo, entro gli orli arrossati delle palpebre ammiccavano di tanto in tanto, come offesi dalla troppa luce.

—Non parla poichè ha scorno! Noi le facciamo scorno, si capisce! Non è avvezza, la santa donna!

Fece un altro passo. E posò la mano sulle braccia conserte della suora. Sporse il capo. L’affisava muta.[57]

—Ti secca, non è vero? Hai ragione. Delle suore tra le omicide, le ladre, le male femmine!...

Incrociò le braccia anche lei. E a una a una, curiosamente, squadrò le altre monache rimaste mute anch’esse e immobili. Nessuna di loro sostenne quello sguardo sfacciato: le suore abbassarono gli occhi, rabbrividendo.

—Dunque rimarrete con noi, non è vero?—disse la bionda—Onoratissime!

—Rispondi!—urlò un’altra alla superiora—Rispondi a Cocotte!

Allora la superiora rispose:

—Sì. Nove di noi. Le sceglierete voi stesse.

—Come!—disse quella che chiamavano Cocotte—Ma davvero?

—La nostra madre generale vi accorda questa facoltà.

—Voialtre! La sentite? Abbiamo il diritto di scegliere!

E Cocotte si voltò a dietro e chiamò le compagne con la mano.

Cento voci urlarono:

—Alla scelta! Alla scelta!

L’orribile turba frenetica si riversò sulle suore e le circondò, le agguantò, se le contese. Proruppe un assordante vocio.

—Io voglio quella!

—Io questa!

—Io quest’altra!

—La bruna![58]

—La grassa!

—Quella più modesta!

—Di qua, di qua! Da questa parte!

—Silenzio, silenzio! La vecchia vuol parlare!

—Ascoltate!...

—Un momento! Bisogna contare le prescelte!—disse una dal viso sconciamente butterato—Devono essere nove, con la vecchia.

Sotto il sole, davanti al pozzo, la fila delle suore aspettava.

Ora la butterata, con l’indice teso, s’era messa a contare.

—Una, due, tre, quattro, cinque e sei...

—Otto devono essere, le giovani—la interruppe Cocotte—E ne manca una...

Lievemente una mano le sfiorò il gomito. Una voce le mormorò:

—Prenda me...

Cocotte si volse. La suora che le aveva parlato ora chinava la testa: le sue braccia, nelle larghe maniche chiuse a’ polsi, pendevano come abbandonate. Un tremito impercettibile le correva lungo le mani bianche e nervose, che a un tratto s’afferrarono alla molle sottana azzurrina, convulsamente, e se ne empirono, come se volessero strapparla...

Gli occhi arrossati della vecchia peccatrice cercarono di spiare tra quel soggolo e quella cornetta.

Gli urli ricominciavano.[59]

—Alla scelta! Alla scelta!

Disse Cocotte:

—Tocca a me. Scelgo io.

Stese la mano: prese il mento della suora tra pollice ed indice e lentamente le sollevò la testa. Un viso quasi ancora infantile, una pallida faccia di giovinetta si coperse subitamente di luce. Due grandi occhi cilestrini s’affisarono sulla reclusa, ansiosi e sbigottiti.

—Ma guarda!—fece Cocotte—È carina!... E come ti chiamano?

La suora balbettò:

—Suora Vittoria.

Cocotte le mise la mano sulla spalla, si volse alle compagne e annunziò:

—Io scelgo questa.

IV

A poco a poco il cortile si era vuotato. Ora un’improvvisa calura sciroccale umida e greve occupava l’aria. Il sole scottava. In quello spiazzato irregolare, rinserrato da muri grigi, alti e interrotti da linee non simmetriche di finestre e di poggiuoli, la luce pioveva come in un pozzo e vi si raccoglieva pesantemente. A uno de’ poggiuoli era seduta una reclusa, incinta, e rammendava un panno bianco che le si distendeva sul ventre rotondo e gonfio. Guardava abbasso,[60] di volta in volta, e poi levava un lembo del panno per passarlo e ripassarlo sulla fronte sudata. Due altre donne, affacciate alla finestra accanto, chiacchieravano, e una fumava una sigaretta e sputava continuamente sotto, su un mucchio di calcinacci. E passavano e ripassavano dietro alle altre finestre altre recluse, e attraversavano corridoi e dormitorii, dai quali usciva un confuso vocio, uno strepito di voci discordi e di risate, un fracasso di porte e di vetrate sbattute. Nella infermeria, i cui quattro poggiuoli stampavano sul bianco muro rivolto a mezzodì il vivace colore de’ loro stipiti dipinti di verde, una suora già era sopraggiunta e apriva le persiane, sbatacchiandole sul cortile. Accanto, vestita d’un camice grigiastro e tutta raccolta sopra uno sgabelletto, a un cantone d’un altro poggiuolo, una malata infilava alla gamba scarna e nuda una calza, e si voltava a quel romore.

Improvvisamente la campanella del refettorio tintinnò. Le tre porte del refettorio s’apersero, giù a pian terreno, sotto gli archi che da quel lato ricorrevano davanti a un breve peristilio. Erano le otto del mattino e a quell’ora le recluse scendevano a sorbire il caffè. S’udì subito là dentro un romore di panche trascinate sul pavimento, s’udirono cozzare le chicchere e a un tratto, mentre si faceva un silenzio profondo, una voce lenta e nasale giunse di là fino al cortile.[61]

—Figliuole, un’altra giornata della nostra vita principia. Ringraziamo la santa Vergine Maria, che ci ha concesso di vivere quest’altra giornata, e promettiamole di averla presente in tutte le nostre azioni. Un’avemaria secondo la intenzione di ciascuna di voi.

Seguì un breve mormorio come di preghiere recitate sommessamente. Poi ricominciarono lo strepito e il vocio.

—Hai sentito?—fece Cocotte a una spilungona che si trascinava dietro una seggiola in cortile e vi cercava un posto all’ombra—Ci raccomandano alla santa Vergine. I Gesuiti ci raccomandavano a quel bravo Eterno Padre, ti ricordi?

Levò il braccio e puntò al refettorio la mano spiegata.

—Idiote!—urlò.

E subito dette in una risata folle, tenendosi i fianchi, battendo i piedi a terra, scotendo i pugni stretti.

L’altra aveva trovata l’ombra e s’era seduta. Aveva cavato un coltellino e s’era messa a sbucciare un’arancia.

—Levati dal sole—ammonì.

E una voce, da una finestra, ripetette, forte:

Cocotte, levati dal sole!

—Ieri il Padre Eterno, oggi la santa Vergine!—strillò Cocotte—Napoli! Roma! Firenze! Si cambia!

Ora s’accendeva e s’agitava, sorpresa da que[62]’ suoi vapori convulsivi per cui si cominciava a mano a mano a scolorire nel viso, a tremare, a balbettare parole senza senso.

Fece ancora qualche passo verso gli archi del peristilio e a un punto si soffermò, piegandosi quasi, allungando il collo, spiando...

—La piccola!...—mormorò.

Suora Vittoria appariva sotto uno di quelli archi.

Allora l’epilettica le si avvicinò, pian piano, con un sorriso ebete.

—Badi!—fece alla suora quella dell’arancia, e si levò—Badi! È malata!...

Suora Vittoria stese la mano, come per difendersi. Cocotte glie l’afferrò a volo e la strinse forte e la tenne fra le sue, borbottando.

Vi fu un silenzio pauroso. Adesso l’epilettica, estatica, la bocca spalancata, affisava la suora. E sul suo volto inquieto, impallidito improvvisamente, e negli occhi suoi stralunati cresceva un terrore subitaneo e angoscioso. Le sue labbra si sforzavano di articolar parole che vi s’interrompevano confusamente e vi morivano tra un suono gutturale. Poi, lentamente, le sue mani si rilassarono. Il balbettio scemò, s’udì appena. Ed ella si ritrasse, tutta raccolta sopra se stessa, piegata, in un atteggiamento di bestia.

Mise un alto strido, d’un subito, e barcollò.

—Scendi, Rita!—gridò la spilungona a una finestra—Porta un cuscino!

Accorreva, con la bocca ancor piena.[63]

—Qui! Qui! Voialtre!

Sopraggiungevano le recluse, dal refettorio. Cocotte era caduta sul selciato, con un tonfo sordo. E come la suora, in quel punto, le aveva profferto le braccia l’epilettica le si era avvinghiata a’ fianchi, se l’era trascinata addosso e se la premeva sul petto ansante.

Al sole ardente che lo investiva quel gruppo di membra s’aggrovigliava e sobbalzava. Le braccia di Cocotte, nude fino alla scapola, ora percotevano l’aria, i suoi denti stridevano, ed ella mugolava come un bruto ferito.

—Lasciala!—gridò la butterata alla suora—Scostati!...

Si chinò, l’afferrò per la vita e tentò di svellerla da quelle braccia che l’avevano riafferrata, irrigidite e tenaci.

—Lasciala!

Cocotte, sfinita, ricadde di peso e restò immota.

La suora le passò una mano sotto il capo, si piegò, posò la sua guancia su quella faccia stravolta e bruttata di sozza bava sanguigna.

La butterata, ginocchioni, cercava di liberarla e le urlava, faccia a faccia:

—Ma sei pazza!... Ma bada!... Ricomincerà!...

Allora la piccola suora balbettò, soffocata da’ singhiozzi:

—Mia madre... Mia madre...


[65]

IL POSTO

[67]

L’ultima sera di dicembre del 18... il mio portinaio mi mise sul breve tavolino che mi serviva da tavola da pranzo e da scrittoio una lettera sulla cui busta era stampato tanto di Ministero della Pubblica Istruzione. Il decreto di nomina. Professore—finalmente!

Ed eccoti—pensai, spiegando quel foglio e scorrendolo con una rapida occhiata—eccoti dunque pedagogo a venticinque anni, nel meglio della vita e con tante altre e ben diverse illusioni nel cuore! Sta bene. E ora va: e insegna ai giovanetti sulla scorta dei soliti programmi: e ragiona loro de’ fatti di Pirro e di Leonida, delle guerre peloponnesiache e della ritirata dei Macedoni...

Lentamente, ricacciai quel foglio nella busta è la riposi sulla tavola. E rimasi lì, seduto davanti ad essa e quasi meravigliato della serenità con cui accoglievo quella notizia pur così attesa e che quasi non così presto mi aspettavo. Come!—pensavo—Tu conquisti un posto sicuro e che t’assicura la vecchiaia—tu riesci a procurarti[68] uno stipendio certo quando tanti altri, più vecchi di te, e più meritevoli, e più umili ne sognano invano uno anche minore; tu raggiungi la piccola gloria dell’insegnamento, un titolo, l’avvenire, infine—e non benedici la provvidenza, e non ti reputi fortunato?

Vero, vero; solo al mondo, oramai—mia madre era morta nel luglio dell’anno precedente e avea seguito mio padre laggiù nel breve cimitero del mio paesello—io avevo dovuto, fin qua, vivere a Napoli—in questa città così grande, così espressiva, così movimentata—la vita dello studente povero e sconosciuto che si può appena permettere il lusso d’un solo e parco asciolvere al giorno e di un unico vestito all’anno. Un altro, dunque, al posto mio sarebbe stato davvero più contento.

Ma io rimasi lì, al cospetto di quella partecipazione, che parecchi dei miei compagni m’avrebbero certo invidiata, quasi a malinconicamente contemplarla. Per altri la vita cominciava di là, da quella carta. Per me, pareva che lì si dovesse arrestare. Sì, sì, arrestare! Come ritorcere l’animo mio, che si voltava addietro e vedeva a mano a mano allontanarsi, svanire quasi come in una nebbia fredda i più teneri ideali ch’esso aveva accolto fino ad ora? L’arte, la poesia, la letteratura, tutto un miraggio luminoso di plauso e di successo si dissolveva—e agli occhi della mia fantasia, che or andava architettando cose e persone e luoghi novelli, già, con una gelida evidenza,[69] apparivano la scuola, la simmetrica linea dei banchi, le austere pareti, e l’ardesia e la cattedra dalla quale sarebbe suonata, su d’un tono ammonitivo, la mia povera voce non avvezza alla formola pedagogica.

Tornai ad aprire la busta, macchinalmente. Tornai a gettar gli occhi su quel foglio timbrato, percorso da una di quelle perfette calligrafie d’amanuensi le quali constituiscono il merito più considerevole degl’impiegati a’ Ministeri. La partecipazione era estetica: il mio nome era scritto in rondino...

Una voce squillò improvvisamente nella mia camera...

—Carlo! Carlo!

S’era spalancata la porta e Matteo Barra, il mio compagno di studio e di stanza, quasi mi si precipitava addosso.

Io m’ero levato, commosso. Buon figliuolo! Il portinaio, o qualche comune amico, o il solito bollettino del Ministero gli avevano partecipato la mia nomina...

—Come hai saputo? Da chi?

Ci eravamo abbracciati e baciati. Egli mi guardava, ora, con gli occhi ridenti.

—Ho fatto la scala d’un fiato!—balbettò, ansante.

Mise la mano in petto. Cavò il portafogli, le sue carte d’appunti di «Diritto Costituzionale», il librettino in cui segnava le mie e sue spese[70] giornaliere. Spuntò di mezzo a quelle carte un telegramma. Egli lo spiegò, mi trasse al balcone, me lo pose sotto gli occhi.

—Ecco... leggi!—mi fece—È mia madre. L’ho saputo da lei...

Lessi, sorpreso:

«Caterina acconsente assieme famiglia. Tutto pronto. Vieni passare qui feste. Ti benedico. Carmela».

—Non capisci?—esclamò Matteo Barra—Non hai capito? Io mi sposo. Io parto.

—Parti!...

—Ma certamente!—e si mise a misurare la stanza a larghi passi—E che vuoi che aspetti? Non hai letto? Dice «tutto pronto».

Mi si arrestò d’avanti. Mi mise la mano sulla spalla.

—Tu ti ricordi di Caterina, non è vero? Della sua zia monaca?... Quella è morta, la zia, a ottant’anni! Requiescat! E Caterina eredita. Ricordi che lotte, che battaglie, che disperazioni? Bene: ora non più... Tutto è a posto... I parenti di lei mi scrivono lettere affettuosissime... E lei!... Lei, non ti puoi figurare! È felice, è orgogliosa della mia laurea. Capirai, abbiamo una laurea adesso... Dottore in utroque!... Ah, mio Dio! Son contento, guarda, son contento! Andiamo a pranzo. Pago io. Voglio pagare io!...

S’interruppe. Mi guardò, meravigliato. M’afferrò pel braccio e mi scosse, faccia a faccia.[71]

—Ma, che hai? Carlo? Che hai?...

Guardò intorno, come a interrogare sul mio silenzio le umili e fredde pareti della nostra stanzuccia. Io ero rimasto impiedi tra la vetrata e le imposte del balcone. Era un momento in cui l’oscuro Vico Majorani, laggiù a’ Tribunali, taceva, penetrato tutto quanto da quella naturale malinconia della sera che cade, dalla particolare tristezza dell’ora in cui pare che tutte le anime si raccolgano. Brillò un lume, di fuori, a un tratto: di faccia al nostro balcone al primo piano s’accendeva il fanale al cantone. Arrossato nel volto da quell’improvviso fuoco esteriore, ritto rimpetto a me, Barra mi stendeva le mani. Io le presi e le serrai, muto.

—Ma che hai?—mi ripetette—Tu tremi?... Tu hai le mani gelate!

Balbettai:

—Senti... Credevo... M’era parso che tu sapessi...

—Ebbene? Che cosa?...

—Ho avuto il decreto, ecco... Il decreto di professore...

—Come!—esclamò—Ma davvero?...

Gl’indicavo il tavolino, sul quale il lume esterno a pena riesciva a far biancheggiare, nella oscurità, quel provvido foglio. Barra lo prese, s’appressò alle vetrate un’altra volta, lo lesse in fretta.

—Perdio!... Ma come!... E non mi hai detto niente![72]

—Che importava?

—Come! A me! Ma importava moltissimo, importava! Ma è una consolazione, per un amico!... Carlo! Che diavolo! Dovevi subito dirmelo!... Dunque bravo! Bravo! Son contento... Dunque eccoti a posto. Son contentone!

Aveva acceso l’ultimo mozzicone che ci era rimasto d’una stearica e ora badava a cacciare e a pestare in fretta e furia in una valigetta qualche camicia, de’ libri, un paio di scarpe, una spazzola. Andava su e giù per la stanzuccia, frugandovi, accrescendo a mano a mano il suo bagaglio. E durante la bisogna continuava:

—Sì... Ti devi chiamar fortunato, via! Non ti pare?... La vita assicurata. Ma scherzi?... Dimmi, hai visto niente i miei pettini?... Non ti scomodare. Eccoli. Dunque... Ti dicevo, ringrazia Dio!... Sì, sì, sono soddisfazioni meritate... Tu sei buono, tu hai un magnifico talento, tu faresti cose grandi. Si, sì. Ma di questi tempi... La vita... l’avvenire...

Quali parole vuote, nulle, abituali! E poi, gli premeva davvero la mia fortuna?...

Nella penombra, ricadendo a sedere davanti alla tavola, sorrisi amaramente. Ora Barra interrompeva il suo vaniloquio. Aveva preparato la valigia. E pareva indeciso, mortificato, quasi. Certo, egli mi voleva dire che l’ora della partenza si appressava, che occorreva che egli se ne andasse.

E in quel silenzio della cameretta, quasi senza[73] distintamente vederci, c’intendemmo: il fluido dei nostri pensieri s’incontrò. La nostra amicizia si spezzava, in quel punto—e a nessuno di noi importava più dell’altro.

—Va pure—mormorai.

E mi parve di rispondere, freddamente, a quel che egli non aveva il coraggio di dirmi.

—Senti—disse lui, decidendosi—Ho un’ora. Il tempo per pigliare un boccone assieme. Vieni?

—No. Non ho fame.

—Non vieni?

—No.

—Hai mangiato?

—Ho mangiato.

—No, non è vero...

—Voglio dormire. Sono stanco.

Vi fu un silenzio.

—Buon viaggio—soggiunsi—Buona fortuna...

M’ero levato. Egli mi si avvicinava, confuso.

—Almeno...—mormorò—Abbracciami, almeno!...

L’abbracciai. Sentii, in quel punto, sciogliersi il mio cuore così gonfio. Sentii che Barra era stato, dopo tutto, il mio compagno di speranze, di privazioni, di gioie... Il suo cuore batteva sul mio così forte, così forte!... E mi prese un tremito invincibile: la gola mi si serrò...

Ma, novellamente, e d’un subito, rampollò dall’orgoglioso e inasprito animo mio il tedio di questo ambiguo momento. Barra mi parve volgare[74] e ipocrita: la sua frettolosa espansione mi disgustò.

—Vai, vai!—gli feci.

E, sulla porta, mentre ancora gli stendevo la mano, un impeto di collera e di disprezzo me la fece ritrarre.

—Va!—dissi—Addio!... Va pure!... Sii felice!...

—Addio...—mormorò Barra, timidamente.

Scese le scale, da prima lento, poi proprio a rompicollo. Io rinchiusi l’uscio. Mossi diritto al lume e lo spensi.

Si rifece l’oscurità nella stanzuccia. Nell’angolo della vetrata tornò più vivo il riflesso rossastro del fanale, e mi parve che il Vico Majorani diventasse più cupo e più silenzioso.

Mi sentivo piegare. Cercai il letto, tastai la fredda coltre, mi vi gettai sopra, bocconi. Il silenzio era alto. La fruttivendola, una storpia, addormentava il suo piccolo giù, nel vico, con una cantilena lamentosa.

Nascosi la faccia nelli origlieri. E a un tratto mi misi a singhiozzare, convulsamente.


[75]

VECCHIE CONOSCENZE

[77]

I

—La buona sera alla compagnia!

Mi volsi. E al suono della rauca voce grossolana si voltarono pur a guardare verso la porta i miei compagni di tavolino del Caffè Grande al Corso. Era l’ercole della troupe d’acrobati attendata a Giffuni dietro il mercato bovino.

—Buonasera—risposi—Che c’è? Non si lavora?

—Macché!—fece l’ercole, raggiustando sulla piccola testa quasi calva un sudicio berretto di pelo marrone—A Giffuni Vallepiana? E Pompei non è meglio! Città morta, caro lei, città di barbari, non dico per offenderla. Già lei non è giffunino.... o giffunese... Come si dice?

E sedette al nostro tavolino e cavò la pipetta da una saccoccia d’un grande panciotto stinto di velluto rossastro.

—Giffunese—disse il telegrafista di Bartolo, levando gli occhi dalla Gazzetta di Venezia che gli mandava ogni giorno un suo ex collega di laggiù ove il di Bartolo era stato quattro anni.[78]

Seguì un silenzio. Il Caffè Grande era quasi deserto: due mercanti ragionavano del raccolto a un cantuccio, e a un altro sedeva, solitario, il giovane professore di lettere del Liceo Cotugno. S’era fatto portare il calamaio e rivedeva le bozze del suo studio sull’Hecatelegium di Pacifico Massimi, comunicando alla ruvida carta da stampe l’acre e molesto profumo del patchculi ch’egli usava portare addosso. Appiè del banco del principale erano due o tre cacciatori di Casalferrato e sentenziavano di cani e di fucili col caffettiere, Nemrod impenitente anche lui.

—Un rhum!—chiese l’ercole, dopo un po’, lanciando al soffitto la prima boccata di fumo denso e puzzolente—Almeno—soggiunse, e si trasse davanti il bicchierino—qui c’è calduccio, ci si sta bene. Hanno visto fuori? Mezzo palmo di neve e nemmeno un cane per la via. La neve in Ottobre? Ma dico, dove siamo? In Russia?

—Cattiva stagione—disse il di Bartolo, per dir qualcosa.

—E voi che farete?—chiesi all’ercole, che si grattava il mento e guardava davanti a sè nel vuoto, con uno sguardo sgomento.

—E che devo fare? Domani o domani l’altro si va via. Domani è domenica e vorrei profittare della giornata. Chissà! Bel paese Giffuni! In tre sere settantotto lire! Cosa vuole, che ci lasci in pegno Mahmud?[79]

Il di Bartolo si volse, con l’indice puntato sulla Gazzetta al passo che leggeva.

—Mahmud?

—L’orso bianco—disse l’ercole, grave.

—Difatti—io dissi—avrete le vostre spese...

—Spese? Altro! E poi gli incerti, caro lei. Se sapesse!

Bevve un goccetto di rhum, si passò il dorso della mano vellosa e enorme sulle labbra e soggiunse:

—Guardi, tre cavalli m’erano rimasti e uno m’è finito a Roccadaspide, col carbonchio. Il pagliaccio mi s’è affiochito per via e ha mezzo perso la voce; sua sorella, la Gilda, è cotta d’un impiegato di ferrovia che le faceva l’asino a Tricarico, e gli scrive lettere tutta la santa giornata e non mi lavora più come prima. E la Rosetta che a un tratto mi vien fuori con l’isterismo! Che? Contentezze grandi, caro signor dottore!

E fregò palma a palma, con tale furia che pareva si volesse spellare le mani.

—Mi dica, dottore, lei che se ne intende: che roba è codesta? Malattia grave?

—L’isterismo?

—Ecco.

—E vostra moglie è isterica? Davvero non mi pareva. E che ha? Che accusa?

—E che so, io? Dolori in petto, dolori allo stomaco, alle gambe, ai polsi. In faccia, di certo[80] è smagrita. L’avesse vista quattro o cinque anni fa! Le dico, un bisciù! L’ha vista al trapezio?

—Sì, mi pare...

—Eh?...—fece l’ercole, strizzando l’occhio—Ha visto che lavoro preciso?

Accennavo di sì, col capo. In quel punto pensavo ad altro. Il di Bartolo s’era sprofondato nella lettura del suo giornale, ma di volta in volta, ne levava lo sguardo per lasciarlo posare sul mio interlocutore, ch’egli affisava, silenzioso per qualche minuto, come si fa con certe persone nuove le quali vi suscitano un curioso interessamento nell’animo.

—Ha un cerino?—chiese l’ercole, che aveva vuotato nel cavo della mano il fornellino della pipetta e ora la ricaricava, lentamente.

Ne prese un fascetto dalla scatola che gli porgevo e se li mise in saccoccia.

—Scusi se mi permetto... Ma qui a Giffuni non c’è un solo cortile che abbia uno straccio di lume. L’altra notte per poco non mi sono spaccato il capo a un muro... Ma lei che ha, dottore? La vedo così uggioso! Che ha? S’annoia, non è vero?

Sorrisi malinconicamente. E mentre, voltandomi, cercavo sul divanetto ov’ero seduto, il mio bambù e l’ultimo fascicolo della Rivista Clinica sulla quale il di Bartolo s’era adagiato, l’ercole, frugando nel taschino del suo panciotto, borbottò:

—S’intende: questo non è paese per gente[81] che vive. Denari in giro niente: divertimenti niente. Nemmeno un teatro. Prefettura e Municipio nello stesso palazzo, all’ultimo piano! Macché! Dopo dimani adios!

—Lei resta?—feci al di Bartolo.

L’altro nostro compagno di tavolino, Bazza, cancelliere alla Pretura, al solito s’era addormentato. Usava di far questo ogni sera, e lo svegliava il cameriere quando il caffè si chiudeva.

—Ma è presto—osservò il di Bartolo.—Guardi, non sono le dieci. Io resto ancora un poco e accompagno Bazza. Ma lei proprio vuole andar via?

—Ho sonno—risposi—Arrivederla.

—Signori!—salutò l’ercole, che pure s’era levato e si sberrettava.

Fuori, rialzando il bavero della sua giacchetta e tossendo a piccoli colpetti secchi, egli mi si mise allato e prese con me pel Corso scuro e deserto.

S’era liquefatta la neve: al raro lume di qualche bottega ancora aperta lucevano qua e là delle pozze e dei rigagnoli. L’ercole mi pigliava pel braccio, dolcemente, e me li faceva schivare.

Facemmo una ventina di passi in silenzio.

—Abita lontano?—chiese lui a un tratto.

—Non così lontano. Ma dal Caffè Grande a casa mia c’è un bel tratto. Sono in via del Mercato.

Si fermò su due piedi.

—Come! Ma dunque siamo vicini! Io son lì, di rimpetto. Non ha visto il mio carrozzone?[82]

—Sì... difatti.

Ripigliammo il cammino e si rifece il silenzio fra noi, per un tratto. Dopo un po’ l’ercole riprese:

—E Bamboccetta, l’ha vista?

Lo guardai. Scossi la testa per dir di no. Egli parve meravigliato.

—Non ha mai visto Bamboccetta? Mia figlia? La piccina? Ma al circo c’è mai stato, lei?

—Sì, una volta: non ho troppo tempo...

—Ma scusi, ci deve venire. M’onori domani ch’è domenica. Senza complimenti... Lei mi fa chiamare alla porta e sarò ben felice. Almeno vedrà Bamboccetta.

Pronunziando quel nome il vocione s’inteneriva. L’ercole si arrestò un’altra volta, per un momento, come a meditare, e io pure dovetti arrestarmi. Il silenzio era alto. A un tratto, nel lontano, fendette l’aria il fischio del treno diretto che partiva per le Calabrie e ne vibrò, per qualche secondo, l’eco malinconica.

Come spuntammo dal Corso nella Via del Seminario ci apparvero di faccia, nell’alto, le tre finestre del Circolo, rosse nel buio profondo.

—La vita, caro signore—continuò l’ercole, seguitando nel suo vaniloquio—è una cosa triste e pesante. Non le pare? Ho una moglie, la Rosina, che m’è nemica mortale. Non se la può figurare: dispetti, furie, malattie, ogni sorta di birbonate. L’ho presa a Settignano, in Toscana,[83] una volta che vi sono passato con tanti bei denari in saccoccia, che ora non si vedono più. Era lì con un signore titolato, un conte, gran femminiero, e costui l’aveva conosciuta in compagnia Roussel, a Firenze, e se l’era portata via in campagna. Bene; dopo un po’ eccoti il signorino che ti pianta lì quella creatura senza neppur dirle: obbligato. Arrivo io, comincio a lavorare, la Rosina mi viene a narrare i suoi patimenti e così senz’altro me la metto in casa. Sarà stato un sette anni fa: dico bene: l’anno appresso m’è nata Bamboccetta. La rosa fra le spine, caro lei, la...

S’interruppe, si piegò, per frugare con lo sguardo nella oscurità della strada. E in quell’atto, col capo avanzato, rimase qualche secondo.

Lontano nella piazza del mercato, ove il carrozzone degli acrobati scompariva nel buio fitto, brillava, come una lucciola sorvolante, la piccola e rapida fiamma d’uno zolfanello, e subito si spegneva. Io la vidi: all’ercole forse sfuggì. Egli si era quasi rivolto addietro e continuava a spiare.

—Chi va là?—fece a un tratto.—Rigo?... Sei tu, Rigo?...

Non rispose alcuno. Ma un’ombra era scivolata lungo il muro, dall’altra parte, e aveva svoltato al cantone.

—Che volete fare?—dissi all’ercole, piano.—Qui a Giffuni non sono ladri. Sarà qualche amante...[84]

—M’era parso Rigo—borbottò.—Sa, quello che mangia la stoppa accesa. Il gobbetto. Una vipera... Ma lei è arrivata?

Ero giunto a casa, difatti, e m’arrestavo davanti al portone. Accesi un moccoletto che portavo addosso per la bisogna e si fece un po’ di lume sotto l’arco barocco. E a quella luce indecisa che saliva a stento fino alla testa dell’ercole, mi parve di vedere impallidito il suo volto e diventati minacciosi quei piccoli occhi tondi, fino allora così inespressivi.

Stesi macchinalmente la mano. Egli la strinse fra le sue, diacce, e dell’atto che non s’aspettava parve sorpreso a un tempo e commosso. D’un subito lasciò la mano, mi voltò le spalle e scappò fuori. Andava lesto. Risuonò per buon tratto il romore dei suoi passi precipitosi, nella notte, e poi daccapo tutto tacque.

Come entrai nella mia stanza da letto mi feci al balcone che dava sulla via, e lo apersi, e ficcai lo sguardo laggiù nelle misteriose tenebre del mercato bovino.

La notte era fredda. Sgusciò nella mia camera, per lo schiuso delle vetrate, una folata di vento e quasi me le spalancò a dietro. Mi rivoltavo per tornar dentro quando un grido, all’improvviso, ruppe il profondo silenzio, e seguirono al grido un rumore confuso, un tramestio, laggiù, presso alla baracca, e subito un va e vieni di lumi e d’ombre. S’illuminò dopo un poco—ero rimasto[85] lì inchiodato al balcone—la finestra terrena della caserma dei carabinieri, poco lontana dalla baracca, e novelle ombre frettolose passarono e ripassarono in quel chiaro. Appresso i lumi si spensero intorno intorno, e tornò il buio impenetrabile.

All’aria m’era entrato addosso un gran freddo. La naturale emozione che anche mi penetrava mi tenne desto sotto le coltri per un bel po’. Che cosa dunque era accaduto nella baracca dell’ercole? Al mattino lo seppi. La Rosina se ne era scappata via col pagliaccio, e quel Rigo, il gobbetto, le aveva tenuto mano. E l’ercole aveva accoltellato il gobbetto.

II

Cominciò Giffuni a parermi detestabile, a un tratto.

Fin qua, da un paio d’anni durante i quali vi avevo tranquillamente esercitata la mia professione di medico condotto, nella piccola cittadina mercantile e malinconica io avevo represso, fin da quando vi ero arrivato, ogni moto ribelle del mio carattere così ombroso, è vero, e pur così passionale e sincero. Bisognava mutar vita addirittura. Io stesso, al quale erano state offerte residenze migliori, avevo preferito questa che mi dicevano uggiosa e difficile e dove m’avevano[86] accompagnato da Napoli, in una triste giornata di marzo, il vento, la pioggia fitta e un’aria scura e fredda, così che m’era parso come se m’avessero inteso e compianto fino gli elementi della natura. Una piccola camera ch’era stata d’un pretore e poi d’un commesso viaggiatore, lì, in via del Mercato, in un vecchio e sdrucito palazzo del seicento, detto la Casa del Conte, m’accolse da’ primi giorni in cui giunsi. M’ero, a mano a mano, costituita una clientela, difficile ma sicura, tra la gente del vicinato: e l’onesta mia maniera di vivere me l’aveva accresciuta. In provincia si continua ad essere stimati per questo. Avrei pure, voglio dirlo, potuto bene ammogliarmi là basso: ma mi sarebbe toccato di seppellirmi a Girifalco, addirittura in mezzo a contadini sorvegliati e maltrattati da qualcuno di que’ possidenti che mi avrebbe, sì, preso a genero ma del quale avrei finito per ereditare con le sostanze pur quella missione autocratica.

In verità, già da quattro o cinque mesi prima del fatto dell’ercole, scrivevo e riscrivevo a Napoli per farmi cavar via da Giffuni. Se vi dico che dalla sera delle coltellate a quel Rigo il mio desiderio assunse quasi una forma di nevropatia, d’impazienza, di sofferenza angosciosa crederete che io esageri. Ma fu proprio così. La mattina dopo quel fatto l’ercole m’era passato sotto gli occhi mentre mi asciugavo la faccia al balcone, dietro i vetri appannati. Vedevo venire dal mercato[87] alla mia volta una folla che a mano a mano ingrossava. Fregai l’asciugamani a un vetro e distinsi ben tutto nella via. L’ercole era lì, tra’ carabinieri, ammanettato. Gli avevano buttato addosso un gran cappotto ed egli, muto, procedeva, scotendo il capo. I carabinieri, infilavano i guanti. Lo conducevano alla prigione.

Non mi vide. Ah, fu meglio! Roba da niente, direte, solite storie che seguono tutti i giorni, cose che s’incontrano a ogni passo. Sì, è vero. E pur io non potrò mai dimenticare quel triste corteo silenzioso, sotto quel cielo opalino di Giffuni, nell’augusta via fiancheggiata da scure bottegucce—e quell’infelice che strappavano al romoroso suo Circo per chiuderlo in un carcere.

Per tre o quattro giorni si rifece alla memoria degli occhi miei, doloroso e insistente, quello spettacolo. Seppi fra tanto che Bamboccetta, la piccina, se l’era portata via la madre; che per la Gilda, rimasta a Giffuni, s’era fatta una colletta—e mi vi dovetti anch’io sottoscrivere—per farla partire per Tricarico ov’ella andava a cascare addosso all’impiegato postale; che la roba dell’ercole era stata sparsa un po’ qua un po’ là in consegna al Tribunale. I carabinieri presero l’orso bianco e lo chiusero in un sottoscala: il figlio del sindaco accolse i due cavalli nella sua scuderia. Ogni giorno, a prima ora e daccapo verso il tramonto, s’udivano gli urli rauchi dell’orso, che forse aveva fame.[88]

Nel gennaio dell’anno seguente ottenni di passare a Casagiove, in Terra di Lavoro. Toccavo, come si dice, il cielo col dito. Casagiove è lontano da Santamaria di Capua un tiro di fucile e da Santamaria si viene a Napoli in un’ora di ferrovia. A Napoli, nelle frequenti scappate che vi feci, tastavo terreno ogni volta. Alla residenza leggevo giornali, e badavo a guardare in terza pagina, se mai vi fossero annunzi di concorsi. Mi facevo fin mandare da Napoli la Gazzetta Ufficiale, da un mio ex compagno di scuola diventato giornalista.

Passarono così altri due anni, quando la morte di un mio zio mi fece ottenere un congedo di quindici giorni, durante i quali mi sostituì a Casagiove un medico di Caserta.

A Napoli volli, tra l’altro, rivedere e salutare i miei maestri. La vecchia via di Sant’Aniello, che avevo tante volte percorso per recarmi all’Università alle cattedre anatomiche, io ritrovavo immutata, deserta sempre e silenziosa, con la sua piazzetta nuda e sudicia, sparsa di rifiuti e di mucchi di pietre tra le quali perfino era nata l’erba. Ripensavo, attraversandola, agli allegri anni in cui m’ero posto, come si dice, in carriera, all’anno emozionato in cui m’ero addottorato medico, all’internato nello spedale degl’Incurabili, così impressionante per me, in quel vasto e solenne ricovero, ove avevo tanto visto soffrire.[89]

Ora ne ascendevo lentamente le scale marmoree e dietro di me vi si affaticava un’itterica contadina, incinta, che sospirava forte e a ogni gradino s’arrestava a ripigliar fiato. Di sopra, appoggiato a due infermieri, scendeva al gran cortile soleggiato—ove i parenti, aspettandolo, gli preparavano cuscini in una carrozza—un giovane convalescente, ancora assai pallido, ma così lieto, così felice d’andarsene!

Gl’inservienti mi riconobbero.

—Oh, signor dottore nostro! Riverito dottore! Beato chi vi rivede!

Mi sorrideva anche il convalescente, con lievi cenni di saluto. E, a poco a poco, rividi, lassù, tutti. Nella spaziosa e luminosa Sala Cotugno, ch’era stata, anni a dietro, la mia seconda casa, rividi le suore, gl’infermieri, il farmacista, il reverendo confessore, sempre florido e roseo tra tante bianche facce esangui.

—Guardate chi vi riconduco!—esclamò l’adorabile vecchia suor Agata che, al solito, m’aveva preso per mano e ora mi poneva di faccia al primario professore X... mentre costui dalla sala Severino entrava nella Cotugno in mezzo ai discepoli.

—Giovannino!—fece lui, che usava di chiamar ciascuno col suo nome di battesimo e ricordava mirabilmente quelli di tutti—Chi si rivede! Che c’è? Ritorno del figliuol prodigo? Vieni, vieni dentro...

Si avviò, seguitando:[90]

—Benissimo. T’invito a pranzo. Uno che s’è fatto onore, signori miei. Medico condotto in Terra di Lavoro. Bene, benissimo. Come dite voi, suor Agata? On revient toujours...

S’era arrestato presso un letto intorno al quale già quattro o cinque degli scolari si radunavano.

Il malato con un bianco berretto da notte in capo, col petto scoverto, si lasciava tastare.

Lo riconobbi subito. Era l’ercole di Giffuni.

III

—Ma sa che ho pensato a lei tante volte da che sono qua dentro? Mi dia la mano almeno: ora non glie la lascio più come quella sera, si ricorda? Mi avrà perdonato? Non può immaginare cosa mi sentivo dentro, allora... Non si mette a sedere?

Sedetti accanto al letto. La mano che premeva la mia sulle coltri era calda: mi pareva febbricitante. Egli era rimasto addossato a’ cuscini, col bianco e largo petto scoverto.

—Ricopritevi—dissi—E non vi rigirate per guardarmi. V’ascolto lo stesso.

L’ercole sorrise, con quell’aria sua solita d’amarezza e di bontà. Il suo corpo rimase immobile. La testa soltanto si rigirò lentamente dalla mia parte.

—Egli è che ho piacere di vederla. Non la vedo da tanto tempo! Saranno tre anni, o sbaglio?[91]

—Due anni e tre mesi. S’era in ottobre...

—È vero... E lei ricorda quella sera della fuga? Lo sa che la Rosina mi scappò via col pagliaccio? Ah, lo sa? Bene. C’era stato di mezzo quel Rigo, il gobbo, che aveva preparata la fuga e mi sorvegliava. L’ombra che scivolò lungo il muro... La ricorda? Rigo. Maledetto!...

Si tacque per un momento. Respirava forte, quasi a stento.

Stavo per dirgli che smettesse di parlare quand’egli continuò:

—Presi un anno e tre mesi di prigione per ferite volontarie. Rigo se la cavò con quaranta giorni d’ospedale: ha il diavolo che l’aiuta, il mostro. E poi? Poi, si figuri, caro lei, che vita allegra quando sono uscito dal carcere! Tutto perso, bestie, roba, arnesi: una rovina. E poi la solitudine. Solo, solo! Tutti scomparsi, e io solo come un cane!

S’accendeva e ansimava. Il respiro faticoso gli sollevava le coltri sul petto.

Per poco rimase silenzioso. Qua e là degl’infermi si lamentavano, qualcuno chiedeva da bere, con un piagnucolio da bambino.

L’ercole riprese, più lentamente e più basso:

—Ho ricominciato a lavorare, da solo. Cercavo di farmi coraggio. Ma che vuole, a volte mi cascavano le braccia. I ricordi, la mancanza di esercizio... Specie i ricordi, caro lei, che mi tormentano sempre. Cercavo di scordare, d’avvezzarmi[92] a questa vita nuova. Macché! E a un bel momento ecco che principia a pungermi in petto qualcosa come una spina... Ma davvero, sa, un dolore, una fitta che lei non se lo può immaginare...

Lo guardai più attentamente. L’abito della diagnosi da’ caratteri fisici soffermava il mio sguardo sullo sciagurato. Labbra esangui, muscoli denutriti, cianosi al lobulo degli orecchi, a’ pomelli, al lobulo del naso: l’occhio destro gonfio, il collo tumido, turgide le giugulari...

—V’hanno osservato il petto? Picchiato in petto?

—Picchiato? Altro! Non fanno che questo. Ma scusi, che vogliono dire tutte queste linee che mi segnano in petto con la matita rossa?

—Regioni in cui si ritrova ottusità—mormorai, come se parlassi a me stesso.

Egli rimase muto per un poco, meditando. Poi soggiunse:

—Ha mai veduto la Rosina?

—No: mai più.

—Lo sa che mi portò via pure Bamboccetta? La piccola?... Figlia del pagliaccio, sa, non mia... Lo lessi in certi pezzettini d’una lettera che rinvenni laggiù, nella baracca...

La sua voce si velava. Egli era commosso. Strinse i pugni, fece per sollevarsi e non potette. Levò gli occhi al cielo e li riabbassò, inumiditi. Due lagrime gli scesero, lente, su per le pallide gote e vi brillarono.[93]

—Andiamo!...—balbettai—Coraggio! Guarirete e dimenticherete.

—Sì—mormorò, cupo—Voglio guarire e mi voglio vendicare!

—Perchè non cercate di riposare un tantino?...

E mi levai. Vedevo mover daccapo alla volta del letto dell’ercole il professore e i suoi scolari.

—La rivedrò ancora?

E l’ercole mi strinse la mano, aspettando che glie lo promettessi.

—Certo. Tornerò.

—Lei è buono... Ha visto che cosa è la vita?... E la mia, signore?... Che calvario!... L’ingratitudine... Bamboccetta...

Balbettava ancora parole che io non compresi.

Il professore gli s’era avvicinato: gli scolari circondavano il letto.

Mi trassi da parte. L’ercole, come preoccupato, si guardava attorno, guardava i giovani che fra tanto gli scoprivano il petto un’altra volta.

La lezione pratica principiava. Mi trassi a dietro a poco a poco, giunsi fino alla porta della sala e lì quasi sperai di non udire la voce del mio ex maestro che parlava, alto, a’ discepoli. Ma, nel silenzio che s’era fatto nella corsia essa suonava chiara e distinta, con quel leggero suo tono declamatorio.

—L’influenza del sesso si spiega assai naturalmente pel genere di vita speciale a ciascuno d’esso, che imponendo all’uomo—come nel caso—sforzi muscolari più violenti e dei movimenti[94] più energici, aumenta in lui l’energia della impulsione cardiaca e dispone le sue arterie a pressioni e a stiramenti che possono essere fatali, che sono anzi, quasi sempre, fatali.

Addossato allo stipite della porta mi sentivo quasi male. Ah, la vita, la vita! Povero ercole! E ora comprendeva egli la sua condanna?... Chiusi gli occhi. Rividi, come in un sogno, Giffuni, la piazzetta del mercato, la grande baracca, quelle viuzze malinconiche e anguste. Le immagini della Rosina, del pagliaccio, dell’ercole passarono e ripassarono confusamente davanti agli occhi miei, come in una nebbia...

La voce del professore continuava, implacabile:

—Noi definiremo l’aneurisma un tumore pieno di sangue liquido e coagulato, distinto, si noti, dal canale dell’arteria con cui esso comunica e consecutivo alla rottura totale o parziale delle tuniche arteriose. Voi conoscete, o signori, la conseguenza fulminante e inevitabile...


[95]

DONNA CLORINDA

[97]

I

Una mattina d’autunno donna Clorinda, destandosi, si vide accanto stecchito il poveruomo che le aveva tenuto compagnia per quarantacinque anni. Era morto d’apoplessia nella notte, e lei non se ne era accorta.

Da prima immaginò che fosse stato per una di quelle solite sincopi alle quali lo sciagurato andava soggetto. Poi, come lo scoteva e quello se ne rimaneva lì irrigidito, già quasi nero e con certi occhiacci spalancati e freddo freddo, la vecchia pazza si mise a sedere in mezzo al letto e con le mani in grembo, muta, indifferente, s’indugiò a contemplare quel corpo immoto, chiazzato nella faccia—la quale pareva che rispecchiasse ancora il terrore dell’ultimo momento—di alcune macchie di livido.

Il lume del giorno veniva dentro in quella stanza, ch’era tutto il loro quartiere, per una finestra che affacciava sul vasto cortile scoverto dell’antico monastero di Santa Caterina a Formiello: una scialba luce autunnale bagnava freddamente[98] le coltri del letto, ma qualche angolo della cameretta—che un tempo era stata cella—accoglieva ancor l’ombra. Lì, tra due seggiole zoppe, era per terra un piattello con l’acqua, e il cane in quel punto vi si dissetava: un barbone sudicio, che accompagnava su’ vapori inglesi e nelle trattorie del Piliero il marito di donna Clorinda, Mastia, un siciliano, pittore di paesaggi. Nel silenzio dell’ora si udì per un pezzo il chioccolare dell’acqua che il barbone lambiva avidamente. La vecchia si volse e guardò da quella parte. Poi tornò a contemplare il marito, con occhio tranquillo. E gli parlò piano, lentamente:

—T’u dissi: nun bíviri!

Null’altro. Era ella così disposta, per naturale sua filosofia, a tenere per fatali somiglianti circostanze della vita e a non farsene vincere? O quel vecchio cuore indurito non aveva mai palpitato? Oppure con gli anni e con la vita stentata e per il nessun amore che Mastia le aveva dimostrato fin da principio, s’era inaridito ogni sentimento in lei, che un tempo era stata pur giovane e bella e amorosa? Chi lo sa? Sul silenzioso orrore della nuda e fredda stanza pesava come un rigido mistero, e quella morte improvvisa non certo lo discioglieva. Intorno alla camera di Mastia erano altre povere camere abitate da gente anche più povera di lui: l’immenso fabbricato di Santa Caterina a Formiello, una volta claustro impenetrabile,[99] accoglieva ora centinaia d’oscure e miserabili creature, e ciascuna covava là dentro il suo segreto e il suo dolore. Di volta in volta, tra quelle spesse mura di convento che ammorzavano ogni romore e soffocavano gridi angosciosi o selvaggi, scoppiava la catastrofe di un dramma: talvolta fin v’era scorso il sangue. Tuttavia, non la più comune manifestazione della vigile curiosità partenopea s’era espressa in quel momento da parte degli altri inquilini: solo qualche porta pesante s’era schiusa sul corridoio in penombra per subito rinserrarsi, ricacciando a dietro una pallida e paurosa testa femminile. A ciascuno bastava la propria miseria. E sulla sera, dopo l’accaduto, era rimasto deserto quel lungo e vasto corridoio, sorvegliato solamente dalla luce rossiccia del lanternone che il custode v’attaccava a una parete e che per breve tratto coloriva, disotto, le antiche mattonelle del pavimento, componenti a quel posto una stinta e barocca decorazione secentesca, tutta svolazzi verdi e giallicci. Cumuli di spazzatura, ammonticchiata qua e là sotto le vasche di marmo che i monaci, antichi abitatori del luogo, non avevano avuto il tempo di svellere dal muro istoriato a fresco, alitavano un lezzo insopportabile. Quando il barbone tornava a casa con Mastia era lì che s’indugiava assai spesso, a frugare.[100]

II

Donna Clorinda scivolò giù dal letto, in camicia, rabbrividendo al gelido contatto del pavimento sul quale i sui piedi nudi avanzavano. Attaccato al muro di faccia uno specchio accolse d’un subito, e a mezzo, la sua bizzarra figura bianca procedente con la lentezza d’un fantasma. A un momento ella ristette, e, vinta da un’abitudine irresistibile, vi si rimirò, quasi atteggiandosi. Intanto principiava laggiù nel cortile la fatica de’ fabbri: della legna arsa crepitava: guizzava e lambiva un alto muro annerito il fumo azzurrino di una fiammata: i martelli picchiavano sulle incudini e un carro di botti vuote entrava, con sordo fragore, nell’ex monastero.

Stanno intorno ad esso le torri aragonesi che Ferrante pose a difesa della Porta Capuana: ora, sul cielo perlaceo, que’ baluardi si stagliavano con un colore plumbeo rilevato da un fitto d’erbe selvagge ch’erano rampollate ne’ loro crepacci e prosperavano sulla lor cresta interrotta. Da case e da fucine invisibili altre colonne di fumo, più lontane e sottili, salivano ritte nell’aria: la città si svegliava a mano a mano, e un’esterna sonorità crescente e confusa faceva sembrare più cupa, più appartata la fabbrica solitaria dell’antico convento.

Donna Clorinda si raccolse su d’una seggiola,[101] di faccia al letto, e si cominciò tranquillamente a vestire.

Da parecchi anni la vecchia era dominata da un’innocente follia, che si esprimeva nella sconfinata considerazione di tutte le sue presunte qualità, e più precisamente di quelle fisiche. Ella si adorava, in un apatico egoismo nel quale non riesciva a far breccia alcun caso esteriore. La felicità o la sventura altrui contemplava di sfuggita, con un sorriso melenso: ogni più straordinario avvenimento nè la stupiva, nè la sconvolgeva. Era altrove il suo spirito e rincorreva fantasime trascorrenti fra la gioventù, la nobiltà, la ricchezza. Le pareva che la casa di Mastia, ottenuta in carità dal Municipio, fosse una reggia; che vi troneggiasse lei da regina, che un ammirativo mormorio la seguisse quand’ella ne usciva, e che fosse abituale argomento d’ogni discorso de’ vicini l’incesso magnifico di lei e la sua benevola maestà.

Pianger Mastia? E perchè? Nell’anima della vecchia, già da tempo, s’era spento ogni affetto: e poi, da quando la prima volta il marito l’aveva picchiata, un odio cupo e muto le era man mano cresciuto dentro per quell’ubbriacone brutale che era stato il tiranno della sua gioventù. Ora, vestendosi, due o tre volte la povera pazza sorrise, di faccia al cadavere. Pareva davvero soddisfatta. Si mise il cappello, tornò a riguardarsi allo specchio, aperse la porta e se ne andò via col suo solito e tardo passo un po’ zoppicante.[102]

Qualcuno la vide scendere, lenta, le scale. Borbottava frasi che parevano rivolte ad esseri invisibili a’ quali, di volta in volta, soffermata sul pianerottolo, ella stendeva la mano, inguantata di seta. Fu pure osservato che la vecchia s’era più che mai infagottata: pareva che portasse addosso due o tre gonne una sopra l’altra e due o tre corpetti. Quello esteriore era verdognolo, orlato di antico jais. Sotto il braccio sinistro ella aveva l’ombrello: il destro era infilato nel manico d’un cestino, che doveva essere ben greve: la piegava, quasi. E così disparve. Poco dopo giunse lassù il delegato di pubblica sicurezza con un medico, frequentatore della Farmacia della Rosa in piazza Carbonara. Donna Clorinda era passata per l’ufficio di pubblica sicurezza, aveva informato il piantone della morte di Mastia e se n’era andata.

La bisogna fu breve: constatazione del decesso—come si dice in gergo legale—processo verbale e disposizione per la rimozione del cadavere.

—Bel caso, eh?—fece il delegato al medico.—Crepa il marito, e la moglie lo pianta come un cane rognoso.

Il medico, un giovane ch’era al principio della sua professione, si guardava attorno meravigliato, assalito, in quella desolante miseria della stanzuccia, da una tristezza profonda.

—Se lei mi mette subito il visto alla carta di accompagnamento—soggiunse il delegato—io[103] mando via quel signore oggi stesso. Non sente? V’è già cattivo odore.

Accese un sigaro. Il medico sottoscrisse la carta, si levò, guardò ancora Mastia, la cui faccia deformata si copriva di ombre turchinicce. Le due guardie che avevano accompagnato il loro superiore contemplavano e comentavano le quattro o cinque tele addossate al muro: una copia della Beatrice Cenci del Reni, un paesaggio di Taormina, il tempio di Pesto, la scena rosseggiante d’una eruzione del Vesuvio, con una fiumana di lava che affluiva fino al mare in convulsione...

In giornata il cadavere di Mastia fu portato al cimitero nel carro dei poveri. La stanza rimase vuota e deserta. E da quel giorno donna Clorinda non vi tornò più.

III

Fu proprio in quel tempo che il bisogno d’una modella della sua età e del suo stampo divenne per me urgentissimo: un mio quadro di caratteristici costumi partenopei, colorito della vivacità del color nostro e materiato degli elementi tra malinconici e grotteschi che offrono all’assaporante o meditante gastronomia dello sguardo certe nostre vie popolane, mancava appunto di quell’assai pittoresca figura senile, ch’io ricordavo d’aver più volte incontrata per la via, rincorsa dall’odiosa ragazzaglia plebea che non rispetta[104] alcuna peripatetica sventura: una vecchia bizzarramente vestita, con certe buccole argentee che le scappavano disotto al cappelletto tutto piume e nastrini e le sbattevano sulle gote infossate,—con un cestino infilato al braccio e, attaccato al polso ossuto della mano destra, un bastone con cui minacciava i suoi persecutori infantili.

—Quella?—mi dissero, come ne parlavo una volta tra conoscenti—Quella è donna Clorinda.

Finalmente la ripescai, una sera di estate, in una taverna di Piazza Francese. La vecchia v’era seduta in fondo, quasi accanto al focolare, e di faccia a lei, alla medesima tavola, cenavano due facchini del Molo Piccolo e un soldato della vicina caserma. Donna Clorinda reggeva a due mani la scodella della minestra e con tutta precauzione l’accostava alle labbra e beveva il brodo. In un tondino era un mucchietto di pesce fritto. Come l’oste seguitava a frigger pesce e ne lasciava cadere una minuzzaglia infarinata nella padella piena d’olio bollente e un fumo acre e denso si spandeva attorno, la testa architettata di donna Clorinda appariva e spariva in quel fumo. Rimpetto a lei i due facchini parlavano di sciopero, picchiando di volta in volta sulla tavola con le larghe mani callose, dalle unghie lucenti d’untume: il soldato, un settentrionale biondiccio, beveva silenziosamente, e fumava.

—No, no, domani non posso:—ella mi dichiarò gravemente—di domenica non posso.[105] Domani ci ho la messa. Vado in chiesa, a San Giacomo degli Spagnuoli, a pregare pe’ miei antenati. Sa lei che io discendo dagli Aragona, dal grande Alfonso?

Il soldato si volse, sorpreso. Con un sorriso concessivo e dignitoso, inoltrando le dita nel pesce fritto, di cui poi si mise un pizzico in bocca, donna Clorinda soggiunse, a bocca piena:

—Verrò da voi lunedì. V’accomoda?

—Ma mi dovete giurare di venire. Sul grande Alfonso, non è vero?

Lei levò la mano con un altro pizzico di pesce, solenne.

—Sul grande Alfonso d’Aragona!

E mancò al giuramento. L’aspettai tutto il giorno, e in quello seguente mi rimisi a rintracciarla. Per fortuna ella m’aveva indicata la casa ove pernottava da un anno, dalla morte di Mastia.

—Se mai, mandate a chiamarmi lì, sotto l’arco, accanto al teatro del Fondo. A destra, sotto l’arco, è una scaletta. Fate chiedere della baronessa.

L’arco così detto del Fondo dal teatro al quale è attaccato da una parte, è ancor quello scuro e sozzo passaggio che dalla via dell’Arsenale, lungo un de’ muri del teatro, mette a Piazza Francese. Mi vi avventurai tra’ mucchi di spazzatura e il copioso rigagnolo d’una fontanina di cui i monelli avevano deviato il corso. Cercai, sulla mia destra, la scaletta che la vecchia m’aveva indicata. V’era, di fatti; anzi là sotto non[106] v’era che quella. E come ne ascendevo, cautamente, gli sconnessi gradini lubrificati dall’umido e dal traffico, una fresca voce femminile m’incitò, dall’alto.

—Avanti, signorino! Avanti!

Ero giunto al sommo della scala. Mi trovai faccia a faccia con una ragazzona in camicia color di rosa.

—Bè?—mi fece, seguitando ad arrotolare una sigaretta—Non entra? Se ne resta lì? Favorisca!

—Chi è?—chiese una voce, di dentro.

—Un signore.

Avevo ben compreso ove fossi cascato. Diamine! Non v’era proprio da ingannarsi. E pure—confesso—lì per lì fui preso da quel minuto d’irresolutezza che può far passare anche un provetto per un ingenuo.

—Ha un cerino, per caso?—disse la ragazza in camicia, che aveva passata e ripassata la punta della lingua sulla Satin della sigaretta—S’accomodi, intanto: si metta a sedere. Sa, ce ne sono delle altre.

Si voltò a dietro e chiamò:

—Chiarina! Armida! Ida! La romana!

A una a una, in quella piccola stanza ov’era solo un divano in giro sul quale ricorrevano specchi appannati in tante cornici barocche, apparvero altre femmine seminude, sonnolenti, sbadiglianti.[107]

Una si buttò sul divano, appena entrata; un’altra, rannodando sull’occipite i lunghi capelli neri, balbettò un buon giorno svogliato. S’aperse, sulla destra della sala, una porta e vi si affacciò un donnone gigantesco con fra le mani, che parevano gonfie, il macinino del caffè. Alle sue spalle, per lo schiuso della porta, apparve un pezzo del focolare e subito nella sala si sparse un odore acre di frittata alla cipolla. Si udiva scorrer l’acqua della fontanina nella vaschetta e quel romore quasi copriva le voci.

—Buon giorno al signore—disse il donnone—Scuserà. Ci trova in desabigliè. Queste principesse si levano tardi. S’accomodi! Ida, vai a chiudere il robinetto!

Quella della sigaretta entrò in cucina. Cessò il romore dell’acqua.

Il donnone soggiunse:

—Forse cerca la Virginia?

Ora la sua voce sonora, maschile s’accompagnava di volta in volta con la musica del macinino, del quale ella girava a tratti la manovella.

Credetti di non dover perdere più tempo.

—Cerco di donna Clorinda...

M’interruppe uno scoppio di risa.

—La baronessa!—gridò Chiarina.

Le ragazze urlavano:

—La baronessa! La baronessa!

—Voialtre!—minacciò il donnone—Su! Dentro tutte!...[108]

Ma già quelle mi sospingevano, seguitando a gridare e a ridere, per uno scuro corridoio ove in fondo era una piccola porta.

—È qui, è qui...

—Picchio?—chiese alle compagne una bionda.

—Picchia forte! Ohè! Baronessa! Signora baronessa, aprite!

La bionda picchiava forte, con la mano spiegata. Di fuori s’udiva la voce del donnone:

—Troie! Non fate chiasso!

—S’è chiusa dentro—disse Chiarina, che guardava pel buco della serratura.

E si mise a picchiare anche lei.

—Che volete? Chi volete?

Riconobbi la voce aspra, incollerita della vecchia.

—Aprite! C’è un signore!

—Virginia non riceve!—urlò la vecchia, di dentro.

—Ma cerca di voi!

—Vuol vedervi!

—È il vostro innamorato!

—Cristo!—fece il donnone, intervenendo—V’ho detto via! Via tutte!

La chiave stridette nella toppa. S’aperse a mezzo la porticina e tra la porta e lo stipite apparve una piccola figura femminile, immota. Era una biondina, sottile, pallida, con due occhi dolci e timidi che interrogavano or me ora quelle donne.

Vi fu un breve silenzio. Un fiotto di luce si riversò dalla piccola stanzuccia nel corridoio.[109]

—Che volete?—disse la biondina.

—Niente, niente—disse il donnone—Il signore ha chiesto della baronessa.

La biondina spalancò l’uscio e poi si trasse da parte. Ora si illuminava tutta quanta. Era vestita d’un camice azzurrino e già pettinata, semplicemente. Nella mano destra premeva un mazzo di carte da giuoco: l’altra mano, pur bianca, fine, esangue, abbottonava il camice sul petto.

—È la Virginia.—mi soffiò all’orecchio il donnone—Tipo signorile.

Da un letto, in fondo alla camera, la stridula voce di donna Clorinda gridò:

—Ho capito! È il pittore. Verrò, verrò, signor pittore! Verrò domani senz’altro!

—Non potreste oggi?

—Oggi? Ebbene, sì, oggi! Oggi senz’altro!

Era beatamente adagiata nel letto della Virginia, con la bianca testa su due capezzali, con una collana di grossi coralli al collo. Sulla coltre erano sparse alcune altre carte da giuoco. Accanto al letto era una poltrona sudicia e sdrucita, in cui la biondina avea fatto il fosso.

—Ha visto la Virginia?—mi fece il donnone riconducendomi all’uscio di strada—È un peccato. S’è legata alla vecchia e perfino le lascia il suo letto. E giusto adesso, che avrebbe bisogno tanto di riposare! È malata, sa: ma è cocciuta...

Pensavo a quel fosso, nella poltrona.

—E dorme lì, nella poltrona?[110]

—Se n’è accorto? Già. Ma guardi! Si può essere più bestia di così! Farmi le nottate intere accanto alla pazza, che le cava la ventura dalle carte!

—Che diceva lei? Ch’è malata?

—Ah! Signore Iddio!—sospirò la virago.

E con la punta del medio si toccò a più riprese in mezzo al petto enorme e molle, ondeggiante a ogni suo più piccolo moto.

—Qui, capisce?

Scendevo le scale, scusandomi.

Il donnone mi gridava dietro:

—Sa, badi: si tenga a sinistra! E non dubiti: penso io a mandarle oggi la baronessa. E mille rispetti! E ci venga a trovare!

Difatti la pazza m’arrivò allo studio qualche ora appresso, nella sua solita buffa acconciatura. Durante il primo riposo cercai di farmi narrare la storia della Virginia: doveva bene avere una storia la biondina. Ma mi riescì di sapere poco o nulla: la vecchia anzi s’era rabbuiata e mostrava di non volersi troppo intrattenere dell’argomento. Sì, la Virginia le aveva ceduto il suo letto, l’aveva fatta accogliere in quella casa per carità, s’era impietosita, ecco tutto. Figlia di signori, la Virginia: sapeva leggere e scrivere e aveva pur cantato a teatro.

Tutto questo ella mi andò borbottando con l’abituale sua disordinata maniera di narrazione, così che non riescii che a comprendere ben poco: il[111] vaniloquio della pazza raffittiva l’oscurità che io avevo cercato di penetrare e in cui si perdeva la figura, pur così interessante, della piccola bionda.

Costei morì sullo scorcio di novembre e donna Clorinda morì due settimane appresso. La virago mi raccontò che la vecchia s’era seduta nella poltrona di Virginia e lì s’era lasciata morire. La collana di corallo se l’era presa la virago: glie la vidi al collo. Chiarina mi disse che alla pazza non avevano trovato nulla addosso, infuori d’un piccolo e logoro portafogli nel quale erano due o tre soldi e, avvolto in un biglietto del lotto, un bel ricciolo di capelli biondi che somigliavano tanto a quelli della Virginia.

—Ah, caro Lei!—mi fece il donnone, sull’uscio di strada—Non può immaginare che s’è patito con quelle due! E lei?... Tornerà?... Ora son finite le malinconie... Badi... si tenga a sinistra... Mille rispetti. Ci venga a trovare, neh? E per cose allegre, ora, per cose allegre!...


[113]

SUO NIPOTE

[115]

Cominciava ad albeggiare, ma la luce si faceva strada quasi a fatica tra il fitto d’una caligine opaca. Accesi un fiammifero e ne appressai la fiamma al polso della mia mano sinistra. Al momento della mia partenza pel fronte mia madre mi vi aveva ella stessa attaccato un orologetto d’argento. Ora se l’è ripreso, povera donna; l’ha rivoluto, e lo porta appeso al collo con una catenina, e mille volte al giorno pare che abbia bisogno di guardarvi l’ora.

La piccola vampa del fiammifero arrossò in faccia qualcuno—per un attimo—che m’era vicino, e di cui non distinguevo che l’ombra immobile, quasi raggomitolata in quella semioscurità della trincea.

—È giorno....—mormorò l’ombra.

—Sì—risposi—A momenti.

L’ombra si rizzò. E, come se ne avesse dato il segno, altre si agitarono in quella fossa lunga e stretta, umida e fumigante. Adesso, rapidamente, la luce svelava e coloriva tutto: i soldati,[116] le armi, le corde arrotolate a cerchio e ammassate, gli apparecchi telefonici riparati in una buca, i mucchi di vanghe e di gavette il cui metallo accoglieva già de’ riflessi luccicanti.

—Forza!—urlò in quel punto stesso, e ove più la trincea si rinserrava, una voce roca e beffarda.

Subito un’altra, più lontano, gridò:

—Granata a destra!

Levai pur io gli occhi in cielo. Vidi abbassarsi, nel lontano, su d’un albero fronzuto, una piccola nuvola tonda che quasi istantaneamente si squarciò e diventò come un gigantesco polipo giallognolo da’ tentacoli spioventi e scricchianti. Udimmo un rombo, uno scoppio, uno schianto—e dal posto ov’era l’albero si levò un fumo nero e lento, che rimase lì quasi immoto.

L’ombra riprese, sottovoce:

—Signor tenente...

E Marcello Sant’Agàveto, novizio teatino, ora soldato semplice nel 141º di linea, mi si strinse così da presso che ora i nostri corpi si premevano. Sentii posarsi sul mio braccio la sua mano e, voltandomi, vidi lucere i suoi grandi occhi scuri. Ma la mano non tremava, e gli occhi pareva che mi sorridessero.

—Che vuoi!... Fa presto...

—Un minuto soltanto... Sentite... Voi siete stato una volta a Santa Chiara, da mia prozìa la badessa... Vi ricordate?...[117]

—Sì, sì....

—Ebbene... un favore, signor tenente...

Infilavo in tutta fretta il mio cinturone con la mauser, e passavo sotto il mento e v’affibbiavo nervosamente la correggina dell’elmetto. Udivo i comandi venire dall’estremo limite della trincea, confusi, inquieti, accompagnati dal solito vocìo sordo, dal solito strepito di ferraglia. E qualcosa a noi s’avvicinava dalla vasta spianata, qualcosa che intendevamo e non distinguevamo.

—Promettetemi di consegnare questi oggettini a quella povera vecchia... Mi aspetta. È per me che vive ancora... Ditele....

Mi sentii ficcare nella saccoccia destra de’ pantaloni una mano che vi s’addentrò fino in fondo, vi lasciò un involtino, e si ritrasse. Le confuse voci della trincea ora coglieva e ammorzava un poco un crepitìo lacerante, che cresceva sempre e, a quando a quando, era superato da scoppii più sonori. Seguirono, subitamente, a una di queste violente detonazioni un fumo violaceo, ch’empì tutta la buca formicolante, e un silenzio improvviso. Non vedevo più nulla: mi credevo accecato. Il teatino mi doveva tuttora essere accanto, poichè quella che lentamente, sommessamente terminava una preghiera, mi parve proprio la sua voce.

—... committo spiritum meum...

Una vampata, un fragore, un urlio d’assalitori[118] e d’assaliti, e il fumo, l’orrendo fumo che ci avvolgeva e ci stringeva alle fauci....

Nient’altro....

Non ricordo più nient’altro....

***

Ave Maria! Chi volete?

—Vorrei parlare alla signora badessa....

—Figlio, è malata.

—E che ha?

Attraverso la rete di sbarre della duplice inferriata che separa da’ visitatori l’antico e privilegiato gratino della badessa, da una penombra uguale, ove qualcosa di bianco s’agita un poco, trema un fievole sospiro.

—Che ha?—riprende la voce nella penombra.—Gli anni. Ottantasette, figlio. È un po’ sorda: non può parlar più troppo, e ci fatica a scendere quaggiù.

Segue un silenzio. Odo, adesso, il tic-tac lento d’uno di quelli orologi a stipo che si vedono tuttora nei monasteri e pare che quasi siano lì per accompagnare col cadenzato lor ritmo le preghiere borbottate, o un canto lieve.

A poco a poco, guardando dentro per la inferriata, gli occhi miei s’avvezzano a penetrare quelle ombre che prima m’erano sembrate così tenebrose. L’orologio che subito non avevo visto,[119] ora lo vedo: sta davanti a uno di quelli enormi canterani ove le monache ripongono la biancheria e i paramenti—e accanto all’orologio, che pare una bara in piedi, è un tavolinetto che sostenta uno scarabattolo. Mi pare di discernere in questo—ora che dal finestrone che sovrasta al canterano e all’orologio piove di passaggio un lume più diffuso—la testa di cera che fu cavata dalla maschera di Maria Cristina, la santa, e affidata da’ familiari di Ferdinando II alle monache di Santa Chiara. Sì; mi pare che debba essere quella: ha i capelli di seta nera spartiti sulla fronte, gli occhi chiusi, la bocca esangue e sottile. Attraverso i vetri dello scarabattolo, rilevata dal cuscino di velluto amaranto in cui s’affossa, pare davvero recisa, e cadaverica e molle...

—E dalla signora badessa che volete, voi?

La piccola voce ora m’interroga un poco spazientita.

—Le devo fare un’imbasciata.

—La signora badessa vi conosce?

—Sì, mi conosce. E forse si sarebbe ricordata di me. Le ho parlato un anno fa, se non mi sbaglio...

Brevemente, dall’altra parte, suonò un risolino che subito si contenne.

—Ma, figlio, un anno fa la signora badessa stava bene! Un anno è un anno, pe’ vecchi... Basta, glie lo dirò che è venuto un signore... E come vi chiamate?[120]

—Così... Guardate. È scritto qui...

Pe’ ferri della grata passò, scivolando sul marmo del largo balaustro e avanzando verso di me, qualche cosa come una di quelle spole in cui riponiamo le penne e le matite sui nostri scrittoi. Sbucò dalla mia parte, vi lasciai cader dentro la mia carta da visita, e la sottile barchettina si ritrasse e sparì. La donna non fece mostra di leggere la carta: da quel che potevo distinguere mi parve che se la ficcasse in saccoccia.

Vidi una cuffia bianca che si chinava.

Ave Maria... Statevi bene.

—E allora, quando posso tornare?

—Che vi posso dire?... Tra una settimana... Tra dieci giorni...

—E quando tornerò...

—Chiamate Maria Agnese la conversa. E io scenderò. E poi porterò l’imbasciata.

***

Maria Agnese s’allontanò. Quell’interno appartato ridiventò silenzioso. L’ora meridiana cadeva: così che là dentro tutto adesso annegava in un’ombra diffusa, tutto spariva quasi rapidamente. Ma qui dove ero rimasto, nella stanzetta bianca—ove appiè della grata, sono alcune vecchie seggiole verdi di forma antica, a spalliere convesse[121] e co’ piedi a colonnine, le seggiole per i visitatori—la luce era ancor viva, ma d’un riverbero dolce e tranquillo, che si distribuiva ugualmente da per tutto. Rimasi in piedi un istante ancora—guardandomi intorno. Mi permettevo d’indugiarmi in quella cameretta come se sapessi che non mi sarebbe vietato quell’assaporamento d’una pace, d’una solitudine così profonde, velate dai veli aggraziati dell’arte ch’io vedevo espressa dalla nobile incorniciatura a cartocci in cui si rinserrava la duplice inferriata, da quei marmi commessi e policromi—che attorno attorno la ornavano come circoscrivendo un’arca preziosa—ancora, qua e là, un poco macchiati di luci. Mi pareva che mi dovesse pure esser lecito di riposarmi, in silenzio, sopra una di quelle seggiole di paglia, capaci e grossolane, che dal seicento alla fine del settecento si costruivano e si vendevano all’Annunziata, ove ancora oggi quell’industria ha gli ultimi suoi tenaci continuatori. La signora badessa, la conversa, il misterioso di là della grata, la rischiarata e quasi poetica cameretta ov’ero rimasto avvolto come da una tenera luce giallina e da un’aria impregnata di odore di rose secche, assorbivano adesso tutto l’essere mio, che là dentro sembrava a me stesso come nuovo e forastiero—un essere che veniva dalle vie, risuonanti di ferro e pregne di ansie, d’una città non meno delle altre investita anch’essa dal furore e dai palpiti d’una tragedia[122] immane, una città squassata, anch’essa, volta a volta, dagl’impeti della sua gioia o dalle contrazioni del suo dolore, e ancora percorsa da carriaggi e da soldati, e quasi mutata in tanti suoi aspetti singolari—da quello del suo mare, adesso deserto, ai deserti delle sue vaste arterie, delle sue piazze, dei suoi vicoli, sepolti in una notte paurosa e profonda.

Ora, mi pareva davvero che a quel luogo d’antica pace e d’antica fisonomia mi dovessi sentire estraneo in tutto. La stanzetta secentesca, que’ quadretti in cornici dorate a rigonfii e volute, l’ornato e marmoreo gratino della badessa, la bella mensola addossata a una parete sotto uno specchietto veneziano dal vetro tutto chiazze si bagnavano ancora delle ultime luci che vi piovevano da un’alta finestra. Ma già una parte del pavimento di riggiole istoriate si copriva d’ombre: l’altra, più in qua, fin sotto ai miei piedi accoglieva tuttora un lume che andava scemando. Estranei a quell’aria tepida, a quella luce, a quelle figurazioni, a quel silenzio raccolto tanto sentivo l’esser mio, la mia figura, la mia divisa, il suono stesso della mia voce, che mi ritrassi pian piano, fino a quando potetti scivolare lungo l’usciuolo che si chiudeva sulla portineria e lì, per un momento, arrestarmi. Nemmeno in portineria era alcuno—ma su uno di quei sedili di pietra che girano appiè degli archi posava un cesto di fiori freschi. Chi l’aveva[123] portato era forse per sopravvenire—e forse di là da quella enorme porta sempre chiusa lo sapevano, poichè mi sembrò udirvi un pispiglio...

Rifeci la mia strada—passo passo. E con la sua figuretta tutta raccolta, con que’ suoi limpidi occhi azzurrini che vivevano ancor tanto allora ch’io la prima volta la vidi—che vivevano e sorridevano—la signora badessa di Santa Chiara, una Caracciolo, mi accompagnò per la strada—piccola ombra rievocata, che mi tenne così compagnia per buon tratto, mentre pur mi pareva di udirmi allato quella tremula voce di bambina...

***

La mia licenza di trenta giorni era per scadere—e io pensavo che sarebbe ancora rimasto nelle mie mani il piccolo pacchetto che quel giovanotto mi aveva ficcato in saccoccia poco prima di far la fine straziata che fece.

M’urgeva di consegnarlo. Ora mi mandavano a Bari ove, appena arrivato, avrei saputo dell’ufficio a cui mi destinavano. Ma la guerra era per finire: ogni giorno ne arrivavano notizie liete per noi, e ogni giorno si sentiva più che mai il bisogno di liberarsi da quell’incubo orrendo. In questa nervosa impazienza ero anch’io. Avevo ancor gli occhi pieni di quelli spettacoli atroci, da’ quali m’era sembrato addirittura che[124] ogni cosa più bella della mia esistenza fosse quasi per essere demolita o trasformata. Nulla, nulla volevo più ricordare. Anche di quell’involtino che m’aveva affidato quel piccolo prete anelavo di sbarazzarmi...

Soltanto tre giorni prima della mia partenza per Bari potetti rivedere la badessa. L’antica mia qualità di funzionario all’Intendenza di Finanza mi permetteva di accompagnare nell’antico monastero fondato dalla regina Sancha un ispettore che vi si recava a compilarvi un inventario.

Ella non mi riconobbe subito. Aveva, ora, un’aria assai stanca e camminava pian piano, un po’ curva, e mi veniva incontro come senza vedermi. Poi ci ritrovammo in un viale del grande giardino—ristorato nella prima metà del settecento da Domenicantonio Vaccaro—in piedi tutti e due là dove i pilastri sono rivestiti di gioconde maioliche napolitane che iniziano il colore e il disegno delle viti feconde di cui sostengono il pergolato. Era, intorno, la terra tutta sparsa di quelle foglie rossicce—e la signora badessa pareva che le stesse a contare. Poi la sua mano scarna, che tremava un poco, scivolò sulla spalliera del prossimo sedile e vi si appoggiò, spiegata.

—Mi va il sole negli occhi...

Sedette. E senza levar la testa, con le mani congiunte sulle ginocchia, riprese a parlare, piano:[125]

—Voi siete quel militare dell’altra volta, che venne da parte di Marcello... Sì... V’ho subito ravvisato. Sentite... ebbi una lettera sua, tre mesi fa... O meno?... Non so... Diceva: Se posso venire in licenza e io verrò, verso maggio, ma è difficile. Io l’ho aspettato... Pregando il Signore... Unico figlio d’una figlia di mia sorella Mariantonia...

La lasciavo parlare. Ella parlava più a se stessa che a me, con la testa un poco reclinata: le due piccole mani di cera parevano inchiodate sulle sue ginocchia congiunte.

Continuò più lentamente:

—Anche Sabina, mia nipote, il Signore se la chiamò alla gloria degli angeli... Sia fatta la sua volontà... La madre di Marcello, così, da dieci anni, sono io... Povera serva di Dio...

Mise un sospiro—e sorrise, con un sorriso di bimba incantata.

—Ah, che consolazione... quando tornerà!... Gli farò dire la prima messa al nostro altare privilegiato... Immaginate che consolazione... E poi perchè digiuniamo, da cinque mesi ch’è lassù, alla guerra?... Signore, aiutateci!... Faccio digiunare anche le converse... Mezz’ora di preghiera, ogni sabato, la facciamo...

Aveva parlato eccessivamente e ora continuava a fatica, con un po’ di sopraffiato.

—... sulla pietra, in ginocchio...

Un piccolo colpo di tosse la interruppe.[126]

—E la guerra che fa, signor militare?... È tanto giusta la causa... Anche Marcello me lo scrive... E santa Chiara... santa Chiara miracolosa...

Non distinsi altre parole. Il loro senso mi sfuggì. Si disperdevano adesso in un lieve sbadiglio, in un balbettìo di labbra che parevano affaticate.

A un tratto, lievemente, la vecchietta piegò il capo sulla spalla. Si sciolsero le sue mani, e una scivolò lungo un ginocchio. Non parlò più. S’era assopita—in quel giardino pieno di odore e di ronzii.

Mi allontanai pian piano. Le foglie secche ammorzarono il romore dei miei passi e quando, in portineria, passai davanti a Maria Agnese ella si levò per aprirmi e s’inchinò mentre uscivo:

Ave Maria—mormorò, sorridendo.


[127]

UN «CASO»

[129]

I

Ai «Fossi», laggiù dietro la via larga e popolosa della Ferrovia, terminava il mercato dei panni. Le mercantesse si sbandavano. Alcune pigliavano per la strada della marina, altre si indirizzavano alla Via Nolana, dalla quale si levava, nel lontano, un fitto polverio bianco. Altre infilavano l’arco aragonese di Forcella e si cacciavano, a gruppi di due o tre, coi lor mucchi di panni in capo, ne’ vicoletti della Vicaria o ne’ labirinti di quelli della Duchesca ove, qua e là, sotto il sole di agosto, i rigagnoletti e le pozze luccicavano di riflessi metallici.

Lentamente il mercato si vuotava. Era cominciata tardi la vendita, verso il tocco, e terminava alle sedici, nell’ora del sole alto. Era andata avanti assai fiaccamente: le voci della malattia s’udivano un poco da per tutto, le note di cronaca del Roma e i bollettini si leggevano da gente commossa e paurosa or qua or là, d’avanti a’ bassi e dentro alle botteghe e nella via stessa, ove si radunavano capannelli di popolani[130] impensieriti. Certo più della paura poteva la necessità: ma, da una settimana, il mercato de’ panni languiva. Le donne di Cardito, di Pugliano, di Pomigliano, d’Acerra lo avevano addirittura abbandonato, esse così tenere di coltri di seta gialla, di seta verde, imbottite di bambagia, trapuntate a mostaccioli, orlate di frange barocche argentate. E invano andavano su e giù le venditrici: davanti ai mucchi di pantaloni a quadrelli, di giacchette di velluto stinto, di corpetti rabberciati e di grembiali di ogni forma, provenienze misteriose della miseria, della morte, del furto, nessuno si soffermava. Nessuno comprava. Nell’inutile va e vieni perfino veniva a mancare la voglia di gridar la mercanzia: moriva in un sussurro l’alto vocìo de’ buoni giorni di vendita, e nell’afa insopportabile, sotto la sferza del sole, era tutto uno sfinimento. Dalla strada della Ferrovia la cupa eco del passaggio de’ grandi carri carichi di pellame, o di botti o di carboni, delle vetture d’albergo, dei carretti d’erbaggi delle paludi s’affievoliva: tutto quel transito pareva che non seguisse più come prima. Risuonava, soltanto, a tratti, la cornetta rauca d’un tramwai due, tre volte: squillavano i campanellini di un carretto solitario e, finito quel suono, pareva più alto il silenzio.

Due o tre ancora delle mercantesse si aggiravano per la via dei Fossi, occupata da un chiarore abbagliante. A una a una disparvero anche[131] esse. L’ultima veniva in sulla piazzetta, lentamente, come trascinandosi. Era un gran donnone: forte, alta, bruna. Il sudore le rigava le guance dalla fronte, le imperlava sotto gli occhi la fine epidermide, le riluceva sul labbro superiore, segnato da una fitta pelurie. In braccio ella si recava una pila di que’ comuni berretti a visiera di panno, che gli sbarazzini amano di portare di sghembo: e uno de’ berretti, per ripararsi dal sole, s’era proprio posto in capo.

Com’ella giunse allo spiazzato si arrestò: passava, tra due carabinieri, un giovanotto ammanettato. Andava alle carceri della Vicaria. L’ammanettato la salutò con un lieve cenno del capo e si fermò un momento anche lui e levò le mani incatenate, avvicinando la faccia al panno della manica, lì ove il braccio si piega. Passò e ripassò le gote sudate sul panno, soffregando forte. I carabinieri, aspettando, guardavano la donna e sorridevano. Poi ripresero la loro via. La berrettaia si rimise in cammino. Scavalcò un mucchio di pietre accatastate lì nella piazza per un guasto del selciato e, a un tratto, apostrofò il cocchiere di una vettura da nolo, il quale s’appisolava al sole, in serpa, in quel luogo quasi deserto.

—Rocco, salute e bene!

—Salute e bene...—sbadigliò quello, rizzandosi in serpa e raccogliendo le redini che gli erano cascate su’ piedi—E voi dove ve ne andate?[132]

—Dove, figlio? A casa, cuore mio bello. Che ci resto a fare quaggiù? Non s’è venduto uno spillo!

—E io che son qui da mezzogiorno a bruciarmi al sole! Poc’anzi m’ha preso il sonno...

Dopo un po’ soggiunse:

—E del colera che si dice?

L’altra sgranò tanto d’occhi e scosse la testa.

—Ieri cento e due casi. Mio marito ha letto il giornale.

Seguì, daccapo, il silenzio. Improvvisamente la mercantessa si licenziò, col suo sorriso bonario.

—Così vuol Dio. Dunque, buona giornata, Rocco!

—Buona giornata anche a voi—disse il cocchiere.

E si chinò un’altra volta a raccogliere le redini che gli erano scivolate di su le ginocchia.

Una voce femminile lo chiamò, dal lato del marciapiedi.

—Cocchiere!...

Rocco si volse. Era una signorinella pallida e piccola con certi grandi occhi neri lucenti, vestita di nero: qualcosa tra la maestrina e la cameriera di buona famiglia.

—Montate!—disse Rocco—Dove andiamo? Ella rimase in forse un momento. Poi disse:

—Alla Posta.

La vettura si mise in moto. A un tratto il cocchiere gridò:[133]

—Bada, ohè!

E con la punta della frusta picchiò, per celia, sulla spalla della berrettaia, che rincasava a piccoli passi.

—Vado alla Posta—disse Rocco.

—Avete visto?—sorrise la berrettaia, scansandosi—V’ho portato fortuna.

Più in là, presso il Castello del Carmine, il cocchiere si girò indietro sulla serpa:

—E alla Posta v’aspetto?

La piccola pallida lo guardò come smarrita. S’era tutta rimpiccinita e rincantucciata in un angolo della vettura. Le sue mani tormentavano la pezzuola.

Balbettò:

—Alla Posta?... Sì... certo... m’aspetterete...

E ancora mormorò qualche cosa che il vetturino non intese—e si gettò indietro come abbandonandosi...

II

Quale viaggio strano, faticoso, irresoluto, in quell’afa ardente e insopportabile! Dove si andava? Si andava da per tutto: Rocco Longo era sfinito, era sfinita la sua bestia e anche pareva che la vettura malconcia a un tratto si dovesse sfasciare. S’andava in giro da tre o quattro ore. Da prima la signorina s’era voluta fermare[134] alla Posta e lì, allo sportello delle lettere, avea chiesto una lettera che non aveva avuta, che non c’era. Palpitante, incerta, s’era trascinata fino alla vettura, e quasi vi s’era lasciata cascare su’ cuscini.

—Dove andiamo?

—Dov’è l’albergo delle Tre Rose?

—E chi lo sa? Voi non lo sapete?

—Dove sono i Lanzieri?

—A Porto.

—È lì... Andiamo!

La vettura avea preso per Piazza Francese e s’era ficcata ne’ vicoli di Porto. Ai Lanzieri la sconosciuta scese d’avanti alla porta d’una delle tante miserabili e tristi locande del quartiere. Dalla serpa Longo domandò:

—V’aspetto?

E come ella pareva indecisa il vetturino soggiunse:

—Bene, andate pure: io vi aspetto.

Da’ Lanzieri erano andati alla Marinella e dalla Marinella ai Mercanti, e appresso alla Giudecca, al Vico Coltellari, a Rua Catalana. Ella, a ogni sosta, si precipitava dalla vettura, si cacciava in un palazzetto e riappariva poco dopo muta, livida, con gli occhi pieni di lacrime. Risaliva a stento in vettura: s’afferrava alla serpa talvolta. L’ultima volta Longo dovette aiutarla. Per via la udì singhiozzare.

Si volse.[135]

—Ma che avete dunque!

Ella mormorò:

—Nulla... nulla.

Annottava. A un tratto Longo sentì che ella gli batteva lievemente, in punta di dita, sulla spalla.

—Dove andate?—disse lei.

Difatti, ove andava Longo, con la sua vettura polverosa, con la sua rozza affamata e zoppicante, sognando in serpa e guidando macchinalmente la bestia? Egli si arrestò, e si guardò intorno. Erano sulla via nuova, deserta e buia, dell’Arenaccia. Sulla destra si disegnava confusamente l’immane tettoia della stazione ferroviaria, nera nera: i grandi occhi immobili delle locomotive, rossi, verdi, giallognoli, ammiccavano nell’oscurità. Un fischio acuto e breve ruppe il silenzio: l’aria vibrò tutta al fragore d’un treno che passava sulle piattaforme metalliche. Dalla via si vide il treno svolgersi rapidamente, e trascorrere, come un gran serpe nero che scompariva nella notte.

III

La giovane disfece il nodo della sua pezzuola e ne cavò un pezzo da due lire.

—Questo m’è rimasto—mormorò.

Longo era sceso di serpa. Guardò appena le due lire, al lume del fanaletto, e le gettò in grembo alla giovane.[136]

—Ma scherzate? Che mi mettete in mano? Due lire?... Andiamo, non ho voglia di scherzare!

Ella balbettava:

—Sull’anima di mia madre che m’è morta ieri l’altro...

—Ma che!—fece Longo—Ora mi si mette a giurare! V’ho portato in giro per quattro ore di seguito e il meno che mi spetta son cinque lire! Su! O mettete fuori le cinque lire o vi porto alla questura com’è vero il santo ch’è oggi!

Nel silenzio della strada la sua voce minacciosa suonava chiaramente. La signorina nascose la faccia tra le mani.

—Andiamo!—disse Longo—Spicciatevi!

Ella singhiozzava:

—Ascoltatemi... Io non sono di Napoli... Sono di Nola... Non sono pratica... Ho perso tutto e mia madre m’è morta, ieri l’altro... Avevo... lui... Un giovane... Capite?... E mi son messa a ritrovarlo. M’ha lasciata. Voi avete visto: non l’ho più trovato... Lasciata!... Abbandonata! Abbiate compassione... Non ho più nulla... Perdonatemi!...

Longo, con le braccia conserte, la guardava.

La sconosciuta soggiunse, piano, come parlando a sè stessa:

—Sono stata tradita... Era un cameriere d’albergo... L’albergo delle Tre Rose ai Lanzieri, dove siamo stati... Non v’è più... Partito... Sparito... Non v’è più...[137]

Longo si mise a frustare il selciato e a bestemmiare.

Ella supplicava:

—È vero... Avete ragione... Perdonatemi...

D’un subito il cocchiere le si appressò, l’afferrò pel braccio e le fece:

—Com’è vero Dio, stasera prendo un guaio per voi! Chi vi conosce? E avete scelto la vettura mia e me per correre appresso al vostro uomo? Ma lo sapete voi che due lire non mi bastano neppure per l’avena al cavallo, e me l’avete ammazzato!

Ella mormorava:

—Perdonatemi... perdonatemi...

—Così fate, voialtre!—urlò Rocco—Così ingannate la gente, razza di bagasce!...

All’improvviso le piantò sulla spalla la mano larga e pesante, e si chinò sopra di lei che s’era gettata addietro sui cuscini.

—Almeno...—sogghignò—Ch’io vi veda in faccia, carina! Come siete in faccia?... Bella... brutta...? Vediamo un poco...

Ma si ritrasse, spaventato. Ella era diaccia: un sudore gelido le veniva giù pel volto e le bagnava pur le mani, che tremavano convulsamente.

Longo, sbalordito, la scosse:

—Signorina... signorina!... Che avete?... Non v’impaurite... Non vi voglio far niente...

La giovane s’irrigidiva. De’ conati di vomito[138] la facevano sobbalzare sul cuscini, gli occhi già quasi le diventavano vitrei.

—Ho freddo...—mormorò—Ho freddo... Muoio...

Allora Longo comprese.

—Ah, Cristo!—urlò—Un caso fulminante!...

Si voltò, si guardò intorno, assalito da così vivo terrore che per due o tre secondi i suoi movimenti ne vennero paralizzati. La sconosciuta seguitava a torcersi e rantolava:

—Freddo... freddo... Oh mamma!...

E come lo vide fuggire a gambe levate per l’Arenaccia, si levò quasi in piedi nella vettura, con un ultimo sforzo, e stese un braccio.

—Aiuto!... Aiuto!...

Ricadde. Si ripiegò sui cuscini: v’annaspò con le dita raggranchite. E al sereno cielo che si popolava di stelle palpitanti e la vedeva morir sola, nella notte, levò uno sguardo disperato.

Balbettò ancora:

—Mamma... mamma...

E ricadde. E non parlò più.

Dopo un po’ il cavallo affamato si mise a nitrire e a battere sul selciato la sua larga unghia ferrata.

Poi fece un passo, poi un altro.

E si rincamminò, portandosi lentamente la piccola bruna, immota, per l’oscurità, verso la nascosta rete dei binari...


[139]

ADDIO, CAROLINA...

[141]

I

—Dunque, senti; ti ricordi di quella sera piovosa in cui ci lasciammo così nervosamente, uscendo dalla Trattoria dell’Asso di fiori?

Così cominciò a dire Cataldo Abbadessa, col quale ero seduto a tavola nel giardino della sua villetta a Cassino, sotto gli alberi di prugne e tra l’odore acre della mortella. Nel lontano s’infiammavano le cime degli alberi e la cupola dorata del piccolo campanile di Santa Mariella.

—Come accesi il lume nella mia camera—continuò Cataldo—e lo misi sulla tavola, m’accorsi che v’era stata lasciata una lettera al mio indirizzo. L’apersi con qualche trepidazione. Le condizioni dell’animo mio erano tali, quella sera, e così scombussolato era il mio spirito che ogni più piccolo avvenimento produceva sui miei nervi l’effetto d’una punta di fuoco. Letta appena la lettera, dubitai di sognare. M’annunziava un’eredità. Già: un mio lontano parente, vedovo, senza figli, era morto a Cassino e mi lasciava tutta la sua sostanza, vale a dire un gruzzolo[142] rispettabilissimo, la Fattoria del Cavallo e il molino detto di Francescone. Partii subito, il giorno appresso: e arrivato a Cassino mi recai dal notaio. Il buon vecchio m’abbracciò e baciò con le lagrime agli occhi: mi conosceva da quando ero bambino e mia madre mi conduceva a spasso lungo le rive del fiumicello disseminate di sassolini rotondi che io m’indugiavo a raccogliere. Terminati gli abbracciamenti e le congratulazioni il notaio mi consegnò una lettera del mio lontano parente, e mi disse: Don Cataldo, prima di visitare i poderi che v’ha lasciato il mio cliente, buon’anima, leggetevi questa lettera ch’egli mi raccomandò di consegnarvi appena foste arrivato quassù. Lessi la lettera. Il buon’uomo, tra l’altro, aveva voluto aggiungere al suo testamento una certa clausola riguardante il molino di Francescone. Francesco Battiloro, detto Francescone a causa della sua statura gigantesca, era stato, fino a pochi anni addietro, padrone del molino che ora veniva in mie mani. Per le grandi ristrettezze in cui s’era trovato lo aveva poi venduto al mio parente. Questi era un’eccellente persona, e non aveva voluto strappare il vecchio e le sue due figliuole alle loro care pietre: e così, Francescone, fino a morte, era rimasto mugnaio nel molino dei suoi padri. Rosa e Carolina lo aiutavano a macinare, a riempire i sacchi e a caricare i carrettini. Un giorno il povero vecchio...[143]

Cataldo s’interruppe. Mi guardò, guardò il mio bicchiere, e mi fece:

—Ebbene, non bevi?

Difatti, dimenticavo il delizioso vinetto bianco del mio amico.

Bevvi. Cataldo riempì per la terza volta il suo bicchiere.

—Alla tua salute, Vittorio!

—Alla tua, Cataldo!

Egli continuò:

—Un giorno, il povero Francescone sentì che la vita lo abbandonava. Mandò a chiamare il mio parente e con le lagrime agli occhi gli raccomandò, lo scongiurò di proteggere Rosa e Carolina come aveva protetto e beneficato lui. Che ne sarebbe stato delle due povere ragazze se avessero dovuto abbandonare il molino? E il mio parente promise, col cuor buono che aveva, e mantenne la sua promessa. Rosa e Carolina rimasero nel molino assieme a un antico e fedele garzone, e il mio buon parente, durante il resto della sua vita, non s’occupò che di loro. Venuto a morte anche lui, dopo quattro anni da quella di Francescone, chiamò il notaio, gli ripetette le medesime raccomandazioni del mugnaio e non una ma cento volte lo pregò che m’interessasse in coscienza alla sorte delle due ragazze. Da parte mia risposi al notaio che Rosa e Carolina non avrebbero mai avuto a dolersi di me: sarebbero rimaste nel molino de[144]’ loro avi e nessuno le avrebbe tormentate. Anzi, soggiunsi, io farò che una parte dell’utile vada proprio a loro vantaggio.

Bevemmo un altro sorso, e Cataldo riprese il suo racconto.

—Fin qua le cose andavano benissimo, e io stesso, non avendo altro da fare, mi occupavo delle faccende del molino. Quando ecco che v’entro un giorno, e chi vi trovo? Il figlio d’un carrettiere, un ubriacone della peggiore specie, alle prese con un giovanotto beccaio. Il carrettiere aveva cacciato il beccaio in una enorme madia, e quasi era per schiacciargli la testa sotto il coverchio. Figurati! E tutto ciò accadeva perchè quei due, tutti e due presi di Rosa, s’erano incontrati nel molino e lì era venuto loro in mente di saldare i loro conti. E ci volle il bello e il buono per metterli fuori! Vi riuscii soltanto in forza della mia qualità di assessore per l’istruzione, titolo e carica di cui l’onesta cittadinanza di Cassino mi aveva voluto insignire per i miei meriti letterarii. Intanto le due ragazze piangevano in un angolo, e la bionda Rosa mi fece, a mani giunte: Per carità, signor padrone, non ci mandi via dal molino! Io non ho colpa in quel ch’è accaduto! Glie lo giuro sull’anima di mio padre!

—Non era quella, caro Vittorio—seguitò Cataldo—la prima volta che mi trovavo faccia a faccia con le due mie protette. Ma quella[145] volta, la commozione, il dolore di Rosa, non so, mi fecero un’impressione straordinaria.—Ma come—dissi io—come potete permettere a due insopportabili gaglioffi di venire ad accapigliarsi giusto nel vostro molino? Intanto tutti e due si vantano della vostra simpatia per ciascuno d’essi... (Rosa mi veniva appresso mentre uscivo—e nella viuzza, davanti al molino, ci trovammo a un tratto soli addirittura). Io continuavo a dire: Voi volete bene o all’uno o all’altro, non è vero? Dunque, ditelo. A chi volete bene? Al carrettiere? Al beccaio?...

Ella rispose, semplicemente:

—A nessuno dei due, padrone...

La guardai. Rosa mi guardò co’ suoi grandi occhi azzurri e poi li chinò, e arrossì, e tacque...

II

Il mio amico Cataldo s’interruppe un’altra volta.

—Be’?—mi fece col suo tipico accento pugliese—E non bevi?

Allora, sorridendo e battendogli con la mano sulla spalla, risposi:

—Ho capito. Bevo alla salute di Rosa, alla salute di tua moglie, caro Cataldo! Alla vostra felicità!

Egli assentiva, felice davvero, con gli occhi che gli luccicavano.[146]

—Bravo! E io bevo alla tua salute, Vittorio! Hai indovinato. Sposai Rosa dopo due mesi. Ed eccomi qua, eccomi tranquillo, ecco la mia pace...

—Ecco la tua pinguedine, ecco il bel colore di salute che si spande sul tuo volto arrotondato, ecco il tuo debole per questo buon vinello bianco...

Egli si mise a ridere. Se ne versò un altro bicchiere: lo bevve d’un fiato, e cantò con la sua voce un poco stonata:

O rose del mio volto,
non appassite ancor!...

Poi allungò le braccia sulla tavola, ve le incrociò, e soggiunse:

—E tu?

—Io? Non vedi? Son qui, ispettore scolastico delle vostre classi elementari. Resto a Cassino otto giorni, e poi torno a casa.

—A casa dove?

—Come dove? A Napoli. A casa mia.

—Dove abiti?

—A Forcella.

—Sempre solo?

—Sempre solo.

Vi fu un silenzio. Avevo allungato il braccio e spiegata la mano sulla tavola. Cataldo stese la sua lentamente e la posò sulla mia. Ci guardammo. Egli mormorò:[147]

—Povero Vittorio!...

E perchè?

Che volete, il vino mi diventò triste, all’improvviso...

III

—Dunque partite?

—Sì... parto.

—Quando?

—Domani.

Eravamo nel giardino, Carolina ed io, soli. Perchè ci lasciava soli, Cataldo? Carolina era bruna, aveva gli occhi neri e dolci, aveva le labbra rosse come le ciliege, le mani piccole piccole, bianche come la farina del suo molino. E durante la mia breve dimora a Cassino il mio amico Cataldo non aveva fatto che parlarmi di lei. Ricordo le sue parole: Francescone ha lasciato in questo molino due pietre preziose...

E ricordo, come se ora trascorresse ancora sotto gli occhi miei, il magnifico tramonto che quel giorno imporporava le montagne cassinesi. Il loro dosso s’infiammava, e un roseo riverbero coloriva ogni cosa intorno a noi. Il giardino odorava di mentastra, e il silenzio era alto, l’ora era propizia. Io sentivo battere il mio cuore con palpito insolito. Un flutto di tenerezza mi veniva alle labbra e si voleva mutare in parole. Una interna voce mi sospingeva: Su, coraggio,[148] parla, dille che le vuoi bene da quando l’hai vista! Chiedila al buon Cataldo! Rompi l’indugio! Seppellisci una buona volta la tua tristezza! Ma non vedi che ti vuol bene?...

La guardai, muto. Carolina abbassò gli occhi e si mise a tormentare la frangia del suo grembiale. Io non li vedevo quelli occhi—ma tutto in lei rispondeva: Sì, sì, signor Vittorio, io vi voglio bene! Chiedetemi a mio cognato! Prendete la piccola Carolina e formate la sua felicità...

Poche volte da quando esisto mi sono sentito così sconvolgere come in quel punto. Ero per afferrare il mio momento—ciascuno ha un momento decisivo della sua vita—e la mia mano s’irrigidiva! I miei occhi si velarono...

—Che avete?...—ella balbettò.

Io volevo dire: nulla, o volevo chissà che cosa dire, quando la voce di Rosa suonò dall’alto, da una terrazzetta:

—Carolina!... Carolina!...

Ella rispose:

—Eccomi.

Mi tese la piccola mano. La strinsi dolcemente e la rattenni nella mia fino a che la poverina non la ritrasse pian piano. Ella scomparve. E, come se allo stesso tempo un velario si fosse squarciato davanti agli occhi miei, mi riapparvero, in una rapida successione d’immagini, la mia triste cameretta in una delle più[149] malinconiche vie di Napoli, l’affumicata Trattoria dell’Asso di fiori, la sala vasta, silenziosa e fredda della biblioteca Brancacciana, ove il meglio della mia giovinezza era trascorso...

E il tedio di questa mia giovinezza senza coraggio, senza speranze, senza consolazioni, premette il mio spirito addolorato. Il giardinetto aveva in quel punto una voce misteriosa, vi passava, con le ombre che scendevano, come un soffio dolente: le cose attorno, oscurate, svanivano...

IV

—Addio, dunque, Vittorio!...

E Cataldo Abbadessa, grasso, roseo, allegro, affettuoso, mi gettò le braccia al collo, presso al carrozzino che mi doveva accompagnare alla stazione.

—Caro Vittorio!...—diceva—Povero il mio caro Vittorio!

E non sapeva dire altro. La signora Rosa, fiorente come lui, fresca, d’una bellezza piena di salute e di luce, mi andava cacciando sigari in saccoccia e ammucchiava alcuni piccoli formaggi della sua fattoria sui cuscini del carrozzino.

—Perdonateci, professore... È cosa da poco... Siamo gente alla buona...

—Dunque, addio...—balbettai—Addio, Cataldo... Addio, signora Rosa...[150]

Il carrozzino si metteva in moto.

Ebbi appena il tempo d’esclamare:

—Signorina Carolina, addio...

Ella, ritta in mezzo alla via, immota, pallida, stese la mano...

La udii mormorare:

—Addio, signor professore...

E il carrozzino partì, velocemente, tra nugoli di polvere.


[151]

TOTÒ CUOR D’ORO

[153]

I

Due disgrazie, una più terribile dell’altra, colpirono, tre anni fa, nel febbraio, il mio amico artista Totò Galiero. Morì improvvisamente un suo zio presso il quale Totò mangiava, beveva, e scriveva le sue poesie lagrimose, i suoi sonetti pieni d’anima, come dicono adesso, i suoi straziantissimi drammoni, brani d’un cuore esulcerato, ch’egli, con un sorriso amaro, gettava di volta in volta a quel cane del pubblico. E un male misterioso—lo scoppio, a sentire i medici, d’una latente infermità nervosa che finiva per molto stranamente esprimersi—gli annebbiava in tale maniera la vista da nascondergli a un tratto e completamente ogni miseria umana.

Gli amici, figurarsi se rimasero atterriti da questo duplice disastro! Coglieva il poeta sentimentale, il pietoso scrittore del «Calvario d’una derelitta», l’espositore commosso delle privazioni degli oppressi, Totò Galiero, il vero socialista della penna, soprannominato fra noi «Totò cuor d’oro» per le rare e nobili qualità della sua psiche.[154]

La povertà! La cecità! Ci pensate voi? Roba da far rabbrividire, veri castighi tremendi. Ed ecco per un anno la Vedetta Letteraria, L’Humanum, il Giornale del Socialismo Artistico privati, deserti dei versi e della prosa del nostro buon Totò. Ed eccolo sparito, seppellito chissà dove, muto per tutti, ma impavido, stoico, certamente, e con quell’animo forte che posseggono le creature fatte come lui, ritto di fronte alle sue due immani sventure.

Dopo un anno da questi fatti dolorosi, mentre una sera leggevo tranquillamente il processo Dreyfus, la posta mi recapitò, fra l’altre, una lettera sulla cui busta era scritto, con calligrafia evidentemente muliebre, il mio nome.

Io non sono un donnaiuolo, non intrattengo corrispondenza epistolare con le ammiratrici del mio nobile ingegno, non eccito gli scambii spirituali con le letterate. Quella calligrafia donnesca mi sorprese, dunque, e m’intricò. Apersi la busta, guardai in fondo alla breve letterina e vi lessi con meraviglia non poca la firma del mio amico Totò! Lì per lì, non ricordando la sua triste infermità d’occhi, mi domandai perchè mi scrivesse a quel modo, servendosi di quelle pattes de mouche così peculiari a un sesso che non era il suo. Poi mi risovvenni della fatale necessità ch’egli aveva di ricorrere a un’altra mano per le sue epistole, e nello spirito mi rimase soltanto la curiosità di conoscere per quale ragione egli affidasse la[155] sua corrispondenza a una donna. La lettera, per altro, me lo spiegò subito.

«Conoscete, mio caro amico, l’ex monastero di Santa Patrizia, lì nella vecchia Napoli, ricoverante famiglie povere e vergognose della loro povertà, antichi impiegati pensionati e pinzochere e attori decaduti? Lo conoscerete certamente. Ebbene, io son lì, anzi qui, in questo decrepito locale: secondo corridoio del secondo piano, terza porta a sinistra. Vado dal medico ogni tre o quattro giorni e aspetto, pazientemente, l’operazione alla quale egli mi dovrà sottoporre e che, dice lui, riescirà completamente. Le mie condizioni finanziarie non sono, ahimè, mutate. Se spero di riacquistar la vista non così spero di potere trovar presto un posticino, un’occupazione quale che sia, tanto, insomma, che mi dia da vivere. Pazienza! Sapete d’altra parte, che cosa veramente desidero? Una vostra visita. Verrete dunque? Vi aspetta il vostro affezionatissimo Galiero. Ave!

«P.S.—La mano che vi scrive questa lettera è quella d’una buona vicina che mi fa da segretario. Il cuore è sempre quello del vostro Totò. Arrivederci!»

Povero Totò! Non misi tempo in mezzo e andai a trovarlo nel vecchio monastero di Santa Patrizia. Era una di quelle uggiose, piovigginose, grige giornate di marzo che vi mettono la tristezza in cuore e l’umido nelle ossa. Trovai Totò del suo[156] solito umore quasi allegro e fu egli stesso, anzi, che avviò la conversazione per via non funebre.

—Guarirò—mi disse—Il dottore me l’ha proprio assicurato. L’operazione sarà dolorosa, sarà lunghetta, ma io tornerò a vedere.

—Ma davvero?

—Oh! Ne sono certissimo. Lo sento, ecco. E sento che al mio cuore tormentato è riserbata la più alta, la più gentile delle soddisfazioni. Quella di poter vedere, di poter ringraziare non solo col vivo della mia voce, ma col baleno del mio sguardo commosso la più santa delle creature di questo mondo, colei che durante la mia infermità non s’è mai per un momento solo allontanata da me, che m’ha prodigato tutte le sue cure, tutto il suo affetto, tutta la sua bontà! Oh! le sarò ben riconoscente, amico mio! Ora io non desidero di vedere che per lei, per lei solamente!

Parlava forte. La sua voce s’era riscaldata e tutta la sua persona vibrava.

Mi parve di udire un fruscìo di gonne, fuori la porta della celletta. Qualcuno che forse origliava lì, nella penombra, ora s’allontanava in fretta.

E Totò mi parlò della sua vicina, a lungo. Un angelo. Tutti i giorni gli portava il caffè, gli sedeva accanto, lo consolava, gli leggeva i libri e i giornali, gli scriveva le lettere, badava alla sua biancheria, gli spazzolava gli abiti...

—Dunque un idillio?[157]

—Mah!—fece lui, sorridendo.

—Bella?

Totò sorrise ancora, amaramente. E io m’accorsi della mia storditaggine. Che poteva sapere, il povero cieco, del fisico dell’angelo? Ma egli continuava a narrarmi di tante piccole circostanze sentimentali per cui pensai che almeno nell’anima di lui, se non davanti agli occhi suoi, la figura della misteriosa benefattrice doveva essere impressa come una delle più delicate e suggestive.

—Mi scriverete ancora qualche volta?—chiesi al mio amico sul punto di lasciarlo.

—Ma certamente. Spero di potervi presto annunziare la mia guarigione.

—E la felice soluzione del vostro idillio—soggiunsi.

—Chissà?...—disse lui.

II

Passarono da quel giorno sei o sette mesi. Notizie di Totò, durante tutto quel tempo, io non avevo più potuto apprendere poi ch’ero dovuto partire, appena qualche settimana dopo di averlo visto, per la Germania. Lassù, di volta in volta, mi si rifaceva vivo il ricordo de’ miei amici di Napoli e spesso, nella nebbia nicotinizzata di qualche birreria di Magonza o di Heidelberg,[158] tra’ fumi del prosciutto caldo e del saüercraut, la ideale e dolorosa figura di Totò Galiero mi appariva come quella d’un personaggio poetico e tragico, e degno di quella nordica letteratura.

Tornato a Napoli trovai, fra le parecchie che il mio portinaio aveva avuto la splendida idea di serbarmi per tre mesi nel suo casotto, una lettera di Totò. Questa volta egli scriveva manu propria, con la sua bella calligrafia chiara e grande, indizio, come osservano i grafologi, d’una passionalità generosa.

«Sono guarito!—annunziava la lettera—Vedo! Vedo!»

Nient’altro.

Evviva! Ma dove ottenere più precise notizie, dove potermi congratulare con quel poveretto, dove poterlo riabbracciare? Corsi all’ex monastero di Santa Patrizia, infilai daccapo quel lungo e oscuro corridoio che m’aveva guidato alla cella di Totò e con una indescrivibile emozione picchiai al numero 40.

Mi venne ad aprire un vecchietto che aveva fra mani un berrettino tondo intorno al quale egli stesso andava cucendo un nastro di felpa. Dallo schiuso della porta s’intravedevano un lettuccio basso, una vecchia sciabola e due grandi stivaloni appesi al muro, e attaccati alle pareti delle immagini sacre, delle fotografie, un ritratto di Ferdinando II. La stanzuccia mi parve quella[159] d’un qualche militare giubilato, d’un solitiero, come dicono a Napoli: il vecchietto aveva ancora l’aria marziale, un bel paio di bianchi baffi rialzati e addosso una giacchetta soldatesca, abbottonata fino al mento.

—Scusi, Totò Galiero?

Egli esclamò, sorpreso:

—Come! Chi?...

—Domando perdono.—soggiunsi—Galiero. Ha forse sloggiato?

—Da un pezzo!—disse lui.

—Sono un suo amico. Venivo a vederlo. A congratularmi con lui anzi, che, pare, ha riacquistato la vista... Lei... scusi, ne sa niente?... Vedo che occupa la sua stanza...

Il vecchio mi continuava a sgranare gli occhi in faccia, e taceva.

—Lo conosce?—insistevo—È pure un suo amico, lei?

—Io!?—urlò, come se gli avessi dato uno schiaffo.

Vi fu un silenzio. Ero confuso, non sapevo più che dire e quasi facevo per salutare il vecchietto e andarmene. Egli si volse addietro per riporre il berrettino e l’ago su un tavolinetto. Poi uscì nel corridoio, mi prese per mano, silenziosamente, e mi condusse rimpetto, d’avanti a un’altra porticella. Si chinò a guardare pel buco della serratura e mi fece atto perchè lo imitassi. Guardai là dentro anch’io.[160]

V’era una giovane donna, bruttina, piccola, biondiccia, seduta per terra—al sole che la illuminava tutta—accanto a uno di que’ grossi cestoni ne’ quali le povere madri napoletane, le donne del popolo, mettono a dormire i loro piccini. La piccola bionda si chinava su quella culla e di volta in volta agitava la mano per cacciar via qualche mosca.

—Ha visto?—disse il vecchietto.

Non capivo e non sapevo che cosa rispondere. Allora egli, nel corridoio scuro, avvicinando quasi alla mia la sua faccia, mormorò:

—Il suo amico ci ha lasciato questo grazioso ricordo. Ah, non sa nulla? Bene, glie lo dico io. Partito... Il signor Galiero è partito per l’America, coi denari dell’eredità d’uno zio prete... Capisce?... E lei, non ne sapeva nulla?

Sorrideva, ma con tal sorriso che mi gelò il sangue. Le sue mani scarne tremavano.

—Totò Galiero!—esclamai—Totò ha fatto questo!...

—Già:—disse il vecchietto, continuando a sorridere e rincamminandosi verso la sua stanza—Totò Galiero ha fatto questo. Ha fatto una madre. E te l’ha piantata col figliuolo. Che? Bello! Magnifico! Grandioso! Per gratitudine, l’ha fatto. Quella è la signorina che lo ha assistito durante tutta la sua infermità...

Fece ancora due passi e si volse.

—Totò cuor d’oro, se non mi sbaglio—esclamò—Totò[161] cuor d’oro!... Il poeta! Accidenti! Totò cuor d’oro!

Sulla soglia della sua stanza mi salutò con la mano.

—La riverisco, sa! E lei me lo riverisca!

Suonò una risata ironica, sghignazzante, terribile. Il vecchio sparve nella sua camera.

La porticina si chiuse, sbattuta forte.


[163]

QUELLA DELLE CILIEGE

[165]

I

Stesa supina sul piccolo divanetto della sala terrena dell’Ospedale degl’Incurabili, lì ove si fanno le immediate medicature a’ feriti che vi capitano di tanto in tanto da’ rioni popolani di Napoli, una giovane donna ripigliava i sensi a mano a mano.

Erano le dieci ore di una magnifica sera di primavera. La lampadina elettrica, che la suora di guardia aveva incappucciata con un pezzo di carta rosea, bagnava il divanetto e quella donna di un dolce lume colorito, diffuso e uguale.

In qua, presso a una tavola sulla quale era squadernato il registro per le Ricezioni notturne, il medico di servizio preparava, sbadigliando, le bende e l’ovatta. Quando ebbe tutto allestito per la medicatura, sedette alla tavola, si trasse davanti il calamaio e il registro, sbadigliò ancora una volta e accese un’altra lampadina, per vederci meglio.

—Dunque?—disse, voltandosi—Voialtri, fatevi avanti.[166]

Due guardie di pubblica sicurezza uscirono dalla penombra e si posero di faccia al medico. Il brigadiere salutò militarmente.

—Il fatto?—disse il dottore.

—Vico Astuti, sezione Porto.

—Scusi, brigadiere—corresse l’altra guardia—sezione Mercato.

Il medico scosse la testa, nervoso.

—Vi ho chiesto del fatto, non del luogo. Come è andato? Spicciatevi.

—Il fatto del ferimento?—disse il brigadiere—Ecco. Io e la guardia scelta Cosentino, qui presente, passavamo pel Vico Astuti, verso le nove e un quarto. Costei urlava, in mezzo a certe femmine. Ci siamo avvicinati al gruppetto. Be’?—dico—di che si tratta? Dice una di quelle femmine: Brigadiere, portatela all’ospedale: l’hanno sfregiata e perde sangue. E così l’abbiamo portata qui, in vettura...

Il dottore s’era levato e s’avvicinava al divanetto.

—Dove ti hanno ferita, eh, bella bimba?

La donna, che premeva sulla guancia destra una pezzuola la quale s’era tutta arrossata, ne la disgiunse pian piano. Apparve la guancia sanguinante. Ella strinse i denti, con un brivido, e tornò a chiuder gli occhi.

—Rasoio:—mormorava il medico, reclinato sulla donna—colpo scorrente dalla tempia all’angolo mascellare inferiore. Ferita abbastanza[167] profonda. Aspetta... Anche qui? Anche al braccio?

Gli agenti s’accostarono per guardare.

—Ferita anche al braccio!—esclamò il brigadiere—Era per questo che mi sentivo scorrere il sangue nella manica, quando l’ho afferrata pel braccio! Vuol dire che ha parato un altro colpo e ha preso anche quello.

—Ah, Signore Iddio!—sospirò la suora.

—Come ti chiami?—chiese il dottore.

La donna balbettò:

—Sofia Ercolano.

—Soprannominata la rossa—disse il brigadiere.

—E lo vuoi dire chi è stato?

Attraverso alla pezzuola che le nascondeva quasi tutta la faccia, la rossa mormorò:

—Non lo so... Non l’ho visto...

—Sangue d’un cane!—esclamò la guardia Cosentino—Ma senti se non fanno tutte così! «Non lo so! Non lo conosco! È stato uno sbaglio!...». Ah, brutte bagasce!...

—Basta!—disse il dottore.

—Ma Cristo!—mormorò il brigadiere alla guardia—Vuoi star zitto? Non vedi che c’è la suora madre?

Soggiunse, levando la mano spiegata al chepì:

—Possiamo andare?

Senza badargli il chirurgo si volse alla monaca.

—La catinella.

La rossa sgranò gli occhi spaventata, e tentò di rizzarsi.[168]

—No! No!... Che mi volete fare?...

—Pazienza, bella mia. Poca roba. Ce la caveremo in cinque minuti.

Rimboccò fino a’ gomiti le maniche del lungo camice grigiastro e si mise a frugare tra’ suoi ferri. Intanto, piegato sulla cassetta ov’erano riposti, senza nemmeno voltarsi, diceva alle guardie:

—Voialtri andatevene, pel momento. Poi vi chiamerò.

—Andiamocene—disse il Guglielmi a Cosentino.

Nel corridoio incontrarono la suora che portava la catinella.

Il brigadiere le domandò:

—Scusi, resta qui la rossa?

—Ma s’intende—disse la suora.

S’udì la voce dell’Ercolano, alta, squillante:

—No! No!... Ah, bella Vergine!... Ah, Madonna del Carmine!...

Ora, nello spazioso cortile tutto inondato dal chiaro lume della luna, le guardie, stanche, s’avviavano al largo sedile di marmo su cui, presso alla scala scoperta e marmorea, un gigantesco eucaliptus spandeva un’ombra nerastra.

Sedettero. Il brigadiere accese un sigaro e lanciò alla fresca e pura aria notturna una copiosa boccata di fumo.

Risuonò, ancora, più cupo, un urlo della rossa. Si rifece il silenzio.[169]

—Guardi che luna!—mormorò Cosentino, levando gli occhi in alto.

—Luna piena—disse il brigadiere, beatamente.—Pare giorno.

Dopo un po’, Cosentino disse:

—Ha mezzo sigaro, per caso?

II

Nella sala «Ramaglia», al buon sole che v’entrava pe’ larghi finestroni, le ricoverate nell’ospedale chiacchieravano. Delle frasi allegre correvano di letto in letto fino in fondo allo stanzone, ove, presso alla bella porta di marmo e accanto a una tavola coperta da un tappeto verdognolo, una suora preparava filacce. Seduto alla medesima tavola l’impiegato delle entrate ricopiava in un quaderno le prescrizioni farmaceutiche. Era l’ora della visita. I parenti delle ricoverate arrivavano a gruppi, continuamente, e si sparpagliavano intorno a’ letti e subito vi si andavano a sedere accapo o nel corsello tra muro e letto, o rimanevano davanti ad essi, impiedi, con l’aria triste e meravigliata delle persone di buona salute che si trovano al cospetto d’un qualche loro caro diventato là dentro così pallido, così triste, così sfinito! Laggiù, verso gli ultimi letti, una giovane contadina itterica baciucchiava il figliuolo che le avevano portato dal villaggio, un marmocchietto[170] bianco e roseo il cui vivo incarnato dava maggior rilievo all’orribile color giallastro della madre. Un altro figliuoletto di lei s’era arrampicato sul letto e là dove la coltre si alzava ad angolo sulle ginocchia della mamma egli si piegava, e abbracciava ridendo quelle ginocchia nascoste e le baciucchiava.

La suora di guardia sospese la sua bisogna e mormorò all’impiegato:

—Guardi che bella scenetta per un pittore!

—Idroclorato di morfina—fece l’impiegato, con l’indice della sinistra puntato sul foglio dal quale ricopiava—Ovatta pacchi nove... Diceva, suora?... Già: difatti. Scena per un pittore. C’è la visita, oggi?

—Certo. È giovedì.

—Non ci avevo badato.

Rimasero muti per un pezzo, guardando a uno a uno i nuovi venuti dei quali qualcuno, capitato lì per la prima volta, cercava il letto che gli avevano indicato.

—Quella lì non ha proprio nessuno che la venga a trovare—osservò la suora, a un tratto.

—Chi?

—L’ottantuno. Laggiù.

—La rossa? E chi vuole che la venga a trovare? Ecco... se proprio ci volessero venire tutti quelli che la conoscono... Avremmo qui un reggimento, suora!...

—Davvero? E perchè?[171]

—Perchè?... Perchè queste cose lei non le sa. Sono piccole miserie della vita, ecco. Quella signorina è un po’... Come devo dire? Un po’ la signorina Omnibus.

La suora arrossì e si levò. Minacciava l’impiegato, con l’indice teso.

—Ah, quella linguaccia!

—Già, già: ha ragione.—disse quello, e si rimise a ricopiare—Ovatta pacchi nove, garza tre, bende sette...

La suora mosse dirittamente al lettuccio della Ercolano, che pareva assopita. Contemplò a lungo quel volto ancora pallido, segnato dalla tempia all’angolo della bocca dalla ferita recente, che ora s’andava rimarginando. E come l’Ercolano lasciava penzolare fuori del letto un braccio ella glie lo sollevò, dolcemente, e lo ripose sulle coltri.

La rossa aperse gli occhi e sorrise.

—Quel povero braccio!—disse la suora—Il braccio malato! E lei se lo lascia cascar giù fuori dal letto!

—È guarito.

—Ah, sì? Come andiamo dunque? Bene?

—Bene, sì, sì. E domani me ne voglio andare. Ecco già undici giorni che son qui. Ci perdo la salute, suora! Peggio d’un carcere!

—Ma dove vuole andare? Parenti ne ha lei?

—Non ho alcuno—rispose l’Ercolano, un po’ triste, un po’ impazientita.

S’era messa a sedere in mezzo al letto e le[172] sue mani esangui e nervose tormentavano le lenzuola. Il suo sguardo errava, senza volontà. E su’ letti in fila, sul viavai della gente esso passava come quello, già abituato e senza curiosità, delle vecchie clientele dell’ospedale. A un momento, più a lungo, s’arrestò sulla cappelletta che veniva fuori da un angolo dello stanzone, nascosta da pesanti cortine a fiorami.

La suora immaginò che pregasse. Si intenerì. Stese la mano, dopo un poco, e lievemente glie la posò sulla spalla.

—A che pensa?

—Penso—mormorò l’Ercolano—al sogno che ho fatto stanotte. Ho sognato delle ciliege. E mi pareva di averne pieno il grembiale e di mangiarne tante, tante!...

—Ciliege?

—Le adoro.

S’era fatta lieta. Si dimenticava.

—Tante volte, quando mi cercano, chiedono di quella delle ciliege...

—È il tempo loro—disse la suora, arrossendo—Domani glie ne faccio avere.

—Domani me ne vado.

—Ma no!—esclamò l’altra, scotendo il capo.—Non voglio che se ne vada così presto! Ancora non siamo in gambe, figliuola!

E le carezzò i capelli, col suo solito atto materno che le ingraziava le ricoverate più difficili.

Lentamente l’Ercolano si riaddossò ai cuscini[173] e vi affondò il capo. Sulla sua pallida faccia passò un’ombra di tedio e di stanchezza.

—Dunque si resta intese—disse la suora—Domani non si va via. E le porterò le ciliege, domani.

La rossa aveva chiuso gli occhi. Pareva assopita. La suora si chinò sopra di lei e le mormorò:

—Arrivederci, non è vero?

—Arrivederci...—balbettò la convalescente.

III

A poco a poco il sole risaliva su per le coltri del letto. Una chiazza ancor abbagliante dilagava sulla bianca parete, a capo; ancora gli origlieri se ne bagnavano e, come un casco dorato, lì, copiosa e lucida, la capigliatura dell’Ercolano accoglieva riflessi quasi metallici. Le coltri estive disegnavano una sagoma voluttuosa, un ricco e immoto seno giovanile.

Era terminata la visita. Dei ritardatarii s’indugiavano presso a’ letti, impiedi, con le mani ancora poggiate sulle spalliere delle seggiole dalle quali s’erano levati e dove pareva che stessero lì lì per rimettersi a sedere come per tornare a discorrere coi loro malati.

Un giovanotto piccolo, bruno, col cappello di feltro molle su gli occhi, ronzava da un pezzo attorno al letto della rossa. Ed era adesso così[174] intento a contemplare l’Ercolano, così conquistato da quella dolce immobilità sopita, che non s’accorse null’affatto di due altri borghesi che gli stavano alle costole e spiavano ogni atto di lui.

A un tratto si decise. Fece due passi verso il letto e cacciò la mano in saccoccia.

—Fermo!—urlò uno dei borghesi, ch’era il brigadiere Guglielmi.

E gli fu addosso e lo abbrancò pel colletto. La guardia Cosentino gli afferrava le braccia, di fianco.

—Che vuoi fare? Un’altra rasoiata? Fermo, corpo di Dio!...

L’uomo, agguantato così d’un subito, sulle prime non aveva opposta alcuna resistenza. Ma ora cercava di divincolarsi.

—Fermo!—gridava il Guglielmi.

Cosentino gridava anche lui, voltato alla porta:

—Qua, qua! Custodi!

E mentre di laggiù, dal fondo della sala, qualche inserviente accorreva e s’udiva gridare qua e là anche da’ letti, la rossa si svegliò, di soprassalto. Ora quel giovanotto le stava quasi di faccia.

Lo riconobbe. Gli era cascato il cappello, a piè del letto.

Mise un grido rauco:

—Tu! Tu!... Rafèle!...

—Cuccia!—le fece il Guglielmi.

Cosentino le gridava:[175]

—Sorcio in trappola! Ora ce lo dirà lui chi è stato che t’ha sfregiata!

Lo sconosciuto mormorava, perdutamente:

—Io... sì... è vero...

Ma protesa dal letto, l’Ercolano urlava, con le braccia stese:

—No! No!... Non è stato lui!...

—Va bene!—rise il brigadiere—E ti credo, va! Parola d’onore. Vi metterete d’accordo davanti al giudice!...

Cosentino si frugava, cercando le manette, e canticchiava:

E ll’ammore è na catena,
nun se po’ cchiù scatenà!...

—Perquisiscilo—disse il Guglielmi.

L’uomo, pallido come un morto, si lasciò fare.

—Ha le saccoccie piene di ciliege—disse Cosentino.

Ne gettò sul letto due schiocche.

E alla rossa, che mordeva gli origlieri e si torceva tra le coltri, gridò, ridendo:

—Toh, rossa! Le ciliege! E fattene buccole!...


[177]

QUARTO PIANO, INTERNO 4

[179]

Al quarto piano d’uno de’ mastodontici palazzi del Vasto, un nuovo rione risultato dalla bonifica delle paludi, rimpetto alla stazione ferroviaria, il maestro direttore d’orchestra Sponzilli—la cui moglie, scappatagli di casa con un tenore, era finita di febbre gialla in America—abitava l’interno 4 con la figliuola Sofia e una servetta, l’Emilia, che in casa chiamavano Milia—una contadinotta di Corleto Perticara.

S’era nel luglio. Presso alla finestra che affacciava sul vasto cortile del palazzo, Milia s’era posta a lavorare all’uncinetto. Le mani pienotte e arrossate che, poco prima, avevano risciacquato panni e pentole, andavan lente: di volta in volta l’uncinetto, tra quelle impratiche dita poco agili, s’arrestava e ricascava in grembo alla giovanetta. E di su ’l davanzale della finestra, tra un vaso di menta e i fascicoli d’un romanzo illustrato, il gatto di casa, che lì aveva trovato il suo posticino al sole, la contemplava, ammiccando. Un’afa sciroccale pesava sul cortile silenzioso: le ore d’un torrido pomeriggio scorrevano lente.[180]

Improvvisamente suonò, breve, una voce. La servetta trasalì e levò il capo: si rizzò pure il gatto e fece arco della schiena, e sbadigliò. La voce veniva dalla camera da letto della signorina Sofia.

—Milia! Milia!

Il gatto scese dalla finestra e s’avviò. La servetta raccolse il merlettino, il gomitolo, l’uncinetto e ammucchiò tutto sui fascicoli del romanzo. S’alzò e scosse il grembiale.

La voce interna insisteva:

—Milia! Milia!

—Uff!—fece Milia.

E rispose forte:

—Vengo, vengo! Pronta!

Nella cameretta della signorina era buio: le imposte del balcone erano chiuse. Ma da quella commessura, avanzando fino a piè del letto, si partiva come una sottile lama d’oro. Attorno l’ombra si raffittiva.

—Dove siete?—disse Milia.

—Qui, qui. Vieni qui: senti...

E la sagoma del letto si svelò a poco a poco agli occhi della servetta. Vagamente, nella penombra, cominciarono a pigliar rilievo un tavolo tondo, il canterano, il divanetto.

—Senti, Milia, senti...

Dal letto si stese un braccio, e una mano febbrile le agguantò e strinse il polso.

—Oh, Gesù!—fece Milia, impaurita.[181]

Di su le coltri—s’era gettata bell’e vestita sul letto—la signorina Sofia, sollevata sopra un gomito, si protendeva. Gli occhi di lei lucevano nell’oscurità e la Milia, immota, si sentiva figgere addosso quello sguardo ansioso.

—Milia, dimmi... Mi vuoi bene? E se la signorina tua ti chiede un favore... dimmi... se ti chiede un favore, che le rispondi?

—Oh, signorinella!—balbettò Milia.

—Senti, un favore da niente... Ascolta bene. Tu devi andare da Enrico... Alla ferrovia... Alle partenze, lo sai, dove si prendono i biglietti...

La signorina frugava sotto l’origliere.

—Lo farai chiamare e gli darai questa lettera.

Nella penombra la busta della lettera biancheggiava. Milia ritrasse le mani.

—Non vuoi? Non vuoi andare?...

Ora la signorina s’era levata a sedere sul letto e ricercava le piccole ruvide mani che le erano sfuggite. Le ritrovò, le strinse, dolcemente, lasciò tra quelle scivolare la lettera e le rinserrò.

—Perchè non vuoi? Di che hai paura? Tu lo sai, fino a stasera papà non torna. Nessuno saprà nulla. Su, Milia! Come te lo devo dire? Vacci! Fammi questa carità!

L’altra, irresoluta, taceva, girando e rigirando la lettera fra le dita.

—Rispondi! Che vuoi fare? Non vuoi? Dunque alla signorina tua non le vuoi più bene? Di’, non le vuoi più bene?[182]

E a un tratto ruppe, afferrandole e squassandole le braccia:

—O vai tu, o mi levo e ci vado io!

—Date qua.—piagnucolava la servetta—Ci vado, ci vado...

La lettera era caduta a piè del letto. La servetta si chinò, sospirando, e la raccolse.

—Che gli devo dire?

—Che voglio subito la risposta. E... se è vero...

—Se è vero?...

—Se è vero quello che si dice...

—Che volete la risposta a quello che gli avete scritto e se è vero quello che si dice.

—Così. Ora va. Ti ricordi? Alle partenze. Chiamalo fuori dell’ufficio.

La servetta si ficcò la lettera nel busto e uscì. Ripassando per la stanza che poco fa aveva lasciata si fece alla finestra e guardò nel cortile. Il gran cortile era deserto: a un angolo, per una delle porte d’entrata, passava un gran chiaro e si diffondeva e dilagava sull’arido selciato. La moglie del portinaio aveva piantata al sole una seggiola e appeso alla sua spalliera un sudicio lino del suo poppante. All’opposto angolo, nell’ombra, la ruota immane per la fornitura dell’acqua gocciolava e lo stillicidio incessante turbava una pozza d’acqua, là sotto. Di fuori l’immenso rione nuovo del Vasto pareva morto: il silenzio era alto: nessun romore, nessuna voce.

Di faccia alla finestra ove la servetta s’indugiava[183] era quella della Marangi, la maestrina comunale. A poca distanza dal parapetto, seduta a una tavola sulla quale era pur la piccola macchina da cucire, la Marangi scriveva, piegata su un mucchio di carte. Di volta in volta, sostando, si leccava il medio della mano destra che s’era insudiciato d’inchiostro, e lo fregava a una pezzuola.

—Signorina Marangi,—disse Milia—scusate tanto se vi disturbo. Io vado per una commissione e lascio sola la mia signorina. Mi volete dare occhio alla porta?

La Marangi levò il capo. Rispose:

—Va bene.

Si rimise a scrivere. S’udì lo sbattere della porta e Milia scese le scale, canticchiando. Era così alto il silenzio che la Marangi udì, chiaramente, la voce della servetta in cortile. Milia diceva al portinaio:

—Don Angelo, non lasciate salire alcuno. La signorina è rimasta sola in casa. Io vado per un soldo d’aghi e subito torno.

La maestrina, che aveva abbandonato il braccio sulla tavola e schiuse le dita dalle quali era sfuggita la penna, sospirò profondamente. I suoi grandi e dolci occhi azzurrini si velarono, stanchi, fra le ciglia. Appena tornata dalla scuola s’era posta a rivedere i compiti delle sue scolarette: un mucchio di scritti infantili aspettava ancora i suoi segni di correzione a matita azzurra. E la notte precedente ella aveva così poco dormito![184]

—Pazienza!—mormorò, passando e ripassando le dita sulle palpebre grevi.

Come un’eco, dalla finestra dirimpetto, una voce ripetette:

—Pazienza!

—Oh, Sofia! Sei tu?—disse la Marangi.

Immobile, ritta presso il davanzale della sua finestra, la signorina Sofia la guardava.

—E tu che fai, Laura?

La maestrina sorrise, malinconicamente. Con gli occhi indicò gli scritti sparsi sulla tavola.

—Non vedi? Correggo compiti.

Rimasero mute per un po’ tutte e due, contemplandosi.

—Che fai?—disse la Marangi.

—Nulla.

—Nulla? Troppo poco... Tu soffri. Sofia, tu soffri, lo so. Lo vedo. Come sei pallida!

Si levò dalla tavola e venne a porsi davanti alla finestra. Mise le mani spiegate sul davanzale. E, gravemente, soggiunse:

—Senti, Sofia, lascialo! Io te lo volevo dire da tanto tempo! Pensa a te, pensa a te! Quell’uomo lì non è fatto pel tuo carattere nobile e fine. Lascialo. Egli ti lascerà, se non lo lasci. È tristo, è ingeneroso... Perdonami, sai, non ti dolere... È tristo, è tristo!...

Sofia Sponzilli tremava, bianca come un cencio. Tremavano le sue piccole mani nervose e tormentavano i fascicoli del romanzo, il gomitolo,[185] il ricamo che Milia aveva dimenticato sulla finestra.

Rispose, piano:

—No... non posso.

—Ti lascerà! Lo vedrai.

—Ebbene... se fa questo... Vedrai, Laura!

La maestrina scosse la testa, pietosa. E si mise a riordinare, macchinalmente, i suoi compiti sulla tavola.

—Tu non hai cuore per certe cose!—disse la Sponzilli, all’improvviso—Tu non hai mai amato!

—Oh, figlia mia!—balbettò la maestrina, con tutta la commossa voce del suo cuore pieno di ricordi e di rimprovero.

E le carte le sfuggirono di mano, ed ella chinò la testa e si sentì piegare.

La Sponzilli era scomparsa. Laura Marangi scivolò lentamente lungo la tavola, tornò a sedere al suo posto, riprese la penna e contemplò, muta, meditando, i suoi compiti. Gli occhi le si erano empiti di lagrime. Bagnò due o tre volte la penna, cercò uno degli scritti nel mucchietto che se n’era posto davanti. La mano e lo scritto, rimasero lì, immoti. Ella si risovveniva, ora, di tutte le sue pene, di tutto l’amor suo finito miseramente per una volgare questione d’interessi, di denaro. Povera, anche lei: con una mamma vecchia, cieca, poveramente pensionata, con un fratello ferroviere che ora le voleva abbandonare per ammogliarsi,[186] e senz’altro, senz’altro, che uno stipendio meschino! E senza più amore, e senza più speranza, davanti all’oscuro avvenire!

Reclinò la testa bionda sul braccio e ve la posò, e vi nascose la faccia.

Ora tornava Milia, dalla ferrovia: si udiva il romore de’ suoi zoccoletti, su per le scale. La porta di casa della Sponzilli s’aperse e sbattette con uno strepito breve. La Marangi non si mosse, non levò il capo. Piangeva piano, col volto sul braccio piegato: piangeva amaramente, senza sapere perchè.

Suonò, all’improvviso, un alto grido angoscioso. La servetta apparì alla finestra, con le mani ne’ capelli, con la faccia stravolta.

—Milia!—gridò la Marangi.

—S’è buttata dal balcone! S’è buttata giù!...—urlava Milia—Ah, Madonna del Carmine! Signorina! Oh, Dio! La signorina mia ha avuto la risposta da quel giovane e s’è buttata!...

La Marangi si coperse la faccia con le mani. Tentò di levarsi. Ricadde sulla seggiola.

Balbettava:

—Oh, Sofia! Oh, Sofia mia!... Oh, Dio! Dio! Dio!...

Milia si schiaffeggiava, pazzamente, urlando:

—Dal balcone! Dal balcone!...

Disparve. La porta di casa s’aperse con un fracasso spaventoso. La servetta si precipitò per le scale, urlando. E su per ogni pianerottolo s’apersero[187] subito altri usci, e nel cortile si popolarono tutte le finestre.

Una voce, dall’alto disse:

—Chi s’è buttata?

Un’altra rispose:

—La Sponzilli... La figlia del maestro di musica. Dall’altra parte. Nella via Brindisi...

E dalla via Brindisi un vocio confuso e crescente salì alle finestre. Ora la folla entrava nel cortile, e se ne udiva il mormorio. Portavano qualcuno, in cortile, un corpo immoto...

La Marangi, inorridita, si trasse addietro e s’appoggiò allo spigolo della tavola. Si sentì mancare. Si provò a chiamare la madre e la voce le venne meno.

Un prete, di furia, scendeva dall’ultimo piano. Era il fratello d’una vedova, cappellano a Santa Maria delle Paludi.

Si affrettava, pallidissimo, con la stola sul braccio, abbottonando, con le dita tremanti, la sottana al sommo del petto...


[189]

FEDERICA

[191]

I

Sono sei mesi da che ho dovuto lasciare una grande città del settentrione—desidero di non additarla a nome—per un paesetto che ne è lontano quindici miglia. Il mio spirito ha bisogno di quiete. Ho bisogno di vedermi circondato da cose e da persone tranquille; le capitali sono affollate di gente trista e volgare, ciarliera, spregevole, insopportabile, che vi preme e vi disgusta, che popola i caffè e li satura di vanità, di insincerità e di oziosi vaniloquii.

Qui dove sono venuto è altra cosa. Vi rimarrò a lungo? Non so. Ma mi sono suggestionato—e la mia suggestione non s’è interrotta fino a questo punto. Sì, vi rimarrò: vi devo restare parecchio. Qui scriverò, solo solo con me stesso e coi miei ricordi che hanno bisogno di prorompere una buona volta, la storia che attingerà dai molti e profondi dolori della mia stessa esistenza la materia più sincera. Vedo che mi aiuta, con la sua fisonomia placida e serena, il luogo ove ho riparato. Lo vado ancora percorrendo, in passeggiate[192] mattutine, che non mi stancano e che oramai me l’hanno tutto quanto svelato.

A dugento passi dalla mia casetta, sul fondo verde della montagna, si disegna con semplici linee un edificio rustico e grigio. Ove la raggiunge un parco deserto appare la sua rozza facciata, qua e là striata da bianche suture di calce. Nel parco solitario spuntano da terra, come tanti fiori mostruosi e deformati, alcune antiche erme di pietra—che il padrone di quella casa, che forse fu signorile e bene architettata e ornata, sparse una volta su per un prato muscoso, il prato arcadico del suo bel tempo, ora diventato brullo e disuguale. L’ho pur amato così, nei mesi dell’inverno, quando la pioggia lo immolla, freddo pianto del cielo. Forse perchè la natura non mi pare interessante se non quando è debole o è malata.

La prima volta in cui visitai quell’edificio fu in autunno. Mi parve subito che il tono delle cose esteriori corrispondesse al palpito che da ognuna delle creature umane raccolte in quella casa s’esprimeva come cercando di superarne i muri impenetrabili. In quel vasto manicomio la vicina e grande città industriale manda all’aria ossigenata della montagna i suoi poveri folli. Città meccanica, così pare che si liberi di tutti i guasti suoi congegni: ma ne ricominciano a stridere qui gl’ingranaggi arrugginiti e, spesso, nei giorni di tramontana, all’urlìo del vento, al[193] suo sibilo lacerante si mescola un suono che certo è umano, che da creature umane si parte, e nella cui scomposta e aneuritmica insistenza s’adunano come trasformati, e su d’un tono che ora sale ora scende, il pianto e la preghiera, l’imprecazione e il lamento.

Per quale ragione, dal primo giorno in cui ho posto tenda a X..., mi ha chiamato a sè quel luogo dal quale in altri momenti della mia vita avrei certo rifuggito? Non ve lo so dire: come non saprei dirvi davvero quante volte mi vi sono recato e ho poi finito col giurare a me stesso, nell’uscirne, di non tornarvi mai più. Devo credere, per altro, che quelle mie frequenti visite siano state sollecitate pur dal piacere che ho sinceramente provato di pormi in comunione frequente con la più dotta, acuta e geniale persona che là dentro,—con la scienza che lo esamina e lo sorveglia, con la pietà che lo inganna, con occhi che affisandosi su tanti poveri esseri paiono più teneramente meditativi che indagatori—presieda a quell’ignaro dolore. Non posso indicarvi a nome quest’uomo: lo chiamerò il dottor Massimo. E poi, che v’importa di sapere come si chiami? Questa è la narrazione di un fatto i cui pochi personaggi ho io soltanto il diritto di conoscere compiutamente. Quelli che abitano la triste casa di salute mi sono noti, quasi tutti. Con alcuni dei più tranquilli mi son posto, talvolta, persino a discutere, fino a quando non mi ha separato da[194] loro quella mossa che, all’improvviso, han fatto i loro discorsi di uscire dal campo logico per appressarsi, per tornare con un’insistenza, a volte anche pacata, a un mondo di persone e di cose irreali.

II

Ora, una ventina di giorni fa, mentre allineavo su un pluteo della mia piccola libreria un bell’esemplare, in tredici volumi, Della vita e delle opere di Federigo il Grande,—edizione francese del 1789, che la vecchia vedova d’un bibliofilo farmacista di X... mi aveva ceduto per poco denaro—mi capitò un bigliettino del dottor Massimo, così concepito: «Ho qui del buon the, dell’autentico Hyson hayswen che mi arriva direttamente da Annam; ho per le mani un nuovo soggetto—e non ci vediamo da venti giorni!».

—Inutile scrivere al professore—dissi al vecchietto che mi aveva portata la lettera—fra mezz’ora sarò da lui.

Sulla soglia, uscendo, il vecchietto si voltò per raccomandarmi:

—Sa, signore: il paracqua! Il tempo minaccia.

Si preparava, difatti, una brutta giornata: cielo grigio, aria umida e fredda. Qualche goccia di pioggia mi colpì sulla faccia appena misi piede fuori di casa. Sulla via carrettiera mi soffermai un momento: la campagna, nel lontano, mi parve[195] più deserta e malinconica del solito; una nebbiola bassa, come un fumo lieve, le stava sopra e la oscurava un poco.

Il dottore mi venne incontro nel cortile dell’ospizio. Con la sua effusione abituale m’afferrò la mano e me la strinse.

—Vi chieggo scusa se v’ho scomodato. Ma non vi vedevo da tanto tempo! Bravo, ho piacere. Ora concedetemi dieci minuti di permesso: il tempo di dare un’occhiata alle lettere che mi sono giunte adesso. Dieci minuti, e sono ai vostri ordini.

Si ficcò in fretta nel suo studiolo a pianterreno. Ma prima aveva fatto un cenno a un custode, un gigante biondo, che aspettava, col berretto fra le mani.

—Potete aprire.

Il gigante introdusse una piccola chiave nella toppa della porta ferrata che è in fondo al cortile, e quella, a un suo spintone, stridendo sui cardini s’aperse a mezzo. Passai: il custode era passato prima. La porta si rinchiuse. Eravamo nel Quadrato dei pazzi tranquilli.

Era stato forse un giardino, in origine: ora poco vi restava che lo attestasse: qualche alberello dal tronco sbiancato, il segno d’un viale, uno dei muri ancora rigato, verso la cresta, di cannucce in fila, che il giardiniere vi aveva inchiodato per favorire ascensioni di glicine o di campanule. Addossati a quel muro due freddi sedili[196] di marmo pareva che aspettassero qualcuno: altri ve n’erano qua e là, co’ piedi a zoccolo già conquistati da umide chiazze di musco.

I tranquilli passeggiavano, solitarii, in peripatetici soliloqui. Qualcuno, d’un subito, dopo una lunga corsa lungo il muro di cinta, s’arrestava, si premeva il petto con le mani spiegate, e ansava forte—qualche altro, in estasi davanti all’arida vasca di quella che era stata una fontana, in un angolo, non ne levava più gli occhi incantati—un altro ancora, che ora si veniva a sedere sulla panca di marmo più prossima alla porta, si voltava a interrogarla senza posa, girando e rigirando il capo, che scattava come per un congegno meccanico. Ve n’erano di quelli che si sprofondavano nelle loro meditazioni, e non ascoltavano, non vedevano che que’ loro fantasmi—e ve n’erano altri che, a due a due, a braccetto, or lentamente, ora a passi precipitosi, trascinavano, infervorati, le loro misteriose discussioni. Ove due delle pareti del recinto si raggiungevano e facevano spigolo, con la faccia al muro, con le mani sulla faccia, un poco piegato e quasi tremante, un altro singhiozzava. I compagni gli passavano davanti senza neppure guardarlo.

Spioveva, adesso. Pel fitto d’una scura nuvolaglia finalmente il sole era riescito a ficcarsi: ora quell’immane viluppo s’andava colorendo, i suoi lembi ondulanti si accendevano. Dalla terra inumidita si sprigionava un lievissimo odore che[197] a poco a poco diventava più acre. Ma il silenzio non s’interrompeva. Vedevo venire verso di me, lenta, una coppia che a volte s’arrestava: un vecchio signore aveva passato il suo sotto al braccio di un giovane e questi, camminando, pareva che stesse ad ascoltare il suo compagno anziano. Quando si fermavano, il vecchio figgeva gli occhi ansiosi in quelli del giovane, che lo guardava come trasognato. Pian piano gli scioglieva le mani che quello s’ostinava a tenere rinserrate, e le premeva dolcemente nelle sue. L’ebete si lasciava fare, in silenzio, con un sorriso melenso, passivo alla carezza paterna. E il padre, ch’era venuto a trovarlo, e lo aveva ancora una volta rintracciato in quella folla misera, sempre allo stesso posto e assorbito dall’eterna sua meditazione sconsolata, ora, ancora una volta, e invano, gli parlava sommessamente di tutte le persone, di tutte le cose un tempo così care a lui: della casa, della famiglia, ch’egli aveva dimenticato, forse per sempre. E mentre attorno continuava il va e vieni, continuavano i soliloquii, le corse ansiose, e il pianto di quello che s’era messo con la faccia al muro, qui, a qualche passo da me, quel padre seguitava a sollecitare il figliuolo, e ora, incollerito e angoscioso, quasi lo investiva con la solita domanda che non ha mai risposta: Ma dimmi, dimmi... Ricordi? Dimmi... Ti ricordi?...[198]

III

Il dottore m’aspettava, con le mani sul dosso, con l’ultimo fascicolo della Phrenologische Zeitschrift sotto l’ascella, appie’ della vasta scala che mena ai corridoi superiori. Ricominciammo a parlare del suo nuovo soggetto: una giovane donna ch’era stata affidata alle sue cure speciali.

—Tipo non comune. Nessuna delle degenerazioni fisiche che io riscontro nelle altre ammalate di tal genere. Ecco: forse quelle iridi grige che talvolta si slargano...

S’arrestava al sommo della prima tesa delle scale e pigliava fiato.

—E di che cosa è malata?

—Ebbene, pel momento non vi saprei dire. Ha delle frenosi complicate d’isterismo e di catalessia, e una mania di pianto. Per lo più è muta e solitaria. Qualche volta l’ho udita cantare. La lascio fare, la lascio libera. Ella non farà mai male ad alcuno. Non s’agita, non urla. Nessuna irrequietezza. Per tanto è una isterica: e pure m’oppugna il Sydenam, che al cospetto di lei si troverebbe forse per la prima volta in presenza d’una di queste paranoiche la quale non ha, come lui dice, la costanza dell’incostanza. In fondo, siamo sempre lì—soggiunse il dottore, soffermandosi con me sul largo pianerottolo—le solite devastazioni di quel risvegliatore eterno, dolcissimo ed[199] iniquo, d’ogni male latente. L’amore. Dico bene? Secondo me quella poverina ama o ha amato qualcuno che non ha mai potuto raggiungere.

S’apriva davanti a noi il lungo e spazioso corridoio dalle bianche pareti, deserto. Tutte le porte delle celle erano chiuse.

—È qui, ai pagamenti.—disse il dottore—Numero quaranta.

Con le nocche delle dita picchiò sulla porta e attese qualche poco. Poi ficcò la chiavetta nella toppa e la porta s’aperse.

Ora egli, di su la soglia, col cappello in mano, salutava.

—Buongiorno, signorina.

La vidi, subitamente. Era seduta presso la sponda del suo bianco letto e ci voltava le spalle. Vidi un’onda di capelli d’oro, quasi disciolti, vidi una mano, pallida e sottile, come abbandonata sulla tavola sparsa di fiori, accanto a lei; una mano che s’appressava a quei crisantemi con quel moto lievo e incerto che hanno le dita dei ciechi.

Il dottore presentava:

—Il mio amico Legrenzi.

Ella si volse, e si levò, di scatto. Con un grido, un grido che non potrò mai dimenticare! Si trasse addietro, s’addossò quasi a uno stipite della finestra. La luce della finestra la circonfuse; ma la coglieva alle spalle, e io non vedevo che un fantasma, alto, sottile, dalle braccia levate in atto di meraviglia e di terrore.[200]

Che cosa io balbettai, che cosa feci in quel punto! Non so... M’è parso di piegarmi, di mancare. Le mie mani si sono afferrate allo spigolo della tavola, gli occhi miei fisi e spalancati hanno visto venire verso di me, lento, dal luminoso fondo della finestra, il fantasma. Ho sentito una mano che mi si posava sulla spalla. Ho visto confusamente lei, che si chinava, che mi guardava. E m’è parso che sorridesse, con gli occhi pieni di lagrime...

E ho udito poi la sua voce:

—Ti ricordi!... Dimmi... Ti ricordi!...

IV

Ebbene, sì, ricordavo. Una intera esistenza vi può ripassare davanti agli occhi in un attimo.

Rivedevo, in quella bionda e pallida figura, mia madre, mia madre adorata, morta quando io nulla ancora potevo intendere della vita e delle sue tragedie, dei suoi profondi dolori, delle orribili amarezze che vi invecchiano di colpo e vi abbandonano, disfatti, al tedio o alla disperazione. Sì, rivedevo mia madre, in costei. Era il suo profilo puro e dolce, erano i suoi capelli d’oro che io amavo di carezzare, erano i suoi grandi occhi chiari, d’un azzurro grigiastro, pieni di lume e di dolore. E la voce! La voce ch’era rimasta nel mio orecchio da quel tempo della mia infanzia,[201] in cui la udivo suonare melodiosa e pur breve nella triste solitudine della mia casa. Sì, sì: a che varrebbe nasconderlo? Tutto, ora, tutto ricordavo. Ricordavo che un giorno mio padre, silenzioso, mi prese per mano e mi condusse nella camera ove mia madre moriva. Da tanto tempo non m’avevano lasciato vedere mia madre! Come era bianca nel suo letto, come le sue mani sottili tremavano sulla mia testa! Che mi disse? Balbettava parole che io non potetti comprendere. Oh, Dio, Dio! E pure erano le ultime sue! E poi mio padre, che a un punto disse: Basta!—con la sua voce cupa, quasi irritata. Mi parve un sogno. E poi tutto finì. Mi trovai solo con mio padre, in un’altra casa, in campagna, molto lontano dalla città. Tutto sparito: i servi, il mio precettore, la cameriera di mia madre, e quella bambina bionda, Federica, mia sorella, alla quale mio padre non aveva mai parlato, che non aveva carezzata mai. E poi... e poi venticinque anni della mia vita trascorsi in un baleno, i miei studii, i miei viaggi, la morte improvvisa di mio padre.... E quella sera, a Bamberga, al ballo della Croce rossa ove dopo tanti anni rividi e riconobbi a stento un signore ch’era stato amico di lui, qualcosa come un diplomatico, freddo, compassato, di poche parole. La figlia no: la figlia ch’egli v’accompagnava non gli somigliava che nella bella statura, soltanto. Dopo la prima contradanza, mentre ella mi parlava, sommessamente, nel vano[202] d’una finestra, e io bevevo il suo sguardo e le sue parole, il vecchio le si avvicinò e le disse qualcosa, sottovoce. Ella mi stese la mano.

—Arrivederci—mormorò sorridendo—mio padre vuol rincasare.

E da quella sera, non la rividi più...

V

La pazza continuava a guardarmi, immobile, assorta.

Mi pareva che si sforzasse anche lei di penetrare le nebbie d’un passato confuso e incerto, di ricordar qualcosa, qualcuno...

E fra tanto mi sentivo trascinare addietro, pian piano, dal dottore. Subitamente egli rinserrò la porta. Un grido, ancora un grido risuonò nella celletta, un ultimo grido straziato. E un nome—il mio nome.

—Livio!

Il dottore, sul corridoio, si volse a me, stupefatto.

—Ma come?... Vi conosce?...

—No!—esclamai—No!... Non so... Ma chi è costei?... Come si chiama?...

Egli, un po’ stranito, rispose:

—Federica Vossler.


NOTA DEL TRASCRITTORE

L'ortografia originale è stata mantenuta. Minimi errori tipografici di punteggiatura sono stati corretti senza annotazione.






End of the Project Gutenberg EBook of L'ignoto, by Salvatore Di Giacomo

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