The Project Gutenberg eBook of Poesie e novelle in versi

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Title: Poesie e novelle in versi

Author: Ferdinando Fontana

Release date: January 1, 2006 [eBook #9642]
Most recently updated: January 2, 2021

Language: Italian

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK POESIE E NOVELLE IN VERSI ***

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FERDINANDO FONTANA

POESIE

E
NOVELLE IN VERSI

MILANO

1877.

A ANTONIO GHISLANZONI

SCUOLA MODERNA[1]

AD ANTONIO GHISLANZONI, DEDICANDOGLI IL LIBRO.

Alla tua nota satira
Chi porse l'argomento?
Forse i carmi d'un giovane
Da pochi giorni spento?[2]
Forse il Torso di Venere
O il Düalismo ardito,
Che una Musa propizia
Dettava a un erudito?[3]

Non già!…. Dalle tue laudi
Fu consacrato il primo;
Tu lo sapesti scegliere
Dal medïocre limo; [4]
All'altro degli stolidi
Soltanto il volgo indegno
Oggi contrasta il fervido
Estro e il robusto ingegno.

Forse dell'Inno a Satana [5]
Ti spaventò il concetto?
No!…. Che tu abborri i vincoli
Che strozzan l'intelletto,
E so che, quando mediti,
Ti ribelli ai confini,
Al pensier del filosofo
Imposti dai cretini.

È ver, talora il genio
Ama le forme strane,
Ma il pensator sa leggere
Nelle sue cifre arcane,
E sa discerner l'enfasi
Del verso che non crea
Dal balenar fantastico
D'una sublime idea.

Spesso il cantor d'Ofelia,
Col labbro d'uno stolto,
Strambi concetti mormora
Ed è di nebbie avvolto,
Ma sempre, come folgore
Che irradia la tempesta,
Risplende tra le nebbie
L'olimpica sua testa….

Evvia!…. se qualche Bécero,
Nelle invalide carte,
Pallia coll'artificio
La mancanza dell'arte;
Se con grottesche immagini
Pochi grulli impotenti
Cercano un vieto elogio
A mal composte menti;

Se nella solitudine
Dove ti sei rinchiuso
È giunto qualche cantico
Di giovinetto illuso.
Se un impudente o un ebete
Parlando in metro oscuro
S'imbranca colle vecchie
Che dicono il futuro;

Deh!…. non armar la cetera
Colla mordente corda!
Carni di imbelli vittime
Il verso tuo non morda!
Frena, romito Antonio,
La beffarda parola;
Non dir che pochi stolidi
Son la moderna scuola!

Serba ai pedanti, agli arcadi,
Lo scherno e l'ironia;
Taglia pei dorsi elastici
Le vesti in parodia;
Non fornir armi ai deboli
Che temono di noi
E che verranno a irriderci
Cantando i versi tuoi.

Pensa che ai pochi giovani,
Che vedon l'ardua meta,
Il ben d'un raro plauso
I grami giorni allieta….
E che il maggior cordoglio
Che contristi i gagliardi
È di sentirsi mettere
Col volgo dei codardi.

[1] Questi versi vennero già pubblicati in risposta ad una poesia del signor Ghislanzoni, dallo stesso titolo, nella quale l'egregio umorista avea preso a far la satira di certi sedicenti innovatori letterarii. Più die a rispondere al signor Ghislanzoni, questi versi intendevano a metter in chiaro la differenza che passa fra costoro e quelli che operano con vero ingegno.

[2] Emilio Praga.

[3] Due splendide liriche di Arrigo Boito.

[4] Il Ghislanzoni fu il primo che incoraggiò l'ingegno di Praga. Quando questi pubblicò la sua Tavolozza, l'eminente critico, parlandone in un giornale cittadino, dava principio al suo articolo colle seguenti parole: "Finalmente, abbiamo un poeta."

[5] L'Inno a Satana, di Giosuè Carducci.

LIRICHE

PREFAZIONE AI MIEI VERSI

Esser pöeti è legger nei futuri
Giorni; è spaziar nel cielo delle indagini
Condannate dai timidi cervelli;
Esser pöeti o sentirsi maturi
Quando nel sangue bollono i vent'anmi;
È ridere di tutto, esser ribelli
Alla gloria e agli affanni.

Esser pöeti è librarsi giganti
Sull'universo e, in sè raccolti, vivere
Animati da incognita scintilla;
È accogliere del par sorrisi e pianti,
Inni e bestemmie, rantoli e vagiti;
È scrutar con impavida pupilla
I misteri infiniti;

È piangere col vinto e coll'afflitto,
Nè al forte, al vincitor, negare il plauso,
Nè armar la cetra d'una corda sola;
È comprender la colpa ed il delitto,
Laudando il sacrifìcio e l'innocenza;
È cantar tra un bicchiero e una carola
Il chiostro e l'astinenza.

Prisma novello, col pensiero, i mille
Raggi dell'universo in sè raccogliere
E mutarli in cadenze e in armonie;
Poi fra le genti seminar scintille,
Fatali incendi suscitando intorno,
Turbando il cranio alle persone pie…
O illudendole un giorno!

Esser pöeti è salir sovra un monte,
Di notte, quando il ciel di stelle è fulgido,
E, in estasi, esclamar: "Credo! V'è un Dio!"
E inginocchiarsi, e chinare la fronte,
Ripieno il cor di mistica paura…
Poscia negarlo o metterlo in oblio
Discesi alla pianura!

Esser pöeti è viver d'illusioni
Che sull'Eterno Nulla il piede appoggiano;
È celiar con sè stessi e con coloro
Che vi sanno ammirar nelle canzoni;
È accettare, negando, il Bene e il Male;
È desiare la miseria e l'oro,
La reggia e l'ospedale.

Esser pöeti è tentar l'ocëano
Della vita; è svelarlo; è, ansanti, correre
Dietro un caro idëal…. cui non si crede!
È comprender del tutto il nulla arcano,
E, d'ogni cosa quaggiù disperando,
Trovare ancora entusïasmo e fede
Per vivere cantando.

Esser pöeti è abbandonarsi ai sensi;
È compendiare un secolo in un distico;
È mutar l'alimento del mattino,
A vespro giunti, in voli eccelsi, immensi….
E, invero, questi versi sono usciti
Dalle vivande o dal preteso vino
Che l'oste m'ha imbanditi.

LA FORMA E L'IDEA

(A EMILIO PRAGA)

La forma son le tenebre,
E la luce è l'Idea;
La Forma è il rito, il simbolo
Del pensiero che crea;
Il pensiero è l'Iehova
Dei veggenti profeti
Che parla dai roveti.,
E la Forma è Gesù.
La Forma è la parabola,
La Forma è il pane, è il vino,
È l'orto, il bacio, il Golgota,
È la Croce, è Longino;
E il pensiero è l'assiduo
Svolgersi del crëato,
Cui spiegar non è dato
Alle menti quaggiù!

Eterna lotta!…. Scorgere
L'Idea!…. Vedere il sole!…
E disperar d'esprimerlo
Con possenti parole!
Nelle affannose veglie
Concepir l'universo….
E alla foga del verso
Non saperlo svelar!
Dietro un fatal connubio
Il cervello si stanca!….
Giunge lo sposo al tempio,
Ma la sposa vi manca;
Egli, il Pensiero, l'évoca
Colla voce pietosa….
Ma la Forma, la sposa,
Non si reca all'altar.

Ahi!…. Talora nel cranio,
Indarno affaticato,
Disperando, un terribile
Dubbio m'è balenato!
Pensai che forse esistono
Idee sì vaghe e arcane
Che invan le menti umane
S'attentano a scolpir!
Forse passò fra gli uomini
Il sommo dei pöeti
Fra la schiera dei mutoli
E degli analfabeti….
E, forse, il suo silenzio
Fu incompresa epopea,
In cui sfuggì l'Idea
Della Forma il martîr!

Ah!…. Perché, dunque, struggerti,
O povero cervello?
Contro la Forma, il despota,
Sorgi, schiavo rubello!
Non ti curar degli uomini!
Vivi in te stesso e pensa!….
La tua melòde immensa
Non rivelar che a te!
Chiuso nel tuo silenzio
Ogni idïoma oblia!
Del tempo e dello spazio
Comprendi l'armonia!
Ogni idïoma e frivolo
A esprimer l'Universo!
Nato a servire un verso
Il mio pensier non è!!

Evvia!…. Sorridi, Emilio!….
Sorge nel Ciel l'aurora,
E, solitario, io vigilo
Sulle mie carte ancora!
Stolto!…. Giuro il silenzio,
E ti favello intanto!….
Stolto!…. E rileggo il canto
Che la mia man notò!
Emilio, io voglio illudermi!
Sono troppo felice!
Mi risveglio da un'estasi
E il pensiero mi dice:
"Stretto è il fatal connubio!
"Chiudi gli occhi e riposa….
"Questa notte la sposa
"All'altar si recò…."

Milano, giugno 1875.

NOJA LETTERARIA

Favello a voi, cui ferve la scintilla
Dei febbrili entusiasmi nel cervello;
Favello a voi, dentro il cui sguardo brilla
La balda gioja d'un pensier novello!

Favello a voi, che, frammezzo alle genti,
Vecchi a vent'anni, in silenzio passate,
Colla pupilla vólta ai firmamenti
E colle mani alle reni appoggiate.

Favello a voi, cui nota è l'armonia
D'ogni cosa creata, e cui son noti
Cogli entusiasmi la melanconia
E gli sconforti; a voi favello, iloti,

Dannati a conservar la stessa creta
Leggendo dentro ai secoli venturi;
Dannati a scorger la splendida meta
Dietro le grate di carceri oscuri!

Favello a voi, per cui dolore e gioja,
Pari al lampo, non duran che un istante,
E che desiate, per fuggir la noja,
Un'angoscia od un gaudio incessante;

Favello a voi, che vivete com'ebri
D'un arcano licor sovra la terra,
Ed avete un uncino nei cerébri
Che l'Universo nei suoi moti afferra!

Noi siam mendíchi, a cui la gente antica
Le briciole lasciò di lauta mensa;
Viviam di stenti e il genio s'affatica
Dietro una turba di fantasmi immensa.

Gli antichi Numi, ispirator dei carmi,
Son morti nel sogghigno universale;
La Natura ci annoja; il suon dell'armi
Ne spaventa; ridiam dell'idëale;

L'amore è un campo in cui non resta zolla
Da fecondare; senza scrosci è l'ira;
Il nostro corpo e una corteccia frolla,
Mentre la mente a nuovi cieli aspira.

E nuovi cieli, splendidi, profondi
Come lo spazio, immaginar n'è dato….
Ma dall'estasi, a cui traggonci i mondi
Senza cifra, un poëta non è nato!

I nostri canti son feti già morti;
Sono la serpe che la coda addenta;
Son l'urna ove troviam pochi conforti
E la febbre che i giorni ne tormenta.

Noi li cantiamo a noi stessi soltanto,
E all'ultimo levita siamo eguali,
Che, derelitto nel suo tempio santo,
Celebrerà da solo i ritüali….

E non ci resta che cingere i fianchi
Col bigiastro mantel del pellegrino,
E correre la terra erranti e stanchi,
E abbandonarci ad un pazzo cammino….

Milano, luglio 1875.

LETTERATURA DISONESTA

A CESARE TRONCONI [1].

Que la muse, brisant le luth des courtisanes,
Fasse vibrer sans peur l'air de la liberté;
Qu'elle marche pieds nuds, comme la verité.
ALF. DI MUSSET.

Dunque perchè le pagine
Noi modelliam sul vero;
Perchè neghiam di battere
Ogni volgar sentiero;
Perchè volgiamo intrepidi
Le pensierose fronti
Alla più vasta cerchia
Di splendidi orizzonti;

Dunque perchè l'indagine
I nostri libri ispira;
Perchè i costumi ipocriti
Ci fanno schifo ed ira;
Perchè, toccando l'ulceri,
La nostra man non trema.
D'insultatori un popolo
Ci scaglia l'anatema!?

Scosso all'ingiusto oltraggio,
Tu ti contristi e piangi:
Nelle dolenti veglie
Fremi e la penna infrangi;
E, forse, al melanconico
Ingegno tuo tu chiedi
Se un mondo immaginario
È quel che ascolti e vedi!

Me pur gli insulti colsero
Dei grulli e dei perversi,
E, inesperto degli uomini,
Un tempo anch'io soffersi..
Allor pensai che inutile
Pazzia sono i miei canti,
Che un vano desiderio
È il vincere i pedanti!

E mi tentò, nell'aride
Mie notti d'apatia,
La vile idea di scegliere
Men faticosa via;
E, a tesser panegirici
Alla Morale e a Dio,
Nel branco delle pecore
Giurai d'entrare anch'io!

Evvia!…. Sorridi!…. Il fascino
Della verace Musa
Venne a guarir l'insania
Della mia mente ottusa!
E da quel giorno, libero
Da ogni dubbio codardo,
Contro i melensi e gli Arcadi
Io sursi più gagliardo!

E il temerario oltraggio
Come una celia accolsi,
E l'amarezza inutile
Nella risata io sciolsi;
E i profili ridicoli
Di grotteschi figuri
Della mia stanza vennero
A popolare i muri.

Una lanterna magica
Mi rallegrò le notti;
E vidi volti d'ùpupa.
Ventri che parean botti,
E smisurate orecchie,
E code smisurate,
E uno stuolo di scimmie
Da artisti camuffate.

Imitando dei chierici
La vieta filastrocca,
Tutte ad insulse nenie
Aprivano la bocca;
E, mentre mi passavano
Lentamente dinanti,
Un'eco lontanissima
Ne ripeteva i canti:

"Heine e Musset son scettici
"Degni dell'odio umano;
"Giorgio Byron non merita
"Una stretta di mano!
"Con quei che il vero parlano
"Non si discute mai!….
"Se sonvi error, celiamoli;….
"Correggerli?…. Giammai!

"Lasciam che il mondo seguiti
"Le usanze inveterate;
"Che le donne ci aizzino
"A passioni dannate;
"Che le fanciulle uccidano
"I bambini illegali;
"Che le piaghe si coprino
"Con fiori e madrigali!

"L'amor del mondo è soffio….
"Ma guai chi fa all'amore!
"Giusto è che i vecchi imprechino
"Dei giovani al vigore!
"La Società dev'essere
"Il modello dell'Arte….
"Ma noi vogliamo scorgerla
"Soltanto da una parte!

"Perché della famiglia
"Son sante le affezioni,
"Non canterem che bamboli,
"Che madri in ginocchioni;
"Non canterem che Sindaci
"Che porgono l'anello;
"Consulteremo il Codice
"Per giudicare il Bello!

"Per chi dirà che esistono
"Altre fonti di gioja;
"Per chi dirà che a scrivere
"Al par di noi si annoja;
"Per chi dirà con libera
"Parola un'opinione,
"Invocheremo l'indice,
"La Santa Inquisizione!

"Su, giovinetti!…. Facile
"Strada v'abbiam dischiusa!
"Crear vorreste?…. È inutile!
"Deve copiar la Musa!
"Deve copiare!…. E il plauso
"Le largiranno tutti….
"E grideranno al genio
"Babbi, mammine e putti!

"Lasciate che combattano
"Per le donne gli stolti!
"Esse non saran l'ultime
"A graffiar loro i volti!
"Le donne sono un popolo
"Mansüeto di schiave….
"Non è d'un cuor di femmina
"Il buon-senso la chiave!

"Su, giovinetti!…. Facile
"Strada v'abbiam dischiusa!
"A magri pranzi assidasi
"L'indipendente Musa!
"Sol nella vita pratica
"Siate veristi!…. Il male,
"Fatto con volto ipocrita.,
"Diventa più idëale!!"

Ahimè!…. Superba Lirica,
L'ali su te ripiega!
Non già tuonar., ma ridere
Mi fe' quella congrega!….
Alle grottesche immagini
Dal letto mio, celiando,
Risposi, amico Cesare,
Coi versi che ti mando:

"Tutto è quaggiù possibile!
"Il tempo è omai passato,
"In cui, fanciullo e ingenuo,
"Mi son maravigliato!
"Degli antichi filosofi
"Or la saviezza imito;
"Alla meta so incedere
"Indifferente e ardito….

"E se color che insultanci
"Bandissero domani
"Che, per pudore, debbano
"Portar le brache i cani,
"Io, nel veder l'eccentrica
"Innovazion morale,
"Continüando a ridere,
"Direi: È naturale!"

Napoli, 16 marzo 1876.

[1] Cesare Tronconi, l'autore della Passione maledetta e delle Madri… per ridere. Cesare Tronconi, il romanziere più calunniato e più vilipeso dagli spigolistri. Ripeto a bella posta il suo nome per risarcirlo in parte della guerra sleale e vigliacca mossagli da alcuni giornalisti, i quali per non dargli voga erano andati d'accordo per chiamarlo l'innominabile…. tout court.

VERITAS, VANITAS!

Una sera piovosa, äutunnale,
Ora schivando il fango, ora una pozza.
Io seguii la carrozza
Che manda al Cimitero l'Ospedale.

Cimitero e Ospedal son buoni amici
E tengono fra lor conti correnti.
Davver, pochi clienti
Si dan l'un l'altro tanti benefici!

L'Ospedale gli manda i suoi defunti,
E il Cimiter lo paga col dolore,
Che rende infermo il cuore
E fa le donne e i giovinetti smunti….

L'Ospedale gli manda le sue spoglie,
E il Cimiter gli manda i suoi pöeti,
Che in mezzo ai sepolcreti
Tentano col pensier le eterne soglie….

La carrozza che va dall'Ospedale
Al Cimitero, portandovi i morti,
M'ha dati più conforti
Che non millanta libri di morale!

Filosofando, io le cammino allato
E vo pensando a chi dentro vi giace,
E, spesso, mi do pace
Se per caso quel dì non ho pranzato!

La colomba che sopra v'è scolpita
Par che dica, mandandomi un saluto:
"Che giova esser vissuto!
"Che giova il darci pena della vita!"

Or, quella sera, deposte le bare,
Il negro carro era diggià partito,
Ed io, come impietrito,
Restai del camposanto al limitare.

Là m'inchiodava una visione strana,
Di quelle che sa far soltanto il Vero,
E che vede il pensiero
Sol di chi studia la Commedia Umana.

Una vecchia magrissima e grinzosa
S'era posta a seder sovra le bare,
Ed io l'udìa cantare
Una canzon con voce cavernosa.

La solinga megera, gravemente,
S'accompagnava nelle note basse
Battendo sulle casse
Coll'ossa delle gambe macilente.

Elia diceva: "Io son la portinaja,
"E sono vecchia, e di pessimo umore….
"Ma quando ero sul fiore
"Degli anni, allora, ero leggiadra e gaja!

"Quanti baci, quand'ero ancor fanciulla,
"Su queste spalle secche e questa bocca
"Ora, bazza a chi tocca!
"Io vo' morir, che non son buona a nulla!

"Forse, qui dentro, in queste casse bianche
"Han chiuso qualche giovane d'allora,
"Che si tolse all'aurora
"Dalle mie braccia, colle membra stanche!

"Forse, a quel tempo, egli m'avrà adorata
"Come a ventanni un'illusion si adora!
"Il giovane d'allora
"Amore, arte, piacer m'avrà chiamata!

"Chicchetussia dei mille amanti miei,
"Che mi presti la bara a seggiolone,
"Sappi che un'illusione
"Per te, se fosti vivo, ancor sarei….

"E sarei la più triste e la più grama,
"La più steril di pace e d'allegrezza,
"E potrei d'amarezza,
"Non più di gaudio, pagar la tua brama.

"Sappi ch'io sono ancora un'illusione,
"Ma non siccome un dì bella e gioconda,
"Né alla mia treccia bionda
"Chiederesti il profumo e l'oblivione!

"Sappi che piangeresti in mia presenza,
"Perch'io son l'illusion la più inumana;
"La più caduca e vana;
"L'illusion dei sepolcri: l'Esperienza!"

Agosto 1876.

LE DEMOLIZIONI

A EUGENIO TORELLI-VIOLLIER.

Pietre, da tanti secoli
In un bacio congiunte,
Travi e barre, dall'acqua
E dal sole consunte,
Barcollanti casipole,
Ieri viventi ancora,
Oggi il Tempo vi mormora:
"È giunta l'ultim'ora!"

Il Tempo!… Il triste scettico;
L'êra, l'anno e l'istante;
L'orco che mangia i popoli;
L'impassibil quadrante;
La sfinge inaccessibile;
Il mistico serpente,
Che afferra, eterno circolo,
La sua coda col dente.

In un nembo di polvere
Cadon le vecchie mura;
Sembran côlte le tegole
Da un'orrenda paura;
Ed i balconi, vedovi
D'imposte e senza vetri,
Sovra i passanti guardano
Come occhiaje di spetri.

Povere case!… Il rantolo
Della vostra agonia
Fu lungo!… Il dì novissimo
Lentamente venìa!
Barbari sempre, gli uomini
V'han fatto i funerali,
Pria che cadeste vittime
Sotto i colpi mortali.

E accanto a voi scolpirono,
A scherno, in questi giorni,
Di fastosi palagî
I superbi contorni.
Ah! quei colossi risero
Di voi pigmei morenti,
E più amari vi fecero
I fatali momenti!

Povere case!… Io vagolo
A voi dintorno.—È notte.
E l'ombre dalle fiaccole
Rosseggianti son rotte;
E, somiglianti ai demoni
Cui l'eccidio conduce,
I pïonieri nereggiano
Sugli sprazzi di luce.

Ed io penso alla storia
Delle mura cadenti;
Ai drammi, alle commedie,
Agli idilii innocenti
Che si ordiron per secoli
Nelle piccole stanze
Ed impressero un marchio
Sulle umane sembianze.

Ed io penso alle veglie,
Alle insonnie, ai riposi,
Alle fedi, alle infamie,
Ai convegni amorosi,
Ai sorrisi, alle lagrime,
Ai dì foschi, ai dì lieti,
Ai pöemi che videro
Quelle quattro pareti!

Oh!… non ridete, splendide
Case dai freschi ornati,
Palagî da una magica
Mano in un dì crëati!
Or tutti a voi sorridono
Con beata alterezza
Ed i vostri muri spirano
La balda giovinezza….

Ma verrà il dì che i posteri
Vi chiameran capanne,
Ed al suolo abbattendovi,
Come fragili canne,
Tesseranno una lirica
Sovra i detriti immani….
Più caduchi edifizii
Innalzando il domani!

Tu sol, bigio fantasima,
Gotico tempio altero.
Tu, frastaglio di guglie,
Tu, gigante severo,
Vedrai le metamorfosi
Dei giorni che verranno,
Sogghignando alla gioja,
Sogghignando all'affanno!

Finchè il Tempo, il terribile
Tarlo che rode il mondo,
Verrà te pure a spingere
Nell'abisso profondo;
E forse, fra un millennio,
Quivi sostando un uomo,
Tenterà di far credere
Che tu esistevi, o Duomo!….

Eugenio, sono effimeri,
Al par di queste stanze
D'ogni mortale i gaudii
I pianti e le speranze;
Il passato è macerie
Su cui sorge il presente,
E l'avvenire è il figlio
D'un vegliardo cadente.

Oh! umani eventi! oh! frivole
Parvenze d'un istante!
Perchè dunque ci esagita
Questa febbre incessante?
Perchè dunque sussistono
Il sepolcro e la culla?
Perchè mai tanto fremito
Se tutto attende il Nulla?

Perchè?… Perchè lo struggere
E il crëar son la vita;
Perchè la noja è l'unica
Larva da noi fuggita;
Perchè questa è l'armonica
Legge dell'universo;
Perchè senz'essa il cérebro
Non mi darebbe un verso!

Milano, 2 ottobre 1875.

IN MORTE DI EMILIO PRAGA[1]

Egli visse sognando e sogna ancora
Chiuso per sempre in questa negra bara;
Sogna il tripudio della nuova aurora
E il fior, che per il maggio si prepara.

Quand'ei moveva per le nostre vie
Parlava sempre del supremo giorno,
Ed un nembo di canti e d'armonie
Al grosso capo gli aleggiava intorno.

E poi che il guardo umano invan s'attenta
Di legger della Morte nei misteri,
Ei rafforzava la pupilla lenta,
Oppur tarpava il volo ai suoi pensieri.

E, spaventato dal fatal problema,
Triste amatore d'un'estasi arcana,
Cantava a sè medesimo un pöema
Inebbrïando la sua forma umana!

Or, ditemi, fu in lui colpa o sventura
Questo dispregio dei nostri costumi?
Dobbiamo noi su questa sepoltura
Rammentar la sua vita o i suoi volumi?

È vero!…. È vero!…. Ei calpestò un affetto,
Che men compianta potea far sua vita!….
È vero!…. È vero!…. Al domestico tetto
Per lui la mensa fu di duol condita!….

Ma chi di noi, sovra il proprio cammino,
Non calpestò, rimpiangendolo, un fiore?…
Nascer pöeta è orribile destino!
Il cérebro talor soffoca il cuore!

Oh! guai nascer pöeta ove la Musa
Non trova il pane per nudrire i figli!
Ove ogni sciocco delle labbra abusa
Per esser largo solo di consigli!

Oh! guai nascer pöeta ove il sol splende
Ed infervora i cantici ispirati,
Ma dove l'uomo allori e culto rende
Soltanto ai pensatori trapassati!

Costui vivrà da pochi consolato,
Fra il bivio orrendo d'essere un buon padre,
O di spezzar la cetera indignato,
Per altre voluttà meno leggiadre!

Costui vivrà la famiglia cantando,
La famiglia idëal,—cui dritto avea—
E ch'egli dovè perder lagrimando….
Chè, coi versi, nudrir non la potea.

Noi, cui sorride l'italo orizzonte,
Siamo un popol di bimbi analfabeti!
Da qualche lustro appena alziam la fronte….
Siam troppo grami per pagar pöeti!

Non turbi adunque questo popol gramo
Il sepolcro d'un povero cantore….
Meditiam la sua vita e confessiamo
L'ignoranza d'un secolo e l'errore!

Emilio! Emilio!… Son le tue parole
Ch'io ripeto commosso… e (lo rammento)
Da te un giorno le udii che le vïole
Dicean l'april con profumato accento.

E tu piangevi per le tue sventure,
Antiveggendo questo estremo istante,
Senza sentirne le viete päure
E mentre il viso tuo parea raggiante!

Poi soggiungesti sorridendo: "Amico,
"Quando mi porteranno al cimitero
"Verrai tu pure, com'è l'uso antico,
"A far dei versi sul mio drappo nero;

"Ma ti ricorda degli accenti miei,
"Ed agli astanti, quel dì, li ripeti….
"Se tu prima morissi, io li vorrei
"Ripetere fra i mille sepolcreti.

"E là, dove la Morte i ricchi accoglie
"E i poveri del par, tutti eguagliando,
"Mi parria che dovrebber le tue spoglie
"Ascoltare i miei versi giubilando!"

…………………………

Quest'oggi, in cui la legge di Natura
Te primo, Emilio, al dì fatal condusse,
D'ogni giogo servil la mente pura,
Pieno il cor delle mie fedi inconcusse,

Io vengo a replicar su questa bara
Le tue parole; io compio il tuo desìo….
E sento, amico, che mi è meno amara
L'ultima volta che ti dico: Addio!

[1] Questi versi vennero letti dall'autore il giorno 28 dicembre 1875 sul feretro del poeta delle Penombre.

ANACREONTE

Fra le colonne—d'un bianco tempio
Sacro a Minerva,—la Dea propizia
Ai savî, austera Dea,
Pensieroso sedea

Anacrëonte,—cantor dei fervidi
Baci e degli inni—nati fra i calici
E delle porporine
Rose allacciate al crine.

Sedea pensoso,—stringendo l'abile
Stil nella destra,—la intatta tavola
Sulle gambe giacente
Guardando avidamente.

Un sacerdote—dall'occhio linceo
Di là passava;—vide l'insolito
Vate nel sacro albergo
E gli si fece a tergo.

Ei non udìllo;—come le statue
Chiuse nel tempio—pareva immobile,
E la fisa pupilla
Non mandava scintilla.

Spesso la destra—la cerea tavola
Avvicinava;—ma sulla tenue
Veste che la copriva
Non un verso scolpiva.

E d'inusato—pallor coprivansi
D'Anacrëonte—le tempia, e l'unghia
Tormentava la lama
Con rabbïosa brama.

Nella clessidra—cadea la polvere,
E intorno, intorno—con suon monotono,
Sotto le arcate fosche,
Ronzavano le mosche.

Alfin lo stile—sovra la tavola
L'acuta punta—venne a configgere,
E con note indefesse
Questo cantico impresse:

"Perchè mi manca nel pensier la vita?
"Perchè come una spugna inaridita
"Mi sta il cervel nel cranio?
"Perchè la luce mi niega i colori?
"Perchè il profumo mi niegano i fiori,
"E la Musa un esametro?

"Non sono io quello che i ridenti canti
"Questa notte vergò?—Perchè gli incanti
"Söavi, perchè l'estasi
"E l'armonia dei non studiati carmi,
"Come donne, veniano a visitarmi,
"Innamorate e ingenue?

"Ed or ch'io chieggo un verso, una melòde;
"Or che una sete mi esagita e rode
"Di profumi e di cantici,
"Non una lieta immagin mi consola,
"E invano alla mia Musa una parola
"Io chieggo in elemosina!

"Forse Minerva, l'äustera diva,
"Si vendica di me;—greggia votiva
"Non reco;—nel suo tempio
"Prima di questo giorno io non entrai;
"Gli amori, il vin, le rose io sempre amai!;
"Minerva ama il trapezio!

"Anacrëonte dai versi söavi
"Non t'è propizia la Diva dei savi!
"
"Dirà ridendo il popolo….
"Stolto!… Il più savio è chi gode la vita!
"Il più savio son io!… Pòpol m'addita
"Qual'è dunque il mio tempio!

"No!… Minerva è propizia al mio poeta!
"Io sono un savio dalla fronte lieta!…
"Rido, ma penso!—Ahi!… dubito
"Che la mia Musa, de' miei baci stanca,
"Or m'abbandoni!… Già il mio crin s'imbianca
"E gli occhi miei si offuscano!…

"Nave sdruscita, si rintana in porto
"A morir nella noja e lo sconforto!
"Oh!… splendide memorie!…
"Solcasti l'onde un dì, di fiori ornata,
"E sulla tua bandiera inalberata
"Stava scritto:—Odi Erotiche.

"Venian da lunge a udir la melodia
"Che dalle tue seriche sarchie uscia
"Sotto la man de' Zeffiri,
"E del mar della vita i nocchier stanchi
"Si fean dappresso ai tuoi dorati fianchi
"Per guarir dalla noja.

"Giungevan mesti e cogli occhi infossati
"E partivano lieti e consolati
"In cor benedicendoti;
"E, giunti in patria, alle persone care
"Recavan, talismano salutare,
"Un'ode a Bacco o a Venere.

"Or sei sdruscita; le sarchie di seta
"Son rotte; il fianco tuo puzza di creta
"Guasto dal tarlo e fracido!…
"Povera nave, ti rintana in porto
"Ahimè!… Pria di perire di sconforto
"Languirai di memorie!

"O Musa mia, dammi un ultimo canto,
"L'estremo bacio sia, l'estremo incanto
"Dell'amor tuo!… D'un'estasi
"Fammi ancora bëato!… E poi… ch'io muoja!
"Più della morte ho in orrore la noja….
"E il dolore di perderti!

"Ahi!… Vane preci!… Nel pensier la vita
"Mi langue!… Come spugna inaridita
"Mi sta il cervel nel cranio!
"Ahimè!… La luce mi nega i colori!
"Ahimè!… Un profumo mi niegano i fiori
"E la Musa un esametro!"

Sovra il suo ciglio—brillò una lagrima;
Scosso era il labbro—da un lieve tremito;
E la spaziosa fronte
Chinava Anacrëonte.

Allor dei vate—battè sull'omero
Il sacerdote,—la cerea tavola
Colla destra additando,
E disse sogghignando:

"Pazzi e pöeti—sono sinonimi!
"Tu della Musa—ti lagni, il ciglio
"Ancor molle hai di pianto….
"Ed hai crëato un canto!

Luglio 1875.

EVO MEDIO

(A GIUSEPPE GIACOSA)

Oh!… Il bel tempo dei miracoli,
Dei giulivi menestrelli,
Delle fate, degli spiriti
E dei magici castelli!
Oh! il bel tempo dei pigmei,
Delle imprese e dei tornei!

Oh!… Il bel tempo delle maglie,
Dei vestiti di velluto,
Quando Iddio, la dama e il trono
Si rubavano il tributo,
E cantavasi il perdono
Sul motivo dei fendenti,
Ed insieme pullulavano
I castelli ed i conventi!

Oh!… Il bel tempo dell'assiduo
Alternar di paci e guerre,
Quando i vescovi aggiravansi
Cavalcando per le terre,
Mentre ai piè delle Eminenze
Chiedean tutti le indulgenze!

Beppe, il mondo di quell'epoca
Pare un mondo immaginario!
Il ladron della mattina
Bacia a sera un reliquiario;
Sulla massa che cammina,
Come pecore attruppate,
S'erge sempre, quasi a bussola,
Il cocuzzolo d'un frate.

* * * * *

Eran più che innumerevoli
I colori delle tonache;
Una mistica lussuria
Dava l'estasi alle monache;
E cantavansi a distesa
Inni e salmi nella chiesa.

Sovra un asse Frate Angelico
Dipingea le sue Madonne;
Sempre azzuro il manto aveano,
Sempre rosse avean le gonne;
N'era il capo incoronato
Da un bel circolo dorato.

Gli alchimisti si sfiatavano
Sulle brage dei fornelli;
I teologi soffiavano
Nei fanatici cervelli;
Il delirio universale
Era l'or filosofale.

Si chiedeva allo Zodïaco
L'avvenir delle persone;
I romiti fabbricavano
Le medaglie e le corone;
E diceano i benefíci
Dei flagelli e dei cilici.

Come noi si va in America,
Lor si andava in Palestina;
Qual tesor ne riportavano
Una scheggia peregrina
Della croce di Gesù….
Nè chiedevano di più!

* * * * *

Oh!… I corteggi all'Evo Medio
Nei trionfi e nelle feste!
Oh! i cavalli, i fanti, i carri,
L'oro e i drappi sulle teste!
Eran splendidi e bizzarri
I corteggi d'un possente,
Smaglïanti come il crotalo
Sotto il sol d'Affrica ardente.

Nani, alfieri, paggi e chierici,
Gente bella e foggie strane
E buffoni e trovatori
E vezzose castellane
Ed in mezzo ai gran signori,
Del suo prence a mano manca,
La ventraglia d'un cenobita
Su una mula tutta bianca!

Imbandíansi sulle tavole
Le vivande in piatti d'oro;
Il vestito delle dame
Era un piccolo tesoro:
Della plebe il brulicame
Facea ressa nelle vie,
Quando andavano a godersela
Monsignori e Signorie.

Poi le danze! Al suon di pifferi
Di sirvente e di mandòle
Tarantelle e cavalloggie
Alternavansi a spagnole;
E, vedute dalle loggie,
Quelle genti a più colori
Un gran mazzo ti parevano
In cui vita aveano i fiori.

* * * * *

L'Evo Medio si compendia
Nella chiesa e nel castello;
Dominavan le nazioni
Un guerriero o un fraticello;
Fra le mille devozioni,
(Sacerdote il trovatore)
Una sola era pregevole,
Beppe: quella dell'amore!

Nelle chiese c'era l'organo,
Avean trombe i cavalieri,
Ma la musica del popolo
Era quella dei trovieri
E le libere parole
Uscian fuor delle mandòle.

Oh!… I bei tempi!… Il nostro secolo
È una nenia e non un canto!
Noi siam lucciole sbiadite,
Essi il fuoco, essi l'incanto!
Oggi i bozzoli e la vite
Ci preoccupan l'idea
Più dei lauri e della gloria
D'una bellica epopea!

Oh!… I bei tempi!… Eppur s'io medito
Sulle stragi dei possenti;
S'io ricordo il Sant'Uffizio
Ed i roghi dei sapienti;
S'io rifletto alle baldanze
Di tiranniche ignoranze;

Benedico le vittorie
In onor dei Veri eterni,
E il prosaico vestimento
Dei filosofi moderni;
Benedico dei presenti
La volgar monotonia;
Nella scienza e nei negozii
Trovo ancor la poesia!

Penso, è ver, che in tutti i secoli
Si pareggian beni e mali;
Che gli umani desiderii
Han confini sempre eguali….
Ma davver sono contento
Di non viver nel trecento.

Agosto, 1876.

IL SECOLO DI PERICLE

(AL MAESTRO GIOVANNI RINALDI)

Sotto la ferrea—clava spartana
Isterilivasi,—schiava gemente,
La nata libera—volontà umana.
Delfo, silente,

Sull'aureo tripode—parea dormire,
Poichè le belliche—tube eran mute,
Nè più all'Oracolo—chiedevan l'ire
Senno e virtude.

Nojata e gelida—la Pitonessa
Sonar nel tempio—non intendea
Che d'una vecchia—la voce fessa
Cui, sorda, Igea

Degli anni all'ónere—curva lasciava,
O qualche timida—prece d'amore
Che su virginee—labbra mandava
L'ansia del cuore.—

Tebe era mutola;—tacea Corinto;
Messene, esangue,—nelle sue mura
Chiudeva un popolo—per sempre vinto
Dalla sciagura.

Brandían gli Ellenii—zappe e bipenni!
Di illustri ceneri—piene eran l'urne,
E le Olimpiadi—venian solenni
E taciturne

A baciar l'ampie—fronti dei saggi…
Ma, in fondo ai bigî—tempi, un fulgore
Brillava… ed erano—gli accesi raggi
Di Atene in fiore.

A TAIDE

Taide, il mondo è un'accolita
Di sciocchi e di bricconi;
A poche menti garbano
Le libere canzoni;
Gli sciocchi non camminano
Che coi piedi degli altri,
E l'armi degli scaltri
Son frasi e ipocrisia.

Il labbro, che ti predica
L'azzurro e la morale,
Beve, nell'ombra, al lurido
Nappo del baccanale;
Le donne oneste mostrano
Nudo ai teatri il seno
E chiameranno osceno
Questo povero canto!

In custodia ridicola
Ognun stringe la sposa….
E volge all'altrui talamo
La mente desïosa;
Mille impotenti giovani
Sparlan dell'altrui donne….
E delle proprie nonne
Si fanno i paladini!

È l'infanzia un miscuglio
Di lubrici misteri;
La pubertà ci innebria
D'ardenti desideri;
Ma i vecchi scaraventano
Sovra noi l'anatèma,
Se ne facciamo il tema
D'un'ode in settenari.

L'arte greca è lascivia
E l'insegna il pedante;
Porta e Goldoni estasiano
E venerato è Dante;
Ma se noi, baldi giovani,
Tessiamo un inno al Vero,
Sorge un popolo intero
A gridarci la croce!

Quadri, melodi e statue
E commedie e volumi
Tutti d'amor ci parlano
Negli umani costumi….
È una rancida nenia!
È un nojoso frastuono!
Sempre lo stesso tôno
Su una nota tenuta!…

Taide, tu pure, ingenua,
Alla nenia credesti!
Con chi primo ti piacque
Una notte giacesti….
E trovasti, togliendoti
Al convegno geniale,
L'infamia e l'ospedale
Dove morir di stenti.

Altre, di te più caute,
Si ribellano al mondo
E, odïandoli, agli uomini
Fanno il viso giocondo;
Ed, ingannate, ingannano;
E rubano, baciando;
E ridono, sputando
In fronte ai derubati!

Innanzi a lor si inchinano
Gli sciocchi riverenti,
E i poeti le ragliano
Con patetici accenti,
E le madri del popolo,
Che soffrono la fame,
Alle fanciulle grame
Le citano a modello!

Io nacqui troppo povero
Per comperarne i baci,
E non m'impiglio al vischio
Dei lor sguardi procaci;
Delle fanciulle ingenue
La ritrosia m'annoja,
Chè dell'amor la gioja
Non disgiungo dai sensi.

Le donne oneste adescano
Senza conceder mai;
Fra gli imbecilli, o Taide,
Finor non m'imbrancai!
Odio gli altari e gli idoli
A cui la turba grulla,
Senza ottener mai nulla,
Si inginocchia pregando!

Spose od amanti, il talamo
E la tomba d'amore!
La noja o l'amicizia
Lo sùrrogan nel cuore….
Il Piacer, che n'è figlio,
Come l'Ebrëo Errante,
Con ardore incessante
Cerca novelle forme!

Taide, tu sola, vittima
Degli umani disprezzi,
Ai tristi che ti insultano
Rendi lagrime e vezzi,
Chè le fanciulle povere
Dal sangue ardente e buone,
Perdendo un'illusione
Non si mutano in serpi!

Tu sola sei possibile
Per le menti severe,
Che le catene abborrono
Adorando il piacere!
Tu, che ai ricchi ed ai poveri
Mostri un egual sembiante
E accogli in un istante
Ogni filosofia!

Tu, che non rechi i triboli
D'un amore geloso;
Che non ti atteggi a vittima
D'un dolor fastidioso;
Tu, che ti serbi vergine,
Anche da lebbra infetta
Che bocca maledetta
T'infiltrò nelle carni!

Tu, con cui scorre libera
E aperta la parola;
Tu, d'ogni umana lagrima
Educata alla scuola;
Tu, che dai per un obolo
Ciò che l'altre, per anni,
Con amarezze e inganni,
Vendono a caro prezzo!

No!… L'amor non è l'unica
Gioja al mortal concessa!
Anche l'odio ha i suoi gaudî!
E la vendetta anch'essa!
E l'han le acute indagini
Note ai sapienti, e l'ore
Consacrate all'ardore
D'un ambizioso sogno!

Vieni, povera vittima,
Vieni!… Al tuo sen mi stringi!
Al par di mille ipocrite,
Taide, il delirio infingi!
A sozze man proficua
Tu stessa non comprendi
Che la merce che vendi
È una perla preziosa!

Vieni!… Svanita l'estasi
Col sol di domattina,
Ti lascerò, per correre
Dietro un'Arte Divina….
Nè subirò la nenia
Di promesse o lamenti,
Che dei versi fluënti
Potrian rompermi il filo!…

Milano, ottobre 1875.

LA NOTTE DI SAN SILVESTRO

La falange dei secoli stanotte
Si accrescerà d'un milite novello;
E di tanti dolor, di tante lotte,
Di tante gioje, raccolte in un anno,
Forse un'eco infedele per memoria
I dì venturi avranno!
Per legger dentro ai secoli remoti
Noi meditiam la forma d'un avello;
E i nostri figli, cui sarem mal noti,
Mediteran nei nostri cimiteri,
Dei nostri eventi tessendo la storia
E dei nostri pensieri.

E strana legge!… I tumuli silenti
Serban per lunghe etadi la parola,
Mentre le mille voci delle genti
Duran lo spazio che dura un istante,
E vanno dei superstiti a morire
Nel frastuono incessante!
Ah!… Chi potrà afferrar l'attimo arcano
Che al tempo stesso sussiste e si invola?!
Chi mai potrà indicar con ferma mano
Il limite sottil che fu segnato
A divider fra loro l'avvenire,
Il presente e il passato?!

E noi viviamo; ed ogni dì che fugge
Segna una ruga sulla nostra fronte;
E un'agonia lentissima ne strugge;
E, tremebondi, a noi stessi chiediamo
Se esisterem, trascorso un anno, ancora;
E mormoriam: "Speriamo!"
E interroghiamo gli eventi passati,
E gli amori, e i dolori, e l'ire, e l'onte;
E dai mille fantasimi evocati
Attendiam le speranze ed i conforti,
Baciando i figli che vedon l'aurora
E ripensando ai morti.

Oh!… Tomba sconfinata!… Oh! Eterno Nulla!
Tremendo Iddio che le esistenze ingoi!
Oh! Infinito cammin!… Campagna brulla
Dai nebbïosi orizzonti!… Ocëàno
Sovra i cui flutti non scerne la sponda
L'ansioso sguardo umano!…
Dimmi, rispondi, che son divenuti
I giorni senza numero, e gli eroi,
E i popoli, che in sen ti son caduti?
Che mai facesti tu di tanta polve
Che, come l'onda s'accavalla all'onda,
Su sè stessa s'avvolve?

Che mai facesti tu di tante glorie,
Di tanti pianti e di tanti sorrisi?
Che giovano ai presenti le memorie
Se chi lasciolle eternamente è spento?
Oh!… Triste scherno!… Un'êra di mill'anni
S'accoglie in un accento!
Oh!… Triste scherno!… Il mozzicon di sego,
Nella cui scialba fiamma ho gli occhi fisi
E presso a cui scrivo e bestemmio e prego,
Val più dei raggi insiem moltiplicati
Che piovvero dal sol su gaudi e affanni
Nei secoli passati!

Oh!… Triste scherno!… Il mio vecchio bastone
Vale gli scettri dei re che son morti!
Il mio gramo cappel val le corone
Che il tempo infranse! E il mio mantel sdruscito
Val le toghe di porpora e di bisso
Del popolo quirito!!!
Cesare, Carlomagno e Bonaparte
Ove siete?… Ove siete?… I volti smorti
Spingete, o spettri, sovra queste carte….
Datemi voi l'accento arcano, il verso,
Ond'io possa descrivere l'abisso
Su cui sta l'Universo!

…………………………..

Io mi prostro!… In un'orgia di visioni
S'accascia la brïaca fantasia….
Veggo mari di sangue, e templi, e troni
Accatastati, e altari, e deliranti
Moltitudini, e donne, e bare, e fiori,
E spade luccicanti….
E tutta questa baräonda vola
Dinanzi agli occhi della mente mia;
S'apre ogni bocca e non dice parola;
Batte ogni piede ed un fruscìo non s'ode;
E, in fondo a un bujo ciel, senza fragori,
Ogni folgore esplode.

Talor frammezzo alla gente piccina
Giganteggia d'un Genio la figura;
Socchiusi gli occhi e colla fronte china
Passano i savî delle età trascorse,
Color che innanzi all'ardüo problema
Hanno esclamato: Forse!
Ed io, fiutando l'aura che circonda
Questa turba idëal che fa paura,
Sento le nari tormentarmi un'onda
Di lezzi e di profumi; una miscela
D'odor d'alcòve e di tombe; l'emblema
Che la carne rivela!

…………………………..

Dal suolo, ov'io gemevo, rovesciato
Come un tronco cui svelse la bufèra,
Io mi sollevo.—Il mio sogno è passato,
Al pari d'ogni gente e d'ogni evento;
Sorgo e, senza nudrir stolide fedi,
Alla vita mi avvento.
E a lei mi stringo, a questa grama vita
Irta di noje, vana e passaggiera,
Ma che all'avida bocca inaridita
Può ancor porger la mistica mammella!
A questa vita, il solo maravedi
Dell'umana scarsella!

Dolce tesor di mie brevi giornate,
Io ti vo' spendere in luce e in amore,
In lagrime e in ebbrezze spensierate!
Ah!… Ch'io frema!… Ch'io viva!… È nulla il resto!
Muoja chi non vuol vivere!… I piagnoni,
Non morti, io li detesto!…
Io sparirò pria che i capelli bianchi
M'abbian cinta la fronte, ed ho poche ore,
Ma vo' morir colla testa sui fianchi
Ignudi d'una donna amata e bella,
Ripetendo le libere canzoni
Di mia mente rubella!

Milano, dicembre 1876.

LA SENAVRA[1]

AI DOTTORI A. MAGNI E A. ARCARI.

Sognatori incorreggibili;
Fervidissimi credenti;
Cranî vasti e cranî piccoli
Dai cervelli turbolenti;
Furibonde crëature
Piene d'ansie e di paure;
Vociatori allucinati
Dagli spettri torturati;

Barcollanti paralitici
Avviati alla demenza;
Infelici, cui sovreccita
L'epilettica potenza;
Pellagrosi, a cui la Fame
Dissanguò le carni grame
Per dipingere le rose
Delle mense sontüose;

Catalettici, insensibili
Come il cuor d'una beghina,
Dallo sguardo spento e immobile,
Dalla testa sempre china,
Cui l'orrenda malattia,
Ch'è peggior dell'agonia,
Indurì la gamba e il braccio
Come il ferro e come il ghiaccio;

Idïoti tardi e sucidi
Dalle stolide risate;
Silenziosi melanconici
Dalle fronti ottenebrate;
Vecchi e bimbi, uomini e donne,
A cui celan vesti e gonne
(Dalla modula uniforme)
La goffaggin delle forme;

O pöeti, cui, per esserlo,
Non mancò che l'equilibro;
O confuse e sparse pagine
Che talor non fan più un libro;
O filosofi egoïsti
Che furiosi, o lieti, o tristi,
Suggeriste un entusiasmo
All'indagine d'Erasmo;

Io vi veggo dell'Ospizio
Negli androni lunghi e scuri
Sfilar tutti e, a larve simili,
Rasentar gli scialbi muri;
E me stesso e il mondo oblio
Nell'udir lo stropiccìo
Delle scarpe trascinate
Sulle pietre levigate.

Quest'Ospizio, or non è un secolo,
Era un chiostro solitario;
Vi dormian, tranquilli, i monaci
Fra una cena ed un rosario:
Quella pace chi rimembra?
Tutto muta!… E il chiostro or sembra,
Per le grida e il chiasso eterno,
Una bolgia dell'inferno!

Quanti sogni!… Quanti fascini!
Quanti inani desideri!
Quante vacüe dovizie
Di ipotetici forzieri!
Quante inutili ambizioni
Irte a mille umiliazioni!
Quanto spreco di esistenze
Per ridicole parvenze!

Quanto fremer di battaglie
Idëali in queste mura!
Che splendor di luci incognite!
Che prodigi di natura!
Che profumi di giardini….
Nel pensiero dei meschini!
Che romane orgie evocate
Dalle femmine eccitate!

Salve!… Salve!… Questo popolo,
Che stropiccia i corridoi,
È di re un'augusta accolita!
È un manipolo d'eroi!
Sono artefici immortali!
Sono duci e generali!
Sono menti sovrumane!
Son duchesse e cortigiane!

Questo giovane, che medita,
È un sapiente… che sa nulla!
Questa vecchia ottuagenaria
Va affermando esser fanciulla!
Questo mostro d'ambizione
Vi domanda un mozzicone!
Questo semplice artigiano
Vuole onori da sultano!

Una donna, melanconica
E dal volto deformato,
Vi susurra: "Dunque, Emilio,
"Non m'inganno!… Sei tornato!"
Ed un'altra, in foggie strane,
Si rimbocca le sottane
Al disopra dei ginocchi,
Ammiccandovi degli occhi!

Chi combatte cogli spiriti
Grida, impreca e il braccio ruota;
Altri, al suol cadendo supplice,
Resta in estasi devota;
Poi proteste, insulti ed ire!…
"Io son savio!… Voglio uscire!
"Scellerati!… Al cenno mio
"Ubbidite!… Io sono Iddio!…"

Se la vita è un mar simbolico,
E se noi siam naviganti;
Se quaggiù bonaccie e turbini
Voglion dir sorrisi e pianti,
O miei buoni, questa gente,
Che non sa dov'è l'oriente,
Questi miseri sparuti
Sono naufraghi perduti!…

Ahi!… La Scienza, con un gemito,
Dietro a lor perde il coraggio,
Nè sa ancor qual sia la gomena
Da gettar pel salvataggio!
Incessante l'uragano
Scuote il rabido oceàno….
Ed i fragili intelletti
Si frantuman tra gli affetti!…

Fedi e infamie, amori ed odii,
Amarezze ed illusioni!
Ecco i venti, i nembi, i fulmini!
Ecco i tristi cavalloni!
Fino il duol del padre oppresso
Nei nepoti resta impresso,
E van pazzi a cento a cento
Per chimerico spavento!

O follia, sei tu un'orribile
E fantastica megera
Che trapassi in mezzo agli uomini
Come rapida bufera,
E che godi, sghignazzando,
A toccare il fronte blando
Del dormente nëonato
Con un dito arroventato?

O Follia!… Cupa voragine!…
Viver… morti!—Esser sepolti….
Nè saperlo!—Aver lo spregio….
E non leggerlo sui volti!
O Follìa!… Pensier tremendo!…
Forse l'estro ond'io m'accendo
È lo stigma del Destino,
Che mi colse da bambino!…

…………………………..

Le notturne ore discesero;
Son deserti i foschi androni;
Già i maniaci s'addormentano
Nei squallenti cameroni;
Già dei poveri sospetti,
Presso l'ànsole dei letti,
I metodici guardiani
Assicuran piedi e mani….

Deh!… Con sogni placidissimi
La pietà li benedica!
Chè sui pazzi sta l'anàtema
D'una duplice fatica,
E domani essi dovranno,
Quando tutti sorgeranno
Dell'albore ai raggi incerti,
Risognare ad occhi aperti!…

Dalla Senavra, 26 settembre 1876.

[1] La Senavra è il nome dell'ospizio dei pazzi di Milano.]

IN ALTO

(A GIUSEPPE GALLOTTI)

Non domandarmi un cantico
Per le umane passioni!
L'inesorabil logica
M'impone altre canzoni;
Io non posso più esprimere
Nè il pianto, nè la gioja,
Chè mi vennero a noja
Le lagrime e i sorrisi dei viventi.
Mi rifiuto all'analisi
Delle cose crëate,
Per viver nel delirio
Di altezze sconfinate;
Ivi è un eterno fascino,
Ivi, un pugno di polve,
Che ignoto soffio avvolve,
Sembrano gli astri nello spazio ardenti.

Dinanzi alla voragine
Dell'eterna armonia
Le passioni degli uomini
Perdon la poësia;
Così l'estremo rantolo
Del nocchier si confonde
Col ruggito dell'onde,
Su cui passa, tuonando, la bufera!…
Il Bene e il Mal s'intrecciano
Nell'assidua natura;
Il Bene e il Mal s'alternano
Con sapiente misura;
E, indivisi, si aggirano
Fra il turbo dei viventi,
Gelidi, indifferenti
A chi piange, a chi ride ed a chi spera.

La medaglia simbolica,
Dalla gianica faccia,
Ha nella prima il gaudio,
Nell'altra la minaccia;
Ma si palesa agli uomini
Sempre con fronte eguale,
Perchè nel Ben sta il Male,
Perchè nel Male sta del Bene il germe.

I contenti e le lagrime
Dei poveri mortali
Per varïar di secoli
Saranno sempre eguali;
I desiderii fervono
In ogni crëatura…
E il gaudio o la sventura
Vengono a soddisfar l'umano verme,

E poi che un giorno ridere
O pianger gli è concesso,
Torna dei desiderii
Il popolo indefesso;
La noja uccide il gaudio
Ed il dolor si accheta…
E la caduca creta
Ribeve al fonte dell'antica speme!
È una storia monotona
Degli uomini la storia!
Sempre lo stesso fremito
Di bassezze e di gloria!
Sempre gli stessi gemiti
Per gli stessi dolori!
Sempre gli stessi amori!
Sempre il labbro che ride e quel che geme!

Al suon delle battaglie
Succedono le paci;
Dopo l'orgie del sangue
Vengon quelle dei baci;
Come fantasmi, i popoli
Agitando le braccia,
Contorcendo la faccia,
Per un istante passan sulla terra….
Nè resta che una debole
Eco di tanti eventi,
Che nel frastuon va a perdersi
Delle novelle genti,…
Poi ricomincia il turbine
Dei desiderii arcani,
Che dai cervelli umani
Elettrico incessante si disserra!

Dal sorriso d'un popolo
Nasce d'un altro il pianto;
Per una gente è un empio
Chi per un'altra è un santo;
E le bufere scrosciano,
E il sol sfavilla, e i fiori
Si veston di colori,
E nello spazio rotëan le stelle!…

Tutti, mendìchi e principi,
Deboli e forti, tutti
Proviam gli stessi gaudii,
Abbiam gli stessi lutti!
Il Bene e il Mal ci scuotono
Coll'istessa potenza,
E l'umana sapienza
Alla gran legge invan si fa ribelle!…

No, il sorriso degli uomini,
No, degli uomini il pianto,
Nel cranio mio non destano
Giocondo o mesto un canto;
Perch'io so che le lagrime
Fan più dolci i sorrisi;
Perch'io so che indivisi
Il Bene e il Mal s'aggiran fra i viventi.
Sol nell'immensa sintesi
Delle cose crëate,
Nel supremo delirio
Di altezze sconfinate
Trovo dei carmi il fascino!
Ivi, un pugno di polve,
Che ignoto soffio avvolve,
Sembrano gli astri nello spazio ardenti.

Giugno 1875.

CIRCOLO

(A PAOLO GORINI)

Un dì d'autunno, al tramontar del sole,
In un ermo giardino entrò la Morte;
E impallidìr le rose e le vïole
Presàghe di lor sorte.

Le foglie, scosse da leggiero vento
E per sottil pioviggin lagrimanti,
Siccome colte da orribil spavento
Si fecero tremanti.

E dal bigiastro ciel, parlando ai fiori,
Disse una voce: "Così vuole Iddio!
"Voi dovete morire!—Addio colori!
"Olenti effluvii, addio!"

E la Morte passava.—Un'armonia
Di indistinti sospiri e di lamenti
Sorgea dovunque, ovunque la seguia
Nei sentieri silenti.

Eran sospiri timidi, repressi,
Come il fruscìo d'un abito di dama
Che va di notte a colpevoli amplessi;
Era un pianto, una brama

Di restar fiori e foglie un giorno ancora.
Un povero giacinto domandava
Di lasciargli veder la nuova aurora…
Ma la Morte passava.

Il giranio avvizziva; le vïole,
Baciandosi fra lor con aria mesta,
Diceansi addio, e sull'umide ajuole
Chinavano la testa.

Solo una rosa, una fulgida rosa
Dal vivace color, nata il mattino,
Surse a lottar, fidente e coraggiosa,
Coll'avverso destino.

E alla Morte gridò: "Perchè degg'io
"Morire adesso che son nata or ora?
"La mia parte di vita io chieggo a Dio…
"Io vo' vivere ancora!"

"Perchè vivere ancor?"—chiese la Morte.
"Perchè ho terror del nulla…"—"Erri; m'ascolta:
"Morir non è svanîr, ma cambiar sorte,
"Nascere un'altra volta…

"La mia man non distrugge, ma trasforma;
"Apportatrice di vita indefessa,
"La Materia non muor; muta la forma,
"Ma la creta è la stessa."

—"Lasciami dunque la forma presente,
"Con te non mi lagnai della mia sorte.
"Io voglio restar rosa eternamente!…"
—Le rispose la Morte:

"E che dirà la terra, a cui tu devi
"Porger te stessa in provvido alimento?
"Tu dalla morte altrui vita ricevi;
"A te l'altrui tormento

"Dà l'esistenza; il loto che si muta
"Nel tuo stelo e le foglie ti colora,
"Muore anch'ei; d'esser rosa ei si rifiuta
"Ma pur convien ch'ei mora!…

"A che tanto terror?… Prima d'un mese
"Che saran le tue foglie?… Od aria o loto.
"Per ridonarle a te, l'April cortese
"Le farà d'aria e loto.

"La stessa brama, che tu senti, avranno,
"Morir dovendo, l'aria e il loto allora…
"Ma poi, mutati, Iddio benediranno
"D'essere rose ancora…

"Benediran l'Ente Infinito e Ignoto
"E d'esser rose lo ringrazieranno,…
"Per poi lagnarsi il dì che in aria o loto
"Rimutarsi dovranno!

"È un'assidua vicenda!…—Il nëonato
"È vecchio quanto il Tempo!—È un'infinita
"Catena!… Tutto muore!… E nel Crëato
"Freme eterna la vita!…"

Tacque e passò.—Cadean le foglie a mille
Giallastre e secche; e dietro i tenui fusti
Biancheggiavan le mura delle ville;
E gli sfrondati arbusti

Parevan membra di bimbi malati
Usciti da mefitici ospedali;
Borea scopava coi buffi gelati
Le foglie nei vïali;

E intorno, intorno, un susurro s'udia
Confuso e fioco, come il suon lontano
D'un'arpa, cui chiedesse un'armonia
Un'aërëa mano.

Era un canto di grazie; era un concento
Che nel vespro nebbioso si perdea;
Le foglie e i fior caduti, a cento, a cento
Lo ripetean.—Dicea:

"Ave, o Signor, che ci desti la vita,
"Che loto ed aria quaggiù ci mettesti!
"Possente Iddio, la tua bontà infinita
"Fa che si manifesti!…

"Possente Iddio, ci manda un po' di piova!
"Possente Iddio, ci manda un po' di neve!
"E tien lungi l'April, che in forma nova,
"Aimè, mutar si deve!

"Deh!… Tien lungi l'Aprile!… Ave, o Signore!
"Noi siamo lieti della nostra sorte…
"L'April tien lungi, chè mutarci in fiore
"Vuol dir darci la morte!"

Milano, giugno 1875.

A FULVIO FULGONIO

O modesto filosofo,
Che giunto a quarant'anni,
Fra l'incessante turbine
Di miserie e d'affanni,
Vivi solingo e povero,
E nel tuo cor securo
Sotto l'usbergo del sentirti puro,

Di' qual è dunque il tramite
Che al sepolcro conduce
E cui conforta il raggio
D'inestinguibil luce?
Dimmi, come si vincono
Queste umane tempeste,
Che fan le genti o torve, o tristi, o meste?

Verso la tomba scendere
Io ti contemplo, o amico,
Come l'ombra di Socrate,
Il grande savio antico;
Tu pure d'ogni infamia,
Con bocca altera e muta,
Bevesti in questo mondo la cicuta!

Deh!… Se una pia memoria
E un fervido entusiasmo,
Possono ancora emergere
Dall'umano mïasmo,
Lascia ch'io possa volgerti
Quell'arcana parola
Che sa dire chi soffre e che consola.

Sorridi ancora!… Passano
I secoli e le genti,
E le plebi, al barbaglio
Degli empi pläudenti,
Tu non merchi gli applausi,
Ma sul tuo franco viso
Ami serbar l'impavido sorriso,

O modesto filosofo,
Spesse volte affamato,
Io mi faccio una gloria
Di camminarti allato!
O dolce amico, insegnami
A vivere securo
Sotto l'usbergo del sentirmi puro!

Agosto 1875.

LA CHIESETTA DEI MORTI

(A GIULIO CORSARI)

L'ho vista la chiesuola; essa è perduta
In mezzo ai campi come un eremita;
Ed è deserta, solitaria e muta,
Qual chi studia il problema della vita.

O teschi, o tibie, o stinchi ammonticchiati,
Macerie umane, chi vi mosse in terra?
Insiem congiunti come v'han chiamati?
Bécero, Truffaldino o Fortinguerra?

Sotto una rozza lapide sconnessa
Dorme il vecchio curato del villaggio;
Egli almen cogli offizii e colla messa
Il nome a questa età lasciò in retaggio!

Ma un teschio, posto là, sul cornicione
Con cent'altri, ridendo, par che esclami:
"Bel profitto davver, se le persone
"Deggion dir ti chiamavi e non ti chiami!"

Ed è un teschio giallognolo e pulito
Siccome d'un nodar la pergamena,
Ed ha la nuca dal profilo ardito
E guarda in giù con un'occhiaja appena.

………………………….. ………………………….. ………………………….. …………………………..

È il mattino.—Sull'erba verde e folta
Scintillano le gocce di rugiada,
E il ritornello da lontan s'ascolta
D'un villano che passa sulla strada.

La Natura e il Lavoro!—E poi?—La testa
Poggiar sul cornicione d'una chiesa,
Coi passeri che intorno le fan festa
O col becco alle vuote orbite offesa!

E contemplare i proprii stinchi ignudi
In una nicchia, messi insieme a mille,
O (peggio ancora) un pöeta che sudi,
E cerchi un verso alzando le pupille…

Ei colla vita di cento persone,
(Che visser forse ognuna settant'anni)
Farà dieci quartine o una canzone.
Che l'udito ai viventi o strazii, o inganni!…

Poveri morti, perdonate!—Tutti
Amor vi concepì; tutti una madre
E un padre aveste; e amaste; e foste tutti
Sposo, figlio, fratello, amico o padre…

Per una strofa che dalla matita
Mi cade, voi viveste, ahimè, tant'anni!
Un sol mio verso è costato una vita!…
E una mia rima chissà quanti affanni?

Castelleone, agosto 1874.

A UNA DONNA INTELLIGENTE

Quand'io lessi i tuoi versi
Ho pensato alla gioja
Immensa e alla sventura
Di chi può amarti, o bella crëatura.

Ho pensato all'arbitrio del destino,
Che ti formò col puro cäolino
Con cui formò il cervello dei veggenti:
Ho pensato al delirio
Di chi baciò i tuoi begli occhi lucenti;
All'angoscia di chi, dopo il delirio,
Vorrà, tremante, interrogarti il cuore,
E, forse, troverà lento e sbiadito.
Come un suono che muore,
L'amoroso battìto!

Strano connubio!… Donna e intelligenza!
I sogni, che s'incarnano
Nella gentil parvenza!
Strano connubio!… Intelligenza e donna!…
Lucifero che cela il ghigno orrendo
Sotto un pallido volto di Madonna!
Una bionda e leggiadra testolina,
Un gingillo da pôr sovra un guanciale,
Che scruta ed indovina
Il cupo abisso del Bene e del Male?
Strano connubio!… Donna e intelligenza!…
Una mandòla, cui la man d'amore
Sa cercare una languida cadenza,
E a cui scuote le corde
Questo fantasma che sussulta e spia,
E bacia, e sferza, e morde,
E che gli umani chiaman: Poesia!

Quand'io lessi i tuoi versi
Ho pensato alla gioja
Immensa e alla sventura
Di chi può amarti, o bella crëatura!

Io vorrei che alla mia donna adorata
Mormorasse un mortal detti d'amore,
Perch'io potessi trafiggergli il cuore
O morir di sua mano;
Ma, ginocchioni, il ciel supplicherei
Che tenesse lontano
Dal suo capo gentile
Il più spietato dei rivali miei,
Il Pensier, che solleva
Il tristo tentatore
Che un dì fe' perder Eva
E poi distrusse ogni sogno d'amore.

E s'io t'amassi, ti verrei dinanzi
Colle lagrime agli occhi e il viso bianco,
E, come un pellegrin d'affanni stanco,
Singhiozzando ai tuoi pie' mi getterei
E, baciandoli, o donna, io ti direi:

"Di non udir quaggiù che la mia voce,
"E d'esser sorda alle melòdi arcane
"Che vibrano nel tuo capo adorato;
"Perch'io temo che il sol della dimane
"Ti risvegli più fredda all'amor mio;
"Perch'io temo che i baci del Pensiero
"(Funestissimo Iddio)
"Ti tolgano per sempre ai baci miei!"

Questo, o donna, piangendo, io ti direi.

E se tu volgerai, dolcezza mia,
Quasi ammaliata, le pupille al cielo
Ov'abita il tuo Nume, io, soffocando
Nel profondo del cor la gelosia,
Afferrerò la balza del tuo velo
Per tenerti qui in terra… o per morire,
Se a quella reggia d'oro
Poëta e donna, tu vorrai salire.

Agosto 1876.

IL DÌ DEI MORTI

Quest'oggi il calendario
Segna il giorno dei morti,
Il giorno in cui gli scheletri
Han mistici conforti,
Ed io, seguendo il popolo
Come sopra pensiero,
Mi trovo al cimitero
Fra i cippi a vagolar.
Qui tra le mute lagrime
Delle madri dolenti,
Tra gli ipocriti gemiti
Degli eredi parenti,
Tra i fiori che inghirlandano
I cippi biancheggianti,
Rovistando i sembianti,
Comincio a meditar.

Chi mi disse che il fùnebre
Campo, ov'io sono, ispiri
Pensieri melanconici,
Desolanti deliri?
Chi mi disse che incutono
Disinganni e paure
Le mille sepolture
Che stan dinanzi a me?
Qui, dove gli altri parlano
D'incompresi destini;
Qui, dove gli altri perdonsi
In mar senza confini;
Qui, dove tutti fremono
D'indicibil terrore,
A me si spegne in cuore
Ogni bugiarda fè.

Sulle zolle che atteggiansi
A smaglïanti ajuole,
Tra i fiori, che si volgono
Desiosi ai rai del sole,
Della Morte io non veggio
La larva ischeletrita;
Non la Morte, la Vita,
O miei fratelli, è qui!…
La Morte!… Che significa
Questa strana parola,
Che fa sgomento ai timidi
E che i forti consola?
La Morte!… Chi mi scioglie
Questo fatal segreto,
Che al cèrebro d'Amleto
Il dubbio suggerì?

È la Morte una fisima
Delle pusille menti!
Se nacquer dai cadaveri
L'erbe ed i fiori olenti,
Se i vermi ha fatto nascere
La carne imputridita,
La forma, e non la vita,
D'esistere cessò!…
L'operosa materia
Convien che a sè ritorni;
La Morte è legge assidua;
Noi moriam tutti i giorni!
Noi moriam, trasformandoci
Da bimbi in giovinetti!
Noi moriam cogli affetti
Che il nostro cor provò!

Perchè cercar nell'anima
Le fede e la speranza?
Perchè cercar nell'anima
La postuma esultanza,
Se scioglier la materia
Ci può il fatal problema,
Se il mistico pöema
Essa cantar ci sa?
Essa, l'eterno simbolo;
Essa, l'eterna Dea;
Essa, da cui germogliano
E l'albero e l'Idea;
Essa che dà alle indagini
I responsi più esatti,
Che non i sogni astratti
Delle trascorse età!

Che v'importa dell'anime
Dei figli trapassati,
O padri, sovra i candidi
Sepolcri inginocchiati?
Via!… Chiudete l'orecchio
Ad una sciocca turba,
Che il pensier vi conturba
Con sogni di terror!
I vostri figli vivono;
Sono raggi di sole,
Son glebe, son garofani,
Son aria, son vïole;
Voi, pregando sugli umidi
Fiori o sui secchi dumi,
Ne aspirate i profumi
E vivete con lor.

Oh!… Dite ai mille ipocriti
Dalle fisime strane,
Che noi, togliendo l'anima
Alle credenze umane,
Non vi togliamo il balsamo
Delle memorie pie,
I canti e l'armonie
Che sanno consolar!
Credete alla Materia
Per creder nell'Eterno;
Il Bene e il Mal sussistono;
Ecco il Cielo e l'Inferno!
Religïon purissima
È la Scienza, la luce
Che gli uomini conduce
Ad amarsi e pensar.

PER IL SANTO NATALE

(A EUGENIO TORELLI-VIOLLIER)

Eugenio, l'abitudine
È una cinica Dea,
Che avvelenò coll'alito
Ogni sublime idea!
Profuse il genio ai popoli
Le perle smaglïanti
E un'orda di baccanti
In pietre le mutò!

Dal dì che all'Evangelio
Pace e conforto io chiesi,
Dal dì che il cor degli uomini
A interrogare appresi
E, come un serpe, ascondersi
Vidi nel Bene il Male,
Il giorno di Natale,
Da allora mi indignò!

I pöetastri raglino
Vieti e melliflui canti,
Le olenti dame pensino
Ai bambini lattanti,
Credan davver gli stolidi
Ch'oggi ogni sdegno è spento,
Biascichi un complimento
Ogni bocca volgar!

Io, solitario, medito
Chiuso nella mia stanza
Che retaggio di popoli
Grulli è una grulla usanza…
Nè a vagolar pei trivii
Coi miei pensier discendo,
Chè fuggo un quadro orrendo
Che m'eccita a imprecar.

Giù v'è un delirio, un'orgia
Di sangue e di carname;
Polpe squarciate e muscoli
Ornati di fogliame,
Bestie sgozzate e viscere
Ancora palpitanti,
E rosse man fumanti,
E gocciolanti acciar!

Lungi da me l'orribile
Tripudio dei macelli,
Ove le fronti pallide
Di pecore e vitelli,
Trofëo spaventevole,
Col livid'occhio spento,
Mandandomi un lamento,
Mi possono guardar!

Lungi da me, o limosine
D'un mondo imbellettato,
Chicche donate ai bamboli
D'un popolo affamato!
Lungi da me l'ingenua
Fede dei tardi ingegni,
Che spengansi gli sdegni
Coll'agape d'un dì!

Lungi da me quest'ebete
Sfida a chi più divora,
Quest'inno che da gonfie
Ventraglie erutta fuora!
Lungi da me l'effluvio
Di frutta e di dolciumi,
A cui gli acri profumi
Inutil sangue unì!

O triste lotta!… O vincolo
Fatal della Natura!
È ver, dell'altrui sangue
Vive ogni creatura!
È ver, la morte è il nocciolo
Che genera la vita!
In terra e in ciel scolpita
La dura legge io so!…

Ma, per far festa, uccidere,
Non per sbramar la fame;
Ma il rider tra i cadaveri,
Gridando: Pace!… è infame!
Ma l'esclamar tra i rantoli
"Quest'oggi è un giorno gajo!"
È lazzo da beccajo
Che il sangue inebrïò!

Deh! Se nei vostri pargoli
Sensi d'amor bramate
Dal barbaro spettacolo,
Madri, li allontanate…
O scenderanno funebri
Fantasimi crudeli
A rapir loro i cieli
Del sonno verginal!

Ah! dite lor che scordino
Quest'efferata usanza;
Che a feste meno stolide
Rivolgan la speranza;
Che verrà un dì in cui gli uomini
Saran davver fratelli,
Senza l'orgie e i macelli
Di questo saturnal!

25 dicembre 1876.

CORAGGIO!

(AD ALBERTO BARBAVARA)

Tu sogni una condotta, un bel villaggio,
Dall'esil campanile, a mezza china.
Che si imporpori al raggio
Del sol, quando declina,
Come la guancia d'una giovinetta
Cui si parli d'amore.

O mesto amico mio, biondo dottore,
Talor lo sogno anch'io
Questo tranquillo oblio;
Talor m'accascio anch'io sul mio dolore
Penso alla noja arcana
Che da ogni cosa emana;
Penso a quelli che furono
E a quelli che verranno;
All'albe ed ai tramonti ed all'affanno
Che domina crëato e crëature;
Alle molte sventure
Ed ai pochi sorrisi
Concessi a quei che pensano; alla culla
Tanto presso alla tomba;
A questo eterno nulla!

Tu sogni una condotta, un bel villaggio
Dall'esil campanile, a mezza china,
Che si imporpori al raggio
Del sol, quando declina;
Ed io perdo il coraggio
Nella frivola vita cittadina!
E nei ridotti, ove s'affolla un mondo
D'ubbriachi e di cretini,
M'aggiro; e il volto mio cogitabondo
Porta il riflesso d'inconsci destini…

Pur se giunge una nota al mio cervello,
Se vien qualche cencioso menestrello
A strimpellare una canzon gioconda
Al mio attonito orecchio,
Una febbre m'inonda
Di mille desiderii sconfinati;
E penso ai vecchi errori, al mondo vecchio
Che crollerà sotto il mio giovin pugno;
All'arte nuova; ai versi cesellati,
Coi quali passo qualche lieta notte
Della mia giovinezza;
E ritorno alle lotte,
Ove soltanto il debole si spezza;
Ed odio, ed amo, e scrivo,
E lagrimo talor, ma fremo e vivo!

DITIRAMBO

(A EUGENIO TORELLI-VIOLLIER)

Un giorno, Eugenio, tramontava il sole
E tu mi stavi accanto,
Ed al cervello mio le tue parole
Suggerivano un canto.

Tu mi dicevi: "La scienza è la luce
"Che feconda gli ingegni;
"È la guida infallibil che conduce
"A inesplorati regni…

Ai regni inesplorati, agli ideali
"Che tu cercando vai,
"A cui le menti, che han tarpate l'ali
"Non arrivano mai."

Ed io dicevo: "È vero!… I giorni miei
"Passan senza splendori!
"Oh, quante notti fra i bicchier perdei!
"E quante fra gli amori!"

E ripetevo: "La scienza è la luce
"Che feconda gli ingegni!
"È la guida infallibil che conduce
"A inesplorati regni!"

Poscia, rinchiuso nella stanza mia,
Quella notte vegliai;
Degli intravisti carmi l'armonia
Mi si aperse e pensai:

Scienza, che debbo chiederti?
Qual ben puoi tu largirmi?
Ahimè!… Dei canti il fascino
Forse tu puoi rapirmi!
L'entusiasmo puoi togliermi
Che i giorni miei fa lieti!
L'entusiasmo!… Il tesoro dei poeti!

Scienza, che debbo chiederti?
Forse il concetto immenso
Del nostro nulla?—È inutile!
Io questa idea la penso…
Come da vasto incendio
Le scintille incessanti,
Così dal nulla a me vengono i canti

Tu sai giunger, per aride
E tortuose vie,
In lande ove s'impressero,
Da tempo, l'orme mie!
Scienza, che debbo chiederti?
Io volo, e tu cammini…
Per soffermarci agii stessi confini!

Puoi tu insegnarmi il numero
Degli astri rotëanti?
Dirmi che sia lo spazio
E cosa sian gli istanti?
Dirmi perchè sussistano
La luce, l'ombra e il moto,
E come in foglie si trasmuti il loto?

Scienza, a crëare insegnami
Un'erba od un insetto;
A discerner le cause
Dell'odio e dell'affetto;
A indovinar l'incognito
Principio della creta;
Scienza, dei mondi apprendimi la meta!

Ed io, fervente apostolo
E adorator dell'arte,
Verrò a chiedere l'estasi
Alle tue dotte carte,
E vestirò coi fascini
D'un eterno poëma
La soluzione del vital problema!

Ma, fino allora, chiederti,
Scienza, che deggio io mai?
Forse l'oro e la gloria
Che da tempo spregiai?
Forse di qualche popolo
Le gesta o la favella?
Forse una data o il nome d'una stella?..

Ahimè!…La scienza è un briciolo
All'ignoto involato!
Noi non ghermiam che un atomo
E gridiamo: È il Creato!…
E perdiamo nell'ansie,
E perdiam negli affanni
L'incantevol sorriso dei verd'anni!

E poi, giunti sul margine
Della vita che fugge,
Anco cinti di gloria,
Un pensiero ne strugge;
È del Nulla il fantasima
Che nell'estrema prova
Ci mormora all'orecchio: Or, che ti giova?…

Lo so; i verd'anni passano
Pei dotti e pei gaudenti,
E forse nel silenzio
Degli anni miei cadenti,
Triste e scorato, ai fervidi
Giovani dì pensando,
Anch'io dovrò ripeter lagrimando:

"Stolto!… I bei sogni sparvero!
"Sparvero e nappi e amori,
"E i giorni tuoi tramontano
"Qual sol senza splendori!
"Scendi, rabbiosa ed invida,
"Nella tua sepoltura
"A mutar forma, o volgar crëatura!"

È ver!… Ma tutti muojono,
E dotti e gaudenti!
E allor che giova il plauso
O il biasmo delle genti?
In un pugno di polvere
L'incompreso Destino
Muta i cranii di Dante e d'Arlecchino!

………………………….. …………………………..

Viviam!… Rubando un briciolo,
Affannosi, all'Ignoto,
O tessendo una lirica
Ad un pugno di loto,
Pensiam che i giorni passano,
E che—forse—Alighieri
Invidia il bimbo partorito jeri…

E vorrebbe rivivere
Per giornate più liete,
Soffocando nel cèrebro
Della Scienza la sete,…
Per poi—forse—rimpiangere,
Fatto vecchio, gli allori
Fra le tazze oblïati e fra gli amori!

Viviam!… Rubando un briciolo,
Affannosi, all'Ignoto,
O tessendo una lirica
Ad un pugno di loto,
Pensiam che i giorni passano
E che—forse—Arlecchino
Vorria rinascer per studiar latino

E vorrebbe rivivere
Per diventar dottore,
L'esilarante arguzia
Soffocando nel cuore…
Per poi—forse—rimpiangere,
Fatto vecchio, le cene
Rubate al ventre… dalle pergamene!

Viviam!… Dei desiderii
È la turba infinita;
Per soddisfarla gli uomini
Troppo breve han la vita!…
E vivesser coi secoli
Convien che il labbro gema:
"Noi siamo affranti…o la turba non scema!"

Viviam!… Lasciam che passino
Servi all'istinto gli anni!
Tutti avrem pari i gaudii,
Tutti pari gli affanni!….
L'eternità in un circolo
Infinito ne serra!…
È il Nulla in cui s'avvoltola la terra,

Luglio 1875.

PER UNA SUICIDA

Una bionda fanciulla innamorata
Dal terzo piano si gettò stasera.
L'han raccolta piangendo ed è spirata!

Domani i preti, colla stola nera,
Com'è costume, a prenderla verranno
Recitando la solita preghiera;

Domani tutti il nome suo sapranno,
E morrà nel frasario d'un giornale
Questa epopëa d'un immenso affanno!

Poveretta!… La veste nuzïale
L'attendeva coll'alba!… Ella ha voluto
Mutare in epitaffio un madrigale!

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Un tempo, anch'io, giovinetto inesperto,
Credea nei libri di legger la vita,
E non vedea che sterile deserto!

E rivivea la fantasia romita
In epoche lontano; in mezzo a gente
Che incancellabil orma avea scolpita.

E tutti mi diceano amaramente:
"Che noi non siam che un popol di fantasmi;
"Che i nostri affetti son ceneri spente;

"Che son svaniti amori ed entusiasmi;
"E che i lampi e i profumi eran mutati
"In fosforo volgare ed in mïasmi!"

Ed io discesi nei trivii affollati,
Non recando nè fedi nè illusioni,
Arido figlio di padri annojati.

Ma l'impeto fatal delle canzoni
Tacitamente palpitar mi fea!
Ed io, passando fra i tristi e fra i buoni,

Fra lo splendore d'una eterna idea
E le tenebre folte, il mar solcando
Degli eventi, che intorno a me fremea,

L'oltraggio fatto a noi dissi esecrando;
E nella notte altrui trovai l'aurora;
E risi e piansi anch'io; e lagrimando

La strofa mi sgorgò calda e sonora;
E ritrovai la fede e la speranza,
Perché m'accorsi che si vive ancora!

Sì!… Si vive! Si lagrima! Si danza!
Come un dì! Come sempre! E infin che luce
Avrà il sole ed i fiori avran fraganza,

Questo dramma, ora lieto ed ora truce,
In cui tutti abbiam parte, ed è la vita,
E che un'ignota man scrive e conduce,

Palpiterà di passione infinita,
Miscêla arcana d'ombra e di splendore!
E tu eterna starai (lampa romita,

Oppure incendio divampante) Amore!

Ottobre 1876.

QUANDO?

(A DINO MARAZZANI)

Quando i giorni verranno
Della malinconia,
E morirà d'affanno
Nel mio cranio la giovin fantasia,

Io penserò alle notti,
Che passai con me stesso;
Agli studii interrotti
Per meditar della lampa al riflesso;

Io penserò alle sere,
Che, coi pochi diletti,
Confusi le preghiere
Per l'Arte, per il Vero e per gli affetti.

Allora, stanco anch'io
Dei furbi e dei cretini,
Mi sentirò il desìo,
Il santo ardor di più vasti confini!

Stringerò nella mano
Un nodoso bastone,
E me ne andrò lontano
Un balsamo a cercar, l'oblivïone…

Andrò verso l'Oriente,
Col sole sulla fronte,
Guardando avidamente
La linea circolar dell'orizzonte.

E bacierò le siepi
E i fiori per la via,
E cercherò i presèpi
Ove deporre la stanchezza mia.

E scenderò, pensando,
Alle vaste marine;
E vedrò, palpitando,
Gli splendidi tramonti e le mattine.

Ritroverò la vita
Nell'immensa natura;
E la gioja infinita
Del creato empirà la crëatura…

Parmi d'aver dinanti
Le romite vallate;
Le strade biancheggianti
Ove la fine polve arde in estate;

Odo stillar le fonti
Dallo spungoso tufo
E, la sera, fra i monti,
Stridere il grillo ed ululare il gufo.

Sento l'acre profumo
Dell'erbe e delle piante
E, sull'umido dumo,
La verde cavalletta saltellante.

Poi, quando il giorno estremo
Degli erranti miei giorni,
Col comando supremo
Vorrà che in vermi il corpo mio ritorni,

Io cercherò una sponda
Giallastra e desolata,
Ove si franga l'onda
D'una glauca marina sconfinata

Là poserò le spalle
Sull'arena minuta,
Che, come eterna valle.
Verso un fondo nebbioso andrà perduta;

Rammenterô le storie
Della mia giovinezza;
Rivivrò di memorie,
Di pianto, di speranza e d'allegrezza;

Ed atomo piccino
Dinanzi alla Natura
E dinanzi al Destino,
Coll'unghie mi farò una sepoltura,

Guarderò i cieli azzurri,
Il mar pieno d'incanti,
Di calme e di susurri,
E i pulviscoli in aria roteanti.

Là morirò tranquillo
Dagli uomini lontano…
E, forse, fatto brillo
Dall'agonia, colla tremula mano.

Sovra la sabbia ardente,
Pensando all'universo,
Traccierò sorridente,
O dolce amico mio, l'ultimo verso.

ARS, ALMA MATER

(AD ALBERTO BARBAVARA)

L'Arte morrà!… o La splendida
Arte che amiamo, o Alberto,
Morrà, come ingannevole
Miraggio del deserto!…
Oh! Tu non sai l'angoscia
Che in petto mi fremea
Quando la triste idea
Nel cranio mi guizzò!
Nata col primo palpito
Dell'umano pensiero,
L'Arte non era in fascie
Quando cantava Omero;
Ma dalle vette olimpich
All'Ellenia stupita
Dicea: "Narro la vita
"D'un'arte che passò!"

Dal sacro fiume Egizio,
Dal Gange e dal Giordano
Alle colonne d'Ercole
Che chiudean l'oceáno,
Errante coi fenicii,
Ape del sen fecondo,
Ella versò sul mondo
Il miel di sue virtù.
E ad Iside e ad Osiride
Eresse monumenti;
E verseggiò le pagine
Dei vecchi testamenti;
E toccò l'arpa a Davide;
E al popol patriarca
Disegnò l'are e l'arca;
E celebrò Visnù.

In Grecia Apelle e Fidia
Le chieser marmi e tele;
Ella insegnò la linea
Divina a Prassitele,
E a Socrate e a Demostene
La possente parola,
E ad Eschilo la scuola
Delle passioni aprì.
Le mani d'Aristotile
Ne composer la storia;
La chiamò Saffo, in lagrime,
Amor; Pericle, gloria;
Inspirò l'odi a Pindaro;
Seguì Alcibiade a festa;
E gaja dalla testa
D'Anacrëonte uscì…

Poi trasvolò, coll'aquile
Delle legioni, a Roma;
Ed intrecciando i lauri
Alla flüente chioma,
Cantò i trionfi, il sonito
Delle tube guerriere,
Le spoglie e le bandiere
Del Lazio vincitor.
E quando la Repubblica,
L'invincibile atleta,
Sotto il pugno di Cesare
Si sfasciò come creta,
Ella, che adora il genio,
Nella bellezza avvolto,
Baciò, plaudente, in volto
L'audace lottator!

E l'adorò, recandogli
Un impero a tributo;
E, ad eternarlo, complici
Ebbe Tacito e Bruto;
E quando ei cadde, vittima
Di vendetta gloriosa,
Gli suggerì la posa
In cui dovea morir.
Sovra il suo corpo esangue
S'abbandonò piangendo;
E si temprò all'incudine
D'uno spasimo orrendo…
Poi surse, e avea nell'occhio
Sguardi così possenti
Che n'arsero le menti
Nei secoli avvenir,

Ella narrò a Virgilio
L'egloghe e l'epopee;
Apprese in versi a Orazio
Le proverbiali idee;
E rizzò terme e templii,
E circhi e colossei,
E sogghignò agli Dei,
Agli aúguri, agli altar.
Dai lidi della Nubia
Chiamò il pardo e il leone;
Tolse a femminee viscere
Caligola e Nerone;
Rovesciò il bianco pollice
In faccia ai moribondi,
E chiese se altri mondi
Eran da conquistar!…

Mutati i lauri in pampini.
Nuda dal capo ai piedi,
A mense interminabili
Volle Eterie e Cinedi;
E, brïaca, in un'orgia,
Di vino e di deliri,
Cadde dai drappi assiri
Sul pavimento d'or.
Fra i bianchi intercolonnii
Ella era ancor sopita,
Quando un profeta mistico
Venne a chiamarla in vita.
Ei la coprì col ruvido
Manto, le diè una croce,
E colla blanda voce
Le favellò d'amor.

Cosparsa il crin di cenere
Seco a pregar l'addusse;
La confortò di massime
Söavi ed inconcusse,
E in mezzo a ignoti popoli,
Quasi selvaggi ancora,
Vestitala da suora,
La chiuse in monaster.
Ella, seguendo l'indole
Di sua mondana vita,
Da preci e da cilicii
Affranta ed intristita,
Per scongiurar la noja
Del chiostro freddo ed ermo,
Tradusse in canto fermo
I timidi pensier.

Indi miniò una bibbia,
Cesellò dei rosari,
E ricamò in fantastici
Fregi gli scapolarí…
La santità dell'opere
La rese ardita, e un giorno
A un'asse si fe' attorno
Con piume e con color,
E disegnò un'aurëola
In mezzo a cui, raggiante,
Pinse il volto mitissimo
Del suo profeta e amante;
E, le pupille in lagrime,
Compunta a divozione,
Disse alle genti buone:
"Questi è Nostro Signor!"

Fu la sua voce armonica
Che il nuovo dogma apprese;
Fu per sua man che sursero
E metropoli e chiese;
E dissero i miracoli
Di sue glorie passate,
Le aguglie, le navate,
I pöemi e gli altar.
Pur, colle glorie, l'orgia
Fatal non iscordava;
E il giorno che un Pontefice
La volle far sua schiava,
L'Arte, la bella indomita,
Volse le spalle al tristo,
E fea ritorno a Cristo
Per piangere e pregar.

Un'invincibil nausea
Le saliva alla bocca,
Chè l'andazzo del secolo
La fea torva e barocca;
Eran grottesche immagini
Di frati, angioli e santi
Con manti svolazzanti
E iperbolici pel;
Erano idee rachitiche
Cinte di gonfie vesti;
Sparía la pura linea
Sotto i fregi funesti;
E nei giardini mistici
Della latina scuola
Il puzzo di Lojola
Isterilia gli stel.

E Sanzio, e Michelangelo
Non eran polve ancora
Quand'ella in Francia e in Anglia
Vide la prima aurora;
E, mentre di Giansenio
La pura man guidava,
Fremeva e palpitava
D'Amleto col cantor.
Poscia amò i nèi, la cipria,
Le satire mordenti;
Chiamò gli Enciclopedici
In sale aurate e olenti;
E, per fuggir degli Arcadi
L'inesorabil belo,
Della Germania al Cielo
Cercò sorti miglior.

Ma sulla strada un pallido
Giovinetto severo
La soffermò, dicendole:
"Io mi chiamo Pensiero.
"Il mondo mi perseguita;
"Io gli grido che l'amo;
"Ma son povero e gramo,
"E non mi vuole udir!
"Tu sei leggiadra, e gli uomini
"Aman le cose belle;
"Or ben, di' lor che il raggio
"Io scrutai delle stelle,
"Che la pena ed il premio
"Impartirò a chi tocca;
"Per la tua rosea bocca
"Io mi farò capir!…"

L'Arte e il Pensier si amarono.
Ella porse al Pensiero
Le gioje che sollevano;
Egli le apprese il vero.
Ma l'Arte, esperta e provvida,
Recò al novello tetto
Di cortigiana il letto,
Di monaca il pudor.
Dall'ideal connubio
(Non più Minerva strana
Nata da stolto cranio,
Nè isterica cristiana,
Ma dolce e melanconica,
E d'austera parvenza)
Nacque una figlia—o Scienza
Tu palpitasti allor!

E, gigante, fra gli uomini
Già il tuo nome risuona!
Ma corre ancora il popolo
Alla tua madre buona,
E la sua voce armonica
E i suoi racconti adora,
E ride e freme e plora,
Udendoli narrar.
E l'Arte narra i dubbi,
Che ne assedian qui in terra,
E i miti, e i sogni, e i simboli,
E la pace, e la guerra;
Parla di re e di popoli,
D'amorose leggende,
E, dai palagi, scende
Al rozzo casolar.

Poscia veggendo, trepida,
Che dei tempi passati
La monotona storia
Ha i cèrebri annojati,
Sferza colla commedia
Le goffe costumanze,
E scruta nelle stanze
Gli intrighi ed i mister.
E, risalendo ai limpidi
Fonti della natura,
Ci canta in un Idillio
Crëato e crëatura,
E insegna all'occhio l'ultima
Gradazione di verde,
Che da lontan si perde
In profumo leggier.

L'Arte è la candid'avola
Che tesse le sue fole;
E noi, che ancor siam pargoli,
Amiam le sue parole;
Ma, fatti adulti, i popoli
La chiameran ciarliera,
Ed alla figlia austera
Rivolgeranno il piè!…
E cercheran l'oceano
Del fiume antico uggiati;
E scruteran dai vertici
I cieli sconfinati;
E chiederanno i fascini,
Che il genio oggi dispensa,
Alla natura immensa,
Che tutto chiude in sè.

Forse tu sola, o Musica,
Astrazion dell'idea.
Vivrai, dell'arti l'ultima
E più perfetta Dea!
L'altre morran!… Le statue
(Simulacri pallenti
Delle beltà viventi)
Cadranno infrante al suol;
E voi, riflesso inutile
Di ciò che esiste, o tele,
Voi copriràn la polvere,
L'oblío, le ragnatele!
O libri, al fuoco!… Briciole
Della filosofia!…
Ogni fisonomia
È un libro aperto al sol!

Alberto, ho il ciglio in lagrime
Penso a quel dì fatale!
Alla luce novissima
Della scienza ideale!
All'orrenda catastrofe
Della tragedia trista!
Penso all'ultimo artista
Che quel giorno vivrà!
Ei della madre suggere
Vorrà l'esausto petto,
E rabbioso e famelico
Lo dirà maledetto;
E forse, per resistere
Un'ora all'ardua pugna,
Lo graffierà coll'ugna
E il sangue ne berrà!

Agosto 1876.

DE MINIMIS.

MORS TUA, VITA MEA

Era un uomo sensibile; dicea
Che tutto vive d'una vita arcana;
Che, come il bruco, si forma l'idea;
Che non è sola l'esistenza umana.

E predicava ai bimbi e ai giovinetti
Di rispettar gli steli delle rose,
I nidi delle rondini, e gli insetti,
E le sementi, e gli uomini, e le cose.

Poi, meditando l'incessante guerra
Che la fame crudel move ai men forti,
E pensando che ognun semina in terra
Ad ogni passo migliaja di morti,

D'infinita pietà pianse angosciato,
E, i cibi rifiutando alla natura,
In un angol tranquillo del crëato
S'adagiò, come morto a sepoltura.

Là, rivolgendo gli occhi moribondi
Ai fil d'erba ed ai fior ch'avea vicini,
Vide la vita di novelli mondi,
La strana vita d'esseri piccini.

Vide un bruco, due ragne e un capinero,
Il bruco, rosicchiando un'erba-menta,
Rotava in essa, senza alcun pensiero,
Il pungolo, che sfibra e che tormenta.

E poi che sazio, in estasi bëate
Levava il picciol capo verso il sole,
Le ragne da una foglia arsa sbucate,
Si divisero il bruco nelle gole.

Le due comari, del bottino liete,
Facevan l'una all'altra i complimenti,
Quando, piombando dal vicino abete
Il capinero, li mutò in lamenti.

Nel giallo becco ei se le prese entrambe
Trillando gajamente: Il colpo è bello!…
—L'uomo sensibil balzò sulle gambe,
Stese la mano… e si mangiò l'uccello.

Luglio 1876.

FLECTAR, NON FRANGAR

(A LUIGI DELLA BEFFA)

Tu vuoi saper perchè la vita mia
Colla gente volgare si consumi,
E come io pensi un'ode all'osteria
Fra gli sconci profumi;

Tu vuoi saper perchè fra gli imbecilli
Cerco talora qualche idea sublime,
E come mai le nebbie dei pusilli
Mi dian l'audaci rime;

Tu vuoi saper perchè passo le sere
Giuocando un trivial giuoco coi cretini
Bevendo spesso le tisane nere
Che l'oste chiama vini!

Io sono lo scultor che il sasso adora
Con cui saprà dar vita ad una Dea;
So che dopo la notte vien l'aurora,
 Dopo il dubbio l'idea.

So che il maggio fa seguito all'inverno,
E che il torpore è padre all'entusiasmo,
E che la vita è un alternarsi eterno
 D'olezzo e di mïasmo!

Come l'aquila anch'io dormo sovente
In una grotta una lunga stagione,
E nell'ore volgari e sonnolente
 Annego la ragione…

Poi spicco l'ali dall'oscuro nido
E, librandomi in ciel, nel volo immenso
Saluto il mondo con superbo strido…—
 È allor che canto e penso.

Autunno 1875.

MELODIA

Gli amanti passeggiavano—mentre cadeva il sole;
Mormoravan le labbra—portentose parole;
Un inno solo dalle labbra uscia,
Un inno che diceva:
La parola dell'uomo è melodia,
Che sovra ogni idïoma si solleva!

Gli usignuoli cantavano—mentre cadeva il sole
Echeggiavan nei boschi—i trilli delle gole;
E un lieto canto dalle gole ascia,
Un canto che diceva:
Solo il nostro linguaggio è melodia
Che sovra ogni idïoma si solleva!

Sui rugiadosi margini,—mentre cadeva il sole,
Nelle ebbrezze del polline—cantavan le viole;
Cantavano con note di profumi,
E cantavano il maggio;
E tremolanti sui roridi dumi
Diceano: Il nostro è il più gentil linguaggio!

Nascosta in un rigagnolo,—mentre il sol tramontava,
La femmina d'un rospo—ancor essa cantava;
Il prediletto che quel canto udia,
Da lungi rispondeva:
La tua voce, o mia sposa, ë melodia
Che sovra ogni idïoma si solleva!

Un pallido filosofo,—mentre il sol tramontava.
Sulla strada maëstra—pensieroso passava;
Egli ascoltò gli amanti, i fior, gli uccelli
E i rospi, e disse in cuore:
I linguaggi quaggiù son tutti belli,
E specialmente se parlan d'amore!

Luglio 1876

SEMINARE E RACCOGLIERE

Il cuore è un ventilabro—e noi siam mietitori.
Noi seminiam gli affetti a piene mani,

Crediam nelle sementi—che promettono i fiori,
Crediamo nelle messi del domani.

Poscia, giunti nel mezzo—del campo della vita,
Ci volgiamo alle zolle fecondate;

Non crediam più: speriamo;—speriam la via fiorita;
Vogliam mietere i fiori e le derrate.

Ahimè!… Da pochi semi—la pianta si matura!
Di molti sterpi la campagna è piena!

E un popolo d'arbusti,—spossati dall'arsura,
Chinan la testa sulla gialla arena!

Noi moriam, seminando—la fede e la speranza,
Raccogliendo la noja e l'amarezza,

Ai giovani invidiando—la inutile esultanza…
E pur bramando lunga la vecchiezza!

Il cuore è un ventilàbro—e noi siam mietitori;
Noi guardiamo le zolle fecondate

E le troviam coperte—di spine e di dolori
O da compianti cippi funestate.

IL MARE CANTA

(A ENRICO CAROSELLI)

Il mare canta, il fremito dell'onde
Son note, son cadenze, son canzoni;
E i raggi che la luna in ciel diffonde
  Son tremule visioni.

I pescatori nelle glauche notti
Del Gran Cantore ascoltano i concenti
E alla spiaggia li recano, tradotti
In melodici accenti.

Napoli abbraccia il mar, come un pöeta
Abbraccia l'arpa, con cui ride o geme;
Quando tranquillo è il mar Napoli è lieta,
Quando è in tempesta freme.

Santa Lucia, febbrajo 1876.

EN ATTENDANT

Il ragno, che da un albero
All'altro va tessendo la sua tela,
Al pöeta, che smania
Dietro i suoi canti, un conforto rivela.

Ei da un ramo si dondola,
Acrobata sospeso a un fil d'argento;
Tenta alla meta giungere,…
Ma sempre invano!… E, allora,aspetta il vento.

Così il pöeta penzola,
Pria di spingersi a voi, sulle illusioni;
E tenta, e veglia, e spasima…
Indi aspetta le sacre ispirazioni.

Luglio 1876.—In un bosco.

A UN CALENDARIO AMERICANO

Nella mia stanza ho un picciol calendario
Da cui strappo un foglietto
Tutte le sere, pria di pormi a letto.

Quante cose stan scritte
Sull'esil cartolina!
In alto il mese; poi, sotto la data,
L'effemeride e un piatto di cucina!
Ieri diceva:—Luglio—Ventidue;
San Prospero—Battaglia nel tal sito,
L'anno tale—Bollito
Di filetto di bue.

Strano compendio della vita umana!
La farsa e il dramma! Il sorriso ed il pianto
L'esistenza è una cinica fiumana
Che a ignoto mar discende!
Oggi a foschi burron passa daccanto,
Tra i fior domani d'un giardin risplende
Sotto i raggi dell'alba, ed alla sera
Rugge fra i massi d'orrenda scogliera!

Quand'io ti strappo, o breve cartolina,
Sento una stretta al cuore;
Sento la giovinezza che declina;
Penso che l'uomo tutti i giorni muore!

Luglio 1876.

ACQUA DEI MONTI

È questa la purissima
Acqua dei monti;
La cristallina lagrima
D'äeree fronti.

Anche le vette piangono
Ed han sorrisi,
Ed i cipressi alternano
Ai fiordalisi…

L'acqua è l'ingenua figlia
Dei cicli azzurri,
E parlano d'ambrosie
I suoi susurri.

L'acqua è la figlia tenera
D'inferociti
Giganti e, quasi a molcerli,
Lambe i graniti.

Madonna d'Oropa, 1876.

IN CORPO DI GUARDIA

(A GIACINTO GALLINA)

È la sera.—Nei lunghi corridoi
E nei vasti cortili
Passeggiano i soldati.
Ognun favella dei päesi suoi
E dei volti gentili
Che al villaggio ha lasciati.
Si canta, si schiamazza, si riaccende
La pipa.

In fondo agli anditi risplende
La lucerna notturna, la facella
Che veglierà di dentro,
Mentre veglia di fuor la sentinella.

Quanti giovani ardenti!
Menenio Agrippa ha detto
Che le nazion son uomini viventi;
Chi ne forma la testa
E chi ne forma il petto,
Chi le braccia e chi il ventre; ed a me pare
Che l'esercito sia
Il giovin sangue della patria mia.

Tramonteranno i giorni in cui le spade
Scintilleranno ai rai del sole.—Allora
Questi soldati di varie contrade
Saluteranno la novella aurora;
Rivedranno le madri e, l'ire spente,
Muteranno l'acciaio dei fucili
Nei miti aràtri; e obliando la guerra,
Feconderan la terra
Della loro vallata sorridente.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

I trombettieri sono usciti.—È l'ora
In cui debbo a sonar la ritirata;
E una folla di gente entusiasmata
Si farà ad essi attorno,
E udrà gli squilli acuti e le cadenze
Che usciran dalle trombe luccicanti;
E seguirà, con fervide movenze,
I soldati che tornano al quartiere.

Poi cesserà il clamor degli abitanti;
Moriran le canzoni
E moriranno delle trombe i suoni;
Scenderà sui cortili e nelle stanze
Un silenzio solenne;
E l'ombra romperà dei corridoi
La lucerna notturna, la facella
Che veglierà di dentro,
Mentre veglia di fuor la sentinella.

Quartiere San Filippo, Milano, agosto 1876.

ULTIMA RATIO

Allor che tatto tace
E mi rinchiudo nella stanza mia.
Sento una voce in cuore, un'armonia,
Che mi susurra: La vita è la Pace.

Allor che nella storia
Dei popoli e dei re scruto le gesta,
Una smania m'opprime e mi molesta,
E mi ripete: La vita è la Gloria!

Allor che dal languore
D'una notte di baci io son spossato,
Una voce mi giunge dal creato,
Che mi ripete: La vita è l'Amore!

Quando un vecchio piloto
Mi narra gli usi di lontane genti
E dei suoi giorni i fortunosi eventi,
Io ripeto fra me: La vita è il Moto!

Quando la melodia
D'un verso o d'un liuto mi percote,
Mi echeggian nella mente colle note
Le parole: La vita è Poësia!

Se alla diva potenza
Io penso del cervello di Keplero,
Se a Spallanzani rivolgo il pensiero.,
Dico fra me: La vita è la Scïenza!

Ma, se in mezzo a una brulla
Campagna, a meditar mesto m'aggiro,
Guardo il cielo, la terra… indi sospiro.
E ripeto fra me: La vita è il Nulla!

DIES.

ALBA

E sia così!—Sul nostro capo un altro
Giorno risplenda!—A noi la luce; il bujo
Agli antipodi!—A tutti la nojosa
Catena della vita; a tutti, grami
E possenti, la uggiosa vicenda
Del cibo e delle vesti!

Un'alba ancora!

Pallida luce del lontano oriente,
Sia tu di nebbie apportatrìce o nunzia
Di lieto sol; abbia tu rose al crine
O di pioviggin umida ne venga,
Nulla ti chieggo!…

I desiderii miei
Non han confine, e, novello Epulone,
In questo inferno, ove innocente caddi,
Io mille volte vo' morir di sete
Pria di volgermi a te pietosamente
Mendicando una gocciola!

Ahi!… D'Abramo
Più ancor spietata, a me,—che nulla chieggo—
Un balsamo fatale, alba, tu imponi!

L'illusïon m'imponi e la speranza,
Che renderan più amari i disinganni;
E illumini le carte, ov'io favello
Con me stesso; ed aggiungi un altro filo
A questo cencio, a questa ragnatela
Del mio futile orgoglio; e mi conforti
Di sublimi parole:

"All'opra!… Avanti!
"Al lavoro!… Al lavoro!… A te, o pöeta,
"La luce e il moto!… A te l'immenso dono
"Di qualche centinajo di minuti!!…"

Vecchia megera, sfinge imbellettata,
Scialba carogna rizzata sui trampoli,
Dal ghigno sterëotipo e dai mille
Fronzoli in similoro,… ad altri narra
Le tue storielle!… Un vecchio lupo io sono
Che non dà nei tuoi lacci!

"All'opra! All'opra! "Al lavoro!…"

E tu intanto, oscena arpia,
Mi pagherai col rabescar di rughe
Il mio sembiante; col pelarmi il cranio;
Collo sfiaccarmi i muscoli e filtrarmi
Nelle vene e nell'ossa,—a poco a poco,—
Il gel dell'agonia!…

Nulla ti chieggo
Alba!…
No!—Errai!—Ti chieggo un verso; un verso
Per maledirti, quanto umanamente
È dato maledir!…
Ora ai tuoi vezzi
Presti fede chi vuole!… Io m'addormento!

MERIGGIO

9 FEBBRAJO 187*.

Piegate per gli amanti, scongiurate il Signore Che creò la sventura quando creò l'amore. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Tutti abbiam nella vita
L'ora fatal che resta, come negro stilita
Sul nostro capo, immobile, finché anuiam sottoterra.
E. PRAGA.

Questo e il mio dì fatale!…
O genti buone,
Se i canti miei v'han dato un entusiasmo.
Se una scintilla dell'anima mia
V'arse un istante, siatemi cortesi
D'una lagrima.

Ho qui dentro un'angoscia
Che non ebbi giammai!… Oggi ho perduto
L'illusione del mio primo amore!
Un amore di fuoco, uno sfrenato
Abbandono dei sensi!… Oggi colei,
Che ieri ancor nei supremi deliri
Mi chiamava il suo angelo, m'ha detto
Che spento a un tratto si sentì nel coro
Ogni disio di me!

Questo è il meriggio!
Questo è il triste meriggio della mia
Povera vita!

Io sono solo e piango,
Ed amo ancora!

Oh!… N'ho provate tante
D'amarezze quaggiù!… Negli anni primi
Io senza guida rimasi qui in terra;
Poscia, orrende compagne, ebbi la fame,
E la miseria, e il freddo, e la crudele
Compassion dei felici, e l'ironia
Dei mille!…

E quelli fùr giorni di gioja
Al paragon di questo!… Allora i canti
Giocondamente mi nascean nel cranio.
Ed io, recando un ideai tesoro
Di pöesia, indifferente o lieto
Passavo in mezzo alle sventure mie!

Oh! Maledetta la tua testa bionda,
O crëatura, che hai forma di donna!
Tu, venuta per compier l'anatèma
Che un'altra mi scagliò, quand'io non volli
Da amor turbati i miei futili sogni
Di gloria!… Oh!… Mille volte maledetta
Quella tua bocca ch'io baciai fremendo!
Quelle tue carni che col labbro mio
Consacrai tutte!

O carni!… O polve!… O vermi
Olezzanti d'olezzi celestiali!
S'agita ancora questo sangue mio.
Tumultuando, s'io ripenso a voi!
Ma un più intenso desir m'arde le vene!
Ed è quel di vedervi entro una bara
Scender sotterra a tornar vermi e polve!
Maledetta la man che mi porgesti,
O donna, il dì che ti venni dinanzi!
Maledetto il tuo seno e maledette
Le tue spalle! Ed il piè, con cui movesti
Ai ritrovi d'amor che m'han bëato!
E la tua lingua e le beltà recondite
Del tuo corpo, in eterno maledette!

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Io nacqui buono, e là, dove potea
Giunger la mano mia, sempre una lagrima
Tersi; e, piangendo, il perdono implorai
Persin dai bimbi, se, cieco per l'ira,
Recai loro un'offesa; ed amo i fiori
E l'indulgenza; e un'immensa vergogna
Mi sale al viso s'io penso che alcuno,
Più debole di me, può dir: "Tu, forte,
"Mi oltraggiasti!
"

Ma in questa ora fatale
Io medito un delitto; ed accarezzo
Nefande idee di sangue; e s'io potessi
Esser solo con lei, lontan da tutti,
Non veduto, nell'ombra, io la vorrei
Vigliaccamente uccidere!… Vorrei
Vederla agonizzar fra le mie braccia;
E guardarle negli occhi, annebbïati
Dalla morte; e coll'ugne, gocciolanti
Del sangue suo, vorrei scavarle io stesso
La fossa; e seppellirla; e fra le genti
Tornar ridendo; e pormi sulla faccia
Una maschera; e il dì, che la sua salma
Assassinata fosse discoverta,
Vorrei mescermi al volgo impietosito;
E simular le lagrime; e cantarne
Le laudi: e a tutti asseverar, piangendo,
Ch'io ne morrò d'angoscia!…

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Oh!… Scellerate
Aberrazioni!… Oh!… Mia povera mente!
Oh!… Accesa lava dei miei fervidi anni!
Deh'… Perdonate!… Io sono un pazzo!… Io piango
E son solo!…

E il profil di quella bionda
Testa di donna io l'ho dinanzi agli occhi
Come nei dì ch'io la copria di baci!

Or mansueto le favello:

"O amata
"Crëatura gentil, vorrei morire
"Pria di vederti piangere!… Darei
"Tutto il mio sangue per vederti lieta!
"Alla legge d'amor chino la testa!
"Qual colpa è in te se i baci miei, che un giorno
"Ti davano il delirio, or ti dan noja?
"Qual colpa e in te, che., lagrimando, forse
"T'aggrappasti, nell'ultime giornate,
"Ai ruderi sconnessi d'un affetto
"Che cadeva in rovina?!

"È eterna legge
"Che la fiamma d'amor non duri eterna!
"Ma eternamente io porterò nel cuore
"La tua dolce memoria! E benedetto
"Dirò il giorno, in cui tu, nulla chiedendo
"Fuor che carezze, a me, che non osavo
"Neppur sperarlo, spalancasti il cielo
"Di tue beltà!…

"Non ha gemme la terra
"Che paghino una sola ora d'amore!…
"Ed io fui ricco!… Ed or di mia dovizia
"Le briciole soltanto, le memorie,
"Conforteranno i miei venturi giorni!

"Ah!… S'io potessi (ineffabil miracolo!)
"Dimenticare le tue carni e il tuo
"Sembïante, e il tuo nome, e rammentarmi
"Dei nostri baci e delle nostre notti
"Come di baci e di notti trascorse
"In altra vita che non sia codesta!
"Come di eventi di tempi remoti!

"Deh!… Fa ch'io non ti vegga!… Solitario
"Mi chiuderò fra quattro mura, e lungi,
"Lungi di qui vo' seppellirmi, in fondo
"A qualche tetra valle, o in cima a un'alpe,
"Pur ch'io più non incontri nelle vie
"Il tuo flessibil corpo da libellula,
"Che nelle forme aggrazïate ha un fascino
"Voluttüoso che insulta e tormenta!
"Pur ch'io più non ti vegga!… o un vel di sangue
"M'offuscherà dell'intelletto il lume!
"Ed io dovrei bruttar la vita mia
"Inconsapevolmente (ahi mi perdona!)
"D'una macchia di sangue!"

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

O genti buone,
Se i canti miei v'han dato un entusiasmo,
Se una scintilla dell'anima mia
V'arse un istante, siatemi cortesi
D'una lagrima!

Ho qui dentro un'angoscia
Che non ebbi giammai!… Oggi ho perduto
L'illusïone del mio primo amore!
Questo è il mio dì fatale!… E l'abbiam tutti,
Genti buone, quaggiù!… Questo è il meriggio!
Questo è il triste meriggio della mia
Povera vita!… E mi coce il sollione
Dei più torbidi affetti, ed ho nel cuore
Il fuoco e lo splendore smaglïante
Che nel meriggio abbacina ed uccide!

Io sono solo, e piango, ed amo ancora!

Milano, febbraio 187*.

SERA

Quando dai margini—verdi, le Driadi,
Fuggendo i roridi—guazzi del Vespero,
Solinghe traggono—verso gli spechi,
I campi han echi

Indefinibili;—la brezza mormora;
L'estremo bacio,—coi raggi vividi,
Sugli alti culmini—dardeggia il sole;
Rose e vïole

Pingon la glauca—vôlta dell'etere;
I grilli trillano—fra l'erbe tenui;
E dentro il calice—chiuso dei fiori,
Nido d'amori,

Trovano un talamo—pieno d'effluvii
Gli insetti; i placidi—sonni discendono;
Ed accarezzano—le fronti umane
Estasi arcane.

È allor ch'io medito—dei melanconici
Miei versi il flebile—metro!… Di lagrime
Un vel m'intorbida—l'occhio languente;
Allor, dolente

D'inconsapevoli—mali, di squallidi
Giorni d'angoscia—sento il presagio;
Ricordo i rantoli—dei moribondi,
Penso ai profondi

Misteri, ed évoco—mille fantasimi
Torvi, ed enumero—tutte le noje,
Tutte le ambascie,—tutti i sospiri,
Tutti i deliri,

Che angustian l'anima—di quei che vivono!
E sulle spiagge—dei vasti océani
Singhiozzo e vagolo,—fremo ed impreco
Al Fato bieco

Che in quest'assidua—vita, pulviscolo
Gramo, mi esagita;—che in questo circolo
Triste m'avvinghia—dell'esistenza;
Vana parvenza,

Cui non i secoli—la via segnarono,
E che precipita—(l'indivisibile
Tarlo recandosi—d'un perchè ignoto)
Giù nel remoto!…

Il Vespro è l'íncubo—della mia splendida
Musa, che inebbriasi—di ardenti cantici
Allor che in candide—nebbiose bende
L'alba risplende;

Il Vespro è l'íncubo—della mia splendida
Musa, che veglia—serena ed ilare;
E a me gli esametri, nella notturna
Ora, dall'urna

Dorata, prodiga—mescendo; il Vespero
Ha, nella tremula—penombra, il dubbio
E, nella mistica—melanconia
Ha l'agonia!

Ed io, che, trepido,—di questa effimera
Mia vita medito—l'ora novissima,
Reco nell'intima—mente una vaga
Scienza presaga:

Credo che il debole—fil, che mi tessono
Le Parche, rompersi—dovrà al crepuscolo;
E che il mio spirito—dovrà partire
All'imbrunire;

Poichè, or che in fervidi—flotti il mio sangue
Nelle ancor giovani—membra si esagita,
Io, del crepuscolo—nella penombra,
Mi sento un'ombra!

Ottobre 1876.

NOTTE

A MARIA.

Gli astri scintillano;—l'onda riposa;
E sovra il glauco—specchio del mare
Il raggio tremola—d'una pietosa
Luce lunare.

Da lungi il circolo—delle pendici
Chiude la baja—con braccia immani;
Ivi approdarono—Libii e Fenici
Mori ed Ispani.

Le barche dormono—presso la rada;
Il flutto instabile—ne culla il sonno;
Ed a fior d'acqua—guizzan l'orada
La triglia e il tonno.

I fari splendono—là, in lontananza,
Pupille immobili—fise nel vuoto;
E par che evóchino—la rimembranza
D'un dì remoto.

Maria, nell'anima—ho l'armonia
Dei più ineffabili—sensi d'amore;
Sul labbro ho un gemito—di pöesia
E di languore!

E vorrei stringerti—sul petto, come
Stretta è la baja—dalle pendici;
E col tuo incidere—leggiadro nome
Queste felici

Ore fuggevoli!—Libar vorrei
Qualche satanico—filtro amoroso
Che addoppi l'impeto—dei sensi miei!…
Poscia al riposo

Eterno chiudere—gli occhi; il passato
Tutto in un'estasi—ridir fra noi…
Scendere all'Èrebo—martirizzato
Dai baci tuoi.

CITTÀ ITALIANE

NAPOLI

(A MICHELE UDA)

Napoli è il pandemonio
D'ogni stranezza umana;
Vi si respira il soffio
Dell'epoca pagana;
Come al tempo dei Cesari
Rimaser le taverne;
Serban l'antica foggia
L'anfore e le lucerne.

Il popolo s'inebria
Di leggende e di canti;
Ama le notti tiepide,
I tramonti smaglianti,
L'albe serene, il glauco
Color della marina,
Ciò che fa chiasso e luccica,
Il lotto e Mergellina.

Ogni veste in fantastici
Disegni si ricama;
La ricchezza frastaglia
I merletti alla dama,
E l'abile miseria
Alle povere donne
In pittoreschi cenci
Sa ricamar le gonne.

Di poco pane e d'acqua
La plebe si nutrica;
Ha l'apatia mirabile
Della sapienza antica;
Come adorava gli idoli,
Adora i santi adesso;
I simboli mutarono,
Ma il culto è ancor lo stesso

I cocchieri bestemmiano
Per le marmoree vie…
E salutano agli angoli
I Cristi e le Marie.
Spesso la fame, squallida
Larva, i tugurii invade…
E cogli aranci i pargoli
Giuocano nelle strade.

Oggi si muta in ghiaccio
L'umor delle fontane…
E le camelie sbocciano
Col sol della dimane.
Ogni edificio è un'ampia
Mole che in cielo ascende…
E a vivere sul lastrico
Il cittadin discende.

Ieri l'orrendo tremito
D'un sotterraneo moto
Facea pregare e piangere
Il popolo devoto…
Oggi, già quasi immemore
Del periglio mortale,
Ei pensa alle baldorie
Del pazzo carnevale.

Napoli è il pandemonio
D'ogni stranezza umana!
Un ineffabil fascino
Dalle sue pietre emana;
Pari alla vita assidua
Di sua genial natura,
Un incessante fremito
Vibra fra le sue mura.

Bimbi, cavalli e monaci,
Soldati e marinari,
Dame, accattoni e lazzari,
Ganimedi e somari,
Cocchi, carri e curricoli,
Mercajuoli ed artieri,
Un mondo indefinibile
Brulica nei quartieri.

I confratelli, in candidi
Lenzuoli imbacuccati,
Colle faci precedono
I feretri dorati;
E intanto, sotto i portici,
Trofei multicolori,
S'innalzano a piramidi
Frutta, legumi e fiori.

Come pesci, i ladruncoli
Guizzan fra dorsi e petti;
Le cortigiane passano
Ridendo ai giovinetti;
E fra le ruote, gli uomini,
Le donne ed i cavalli
Delle capre lampeggiano
I limpid'occhi gialli.

Echeggia intorno l'impeto
Dalle robuste gole;
La negra folla ondeggia
Sotto i raggi del sole;
Mille campane annunziano
Battesimi e agonie…
E Pulcinella sbraita
Lazzi e corbellerie.

Dal porto, colla candida
Ala cercando il vento,
Le navicelle salpano
Per Gäeta e Sorrento;
E in fondo (immane fiaccola
Che il Tempo non consuma)
Sovra le cose e gli uomini,
L'alto Vesuvio fuma.

O mia canzone, librati
Nell'aria profumata;
Guarda l'immensa cerchia
Della città incantata;
Vedrai che da Posilipo
A Porta Capuana…
Napoli è il pandemonio
D'ogni stranezza umana.

Napoli, 3 febbrajo 1876.

CAGLIARI

(AD AGGELO SOMMARUGA)

Cagliari è fatta di case giallastre,
Come un branco d'agnelle a un monte appese;
E scivolan le scarpe sulle lastre
Delle sue strade ripide e scoscese.

C'è una gran baja ed un porto piccino,
Ove l'onda giammai freme adirata,
E par che dica ad ogni brigantino:
"Se tu cerchi la pace, l'hai trovata!"

Cagliari è gaja; ha un'aria patriarcale,
E del buon tempo antico ama la legge;
E non pensa a mutar la cattedrale
Lo strano campanil che la protegge.

La turba scarmigliata dei picciocchi
Gira dovunque col corbello in testa,
E sguscia dei passanti fra i ginocchi
Più delle anguille irrequïeta e lesta.

Quel corbello è il suo pane ed è il suo tetto,
Ed il picciocco mai non l'abbandona;
Se vuoi dormire egli ne fa il suo letto;
È il suo scudo, il suo stral s'egli tenzona.

Quando piove ei lo muta in un ombrello,
Lo cambia in parasol quando è l'agosto,
Poi, pien di merci—tornato corbello—
Per due soldi lo reca in ogni posto.

La gente dorme quando il giorno cade;
S'alza coi primi albori e va al mercato;
E le donne sciorinan per le strade
I pannilini freschi di bucato.

I cittadini hanno la faccia rasa;
Vengon dai monti i villosi sembianti;
Le cittadine son massaje in casa
E a San Remy son belle ed eleganti.

Gli innamorati hanno un costume strano,
E l'uso è tal che nessuno ci abbada;
La dama sta a un balcon del terzo piano
Ed il damo le parla… dalla strada!

Di sibili infiorato è l'idïoma,
Dolce all'amore; auster su labbri austeri.
C'è qualche bimbo colla bionda chioma…
Caso raro!… perchè son tutti neri!

Cagliari guarda il mar, mentre al suo fianco
Ha liete valli e colli pittoreschi,
E larghe vie dal suol sassoso e bianco,
Ed irte siepi di fichi moreschi.

Grappoli enormi e picciolette viti
Ornan le balze—ridenti festoni!—
E all'arse gole fa graziosi inviti
Lo scialbo color d'ambra dei limoni.

Siam quasi al verno e par di primavera!
E melegrane e cedri ed ananassi
Ti mandan, colla brezza della sera,
Un saluto d'effluvii quando passi.

Cagliari guarda il mare, e, alle sue terga,
Stan campi incolti e vergini foreste,
Dove il cinghiale e dove il cervo alberga,
Dove vette prezíose alzan le creste.

Ivi una febbre d'or spinge gli umani,
Ma (ahimè!…) talvolta l'or sfugge agli audaci
E resta sol la febbre all'indomani
Che li dissangua cogli orrendi baci!
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Oggi è sagra, ed il popolo ha indossato
Il costume gentil del suo päese;
Nè più bello un pittor l'avria foggiato
Cui fosse il Genio dei color cortese.

Lungo la baja è un ondeggiar festante
Di gonne rosse dai botton lucenti;
È una baldoria, un correre incessante
Di cavallucci magri e intelligenti.

E intorno al picciol porto—ove diè fondo
La carena panciuta dei velieri—
Havvi una folla, un'accozzaglia, un mondo
Di brache bianche e di berretti neri.

Cagliari, domenica, 22 ottobre 1876.

SOCIALISMO

Uscita da caligini profonde,
Ch'io vo tentando e a penetrar non basto,
Salute a te, nelle tue vie feconde,
O Umanità, cui ciascun dì risponde
Un idëal più vasto!

27 ottobre 1860.

(A. ARNABOLDI—Sulla montagna).

EPISTOLA

A
ENRICO BIGNAMI
SOCIALISMO

Dal dì che pochi dissero:—"Ecco i nuovi orizzonti!"
E che un fiero entusiasmo—scintillò sulle fronti,
E che feudi e tiranni,—pregiudizii e messali
Entraron, colla peste,—nel novero dei mali,
L'umanità rïarse—d'una febbre incessante:
Dei soffrenti si mosse—l'esercito gigante,
E la tema scotendo—giù dai dorsi avviliti,
Sorse a chieder ragione—degli insulti patiti.

Furon giorni di sangue;—rosseggiaron le vie…
È ver!… Colle zizzanie—cadder rose e gazzie…
Ma pari alle tempeste—son le amare vendette!
Non han leggi in entrambe—e castighi e säette!
Gli stolidi soltanto—vorrebber la Natura
Eguale al freddo svizzero—che i suoi colpi misura!

Un tempo era il carnefice—del popolo maestro;
Ei l'educò alla scuola—dei ceppi e del capestro;
Al codice mitissimo—il popolo educato
Si vendicò col sangue;..—come aveva imparato.

Al!… Non gettiam la pietra—su chi lava un oltraggio!
Chi, fra noi, del perdono—ebbe sempre il coraggio?
Nelle pagine lunghe,—su cui veglia la Storia,
Tra le feste d'un giorno,—tra una colpa e una gloria,
Tra il sovrapporsi assiduo—d'un evento a un evento,
Dalle viscere umane—esce sempre un lamento!

Cristo, anch'egli, degl'empi—rese il braccio più ardito!
E fu il giorno che in croce,—per le angoscie sfinito,
Gridò un'ultima volta:—"Sopportate e tacete!"

Gli empi ne profittarono.

—E quando ei disse: "Ho sete!"
D'aceto e fiel gli porsero—una spugna bagnata!

Or ben, quando dei buoni—fu la bontà oltraggiata,
Non un giorno, ma secoli,—essi tacquer pazienti…!
E gli empi li derisero—raddoppiando i tormenti.

Ma venne il dì che i buoni-dissero anch'essi: "Ho sete!"
E avean sete di scienza,—di libertà!…
"Bevete!…"
Fu lor risposto.
E il sangue—si diede lor dei figli!
E morirono i padri—su fetidi giacigli!
E messe alla tortura—für le membra del saggio!

Ah!… Non gettiam la pietra—su chi lava un oltraggio!
Cristo era un uomo-dio;—noi non siam che mortali!
Ei sapeva che il cielo—esisteva; che i mali,
Con cui l'avean qui in terra—i tristi vilipeso,
Gli fruttavan la gloria—del trono ov'era sceso!

Ma per noi questo cielo,—questa speranza sola,
È un mistero!… Per noi—il cielo è una parola!..

Perchè voler, da fragili—e grame creature,
Ciò che forse è miracolo—per divine nature?

Ma libriamoci in alto;—tra il vero e l'ideale;
Ove l'aria non sfibra—questa carne mortale!
E guardiamo sugli uomini;—sui viventi dell'oggi;
Su coloro che popolano—le vallate ed i poggi,
E che, orgoglio di vermi,—raggiungendo una vetta,
A Giove antico atteggiansi—che scaglia la säetta…

Guardiam giù…
Questo fiume—fatto di teste umane,
Questa immensa valanga,—questo esercito immane,
Ha un nome!
Lo si mormora—con riverenza: Il Mondo!

Ei cammina!… Ei cammina!…

—Nel cèrebro fecondo
Dei mille pensatori—egli attinge i portenti,
I segreti, che dànno—la vittoria.
Le genti,
Attraverso agli oceani,—si favellano; i cieli
Si spalancano; cadono—i fantastici veli
Che rendean sacra d'Iside,—nei templi egizii, l'ara;
Ogni giorno che sorge—ha un raggio che rischiara;
Ogni giorno che passa—ha una tenebra spenta;
E sull'eterna via—dei suoi destini (lenta,
Per la vita degli uomini;—per un'idea, veloce)
Mille grida adunando—in una sola voce,
Travolgendo implacabile—chi non vuole o non vede,
Questa immane fiumana,—questo Mondo procede!

Avanti!… Avanti!… Al mare,—o mistica fiumana!
Alla foce!… Alla foce!…

—Ov'è dessa?… È lontana!
Lontana più del sole!—Più del sol misteriosa!
Chi potrebbe, osservando—ogni uomo ed ogni cosa,
Predir l'ultimo giorno—dei terrestri abitanti?

Ma che importa!…

Alla foce!…-Al mare!… Avanti!… Avanti!…

Pur, come un dì le streghe—di Macbeth sul sentiero,
A soffermar per poco—del Mondo il passo altero,
Sorgon tre sfingi; e sono—sfingi rabbiose e grame;
I moralisti ipocriti,—gli eserciti e la fame!

O roditori eterni—delle umane famiglie,
Che dei padri cadenti—insultate le figlie,
Perchè portan nel seno—un bambino illegale;
Che vorreste la donna—ad una pietra eguale;
Che eccitandone i sensi—con arti sopraffine
Bramate, come i vecchi,—veder ignuda Frine
Per turpemente chiederle:—"Sei tu ancora innocente?"
O roditori eterni,—che dell'età fiorente
Odiate i baci, e fate—che le madri, non spose,
Cadano nei postriboli,—come foglie di rose
Sui letamai; che, primi,—l'indagine vietando
E incutendo nei cuori—un terrore esecrando,
Obbligate le madri—a uccidere i bambini;
O voi, che non leggete—negli umani destini
Quest'ardente desío—di pace e fratellanza;
Voi, che abbagliando gli uomini—con cinica baldanza,
Togliete ai campi il braccio—dei giovani ventenni
Per armarlo nei giorni,—in cui le idee solenni
Sorgono a dimandare—che giustizia si faccia;
O voi, che li spingete—all'orribile caccia
Delle conquiste; o voi—che beäti ridete
Nelle comode case—e buoni vi credete
Perchè date una veste—allo spazzacamino;
O voi, gretti ambiziosi,—che annebbiate col vino
L'orizzonte ristretto—d'un esile onorario,
E, colla banda in testa,—ed al passo ordinario,
Sfilate per le vie—tronfiamente, perchè
Un circolo operaio—surse vostra mercè,
Ditemi, nei banchetti,—parlando agli operai,
A chi smuove la terra—non ci pensaste mai?…

I poëti d'Arcadia—han pensato a costoro!
Essi cantaron Fille,—Tirsi, Clori e Lindoro;
Coprirono di cipria—le piaghe puzzolenti;
Sulle teste dei villici—versaron l'acque olenti;
Nascosero gli stracci—sotto i nastri ideali;
Posero loro in bocca—idilii e madrigali;
Indi li presentarono—alle dame annoiate!

Oh!… Vigliacchi sarcasmi!—Oh!… Ironie scellerate!…

Questi pastor da scena,—questi villan galanti
Sono un popol di schiavi—dalle miserie affranti!
Queste Filli, che cantano—canzonette sì gaie,
Sono donne che muoiono—nelle immonde risaie!
Questi Tirsi e Lindori,—che sputan madrigali
Son pellagrosi e tisici!—Son carne da ospedali!
Questi eroi dell'idilio,—nell'amore maëstri,
Stancaron fin ad oggi—e giudici e capestri!
E, fra le lunghe prediche—di parroci o curati,
Fra le sevizie orribili—di chi li ha dissanguati
Per sprecar in un'ora—quanto ha negato loro
Pel lavoro d'un anno;—fra la sete dell'oro
E la fame, gli errori—e lo spregio, i meschini.
Gli arcadici pastori,—son ladri ed assassini!

Mentre noi cittadini,—nelle sere d'estate,
Sorbiamo, a suon di musica,—le bevande diacciate,
Essi cadon dal sonno,—veglian pallidi e infermi
Nei campi, nelle vigne,—o attorno ai mille vermi
Che daranno la seta!…
—Mentre noi, nelle sere
Invernali, danziamo,—o cerchiamo al bicchiere,
O al teatro, o al tepore—d'un buon letto, la gioia,
Essi treman dal freddo—su una lurida stuoia
Sdraiati, e addormentandosi—nelle insalubri stalle,
Invidiano lo strame—ai bovi e alle cavalle!

Lamentando una salsa—noi biasciam le vivande;
Essi mangiano un pane—ch'è peggior delle ghiande!
Noi ci lagniam d'un nodo—nei fili d'un lenzuolo;
Essi dormon vestiti—sovra un umido suolo!
Gli operai cittadini—sono ricchi in confronto;
Men terribile è il male—ove il soccorso è pronto!
Noi possiamo, mendichi,—trovar pietose mani;
Essi son soli, poveri,—quasi ignoti… lontani!…

E la Fame li decima!

—Oh! la Fame!… L'arcano
Problema, che scombussola—ogni sistema umano!

Come mai questo squallido—fantasma esiste?
Noi
Siamo pochi; la Terra—è grande; i frutti suoi
Dovrebbero bastare—a color che vi stanno!
Chi ruba?… Chi nasconde?—Ov'è dunque l'inganno?
Perchè dunque chi suda,—e raccoglie, e lavora,
Digiuna presso un uomo—che ozïando divora?
Perchè mai chi le glebe—feconda di sua mano
Ne reca ad altri il frutto—e muor di fame?

È strano!

Io so ben ch'è una fisima—l'eguaglianza sociale,
Poichè, qui in terra, tutto—è bene, e tutto è male;
Poiché ciascuno al mondo—predilige un tesoro;
Il savio i suoi volumi,—l'usuraio il suo oro,
Il poeta i suoi sogni;—poichè è vana speranza
Fra miseria e ricchezza—ottener l'eguaglianza:
Poichè fin che degli uomini—saran diversi i volti
E nasceranno belli—e brutti, furbi e stolti,
Deboli e forti, arditi—e timidi, i mortali
Si rassomiglicranno,—ma non saranno eguali;
So, che se tutti gli uomini—avesser oggi un pane
Chiederebbero unanimi—il lusso alla dimane;
So che è propria natura—d'ogni nostro bisogno
Di svanir, soddisfatto,—crëando un altro sogno;
Ma so ancor che un diritto—inconcusso è la vita;
Che sovra cose ed uomini—una legge è scolpita,
Una legge che domina—eventi, gaudi e lutti;
Che la Terra ci grida:—"Figli, vivete tutti!"

Oh!… Tremiamo!… Nel sacro—nome di questa legge,
Che prodiga i suoi doni—e che tutti protegge,
Forse, un giorno, può insorgere—questo popol di schiavi!
L'ire represse in Furie—posson mutar gli ignavi!
I fucili cadranno—dinanzi alle bidenti!
Come i patrizii antichi,—i borghesi piangenti
Bacieranno i figliuoli—per morir di mannaia!
Le canzoni, che ai padri—narrarono dell'aia
E dei campi le cure,—tuoneran tra i macelli…
E saran la funebre—ironia dei ribelli!
Quelle mani incallite—saccheggieran le alcove
Dove i ricchi dormirono—i lunghi sonni, e dove
Procrëavan tiranni—alla timida plebe!
I badili e le vanghe,—use a romper le glebe,
Sfracelleran le teste—dei bimbi e dei vegliardi!…

Oh!… Facciamo giustìzia—prima che sia già tardi!
Prima che sorga l'alba—di quel giorno tremendo!
Facciam che i nostri figli—non bestemmin piangendo
L'avidità degli avi—che, coi pingui retaggi,
Avran lasciato ad essi—il livor dei servaggi!…

Ed or, rispetti umani;—inutili timori;
Fanciulleschi desiri—di fanciulleschi onori;
Genuflessioni timide—ad idoli tarlati,
Arido galateo—coi nemici garbati;
Martirii del cervello,—che proromper non osa
Per mercar da un giornale—una linea graziosa;
Amarezze inghiottite;—malintese prudenze,
Che contro il rancidume—delle viete sentenze,
Domate i sillogismi—del bollente pensiero;
Oltraggi silenziosi—allo splendido Vero;
Tacite abiurazioni—per la lode d'un giorno;
Debolezze dell'uomo,—venitemi d'attorno!…

Io vi lascio sul limite,—che non varcai finora,
Perchè siete il tramonto—ed io voglio l'aurora;
Perchè se noi, quì in terra,—viviamo una giornata,
Io d'ineffabil luce—la mia vo' illuminata;
Perchè, sazio degli uomini,—io voglio amar l'Idea;
Perchè gli oscuri baci—di questa sacra Dea
Valgono i mille affetti—della gente piccina;
Perchè val più il delirio—d'un sogno che affascina.
Dell'entusiasmo d'obbligo—d'un ballo mascherato;
Perchè ai dolor dei molti—io mi sono temprato,
Perchè i ghigni di scherno,—la fame e la Censura,
(Dalla fronte brevissima)—non mi fan più paura;
Perchè la solitudine—amo più della folla;
Perchè abborro i mïasmi—d'una carne già frolla;
Perch'io cerco per scrivere—una pagina bianca
E sui vecchi caratteri—il mio sguardo si stanca!…

Enrico, il cor mi batte—di generoso orgoglio!
Sì, nella santa pugna—esserti al fianco io voglio!
Noi propugniamo i dritti—della famiglia vera,
Dei morenti di fame!
—Sulla nostra bandiera
Noi non scriviam: Rivolta!—Scriviam: Giustizia!
Molti,
Che mi furon diletti,—lo so, torcendo i volti,
M'avran da questo giorno—in abbominio!
I grulli
Negli amori e negli odii—sono sempre fanciulli!
Odian senza discutere;—aman senza pensare!

Tal sia di loro!…

Avanti!…—Avanti!… Al mare!… Al mare!
Alla foce!… Alla foce!…—Degli errori all'oblio!…

Dammi la mano, Enrico,—son socialista anch'io!

NOVELLE IN VERSI

ACQUA E FUOCO

A FELICE UDA

ACQUA
I.

Chi conosce Mercallo?
È un povero paese
Tra i monti che sepárano—il lago di Varese
Dal Verbano.

Fa in tutto—un seicento abitanti,

Quando i bachi e le vigne—dan raccolti abbondanti,
I villani, alla festa,—cantano all'osteria
E giuocando alla mora—bevon la malvasia.
Quando il raccolto è scarso—e il pallido digiuno
Entra nelle capanne,—e siede, come un bruno
Fantasima, dappresso—ai freddi focolari,
La taverna è deserta;—la nenia dei rosari
Esce fuor dalle porte—dei meschini abituri
(Dove spiccan le teste—sovra dei fondi oscuri),
Come fuor da una chiesa—esce l'odor d'incenso.

Oh! La chiesa! La chiesa!—Ecco il tripudio immenso
Dei villani!
I beoni—frequentano la chiesa
Anch'essi!.. Almeno là—possono alla distesa
Metter fuori la voce,—quando l'economia
Nei dì grami li tiene—lungi dall'osteria!

* * * * *

Or nel mille ottocento—e cinquanta, a Mercallo,
Nell'unica taverna—all'insegna del Gallo,
Abitava un vecchietto—con una figlia, bionda,
Bella, diciassett'anni,—ben tornita e gioconda.

Gli affari prosperavano—che da parecchie annate,
I villani contavano—men meschine derrate;
E perciò nelle botti—non dormigliava il vino.

La fanciulla avea nome—Lisa; il padre Martino.
Era un buon galantuomo—(cosa in un oste rara
Ed in tutti i mestieri).
—Stando al mondo s'impara.
E Martino a sessanta—anni aveva imparato
A pigiar bene l'uva,—a trovar sul mercato
Fiducia, e ad adorare—l'unica figliuola.

* * * * *

Nel cinquanta a Mercallo—fu fondata una scuola.
Era il verno.—Il Comune—fe' venir da Milano
Un maestro; un bel giovane;—avea nome Graziano;
Gli diè il lauto stipendio—di quattrocento lire
All'anno, e un bugigattolo—dove poter dormire.

Con quattrocento lire—di Milano (vi pare,
O miei buoni lettori?)—nessun la può scialare!
Eppure il giovinotto,—contro ogni economia,
Avea trovato il modo—d'andare all'osteria
Tutte le sere!
È vero—che beveva assai poco!
Un bicchiere soltanto!…—Se lo sorbiva al fuoco,

Ma di bicchier quel verno—egli ne bevve tanti,
Che in aprile Graziano—e Lisa erano amanti!

* * * * *

Il padre se ne accorse—e ne fu lieto assai,
Ma nè a Lisa nè al giovane—volle parlarne mai.
Gli piaceva il maestro.—Il suo piglio cortese
Gli aveva cattivato—gli animi del paese.
Era povero!… È vero!…—Ma cos'era Martino?…
Viveva! Questo è il compito—di chi nacque meschino…
E il vecchietto diceva:—"Presto l'avrò adempito!"

Quando la primavera—col suo tiepido dito
Venne a schiuder le imposte,—inchiodate dal verno;
Quando i campi e il creato—col loro canto eterno
Intuonarono l'inno—della vita novella;
Quando Lisa a Graziano—parve farsi più bella;
Quando fu del vin vecchio—vuota l'ultima botte;
Il maestro veniva—dopo la mezzanotte
A passeggiar soletto—intorno all'osteria.

Allora al primo piano—una griglia s'apria.

Era Lisa.

I due giovani—non contavan più l'ore!
Chi di voi l'ha contate—nei colloqui d'amore?

Ma le contava il vecchio—dal suo secondo piano.

"Come ti voglio bene!"—mormorava Graziano
Alla bionda fanciulla.

Ella diceva: "Anch'io!"

Ed egli soggiungeva:—"Domattina, amor mio,
"Voglio farmi coraggio!—Vo' chiederti in isposa
"A tuo padre!…"

* * * * *

Il vecchietto—ascoltava ogni cosa,
E rideva in cuor suo.—Eran tanto innocenti
Quei colloqui!… Ei pensava—ai begli anni ridenti
In cui per la sua donna—avea fatto altrettanto!
Si sentiva commosso;—avrebbe quasi pianto
Di gioia!…
Ma l'aprile—passò; giugno passò;
E l'estate trascorse;—e l'autunno arrivò;
Né il povero maestro—aveva ancor trovato
Il coraggio di dire:—"Io sono innamorato
"Di vostra figlia" al padre.
—In settembre le notti
Divenner fresche. Il vino—nuovo dentro le botti
Bolliva.
"È strana cosa!"—Rifletteva Martino,
"Graziano e Lisa in tutto—somigliano al mio vino!
"Mentre di fuor fa freddo—hanno il cuore che cuoce!"

* * * * *

Una notte pioveva.—Parea quasi una voce
Di lamento, lo squillo—delle poche campane
Che suonavano l'ore—nelle valli lontane.
Il tocco era passato.—Dal suo secondo piano,
Ascoltando il colloquio—di Lisa e di Graziano,
Il vecchietto tremava—pel freddo.
Il giovinotto,
Sfidando l'intemperie,—mormorava di sotto
Alla nota finestra:—"Come ti voglio bene!"

"Anch'io!" Lisa diceva.

—E il maestro: "Conviene
"Ch'io mi faccia coraggio!—Tuo padre domattina
"Saprà tutto!… Speriamo!…—E poi, Lisa, indovina
"Che rispose il curato—quando ieri gli ho detto
"D'amarti?"
"Che rispose?"
—"Ma, Signor benedetto!
"Esclamò: Fatti avanti!—Parla a Martino… Prova!…
"Animo!… Se suo padre—la vostra unione approva,
"Non c'è nissuno al mondo—disposto a benedirla
"Più di me!
"

"Giurabacco!—È tempo di finirla!"
Spalancando le griglie—tuonò il vecchio dall'alto.

Il coraggioso giovine—fe' per spiccare un salto…
E fuggire…
Martino—gli gridò: "Ma, per Diana,
"Fermati, giovinotto!—Cosa son?… La befana?…
"Via!… Piuttosto che espormi—a mille infreddature
"Fate presto, sposatevi,—mie care creature!"

* * * * *

Graziano sposò Lisa.
—Era tempo!
Martino
Morì.
Il maestro allora—lasciò i libri pel vino.
Divenne ostiere.
Lisa,—dopo quattr'anni, anch'ella
Spirò, mettendo al mondo—una bambina bella
Come un amore, e cui—lasciò erede del nome.

II.

Nel mille ed ottocento—settanta, colle chiome
Che parevano d'oro,—allegra e ben tornita
Era la nuova Lisa—la delizia e la vita
Del padre, a cui la testa—s'era fatta canuta.

Egli la contemplava—in un'estasi muta;
Le baciava la fronte;—la chiamava folletto;
Le dicea di ripetergli:—"Oh! Mio babbo diletto!"
Ai villani, recando—la solita scodella
Di vino, domandava:—"Non è vero che è bella?"
Volea che alla domenica—ogni donna, alla messa,
Mormorasse vedendola:—"Guarda com'è ben messa!"

Le aveva appreso a leggere.
—Su un libro d'orazioni
Avea di proprio pugno,—con grossi paroloni,
Scritto dei versi (ignoro—di qual poeta); questi:

Le fanciulle son angioli
Che pregan col candore;
Per esse il vecchio padre
È il loro primo amore!

* * * * *

Ma pel povero padre—vennero i giorni mesti

* * * * *

Il volto allegro e sano—della bella fanciulla
Si fe' pallido e magro
"Che hai?" Le chiese.
"Nulla!"
Ella rispose.
Il vecchio—divenne da quel giorno
Pensieroso. Le stava—ogni momento attorno;
Volea leggerle in cuore;—di notte non dormiva.

* * * * *

Una notte, fra l'altre,—(era una notte estiva)
Egli balzò dal letto—e s'affacciò inquieto
Alla finestra,
Il lume—degli astri, mansüeto
Come un guardo materno,—sulla terra piovea:
Il corteggio dei colli,—da lungi, si perdea
Dietro il caro ideale—dell'azzurro dei cieli;
Lo stormir delle fronde—parea fruscio di veli;
Le campagne riarse—dai torridi sollioni
Beveano la rugiada;—le Talli aveano suoni
Indistinti, söavi;—il villaggio dormia
Sul guancial di granito—che e il monte gli fornia.

Ei guardò gli astri, i colli,—e l'azzurro orizzonte,
E le piante, ed i campi,—ed il villaggio, e il monte
Che gli sorgea daccanto…—Parea cercar la via
Su cui stornar la mente—da una triste malia…

Ma la cercava invano!—Ei pensava a sua figlia.

* * * * *

Che è questo?
Al primo piano—s'è dischiusa una griglia,
Giù, nella via, si muove—un'ombra nera.
Dice
Una voce da basso:—"Lisa, notte felice!
"Come ti voglio bene!"

—L'altra risponde: "Anch'io!"

Allor l'ombra soggiunge:—"Domattina, amor mio,
"Voglio farmi coraggio!—Vo' chiederti in isposa
"A tuo padre…"
Ad un tratto—cordiale e fragorosa
Scoppia, come una folgore,—una risata in alto.
Già l'ombra coraggiosa—sta per spiccare un salto
E fuggire…
Ma il vecchio—le grida: "Evvia!.,. Perdiana,
"Fermati, giovinetto!—Cosa son? La befana?
"Orsù!.. Per risparmiarmi—le mille infreddature
"Fate presto! Sposatevi,—mie care crëature!"

* * * * *

O lettrice cortese,—non dir che t'ho ingannata!
È vero, troppo semplice—novella io t'ho narrata!
La colpa non è mia—ma degli umani eventi!…
Una storia monotona—han gli amori innocenti!
Nella gente volgare—(che invidio e che rispetto
Per rispettar me stesso)—si ricopia ogni affetto
Di padre in figlio.

È un calcolo—infinitesimale;
È l'acqua, che può forse—aver nome termale,
O salsa, o benedetta,—o tofana, o stagnante,
Ma s'assomiglia sempre—con ben poca variante!

E quest'acqua è il racconto.

* * * * *

—"Per farlo men meschino
(Tu mi dirai) "Poeta—ci hai messo anche del vino!

Ahi!… L'acqua guasta tutto!—Persino il vino buono!

La bevanda fu insipida—te ne chieggo perdono…
Vuoi un'altra novella?
—La leggerai fra poco.
Bada!.. Non riscaldarti!..—Ha per titolo: Fuoco!

Milano, 1875.

FUOCO

Era sera e pioveva.
—Il tremolante raggio
Delle lampade ad olio,—accese nel villaggio
Dinanzi alle Madonne,—col giallastro bagliore
Sulle pietre specchiavasi—della strada Maggiore;
Sulle pietre, cui l'acqua—rendea lucide e nere,
E alle quali imprecava—un grosso carrettiere,
Perchè il mulo a ogni passo—scivolava.
La via
Era deserta.
In alto—dicean l'avemmaria
Due fesse campanuccie.
—Di piombo il ciel parea,
E la sottil pioviggine—silenziosa cadea.

* * * * *

Le galline e i piccioni,—nascosti sui fienili,
O accovacciati agli angoli—dei luridi cortili,
Borbottavan sommessi—cercando il posto adatto.
Sulle ceneri calde—s'accoccolava il gatto.
I dindi, che non amano—dormire affratellati,
Sui carri e sulle travi—eransi sparpagliati;
Taluni dai piuoli—d'una scala sbilenca
Dominavan la scena.
—Il bove e la giovenca
Ruminavan sdraiati—nelle tiepide stalle,
Pensando forse all'erba—brucata nella valle
E alla miglior pastura—da sceglier la dimane.

Col muso fra le zampe,—dalla sua cuccia, il cane
Guardava con disprezzo—dell'oche la famiglia,
Mentre un fanciullo lacero—con una fronda in mano
Di spingerla all'asciutto—s'affaticava invano.

L'orizzonte, all'occàso,—colla sua tinta scialba
Facea dir: "Sol che guardaindietro, pioggia all'alba!"
E con questo proverbio—le rubizze comari
Chiudevano le imposte—dei rozzi casolari.

* * * * *

Quella sera non c'era—benedizione in chiesa.
La prebenda era povera,—non potea far la spesa
D'accender tanti moccoli—tutti i giorni.
Il curato
Passava coll'ombrello—sull'umido sagrato,
Movendo a lunghi passi—verso la farmacia.

Colà la vieta triade—del villaggio venia
A far tutte le sere—la solita partita.

* * * * *

"Buona notte, Teresa!"—"Salute, Margherita!"
"Dormite bene, Checca!"—"State bene, Gervasa!"

Eran le donnicciuole—che rientravano in casa.

* * * * *

I lumi scintillavano—nelle rustiche stanze;
Sui talami nuziali—scendevan le esultanze;
I vecchi accarezzavano—le coltri cogli sguardi;
I bimbi sonnecchiavano.
—Alcuni, più testardi,
Strillavan nella culla—con noiosi lamenti.
La nenia dello gocciole—dalle gronde cadenti,
Come un canto materno,—diceva lor: "Tacete!"

I desiderii inutili—colle vampe segrete
Turbavan le orazioni—delle fanciulle ed esse
Accanto al picciol letto—pensavan, genuflesse,
Dell'amante villano—all'ultima parola,
E trovavano fredde—le candide lenzuola,
E con stolidi accenti—pregavano il Signore
Perchè la santa fiamma—spegnesse a lor nel cuore!

Sovra le brune case—il silenzio scendea,
E la sottil pioviggine—lentamente cadea.

* * * * *

A un tratto, come il lampo—che le nubi rischiara,
Risuonò da lontano—un'allegra fanfara.

I fanciulli, che uscirono—sugli alpestri sentieri,
Tornarono di corsa—gridando: "I bersaglieri!
I bersaglieri!!!"

Allora—fu un batter d'impennate,
Un cigolar sui cardini—d'imposte spalancate,
Un vagolar di lumi—sulle negre baltresche,
Un vociar di padrone,—un chiamar di fantesche.

Si gridava: "Correte!…—Son qui!… Sono vicini!"

Le madri abbandonavano—le culle dei bambini;
E, fra l'essere donne—curiose o madri buone,
Prendeano il mezzo termine—d'affacciarsi al verone,
Tenendo sempre a bada—colla coda dell'occhio
Il letticciuolo, dove—miagolava il marmocchio.

* * * * *

La fanfara appressavasi.—Con un piglio insolente
Parean le note acute—sfidar l'ombra silente.

Le fanciulle, lasciando—divozioni e rosari,
Balzavan sulle soglie—dei bruni casolari;
Colle pupille in fiamme,—battendo mano a mano,
Saltellavan di gioia,—e guardavan lontano,
In fondo alla contrada.
—Gli squilli delle trombe,
Come fìtta gragnuola—che sui tetti precombe,
Echeggiàr nella via,—annunziando al villaggio
Che i bersaglieri entravano.
—Sotto il tenue raggio
D'una lampada santa,—fantastiche visioni,
Sfavillaron nell'ombra—le bocche degli ottoni.

* * * * *

I soldati marciavano—serrati; il suon dei passi
Cadenzato e monotono—rimbombava sui sassi;
I tinníti dell'armi—pareano strappi d'arpe;
Nelle pozze e nel fango—cadean le larghe scarpe
Insudiciando l'uose—strette sulle caviglie;
La pioggia scivolava—sulle negre mocciglie
E imperlava i cocuzzoli—dei cappelli alla scrocca.

I fanciulli, guardandoli,—aprian tanto di bocca;
Le ragazze esclamavano:—"Che bei giovani!"

Ed era
Bujo!!!

* * * * *

Dinanzi a tutti,—accanto alla bandiera,
Marciava un uffiziale—dal torace spazioso,
Dalle spalle quadrate.—Marciava silenzioso,
Colla fronte dimessa;—parea sopra pensieri.

Pensava egli al domani?—Pensava egli all'ieri?
Forse pensava a nulla!
—Con piglio indifferente
Egli passava in mezzo—allo stuol della gente
Ed automa ambulante—si guardava i ginocchi.

Giunto presso a una lampada—l'uffiziale alzò gli occhi
E si fermò.
Due stelle—gli brillavan davanti;
Due stelle nere, lucide,—che parevan diamanti.
Erano due pupille,—cui fea cornice un volto
Di giovinetta, pallido,—nella penombra avvolto.

Il soldato col guardo—esperto ed indovino
S'accorse che quel volto—era un volto divino;
Un volto sedicenne—di bellezza ideale!
Vide due labbra tumide—dal taglio sensüale,
Una fronte purissima,—un mento ovale e fine,
Dalla pelle cosparsa—di linee azzurrine,
E su due guance bianche—cader due brune anella.

Il soldato, baciandola,—disse: "Quanto sei bella!"

* * * * *

La fanciulla fu presa—da uno strano languore
E mormorò, abbracciandolo:—"Assistimi, o Signore!"
Indi trasse il soldato—sotto un andito oscuro;
Spinse una porticella—che s'apriva nel muro
E fe' cenno che entrasse.
—Ei la seguì…
La porta
Fu chiusa.

* * * * *

Era una stalla.—
Piovea la luce smorta
Da una piccola lampada—che dall'alto pendea;
Una magra giovenca—gravemente giacea
Su poca paglia; agli angoli—delle rozze pareti
I ragni sciorinavano—le polverose reti;
La soffitta, composta—d'esili travicelli,
Era negra pel fumo;—vanghe, zappe, rastrelli
In un canto appoggiavano—l'aste lunghe e lucenti;
In fondo c'era un mucchio—d'erbe e di fiori olenti
Falciati nella sera.
—La fanciulla s'assise
Su quel mucchio di fiori;—alzò gli occhi e sorrise.
Poi disse a voce bassa:—"Qui ci vede nessuno!
"Mio padre dorme… E poi—sarà un minuto!"
Il bruno
Ufficiale si pose—a sederle dappresso.

Ella guardò per poco—lo smagliante riflesso
Dei bottoni dorati—del giovane soldato;
Li toccava, tremando,—col dito fusellato;
Sembrava come assorta—in un sogno; chinava
La testa sovra il petto—e quel petto anelava…

Ad un tratto, cogli occhi—socchiusi, alzò la faccia;
Cinse il collo del giovane—con entrambe le braccia
E………..—…………
………..—………….

* * * * *

Giovinette ardenti,—donne all'amor crëate,
Da una stolida legge—a soffrir condannate,
Non sognaste voi forse—il gaudio d'un istante
Ricordando il profilo—d'un maschio sembïante?

O superbe matrone,—dalle vesti scollate,
Che parlate d'onore—e di virtù parlate,
Io sorrido al severo—vostro piglio glaciale
Perchè so che i viventi—hanno un nemico eguale!
La carne!… Questa schiava—ribelle, non mai doma,
Che freme al sol contatto—d'una leggiadra chioma!

Voi pur siete di carne,—o severe matrone,
E forse in qualche giorno—di suprema oblivione
E d'ardore supremo,—da ogni sguardo lontane,
Voi pure calpestaste—le convenienze umane,
E ai baci d'un ignoto—vi abbandonaste ignude!

Chi narrerà i misteri—che un cuor di donna chiude?
Chi gli incontri fatali—che il caso ha preparato?

Fu un istante!… Nessuno—lo seppe… Il fortunato
Baciò, tacque e passò…
—La matrona severa
Ripigliò la sua maschera—nei crocchi della sera;
Ad un detto men cauto—finse sentirsi offesa;
Frequentò, come al solito,—e corsi, e balli e chiesa;
Licenziò la domestica—e il fedel servitore
Perchè nell'anticamera—parlavano d'amore;
E, suscitando intorno—mille fiamme lascive,
Visse, come ogni dama—che si rispetta, vive:
Ipocrita a trent'anni,—bacchettona a cinquanta,
Borbottona a sessanta,—e nel feretro santa!…

Giovinette di fuoco,—donne all'amor create,
Da uno stolto egoïsmo—a soffrir condannate;
Giovinette di fuoco—e superbe matrone,
Che forse in qualche giorno—di suprema oblivione
E di supremo ardore,—da ogni sguardo lontane,
Calpestaste con gioia—le convenienze umane
E ai baci d'un ignoto—v'abbandonaste ignude,
Voi capirete il senso—che il mio racconto chiude!

* * * * *

Quando il bruno soldato—uscì sopra la via
Gli passava dinanzi—l'ultima compagnia.
Ei, raddoppiando il passo,—raggiunse la bandiera.

La fanciulla (che tale—da un istante non era),
Sovra il mucchio di fiori—pareva addormentata…
I suoi sogni di languide—vision la fean beäta.

Come noi sogniam spesso—negli anni adolescenti
Di leggiadre donzelle—i bei volti ridenti,
Ella sognava un nimbo—di giovinetti gai…

* * * * *

La fanciulla e il soldato—non si vider più mai,

Napoli, 29 febbraio 1876.

MASTRO SPAGHI

A
FELICE CAMERONI
MASTRO SPAGHI
I.

Mastro Spaghi era il boia—della città d'Urbino.
Contava cinquant'anni;—era smilzo e piccino;
Era calvo; il suo cranio,—da lontano, pareva
Una palla di vetro.—Sul petto gli cadeva
Una candida barba.—Avea gli occhi profondi,
L'orbite cavernose,—i pomelli rotondi
E violetti, le labbra—grosse e larghe.
Campava
Tirando il collo agli altri.

* * * * *

—La forca prosperava
Nell'Evo Medio!
Oh! Quelli—eran tempi bëati!
Nè i maggiori colpevoli—erano gli appiccati!

I furbi ed i potenti—facevano man bassa,
Come chi taglia spiche,—sui capi della massa.
Le tanaglie e l'eculeo,—le scuri ed i capestri
Fiorivan dappertutto.
—Perciò v'eran maestri
Nell'arte del carnefice!
—A Roma avea gran nome
Un boia, che sapeva—dal calcagno alle chiome
Tanagliare una vittima,—senza farla spirare.

La Santa Inquisizione—avea fatto educare
Molti allievi alla scuola—di cotanto maestro.

In quanto a mastro Spaghi—s'era dato al capestro.

* * * * *

Perchè vi spaventate,—o lettori cortesi,
S'io parlo di carnefici?
—Il nome lor lo appresi
Nella storia dei popoli,—in cui tengon gran parte,
Il dire mastro Spaghi—o il dire Bonaparte
Per me suona lo stesso.—Ammazzare al dettaglio
O in partita, gli è sempre—ammazzare.

Il barbaglio
Della gloria e del genio—pel filosofo è nulla!
Chè, sfrondati gli allori,—v'è la campagna brulla;
V'è la campagna brulla,—tutta a macchie di sangue;
Ove il forte sogghigna;—ove il debole langue;
Ove stanno i carnefici—e le vittime.
Evvia!
Perchè mai vi spaventa—questa novella mia?
Converrebbe abolire—la storia ed i cannoni
Per non parlar di boia!
—Abolirli?… Illusioni
D'anime semplicette!
—Togliam le guerre e il boia,
E impossibile è il dramma,—e morirem di noia!

L'umanità è un malato—che di salassi ha d'uopo!

Ma finiran le guerre—e i carnefici!…
E dopo?
Che faranno i mortali?—Quali saranno i temi
Degli umani discorsi—degli umani pöemi?

Saran la fede immensa;—l'amore universale;
I viaggi nell'aria,—e l'assenza del male;
Del male, che pei posteri—sarà l'egual chimera
Di quel che è il ben per noi!
—E s'anco fosse vera
Questa ideal famiglia—degli umani (fra mille
Miliardi di secoli)—figgiamo le pupille
Ancor più innanzi…
Il cèrebro—Mormora ancora: "E poi?…"
Siam daccapo alla noia!

II.

—Fra tutti i pari suoi
Mastro Spaghi emergeva—nell'arte del capestro.
La gran pratica è vero—l'avea reso il più destro
In tal ramo di scienza;—ma il suo merito c'era.
Fabbricava lacciuoli—in siffatta maniera
Che gli altri d'imitarlo—avean tentato invano!
La seta più ribelle—di mastro Spaghi in mano
Si mutava in un filo—così forte e sottile,
Qual non l'avria mutato—la mano più gentile
D'una donna ai ricami—espertissima.

* * * * *

Quando
Saliva sopra il palco—era proprio ammirando!

Dall'alto della forca—con un braccio potente,
Al segnale prefisso,—ei ghermiva il paziente;
Gli chiudeva la strozza—col famoso lacciuolo;
Poi, lasciata la vittima,—ratto balzava al suolo
E, con ambe le mani—afferrati i ginocchi,
Dava uno strappo…
Il misero—schizzava in fuori gli occhi
Tremava in tutto il corpo;—contorceva la faccia;
Allungava la lingua;—dibatteva le braccia;…
Ma era affar d'un istante!…
—E il popolo plaudiva
A lui che così presto—d'una persona viva
Sapea fare un cadavere!

* * * * *

Il popol gli era grato,
Perchè soltanto il popolo—era allora appiccato.
I nobili morivano—di scure, e i popolani
Dicean: "Se mi facessero—appiccare domani
"Per man di mastro Spaghi—preferirei morire.
"Mastro Spaghi ama il popolo,—chè non lo fa soffrire!"

III.

In vent'anni la fama—del nostro personaggio
Nelle città d'Italia—avea fatto vïaggio,
Raccontando la storia—di mille impiccamenti,
Miracoli dell'arte,—alle estatiche genti;
Tantochè mastro Spaghi,—il carnefice artista,
Era chiamato ovunque,—al par d'un concertista
Nei dì presenti; ed egli—era sempre in cammino.

Oggi appiccava un ladro—nella città d'Urbino;
L'indomani a Piacenza—giungeva di gran fretta
Per un villan, che avea—tentato far vendetta
Contro il Duca, perchè—questi gli avea (badate
Che inezia!) la sorella—e la sposa violate;
Il dì dopo correva—a Firenze, chiamato
Per un giovane ardente,—che aveva cospirato
(Diceva la sentenza),—contro le leggi.
Insomma,
Mastro Spaghi pareva—una palla di gomma
Che balza, ed agli astanti—sembra dir: "Dove vado?"

IV.

Adesso lo troviamo—a Sant'Angelo in Vado,
Grossa borgata allora,—posta tra l'Appennmo
Ed i repubblicani—colli di San Marino.

A Sant'Angelo in Vado—non c'è che una prigione.

Nel mille e due (secondo—la vecchia tradizione)
V'abitavano i frati;—era un piccol convento;
Non divenne prigione—che nel mille e trecento.

* * * * *

Mastro Spaghi sedeva—in un umida stanza,
I cui muri, giallognoli—e a macchie, avean sembianza
Di facce d'appiccati.
—Era una notte estiva.
Sui campi la finestra—della stanza s'apriva.
Di fronte alla finestra—c'era una porta, quella
D'un carcere, che un tempo—era stato una cella,
Là stava il condannato—a morire domani
Sulla forca.

Il carnefice—torceva nelle mani
Un superbo lacciuolo.—Splendeva alla sua destra,
Su un tavolo, una lampada.
—La vicina finestra
Tormentava il lucignolo—con buffi violenti,
Di profumi campestri—söavemente olenti.

Mastro Spaghi annasava—le odorose zaffate
Come un fanciul che sogna—le libere giornate
Nella scuola rinchiuso,—e il cui sguardo si perde
Alle cime dei pioppi—che si pingon di verde,
E al cielo azzurro, mentre—il professor di greco
Gli spiega la grammatica.
—Non la più debol eco
Il silenzio turbava.
—S'erano i borghigiani
Coricati assai presto,—per poter l'indomani
Svegliarsi di buon'ora,—e gustar per intero
La festa della forca.

* * * * *

—Dormiva il prigioniero?
Io l'ignoro.
Chi veglia—è mastro Spaghi.
E questi
Faceva a bassa voce—dei monologhi mesti:

V.

"Questo è quel dei dugento—che in vent'anni suonati
"Spaccierò sulla forca.—I primi che ho spacciati
"Mi costarono lagrime—di compassione! Io penso
"Con vergogna a quei tempi!-Non avevo buon senso!
"Cos'è strozzare un uomo?—Mandarlo all'altro mondo!
"E questo (almen mi pare)—è un beneficio, in fondo!
"Forse, che in questo qui—si sta meglio? Che bazza!
"Chi non vi nasce ricco,—o di nobile razza,
"O vigliacco del tutto,—o forte, o scaltro, od empio,
"Ci viene per soffrire,—o per fare, ad esempio
"Di me, la bella parte—di carnefice!"

* * * * *

Un grillo
Lungi nella campagna,—turbò il sonno tranquillo
Alle cicale, sopra—le piante addormentate,
Con note così allegre—che parevan risate.

* * * * *

"Oh!… Le note dei grilli,—umili creature,
"Piccioletti filosofi—desti nell'ore oscure,
"Come son liete!" disse—il boia sospirando.
"Essi vivono poco;—e col profumo blando
"Delle erbette si innebriano;—son vestiti di nero
"Per darsi fra gli insetti—un tal piglio severo,
"Ma in cuor ridon di tutto!—Dormono la giornata,
"Poi di notte nei campi—corrono all'impazzata!…

"E dir che, giovinetto,—io n'ho ammazzate tante
"Di queste bestioline!…
—Allora ero l'amante
"Di Rita, la più bella—forosetta che Iddio
"Ai campi regalasse!…—Almeno, a parer mio!

"Era bionda; abitava—qui presso, a poche miglia,
"In una casettina—tra i monti. La giunghiglia
"Ne baciava i mattoni—profumandola tutta.
"Una quercia, simíle—ad una vecchia brutta
"Che s'è presa d'amore—per un bel giovinetto,
"Abbracciar del tugurio—parea volesse il tetto;
"Un tetto di lavagna—nera, lucente, lina,
"Su cui ridean gli steli—d'una rosa canina.
"Mi parea che si amassero—quel tetto e quella rosa!
"Anzi il tetto, agli abbracci—di Madonna Ghiandosa
"Quasi per isfuggire—parea farsi più basso!
"Chi conosce i misteri—d'una pianta o d'un sasso?
"Noi ci viviamo in mezzo—cogliam le frutta e i fiori,
"Caviam fuoco dal sasso…—ed ecco tutto!"

VI.

Fuori,
Nell'aperta campagna,—il grillo allegramente
Trillò ancor. Mastro Spaghi—sospirò nuovamente.

* * * * *

"Poveri grilli! Povere—bestiole liete! Quante
"N'ho ammazzate!… Di Rita—ero allora l'amante!
"La notte, quando tutti—dormivano, soletto
"Io m'aggiravo intorno—alla quercia ed al tetto,
"Spiando la finestra—dove Rita dormiva.

"Talora ella l'apriva,—ma quando non l'apriva
"Che fare in mezzo ai monti—aspettandola?—Un poco
"Sedea sull'erba e il guardo—alzavo al cielo. Il fioco
"Lume degli astri piovere—sentia nelle pupille!
"Oh! Quanti dolci fascini—han le notti tranquille!
"Poi dagli steli, madidi—di rugiada, sul volto
"Mi balzava un insetto.—Io ghermivo lo stolto…
"Era un grillo; io grattavo—il suo ventre, per fare
"Che il povero piccino—avesse a strimpellare
"Qualche rullo di note—che svegliassero Rita…
"Ma la bestiola in mano—mi moriva sfinita!
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

"Oh!… Sta a veder ch'io piango—perchè ho ucciso dei grilli!
"Per Dio! Strozzai tanti uomini—ed ho i sonni tranquilli!"

VII.

La lampada schizzava—bagliori incerti e vaghi
Sovra il meditabondo—cranio di mastro Spaghi,
Il lacciuol, colle mani—inerti, sui ginocchi
Del boia era caduto.—
Ei tenea fisi gli occhi
Sul laccio e sulle mani…
—Ma il suo pensier dovea
Essere ben lontano.

* * * * *

—Il vegliardo dicea
A fior di labbra:
"Rita!…—Vent'anni son trascorsi!
"Da allora n'ho provati—di angosce e di rimorsi!
"Sono stato un vigliacco!—Quando il Duca d'Urbino,
"Dopo l'jus primae noctis,—sorridendo, il mattino
"A me t'ha rimandata,—io dovevo tacere,
"O ucciderlo… od uccidermi!—Quando il tristo messere
"Io di spacciar tentai—per vendicarmi, invano
"Io raccolsi il coraggio—in codesta mia mano!
"Questi privilegiati—che portano un gran nome
"Hanno un certo prestigio—che fa rizzar le chiome
"Ai più arditi; hanno un fascino—che noi, povera gente,
"Siam dannati a subire;—hanno un piglio insolente
"Che agghiaccia!… Superiori—a noi li fece Iddio!
"Sospeso sul suo petto—rimase il braccio mio,
"E la mano ribelle—non mi volle ubbidire!"

* * * * *

Una nottola venne—nella stanza a squittire
Attirata dal lume;—fece due giri in tondo
Nelle pareti urtando;—poi nel buio profondo,
Fuori della finestra,—tornò, battendo l'ali,
Spaventata d'avere—osato tanto.

VIII

Eguali
Alle gocce che il tufo—nell'umide caverne,
Lagrime solitarie,—lentamente secerne,
Poche gocciole fredde—imperlavan la testa
Del boia.

* * * * *

Egli diceva:
"—Fu una notte funesta!
"So che mi son svegliato—con pesanti catene
"Ai polsi e alle caviglie.—Me ne ricordo bene!

"Non un raggio di luce!—Un fetore di morte
"Mi saliva alle nari.—Le catene eran corte.
"Mi addormentai di nuovo.—E d'essere un mastino
"Sognai.—
Fui risvegliato—sul fare del mattino
"Da un uomo lungo e pallido.—
Io gli chiesi chi fosse.
"Ei non rispose, côlto—da un accesso di tosse;
"Il fetor della carcere—gli grattava la gola.

"Fui condotto all'aperto.—
Un frate colla stola
"Negra mi passò accanto.
Lo seguivan dei ceffi
"Da ribaldi, che feano—orribili sberleffi
"A un meschin che legato—ne veniva con loro.

"Alla forca!… Alla forca!"—gli gridavano in coro.

"Egli batteva i denti,—era tutto tremante;
"E, non potendo piangere,—contorceva il sembiante.

"Allora l'uomo pallido,—che mi stava vicino,
"Mi toccò sulla spalla,—e additando il meschino,
"Miagulò:—
"Il Serenissimo—Luca ti manda a dire
"Se ti piace di vivere,—o ti piace morire.
"Il carnefice è vecchio.—Se ti garba il mestiere
"Comincia a strozzar questo.—Verrà il Duca a vedere.
"Se il mestier non ti garba,—oppur non ci sei nato,
"Invece d'appiccare—sarai tu l'appiccato.
"Il Duca è giusto e buono;—a tanta sua clemenza
"Mostrerai collo zelo—la tua riconoscenza.
"Rispondi? Che vuoi essere:—Od appiccato, o boia?

"—Il secondo! Il secondo!"—Io risposi con gioia!

IX.

Egli stringea le labbra—e aveva chiuso gli occhi,
Chè il duolo ama le tenebre.
Le mani sui ginocchi
Tremavano, ed il mento—sul petto si appoggiava.

* * * * *

"Me due volte vigliacco!"—mastro Spaghi pensava.
"Potevo una sol volta.—esserlo!… Avrei dovuto
"Tenermi la mia sposa—e scordar l'accaduto!
"L'oltraggio era comune—a mille! Sarei stato
"Felice! Forse un figlio—Iddio m'avrebbe dato
"O una figliola, bella—come sua madre!
Oh! Rita.,.
"Dove sei?
Mi narrarono—che te ne sei fuggita
"In paese lontano,—quando ti venne detto
"Ch'io facevo il carnefice,—e che m'hai maledetto!
"Un pastore stamane—m'asseriva che al seno,
"Partendo, ella teneva—sospeso il frutto osceno
"Di quella notte orrenda…—una bimba dormente!
"Da allora in poi nessuno—la rivide…
Clemente
"Iddio, se rivedere—un dì potessi almeno
"Questa bimba, che Rita—tenea sospesa al seno!"

X.

E alzò gli occhi.
Miracolo!—Dinanzi a mastro Spaghi
Una forma di donna,—ai raggi fiochi e vaghi
Della lampada, spicca,—sul buio della stanza.

È una fanciulla pallida—e bella. Ella s'avanza,
Tenendo sulle labbra—l'indice, a passi lievi.
Le sue pupille intorno—schizzano lampi brevi
E inquïeti, e, scorgendo—colà soltanto il boia,
Si volgono all'usciuolo—scintillanti di gioia.

Ella s'appressa al tavolo—e, tremando, vi getta
Una manata d'oro.
—Poi si ferma ed aspetta.

* * * * *

"Chi sei?" chiede il carnefice,
—Ella cade ai ginocchi
Di mastro Spaghi e dice—piangendo e alzando gli occhi:
—"Tutto quest'oro è tuo;—questo è quanto possiedo…
Guarda!"
L'altro rispose—balbettando: "Lo vedo!"

Ma sulla giovinetta—il suo sguardo cadea,
E la sua mano secca—a un altr'oro correa!
All'oro dei capelli,—che le scendean qual velo
Sulla fronte; e che gli occhi,—d'un azzurro di cielo,
Coprivan quasi.
"Dimmi,—dimmi dunque il tuo nome?"
Soggiunse mastro Spaghi,—ravviando le chiome
Alla bella fanciulla.—"Dimmi dunque, chi sei?"

* * * * *

—"Son orfana. Bambina—padre e madre perdei.
"Eppure per molt'anni—sono stata felice!
"Son bella; ho il sangue ardente;—faccio la meretrice.
"Gli uomini li sopporto—se son vecchi o cattivi;
"Cerco i baci di quelli—che son belli e giulivi.
"Non ho fatto mai male—a nessuno! Giammai
"(Pria per nulla, per poco—poscia) il piacer negai.
"Eppur tutti, cercando—i miei vezzi procaci,
"M'insultano! Gli insulti—scordo coi nuovi baci!
"Amo le feste, i campi,—l'aria aperta ed i fiori,
"E il vin che rende immemori—e che infonde gli ardori!
"Le donne m'abborriscono!—Io rubo lor gli amanti!…
"E dovunque si balli,—e dovunque si canti,
"Il mio piede non manca,—non manca la mia gola!"

* * * * *

Mastro Spaghi esclamò:—"Povera figliuola!

* * * * *

—"Un dì venne a trovarmi—un bruno giovinetto,
"Bello; parlava sempre—con dolcezza ed affetto…
"Nicasio insomma! Tu—sai bene di chi parlo!
"Del condannato….
"Ah!… Diamine!—Ch'egli abbia nome Carlo
"O Nicasio," interruppe—mastro Spaghi, "giammai.
"A color ch'ho appiccato—il nome domandai!
"Che mi preme del nome—che porta un condannato!"

* * * * *

—"Anch'io feci lo stesso—con color che ho baciato!…..
"Ma a Nicasio l'ho chiesto!—Mai non seppi spiegarmi:
Il perchè glielo chiesi!—Ei diceva d'amarmi…
Mi piaceva. Era bello!
—Ma poi ne fui noiata….
"Era povero!…
Eppure—egli non m'ha insultata
"Quando gliel dissi!
Pianse;—mi baciò il volto e il seno,
"Quasi per ridestarvi—l'amore, e disse: Almeno
"Non odiarmi!…"
Venia—ogni giorno, recando
"Cibi e fiaschi di vino.
—Io ridevo trincando;
"Ed ei parea tornare—dalla morte alla vita
"Vedendomi gioconda.
—Un dì esclamai: "Squisita
"Dev'essere una lepre—col vin di Mercatello!"

Ei rispose: "Domani—porterò questo e quello."

"Baje!…" dissi ridendo,—"Tu una lepre?… Non sai "Che soltanto d'Urbania—col Signor ne mangiai? "Tu portarmi una lepre?—Tu pezzente e meschino?

—L'indomani egli venne—colla lepre e col vino!..

"Ah!… Io sono un'infame!—Egli aveva rubato!…
"Gli intendenti del Duca—l'han preso e condannato!"

XI.

Ella si coprì il viso—con entrambe le mani.

* * * * *

La campagna avea un'eco—di gemiti lontani.
Le foglie che stormivano—di fuori, nell'ortaglia,
Parevano il fruscio—d'un abito a gramaglia.
La lampada moriva.
—Mastro Spaghi avea detto
Ravvivandola: "È triste!—Povero giovanotto!"

E nell'olio una lagrima—al boia era caduta.

* * * * *

La fiamma scoppiettando—la stilla avea bevuta.

XII.

La fanciulla riprese:
—"Io l'amo! Io l'amo! Io l'amo!
"Io morrò s'egli muore!—Egli, povero e gramo,
"Mi pagò più di tutti!—Ei d'amor mi ha arricchita!
"Gli altri mi dan dell'oro!—Egli mi diè la vita!
"Io lo voglio!… Dovessi—dar fuoco alla borgata!
"Io pretendo di vivere—perchè mi sento amata!
"Perchè voglio adorarlo,—e coprirlo di baci!
"Lo comprendi, o carnefice?—Tu mi guardi? Tu taci?"

* * * * *

Ella facea paura.
—Agitava le braccia,
E diceva: "Lo voglio!"—con aria di minaccia.
Correva per la stanza.—Abbrancava le grate
Dell'usciuolo del carcere—con mani forsennate,
Gridando: "Spingi! Aiutami!—Aiutami, amor mio!"

* * * * *

Ei mormorò di dentro:—"Lea, non perderti!… Addio!"

XIII.

Allora la fanciulla—divenne mansüeta
Come un pazzo, cui nota—voce d'amico accheta.
Il suo viso, che l'ira—aveva imporporato
Tornò pallido.
Il labbro,—qual ferro arroventato,
Restò sol di carminio.
—Ivi il sangue soltanto
Afflüiva nei giorni—della gioia e del pianto;
Ed un genio, guardando—quelle labbra procaci,
Dovea dir: "Questa donna—è nata per i baci."

* * * * *

Mastro Spaghi, seduto—vicino alla lucerna,
Somigliava alla statua—dell'attenzione eterna.
Il morente lucignolo,—mobile e vaporoso,
Fissava sul suo cranio—un punto luminoso.

* * * * *

Come un rettile, a terra—la fanciulla strisciando,
A lui venne dinanzi;—e, gli stinchi abbracciando
Del vegliardo, gli disse:
—"Tu non l'ucciderai,
"Non è vero?… Perdonami—s'io piansi e mi sdegnai…
"Come sei bello!… Parla!—Io non credea davvero
"Che gli uomini che fanno—un simile mestiero
"Avessero una faccia—così buona, e che pare
"Quella dipinta in chiesa—sul quadro dell'altare!"

XIV.

Mastro Spaghi taceva—fissandola nel viso;
E nei suoi occhi azzurri—vedeva un paradiso.
Un'iride ideale—di memorie e d'amore,
Di dolci desiderii—soffocati nel cuore.

Come in mezzo alla nebbia—gli passava davante
Della perduta sposa—il leggiadro sembiante,
Che gli dicea:
"Coraggio!—Se tu cedi, io perdono!"

Poi gli giungea all'orecchio—con argentino suona
Una voce infantile;—quella d'una bambina;
Che vinceva gli accordi—d'un'armonia divina.

* * * * *

Sovra la rozza panca—il vegliardo si scosse.
Avea il pianto negli occhi—e mormorò:
"Se fosse
"Viva, avrebbe vent'anni—la povera piccina!
"Vorrei diventar cieco—per averla vicina!
"Che sarà divenuta?—Sarà dessa felice?
"Forse è una gran signora…—Forse una meretrice!

* * * * *

Così parlava.
Intanto—la dolente fanciulla
Gli abbracciava gli stinchi,—senza comprender nulla.

Alfin surse da terra,—chè volavano l'ore.
Avea l'occhio velato—da un osceno languore,
Ed additando l'oro—mormorò al vecchio:

"Senti:
"Questi sono testoni—tutti nuovi e lucenti…
"Son dieci!… Sono pochi!—Ma se tu mi concedi
"La sua vita, oltre l'oro—che scintillar qui vedi.
"Io ti darò… me stessa!…—E sono bella!… Guarda!…"
E si slacciò le vesti.
—Ei con mano gagliarda,
"Quasi sdegnato, e altrove—guardando, ricompose
Le vesti.
Ella la destra—gli strinse. Vi depose
Un bacio e disse:
"Grazie!—Oh!… Grazie, padre!

* * * * *

Allora,
Nelle braccia serrandola:—"Lontana è ancor l'aurora!"
Esclamò il vecchio. "Insieme—con voi verrò!.. Mia figlia,
"Sì, mia figlia sarai!"

XV.

—E dalla ferrea griglia
Del carcer, pochi istanti—dopo, uscivan tre ombre.

Le vie del firmamento—eran di nubi sgombre;
La luna era abbagliante—d'ineffabil splendore;
Nicasio e Lea correano—parlandosi d'amore.

Quella luna invitava—a amar, solo a vederla.
La terra era d'argento,—il ciel di madreperla.
E in quell'onda di luce—il triste gruppo avvolto
Pareva un gruppo d'angioli—dal Signore raccolto,
Perchè nel santo affetto,—che purifica tutto,
Oblïasse ogni colpa,—oblïasse ogni lutto.

Di mastro Spaghi il cranio—fulgeva in modo strano;
Lo si saria veduto—a tre miglia lontano.

Ei non se ne accorgeva.
—Celiando, il giovinetto
Quel cranio traditore—copri col suo berretto,
E disse:
"Affeddidio!—Questo tuo cranio vuole
"Col suo sfarzo di luce—comprometter tre gole!"

* * * * *

Così senza spettacolo—rimaser l'indomani
Di Sant'Angelo in Vado—i buoni borghigiani:
E così, nella corsa—facendo invidia al vento,
Sullo scorcio d'aprile,—l'anno milletrecento,
Giungean, per imbarcarsi,—all'adriaca marina
Un carnefice, un ladro—e una bella sgualdrina.

FINE.

INDICE

Scuola moderna

LIRICHE.

Prefazione ai miei versi
La Forma e l'Idea
Noia letteraria
Letteratura disonesta
Veritas, Vanitas!
Le demolizioni
In morte di Emilio Praga
Anacreonte
Evo Medio
Il secolo di Pericle
A Taide
La notte di san Silvestro
La Senavra
In alto
Circolo
A Fulvio Fulgonio
La chiesetta dei morti
A una donna intelligente
Il dì dei morti
Per il santo Natale
Coraggio!
Ditirambo
Per una suicida
Quando?
Ars, alma mater

DE MINIMIS.

Mors tua, vita mea
Flectar, non frangar
Melodia
Seminare e raccogliere
Il mare canta
En attendant
A un calendario americano
Acqua dei monti
In corpo di guardia
Ultima ratio

DIES.

Alba
Meriggio
Sera
Notte

CITTÀ ITALIANE.

Napoli
Cagliari

EPISTOLA AD E. BIGNAMI.

Socialismo

NOVELLE IN VERSI.
Acqua
Fuoco
Mastro Spaghi

112

End of Project Gutenberg's Poesie e novelle in versi, by Ferdinando Fontana