The Project Gutenberg eBook of Delitto ideale

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Title: Delitto ideale

Author: Luigi Capuana

Release date: August 31, 2009 [eBook #29874]

Language: Italian

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK DELITTO IDEALE ***

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Luigi Capuana

                   Delitto
                        Ideale

1902

REMO SANDRON — Editore

Libraio della Real Casa

MILANO-PALERMO-NAPOLI

Proprietà letteraria dell'Editore

REMO SANDRON

Palermo, Tip. ANDO'.

A EDOARDO ROD

Carissimo Amico,

Terminando di leggere la semplice storia dell'umile famiglia e dell'umile lite che vi ha fatto scrivere nell'Eau courante pagine così schiette e così evidenti da far dimenticare che si tratti di finzione d'arte—e questo mi sembra il più bel elogio a cui un romanziere possa aspirare—io pensavo:

L'amico Rod, come tanti altri, ha abbandonato la novella e da un pezzo!

E il caso vostro mi ha spinto a riflettere che non si tratta di un fenomeno personale quasi eccezionale, ma di tendenza, spiccata, del lavoro letterario di questi ultimi anni.

Il romanzo già uccide la novella?

A un novelliere impenitente come me il fatto dà molto da pensare. Anche nella ricca produzione francese i volumi di novelle cominciano a divenire di mano in mano più rari. Siamo lontani dal tempo in cui Guy de Maupassant conquistava la celebrità con parecchie serie di narrazioni, la più lunga delle quali non sorpassava le cinquanta pagine, e che ottenevano l'onore di frequenti ristampe.

A chi attribuire la colpa del quasi abbandono di un genere letterario fiorito riccamente per tanti secoli e in grande onore fino a pochi anni fà?

Nell'ansiosa fretta di vivere e di di godere che ci urge, avrebbe dovuto accadere altrimenti. Con narrazioni brevi, spigliate, sorridenti d'ironia e di umore, o piene di sentimento e di tragico raccapriccio, dove le figure tracciate alla lesta, di scorcio, dove le passioni condensate, rettificate come l'alcool, sembravano di corrisponder meglio alla febbrile richiesta di impressioni e di sensazioni rapidamente diverse, la novella avrebbe dovuto guadagnare terreno invece di perderne.

È avvenuto l'opposto, e quando più essa mostrava la sua grande facilità di adattarsi a ogni genere di soggetti, di poter quasi fare a meno dei soliti casi passionali e di spingersi verso regioni elevate, senza diminuire per questo la genialità della sua forma.

Peccato!

Per quali ragioni il romanzo ha preso in questi ultimi anni il sopravvento su la novella?

Ragioni puramente letterarie non ho saputo scoprirne. Veggo, però, che molti romanzi odierni, come contenuto, sono novelle più o meno abilmente diluite in trecento e più pagine, a furia di descrizioni e di pretesa analisi psicologica. Gli stessi fatti richiederebbero in una novella (Voi lo sapete meglio di me) sforzi d'ingegnosità tecnica infinitamente maggiori. La novella è il sonetto dell'arte narrativa.

E Voi non mi accuserete di esagerazione se affermerò che è più facile lo scrivere un mediocre romanzo anche di cinquecento pagine, che non un'eccellente novella di dieci paginette soltanto. È vero che le eccellenti novelle sono rare quanto gli eccellenti romanzi: ma io non ho ritegno di aggiungere che una mediocre novella vale qualche cosa di più di un mediocre romanzo, non fosse per altro, per la brevità; non ha tempo di annoiare i lettori.

Tutto questo, detto in testa a un volume di novelle, potrebbe sembrare un'orazione pro-domo sua. Voi non lo sospetterete, e voglio augurarmi che non lo sospetterà nessuno dei miei pochi lettori.

Certamente io desiderei che qualcuno si accorgesse dell'intenzione con che è stato messo insieme questo volume per mostrare i diversi atteggiamenti di cui è capace la novella odierna, se mai, per caso, qualcuno stimasse che metta conto perdere il suo tempo in simili osservazioni. E desiderei che se ne accorgesse non per interesse del mio volume—ormai l'età e l'esperienza mi han guarito da certe fisime—ma per ragioni più importanti e più generali quelle, intendo, che riguardano l'esistenza stessa della novella.

Ma forse queste ingenue malinconie faranno sorridere di compassione lettori e critici. Sono morte tante belle e nobili cose: possiamo lasciar morire tranquillamente e oscuramente la Novella!

E scusate, caro Rod, se per avere un pretesto di dirvi che vi ammiro e che vi voglio bene, Vi ho chiamato a parte di un inutile sfogo.

Roma, 5 aprile, 1902.

LUIGI CAPUANA.

DELITTO IDEALE

A FEDERICO DE ROBERTO.

—E la giustizia?—esclamò Lastrucci.

—Quale?—replicò Morani.—Di quella del mondo di là, nessuno sa niente; la nostra, l'umana, è cosa talmente rozza, superficiale, barbarica, da non meritar punto di essere chiamata giustizia. Condanna o assolve alla cieca, per fatti esteriori, su testimonianze che affermano soltanto l'azione materiale, quel che meno importa in un delitto. Il vero delitto, lo spirituale, resultato del pensiero e della coscienza, le sfugge quasi sempre; e così essa spessissimo condanna quando dovrebbe assolvere e assolve, pur troppo! quando dovrebbe condannare.

—Ecco i tuoi soliti paradossi! La giustizia umana fa quel che può.
Vorresti dunque punire fin le intenzioni nascoste?

—Certamente. Un omicidio pensato, maturato con lunga riflessione in tutti i suoi minimi particolari e poi non eseguito perchè l'energia dell'individuo si è già esaurita nell'idearlo e prepararlo, è forse delitto meno grave d'un omicidio realmente compiuto?

—Tu foggi un caso strano, eccezionale.

—Più comune di quanto immagini. Ed io ho conosciuto un uomo, degno veramente di questo nome, il quale si è giudicato da sè per un delitto di tal genere, e si è punito come se avesse proprio commesso l'omicidio soltanto fantasticato e progettato.

—Era pazzo costui.

—Era un gran savio, dovresti dire. La sua coscienza non gli dava pace. E siccome egli non poteva presentarsi a un giudice e accusarsi—il giudice avrebbe ragionato come te e lo avrebbe fatto chiudere in un manicomio—così per attutire i rimorsi, si è giudicato e si è condannato da sè ad espiare la stessa pena che il magistrato gli avrebbe inflitta, se avesse potuto giudicarlo secondo la legge ordinaria.

—Come ha fatto? E perchè avea voluto ammazzare?

—Per gelosia.

—Si sarà accordato almeno le attenuanti!—disse Lastrucci sorridendo.

—Nessuna attenuante—riprese Morani.—Oh! Non era uomo volgare. La profonda cultura e la esperienza della vita avrebbero dovuto metterlo in guardia contro i subdoli suggerimenti di quella bassa passione; infatti, riconosciutosi illuso dalle apparenze, egli pensava che sarebbe stato suo dovere sottrarsi al loro inganno. Invece, non aveva fatto nessuno sforzo; si era lasciato travolgere senza resistenza; e ciò rendeva imperdonabile agli occhi suoi l'intenzionale delitto.

—Non capisco. Siamo forse padroni di noi stessi in certe circostanze?

—Il mio amico giudicava che dobbiamo esser sempre padroni di noi stessi, se vogliamo dirci creature ragionevoli.

—Dal dovere all'essere ci corre un bel tratto. Costui, stimandosi creatura ragionevole, ragionava assai male.

—No. Tullio Dani ha fatto una nobilissima azione. La sua sublime eccezionalità consiste appunto in essa. Ascolta. Aveva preso moglie un po' tardi, a quarantacinque anni; e la sua signora, bellissima, ne aveva appena vent'otto. Bell'uomo anche lui, serio, indipendente, avea potuto sodisfare ogni suo desiderio, coltivando lo studio prediletto delle cose letterarie e filosofiche, intraprendendo lunghi viaggi in Europa e in America per aumentare la sua cultura, che l'eccessiva modestia gli ha impedito di mostrare agli altri con lavori d'arte o di riflessione. Non ha mai pubblicato neppure un articolo, e avrebbe potuto scrivere libri assai meglio di parecchi. Aveva anche, come suol dirsi, goduto la vita. La sua virile bellezza gli avea procacciato facilmente molte buone fortune presso le donne. E fino ai quarantaquattro anni gli era riuscito di conservare intatta la sua libertà di cuore, forse per un sentimento di egoismo prodotto dalla passione dello studio, forse perchè fino allora non gli era avvenuto d'incontrare la donna ideale da lui vagheggiata. La solitudine della sua vita—era rimasto orfano giovanissimo e non aveva stretti parenti—non gli era parsa mai grave. Pagava unicamente con la carità il suo debito di uomo sociale; e non attendeva che la gente si rivolgesse a lui. Andava incontro a coloro che soffrivano, e tra questi sapeva indovinare coloro che soffrivano più chiusamente in miseria schiva e rassegnata.

Dopo i quarantaquattro anni, egli cominciò ad accorgersi che il celibato stava per divenirgli increscioso. Sentiva di aver sodisfatto a bastanza le esigenze dell'intelletto, e di aver trascurato troppo quelle del sentimento.

Annunziandomi il suo prossimo matrimonio, mi avea domandato:

—Ti sembra che ci sia molta sproporzione tra la mia età e quella della futura mia moglie?

—No davvero—risposi.

Questa idea che lo aveva tenuto esitante parecchi mesi, dovette riaffacciarglisi, sei mesi dopo, alla mente quando egli sentì i primi sintomi della gelosia che parve invecchiarlo di dieci anni in pochissimo tempo. Credendolo colpito da male occulto che gli insidiasse la vita, lo sollecitavo caldamente di consultare un medico e di curarsi.

—Sto benissimo—rispondeva.

—La tua signora è impensierita—gli dissi una volta.

—Per così poco?—soggiunse con accento d'ironia e di tristezza.

Non osai d'insistere oltre, sospettando intime ragioni inesplicabili per me. La giovane sposa mi sembrava in continua adorazione davanti a lui. Bionda, piccola, gracile, sufficientemente colta da potere apprezzarne l'elevatissima intelligenza e la immensa bontà d'animo, io la stimavo vinta dal doppio fascino della virilità di quel bruno, alto e forte, e della luminosità dello spirito che gli raggiava negli occhi nerissimi e nell'ampia fronte. Sapevo che lo aveva amato lei prima di essere amata, e che questa circostanza avea molto contribuito ad affrettare la risoluzione e la decisione di lui.

Un anno dopo, la febbre tifoidea troncava quasi improvvisamente quella giovane vita. Il dolore di Tullio per tale perdita fu così straordinario, che io, ripensando molti particolari da me notati e parecchie sue strane risposte, fui indotto a sospettarlo esagerato ad arte per scancellare le impressioni che essi avean dovuto lasciarmi nell'animo.

Ero suo amico d'infanzia. Da che gli era passata la smania dei viaggi, ci vedevamo quasi tutti i giorni; e soltanto così avevo potuto intravvedere il terribile dramma che si era rapidamente svolto nella vita intima di lui. Conoscendo però la sua indole taciturna per quel che riguardava certi fatti personali, non mi attendevo più di poter essere un giorno o l'altro l'unico confidente di quel segreto che avea sconvolto all'ultimo la sua felice esistenza.

Una mattina lo vidi apparire in casa mia con un grosso plico di carte in mano.

—Ho bisogno dell'opera tua. Vengo a chiederti il grave sacrificio di essere per parecchi anni l'amministratore dei miei beni.

—Intraprendi un lungo viaggio?—domandai.

—No.

E, dopo breve pausa, soggiunse:

—Non ti faccio una confidenza; quel che ora ti dirò potrai ridirlo, se ti sembra opportuno. Vorrei anzi, come i primi cristiani, confessarmi in pubblico, ma temo di veder male interpretata la mia azione, di apparire ridicolo. Tu saprai intendermi e compatirmi.

Lo guardai ansioso, e con un breve gesto di assentimento lo invitai a proseguire.

—Sono stato un miserabile vigliacco!—egli disse energicamente.—Ho commesso l'infamia di contristare, calunniandola con indegni sospetti, la più buona, la più santa creatura che io abbia conosciuta in questo mondo. La morte è stata giusta privandomi di così gran tesoro; non ero più degno di possederlo. Ho fatto anche peggio; sono stato assassino… con l'intenzione soltanto; ma questa circostanza non significa niente. Ho goduto intera la malvagia sodisfazione che quel delitto mi avrebbe dato nel caso che avessi avuto la forza di compirlo, e ne sento vivissimo rimorso, quasi lo avessi davvero compiuto. La giustizia umana non può colpirmi; io però non mi reputo meno assassino per ciò. Mi son giudicato da me, inesorabilmente, e mi son condannato alla pena che avrei meritata se la mano avesse già posto in atto quel che il pensiero si è lungamente compiaciuto di architettare con la più raffinata malizia.

—Oh, Tullio!—esclamai.

—Ti meravigli di scoprir cascato tanto in basso colui che ha vagheggiato in tutta la sua vita i più eccelsi ideali d'arte e di pensiero? La miseria dello spirito umano è così grande, che dovresti piuttosto maravigliarti di non vedermi cascato ancora più in basso! Sappi però che, se non sono stato effettivamente assassino, la mia volontà non c'entra per nulla.

Si fermò un istante, scosse la testa, strizzando un po' gli occhi, poi riprese:

—Non riesco a spiegarmi neppur io come abbia cominciato a sospettare. Avrei dovuto reagire sùbito contro le prime impressioni prodotte da indizi riconosciuti fallaci. L'amor proprio, l'orgoglio lievemente feriti mi spinsero invece a dubitare di quel riconoscimento, a rimuginare quegli indizi, a ricercarne con intensa dolorosa voluttà altri nuovi. Forse li creò la mia fantasia, o forse un crudele destino mi ordì perfidi inganni con cento piccoli fatti facili ad apparire molto diversi da quel che essi erano in realtà…. Mia moglie, innocente, e senza nessun sospetto, non poteva evitare certe circostanze che congiuravano fatalmente a dar corpo alle ombre e mettermi l'inferno nel cuore. Avrei dovuto chiederle spiegazioni, avvertirla, ammonirla; non volli, sperando di sorprenderla in qualche atto da non permetterle sotterfugio alcuno per continuare ad ingannarmi. E più le mie ricerche, i miei agguati non ottenevano nessun convincente risultato, più io m'ostinavo a immaginare che la sua diabolica malizia riuscisse a farmi sfuggir di mano l'atroce vendetta il cui proponimento mi aveva già invasato l'animo. Non posso diffondermi in minuti particolari; il ricordo mi è insopportabile ora che sono convinto del mio inganno. Importa soltanto che tu sappia la vendetta meditata giorno e notte contro il creduto suo complice.

In quanto a lei, inattesamente, mi ero sentito a poco a poco sopraffare da compassionevole tenerezza; le perdonavo in grazia dell'amore che aveva avuto per me quando ancora ignoravo di essere amato da lei; le perdonavo per la sua bellezza, per la sua giovinezza, per l'inesperienza della vita, che avea dovuto agevolarne la trista caduta. Tutto il mio odio si concentrava su colui, sul creduto seduttore che non poteva avere scusa di sorta alcuna, che doveva aver operato il male sapendo di far male, e con lo squisito piacere di farlo a danno del mio onore, della mia felicità, anzi principalmente per questo. Volevo toglierlo dal mondo senza che si potesse mai scoprire qual braccio lo avesse colpito. E la lunga ricerca del mezzo arrivava talvolta fino a calmare i miei strazi. Avevo scelto l'arma: il rasoio. Da un mese mi mostravo in fidente relazione con lui. È inutile dirti il suo nome; è già molto l'averlo stimato capace di un'infamia; non voglio offenderlo ancora col far sapere ad altri che ho potuto crederlo tale. Il peggior tormento prodotto dalla gelosia è quel non sentirsi mai sicuri, quel vivere di dubbi e di sospetti che si vorrebbero veder distrutti, e che si teme di veder distrutti perchè un giorno essi potrebbero servire a farci raggiungere la paventata e pur desiderata certezza. Per ciò io attendendo il terribile momento in cui non avrei potuto dubitar più, maturavo il mio disegno, lo studiavo nei minimi particolari dell'atto vibrante, e arrivavo al punto di sentire nella concezione del delitto la stessa selvaggia voluttà che mi avrebbe dato l'attuazione di esso quando l'istante della certezza sarebbe scoccato. Per le vie, nel mio studio, a letto accanto a lei fingendo di dormire profondamente, io assalivo l'odiato, gli sprofondavo nel collo l'affilata lama del rasoio che doveva recidergli la carotide con tale rapidità da non fargli quasi accorgere di morire; e sentivo su la mano convulsa il caldo schizzo del sangue, e udivo il rantolo della gola squarciata, e vedevo l'annaspare di quel corpo che stramazzava con sordo rumore sul selciato. Ho assaporato, per due lunghi mesi, dieci, venti volte al giorno, questa feroce gioia assassina; ho assistito dieci, venti volte al giorno, al tetro immaginario spettacolo di quella morte; e tale crescente evidenza esso aveva raggiunto all'ultimo, che io mi riscotevo dall'impressione con lo stesso brivido di orrore e di brutale sodisfazione che mi sarebbe stato prodotto dalla realtà. Potrei dire di avere commesso non uno ma cento assassinî, giacchè ognuna di quelle ossessionanti rappresentazioni era una variante sempre più perfezionata, sempre più efficace della precedente; e così, alla fine, fui talmente pago di quelle fantasticate sensazioni, da sentir venir meno il bisogno di attuare la mia vendetta; lo sforzo del pensiero avea esaurito ogni mia fisica energia. Mi ero così internamente compiaciuto di ammazzare pensando, da non provar più nessun bisogno di altra sodisfazione materiale…. La realtà avrebbe, forse, potuto darmi sodisfazione più sincera e più acuta? Per questo, per questo soltanto, io non sono stato omicida nel volgare senso di questa parola! Appunto allora il caso mi faceva scoprire qual viluppo di incredibili circostanze era concorso a illudermi, a trarmi in inganno. Oh!… È orribile! A che cosa mi era servito dunque l'aver tanto studiato, osservato, meditato? Ho chiesto perdono a mia moglie inginocchiato davanti la sponda del suo letto di morte. La intelligenza offuscata dal male le ha impedito di comprendere. Nei vaneggiamenti del delirio, ella ripeteva continuamente:—Tullio, che cosa hai contro di me?… Che ti ho fatto? Perchè non mi ami più?—Ed è morta con questo affettuoso rimpianto su le labbra.

—Ebbene?—dissi io, vedendolo caduto in grave abbattimento.—Tutto ciò è naturale, è umano.

—Non può essere umano il delitto se rimane impunito!—egli esclamò, rilevando alteramente la testa.—Chi desidera la donna altrui, commette adulterio. Chi pensa di ammazzare, commette omicidio. Ed io mi sento omicida.

—Tullio! Tullio!—lo rimproverai.

—Non ho smarrito il senno!—egli riprese.—Per la pace del mio spirito, per la giustizia ideale ho voluto far questo: giudicarmi e condannarmi con la stessa imparzialità e serenità con che avrei giudicato qualunque persona accusata del mio stesso delitto. Domani l'altro partirò pel luogo da me scelto ad espiarvi la pena. La mia prigionia non differirà in niente da quella legale. Sarà dura, inesorabile, ed io diverrò tra pochi giorni il carceriere di me stesso….

—Era pazzo il tuo Tullio Dani!—ripetè Lastrucci stato fin allora ad ascoltare intentissimo.—Ed ha finito di espiare?

—Non ancora!—rispose Morani.

SUGGESTIONE

A L. ANTONIO VILLARI.

Alla risposta di Efisio Chiardi, Bedini fece una mossa d'incredulità.

—E non solamente—soggiunse Chiardi—non sono innamorato di quella signorina, ma non la posso soffrire! Mi è antipatica…. Non la posso soffrire!

—Ora eccedi!—disse quegli.—Capisco, fino a un certo punto, la tua riserbatezza. Ma da questo al volermi dare a intendere che ti è antipatica, che non la puoi soffrire… scusa….

—Riserbatezza?… Con te, caro Bedini? Eh, via!

—E se ti rivelassi da quale fonte ho potuto attingere la notizia?

—Ti convincerei con due parole che è fonte inquinata.

—Ebbene… L'ho saputo dalla mamma!

—Tua?

—No, di lei.

—Dalla signora Carlotta?… Casco dalle nuvole!

Infatti, due giorni avanti, incontrata in piazza di Spagna la signora Carlotta Nerucci con un gran mazzo di crisantemi bianchi in mano, Bedini l'aveva fermata per chiederle notizie della salute del marito che, l'ultimo giovedì—i Nerucci ricevevano gli amici ogni giovedì sera—non era comparso nella stanza da giuoco a farvi la immancabile partita a scopa, suo gradito divertimento.

—Ancora indisposto?

—Alla caccia delle quaglie, a Fiumicino! Io non m'impensierisco mai per lui, quando dice di non sentirsi bene. È di acciaio. Mi impensierisce invece… Ah queste benedette figliuole!

—La signorina Amelia? Eppure sembra un fior di salute!

—Non faccia l'ignaro! Come sa fingere bene!

Se fingeva bene! Sfido! Non sapeva niente.

—Ma…! È possibile?

La signora Carlotta non rinveniva dalla sorpresa.

Bedini era proprio mortificato d'ignorare quel che, come diceva la signora Carlotta, già sapevano tutti. E forse per farlo caritatevolmente uscire da quell'incredibile stato di inferiorità in cui si trovava di fronte a tutti, tràttolo per un braccio in disparte, verso la salita di San Sebastiano, ella gli aveva raccontato per filo e per segno la dolorosa istoria che faceva ora strabiliare Efisio Chiardi udendola ripetere, quasi con le stesse parole, da lui.

—Insomma—conchiuse Bedini—è vero o non è vero che tu hai fatto tacitamente la corte alla signorina Amelia?

—Io? Io, invece, sono scappato via da quella casa, e non vi sono più ritornato, appunto quando sospettai che certe letture insieme, impostemi dalla signorina e da me sopportate per eccesso di cortesia, potevano far supporre…

—Ah, le letture insieme!… Noi leggevamo un giorno!… Dovevi immaginare dove saresti andato a finire.

—Si trattava, per me, di un po' di esercizio di inglese… e di nient'altro.

—È vero o non è vero, inoltre, che la signora Carlotta, da mamma seria e oculata, una sera si fece trovar lei in salotto, invece della figliuola, e ti disse che quelle letture potevano essere male interpretate dalle persone leggere, e che, se tu avevi buone e oneste intenzioni…?

—Non la lasciai finire; risposi:—Signora mia, non ho intenzioni di nessuna sorta, nè buone nè cattive; e quand'anche le avessi e onestissime, le mie condizioni finanziarie mi impedirebbero di manifestarle; so il mio dovere di galantuomo.—Che cosa dovevo dirle? Sua figlia è brutta, antipatica, ed io non frequento i suoi giovedì per lei, ma per un'altra persona?

—Chi sa che aria contrita hai preso parlando! La signora Carlotta ti ha visto frenare a stento le lagrime….

—Le risa, avrebbe dovuto dire.

—Era profondamente commossa anche lei; e per ciò disse alla figlia:—Poverino! Bisogna rassegnarsi ad attendere; è andato via più morto che vivo!—

—Zufolando per le scale! Sono matte, madre e figlia!

—E la signorina Amelia ora si tormenta per lei e per te, più per te che per lei; ha fin paura che un giorno o l'altro tu non disperi e non t'induca a commettere qualche pazzia!… Si consuma a vista d'occhio, gratissima del tuo riserbo, della tua eroica sincerità. Sarà tua, o di nessun altro! E la mamma, per non contrariarla e non far peggio, l'approva, la seconda:—Sì, sua, o di nessun altro!—

—Sono matte, madre e figlia!

—Senti: qualche rimorso devi averlo. Probabilmente non ti figuravi che un po' di corte poteva produrre così gravi conseguenze.

—Niente! Niente! Te lo giuro. E da quella sera in poi non mi sono più fatto vivo. Se le incontro per via, scantono; evito di andare nelle riunioni dove sospetto che potrei imbattermi in loro….

—Troppe cautele! Hanno ragione di figurarsi che non sai come consolarti.

—Ma se non c'è verso di disingannarle!

—Dunque già sapevi….

—Sì, qualche cosa sapevo; non potevo però immaginare che la loro stoltezza fosse arrivata fino al punto che tu mi dici.

—Va' là! Mi sembri già invanito di aver prodotto così grave guasto nel cuore di una ragazza.

—Fosse bella almeno!

—È giovane.

—Leziosa, pretenziosa, ridicolmente sentimentale!

—Eppure io credo che non sarebbe una cattiva moglie, non ostante la bruttezza, che non è poi tanta. A prima vista, sì, non dico di no….

—Spòsala!

—O tua o di nessun altro!—esclamò comicamente Bedini.—Quando certe ragazze si mettono in testa un'idea… sono tremende! Quella, vedi, è capace di consumarcisi!

—La compiango.

Aveva notato che da quel giorno in poi, ogni volta che si trovavano insieme, Efisio Chiardi, con questo o con quel pretesto, faceva cadere il discorso intorno alla fissazione, come la chiamava, della signorina Nerucci.

—Sembra che la gente si sia messa d'accordo per rendermela più uggiosa!—esclamava.—Tutti mi parlano di lei, della sua gran passione; e parecchi mi hanno già fatto capire che mi reputano, se non disonesto a dirittura, certamente poco delicato…. Mi ci arrabbio!

—Lasciali ciarlare. La tua coscienza è tranquilla?

—Tranquillissima.

—Io però posso dirti che madre e figlia hanno non solamente grandissima stima di te, ma che si affliggono profondamente della tua sorte. Sono convinte che tu soffri, che non hai pace, che non dormi più, che non ridi più, col pensiero fisso…!

—È un'aberrazione, a dirittura!

                        *
                       * *

Un mese dopo, Efisio Chiardi, passeggiando con lui pel gran viale del
Pincio, che in quell'ora era quasi deserto, gli diceva:

—La signorina Amelia mi fa pietà. Si è potuta illudere; è scusabile. Forse nessuno si era mostrato con lei così compiacente come me. Imperdonabile però è la sua mamma. Avrebbe dovuto capire lei, donna di età e di esperienza, il vero significato delle mie parole e della mia condotta. Invece, che cosa ha fatto? Ha alimentato, ha rafforzato l'illusione della figlia, forse per la stupida vanità di far credere che ha potuto ispirare una gran passione e sentirne il contraccolpo…. Come spiegare altrimenti la manìa di raccontare alla gente che sua figlia è infelice e che c'è un'altra persona—io—infelice altrettanto? Il bello è che più io protesto di non sentirmi punto infelice, e più esse si incaponiscono a credere che parli così per nascondere alla signorina il grave stato del mio cuore, perchè mi dimentichi almeno lei, non potendo dimenticarla io!—

E qualche settimana appresso, riprendendo lo stesso argomento a proposito delle nozze di un comune amico che aveva avuto il coraggio di sposare una ragazza un po' gobba,—o un po' sciancata, non ricordo bene—ma molto ricca, Efisio Chiardi declamava:

—Ecco, io capisco che uno sposi anche una brutta o una non bella—spesso la bruttezza e la bellezza della donna sono modi di vedere di chi guarda—purchè lo faccia per amore, per passione; lo capisco. L'amore è una grande scusa, specialmente se reciproco—giacchè non di rado qualcuno sposa unicamente per cavarsi una donna dal cuore; pare assurdo, ed è vero.—Ma sposare, come ha fatto Sarti, una specie di mostro perchè fornita di ricca dote, è cosa indegna di uomo onesto. Sarà un affare come un altro, una speculazione ben riuscita; ma è pure un vendere il proprio nome, un alienare la propria libertà… Io stesso, vedi, mi reputerei inescusabile se arrivassi a fare questo ragionamento nel caso mio:—Sei amato; spòsala dunque, quantunque tu non l'ami. Può anche darsi che in te l'amore nasca dopo.—

—E non ragioneresti male—lo interruppe Bedini.

—Malissimo. Mi piegherei a subire una soperchieria.

—Quale?

—La passione altrui. Oh bella! Ti confesso che più ci ripenso su e più mi indigno.

—Perchè ci ripensi?

—Perchè pare che tutti vi siate messi d'intesa per non farmi pensare ad altro. Non posso avvicinare un amico, un conoscente anche di quelli che non frequentano i giovedì di casa Nerucci, senza sentirmi dire:—Dunque?… Questi confetti quando?… Si decida una buona volta!—Vogliono prendermi pel collo, violentarmi; e mi rendono maggiormente odiosa quella povera ragazza, che infine poi—come figura—non è forse un ideale, ma è buona, virtuosa, rara donna di casa, e probabilmente sarebbe, sono di accordo con te, ottima moglie…

—Certamente—soggiunse Bedini.

—Ma che vuoi?—riprese Chiardi.—Con questo modo d'imporsi! Con questo voler far credere che io sia innamorato pazzo e pazzamente riamato! Devi convenirne, è troppo. Se mi lasciassi lusingare, se in un momento di debolezza… Oh! Dopo, arriverei a sentire orrore di me stesso. Ho un solo orgoglio, quello della mia libertà. Io torcerei il collo a quella mamma. La ragazza—sono giusto—la metto fuori di quistione. È illusa, ma sincera. Ieri, appunto, pensavo di scriverle una lunga lettera per disingannarla, per far cessare quel suo stato di tormentoso eccitamento… Mi fa pietà, te l'ho detto più volte. Mi dispiace di essere involontaria cagione… Involontariissima, te lo giuro… con te non farei misteri. Se avessi una minima ombra di colpa, se per leggerezza, o anche per inavvertenza, sentissi di aver contribuito a farle sospettare… Niente! Te lo giuro. Per questo m'ispira pietà. Debbo confessartelo? Quasi quasi, ora, guardata da lontano con gli occhi dell'immaginazione, non la giudico più tanto brutta quanto mi è parsa sempre. Ha un bel personale. Non è poco… E una certa grazia di modi… E quella stessa sua sentimentalità, riflettendoci bene, non è infine grave difetto… Ieri, dunque, pensavo di scriverle una lunga lettera; l'avevo anzi scritta a metà; ma poi mi son detto:—Che concludi? Non ti crederà. Potrà supporre che sia una cosa combinata coi parenti, o pure un altro tuo atto eroico…—A quel che pare mi stima capace di ogni eroismo…—Ed ho stracciato il foglio… Oh! Sono seccato, seccato, seccato!

—Me ne accorgo; per questo non te ne ho riparlato più. Sei tu ora…

—Mi sfogo con te che mi conosci meglio degli altri, che comprendi, e non sei sciocco da ripetermi come gli altri:—Questi confetti, quando?—

Bedini intanto osservava quanto mutato era il linguaggio di Efisio Chiardi dalla prima volta che gli aveva accennato della signorina Nerucci:—Mi è antipatica; non la posso soffrire. È brutta, leziosa, pretensiosa, ridicolmente sentimentale!—Ora, invece, per poco non la diceva bella… Le riconosceva certa grazia di modi, e più non ne trovava biasimevole la sentimentalità… Che cosa voleva dire questo cangiamento? Non riusciva a spiegarselo.

In fatto di amori specialmente, Efisio Chiardi amava il mistero. Soltanto per caso Bedini aveva scoperto qualche relazione femminile del suo amico; e tanta circospezione gli piaceva, quantunque egli fosse molto curioso—non lo nascondeva—dei fatti altrui. Lo interessavano, lo divertivano, forse perchè era uno sfaccendato e non sapeva come impiegar meglio il suo tempo. Direte che aveva istinti polizieschi… Ebbene, sì! Non arrossiva di confessare che qualche volta aveva seguito, per settimane, per mesi, le peste d'un intrigo amoroso e di persone che conosceva appena di vista, unicamente perchè un gesto, un'occhiata gli avevano fatto scorgere che sotto l'apparente indifferenza esse tramavano chi sa che cosa meritevole di essere scoperta. Nè si era mai acchetato fino a che non l'avea scoperta.

Quell'inatteso cangiamento di linguaggio gli aveva fatto rizzare le orecchie, e lo aveva messo in attenzione. Che l'amico Efisio volesse farsi giuoco di lui? Che le signore Nerucci, madre e figlia, avessero ragione? Gli sembrava che Chiardi, suo malgrado, si fosse tradito. La contraddizione tra le parole del primo giorno e queste ultime era evidentissima. Al solito, voleva fare il misterioso. Anche con lui? A che scopo? E il suo istinto poliziesco vedeva balzarsi davanti, nell'ombra, una bella impresa da tentare: afferrare il filo messogli in mano da Chiardi con quell'involontaria contradizione, e penetrare, guidato da esso, nel laberinto dei fatti e più nel cuore di lui e poi, all'ultimo dirgli sorridendo:—Perchè non sei stato sincero? Non sei riuscito a sviarmi. So quanto te, e forse meglio di te stesso, come stanno le cose!—Sarebbe stata una gran soddisfazione, una bella rivincita!

* * *

Ma appunto in quel tempo Bedini aveva dovuto assentarsi da Roma, e la sua curiosità era stata acuita durante i tre mesi di lontananza, dalle lettere che Efisio Chiardi gli scriveva ogni settimana regolarmente; lettere di due pagine dapprima, poi di quattro, poi di otto, e che avrebbero raggiunto la grossezza d'un opuscolo e di un volume, se la missione di Bedini presso la Biblioteca Nazionale di Firenze non fosse finalmente terminata.

Con la scusa di tenerlo informato dei pettegolezzi romani, del circolo dei loro amici specialmente, Efisio Chiardi gli parlava soltanto della signorina Nerucci che gli ispirava crescente e sempre più profonda pietà.

«Ma sai che è un bel caso questo! Non vorrei affatto occuparmi di lei e intanto sono costretto a non occuparmi quasi di altro. Quella strega della sua mamma sembra vada attorno unicamente per far sapere a tutti la mia disgrazia; parla più di me che di sua figlia. Sono oggetto della sua commiserazione; mi copre di ridicolo. Ora non posso più stare un minuto soprappensiero senza che qualcuno non mi dica compassionevolmente:—Eh, via! Lascia andare. Non c'è lei sola al mondo!—Protesto, mi stizzisco, e faccio peggio. Nessuno vuol credermi; debbo passare per forza da innamorato infelice!»

E alcuni giorni dopo:

«Sono furibondo. Ho incontrato Babolani, il gran chiacchierone; lo rammenti? Quel coso lungo, magro e col naso storto, che tempo addietro avea tentato di tirarsi su reporter di giornali, ed ora fa l'agente di annunzi per non so quale ditta? Non lo vedevo da un secolo. Mi ha rotto le scatole due eterne ore! Capisci? Ora viene in iscena anche il padre! Babolani dice che il signor Nerucci gli ha parlato di me.—Elogi, al solito, della mia delicatezza di sentire. Le mie condizioni? Oh, io esagero! Dovrei avere maggior fiducia in me stesso. E poi la sua famiglia potrebbe facilmente aiutarmi a trovare un impiego, caso mai! Con tante conoscenze! Sarei adorato in quella casa. I genitori, pur di vedere felice la loro figliuola, farebbero qualunque sacrificio… E non occorre. Perchè mi ostino? Non mi accorgo dunque come mi sono ridotto? Mi consumo e faccio consumare quella povera creatura!—Anche questo! Mi consumo! E non sono stato mai così bene in salute, così allegro, così spensierato! C'è da ammattire… L'ho mandato al diavolo!»

E all'ultimo:

«Ci siamo trovati faccia a faccia! È stato impossibile evitarla.

«Era sola… Appena si accorse di me… Ho avuto, ti giuro, una di quelle paure!… Se si avvicinava? Se mi domandava…? Non so che cosa temessi che ella potesse mai domandarmi, a bruciapelo, in quel momento. So però che non sapevo che cosa avrei potuto risponderle… Mi è parsa un'altra!… In meglio… Già dovrei dirti che di lei ho visto soltanto gli occhi… che sono stati sempre belli, cioè grandi, espressivi. Allora, mi sembrava che di questa loro efficace espressività ella abusasse un pochino per posa sentimentale; lo dicevi anche tu; ma forse ci siamo ingannati. Ora, te lo confido con la più segreta intimità epistolare, erano proprio bellissimi, così pietosi, così imploranti!… E così rassegnati! Mi ha dato un solo sguardo ed è passata oltre, dignitosamente. Devo esserle parso uno stralunato… Infatti…! Fortuna che nessuno ci abbia visti! Altrimenti chi sa quanti e quali paralipomeni alla leggenda del nostro sventuratissimo amore!

«Ho capito in questa occasione che l'amore può fin operare il miracolo della trasformazione fisica della persona che ama. Figurati se io posso essere disposto a giudicare benevolmente Amelia, io che ho avuto per cagion sua tanti dispiaceri, tante noie, tante seccature!… Credo di essere diventato un po' verde dalla grande bile smossami da lei e dalla sua sciocchissima mamma. Se dunque io, così prevenuto contro di lei, ho dovuto riconoscere la straordinaria trasformazione avvenuta nella sua persona, vuol dire che questa è proprio grande, ed evidentissima. Me ne rallegro con Amelia; tanto è vero che tutti i guai non vengono per nuocere! E così quando la nostra commediola finirà—presto, amo di lusingarmi; ogni bel gioco dovrebbe durar poco, e questo dura da un buon pezzetto!—Amelia dovrà restarmi grata di tal beneficio, quantunque involontariamente arrecàtole; cosa assai rara, perchè ordinariamente gli amori morti lasciano dietro un'eredità di odi, di sdegni…»

—Filosofeggi troppo, caro mio!—esclamò Bedini, ripiegando la lettera.—E poi, come mai la signorina Nerucci, l'antipatica, l'insoffribile signorina Nerucci è diventata ora Amelia, e non soltanto buona ma quasi bella, per te?

* * *

E non vedeva l'ora di tornare a Roma per poter dire sul viso all'amico Efisio:—Eh via! Finitela! Sposatevi, se ne avete voglia; o fate all'amore tranquillamente, come gli altri fedeli cristiani, senza smorfie, senza posa per farvi compassionare!

Trovò Efisio Chiardi alla stazione. Pareva un uomo che stèsse su le spine. Impaziente di ogni minimo indugio, vedendo che non si avvicinava nessun facchino, aveva preso lui una delle valigie del Bedini e si avviava verso l'uscita, quando questi gli disse:

—Ma io ho bisogno di fermarmi al ristorante; ho proprio fame.

Chiardi non potè frenare una mossa di disappunto.

—Ti dispiace?—fece il Bedini.—Se hai fretta…

—Sì, ho fretta di parlarti, di consultarti…

—Parlerai mentre io mangerò, se non vuoi prendere qualche cosa anche tu.

—Grazie!

—Che ti accade?… Laggiù, a quel tavolino in disparte…
Dunque…—soggiunse Bedini appena data l'ordinazione al cameriere.

—Credi tu alla suggestione?—cominciò Chiardi.—Eccone qui una vittima! Mi guardi negli occhi? Ridi? Non c'è niente da ridere. A furia di sentirmi ripetere da tutti che sono un innamorato infelice, a furia di esser costretto, dalla mattina alla sera e dalla sera alla mattina, a dover pensare incessantemente alla mia fantastica disgrazia…

—Bene, bene! Ho capito!

—Darei la testa ai muri! Vuol dire che era destinato così.

—Rispàrmiati la testa! Non occorrevano tante precauzioni oratorie per farmi sapere che finalmente…

—Precauzioni oratorie?

—Come vorresti chiamarle? Hai voluto fare, al tuo solito, il misterioso, ma non ci sei riuscito. Ti confesso, giacchè siamo a questo, che non ho mai creduto alle tue negazioni, e veggo con piacere che non mi sono ingannato. L'hai trovata bene: Suggestione! Serbala per gli altri. Io intanto ora posso domandarti:—E questi confetti, quando?—È inutile stralunare gli occhi, fingere di arrabbiarti…

—Mi arrabbio seriamente! Suggestione, sì, caro Bedini. E se volessi darti a intendere che ne sia dispiacente, mentirei. Dicevo:—darei la testa ai muri—pensando alla figura che farò presso molte persone… Ma, infine, che dovrà importarmene, è vero? Rendo felice una creatura che merita di esser tale; e rendo felice anche me, perchè non capita tutti i giorni essere amato fino al punto che sono amato io. Come sia accaduto, non saprei spiegartelo io stesso. Picchia oggi, picchia domani… E un bel mattino mi sono svegliato, proprio così! innamorato cotto, con mia grandissima maraviglia… Era destino! Se fosse diversamente, non avrei ora bisogno di te, della tua opera di amico… Ti attendevo con impazienza; voglio uscir sùbito da questa situazione imbarazzante. Bisogna che qualcuno vada a spiegare… vada a scusarmi… Non è facile. Conto su la tua abilità diplomatica… Io sono stato d'una crudezza sconveniente nel negare a tutti… Era la verità. Oggi non più… Se non è suggestione questa…! Non ridere, te ne prego.

—Meglio, meglio così!—esclamò all'ultimo Bedini, convinto che il suo amico non gli avrebbe fatto fare una parte ridicola quantunque si trattasse di commedia.

E il giorno dopo, verso le cinque, si presentava alla signora Nerucci lieto e sorridente, sicuro di apportarle una bella e inattesa notizia. Aveva creduto opportuno, per finezza diplomatica, pigliarla molto larga, ed era rimasto interdetto vedendo scattar infuriata la signora Carlotta appena egli aveva pronunciato il nome di Efisio Chiardi.

—Quel che ha fatto costui è un'infamità senza nome!

—Rifletta, signora mia!

—Ammogliato, con figli! Che cosa si era immaginato dunque?…

—Signora! Ammogliato, chi?

—Lui! Lui!… L'abbiamo scoperto per caso.

—Non può essere!

—Con un tegame, di cui ora si vergogna… Al suo paese, ad Oneglia!

Il povero Bedini non sapeva che cosa rispondere. Il contegno misterioso del Chiardi lo rendeva perplesso. Gli sembrava però impossibile che il suo amico avesse potuto spingere la sfacciataggine fino al punto di mettere in mezzo anche lui e in una faccenda così delicata… Ma la signora Carlotta gli chiudeva la bocca ripetendogli.

—Infamità senza nome! Per fortuna, mia figlia è già rinsavita, e sposerà, tra un mese, un gentiluomo degno di lei!

Bedini uscì di casa Nerucci rallegrandosi che la diplomazia lo avesse salvato dall'apparire complice di un brutto inganno, furioso contro Chiardi… ammogliato con un tegame di cui si vergognava, come gli aveva affermato la signora Carlotta.

Efisio Chiardi lo attendeva al Caffè del Parlamento, con una tazza di caffè che gli si era freddato davanti e in mano un giornale inglese illustrato di cui sfogliava distrattamente le pagine, senza neppure guardarle.

—Hai fatto presto!—gli disse.

—Senti!… Se è vero…—balbettò Bedini.

—Che cosa?

—Se è vero che tu hai moglie e figli…

—Io?

—Al tuo paese.

—Io?…

—Intanto sappi che la signorina, tra un mese, sposa!…

—Oh, Dio!… Ma è un'infamità!

—Così dice pure la signora Carlotta!

—Chi ha potuto inventare?…

—Certe cose non s'inventano!

—Ma che moglie! Che figli! Sono scapolo, scapolissimo!… Te lo giuro!

—Tanto, è inutile che tu ti affanni a protestare… Sarà, che posso dirti? un pretesto per giustificare il voltafaccia suo e della sua figlia… Non è pensata male!…. Oh le donne!

—Ma come? Deve finire così? Ora che io…

—Ti consolerai, va' là, anche tu! Ci si consola di tutto a questo mondo!

—No, devo scolparmi; non voglio che mi si creda capace di così vigliacca azione! E non voglio, no! no! lasciarmi rubare la felicità… Io l'amo… capisci… io l'amo ora!

—Amerai un'altra. Chiodo scaccia chiodo! In quanto a scoprire donde sia venuta fuori questa fandonia…

—Calunnia!—urlò il Chiardi, dimenticando di essere in un caffè.

—Zitto! Non far voltare la gente… Lascia fare a me.

—Chi è costui?… Tu lo sai: il nome! Ce la sbrigheremo tra noi due!

—Il mio stupore era tale in quel momento, che ho dimenticato di domandare alla signora Carlotta chi sposava sua figlia.

—Lo saprò; non sarà un mistero!

—Vuoi aggiungere ridicolo a ridicolo? Lasciami fare. E se scopro qualcosa di losco, giacchè devi anche ammettere che tutto questo può essere avvenuto semplicemente, naturalmente….

—Appiopparmi moglie e figli che non ho?… Semplicemente?
Naturalmente?… Bedini! Tu hai voluto mettermi alla prova! Indovino?
Di'? Hai voluto convincerti se amo davvero Amelia….

—Non fantasticare; niente affatto. Hai moglie—e brutta da vergognartene—e figli… secondo la signora Carlotta… E vi è chi ti libera dal commettere un delitto di bigamia… secondo la signora Carlotta. Non ho inventato niente; non ho voluto metterti alla prova… E sii omo! Chi sa se tu non debba un giorno ringraziare colui che forse ti impedisce di fare una grande sciocchezza. Suggestione, hai detto. Dunque la tua volontà non c'entra punto; il tuo cuore, nemmeno. La tua vanità, scusa, probabilmente per molta parte; il calcolo, inconsapevolmente, un pochino… E se poi la suggestione finisse? E tu ti ritrovassi allo stato di prima?

—Ero un imbecille allora, un cieco… Non può finire così! Non deve finire così! Vedrai! Vedrai!

—Lasciami fare, ti ripeto. Dammi due, tre giorni di tempo. Tu lo sai; quando mi metto in testa di scoprire una cosa!…

Ai curiosi succede come ai grandi scienziati o ai grandi inventori: il caso li aiuta in modo sorprendente.

Era stato Babolani, il gran chiacchierone Babolani. Due giorni dopo se ne vantava con Bedini incontrato per caso.

—Che vuoi, caro mio! Quella ragazza mi faceva pena. Allora pensai: Non c'è altro modo di guarirla.—E dissi al padre… Non ho detto una bugia sai?… Efisio Chiardi ha moglie e figli… ma non è lui, il nostro Efisio. Di Oneglia però; credo che in quel paese si chiamino tutti Efisio e tutti Chiardi. Non lo credi?… Ed è andata bene, magnificamente! L'amico Chiardi dovrà accendermi un bel cero di ringraziamento… È andata anche, se vogliamo, troppo bene. La signorina, lo sai? prende marito… Si è consolata presto; se pure non lo prende per dispetto, per vendetta; le donne sono capaci di tutto! Guarda com'è il mondo! Ho confidato a cinque o sei persone: «Dicono che Efisio Chiardi ha moglie al suo paese; così brutta, ch'egli se ne vergogna, e figli… Che ne sapete?» E tutte e sei, via, dai Nerucci a farsi un merito della scoperta. Guarda com'è il mondo!… Se non fosse stato a fin di bene… Perchè ridi?… Che pensi?

—Rido—rispose Bedini—perchè mi accorgo che in questo mondo si fanno più commedie che non se ne scrivano.

—E più divertenti dovresti aggiungere—disse Babolani.

—Secondo.

Per Chiardi non fu davvero molto divertente questa qui. Ma egli ora fa il bravo; e quando incontra a braccetto del marito colei che avea giurato di essere sua o di nessun'altro, si consola come da scampato pericolo, esclamando:

—Oh! Era troppo brutta! E diventerà peggio!… Se la goda!

IN BARCA

A JOLANDA.

Quantunque a Catania da otto giorni, mia moglie era tuttavia sotto il gran fascino dello spettacolo del mare, nuovo per lei. A ogni po', mentre la conducevo attorno per farle osservare chiese, monumenti, negozi, ella mi si attaccava al braccio e, con accento da bambina che vuol essere accontentata, mi sussurrava all'orecchio:

—Andiamo alla Marina?

—Ci siamo stati un'ora fa!

—Che importa? Oh, il mare! Mi sembra di non aver potuto ancora ammirarlo a bastanza. Andiamo?

La sentivo trasalire, sotto braccio, dal godimento anticipato che la prossima vista del mare le avrebbe prodotto. E appena ne scorgeva un lembo a traverso gli archi del viadotto e i rami degli alberi di Villa Pacini, prorompeva in esclamazioni che mi facevano sorridere e già mi sembravano esagerazioni femminili. Per contradirla, allora le dicevo:

—Ecco! È sempre lo stesso: acqua, acqua, acqua!

—Non è vero. Muta di aspetto da un'ora all'altra. Un'ora fa era azzurro; ora, guarda, è cenericcio.

—Effetto della luce.

—Bravo! Grazie della spiegazione!… Ma di qui non si vede bene; andiamo laggiù, su la panchina del Molo.

—Perchè non usciamo in barca fuori del porto?

—Ho paura.

—Di che cosa?

—Dell'acqua. Se sopravvenisse una tempesta….

—Le tempeste non scoppiano all'improvviso.

—Se la barca si capovolgesse….

—In che modo? Le barche paion cullate dalle onde allorchè il mare è tranquillo come in questo momento.

—Ho paura.

—Bada! Quando saremo andati via, rimpiangerai di non aver gustato il gran piacere di una gita in barca.

—Lo credo!—E soggiungeva:—Se si andasse con uno di quei grossi bastimenti, con un piroscafo, mi sentirei sicura; ma con queste barche che si direbbero tanti gusci di noce! Quante, in fila, là! Non sembrano grossi pesci a fior d'acqua? Si agitano, saltellano come cosa viva…. Oh, su un bastimento, su un piroscafo, sì!

—Hai torto. Nelle tempeste, le barche valgono assai meglio di quei grandi legni. Quando questi stanno per affondare, passeggeri ed equipaggio si salvano, lo sai bene, su le fragili imbarcazioni. Via! Dovresti vincere così sciocca paura.

—Un'altra volta. Ora sta' zitto; lasciami ammirare.

Di cima al muraglione della panchina del Molo, spalancava i begli occhi neri su la immensa distesa del Jonio scintillante di sole, e non aveva parole, non gesti per esprimere le diverse sensazioni che la invadevano in quel punto. Ed io, osservandola, le invidiavo la gioia della novità di quelle sensazioni che stentavo quasi a comprendere, abituato ormai, sin da quando ero studente, alla vista del mare, quantunque nato, come mia moglie, in cima alle rupi di Troina nell'interno della Sicilia.

                        *
                       * *

La più profonda impressione del nostro viaggio di nozze era stata per
Paolina quello spettacolo; non finiva di riparlarne.

—Che cosa ti eri immaginato?—le domandavo, canzonandola un po'.

—Qualcosa di grande, d'immenso… e non sono arrivata alla realtà. Ora più lo guardo, più lo contemplo, e più vi scorgo particolari che da prima mi erano sfuggiti. Tu dici:—Il mare è azzurro come il cielo che vi si riflette.—Non è vero. Il mare è di cento colori, qua azzurro, là turchino, più in là violetto, più in là verde chiaro, verde cupo, giallastro, grigio, bianco…. di cento colori. Se non lo avessi visto, non lo avrei creduto. Ed ora che ho preso un po' di confidenza con lui…—soggiunse finalmente una mattina.

—Ah! Ti sei decisa!

—Sì, mi sono informata dalla cameriera dell'albergo: potremmo andare in barca fino a Ògnina e tornare, in poche ore, dopo aver fatto colazione colà.

—E se sopraggiungesse una tempesta?

—Non ridere di me!

—E se la barca si capovolgesse?

—Annegheremmo, abbracciati stretti… e addio!

—Sei diventata coraggiosa tutt'a un tratto?

—Avevo paura… per te. Giacchè ora dici che non c'è pericolo….

La guardai maravigliato e con un vivissimo impeto di gioia; di sollievo, dovrei dire.

Io credo che il viaggio di nozze sia, spesso, la prima e la più irrimediabile delusione della vita matrimoniale. Il passaggio dall'ideale fantasticato alla realtà è così brusco e così inatteso, che lascia un'orma profonda nell'animo, qualche cosa che forma poi l'infelicità delle due fidenti creature unitesi, forse un po' sbadatamente, per sempre.

Appunto in quegli otto giorni di vita di albergo, io avevo ricevuto dal contegno di Paolina, se non una cattiva impressione, un senso confuso di… di… non so come esprimermi. Insomma, mi era sembrato ch'ella mancasse di tenerezza, di abbandono, e che il suo spirito fosse più superficiale, più fanciullesco ch'ella non avesse mai lasciato trasparire in un anno di fidanzamento e di quasi quotidiana intimità. In certi momenti, sorprendevo in fondo al mio cuore un sordo e allora inesplicabile rancore contro di lei; e me ne indignavo come di un'ingiustizia verso la bella creatura di diciotto anni che io pretendevo diversa da quella che il sesso e l'età dovevano farla.

Non ero io assai più fanciullo e più leggero di lei, sentendo una specie di gelosia del mare che la invasava con la sua immensità? Non ero ridicolo?—sì, ridicolo—specialmente in quegli ultimi giorni, nell'accompagnarla alla marina con aria annoiata, musona e nel compiacermi di punzecchiarla, di canzonarla, di non nasconderle che la sua insaziabilità cominciava a sembrarmi indegna di lei?

—Avevo paura, per te!

Queste parole intanto erano state un'improvvisa rivelazione, soprattutto per l'accento con cui ella le aveva dette e per l'affettuosissimo sguardo con cui le aveva accompagnate.

Le presi il braccio, e poco dopo eravamo alla Marina in cerca di una barca e di un barcaiuolo che ci portasse a Ògnina, come Paolina aveva progettato.

* * *

A farlo apposta, quella mattina non trovavamo barche nè barcaiuoli disponibili, forse perchè giornata di domenica, forse perchè il bel tempo aveva suggerito a parecchi altri la stessa idea, forse perchè la più parte dei marinai erano usciti per la pesca.

—Pare impossibile! Proprio oggi!—esclamò Paolina.

All'ultimo un vecchietto, dopo di essersi consultato con due altri vecchi che fumavano tranquillamente in un canto e non si erano neppur degnati di rispondere alla nostra richiesta, venne ad offrirci l'opera sua.

—Basterete a remare voi solo?—gli dissi.

—Montino!

E il gesto e la voce del vecchio rivelarono l'orgoglio offeso da quel dubbio da me espresso.

Il mare non poteva essere più tranquillo. La barca scivolava su la superficie con leggere scossettine. E la riva sfilava di fianco a noi a poca distanza, elevandosi sempre più con nere rocce di lava che già nascondevano la campagna. Grotte si aprivano qua e là; stormi di palombi selvatici sbucavano da esse, di tratto in tratto, involandosi verso terra, mentre gli alcioni ci accompagnavano sfiorando l'acqua con ali spiegate che non producevano nessun lieve fruscìo.

Paolina era in èstasi, ed io dovevo impedirle di chinarsi ogni volta ch'ella tentava di afferrare qualcuna delle meduse erranti a fior d'acqua, opaline, iridate, simili a funghi cristallini portati via dalla corrente.

Mi maravigliavo ch'ella non sentisse nessun sintomo di mal di mare.

—Sei contenta di questa gita?

—Che delizia!

—Ecco Ògnina,—disse il barcaiolo.

* * *

Eravamo appena a metà della nostra colazione, quando il vecchio, che era andato a trovare un suo conoscente, si presentava annunziandoci:

—Bisogna partire sùbito. Si è levato un po' di vento, il mare si guasta.

Infatti pareva che avesse dei brividi; si increspava, si sollevava con frequenti crestine spumanti.

—Facciamo presto—insisteva il vecchio.

—Ci sarà pericolo?—domandò Paolina.

—No, padrona mia; ma è meglio far presto. Col mare non si sa mai….

Partimmo un po' sballottati. Paolina mi guardava negli occhi quasi per scrutarmi, e poi guardava il barcaiuolo, che faceva forza coi remi per resistere agli urti crescenti delle ondate. Io cominciavo a impensierirmi per lei. Questa volta certamente il mal di mare l'avrebbe fatta soffrire.

La barca balzava, si avvallava, si rialzava. Sprazzi di spuma arrivavano agli orli di essa.

Tutt'a un colpo il mare diventò più agitato. Il barcaiuolo stentava a farci procedere; ansimava, sudava, guardava attorno, lontano, e scoteva la testa. Certi scogli a fior d'acqua, che io avevo notati nell'andare, non si scorgevano più, sommersi sotto le ondate che si succedevano fitte, accavallandosi, spumeggiando.

—Ah, Madonna Santa!… Ah, sant'Agata benedetta!—brontolava il barcaiuolo.

Non era incoraggiante; ma io mi sforzavo di sorridere a Paolina, e di farle animo con gli sguardi.

—Sangue di…! Corpo di…!—bestemmiava sotto voce il barcaiolo, come più il mare si faceva cattivo.

—Hai paura?—domandai a Paolina.

—No.

—Tienti forte al panchetto.

—Sta' tranquillo, non occorre.

—Sant'Agata benedetta!… Madonna delle Grazie!—tornava e brontolava il vecchio, che sosteneva male le spinte delle onde e non riusciva più a filar diritto.

—Badate!—urlai.

Al mio grido egli fece uno sforzo, accompagnato da due o tre energiche bestemmie, e così lo scoglio in cui stavamo per investire fu, fortunatamente, evitato. Io lo avevo scorto mentre le ondate, rovesciandosi dall'altra parte, lo avevan lasciato per un istante scoperto. Era uno di quelli a fior d'acqua, pericolosissimo.

—Che cosa è stato?—domandò Paolina.

—Niente. Appoggiate più a sinistra—soggiunsi, rivolto al barcaiuolo.

—Sarebbe peggio—rispose.—Aah! Aah! Aah!

E aiutava con la voce lo sforzo di tutta la persona.

Allora fui stupito di veder Paolina calma, sorridente, e di udirla, prima, canticchiare a mezza voce, poi cantare a voce spiegata, quasi gli sbalzi della barca fossero cosa aggradevole. Ora non ricordo più che cosa ella cantasse, ma ho ancora nell'animo l'impressione di quella voce limpida, ferma, che gettava in mezzo al rumore delle onde agitate una dolce melodia del Bellini, o forse piuttosto del Verdi…. Io dovevo farmi violenza per non farle capire che cominciavo a temere qualche pericolo con quel barcaiolo vecchio, mezzo sfinito, che alternava con maggior frequenza invocazioni alla Madonna e a sant'Agata e brutali bestemmie. Eravamo lontani mezzo chilometro dalla punta del Molo; e Paolina, terminata una melodia, aveva impreso a cantarne un'altra più allegra, più squillante, senza mostrar di curarsi della crescente violenza del mare.

La punta del Molo era affollata di gente che pareva seguisse ansiosa con gli occhi la nostra barca lottante contro le onde.

—Vira, vira più al largo!—udii gridare.—Forza! Coraggio!

E quando fummo vicini, un marinaio ci gittò una fune che il vecchio afferrò. Saltato il primo su la banchina si buttava ginocchioni, scoppiando in lagrime, e toccava con la fronte il terreno, ringraziando la Madonna e sant'Agata dell'averlo salvato!

Paolina, appena posto piede a terra, impallidiva improvvisamente e mi si sveniva tra le braccia.

* * *

—Hai potuto far questo? Tu!

Mi pareva incredibile.

Ella aveva compreso assai meglio di me il pericolo in cui ci eravamo trovati; e intanto, per non farmi perdere coraggio col mostrarsi atterrita, si era messa a cantare, stando ferma al suo posto.

—Mi sentivo morire dallo spavento di annegare! Come abbia avuto quella forza non lo so neppur io…. Ti volevo tanto bene in quel punto!

—E dopo, ora?—dissi abbracciandola e coprendola di baci.

Fece soltanto un gesto, un rapido indimenticabile gesto.

FORZE OCCULTE

A GUELFO CIVININI.

D'accordo, Aldo Sàmara e la sua fidanzata avevano rinunziato al loro viaggio di nozze.

Èlvia era stata lietissima di veder accettata la sua proposta. Le repugnava quell'andare a disperdere per gli alberghi, sotto gli sguardi importuni dei camerieri e dei viaggiatori, le prime dolci impressioni della loro vita di sposi.

Aldo Sàmara, che per una strana serie di circostanze non aveva fin allora potuto effettuare il suo sogno di visitare Venezia, si era proposto di associare il ricordo della fantastica città con quello del giorno in cui avrebbe raggiunto il più elevato scopo della sua esistenza; e per ciò aveva mostrato un po' di esitazione nell'acconsentire a una proposta che gli sembrava raffermasse quella specie di fatalità dalla quale gli era stata più volte impedita la sua partenza per Venezia quasi sul punto di chiudere le valige o di avviarsi per la stazione.

—Ti dispiace?—aveva detto Èlvia.

—Oh, no, se fa piacere a te!

—Venezia è sempre là, non ce la porta via nessuno—avea soggiunto
Èlvia sorridendo.—Potremo andarvi dopo.

—Non sarà la stessa cosa.

—Sarà forse meglio. Saremo meno assorti, meno distratti nell'ammirarne le bellezze.

—Hai ragione…. Hai sempre ragione!… Però….

—Sentiamo!

—Può darsi che sia un pregiudizio alimentato dall'uso, o un'impressione mia personale, ma la luna di miele passata in città non mi sembra più luna di miele. Non potremo segregarci in casa, chiudere l'uscio di essa ai parenti, agli amici, alle tue amiche soprattutti. Quel primo mese del nostro matrimonio in che cosa differirà poi dagli altri, quando la vertigine della vita sociale, degli affari specialmente, riprenderà te e me, per quanto noi si abbia l'intenzione di menare vita modesta, come la nostra condizione richiede?

—E perchè mai dovrebbe differire?—replicò Èlvia.

—Hai ragione…. Hai sempre ragione!… Però….

—Un altro però?

—Ricordi? Un giorno, in una delle nostre passeggiate in gran comitiva per la campagna, lo scorso autunno, tu mi facesti osservare quella villa mezza nascosta tra gli alberi, in cima a una collinetta, e mi dicesti sottovoce:—Colà!—Il lampo degli occhi e il sorriso finirono di esprimere l'intimo significato di quella parola. Vi ho ripensato parecchie volte, e un giorno—mi pare di avertelo raccontato—ho commesso la fanciullaggine di andare a visitare la villa turrita che, vista dallo stradone sembrava un edifizio medioevale.

—Non me n'hai detto mai nulla.

—Probabilmente perchè mi pareva di aver commesso una fanciullaggine. È una villetta dei primi anni di questo secolo. I mezzadri abitano al pianterreno. I padroni non vanno mai a villeggiarvi e neppure a visitarla di tanto in tanto.—Perchè?—domandai—Chi lo sa?—rispose la mezzadra.—E sarebbero disposti ad affittarla?—Certamente. Abbiamo le chiavi noi, per dar aria alle stanze. Vuol vederle?—Sono cinque al primo piano e due al piano superiore, in quella che vorrebbe essere una torretta merlata; stanze ariose, pulite, con discreta mobilia un po' invecchiata, di trent'anni addietro o poco più. E un silenzio, una pace! Vista maravigliosa dal lato di levante, con tutti i colli laziali torno torno; da ponente, Roma con la cupola di San Pietro troneggiante nell'azzurro…. In una settimana, quella villetta potrebbe esser pronta a riceverci—concluse Aldo insinuante.

—Sì, sì—rispose Èlvia.—È una bella idea.

* * *

Aldo Sàmara aveva voluto lasciare a quelle stanze la impronta caratteristica del tempo in cui erano state mobiliate; ed eccettuata la camera degli sposi, esse erano rimaste quali egli le aveva trovate nella sua prima visita, senza spostar nulla, anche perchè i mezzadri avevano raccomandato, in nome dei padroni, di conservare, per quanto più era possibile, la disposizione degli oggetti che vi si trovavano.

Non erano punto preziosi i tavolini, i canterali, i divani, le seggiole, le poltrone, le litografie e le incisioni in cornici di ebano, i quattro o cinque quadri a olio, di soggetto sacro, mediocrissime copie di originali del Guercino e di Carlo Dolce, i due specchi ridotti quasi inservibili dall'umido che ne avea macchiato e corroso l'argentatura.

Eppure Èlvia ed Aldo si erano adattati sùbito a quell'aria di vecchiezza—di stanchezza, diceva Èlvia—quantunque si sentissero stranamente trasportati in un ambiente affatto diverso da quello delle loro case sorridenti di tutta la gaia freschezza dell'ammobiliamento moderno.

Le prime due giornate eran passate come in sogno. I due giovani sposi avevano avuto appena tempo di dare un'occhiata al paesaggio e di fare qualche breve passeggiata all'aperto. Ma, il terzo giorno, nelle ore pomeridiane, una pioggerella fina, insistente, li aveva confinati in casa. Si erano un po' svagati leggendo alcuni capitoli di uno dei tanti romanzi nuovi comprati per quell'occasione, e le ombre della sera li avevano sorpresi dietro i vetri della finestra del salotto, silenziosi, intenti a guardare la pioggia che veniva giù più fitta, velando e quasi sfumando la campagna attorno e i colli laziali lontani.

Aldo avea cinto col braccio la vita di Èlvia, ed ella si era abbandonata carezzevolmente col capo su la spalla di lui. Tutt'a un tratto, ella trasalì.

—Che cosa è stato?

—Niente…. Non so!

Intanto spalancava gli occhi spauriti, voltandosi a guardare nella stanza già invasa dall'oscurità.

—Insomma?…—fece Aldo.

—Un brivido per tutta la persona, come se qualcuno mi avesse posato una mano diaccia su la spalla.

—Chi sa che cosa fantasticavi!

—Non pensavo niente, guardavo fuori.

—Facciamo accendere i lumi.

Tutta la gran luce che due lumi diffusero poco dopo nel salotto non valse però a rassicurarla pienamente. Avevano ripreso la continuazione della lettura interrotta. Aldo leggeva ad alta voce, alzando, di tratto in tratto, gli occhi in viso a Èlvia, che coi gomiti appoggiati sul piano del tavolino e col mento sul dorso delle mani congiunte, stava ad ascoltare. Evidentemente era un po' distratta. Due o tre volte, Aldo aveva notato che ella, pur restando immobile, girava le pupille attorno, con aria di diffidente paura; e credette opportuno di sgridarla con dolce severità.

—Non sei una bambina!… Eh, via!… O ti senti male?

—Sarei proprio imbarazzata—rispose Èlvia—se dovessi spiegarti quel che provo…. Ora voglio dirtelo—soggiunse:—Ho provato qualcosa di simile sin dalla prima sera che arrivammo qui, nell'intervallo che tu, sceso a parlare col mezzadro, dovesti lasciarmi sola per qualche istante.

—Che cosa provasti?

—Un senso di freddo, come al contatto di persona disaggradevole… invisibile.

—Oh!…

—Sarà una ridicolaggine… che vuoi che ti dica?… Anche tu?…—esclamò Èlvia, vedendo diventare serio serio il marito e prendere l'atteggiamento di chi sta in osservazione di qualcosa d'insolito.

Aldo tardò a rispondere.

—Anche tu?—ella replicò afferrandolo, atterrita, per una mano.

—Volevo spiegarmi—disse Aldo con qualche imbarazzo—che cosa può mai averti prodotto tale strana suggestione in questo salotto. La vecchia consolle? Lo specchio? Quei quadri anneriti e dai quali non si è potuto togliere la polvere resa aderente dal tempo e dall'umido? Il soffitto troppo alto? La tappezzeria nova delle pareti? I nervi di una giovine signora sono impressionabilissimi, la immaginazione troppo facile ad essere eccitata….

Ma, così parlando, Aldo nascondeva a stento che aveva in quell'istante anche lui un'indefinibile sensazione di malessere, precisamente come pel contatto di persona disaggradevole, invisibile. Chiuse il libro, si alzò da sedere, e sforzandosi di sorridere, disse a Èlvia:

—Non piove più!

E aperse la finestra. Il cielo era sereno. Le nuvole si addensavano sui monti in fondo all'orizzonte, e la luna inondava con la sua luce argentea la campagna, che esalava l'odore speciale dei terreni bagnati da pioggia recente.

Richiusa l'imposta, egli prese Èlvia sottobraccio, e la condusse nella sala da pranzo. La tavola era già apparecchiata per la cena.

—Com'è curiosa questa villa, di sera!—esclamò Nannina, la donna di servizio, portando in tavola.

—Perchè dite così?—domandò Èlvia.

—Mah!…—fece Nannina.

—Anche lei?—pensò Aldo.

* * *

Egli si era rammentato di un libro inglese letto anni addietro, col quale si pretendeva di dare una prova scientifica dell'immortalità dell'anima e dell'esistenza di Dio. L'autore, o gli autori—erano due, se mal non ricordava—credevano di aver dimostrato che fin i più impercettibili movimenti del nostro pensiero, non che gli atti e le parole, vengono registrati e fissati nell'universa materia cosmica come sur una lastra fotografica, anzi meglio che su una lastra fotografica. E da questa nozione rimastagli chiara nella mente, rannicchiato nel suo cantuccio di letto e fingendo di dormire, egli era venuto fantasticando, durante la nottata, una probabile spiegazione di quel fenomeno ormai innegabile perchè avvertito contemporaneamente da tre persone. Le pareti di quella casa dovevano essere certamente sàture di misteriosi fluidi, di pensieri e di atti là registrati, e con tale forza da produrre terrificanti sensazioni rivelatrici.

Gli erano rivenute alla memoria le notizie del mezzadro intorno all'abbandono in cui i padroni lasciavano quella villa da anni ed anni, senza mai venire a darvi una fuggevole occhiata. Ora gli sembrava di non aver notato allora certe esitanze nelle risposte del mezzadro e della sua moglie, e si proponeva di interrogarli quella mattina, prima che Èlvia si alzasse da letto.

E durante la lunga nottata insonne non gli era anche parso di sentire una specie di formicolìo dappertutto, nelle pareti, nella volta, dietro gli usci, nelle stanze accanto; un formicolìo sordo sordo, che l'orecchio non percepiva ma che intanto non gli sembrava meno reale, quantunque percepito dai nervi di tutto il suo organismo quasi per immediato contatto?

Egli s'interessava molto, da un anno in qua, di certi fenomeni di cui soltanto da poco tempo alcuni scienziati osavano spregiudicatamente di occuparsi, e cominciava a sospettare di trovarsi di fronte a qualcuno di tali fenomeni; giacchè non poteva credere di essersi lasciato vincere dalla nervosità di Èlvia e della donna di servizio per suggestione di seconda mano.

—Hai dormito bene?—gli domandò Èlvia vedendolo saltar giù dal letto.

—Ho fatto tutt'un sonno. E tu?

—Io non ho chiuso occhio. C'è mancato poco che non ti svegliassi.

—Perchè?

—Non sgridarmi; avevo paura.

—Ancora?—egli esclamò, fingendo di mostrarsi un po' in collera per questa debolezza femminile.—Intanto che tu ti vesti—poi soggiunse—scendo a fumar un sigaro all'aria aperta. Ti mando Nannina.

Non aveva potuto cavar nulla di bocca ai mezzadri. Quando essi avevano preso quella mezzadria, la villa stava chiusa e abbandonata da un pezzo.

—Giacchè i padroni non se ne curano, perchè non abitate le stanze superiori?

—Queste a terreno, capisce, sono più comode per noi.

—E dite, prima di me e della mia signora, nessun altro ha preso in affitto la villa?

—Sì, quattro anni addietro, due forestieri, un vecchio con la figlia, bellissima creatura, che volle andar via dopo una settimana.

—Perchè?

—Lo dissero forse; ma chi li capiva? Scapparono quasi, brontolando, facendo certi gesti! Già quel vecchio doveva essere mezzo matto. Andava attorno da mattina a sera, raccogliendo erbacce, riportandone a casa mazzi, fasci interi. La figlia dipingeva.

La giornata passò tranquilla. Èlvia ed egli avevano quasi dimenticato le tristi impressioni della sera avanti, perchè le stanze illuminate dal sole, assumevano durante il giorno aspetto gaio. Ma la sera, dopo il tramonto, sembrava si trasfigurassero; e non valeva l'accendere molti lumi. Qualcosa d'indefinibile, d'inesplicabile vibrava dalle pareti, dagli oggetti; si sarebbe detto anche dall'aria che vi circolava.

Èlvia, per vergogna di apparire bambinescamente paurosa, non osava di manifestare ad Aldo l'opprimente sensazione che la invadeva; ed Aldo si guardava bene dal confessarle la repugnanza che gli ispirava, di sera, tutta la casa, in qualunque stanza essi si intrattenessero fino all'ora di cenare e di andare a letto. Èlvia si stringeva a lui, voleva esser presa tra le braccia, quasi per trovarvi un rifugio; ed egli era contento di tenerla così, di accarezzarla, di baciarla, di mormorarle dolci parole a intervalli…. Giacchè, a mano a mano che la sera più s'inoltrava, essi si sentivano costretti a restare silenziosi; e avevano ancora—pensavano—tante dolci cose da dirsi in quelle ore di raccoglimento, in mezzo alla gran pace della vasta campagna!

Aldo non poteva più dubitare che si trattasse di sensazioni reali. Èlvia era un organismo solido, ricco di salute, come lui. Egli, è vero, si era occupato di fenomeni anormali, ma solamente leggendo quel che ne scrivevano, pro e contro, scienziati d'alto valore. Non si era mai provato a osservare direttamente, quantunque spesso invitato da persone che volevano iniziarlo ai misteri del magnetismo e dello spiritismo. Èlvia lo aveva qualche volta graziosamente punzecchiato per questi suoi studi, mostrandosi piuttosto incredula che no. Egli non poteva per ciò supporre che quel che essi e Nannina sentivano nella villa provenisse da eccessiva nervosità o da preconcetti capaci di alterare le ordinarie funzioni dei loro sensi.

* * *

Avevano trascorso la intera giornata vagando per la campagna. Fatto colazione in una vaccheria, si erano inoltrati per sentieri e sentieroli verso le colline, cogliendo bellissimi fiori selvatici, fermandosi, per riposarsi, nelle case dei contadini incontrate qua e là, prendendo istantanee coi loro Kodack, fotografando ognuno un punto di vista diverso per sfida di vedere chi di loro due avrebbe saputo scegliere il paesaggio più artistico; ed erano tornati tardi alla villa, un po' stanchi ma contentissimi della bella escursione, e leticando allegramente intorno ai resultati delle pellicole dei rispettivi Kodack. Peccato che bisognasse attendere il ritorno a Roma per svilupparle!

Intanto si erano seduti a tavola con grand'appetito, quantunque la cena non fosse ancora pronta.

—Hai sonno?—domandò Aldo, scorgendo che sua moglie stentava a tener aperte le pàlpebre.

—Èlvia!… Èlvia!…—egli gridò vedendole travolgere gli occhi fino al bianco.

Ella non rispondeva. Rigida, eretta sul busto, con gli occhi chiusi e le sopracciglia corrugate, sembrava guardasse attentamente e vedesse a occhi chiusi.

Aldo capì sùbito che si trattava d'un caso di catalessi spontanea e ne fu atterrito, non potendosi render conto della cagione da cui veniva prodotto, nè delle conseguenze che avrebbero potuto seguirne. E continuava a chiamare, scotendola pel braccio:—Èlvia! Èlvia!—osservando ansiosamente gli atteggiamenti ch'ella prendeva quasi assistesse a uno spettacolo che la faceva inorridire.

Poi le labbra di lei si agitarono; suoni inarticolati le uscirono di bocca. In piedi, con le mani sporte in avanti, ella indietreggiava, voltando il capo da una parte come per evitar di vedere. Diè un grido, cadde tra le braccia di Aldo che furon pronte a riceverla… E vi aperse gli occhi.

—Perchè?—domandò, stupita.

—Ti sei lasciata sorprendere dal sonno—balbettò Aldo per non spaventarla.—Volevo metterti a giacere sul canapè.

Èlvia non si rammentava di niente. Che cosa avea visto? Aldo non glielo domandò. Ma egli era ormai certo che in quella villa era dovuto accadere qualche terribile tragedia rimasta ignorata. Le pareti vibravano terrore. Si sentiva sopraffare anche lui dalla misteriosa forza ogni giorno più. Sarebbe soggiaciuto alla catalessi pure lui?

Con sua grande meraviglia, quella sera Èlvia fu tranquillissima. Non mostrò di sentire nessuna impressione di paura durante la cena nè dopo. Fu anzi più allegra del solito; se non che, tutt'a un tratto, nell'alzarsi da tavola domandò:

—Dimmi: dove ho letto o dove ho veduto rappresentare….

—Che cosa?

—È strano!—ella esclamò dopo breve pausa.—Mi torna in mente una scena di non so più qual dramma, di non so più qual capitolo di romanzo…. Come mai mi ritorna in mente così viva, così fresca, quasi l'avessi letta recentemente o veduta rappresentare?

—Quale scena?

—Mah!… È strano! Mi sfugge…. Di quel marito che ordina alla moglie creduta colpevole:—Punisciti da te stessa!—E lei non vuol morire di veleno nè di pugnale… E vorrebbe gridare, chiamare aiuto; e urta agli usci chiusi a chiave, e picchia alle imposte delle finestre inchiodate… e perde la parola e muor di terrore davanti all'inesorabile marito, che l'ha condotta in una villa lontana!… Dove ho letto questo? O dove l'ho veduto rappresentare?… È strano! È strano!

—Lascia andare!—la interruppe Aldo.—Dimmi piuttosto un'altra cosa:
Non ti sei già annoiata di star qui?

—No. E tu?

Quell'inatteso fenomeno di serenità mise in maggior sospetto Aldo Sàmara. Gli parve di vedere la sua Èlvia in balìa delle misteriose forze spadroneggianti nelle stanze superiori della villa abbandonata, e volle sottrarla e sottrar se stesso al loro occulto potere.

Tornàti a Roma, egli soffrì per qualche tempo l'irragionevole ossessione di una malefica influenza che avrebbe nociuto a tutti e due; ma, dopo alcuni mesi di chiusa ansietà, ebbe a convincersi perfettamente che si era ingannato.

Soltanto, accadde—due o tre volte, a lunghi intervalli,—che Èlvia ripetesse, come quella sera:

—Dimmi: Dove ho letto…. O dove ho visto rappresentare?… È strano!
È strano!

Da allora in poi, Aldo Sàmara ha riletto più volte il libro di quei due scienziati inglesi, e metterebbe la mano sul fuoco per attestare che essi hanno ragione.

UN CONSULTO

AD AMILCARE LAURIA.

Vedendo entrare il dottore, la bella signora si era alzata dalla poltrona dove stava abbandonatamente sdraiata da un pezzo, in attesa.

Vecchio amico di casa, egli le accennò sorridendo di non muoversi e affrettò il passo verso di lei che gli stendeva le mani.

Il salotto, tenuto in penombra dalle pesanti tende di stoffa delle finestre, ingombro di seggiole, di poltrone, di tavolinetti sovraccarichi di preziosi gingilli e di vasi giapponesi colmi di rose gialle che spandevano per l'aria acutissimo profumo, con due antichi arazzi alle pareti inquadrati dal fondo azzurro della tappezzeria di broccato, prendeva in quell'ora vespertina, un'insolita aria di mistero, accresciuta dalla severità dell'aspetto della bella signora. Il dottore avea sùbito notato la mancanza dell'abituale gentile sorriso con cui ella lo accoglieva anche quando stava a letto malata, e nello stesso tempo una rapida occhiata gli aveva fatto comprendere che il consulto per cui era stato invitato a venire da lei doveva essere, più che altro, un pretesto. Di che cosa poteva voler consultarlo? Se lo domandava, pensando che spesso le donne amano di rivolgersi piuttosto al medico che non al confessore in certe delicate circostanze.

—Mi perdoni se ho ritardato di qualche ora la mia venuta. La nostra professione—disse il dottore—non ci lascia mai piena libertà.

—Non ha bisogno di scusarsi—ella rispose, stringendogli nuovamente le mani.

—Non sta male, mi pare.

—Fisicamente, forse no; ma sono così turbata di spirito che ho paura di ammalarmi.

—Di che si tratta?

—Della mia felicità.

—In questo caso, la miglior consigliera è lei stessa.

—Ho un terribile scrupolo.

—Sarei lietissimo, se potessi riuscire a dileguarlo. Si rivolge al medico o all'amico?

—A tutti e due.

—L'amico vale più del medico in questo caso.

—Consulto l'amico perchè è medico.

—Ahi! La responsabilità si accresce, perchè il cuore dell'amico può nuocere alla scienza del medico. È cosa grave, a quel che pare.

—Gravissima! Sono sul punto di prendere una gran decisione e non so risolvermi. Quel terribile scrupolo mi trattiene, mi fa esitare. Non vorrei commettere un delitto.

—Oh!—fece il dottore, stupito.—Lei non è capace di far male a una mosca.

—Volontariamente, no; ma per leggerezza, per sbadataggine….

—Parli, e conti su la mia devozione, sul mio affetto, se non su la mia scienza.

—Conto su questa soprattutto. Voglio una parola di certezza, di certezza assoluta.

—Chi può sentirsi sicuro di essere in circostanza di darla?

—Ho letto un libro che mi ha sconvolta. Ignorare è una bella cosa!
Non lo avevo mai capito prima di ora.

—Ha i suoi inconvenienti anche l'ignorare. Una colta signora come è lei sa che ogni faccenda di questo mondo può esser guardata da diversi punti; così da uno si può veder bianco, e nero dall'altro, o grigio o rosso o giallo.

—Il mio caso è meno complicato: o bianco o nero. Il cuore mi fa vedere bianco; la mente, dopo quella malaugurata lettura, nero. A chi devo dar retta?

—Una donna deve dar retta sempre al suo cuore.

—Probabilmente non direbbe così, se sapesse….

—Appunto, non ci perdiamo in preamboli.

—Ha fretta?

—Soltanto per toglierla, se è possibile, dalla morale sofferenza che stimo acutissima, se non vedo su le labbra di lei il dolce sorriso che la rende ordinariamente più bella…. Non è un complimento, ma un'osservazione fatta appena l'ho veduta.

—Un'anima moribonda non può sorridere, dottore.

—Non esageri, via! Parli dunque.

—Ella sa la mia disgrazia; sono rimasta vedova a venticinque anni, dopo due di matrimonio non consolato da prole.

—Forse sarebbe stata disgrazia maggiore la vedovanza con prole. La vita è piena di dolorose sorprese.

—Un figlio o una figlia mi avrebbero compensata di ogni disinganno. Il mio cuore avrebbe trovato una sublime occupazione; qualunque sacrificio mi sarebbe parso gioia divina. La donna che non diventa madre è una creatura sbagliata. In mio marito io amavo anticipatamente i miei figli.

—A venticinque anni si può ricominciare ad amare un altr'uomo. La fedeltà ai morti è atto assurdo.

—Infatti…. Ma sul punto di decidermi per un nuovo legame in cui sarebbero appagate tutte le aspirazioni del mio cuore, un tristissimo dubbio mi trattiene. Se potessi pensare soltanto a me….

—A chi altri?

—Alle mie creature, alle quali anelo.

—Le lasci prima venire.

—Ho io il diritto di compromettere la loro felicità? Preparar loro una vita dolorosa, disgraziata, unicamente perchè il cuore mi dice: Sposa l'uomo che tu ami e da cui sei riamata?

—Non capisco.

—Che c'è di certo per la scienza intorno all'eredità?

—Molto e poco. La natura ha misteri che non siamo ancora riusciti a penetrare interamente.

—Nella famiglia di colui che dovrebbe essere il mio secondo marito sono avvenuti casi di pazzia.

—Ereditaria?

—Chi lo sa? Ma sono avvenuti. Pazza l'ava, pazzo uno zio, pazzo un fratello!—

Il dottore abbassò la testa, corrugando le sopracciglia, pensoso. Era profondamente impressionato della desolazione vibrante nella voce di quella donna innamorata che pareva attendesse da lui una sentenza di vita o di morte. E non osava di alzarle gli occhi in viso per paura che la sua minima esitanza non ferisse irrimediabilmente quel povero cuore. L'avea vista crescere e fiorire, e le voleva bene come a figlia. Da giovinetta, l'aveva strappata quasi a stento dagli artigli della morte, e per ciò gli pareva cosa sua. Era stato testimone delle nozze di lei, come amico più intimo di famiglia. L'aveva vista agonizzare pel gran dolore della perdita del marito tòltole improvvisamente da una subdola angina pectoris proprio il giorno della festa del secondo compleanno delle loro nozze. Non ignorava chi fosse il prescelto tra tanti che ora aspiravano alla mano di lei, bella, ricca, orfana di parenti; e si maravigliava che lo scrupolo presentàtosele alla mente non si fosse affacciato prima al suo pensiero di dottore e di amico. Sarebbe stato suo dovere metterla in guardia, quantunque non consultato, sin dal primo giorno in cui egli aveva acquistato la certezza che il marchese Attilio Volpes sarebbe divenuto, presto o tardi, il secondo marito della baronessa Iole di Rivierasco, vedova del barone di Camposparto. Per delicatezza, avea mostrato d'ignorare, anche dopo la rivelazione della baronessa; e la richiesta del consulto lo contristava e gli dava la profonda sensazione di un rimorso.

Tutto questo gli era passato per la mente come un pauroso baleno.

—Ecco—egli disse.—Vi sono casi pei quali la scienza non può avere dubbio alcuno. Ho conosciuto una famiglia in cui tutti i figli ammattivano, per un anno, appena compiuti i vent'anni. La pazzia scoppiava improvvisamente a giorno fisso, a ora fissa, con puntualità incredibile. Dei tre maschi, il maggiore avea avuto una pazzia dolce, idilliaca, restando a letto in una camera tutta parata di rami di ulivo e di quercia preparati dalle sue mani, con la coperta cosparsa di foglie di alloro. Il secondo avea passato l'anno doloroso suonando uno zufolo di canna e il violino, appresi a suonare da sè durante la pazzia; e la virtuosità perdurò quando egli ebbe riacquistato il senno. Il terzo si credeva un gran capitano, depositario dei più intimi segreti del Re e del Papa, e citava continuamente tutti i testi latini studiati nelle scuole e che non ricordò più quando l'accesso finì…. Ma un figlio del secondogenito, nel quale si riprodusse la periodica pazzia, ammazzò un fratello…. Degli altri non so. In casi come questi, ripeto, il consiglio del medico non potrebbe essere incerto. Per gli alcoolici, pei delinquenti nati, pei deformi, egualmente. Ma abbiamo anche moltissimi casi in cui avvengono salti, sparizioni inesplicabili, più inesplicabili riprese. Germi, latenti per due o tre generazioni, si sviluppano a un tratto. Come? Perchè? La scienza non ne sa nulla. Nè sa in che modo si propaghino, nè può prevedere come e quando. Certamente, trattandosi di una specie di gioco d'azzardo, la prudenza consiglierebbe di non giocare. Ma se vi sono altre e forti ragioni che consigliano il giuoco? Un amore come il suo, per esempio, un amore che è la vita, la felicità di due buone creature, per le quali un'interdizione sarebbe grandissima sventura? Verrà forse il giorno che la scienza potrà dare infallibilmente i suoi responsi su questo riguardo; e allora la legislazione dovrà intervenire pel bene della società sacrificando quello, passeggero, dell'individuo. Ma oggi….

La baronessa lo aveva ascoltato ansiosa, tremante, trattenendo il respiro, tenendogli fissi gli occhi negli occhi per scrutare se mai le parole non rivelassero tutto il pensiero di lui: ed era rimasta sospesa, ansimante a quel Ma oggi che le faceva penetrare nel buio del cuore uno spiraglio di luce.

—Ella conosce la famiglia del marchese Volpes.

—Ah! si tratta del marchese?—esclamò il dottore con fina simulazione di sorpresa.—La scelta è indizio di gran senno in lui. Se lo perdesse dopo, la colpa potrebbe essere un po' di lei; ma è un'ipotesi assurda.

—Dunque?

—Il suo scrupolo la onora.

—Questa è la parte dell'amico. Il dottore che cosa consiglia, che cosa impone?

—Niente. Io credo che l'individuo non è obbligato a immolare la sua breve felicità ai pretesi eterni diritti della Specie. Che farebbe lei se io le dicessi: Non sposi?

—Ne morrei!… Forse, mi ammazzerei perchè la vita non avrebbe più nessun'attrattiva per me.

—È un po' troppo. La vita ha sempre, finchè dura, nuove attrattive da sostituire a quelle disperse dalla sua stessa inconsapevole ferocia.

—Non sempre, dottore!

—Può darsi. Nessuno però ha diritto di buttarla via come cosa inutile; la religione e la scienza sono di accordo su questo punto.

—Sia esplicito; si curi della verità non di me.

—Più esplicito di così? È doveroso che la scienza risponda con un forse e non con un'affermazione che potrebbe risultare sbagliata. Sia felice, a modo suo, lasci che al resto pensi la Natura. Dio, il Caso, insomma quella Forza occulta che regola l'Universo. Amare ed essere amata valgon bene che si tenti il gioco.

La baronessa riflettè un momento, poi disse:

—Grazie!

Il dottore uscì dal salotto col cuore sconvolto. Aveva fatto bene? Aveva fatto male? Forse aveva fatto male; ma poteva anche darsi che avesse fatto bene.

Eppure il suo scetticismo di scienziato non lo rassicurava pienamente.

—La Specie!—brontolava, scendendo le scale del palazzo Rivierasco.—Pensi essa ai casi suoi! Non è essa che fa amare a quel modo?… Pensi essa ai casi suoi.

SEMPRE TARDI!

A JANE GREY.

—Non l'amavi?—domandò, con gran maraviglia, Diego Punzi.

—Un po'—rispose Falcini.

—Un po'… in che senso?

—Non tutte le donne producono il famoso coup de foudre; molte, la più parte anzi, s'insinuano lentamente nel nostro cuore e sono le più pericolose.

—Non fare teoriche, alla Stendhal!—lo interruppe Punzi.

—No; voglio soltanto spiegarti….

—E allora raccontami. La spiegazione me la darò da me.

—T'interessa?

—Mi hai cagionato un gran dolore in quel tempo!

—Ah!—esclamò Falcini guardando fissamente negli occhi il suo amico. E soggiunse:—Senza volerlo però e senza saperlo. Me ne dispiace per te e per lei.

—Chi sa se non sia stato meglio?

—Bisognerebbe pensare così quando una cosa non avviene; ma non è facile. E poi… non è sempre vero. Ora tu, con questa rivelazione, mi fai sentire rimorso.

—Dàtti pace; fortunatamente sono riuscito a consolarmi.

—Non vuol dire. Io credo che in questo mondo sia assai più il male che vien fatto senza volerlo, che non quello prodotto liberamente.

—Dunque?

—Dunque, capisci, mi trovai imbarazzato. Ricordo benissimo: era una serata di maggio… no, di giugno, con un plenilunio maraviglioso. Il padre, la madre, la cugina e gli altri due amici che li accompagnavano salivano per via Quattro Fontane dalla parte del marciapiede inondato dal lume di luna; noi due, invece, dalla parte dell'ombra delle case, che tagliava quasi a mezzo la via. Improvvisamente ella mi disse:—Tra una diecina di giorni parto.—Per Lione?—domandai (Aveva un fratello colà, direttore d'una fabbrica di velluti).—Per Kiel—rispose.—Come mai?—Vo da un'amica…. che fantastica per me non so qual progetto…. Potrebbe darsi che io non ritornassi più a Roma….—Oh!…—Consigliatemi: debbo andare? Affido il mio destino alle vostre mani.—Assumerei una gravissima responsabilità dandovi un consiglio qualunque.—

Ella saliva a capo chino, con gli occhi socchiusi, ed io sentivo tremare il suo braccio attaccato al mio. La guardai; era pallida, e alle mie ultime parole aveva atteggiato le labbra a una dolorosa espressione di disinganno.—Sentite, Nelly,—le dissi.—Poco fa in casa Olgani abbiamo scherzato e riso troppo. Le vostre parole di questo momento sono serie e gravi, se io non mi illudo intorno al loro significato. Non posso rispondervi sùbito. Vorrei potervi dire: Restate! Ma sarebbe gran leggerezza da parte mia, se non riflettessi qualche giorno. Vi dispiace di attendere fino a mercoledì prossimo? Ci rivedremo in casa Olgani. Se me lo permetteste, potrei anche scrivervi.—No; mi darete la risposta mercoledì. Sinceramente, spero!—Sincerissimamente!—Ho, forse, fatto male a chiedervi un consiglio!—esclamò dopo una breve pausa.—Ve ne sono gratissimo.—Raggiungiamo gli altri—ella concluse, sorridendo tristamente.

E nel traversare la via, le strinsi forte una mano, mormorando:—Avete fatto bene; ve ne ringrazio.

Intanto ella riprendeva il suo aspetto ordinario; ma io mi sforzavo invano di non apparire turbato; e osservandola, pensavo quanto le donne siano superiori a noi nel dissimulare e nel padroneggiarsi. In quel breve tratto di strada, ella aveva cominciato a parlarmi del soggetto delle nostre risate in casa Olgani mentre un violinista scorticava non so quale sonata di Saint-Saëns; e pareva che avesse dimenticato le gravi cose dèttemi poco prima.

Tornando a casa e rifacendo la strada fatta insieme con miss Nelly, mi sembrava di riudire, quasi ondulanti ancora per l'aria, il suono della voce e l'accento incerto con cui ella mi aveva domandato:—Debbo andare?—Mi rimproveravo di non essere stato sincero. Perchè non le avevo detto immediatamente:—Siete libera! Io non sono in circostanza di darvi una risposta concreta?—E nello stesso tempo che cominciavo a sentire una specie d'irritazione contro di lei per quella domanda intempestiva (non credevo di aver fatto niente che potesse autorizzarla a rivolgermela), provavo pure un dolce compiacimento che lusingava il mio amor proprio. Non leggevo ben chiaro nel mio cuore. Quell'anno sfarfalleggiavo irrequieto tra le tante signorine che intervenivano in casa Olgani. Ricordi? Noi chiamavamo la Fiera quei mercoledì affollatissimi, destinati dalla signora Olgani a combinare matrimoni. Ella pensava soprattutti a sua figlia già sullo sfiorire, ma non voleva farlo scorgere; e perciò gran richiamo di mamme e di ragazze, e balli che dovevano sembrare improvvisati, e accademie di musica e di canto…. e, ogni sera, novità di divertimenti…. Povera signora! Vi ha rimesso le spese. Le quattro ossa spolpate della sua figliuola le sono rimaste in casa; nessuno ha avuto il coraggio di sposare quello scheletro che pure aveva una discretissima dote.

—Non divagare—lo interruppe Diego Punzi.

—Ricordi? Troppe ragazze! Per ogni scapolo, non meno di tre in concorrenza. Tirati in qua, tirati in là, nessuno di noi riusciva a fissarsi. Più che non corteggiassimo, eravamo corteggiati. Bei tempi! Anche tu; non negarlo.

—Come gli altri; quantunque….

—Lo so; tu pensavi seriamente al matrimonio e volevi sceglier bene. Io, convinto che nel matrimonio tutto è caso, intendevo di lasciare che l'avvenimento, se mai, si compisse senza che dovessi metterci nè sale nè pepe. E poi, in quella baraonda di serate, mi sembrava che neppur le ragazze facessero sul serio; e rammentando una maccaronica antifona del vecchio prete mio professore di latino, ripetevo spesso, osservando gli altri:—Canzonare te, canzonare me, Virgo sacrata!—Miss Nelly e sua cugina Jane però erano un'eccezione tra la folla. Jane, bellissima, con la sua eccessiva rigidezza britannica teneva un po' in distanza i corteggiatori; in miss Nelly, invece, si scorgeva poco o niente d'inglese, cioè soltanto una dignità semplice e schietta che imponeva rispetto. Si capiva, avvicinandola e conversando con lei, che si aveva da fare con una signorina per la quale le parole significavano precisamente quel che volevano dire e non altro. Non si potevano adoperare sottintesi o esprimere leggermente sentimenti che erano piuttosto madrigali senza costrutto, o complimenti, o adulazioni, o maliziose canzonature da produrre lievi conseguenze. Per ciò miss Nelly era diventata prestamente la mia preferita; mi sembrava di sentirmi in ogni cosa all'unisono con lei. Mi piaceva soprattutto quella sua dolce gaiezza di spirito…. Ma già io te ne parlo come se si trattasse di persona a te ignota.

—Stavo per dirtelo. Insomma, che cosa rispondesti quel mercoledì?

—Passai parecchi giorni in un torpore strano, quasi volessi evitarmi la fatica di ricercare in fondo all'animo la risposta da dare. Evidentemente non ero innamorato, e sentivo dispiacere di non esser tale. Miss Nelly mi ispirava una gran simpatia, ma non aveva ancora operato così intensamente sul mio cuore da darmi la chiara coscienza che ella fosse per me qualche cosa di più di una amica o di una persona con cui avrei voluto passare insieme alcune ore della giornata. Non mi trovavo maturo da decidermi a legarmi con lei per tutta la vita. E poi, c'erano davvero circostanze di famiglia che non mi avrebbero permesso di prendere impegni per un tempo lontano, senza contare che i fidanzamenti a lunga scadenza mi sono sempre stati odiosissimi. Eppure avrei voluto ch'ella avesse atteso ancora prima di mettermi alle strette con quella domanda e con le gravi parole:—Affido il mio avvenire alle vostra mani!—Chi sa? Tra qualche mese, lasciando che gli avvenimenti operassero da sè, forse, mi sarebbe stato facile risolvermi secondo quel che ella sembrava desiderasse…. Ma in quei giorni, no; e non volevo mentire. È vero, pur troppo, che spesso, una parola, una sola parola inopportunamente pronunziata influisce senza rimedio su la intera esistenza di una persona. Tu ti sei consolato facilmente.

—Non ho detto: facilmente.

—In ogni modo, ti sei consolato; io invece rimpiango ancora quel che ho perduto. Il mercoledì, dunque, mi avviavo verso casa Olgani senza che io sapessi precisamente quel che avrei dovuto dire a miss Nelly, o almeno senza sapere in che modo avrei potuto formulare la mia risposta. Non volevo mentire e non volevo neppure chiudermi ogni via di riprendere quell'argomento nel caso che le circostanze mi avessero, un giorno, permesso di dirle:—Restate!—o qualunque altra parola equivalente. Entrando nel salotto, una rapida occhiata in giro mi aveva consolato; miss Nelly non c'era.—Può darsi che non venga!—pensai…. Ma proprio in quel punto ella appariva su l'uscio preceduta dalla cugina. Le corsi incontro, come chi affronta coraggiosamente un inevitabile pericolo, e le dissi:—Siete in ritardo!—Mi guardò negli occhi, seria, quasi maravigliata di udirsi dire quelle parole. E durante la serata mi sembrò che volesse evitarmi. Uscendo di casa Olgani, qualcuno della comitiva propose una passeggiata al Colosseo. Ci avviammo. Le offersi il braccio. La serata era bellissima; le viuzze che conducono colà quasi deserte. Durante il tragitto, Jane era rimasta a fianco della cugina troppo ostinatamente, contro il solito; pareva che lo facesse a posta, d'accordo con lei. Ma io manovrai in maniera da restare isolati per alcuni istanti. Avevo riflettuto: È naturale che miss Nelly non si mostri impaziente di ricevere la mia risposta; ora spetta a me d'aver premura di darla.—Dunque—dissi, e si vedeva bene che non sapevo come cominciare a parlare—quella vostra amica ha un progetto…. per voi? Io vi sono gratissimo….—Ah!—ella esclamò.—Non ne ragioniamo. L'altra sera mi sono sfuggite parole incoerenti. Scusate. Non val la pena di tornarci su.—Perchè?—È inutile; ho deciso di partire. L'invito è così affettuoso, così pressante…. E poi… ho bisogno di aria nuova, di un po' di campagna. La villa della mia amica è in mezzo a una gran foresta….—Parlava lentamente, con tono severo. Non osai d'insistere, mortificatissimo. Poco dopo, sotto gli archi del Colosseo, appena ella si staccò dal mio braccio, mi parve che qualche cosa di decisivo fosse avvenuto per me.

—È tutto?

—No. Tre mesi dopo ella era già ritornata. Ma durante quei tre mesi, io avevo commesso la stupidaggine di lasciarmi adescare—misteri del cuore!—da…. Non importa che tu sappia da chi, perchè anche questo è un avvenimento ormai passato, quantunque abbia lasciato dolorose tracce nella mia vita. Avevo riveduto miss Nelly, fuggevolmente. Facevo rare e brevi apparizioni in casa Olgani. Tre sere avanti l'onomastico di sua madre, miss Nelly aveva avuto la precauzione di rammentarmi quella data; io non avrei potuto mancare alla festa senza mostrarmi scortese. C'eri anche tu quella sera.

—E appunto allora—lo interruppe Diego Punzi—io mi convinsi che nel cuore di miss Nelly non c'era più posto per me. Vi eravate rifugiati nel salottino in fondo, così stranamente illuminato con piccoli globi a colore…. Vi avevo visti sparire e non avevo resistito all'ansietà di sorprendere—ho vergogna di confessartelo—una parola, un gesto che potesse confermare il mio sospetto…. Eravate seduti in un angolo…. Non vi accorgeste di me…. Fu un istante…. Tu stavi a capo chino, con le mani strette accoste al mento e miss Nelly si asciugava gli occhi….

—È vero.—Ho bisogno di parlarle—mi aveva detto sotto voce. E con la scusa di mostrarmi un idolo giapponese, regalo di suo fratello alla mamma, arrivato da Lione il giorno avanti, mi aveva condotto nello strano salottino, dove quei piccoli lumi con globi a colore diffondevano fantastica luce attorno all'idolo istallato in un angolo su una specie d'altare.—Sono stata troppo dura e inconsiderata con voi—disse.—Volevo chiedervene scusa per lettera da Kiel; me n'è mancato il coraggio.—Eccesso di delicatezza da parte vostra—risposi.—Lasciatemi parlare—continuò.—Avevate ragione. Allorchè una donna dice a un uomo quel che io ho osato di dire a voi l'altra volta, merita anche una risposta peggiore di quella che voi mi dèste…. Ma io ero turbata da un'illusione; credevo che il mio contegno v'impedisse di aprirmi l'animo vostro, e pensai di porgervi un mezzo per vincere il ritegno che vi faceva indugiare. Mi attendeva uno scatto…. Invece, voi foste glaciale, riserbatissimo. Quando, il mercoledì appresso, già stavate per parlare…. Oh, avevo sofferto tanto in quei giorni di intervallo! Mi ero sentita così avvilita, così offesa dalla vostra inattesa esitazione!…. E v'interruppi bruscamente, con la malvagia volontà di prendermi una rivincita…. Vi prego di perdonarmi; sono stata perversa. Me ne pentii quasi sùbito. L'orgoglio ci fa commettere tante cattive azioni!—Ma niente affatto!…—Sì, sì!… Ditemi che mi avete perdonato,… che mi perdonate! Io non ho saputo indovinare quale sarebbe stata la risposta che stavate per darmi. Se fosse quella che mi ero lusingata di ricevere….—Ah, Nelly!—la interruppi, prendendole le mani che ella abbandonò tra le mie.—È stata una disgrazia! La mia risposta non era, forse, quella che io avrei voluto darvi e che voi desideravate, ma non tale però da precluderci l'avvenire; mentre oggi….—Non mi resse l'animo di andare innanzi. Vidi riempirsi di lagrime quei begli occhi che mi fissavano con vivissima ansietà, e le sue labbra, improvvisamente impallidite, agitarsi per balbettare:—È dunque vero…. quel che mi hanno detto?—Non voglio ingannarvi, non posso mentire; sarebbe pietà troppo crudele, e indegna di voi e di me.—Ella pianse un po' in silenzio. Estremamente commosso, io la pregavo di frenarsi. Se qualcuno fosse venuto a sorprenderci?—La colpa è stata mia!… Debbo scontarne la pena!—ella disse, asciugandosi lestamente gli occhi, e facendo sforzi per rimettersi. Io potevo padroneggiarmi a stento. In quel punto ho capito come mai un'onesta persona possa talvolta lasciarsi indurre a commettere un'inesplicabile infamia. Pensavo all'altra, avevo il cuore, o meglio, i sensi invasati dall'altra, che fidava nella mia parola come io fidavo nella sua, e intanto ci mancò poco, assai poco, che io non mi lasciassi lusingare dalla circostanza di giocare una partita doppia con lei e con miss Nelly. E, guarda stranezza della vita! avrei fatto bene. Per comportarmi onestamente, mi sono, forse, lasciato scappar di mano la felicità!

—E forse—soggiunse Punzi—l'hai fatta perdere a un altro!

—Mi è rimasto nella memoria l'idolo giapponese che ci guardava da quell'angolo con gli occhi di vetro enormemente spalancati, nelle cui pupille si riflettevano le fiammelle colorate dei lumi, e non ho potuto dimenticare le ultime parole di miss Nelly, quasi un singhiozzo:—Sempre tardi!—

—Sempre tardi?… Perchè?…

—È il segreto di quell'anima dolorosa, ed io non ho ardito di domandarle una spiegazione. Sempre tardi! Potrebbe essere il motto di tante buone creature di questo mondo. Motto esplicativo di mille oscure tragedie della vita, non meno triste, anzi assai più triste di quelle che finiscono con un veleno o con un colpo di pistola; tragedie che tormentano lunghe esistenze, e non hanno neppure il compenso di destare interesse e commozione attorno a loro.

—Magro compenso!—esclamò Punzi.

—Dopo, quando miss Nelly non era più qua ed io non sapevo dove poter rintracciarla, ho sentito schiudersi nel mio cuore il germe nascosto di un affetto che avrebbe dato certamente un altro indirizzo alla mia vita. Ed ora che la so morta a Calcutta….

—È morta?

—Lo ignoravi?… Ora mi par di avere qualche cosa che mi si imputridisca nel cuore e vi spanda miasmi deleteri.

—Oh, rassicùrati!—fece Punzi.—Vita mors est, et mors vita, ha detto qualcuno.

DOLORE SENZA NOME

A SALVATORE LI GRECI.

Quella figura di donna sembrava non riuscisse a liberarsi dall'opprimente involucro della creta che ne accennava le forme. Soltanto la testa si ergeva con fierezza, quasi tirasse violentemente in su la massa dei capelli spioventi su le spalle ignude e la schiena arcuata, ma che si confondevano con le carni per mancanza di modellatura. E siccome la stecca dello scultore non le aveva ancora aperto gli occhi, così il bellissimo volto ovale prendeva espressione di tale disperata angoscia da far proprio male a guardarlo.

Che cosa volesse rappresentare con essa il giovane scultore Vittorio
D'Arèba non avrebbe saputo dirlo neppur lui.

Quel doloroso atteggiamento gli era balenato nella fantasia con tanta precisione di particolari, ch'egli si era illuso di poter terminare il bozzetto in due o tre giorni. Invece eran trascorse parecchie settimane, e la tormentata figura femminile apparsagli dinanzi, come balzata a un tratto fuori dal nulla e con tutta l'armoniosa perfezione della forma scultoria, non arrivava punto a vincere le inattese esitanze della mano.

Dati qua e là rapidi colpi di pollice e di stecca, impostati i pezzettini di creta nervosamente spiaccicati o arrotondati tra le dita, e tòltine via, con rabbiosa scontentezza, altri riconosciuti superflui dal severo giudizio dell'occhio, egli rimaneva ritto, immobile, davanti al bozzetto che gli pareva non acquistasse nelle linee e nella fattura l'impronta di spontaneità, di vigore e di vita del bozzetto rappresentatogli dall'immaginazione con mirabile evidenza.

Non avrebbe dovuto far altro che copiarlo, come uno scolare il gesso indicatogli dal professore; e intanto, appena la mano si accostava alla creta accumulata in fretta in fretta sul cavalletto e rozzamente atteggiata nella mossa di quel modello ideale che gli aveva dato il maggior entusiasmo da cui si fosse sentito avvampare finora nei più felici momenti di creazione artistica, egli incontrava una strana invincibile resistenza, quasi il pollice e la stecca si rifiutassero di obbedire all'intelletto che voleva adoprarli.

Caso affatto nuovo per Vittorio D'Arèba, che sapeva di possedere il dono d'una rara facilità di improvvisazione, senza nessun pregiudizio dell'efficace modellatura appropriata a un bozzetto.

Più nuovo assai però era il sentimento di profonda tristezza da cui si sentiva invadere di giorno in giorno nella lotta contro quell'incredibile impotenza che lo teneva ostinatamente chiuso nello studio dalle otto di mattina alle sei di sera, e che gli faceva sfuggire gli allegri ritrovi di amici e di confratelli d'arte da lui frequentati per riposarsi dall'assiduo lavoro giornaliero e per prendervi anche alimento di forze produttive tra le calorose discussioni.

Alcuni dei più intimi amici eran venuti a picchiare più volte alla porta del suo studio nella solitaria casa, in piena campagna, in una traversa di via Flaminia; ma la porta era rimasta inesorabilmente chiusa davanti ai seccatori che lo irritavano con quelle interruzioni e che pareva venissero a posta per fargli smarrire l'impeto di esecuzione proprio sul punto che stava per prorompere trionfante.

Allora egli si lasciava cascare, sfinito, sul vecchio canapè addossato al muro, con le braccia rotte da inesplicabile stanchezza, la testa abbandonata sul petto, e non osava di guardare la maledetta figura che si contorceva, appena abbozzata, col fiero gesto di tirar violentemente in su la massa spiovente dei capelli.

E come quella figura ancora informe sembrava soffrisse orrendamente per l'inane sforzo contro la inesorabile fatalità che la teneva impigliata nell'umido blocco di creta dove si disegnavano appena le curve del seno, del ventre e delle anche, così egli sentiva, ora, di soffrire quanto non aveva mai sofferto, quasi pure il suo spirito si dibattesse impacciato da nodi interiori e non potesse liberamente trasfondersi in quell'opera, che ormai aveva il fascino delle cose vietate o stimate impossibili a esser raggiunte e, ciò non ostante, desiderate e rincorse con indomabile ardore.

Immenso fu poi il suo stupore la mattina in cui si accorse che il sentimento di profonda tristezza dal quale veniva torturato da una settimana, non riguardasse se stesso e la inettitudine di raggiungere la giusta forma della sua opera d'arte, ma fosse invece vivissima partecipazione al disperato dolore di quella figura che cominciava a sembrargli persona viva, forse—egli aveva voluto darsi una spiegazione del fenomeno—per l'intensa e lunga contemplazione che gli faceva scorgere nell'opera non finita di abbozzare l'espressione che gli stava in mente e che avrebbe dovuto animarla se egli fosse riuscito a modellarla fortemente.

—Ma non riuscirò!—sospirava.

Gli sembrava anzi di aver già commesso un delitto, condannando la bellissima creatura—Dove l'avea vista? Come l'aveva conosciuta?—all'ineffabile tortura di quell'atteggiamento da cui egli più non si sentiva capace di liberarla. E quest'idea, dapprima pàrsagli sciocca o pazza, lo penetrava ogni giorno più, gli dava un senso di rimorso, che però non era senza mistura di compiacimento, giacchè non a tutti poteva accadere un caso uguale; ed esso indicava una forza, un potere intelligentissimo in colui che era arrivato, sia pure inconsapevolmente, a quel tentativo.

E per ciò egli tornava tuttavia a chiudersi nello studio di buon'ora e ne usciva a sera tarda. Ma chi avesse potuto osservarlo ritto davanti al bozzetto, con gli occhi fissi in esso, e che guardavano e non vedevano, distratti da qualche oscuro fascino dal quale veniva interrotta la corrente di impressioni tra i sensi e lo spirito; chi avesse potuto osservarlo, specie in quegli ultimi giorni, quando stesa la mano verso la figura con un briciolo di creta su la punta dell'indice, egli si arrestava esitante con un tremito nel braccio, quasi temesse di compire una profanazione posando quel briciolo sul nudo corpo della formosissima donna, quantunque la modellatura ne fosse rimasta più accennata che sviluppata; chi lo avesse, finalmente, osservato nei lunghi intervalli di sosta, buttato sul canapè, col viso contratto, con le mani brancicanti la stoffa di esso in atto di strapparla, non avrebbe mai immaginato che il giovane artista avesse perduto la giocondità di spirito, con cui riusciva gratissimo nei ritrovi e nelle relazioni sociali, unicamente perchè la mancata creazione artistica gli dava la pazza convinzione che una creatura umana soffrisse nell'opera sua.

—Dove l'aveva vista?… Come l'aveva conosciuta?—se lo domandava spesso e inutilmente.

Quella mattina, avviatosi per lo studio, aveva indugiato davanti a una vetrina di acqueforti moderne e di riproduzioni fotografiche di capilavori di pittura.

—Ah!… Sei vivo?

E sentì afferrarsi un braccio dalla poderosa mano dell'amico che lo apostrofava con quelle parole.

—Che fai? Lavori almeno, o ti sei perduto anche tu dietro qualche gonna, come l'imbecille di Dorini?

—Lasciami stare!—rispose Vittorio D'Arèba.

—Scoraggiamenti dunque? Tanto meglio. Soltanto gli sciocchi sono contenti di loro stessi.

—Se tu sapessi quel che mi accade!

—Quel che accade a tutti e che ognuno di noi suppone caso speciale, eccezionale…. Sentiamo!

Giulio Nolli soleva parlare così, con aria tra autorevole e beffarda, che lasciava incerti coloro che non ne conoscevano la vasta cultura e il fine ingegno di critico d'arte, s'egli fosse un gran pedante o un pallone gonfiato di vento.

Vittorio D'Arèba, che ne apprezzava moltissimo i giudizi e i consigli, a quel Sentiamo! si scosse, pentito di essersi lasciato scappar di bocca un principio di confidenza che sarebbe stato assai scortese interrompere.

—Può darsi—rispose.—Tu forse non lo crederai, tu che non stimi, come tanti altri, che la facilità d'esecuzione sia tra le qualità inferiori dell'ingegno artistico (e spesso ti sei compiaciuto di rallegrartene con me) tu non crederai che io stenti da un mese e mezzo a tirar innanzi… una cosina da niente… una figura di donna in vigoroso atteggiamento. Mi è apparsa così davanti agli occhi, mi sta fissa così davanti agli occhi, meglio di un modello reale… e intanto….

—Chi sa che concetto, chi sa che simbolo ti sei messo in testa di esprimere! Giacchè ormai anche voialtri scultori volete contribuire al benessere sociale, alla civiltà, all'emancipazione delle plebi…! E, col pretesto del concetto e del simbolo, fate brutte statue inguardabili o non riuscite a farne neppure brutte.

—Niente affatto, caro mio. Ho veduto, meglio, ho fantasticato, o, meglio ancora, mi si è presentata improvvisamente all'immaginazione questa figura che…. che non so dirti che cosa voglia esprimere con quel suo doloroso atteggiamento; e mi son messo subito ansiosamente a ritrarla, a eseguirla. Credevo di sbrigarmene in due o tre giorni; e son là, da un mese e mezzo, non sapendo come finir di abbozzarla, di abbozzarla soltanto! Questo stranissimo fatto mi ha talmente impressionato, che in certi momenti—non stralunare gli occhi!—mi par d'impazzire.

—Eh! Eh!

—Perchè l'immaginazione mi fa vedere tanta vita in quella figura di donna, da darmi un pungentissimo senso di pena, quasi….—non stralunare gli occhi!—quasi io non mi trovi davanti a un'incompiuta opera d'arte, ma assista, impotente di soccorrerla, al martirio di una creatura umana attratta in un agguato per colpa mia.

—Eh! Eh! Bisogna vedere questo miracolo!

—Quest'infamia, dovresti dire. Mi vergogno di me. Sono incretinito!…. Sto per smarrire la ragione!

—Il primo caso è più probabile.

Ma un'affettuosa stretta di mano fece capire a Vittorio D'Arèba che il suo amico scherzava.

Il giovane scultore si schermì un pezzo contro le insistenze del critico d'arte che voleva accompagnarlo a ogni costo allo studio; alla fine si arrese.

—Mi saprai consigliare.

—Non occorrerà.

Giulio Nolli si arrestò, increspando le sopracciglia, alla vista del bozzetto e, con grande stupore dell'artista, rimase lungamente assorto a contemplarlo da tutti i lati, senza punto curarsi dell'ansietà con cui quegli doveva attendere il responso di lui.

—Oh! È un portento!—esclamò all'ultimo il Nolli.—Hai fatto il tuo capolavoro. Non farai niente di meglio in avvenire, te lo dico io.

—Ti beffi di me?

—E sei davvero incretinito, se non comprendi il valore di quest'opera, che ha un solo irrimediabile difetto—soggiunse il Nolli non ancora sazio di ammirare:—dovrà rimanere quel che è, un bozzetto. Nessuna abilità di esecutore potrà tradurlo in marmo conservandone la freschezza del tocco, l'incompleto. Non ardire di lavorarvi più; sciuperesti questa terribilità di espressione che risulta appunto da quel che il tuo istinto d'artista ti ha preservato di alterare dando maggiore finitezza alla modellatura.

Vittorio D'Arèba era commosso, con gli occhi pieni di lagrime che gli velavano l'opera sua.

Intanto il critico, continuato a profondersi in elogi, a sviluppare ampiamente il concetto risultante da quella tormentata figura, domandava all'artista:

—Tu dunque non hai pensato niente di tutto questo?

—Niente!

—Benissimo. Le vive forze della Natura creano così, con misteriosa inconsapevolezza; e l'ingegno artistico, che è una delle tante forze naturali, non può agire altrimenti. Fa' formare sùbito e poi fondere in bronzo il tuo bozzetto. Sentirai che scoppio alla prossima esposizione!

—Mah…?—fece il D'Arèba con trepidante gesto interrogativo.

—Come battezzarlo? Ecco: Dolore senza nome!

—Grazie!… È proprio così! balbettò lo scultore.

E sentiva dentro di sè tutta l'angoscia di quel dolore senza nome, che intanto gli si trasformava—prodigio dell'arte!—in infinita dolcezza.

L'INGENUITÀ DI DON ROCCO

A GRAZIA DELEDDA.

Dall'anno che gli avevano fatto nascere il dubbio che l'edizione del Barbanera da lui comprata era falsa—e don Rocco Aragona aveva dovuto convincersene perchè di tante predizioni di guerre, di disastri di terra e di mare, di morti di regnanti, terremoti etc., non se n'era avverata neppur una!—egli aveva usato la precauzione di farsi spedire l'almanacco dall'editore di Fuligno, raccomandato: e il giorno che il postino gli recava a casa il grazioso volumetto con la copertina azzurra, era proprio una festa per don Rocco, che si metteva subito a leggere le predizioni, unica cosa di cui s'interessasse.

Il Barbanera gli arrivava ordinariamente verso i primi di novembre, ed egli stava in ansiosa aspettativa fino a' primi mesi dell'anno nuovo, rileggendo di tratto in tratto, le terribili pagine che annunziavano tutti i guai dell'annata, mese per mese, e che, secondo lui, non mancavano mai di avverarsi.

La sua fede nell'astrologo disegnato sul frontispizio era straordinaria.

Ogni volta che suo fratello don Lucio, a desinare o a cena, gli riferiva la notizia letta nei fogli in Casino, don Rocco scattava:

—Barbanera lo aveva predetto!… Terremoto?

—Ma non dice dove—rispondeva don Lucio ridendo sarcasticamente.—A questo modo faccio l'astrologo anche io!

—Barbanera li aveva predetti!… Disastri in mare?

—Sfido! È la stagione.

E così quel lunario era divenuto tra i due fratelli una delle tante occasioni di dissensi, quasi ne mancassero tra loro, a cominciare dalle discordanze che si era compiaciuta di produrre tra essi madre Natura.

Don Lucio passava i due metri di altezza: don Rocco era nàchero.

Magro, vestito sempre di nero, col gran palamidone miracolosamente conservato quasi nuovo, da una dozzina di anni, a furia di spazzole e di cure meticolose, con la tuba ricambiata ogni tre anni, e la grossa canna d'India corrispondente alla statura, don Lucio aveva una gravità di aspetto e di modi da ingannare chi lo vedeva la prima volta avanti di sentirlo parlare. L'illusione spariva appena egli apriva bocca. Siete più bestia di quanto siete lungo!—gli diceva spesso il dottor Lepiro nella farmacia del Gobbo. E non aveva torto.

Basso, tondo, roseo di carnagione, con la pancia sporgente su le gambine un po' curve come quelle di un cavallerizzo, con gli occhi azzurri ma stupidi e la fronte mangiata da capelli folti ed irsuti, don Rocco faceva capire subito quanto poco cervello dovesse essere dentro quella testa piccola a foggia di pera; esso aveva la discrezione di parlar poco e di parlare soltanto di cose di campagna. Mentre don Lucio se la spassava tra il Casino e la farmacia del Gobbo, spropositando di politica e di cose municipali, egli badava alle seminagioni, alla raccolta del grano e degli ulivi dei due possedimentucci che formavano il loro comune patrimonio, e non aveva tempo di occuparsi delle sciocchezze di cui s'interessava tanto suo fratello e che lo rendevano ridicolo.

Don Rocco però era l'amministratore e teneva a stecchetto il fratello che non guardava molto pel sottile nello spendere qualche paio di lire, di tanto in tanto, per certe leccornie ch'egli ordinava alle monache del Monastero vecchio famose pei dolci. A don Rocco quelle poche lire sembravano gran sciupìo: egli solo sapeva quel che ci volesse per metterle insieme. E così al dolce si mescolava sempre per don Lucio l'amaro di una lite a tavola, e il broncio di don Rocco che durava parecchi giorni.

Quell'anno l'almanacco del Barbanera era arrivato appunto dopo una di queste liti, in giorni di broncio, e don Rocco, che soleva comunicare al fratello le predizioni, aveva spinto la dimostrazione del suo malumore fino a nascondere sotto chiave l'almanacco, perchè don Lucio non potesse leggerle neppure nell'assenza di lui.

Don Lucio, che era anche piccoso, gli aveva domandato:

—Che cosa predica l'Astrologo per l'anno nuovo? La prossima fine del mondo?

Don Rocco, guardatolo compassionevolmente, non gli aveva risposto nulla.

Qualche settimana dopo, don Lucio stupiva di veder in tavola uno di quei famosi dolci, pretesto di liti e di bronci tra loro.

—Come mai? Sei ammattito?

—Me l'ha regalato la Badessa, per ringraziarmi di un servizietto.

Don Rocco ne prese appena una fettina e lasciò che il fratello mangiasse golosamente tutto il resto.

La settimana appresso, nuovo dolce.

—Come mai? Regalo anche questo?

—Mangialo, e non badare ad altro.

Don Lucio non se l'era fatto dire due volte e non si era accorto che il fratello avea dimenticato di gustarne un pezzettino.

Egli osservava, con maraviglia, quel mutamento di contegno e avrebbe voluto trovarne la ragione. Don Rocco ora non lo contradiceva più, anzi preveniva i suoi desideri; e siccome il gran debole di lui erano i dolci, egli non ardiva, ogni volta che ne trovava uno in tavola, domandare al solito:—Come mai?—Lo mangiava zitto zitto, ma un po' impensierito. Suo fratello doveva essere vicino a morire, se si mostrava cambiato tanto e quasi tutt'a un tratto!

Da un mese e mezzo, nessuna lite, nessun'ombra di broncio tra loro. Don Lucio si vedeva guardato con una specie di tenerezza compassionevole e s'inteneriva alla sua volta. Ne aveva fin parlato nella farmacia del Gobbo, ripetendo:—Mio fratello morrà presto, non lo riconosco più!—

E trovando ora, quasi ogni giorno, un nuovo piatto dolce in tavola, pur lasciandosi vincere dalla gola, lo mangiava con un senso di rimorso che gliene guastava il sapore.

—E tu? Tu non ne mangi? Perchè?

Due lagrime spuntarono negli occhi di don Rocco e gli scivolarono su per le gote rosee e paffute.

—Che hai? Che cosa è stato?

—Niente!

E don Rocco si levò di tavola per andare a chiudersi nella sua camera.

Don Lucio rimase interdetto.

Prima di mettersi a tavola, suo fratello gli aveva domandato più volte:

—Come ti senti?

Perchè? Egli si sentiva benissimo, non si era anzi mai sentito così bene come allora. Che cosa significava dunque quella domanda? Era malato e non se n'accorgeva? E volle saperlo.

—Mi hai domandato più volte: Come ti senti? Perchè? Che ti pare?

Invece di rispondere alla domanda, don Rocco avea domandato alla sua volta:

—Non ti senti proprio niente?

—Che cosa dovrei sentirmi? Mi metti paura.

—Non badarmi. Mi sono ingannato… Credevo….

Il giorno dopo, don Lucio fu stupito di due cose; della vista di due piatti dolci invece di uno e della presenza del dottor Lopiro straordinariamente invitato a desinare.

Il dottore, prima di mettersi a tavola, gli avea sussurrato in un orecchio:

—Vostro fratello vuol proprio morire! Inviti a pranzo, dolci!… o ammattisce, come voi dite.

Don Rocco aveva un viso così strano, così funebre che suo fratello proruppe:

—Ma che hai? Si può sapere?

—Che ho?… Che ho?… Ne abbiamo quindici oggi?

—Ebbene?—fece il dottore.

—Dottore, non mi chiedete altro! E tu mangia tranquillo…. Due dolci!… Voglio mangiarne anche io…. quantunque mi piacciano poco….

Ma si vedeva benissimo che faceva un gran sforzo per apparire allegro. Teneva fissi gli occhi in viso al fratello, quasi si aspettasse da un istante all'altro qualcosa di straordinario, e nello stesso tempo si maravigliasse di non vederlo accadere. Verso la fine del pranzo arrivava il canonico Stella.

—Avete voluto che venissi a prendere il caffè da voi…. Che belle notizie?… Sponsali prossimi?

Don Rocco sembrava istupidito, e don Lucio peggio di lui. Nel versare il caffè al canonico la mano di don Rocco tremava.

—Avete sentito?—disse il canonico.—È morto Bismarco. I francesi saranno contenti…. Sì, molto zucchero…. altrimenti il caffè non mi fa digerire… E anche voi, don Rocco.

—Io? chi lo conosce costui?—rispose don Rocco.

—Il vostro Barbanera ha indovinato. Morte di un alto personaggio! annunziava per la prima quindicina di questo mese.

—Era alto!… Più alto di Lucio?—balbettò don Rocco.

—Un omaccione, dicono. Ma non si tratta di questo. Alto significa: importante: alti personaggi sono i re, il papa, certi ministri….

E vedendo il viso che faceva don Rocco nell'udire questa spiegazione, il canonico Stella e il dottor Lopiro scoppiarono in una gran risata. Il canonico, preso da un colpo di tosse, sbrufava il caffè che stava per sorbire.

—Che vi eravate… figurato? Ah! Ah! Ah!

Don Rocco piangeva dalla contentezza. Sì, si era figurato—lo confessava ingenuamente—che il Barbanera indicasse…. E non avea voluto dir niente al suo povero fratello, e avea cercato di farlo morire sazio di piatti dolci… almeno!… Un alto personaggio!… Oh! Egli aveva passato due mesi d'inferno, con la gran paura di vederselo cascar davanti, morto di un colpo!… Sapeva assai lui che alto volesse anche dire!…

Solo don Lucio non rideva, pensando che il fratello ora gli avrebbe fatto scontare tutti quei piatti dolci datigli a mangiare in due mesi!

E infatti….

=OH, QUEL SILENZIO!=

AL DOTTOR MARIANO SALLUZZO.

Perchè non rispondeva mai? Perchè—visto che le mie recriminazioni erano ingiuste,—ella non si ribellava, con la parola, col gesto, con lo sguardo almeno? Taceva! E dal suo bianco volto non traspariva niente di quel che doveva certamente vibrare in fondo alla sua anima contristata.

Ora io capisco quanto sono stato crudele, e per ciò non so perdonarle neppur dopo morta. E se talvolta penso che forse ella mi ha compatito e mi ha perdonato, il profondo rancore contro di lei, mi rende quasi pazzo. La sua vendetta è terribile!

Ero geloso, sì, stupidamente geloso, irragionevolmente geloso; ma non doveva ella intendere che la mia gelosia proveniva da eccesso di amore?

Lo ha compreso e per questo taceva? No, amico mio; lo avrei indovinato. Quella sua anima è rimasta un tetro mistero per me.

Me la veggo sempre dinanzi, bianca, esile, con gli occhi azzurri limpidi e luminosi che sembravano un lembo di cielo sorridente; con le labbra leggermente rosee, che conservarono fino all'ultimo la loro freschezza simile a quella di un fiore umido di rugiada; con la espressione di dolcissima grazia, che dava alla sua persona l'apparenza di una creazione di arte più che di terrena realtà. Ed ho sempre nell'orecchio il suono della sua voce, le inflessioni della sua parola che si modulavano in deliziosa melodia, e mi commovevano e mi turbavano come una carezza spirituale anche nei momenti più spietati delle mie gelose irruzioni; e all'idea che ella ha potuto sopportare rassegnatamente le torture che le ho inflitto per due anni, ora per ora, giorno per giorno, incessantemente, raddoppiando tanto più la mia ferocia quanto più la vedevo docile, rassegnata a quella tortura, e senza che io abbia mai potuto scoprire quali sentimenti si nascondessero sotto così incredibile docilità, sotto così inesplicabile rassegnazione, sento vacillarmi la ragione; e sento di odiar Gemma, ora che non è più, per lo meno quanto l'ho amata ed adorata vivente.

Ti sembra forse possibile che una donna rimanga la stessa, di fronte a un'inattesa e quasi improvvisa mutazione dell'animo di colui che le avea promesso la felicità e le dava l'inferno?

Non dirmi: Perchè no? Tenti invano d'illudermi e di consolarmi. Non voglio essere consolato. La mia sciagura è ormai irreparabile.

Ella ha voluto andar via, senza darmi la sodisfazione di una risposta qualunque. Si è lasciata morire, impenetrabile al pari di quelle Sfingi che spalancano gli occhi privi di sguardo in faccia ai viaggiatori tra le arene che circondano le Piramidi egiziane, e non interrogano nè rispondono da mille e mille anni. Così lei.

Ho quasi perduto, a furia di pensarci su, la nozione del tempo. La interrogo da quattro anni, o da un'infinità di anni questa misteriosa Sfinge che mi è stata davanti prima viva e mi sta egualmente davanti morta, e che da morta non risponde alle mie insistenti interrogazioni, come non rispose mai, mai, da viva! In certi momenti non saprei dirlo.

Mi sembra che tutta la mia vita sia trascorsa in questo atteggiamento di continua interrogazione, in quest'ansiosa aspettativa di una risposta, in questa desolata disperazione di riceverla, un giorno!

Ella ha voluto vendicarsi in questo modo, e non poteva trovarne un altro più straziante e più crudele.

Se fosse stata rassegnata davvero, negli ultimi istanti, quando mi fissava in viso gli azzurri occhi già velati dall'agonia, dicendomi con un fil di voce:—Non ti vedo più! Una nebbia mi circonda!—in quegli ultimi momenti almeno ella avrebbe dovuto dirmi una parola rivelatrice, una sola parola…. Niente!

Fosse anche stata una parola di disprezzo, di odio, di maledizione, ne sarei stato sodisfatto; almeno avrei saputo qualche cosa, all'ultimo!… Ma no, ha voluto andarsene muta, chiusa, senza uno sguardo, nè un gesto, nè una sillaba che mi rivelasse il segreto del suo cuore, del suo spirito. Ella! Ella che, prima, quando l'amavo e non ero ancora geloso, mi sembrava trasparente come un cristallo, limpida come un purissimo diamante. Allora mi bastava guardarla negli occhi per scoprire le più lievi sfumature di sentimento nei fondi penetrali del suo cuore, per afferrare i più rapidi pensieri che le illuminavano come lampi la mente, dietro quell'ampia fronte che sotto i neri capelli ondulati sembrava di finissimo avorio!

E appena gli artigli del mostro dagli occhi verdi mi si conficcarono nel cuore, appena le prime mie ruvide mosse d'impazienza, di sospetto, di rimprovero le fecero intendere la divoratrice passione che cominciava ad invasarmi, ella mi apparve un'altra tutt'a un tratto. Il suo cuore si ottenebrò, ed io non potei più leggervi nulla; la sua fronte diventò opaca, quasi la bella creatura vivente si fosse mutata in statua che non ha anima, ma soltanto linee e rilievo di bellezza, espressione esteriore che fa comprendere il concetto voluto significare dall'artista, ma che non penetra, non pervade il legno la creta o il marmo di cui essa è formata.

Se non che, invece, io sapevo che dentro quella statua c'erano e il cuore e l'anima e lo spirito; e intanto, tra essi e me si opponeva, insuperabile, quel silenzio che pareva mi tenesse chiusa in faccia una porta di bronzo a cui invano picchiavo; di cui le mie mani, battendo, quasi sentivano il diaccio; e che non risonava neppure, tanto era solida, fusa tutta d'un pezzo. L'immagine di questa bronzea porta, in certi momenti, si mutava nella mia alterata immaginazione in cosa reale.

E mentre il mio geloso furore provocato da un nonnulla (ora lo capisco) prorompeva in parole sconnesse, in urli, in gesticolazioni da mentecatto, e Gemma mi stava immobile davanti, senza mutar di colore, senza che nei bei occhi le si accendesse un baleno d'indignazione o di pietà, senza che le sue rosee labbra s'increspassero lievemente sotto il vituperio di accuse, di sospetti, di insulti che la investiva, io ero tentato di percuoterla al petto, dove mi sembrava fosse quella inespugnabile porta di bronzo…. E non mi spauriva l'idea di commettere anche un delitto!

No, ella non ha avuto nessuna pietà di me! Se ne avesse avuta, si sarebbe difesa, avrebbe protestato, avrebbe pianto; avrebbe risposto alle accuse con altre accuse, ai sospetti con altri sospetti, agli insulti con altri insulti, a torto o a ragione, non voleva dir nulla…. No, no, ti ripeto, non ha avuto nessuna pietà di me! Si è vendicata con quel terribile silenzio, con quell'orrida rassegnazione, e senza mostrare, neppur con un cenno, che si stimasse vittima innocente…. della mia stolta gelosia!

Fece peggio! Mi nascose il suo male, si lasciò struggere a poco a poco; e soltanto pochi giorni prima della catastrofe, quando ogni sua energia era finalmente esaurita, soltanto allora mi annunziò con voce esile ma ferma:

—Dino, mi sento morire!

Ed io, sciagurato, non lo credetti! E il giorno che non potei più dubitare,… sai tu qual fu il pensiero che mi sconvolse, che mi riempì gli occhi di infocate lagrime di rabbia?—Ella mi sfugge! Ella mi sfugge! Ella se ne va senza dirmi il suo segreto!—Ed è stato così! Così!

E tu dici: Era una santa!—Una santa senza pietà? Senza carità? Oh no!
Il perdono non è muto….

UN'ARIA DI CIMAROSA

A BRUNA.

Tra i ricordi della mia fanciullezza—disse Forcelli—c'è una gentile figura….

—Vizioso fin da bambino!—lo interruppe Miozzi, ridendo.

—…. una gentile figura di vecchina—continuò Forcelli senza badargli—che mi torna alla memoria ogni volta che sento qualche spigliata melodia del secolo scorso. Era cugina di mio padre e viveva, sola sola, in una casetta più vecchia di lei, dove tutto era vecchio come lei e d'onde tutto è sparito con lei, molti e molti anni fa. Si è salvata dal disastro—e non so come—soltanto una spinetta barcollante sui tre piedi, con la cassa tarlata anche allora, coi tasti ingialliti e sconnessi e col pedale rotto e accomodato alla meglio con spago. Ho voluto lasciarla tal quale, e la tengo in un canto del mio studio per ricordo di colei che mi ha fatto godere le più dolci impressioni musicali di vita mia. Ho detto: più dolci e non più intense, caro maestro—egli soggiunse, rivolgendosi a colui che scoteva la testa protestando e quasi commiserandolo, da quel rabbioso wagnerista che era.

—Volevo ben dire!—rispose questi.

—Andavo spesso dalla cugina, come tutti la chiamavamo in famiglia, perchè ella mostrava una grande predilezione per me. Ero il vivente ritratto del nonno, secondo lei; e infatti ella mi aveva imposto il soprannome di Nonnino. Confesso che abusavo volentieri di questo privilegio, permettendomi in casa sua tante e tali capestrerie, delle quali il babbo e la mamma non avrebbero tollerato le più piccole e più innocenti.

—Ah, Nonnino! Nonnino!—ella mi sgridava, minacciando con l'indice della mano destra.

Ma subito rideva.

Ora, uno dei miei più piacevoli divertimenti consisteva, in principio, appunto nel tempestare con le mani, quasi coi pugni, sui tasti di quella misera spinetta, che fremeva e strideva con tutte le corde di rame e sembrava chiedere aiuto contro lo strazio che le infliggevo.

La cugina accorreva da qualunque punto della casa, curva, strascicando le ciabatte, sgridandomi da lontano:

—Ah, Nonnino! Nonnino! No, no; la spinetta, no! Questa non si tocca.

E infatti non la toccai più dal giorno, che la cugina, per indurmi a lasciare in pace il suo caro strumento, mi disse:

—Quando vuoi, suono io la spinetta e ti canto anche una bella canzonetta che potrai imparare a memoria.

—E a suonare m'insegnerai?

—Non saprei insegnarti, Nonnino mio!

Così mi contentai della canzonetta, accompagnata dall'argentino frinire di quelle corde, che oggi, a confronto del suono di un pianoforte, sembrerebbe ronzìo di zanzara.

Oh, non era una sonatrice e nemmeno un'abile cantante! Sapeva fare pochi accordi e replicava sempre quell'unica canzonetta allegra, spigliata, che assumeva nello stesso tempo un'espressione malinconica pel suono tremulo della voce. Anche gli accordi tremolavano, perchè le dita della vecchierella avevano perduto ogni agilità. A me, canzonetta ed accordi sembravano cosa maravigliosa, e volevo riudirli più di una volta, di sèguito, quando andavo dalla cugina.

—Come si chiama questa canzonetta?—le domandai un giorno.

—Il matrimonio segreto.

—E chi l'ha fatta?

—Il maestro Cimarosa.

—Lo conosci?

—No.

—Dunque, come l'hai appresa?

—Me l'ha insegnata… mia madre.

—Che vuol dire: matrimonio segreto?

—Vuol dire che si sono maritati di nascosto.

—Perchè?

—I parenti forse non volevano.

—Ti sei maritata di nascosto tu?

—Non mi sono maritata mai!

—Perchè?

Oh, gli importuni e inevitabili perchè dei bambini!

La cugina, quella volta, tentò di sorridere: ma, accarezzandomi i capelli e balbettando:—Perchè…. Perchè….—aveva le lagrime agli occhi.

Ella era morta da un pezzo quando, tornato dall'Università, rividi in casa nostra la spinetta a lei così cara. Mi rivenne subito alla mente quella scena dimenticata, e fui commosso per l'intimo triste dramma che l'aria o la canzonetta (come ella diceva) di Cimarosa lasciava immaginare.

Io non ho visto rappresentare il Matrimonio segreto del gran musicista d'Aversa, o non ho mai voluto riudire da altra voce la canzonetta della quale ho dimenticato le parole e il motivo, pur conservando la indefinita sensazione dell'allegra e alata melodia, a cui la tremula voce della cugina comunicava anche un senso di dolce tristezza. Mi sarebbe parso di profanare qualche cosa di sacro, sovrapponendo all'infantile e delicata sensazione una sensazione recente che, forse, avrebbe potuto affievolirla o farla sparire.

E, per ciò, conservo nel mio studio la tarlata spinetta, di cui parecchie corde sono già rotte e attorcigliate e i tasti più sconnessi di una volta e il pedale guasto e accomodato con spago.

Spesso, fumando una sigaretta, sdraiato su una poltrona, mi compiaccio di fantasticare la misteriosa tragedia del cuore della vecchia cugina, e penso che la canzonetta di Cimarosa ha dovuto essere per lei un'ineffabile consolazione nella lunga tristezza della solitaria sua vita.

NON PREDESTINATO?

A GIUSEPPE COSTANZO.

—Io non credo alla fatalità—disse Oddo Remossi—almeno nel modo in cui generalmente s'intende. Per quanto si voglia ingrandire l'azione e l'influenza delle circostanze esteriori ed ereditarie, resta sempre un largo margine dove può trovar posto la libertà individuale. Solamente avviene che noi non ci opponiamo a bastanza a quelle forze, diciamo, nemiche che ci stanno dattorno. Spesso, pur troppo! non ne abbiamo il tempo, nè il modo. La vita c'incalza; la stessa civiltà che dovrebbe renderci più indipendenti e più liberi, ci costringe a una schiavitù di atti e di pensieri di cui non ci rendiamo mai conto. Oggi nessuno di noi avrebbe il coraggio di soffiarsi il naso con le dita, come il gran Cavaliere della Mancia e qualche raro contadino attuale. La schiavitù del fazzoletto vi sembra poca cosa? Ne ridete? Ebbene, tant'altre schiavitù di idee non sono meno ridicole di essa. Rifletteteci un po', e ve ne avvedrete.

—Che c'entra tutto questo con la fatalità?—disse Mazzani.

—C'entra—rispose Remossi—perchè noi sogliamo chiamare fatali quei fatti dei quali non riusciamo a scorgere la concatenazione e la logica.

—Troppa filosofia e, mi sembra, sprecata a proposito di un avvenimento così meschino e comune come quello di cui ragioniamo!

Gramoglia aveva parlato senza togliersi di bocca il sigaro gustato beatamente, stando sdraiato su la poltrona, su la sua poltrona, da lui chiamata così perchè ogni volta che si trovava nello studio dell'amico Remossi la voleva per sè, o preferiva di restare in piedi se era già occupata da un'altra persona.

—Secondo te—soggiunse continuando a fumare—io dovrei ribellarmi alla schiavitù della mia poltrona che stimo tanto comoda e tanto dolce. Perchè?

—Con voialtri è impossibile ragionare!—esclamò Remossi.—Ne volete la prova? Vi racconterò un fatto. È autentico, autenticissimo; non lo invento per comodo della discussione. So già, anticipatamente, il giudizio che ne darete, e sarà la conferma di quel che sostengo.

—Non usciamo però dalla specie di fatti dei mariti fatalmente predestinati…. Ce n'è parecchie categorie. Quella di coloro che non hanno occhi per vedere, nè orecchie per sentire; quella di coloro che vedono e sentono e si rassegnano al loro destino; quella di coloro che si ribellano inutilmente, giacchè un fatto è un fatto e niente può annullarlo dopo che esso è avvenuto. Un marito che ammazza la moglie infedele o l'amante….

—È superfluo che tu balzaccheggi; la Fisiologia del matrimonio l'ho letta anch'io. Che cosa voglio provarvi? Che noi ci siamo appunto resi schiavi di un pregiudizio, o di un sentimento ridotto tale. Non ci sono predestinati nel matrimonio, ma, invece, mariti sciocchi, imprevidenti, incuranti, mariti nervosi, irragionevoli, delinquenti….

—Se non è zuppa è pan molle—lo interruppe Mazzani.—Ma è meglio che tu racconti il fatto. Riprenderemo a discutere dopo.

—Eccolo—fece Remossi—coi tre soliti personaggi Ella, Egli, Lui. Dispensatemi dal dire i nomi, quantunque non ci sarebbe niente di male se io li rivelassi. Ma si tratta di un fatto intimo, saputo per caso, e la malvagità umana è tale da poter sospettare che le cose siano andate altrimenti di come io le ho apprese.

—Non sei assolutamente certo, dunque!—disse Gramoglia.

—Certissimo. Non ho conosciuto un uomo più savio di…. (Mi avvedo che bisogna ribattezzare i miei personaggi per evitare confusione) di Roberto Cagli. La natura e le circostanze lo avevano singolarmente dotato. Era quasi ricco, di eccellente famiglia, e bell'uomo per giunta. Aveva studiato molto, senza prendere una professione. Le professioni stimava tiranne, e voleva godersi le fortunate circostanze che gli permettevano di restare indipendente da tutto e da tutti. Soleva dire:—Uomo perfetto è colui che può conservarsi selvaggio in mezzo alla civiltà.—Per lui selvaggio era sinonimo di libero. A trentacinque anni aveva sposato la donna eletta dal suo cuore, bella e colta a bastanza. Vero matrimonio di amore, perchè la signorina… Balestri poteva portargli appena un modesto corredo per dote. I primi anni del loro matrimonio erano trascorsi felici, e la felicità, evidentissima, dei due sposi destava ammirazione ed invidia. Nessuno però osava pensare d'intorbidirla. La signora Cagli veniva stimata una di quelle donne che, anche per indole, rimangono superiori a ogni insidia. Ma, pur non essendo diversa la convinzione di suo marito, egli non tralasciava di tenerla d'occhio, di osservarla senza averne l'aria e lasciandole amplissima libertà. Qui entra in scena lui, il terzo, il serpente tentatore, secondo la leggenda, se può dirsi tale uno che in un certo momento, nel momento più pericoloso e quasi decisivo, rinunziava alla sua parte: era, naturalmente, il più intimo amico del marito. Conformità di sentimenti e di idee, oltre a circostanze delle due famiglie, avevano legato Roberto Cagli ad Adolfo Gissi con un'amicizia più che fraterna sin dai primi anni della loro giovinezza. Avevano studiato insieme, e fatto insieme qualche piccola stravaganza. Il matrimonio dell'uno, che sembrava avesse dovuto rallentare la loro intimità, l'aveva anzi rafforzata. Era un bell'uomo anche Gissi, di carattere gioviale però, e con parola facile e colorita, che formava un po' di contrasto col carattere più serio e contegnoso del suo amico.

La signora Cagli, da principio, si sentiva quasi intimidita davanti a quell'espansione di allegria che il Gissi metteva nella conversazione ogni volta che veniva a trovarli o che era invitato a pranzo, cosa che accadeva una volta la settimana, a giorno fisso. (Cagli aveva voluto mantenere quella sua abitudine di scapolo). Poi….

Una mattina, non ricordo per quale circostanza, Roberto Cagli era andato dal suo amico, e lo aveva sorpreso occupatissimo a preparare le valige.

—Parti?

—Intraprendo un lungo viaggio.

—Come mai non me n'hai detto niente?

—Sarei venuto ad accomiatarmi questa sera.

—E dove vai?

—Non lo so; lontano.

—Che mistero è questo? Hai tu dunque dei segreti per me che per te non ne ho avuti mai?

Gissi lo guardò negli occhi; anche il suo amico lo guardava intentamente; pareva volessero scrutarsi a vicenda.

—Che ti accade?—disse Cagli.—La nostra amicizia mi dà il diritto di farti questa domanda con la certezza di ottenere una schietta e sincera risposta.

—Forse non hai bisogno che te la dia—rispose Gissi.

—Non capisco. Commetteresti una indegna azione se non mi dicessi la verità.

—Vi sono cose in questo mondo che non si possono nè si devono confidare neppure al più intimo amico.

—A un intimo amico qualunque, sì; non a me.

E tutti e due rimasero interdetti di parlarsi con tanta insolita severità.

—Hai ragione!—esclamò Gissi dopo un istante di esitanza.

Si passò due o tre volte una mano su la fronte, fece qualche sforzo quasi per trattenere le parole che stavano per sgorgargli dalle labbra, poi, prorompendo, disse:

—Parto perchè… amo tua moglie!

—Ella lo sa?—domandò tranquillamente Cagli.

—Sì—rispose Gissi, chinando dolorosamente la fronte.

—Non c'è altro?…

—Oh! Sono gentiluomo e sopratutto amico; non dovresti dubitarne un solo momento.

—Non ne ho dubitato, e non ne dubito. Mi ero accorto che mia moglie cominciava ad amarti. È un'anima nobile ed onesta anche lei. Di che cosa avete paura tutti e due?

—Della nostra fragilità. Come non intendi…?

—La tua partenza, in ogni caso, non rimedierebbe a nulla.
Peggiorerebbe la situazione. Sei un uomo?

—Lo vedi. Un altro….

—Precisamente perchè non sei quest'altro tu devi restare. Se ti ostinassi a partire, io avrei ragione di supporre che cedi a un tardivo rimorso.

—No, te lo giuro!

—Non occorreva giurarmelo.

—Restando non potrei più frequentare la casa tua. Che direbbe la gente?

—Non mi sono mai curato di quel che la gente può pensare o dire di me e dei fatti miei; intanto non avrà da pensare e da dir niente, perchè tu continuerai, tu devi continuare a frequentare la mia casa come hai fatto finora. Sei un uomo? Il tuo dovere è di vincere te stesso. Dammi la tua parola di onore che farai come io voglio.

Per quanto Gissi conoscesse l'animo del suo amico, non rinveniva dallo stupore di sentirlo parlare a quel modo. Gli era balenato il sospetto che quella tranquillità apparente nascondesse un tranello; l'uomo non è sempre un eroe, in ogni circostanza, anche quando è dotato di tutte le qualità che producono l'eroismo, egli pensava. Ma il rapido sospetto era sparito dopo le ultime parole del suo amico.

—Ti dò la mia parola di onore!… Rifletti però… te ne prego.

—Per lei, forse? Senti: io sono sicuro di vedere un prodigio. Non credo alle passioni fulminanti, al coup de foudre dello Stendal. Noi commettiamo cattive azioni, perchè ci diciamo che non sapremmo non commetterle, intendo parlare specialmente delle cattive azioni passionali. Se guardi bene dentro te stesso, vedrai che tu hai lusingato, accarezzato, e non inconsapevolmente, sensazioni che avresti potuto con facilità soffocare nel momento che cominciavano a determinarsi. La tua rettitudine di animo ti ha ora suggerito un mezzo violento che, come tutte le violenze, può produrre, anzi, produrrà certamente effetti contrari a quelli preveduti. Se vuoi la tua, la mia e la tranquillità di lei….

Insomma Gissi dovette arrendersi in faccia a così incredibile mitezza.

Avvenne, lo stesso giorno, una scena che può sembrarvi strana ma che raggiunse lo scopo voluto. Gissi non se l'aspettava. Era andato, come per una solita visita, in casa del suo amico. La signora Cagli si trovava in salotto col marito che l'avea pregata di suonare mentre egli finiva un sigaro dopo la colazione.

—Continua!—disse alla moglie che cessava di suonare all'inattesa apparizione.

Ella sapeva che Gissi doveva partire senza più rivederla, dopo che in un istante di debolezza si erano lasciati sfuggir di bocca il loro reciproco segreto, o piuttosto dopo che l'imprudenza di Gissi le aveva strappato una confessione che l'aveva fatta piangere indignata contro di lui e di sè stessa.

E soltanto per nascondere il suo turbamento, riprese a suonare; smise dopo poche battute.

—Dunque—disse Roberto Cagli—voi due vi amate o state per amarvi…?

Gissi scattò in piedi, pallido, portando disperatamente le mani alla testa; la signora chinò la fronte sul leggìo del pianoforte mezza svenuta.

—Non vi sembra di essere ridicoli?—soggiunse Cagli.—Vorreste diventare due volgari adulteri? Eh, via! Eh, via!

Il colpo era fatto.

Gissi e la signora si trovarono, con una mossa involontaria, l'una di faccia all'altro, l'una con gli occhi in quelli dell'altro, ridicoli come quegli aveva detto, nient'altro che ridicoli, e rossi tutti e due dalla vergogna di riconoscersi tali, mentre nei giorni scorsi si erano creduti sopraffatti da fiero tragico destino.

E tutto finì là!

—Caro Remossi—disse maliziosamente Gramoglia—dobbiamo proprio crederti?… Tutto finì là?

—Io ti credo—soggiunse il Mazzani.—Hai raccontato con troppa calorosa sincerità e con troppi particolari, da non lasciar nessun dubbio su la veridicità del fatto…. Ma esso non prova niente contro la teorica dei predestinati. Il tuo amico Roberto Cagli non era del bel numero; ecco tutto.

CHI SA?

A FANNY ZAMPINI-SALAZAR.

Era scettico ed egoista? O si compiaceva, per vanità, di mostrarsi tale?

Io gli volevo bene, non ostante i suoi grandi difetti; probabilmente per essi. Vi sono cattive qualità che attraggono in modo straordinario; forse perchè dànno l'illusione di nascondere, sotto la loro malvagia apparenza, qualità opposte, degne di ammirazione e che servono da compenso. Il fascino di certi delinquenti, di certe malefiche donne può spiegarsi così.

Federico Toacci aveva l'impudenza delle sue azioni, e questo faceva qualche volta sospettare ch'egli esagerasse raccontandole.

Soleva dire:

—Io non credo all'abnegazione e al sacrificio perchè le stimo virtù inumane; e per ciò non li pratico.

Il dovere di ogni individuo consiste nel procurarsi, con qualunque mezzo, quel che può soddisfare i suoi bisogni, i suoi desideri, e renderlo felice.

La morale è stata inventata da colui che voleva impedire agli altri il conseguimento di un bene creduto degno di esser riserbato a lui solo.

Il codice è il libro più prezioso del mondo perchè indica la maniera come si possa nuocere agli altri, evitando di nuocere a sè stessi.

L'amore non vale il tempo, le forze e i quattrini che si sciupano per acquistarlo. Bisogna prenderlo come viene, quando viene, da chiunque viene, senza guardar molto pel sottile. Tanto, esso è una sciocchissima cosa, di cui abbiamo fatto il pernio della vita forse per dimostrare che la vita non vale niente di meglio.—

E se qualcuno gli faceva notare che parecchie sue azioni contradicevano gli aforismi da lui solennemente e ripetutamente proclamati, egli rispondeva:

—Il poter fare il contrario di quel che si pensa e si sente è la miglior prova che uno possa dare a sè stesso della propria assoluta indipendenza e della libertà che possiede.

Una volta mi disse:

—Cattiva giornata oggi! Ho dovuto fare una buona azione, con la semplice lusinga che essa ne faccia commettere parecchie cattive.

—Che cosa hai fatto?

—Ho prestato mille lire a un tale che non ardiva di chiedermele perchè era certo—diceva—di non potere restituirmele.

—Ebbene?

—Non capisci che se fosse stato vero, me le avrebbe invece insistentemente richieste?

—Te le restituirà dunque.

—No, giacchè ora sa che io non conto più su la sua restituzione.

—Perchè gliel'hai date?

—Per togliermi la tentazione di credere che vi sia una persona onesta in questo mondo.

—E se, contrariamente a quel che tu sospetti, costui verrà a restituirti, presto o tardi, le mille lire?

—Penserò che, tra qualche tempo, vorrà chiedermene dieci mila, per fare un colpo più grosso. L'onestà è un calcolo profondo; è l'impiego d'un capitale ideale con gl'interessi al mille per cento….

—Oh!…

—…. in questo, o nell'altro mondo per coloro che credono.

—Eppure tu fai tante cose in ossequio alla morale, alle leggi, alle convenienze sociali!

—L'uomo non è perfetto. Vuol dire che sono un onesto anch'io, a intervalli, a grandi intervalli per fortuna.

Sì, era vero: Federico Toacci godeva la vita senza scrupoli, senza ritegni, al pari di tanti altri, che però si guardano bene di formulare in ispietati aforismi le norme della loro condotta.

Rimasto libero a ventidue anni da ogni soggezione di famiglia, educato fuori di casa, lontano, a Parigi e a Londra—perchè i suoi genitori si erano divisi quasi subito dopo la nascita di lui e il padre non avea voluto impacci tenendolo presso di sè come gli era stato accordato dalla legge, nè la madre si era più ricordata, nel disordine della sua esistenza, di avere un figliuolo—bello, straricco, sviluppato precocemente in ambienti dov'era difficile farsi una ben chiara idea del bene e del male, egli si era formato da sè una particolare filosofia sperimentale e aveva conformato ad essa tutti gli atti della sua vita.

Spesso mi viene il sospetto ch'egli fosse un sentimentale camuffato da scettico e da egoista. Era certamente un orgoglioso che non voleva essere ingannato da nessuno, e che pel timore di far ridere della sua bontà naturale e della sua buona fede, s'inducesse, come ho detto, ad esagerare le apparenze dal lato cattivo.

Ricordo, a questo proposito, due fatti.

Primo, un gran pranzo dato da lui. La lettera d'invito diceva: Per celebrare un mesto avvenimento. N. B. In abito chiaro.

La tavola era sparsa di crisantemi bianchi. La tovaglia e i tovaglioli orlati a lutto. Le massicce fruttiere d'argento, velate di crespo nero.

Nessuno degli invitati si era maravigliato di quella stravaganza, ma tutti eravamo curiosissimi di saperne la ragione.

Allo sciampagna, rizzatosi in piedi e tenendo con una mano la coppa ricolma, egli disse con tono scherzevole:

—Un'umile ragazza si è suicidata… per me. È il primo caso che mi càpita. Lascio cascare una lagrima nella mia coppa, e bevo in onore di quest'avvenimento, che può essere una verità o una menzogna. Amici, fate altrettanto!

Nessuno di noi osò di bere.

Egli vuotò la coppa, ci guardò sorridendo ironicamente ed esclamò:

—Mi compiaccio di apprendere che ho ancora qualcosa da insegnare ai miei amici.

Io gli dissi:

—Tu hai paura di sembrare commosso a chi fai pena.

—Mi mancava soltanto la commiserazione di qualcuno!

E accese con indifferenza una sigaretta.

Il pranzo finì freddamente.

Due anni dopo, accompagnavo un amico di provincia che voleva osservare non ricordo più qual monumento al camposanto.

In quella sera di ottobre, col cielo coperto di nuvole, un po' umida e fredda, la città dei morti era deserta. Per ciò fui stupito di scoprire, in fondo a un viale, un uomo inginocchiato davanti a un monumento che non avevo avuto occasione di vedere prima e che sembrava bello anche da lontano. Sur un piedistallo di marmo scuro, un angelo di bronzo spiegava le ali levando in alto le braccia aperte, quasi stesse per spiccare il volo verso il cielo e in atto di offerta.

Ci accostammo.

—Tu!—esclamai maravigliato, riconoscendo Federico Toacci.

E mi chinai a leggere l'iscrizione. Essa diceva:

A UN'UMILE MORTA PER AMORE

Guardai Federico con lunga occhiata significativa.

—T'inganni—egli disse col solito ironico accento, tirandomi da parte.—Questo monumento mi è servito bene presso altre donne. Ho dato appuntamento qui a una bellissima signora che vuol essere commossa prima di tradire il marito. Ha tante furberie il cuore umano!… Mi rincresce che ella sia in ritardo. Volevo farmi sorprendere ginocchioni davanti a questo monumentino…. Fammi il piacere di allontanarti col tuo amico…. Eccola—soggiunse, indicandomi una signora vestita a bruno che s'inoltrava pel viale.

Invece, quella signora, brutta e vecchia inglese, ci passò davanti, si fermò un istante ad osservare con l'occhialino l'angelo che spiegava le ali, e torse a destra infilando un altro viale.

Io feci in modo da accertarmi, non visto, se Federico Toacci si fosse ingannato, e mi avesse detto la verità.

Lo vidi andar via dopo un pezzo, guardando cautamente attorno, senza che nessuna signora fosse venuta a sorprenderlo ginocchioni davanti al monumento da lui eretto all'umile suicida per amore.

Così mi è nato il sospetto che ci siano al mondo anche gl'ipocriti dello scetticismo e dell'egoismo, e che il mio amico fosse di questi.

È morto di tifo a trentacinque anni, e nessuno ha potuto conoscere con certezza se egli sia stato proprio scettico ed egoista, e se si sia compiaciuto, per vanità, di mostrarsi sempre tale.

LA EVOCATRICE

A CORDELIA.

—Andiamo! Voi credete agli Spiriti, come le donnicciole?

—Che maraviglia? Ci credono tanti grandi scienziati, il Crookes, il
Vallace, ecc.

—Scienziati falliti! Scienziati per modo di dire!

—Siete temerario, caro amico—riprese il dottor Maggioli—giudicando così alla lesta lo scopritore della materia radiante e l'emulo del Darwin. In quanto a me, sono modesto come si conviene a chi non si è occupato di questo genere di studi venuti in voga quando l'età non mi consentiva più di sperimentare. Non ho detto, intanto, che credo agli Spiriti; ma mi stimerei presuntuoso, se osassi di affermare che non posso crederci affatto. Non ho nessuna ragione per esprimere un giudizio di questa sorta. Ho settant'anni, e tra poco mi sarà dato conoscere de visu come stanno le cose dell'altro mondo. Ne ho una grande curiosità, ve lo confesso.

—Non capisco, mi scusi.

—Forse mi sono spiegato male. Insomma io dichiaro di non avere nessun solido argomento per affermare o negare scientificamente l'esistenza degli Spiriti quantunque, l'unica volta che mi son lasciato indurre a tentar di vederli, la prova sia riuscita negativa.

—Lo credo bene!

—Io però, da quella prova mal riuscita, non mi stimo autorizzato a dire che il Crookes, il Vallace e tanti altri sperimentatori di buona fede si siano ingannati o siano stati ingannati.

—Ma la Scienza….

—La Scienza la fanno gli scienziati a furia di sbagliare. Quella di ieri non è più questa di oggi; e quella di domani sarà un'altra cosa. Risolto un problema, se ne presentano nuovi e più complicati e più astrusi. Certe volte gli scienziati si seccano di vederseli affacciare davanti, e chiudono gli occhi e si turano gli orecchi per vivere un po' in pace e non guardare nè udire. Ma non per ciò i nuovi problemi dileguano. Allora qualche scienziato, più curioso o più ardito degli altri, socchiude gli occhi e osserva, timidamente dapprima, per non scandalizzare i colleghi; poi l'amore della verità ne può più dell'orgoglio personale; e così la Scienza fa un altro passo, e l'assurdo di oggi diviene la conquista assodata del giorno dopo.

—Lo sappiamo, dottore! Ma, riguardo agli Spiriti, non si tratta di fatti che possono cadere sotto gli occhi, da osservarsi col microscopio, da analizzare col crogiuolo. Fantasie di menti deboli, allucinazioni di sensi malati, credenze di femminucce, resti di tradizioni primitive, quando l'uomo ancora selvaggio si dava una spiegazione superficiale dei fenomeni della natura e credeva l'ombra un duplicato della sua persona…. Se la scienza dovesse tener conto di tali sciocchezze, starebbe fresca!

—Di tutto deve tener conto. Per ciò io, che sono scienziato così così per aver studiato e praticato la più materiale tra le scienze, la medicina, non arrossisco di far sapere che ho tentato anche di vedere gli Spiriti il giorno che un amico venne a dirmi:—Vuoi vederli? Io ho avuto paura e ho interrotto a mezzo l'esperimento.—Quel mio amico, uomo serio, coltissimo, un po' artista, un po' filosofo nel miglior senso di questa parola, intelligenza aperta ai quattro venti del pensiero, s'interessava dei grandi problemi contemporanei, politici, economici, religiosi, scientifici, leggendo tutto, approfondendo tutto con ardore indomabile. Non aveva altro da fare; il suo largo patrimonio gli permetteva questo lusso intellettuale senza fargli trascurare il resto. Ultimamente dunque aveva preso, com'egli diceva, il dirizzone degli studi spiritici, e si era formato la convinzione che gli Spiriti sono una realtà come un'altra, d'ordine superiore, se si voleva, ma da non poterne più dubitare. E siccome io gli rispondevo:—Bisogna attendere ancora!—egli si spazientiva delle mie esitanze in faccia a tante e tante prove, quante forse—soggiungeva—non ne hanno parecchi fatti ormai entrati nel dominio della storia e tenuti per certi da tutti. Io veramente non negavo i fenomeni, i fatti; dubitavo della spiegazione di essi. Alla mia età non s'intraprendono neppur con la mente esplorazioni in regioni ignote, e si diffida sempre un po' delle relazioni dei viaggiatori che le hanno visitate la prima volta.

Il giorno però ch'egli venne a dirmi:—Vuoi vedere gli Spiriti? Io ho avuto paura e ho interrotto a mezzo l'esperimento—mi lasciai vincere dalla curiosità. Perchè non aver fiducia in un uomo come lui?

—Che cosa bisogna fare per vederli?—gli domandai dopo qualche istante di riflessione.

—Venire domani a casa mia. Io avviserò la evocatrice.

—La medium vuoi dire.

—No. La persona di cui ti parlo non cade in tranche, cioè: non si addormenta, non entra in catalessi; èvoca, con potere misterioso, in pieno giorno, semplicemente, per via di certi suoi scongiuri.

—È una maga, a quel che pare.

—È una povera donna, secca, pallida, malaticcia, vestita sciattamente, che vive, credo, di elemosina….

—E col mestiere di fattucchiera,—lo interruppi, ridendo.

—Niente affatto. Chiede soltanto cose strane che dice indispensabili all'evocazione: un po' di sale, un po' di olio, una candela benedetta, di quelle che si adoprano nella settimana santa.

—Uh!—feci, alzando le spalle.

—Probabilmente nemmeno il sale, l'olio e la candela benedetta sono necessari; forse servono per provocare l'azione fluidica del suo organismo; mezzi meccanici, più che altro, da eccitare la sua fantasia.

—Tu spieghi tutto!

—Ho detto probabilmente; e quando la vedrai operare, la mia ipotesi non ti parrà stramba.

—Com'è che tu hai avuto paura?

—Ecco: eravamo nel mio studio, io e lei, con l'uscio aperto sul corridoio. Ella cominciò a brontolare le sue evocazioni inginocchiata dietro una tenda del balcone, con davanti l'orciolino di terracotta pieno di olio, la candela accesa e il piattino col sale. Di tratto in tratto, prendeva un pizzico di sale e lo buttava nell'orciolino. Mi ero situato in maniera da poter seguire, sbirciando da un lato della tenda, l'operazione. Ero tranquillo, in vivissima aspettativa, sì, ma anche un po' incredulo. Mi pareva impossibile che quella povera donna, quel fantasma di donna dovrei dire, possedesse così alto potere….

—E allora….

—Allora, tienlo a mente, di pieno giorno, all'improvviso, veggo il corridoio illuminarsi con luce più splendida della solare e sento sùbito un fruscio di passi e di stoffa…. Ho avuto paura!… Mi son messo a gridare:—No! No!… Basta!—coprendomi gli occhi con le mani. Tremavo come un bambino, sudavo freddo.

—Quella donna aveva contato su la tua immaginazione, l'aveva eccitata con lo strano apparecchio di quei riti….

—T'inganni. Ho pensato così di primo acchito; ma poi, riflettendo bene…. In due, saremo più forti. Vuoi provare?

—Proviamo!

Il dottor Maggioli s'interruppe per guardare attorno, nel salotto, e interrogare le signore che erano state ad ascoltare con evidenti segni di abbrividimento.

—Non vuol farci dormire questa notte!—disse la baronessa Lanari.

—Appunto, volevo sapere da lei se debbo o no proseguire….

—Ormai!—fece la baronessa.—E poi ella ha detto che la prova è fallita….

—Non ricordo più—rispose il dottore—chi abbia scritto: «Se venissero a riferirmi che un tale ha portato via il Colosseo, prima di rispondere:—È impossibile—andrei a vedere.» Io la penso come costui; e gli scienziati, secondo me, dovrebbero comportarsi così. Fui puntuale, all'ora fissata; la donna arrivò poco dopo. Il severo studio del mio amico aveva due balconi, uno a levante, l'altro a mezzogiorno, e una larga ondata di sole lo invadeva in quel punto.—Ho avuto a stento il permesso—disse la evocatrice.—Da chi?—domandai.—Dai miei superiori—rispose semplicemente.—Questo signore è un incredulo—soggiunse rivolta al mio amico.—E gli spiriti non si mostrano volentieri a chi non crede.—Voglio credere—dissi.—Sono qui per questo. Costei—pensavo intanto—mette le mani avanti! E la osservai attentamente mentre si accingeva a disporre dietro la tenda del balcone l'orciolo con l'olio, la candela accesa e il piattino col sale. Nessun indizio di furberia su quel viso, ma una grande stanchezza, la stanchezza della miseria.—E chi vi ha insegnato?—le domandai.—Mia madre—rispose. Stiano attenti. Gli spiriti non entreranno qui; attraverseranno il corridoio, passando davanti all'uscio.—E si nascose dietro la tenda. Parlava con tale sicurezza, da spingermi a pensare: Tu forse stai per vedere un prodigio! Eravamo, il mio amico ed io, in piedi, in faccia all'uscio. A un tratto, il mio amico mi afferra una mano, e comincia a stringermela forte. Non mi distolsi dal guardare verso il corridoio, pur comprendendo che quegli aveva paura. Io mi sentivo tranquillissimo, senza diffidenza…. Dieci minuti di intensa aspettazione…. e la donna uscì fuori dalla tenda.

—Ha veduto?—disse.

—No.

—Non li hai veduti?—esclamò il mio amico quasi balbettando.

Era pallido come un morto.

—Sette—soggiunse.—Li ho contati; quattro donne e tre uomini…. come fatti di nebbia, con lunghe tuniche bianche…. Sono passati lentamente…. Ti ho stretto forte la mano nel terribile momento. E quella gran luce?

—Non ho visto nulla!

—Non crede!—disse la donna.—Per vedere bisogna avere la grazia….

Forse è così: bisogna avere la grazia, come ella si esprimeva, cioè una disposizione naturale, una facoltà speciale…. Che ne sappiamo? E il mio amico è rimasto talmente convinto di non essere stato vittima di un'allucinazione, che è morto sospettando sempre della mia buona fede. Ha creduto che io abbia negato di aver visto per cocciutaggine di medico materialista. E non è vero.

L'INESPLICABILE

A GIUSEPPE DRAGONETTO.

—Vorrei spiegarmi meglio, caro dottore, ma non so. Più ripenso al mio caso, più tento di veder bene tra la nebbia che mi avvolge la mente, e più sento sconvolgermi l'intelligenza. Sono già al confine della pazzia? Un altro passo e la mia ragione si smarrirà per sempre nella tenebra dell'incoscienza?… È terribile, dottore! No, non mi dite niente, state ad ascoltarmi; abbiate pazienza. Siccome il mio male è tutto qui, nella testa, e non ha sintomi fisici, voi non indovinereste nulla se io non parlassi. E per parlare, anzi per far lo sforzo di pensare e di parlare con qualche ordine, ho bisogno di non essere interrotto. Il mio cervello non funziona regolarmente; ha strane intermittenze. L'imbroglio consiste in questo: io non distinguo più tra sogno e realtà, tra fatti fantasticati in momenti di strana esaltazione e fatti realmente avvenuti…. Così, proprio così! Voi sorridete incredulo…. M'inganno? Tanto meglio.

Intorno ad alcuni avvenimenti non ho nessun dubbio.

Notiamo la data: nove mesi fa. Notiamo il luogo: Firenze. Ero arrivato la sera avanti. Due giorni prima, mi trovavo a Napoli, deciso di starvi fino alla metà di giugno. Nella stagione di primavera Napoli è un paradiso. Vi ero andato per godermi questo paradiso, e per nient'altro.

Avevo passato mezza giornata nell'Aquario tra le meraviglie della vita sottomarina…. Improvvisamente, quasi mi fosse stato suggerito all'orecchio da qualcuno, io pensai:—Va' a Firenze!… Va' a Firenze!—Mi stava davanti agli occhi una mirabile aiuola di attinie e di coralli che si agitavano, che palpitavano con le loro creste filamentose: e tra i coralli e le attinie, magnifici polipi, di cui ora non ricordo il nome, allungavano i tentacoli, si gonfiavano, si aprivano simili a viventi ventagli, si restringevano e quasi sparivano confondendosi con la vegetazione rosata. Altri piccoli molluschi, cavallini di mare, se non sbaglio, idre, meduse, salivano e scendevano nella limpidissima acqua dietro il grosso cristallo; paguri, che si eran formati una casa con grosse conchiglie, erravano qua e là, ora lenti ora rapidi, sul suolo ghiaioso, movendo le gambe rimaste fuori dal guscio…. E, di nuovo, quel suggerimento quella inattesa ispirazione: Va' a Firenze!

In quei giorni, io non vi avevo pensato neppur di sfuggita…. Ma, ecco, ora ricordo bene. Mentre guardavo intentamente quel maraviglioso spettacolo acquatico, due signore si erano fermate un istante vicino a me. Fiorentine, si capiva dall'accento…. Quale di esse aveva quella voce così melodiosa, da spingermi a guardarla? Ed ero rimasto deluso. La voce mi aveva fatto supporre una bellezza giovane e fresca…. Invece!… Colei non era giovane, nè bella. Può darsi che il suggerimento:—Va' a Firenze!—sia stato prodotto dalla malìa di quel suono. Malìa, ho detto benissimo; giacchè non potei sottrarmi alla sua azione.

Quando uscii dall'Acquario, l'incantevole tratto di marina là accanto era suffuso della tenera luce del tramonto; i viali della Villa quasi deserti, e pieni di misteriose ombre e di frescura; e laggiù, il Vesuvio con un sottile pennacchio di fumo, tutto dorato dagli ultimi raggi del sole, e quasi sorgente dalle onde per ottica illusione…. Guardai distrattamente il divino scenario che venivo ad ammirare ogni giorno insaziabilmente, scoprendolo rinnovato sempre dalla varietà della luce, secondo le ore della giornata…. E tornai a pensare: Va' a Firenze!

Non vi sembra strana questa insistenza suggestiva? Oh, non sembrerebbe strana neppure a me, se poi non fosse accaduto quel che accadde!…. Partii il giorno dopo, senza maravigliarmi della mia risoluzione, quasi la gita a Firenze fosse stata segnata nell'itinerario del mio viaggio. Soltanto arrivato colà, mi domandai stupito:—Che cosa son venuto a farvi? Ormai!…—e uscii dall'albergo e infilai la prima via che mi capitò davanti…. Cinque minuti dopo, mi trovavo in Piazza dell'Indipendenza….

Oh, questo non è sogno! Ricordo benissimo, ho coscienza della realtà….

La bionda signora mi era passata accanto inondando l'aria del suo profumo, sotto l'ombrellino con strisce gialle e bianche ornato di larghe trine…. La veste di leggerissima stoffa, con strisce gialle e bianche anch'essa ma più strette, ne modellava elegantemente la persona svelta e sottile. Non avevo potuto osservarla in viso, così rapidamente mi aveva oltrepassato. Vedevo, sotto i riflessi dell'ombrellino, l'oro dei suoi copiosi capelli rialzati su la nuca, dai quali sfuggivano alcune ciocchettine che tremavano a ogni passo, come cosa viva.

Fui tentato di seguirla, di raggiungerla, per la sola curiosità di conoscere se l'aspetto corrispondeva alla elegantissima linea della persona.

In quel punto, ella svoltava per via Enrico Poggi—via appartata, silenziosa, con case che paiono villini—e suonava a un portoncino. Si era voltata al rumore dei miei passi, un po' contrariata, mi parve, che qualcuno l'avesse seguita…. Così potei accertarmi che ella era bellissima. Visione di un istante! All'aprirsi del portoncino avevo intravveduto un andito con busti in marmo, grandi vasi con piante e, in fondo, una vetrata con vetri colorati…. Il portoncino si era richiuso.

Tornai addietro lentamente, conturbato dalla rapida visione, quasi qualche parte di me fosse penetrata là, dietro a colei, ed io ne sentissi la mancanza. Giacchè sùbito provai la viva sensazione di rivedere con l'imaginazione quell'andito e d'inoltrarmi dietro a l'incognita per le stanze, oltre la vetrata con vetri a colori.

Quel giorno no, ma qualche settimana dopo, sono io davvero entrato colà? Dev'essere stato così, perchè altrimenti come avrei ora quasi davanti agli occhi quel salottino parato di damasco azzurro, col gran ritratto di lei, in piedi, appeso alla parete di faccia; quella lampada di Murano con grandi foglie rosee che si accartocciavano attorno ai bracci e si arrampicavano al fusto capricciosamente; e il tavolinetto ingombro di ninnoli; e le poltroncine di un azzurro più pallido del damasco delle pareti?

Come mai potrei ricordarmi precisamente la nostra conversazione, di quattro o cinque giorni dopo?…. Mi sembra di riudirla…. Eppure in certi momenti dubito della mia memoria…. Può mai essere che io abbia sognato quel colloquio o che lo abbia fantasticato a occhi aperti e con tale intensità da crederlo, poi, realmente avvenuto?… In che modo dunque io rivedo la signora vestita diversamente, con ampia vestaglia color crema, tutta spumante di pizzi rari, con le sottili dita delle bianchissime mani cariche di anelli, con quella grossa perla pendente da una stella di diamanti attaccata su la parte sinistra del petto, quasi sotto la spalla?… In che modo ho negli orecchi il suono esotico della sua voce che dava alle parole della nostra lingua un fascino nuovo? E, finalmente, se non fosse stato vero, in che modo nel dialogo trovo accennati fatti che non ricordo e che pure debbono essere avvenuti?

—Vi ho sùbito riconosciuto—ella diceva.

—Perchè lo avete taciuto?

—Perchè non mi interessava di farvelo sapere, in quella casa, davanti alla persona che vi presentava a me.

—E vi è dispiaciuto?

—No. È inutile dispiacersi di quel che non si può evitare. Io mi rassegno facilmente; filosoficamente direi, se non fosse un po' troppo per una donna.

—Avreste voluto evitarmi potendo?

—Certamente. Gli uomini come voi sono una sciagura nella vita di una donna.

—Perchè?

—Perchè presto affermano di amarla, illusi forse, o vanitosi d'ispirare un sentimento che lusingherebbe il loro amor proprio. Voi avete su la punta della lingua una dichiarazione che soltanto le convenienze di un primo colloquio v'impediscono di farmi.

—Indovinate, in parte. Non le convenienze però, ma il timore di non esser creduto mi impedisce di parlare.

—Attendete per ciò, è vero? occasione più opportuna.

—Ormai è impossibile.

—Voi forse ignorate che ho marito.

—No; vi chiamano signora, non signorina.

—Capisco; il marito non vi sembra un ostacolo.

—Non è mai tale, quando l'amore vuole.

—Per certe donne, sì.

—E per voi?

—Io… io credo che l'individuo non ha altra norma di vita all'infuori di quella che la sua felicità richiede; e che di questa felicità è giudice inappellabile egli solo.

Parlava lentamente e non perchè l'esprimersi in italiano le richiedesse uno sforzo. Sembrava che ogni parola da lei pronunziata avesse un riposto significato e che ella volesse darmi tempo d'intenderlo bene, prima di risponderle. Ebbi fretta di mostrarle che avevo interpretato in favor mio la sentenza. M'interruppe:

—Siete fatuo, come tutti gli uomini.

È chiaro? È preciso? La presentazione, in quella casa da lei accennata, io non la ricordo affatto; ma la conversazione è fissata qui, parola per parola, col suono della voce, con l'accento, con l'atteggiamento di tutta la persona, coi fieri gesti della mano destra, dove uno stranissimo anello in forma di serpente si attorcigliava, flessibile, al dito medio simulando cinque o sei anelli, con la testa schiacciata che si piegava di lato alla radice dell'ugna. Tanti particolari non può averli inventati la mia fantasia…. Eppure io non sono certo che questa visita sia proprio avvenuta. Di quando in quando, un dubbio mi attraversava la mente: che quell'anello io lo abbia veduto, per caso, in un'altra mano, e che quelle parole io le abbia udite da un'altra bocca, in altra occasione…. o le abbia lette in qualche romanzo…..

Perchè?…. Perchè non so spiegarmi il ricordo, nettissimo, precisissimo, di una passeggiata solitaria pel Viale dei Colli dove io la rividi alcuni giorni dopo, sempre come una sconosciuta il cui fascino mi attirava, ma senza che ancora sentissi un forte desiderio di avvicinarla, anzi provando un istintivo movimento di resistenza contro quel fascino. Non era sola quel giorno; ed io, seguìtala un po', indovinando da alcune mosse che le tre signore parlavano di me, mi ero fermato, indispettito di riuscire, a quel che sembrava, importuno; e avevo interrotto la salita. Se fossi stato presentato a lei, se avessi avuto davvero quella conversazione con lei in casa sua, perchè non l'avevo almeno salutata?

Non confondo date. Tra il primo e il secondo incontro ci fu un intervallo di due o tre giorni…. Ma ogni volta che mi metto a ripensare il passato, la conversazione e l'incontro hanno lo stesso valore di realtà…. Sono tutti e due veri? Tutti e due falsi?….

Niente mi tratteneva in Firenze. Vi ero venuto per subitaneo e quasi inesplicabile capriccio: e non entravo in nessuna chiesa, non visitavo gallerie o musei, non mi fermavo davanti ai monumenti. Erravo per le vie con aria sbadata. Se non che, di tratto in tratto, mi accorgevo che tra le persone dei passanti ne ricercavo una, colei, che più non avevo riveduta da una settimana.

Ne ero invasato. Mi aggiravo per Piazza dell'Indipendenza, attraversavo spesso la via Enrico Poggi smanioso di imbattermi in lei…. E mi sembra che mi domandassi spesso:

—Perchè non ritorni a casa sua?…

Dunque c'ero stato; non potrei rammentarmi di questo, se non ci fossi stato davvero.

Capisco quel che volete dirmi: La nostra memoria è labile! o tale confusione vi sembra spiegabilissima con qualche complicazione nervosa sopravvenuta…. Ma io non sono stato malato. I miei nervi hanno conservato sempre un equilibrio perfetto, prima e dopo…. Cioè fino a pochi mesi fa, fino al giorno in cui mi sono accorto che avveniva nella mia mente una confusione tra fatti soltanto pensati, immaginati, e fatti realmente accaduti. E, sul principio, l'esitazione, l'incertezza di giudizio erano rapide, mi lasciavano tranquillo…. Poi, a poco a poco…. Ora non riesco più a fare distinzione alcuna. E l'idea, il sospetto che io abbia davvero potuto commettere…. È orribile, dottore!… Lasciatemi continuare.

Ho il ricordo di un'altra conversazione con lei, su una terrazza, o nello studio di un pittore in via S. Paolo….—Un po' di incertezza anche qui, ma intorno al luogo. È naturale; l'immagine di lei scancella ogni altro particolare. Potevo vedere qualche cosa all'infuori di lei?…. Ed è ricordo di conversazione futile, quale tra persone che si trovano insieme la prima volta…. O ella finse di non avermi conosciuto prima, ed io fui costretto a secondarla per non infliggerle una smentita?

—Preferite la pittura o la musica?

—Tutt'e due—risposi—Certi quadri, come questo che abbiamo visto ora ora… (O, dissi: come questo che abbiamo sotto gli occhi?… Non importa… Si parlava di un quadro che era un'armoniosa festa di colori, di una Processione fiorentina del quattrocento? Sì, sì, mi pare appunto di questo….) Certi quadri sono anche una musica per gli occhi. Le due arti si confondono insieme talvolta. La pastorale del Beethoven non fa l'impressione di un paesaggio dipinto?

—Con un po' di buona volontà, sì. E sorrise.

Questa volta portava un abito di colore azzurro cinereo, con sprone sul petto di seta chiara, lameggiata di oro, e collare della stessa stoffa; e sotto il cappellino di tulle nero con ricami gialli, i capelli arruffati su la fronte spiccavano con toni dorati più ardenti, e gli occhi sembravano più azzurri, più limpidi, sorridenti come cieli di primavera.

Com'è dunque che io potei dirle il giorno dopo—il giorno dopo, perchè da prima riparlammo del quadro veduto insieme—com'è che potei dirle:

—Voi siete di ghiaccio. Avete nel cuore le nevi della vostra Russia.
Perchè mi fate soffrire? Perchè non mi dite una parola di speranza?

—Perchè certe parole non si dicono mai; s'indovinano.

Ebbi un sussulto, e le presi la mano inanellata. Non me la concedette, ma non la ritirò…. Questa indifferenza m'impedì di baciargliela. Guardai il serpentello col dorso punteggiato di rubini.

È un simbolo?—domandai.

—Forse. Un'ammonizione, certamente: Abbi prudenza!

Che fascino nella voce e nello sguardo!

—Lasciatevi adorare!—esclamai.

—Non posso vietarlo.

—Che sarò per voi?

—Chi lo sa!

—Ci siamo incontrati invano?

—Può darsi.

—Per me, no!

—Si dicono tante cose senza aver coscienza di dire una falsità!

Tremavo, intimidito dal suo sguardo glaciale, con un senso di ribellione e di furore in fondo al petto. Così devono tremare i leoni e le tigri sotto il fascino della domatrice che li percuote con lo scudiscio e li fa rannicchiare in un angolo della gabbia di ferro.

—Sentite!—esclamai—Mi avete attratto da lontano, per via di una forza misteriosa. Non pensavo affatto di venire qui. Un impulso improvviso mi suggerì: Va' a Firenze! E sono venuto e vi ho veduta lo stesso giorno del mio arrivo, quasi fossi accorso apposta per voi. Sono rimasto qui unicamente per voi…. Rompete l'incanto; liberatemi! Siete una maga?

L'amavo e la odiavo. Mi sentivo in piena balìa di costei, e n'ero felice e avevo paura….

Ma è vero che io abbia avuto quest'altra conversazione con lei?… In certi momenti mi sembra che io sia soltanto rimasto lunghe ore nella camera del mio albergo a fantasticare questi incontri, queste conversazioni, compiacendomi di creare le avventure di un romanzo possibile, dopo che il portoncino di via Enrico Poggi si era chiuso dietro a lei, ed ella era sparita e non avevo potuto rivederla.

Non è incredibile? Eppure è così. Ma il resto? Sono dunque vissuto nove mesi in continuo sogno, in continua allucinazione?…. Se sapeste quel che provo qui alla fronte, e alla tempia! Una stretta, fiere trafitture!… Non sono già pazzo, dottore?…. Ditemelo…. No: me lo direte all'ultimo, e tenterete di guarirmi…. O mi ammazzerò…. Non può durare a questo modo!

Non dovrei dubitare; è assurdo. Si possono fantasticare alcuni fatti, intensamente, secondo il desiderio dell'istante, pensando:—Oh, se avvenisse così e così!—e credere per un momento che il desiderio vivissimo si fosse mutato in realtà…. Crederlo a lungo però, agire in conseguenza dell'avvenimento fantasticato e goderne e soffrirne e sentirne così sconvolta la vita, quasi tra esso e la realtà non ci fosse stato intervallo nè contraddizione…. è anche più assurdo!

Non posso sospettare che io non l'abbia riveduta alle Cascine, in carrozza, con un bell'uomo che le parlava calorosamente, gesticolando, ridendo…. Che cosa le raccontava? Ella stava ad ascoltarlo quasi sdraiata, con la faccia rivolta verso di lui, stupita di quel che udiva; si scorgeva dagli occhi intenti e dai lievi accenni del capo.

Si fermarono un minuto davanti al monumento del principe indiano; e fu così che io potei osservarla bene e notare che il pallore del mio volto e il fosco lampeggiare dei miei sguardi avevano attirato la sua attenzione. Perchè anche questa volta ella finse di non riconoscermi? Perchè anche questa volta io secondai la sua finzione?

La vidi sparire allo svolto del viale; avevo la morte nel cuore. Chi era colui? Il marito o un amante? Dissi sùbito, risoluto: Dovrà confessarmelo.

Se io non mi fossi riconosciuto in diritto di domandarglielo, se io non avessi avuto la certezza che avrei potuto domandarglielo, avrei mai pensato: Dovrà confessarmelo?

Intanto perchè spesso mi nasce il dubbio se io sia andato quello stesso giorno in via Enrico Poggi? Ci sono andato, questo è certo; ma ho proprio suonato il campanello del portoncino? Sono stato ricevuto da lei? O la mia immaginazione ha creato il dialogo, che pure rammento parola per parola, tanto da riudire oggi la mia voce e quella di lei con le più minute particolarità di accento e di gesti? Si può giungere a questo estremo d'illusione?

Appena mi vide entrare ella fece una mossa di sorpresa…. Non ero più capace di contenermi; quella sua mossa però m'impose di forzarmi ad essere calmo.

—Mi permetterete un'indiscrezione—dissi.

—Chi era colui?…. Ho indovinato.

—Non siete maga per nulla. Sì, chi era colui?

—Un mio concittadino, di Pietroburgo.

—Nient'altro?

—In ogni caso, è un segreto che mi riguarda.

—Non vedete dunque che io fremo… di gelosia?

—Avete torto. Soltanto il possesso di una donna può giustificare in qualche modo la gelosia. Bisogna essere barbari per essere gelosi. La creatura umana non può appartenere a nessuno: è libera. Esser gelosi significa esser padroni assoluti di un cuore, di un'anima. È bestiale… scusate la cruda parola.

—E impossessarsi violentemente di un cuore, di un'anima, maltrattarli, torturarli come lo chiamate?

—Io rispetto il diritto degli altri quanto il mio. Ho fatto forse qualche cosa per sedurvi? Due mesi fa ignoravo fin la vostra esistenza.

—Voi sapete già quel che ha operato la vostra bellezza.

—Me lo avete detto voi; non ho obbligo di credervi, perchè non ho la possibilità di accertarmi se dite la verità o se mentite per raggiungere uno scopo qualsiasi.

—Che cosa debbo fare per essere creduto?

—Niente. Non c'è modo di arrivare alla certezza.

—Siete così scettica?

—Così ragionevole intendete dire.

—Mi avete messo l'inferno nell'anima!

—Ci sono degli esorcismi, affermano i popi, per debellare l'inferno.

La vedevo in nuovo aspetto. Sul bellissimo viso tremolava un'espressione di crudeltà, di maligna ferocia, di spietata raffinatezza nel godere del tormento altrui. I ceruli occhi limpidissimi sembravano intorbidati da improvviso rimescolamento fangoso. Ai lati delle rosee labbra apparivano due pieghettine lievi ma rigide che davano alla fisonomia il carattere ripugnante di una maschera.

Rimasi a guardarla, interdetto. La trasfigurazione durò un baleno.
Sorrise, mi stese una mano e soggiunse:

—Siete un bambino!

Non avevo forza di risponderle.

—Voglio essere creduto!—esclamai.

—Voglio la luna!—rispose, contraffacendo il mio accento.

—Che cosa debbo fare?

—Continuate ad amarmi! È assai lusinghiero per una donna.

—Oh, Kitty!

Era la prima volta che la chiamavo per nome, e mi parve di rivelarle così l'immenso amor mio, come non avevo saputo mai fare fino a quel giorno.

Sorrise nuovamente; ma tosto che feci atto di voler baciarle le mani, si rizzò in piedi, severa. Mi par di vederla qui, davanti a me, con le mani vietanti, col gesto di congedamento…….

Dovrei dubitare? No, no!… Per qual ragione avrei inventato questo significativo dialogo? Non una ma cento volte l'ho ripensato, senza mutarvi neppure una sillaba; e non una ma cento volte alla convinzione della realtà del fatto son seguiti sempre quel senso di perplessità, di incertezza, quella sensazione ineffabilmente dolorosa che mi stringe la fronte con un cerchio di ferro, che mi conficca due chiodi qui alle tempia….

Credete voi alla malìa? Io sì. Credo che l'uomo possa acquistare, per via d'iniziazione, un quasi illimitato potere su la natura e sui suoi simili; benefico e malefico; malefico più spesso, sventuratamente…. Avete letto il recente romanzo dell'Huysman, Au de là? Non è un romanzo come gli altri; è storia antica e contemporanea nello stesso punto…. Oh! La mia fede nella magìa non proviene soltanto da quel libro. I giornali francesi, mesi fa, hanno parlato a lungo dell'atroce vendetta di uno di questi maghi contro un infelice che era incorso nell'ira di colui, prete, a quel che dicevano…. Fate tacere per un momento i vostri pregiudizi scientifici, riflettete intorno al mio caso. Io ero a Napoli, tranquillo, spensierato… e mi sento consigliare, mi sento anzi ordinare, non è eccessiva la parola: Va' a Firenze!—Quella spiegazione che mi davo poco fa, la malìa della melodiosa voce udita per caso nell'Acquario, è insufficiente. Mi si è presentata discorrendo, ed ho voluto manifestarvela, perchè debbo dirvi tutto quel che può aiutarvi nella diagnosi del mio male…. Ma la vera spiegazione è là; ne ho avuto coscienza sin dal giorno in cui dissi a Kitty:—Rompete l'incanto! Liberatemi!—Il mistero però non si schiarisce. Perchè ella ha scelto me per sua vittima? Me ignoto a lei, lontano, che non posso averle fatto niente di male?… Glien'ho fatto poi…. sono stato inesorabile, se è vero che…. Giudicherete…. Procediamo intanto ordinatamente, finchè mi riesce.

In poco più di tre mesi, la mia passione era giunta al parosismo. La resistenza che colei mi opponeva, le scarse concessioni che si degnava di farmi, seguite sùbito da altre e più vive resistenze, mi tenevano in uno stato di eccitazione di cui non può farsi nessuna idea chi non ha amato a quel modo. E la gelosia era sopravvenuta a metter legna al fuoco che mi divampava nel cuore, terribile! Ella aveva detto:—In ogni caso, è un segreto che mi appartiene.—Dunque avevo indovinato! Qual altro genere di segreti poteva mai esistere tra lei e quel giovane veduto in carrozza con lei alle Cascine? Avevo farneticato una settimana: Cercarlo, domandargli impertinentemente:—Siete suo amante?—Insultarlo, sfidarlo…. E avevo insistito presso Kitty…. Mi aveva risposto ridendo.

—Ah, non ridete, per carità!—le avevo detto supplicandola a mani giunte.

Si era fatta seria tutt'a un tratto:

—Io non metto la mia libertà alla mercè di nessuno! Con qual diritto pretendete di strapparmi una confessione, ammesso che ne abbia una da farvi?

—Vi amo!

—Non è una ragione per me.

—Mi avete detto: Continuate ad amarmi!

—Visto che vi fa piacere!

—Che cosa sono dunque per voi?

—Uno che dice di amarmi.

—Nient'altro?

—Anche questo è un segreto che mi appartiene. Può arrivare un giorno, un momento che stimerò opportuno di rivelarvelo.

—Come siete crudele!

—Sincera piuttosto.

E mentre ella pronunziava queste brevi risposte, mi fissava con gli occhi cerulei, limpidissimi, che però mi turbavano profondamente quasi rafforzassero l'opera della sua malìa. Quel giorno sembrava proprio una maga, con quella scura vestaglia trasparente su fodera di seta gialla e con pizzi neri che le coprivano le mani e facevano risaltare gli anelli delle dita e i braccialetti ai polsi, di foggia stranissima, quasi rami attorti, di simboliche piante—immaginavo—con foglioline di smeraldi.

Non erano state incoraggianti, subdolamente incoraggianti le sue parole?…. Allora io le domandai:

—Lo avete riveduto?

—È stato qui mezz'ora fa.

—Volete farmi la grazia di promettermi….

—Che non lo rivedrò più?…. E se lo amassi?

Mi avesse detto effettivamente lo amo, non avrei potuto sentirmi trafiggere con maggiore strazio. Impallidii, mi parve di morire!

Ebbe pietà di me in quel punto? Mentì per confortarmi?

—Non l'amo, no!…. Siete contento?

Scattai con tale impeto ch'ella non fece in tempo per impedirmi di prenderle una mano e di coprirgliela di baci. Dio mio! Com'era fredda quella mano! Infatti pareva esangue, tanto era bianca, senza traccia di vene sotto la pelle fina e lucente.

Ho vivissimo il ricordo di questa sensazione di cosa ghiaccia…. Non è un'aberrazione della mia fantasia…. Eppure sono arrivato a dubitare anche di essa. Perchè? Ecco: rammento di averla incontrata un giorno nei giardini di Pitti con le sue due amiche dell'altra volta. Mi passò davanti senza guardarmi, e levava appunto in alto una mano per indicare non so che cosa; ed io, vedendo quella mano così bianca che pareva esangue, pensai così: Dev'essere fredda come il ghiaccio!…. Se l'avessi realmente baciata, avrei pensato: È fredda come il ghiaccio! Avrei ricordato la impressione ricevuta….

Ah, se poteste sentire che male mi produce questo cerchio qui! Se poteste sentire come mi si conficcano più addentro i chiodi delle tempie!…. Vorrei non poter pensare! Soltanto non pensando avrei un po' di requie!…. Ma ci accostiamo alla fine. Sopporterò questa tortura; voi troverete un rimedio per addormentarmi il pensiero…. C'è un rimedio? Ah!… Benissimo!

Vivevo di odio, di gelosia, di amore sfrenato…. Avrei voluto fuggire lontano, ma non potevo. Restavo per lunghissime ore nella camera del mio albergo; mi aggiravo per Piazza dell'Indipendenza passavo e ripassavo davanti al fatale portoncino di via Enrico Poggi senza osare di stendere la mano al campanello, quasi quel portoncino non fosse mai stato aperto per lasciarmi entrare, e con l'angoscia che forse non si sarebbe aperto mai, mai per me!

Non è strano che mi torturassi per questo, se ormai bastava che stendessi la mano al campanello per venire introdotto nel salottino azzurro, varcando l'andito coi busti, coi vasi di spetriste e di cactus, e in fondo, la vetrata medievale con vetri a colori?

Passavo e ripassavo, sconvolto dal sospetto:

—In questo momento forse egli è là!… Forse la stringe tra le braccia! Forse ella si abbandona a lui, follemente! O, forse lo fa soffrire al pari di me, assaporando il maligno godimento della sua potenza di nuocere…!

Suonai violentemente. Il campanello ondulò a lungo per l'andito, mentre io mi pentivo di essermi annunziato a quel modo; e il ritardo del servitore che doveva venir ad aprire mi faceva imaginare che ella avesse ordinato di fingere che nessuno era in casa. Invece ella mi accolse con aria lieta.

—Oh!… E venite qui così fosco?

—L'unico mezzo di farmi accorrere raggiante di felicità, voi lo sapete, è in mano vostra.

—Non posso adoperarlo. Una fatalità mi perseguita….

—Siete voi, voi, la terribile fatalità!

—È vero! E non so più attristarmene, nè commovermene. Contro l'ineluttabile non si combatte.

La sua fisonomia aveva mutato espressione; la qual cosa mi faceva pensare che l'aria lieta con cui ella mi aveva accolto non fosse stata sincera.

—Eravate… sola?

—Sola… coi miei pensieri, come dicono i personaggi di certi drammi.

Voleva riapparir gaia…. E anche questo mi mise in sospetto. Guardavo attorno, se mai scoprissi nel salotto un indizio di disordine, nelle seggiole, nelle poltrone, non potuto riparare per la fretta…. Niente!

—Che cercate con quegli occhi gelosi? Il vostro preteso rivale?—E, dopo una breve pausa, soggiunse:—Si è ucciso ieri; per me, ha lasciato scritto. Che pazzia!… Voi non ne commettereste una simile….

—Forse!…—risposi cupamente.

E la lasciai. Mi era parsa coperta dal sangue del misero che si era ucciso per lei. E non aveva nell'accento nessun fremito di compassione! Non una lagrima negli occhi azzurri limpidi, impassibili! Che terribile creatura era ella dunque? Aveva bisogno di sangue umano per le sue orrende incantagioni?

—Forse!—mi era fuggito.

Ma sentivo che mi spingeva furiosamente verso l'abisso, verso la morte. Chi sa di quanti altri disastri era colpevole!…. Ed io non volevo morire! Amarla, possederla volevo, sentirla tremare sotto la forza della mia volontà, domarla… annullarla, volevo!

Annullarla! Per parecchi giorni fui sotto l'ossessione di questa idea! Vendicare gli altri e me, impedirle di esercitare sopra nuove innocenti creature la sua malefica influenza! Nello stesso tempo, mi sembrava di compire un gran sacrilegio attentando soltanto col pensiero alla sua perfetta bellezza. Chi ero io da pretendere di essere riamato da lei? Non era anche troppo ch'ella mi avesse permesso di continuare ad amarla e di ripeterglielo quante volte mi fosse piaciuto?—Può arrivare un giorno, un momento!….—Non significava: Sperate?

Cercai nei giornali la notizia di quel suicidio; nessuno ne faceva cenno. Aveva ella mentito?… Riflettei che non mi aveva detto che colui si fosse ammazzato a Firenze o in qualche altra città italiana. Era tornato, probabilmente a Pietroburgo, lusingandosi di sfuggire al letale potere di lei…. Ma inutilmente! Ella aveva reciso il filo di quella vita come una inesorabile parca, da lontano!.. Neppure io avrei potuto evitarla, se tardavo ancora, se non mi decidevo…. E mi decisi, una notte, dopo lungo dibattermi tra le smanie dell'insonnia e della passione che più non distinguevo se fosse amore o odio, o l'uno e l'altro insieme. E mi immersi sùbito in un sonno così profondo da impensierire le persone dell'albergo. Quando risolsero di accertarsi se stavo male, erano le due pomeridiane.

Mi sentivo calmo, e non me ne maravigliavo. Il mio primo pensiero, appena scosso dalla voce del cameriere, era stato:

—Annullarla!

Certamente il mio spirito aveva continuato durante il sonno l'intenso lavorìo della giornata precedente, e aveva maturato e rafforzato la mia decisione.

Io non so qual uso voi farete della rivelazione che sto per farvi. Se la vostra professione di dottore v'impone dei doveri, adempiteli senza esitare. Ho preveduto questo caso. Qualunque cosa sia per accadere, non potrà mai raggiungere quel che dovrei continuare a soffrire tacendo….

Notate: ho la visione netta, evidentissima della terribile scena, come se fosse accaduta poche ore fa. Ciò non ostante…. Oh! È spaventevole, dottore!

Aveva ella qualche tristo presentimento? Non si sedette accanto a me al solito posto, ma dietro al tavolino con la scusa di accendere una sigaretta. Io rifiutai quella che mi era stata offerta, sottilissima, troppo profumata pel mio gusto.

—Non dite nulla? Che guardate? Questo spillone?

—Sembra un pugnaletto.

—È un ornamento femminile di certe regioni del Caucaso.

—D'argento?

—Di acciaio, e ben temprato.

Tirò due o tre boccate di fumo, socchiudendo gli occhi deliziata, poi soggiunse:

—Vi do una notizia che vi farà gran piacere.

—Finalmente!

—Non quella che voi imaginate. Parto.

Balzai in piedi, sbarrando gli occhi.

—Non è vero!—balbettai.

—Poichè ve lo dico!

—E io?….

Ogni possibilità mi era passata per la mente all'infuori di questa ch'ella partisse, che si sottraesse così alla mia vendetta!… Credetti che me lo annunziasse quasi ad irrisione, per sfida, mentre io non avrei potuto mai levarmi di addosso il funesto dominio del suo filtro, del suo misterioso potere, che forse avrebbe operato più terribilmente da lontano…. Infatti, se ella mi avesse detto in quel momento, invece di: Parto!—Domani non spunterà più il sole, tutto rimarrà sepolto in tenebra eterna!…—anche credendole, ne sarei stato assai meno atterrito.

—E io? Io?…—replicai.

—Che volete che ne sappia? Farete quel che vi piacerà…. Mi dimenticherete, innanzi tutto.

—Fatemi prima dimenticare! Datemi qualche vostra magica bevanda di oblìo!

—Si dimentica così facilmente!

—Non quando si ama come io vi amo! Neppure in questo momento mi credete? E mi vedete agonizzare!

Parlavo a stento, ansavo; sentivo gorgogliarmi nel petto un rantolo di morte; gli occhi mi si erano annebbiati, un lentore mi invadeva. Dovetti appoggiarmi al tavolinetto per non cadere.

—Ho visto uno dei vostri grandi attori fare qualche cosa di simile. Siete inarrivabili voialtri italiani nella espressione di certi stati d'animo.

Era come dirmi: commediante!

Afferrai lo spillone, lo brandii minacciosamente.

—Bravo!—esclamò—Ferite!

E si rizzò e mi offerse il seno coperto di trine.

Ebbi la forza di sorridere, di rispondere con profonda dissimulazione:

—Sapete bene che non posso!…. Ah, Kitty!

—Non mi amate fino al delitto? Misero amore, il vostro!

Mi provocava, mi aizzava…. Era proprio sicura che non avrei potuto colpirla? Con una mano si tolse la sigaretta di bocca, esalò lentamente con voluttuosissimo godimento il fumo dalle labbra ristrette e dalle rosee narici, e aperse le braccia, ripetendo:

—Ferite!

—Sì, è vero—dissi—Se vi amassi in modo estremo….

Mi accostai, scartai con una mano la trina, appuntai lo spillone in direzione del cuore….

—… farei… così!

Lo spillone era penetrato senza nessuna resistenza fino alla capocchia….

Non diè un grido…. Travolse gli occhi e mi si rovesciò addosso, con un lieve sussulto per tutto il corpo.

Che cosa io abbia fatto dopo non so. Ricordo soltanto che passai la nottata presso San Domenico su la strada di Fiesole, seduto su un muricciolo, e che la luna inondava la campagna col suo pieno lume sereno, e che i grilli zirlavano tra le erbe dei prati attorno e che un cane abbaiava, a intervalli, lontano.

Ricordo che, a giorno alto, tornai a Firenze e che dovetti mettermi a letto con la febbre….

Volli leggere i giornali…. E vidi con stupore che nessuno di essi parlava dell'assassinio della bella signora russa in via Enrico Poggi.

Tre giorni dopo, non interamente guarito, mi levai da letto, e mi feci condurre colà da un fiacchere, senza dare indicazione precisa…. La via era silenziosa, come al solito; tutti i portoncini chiusi; tutte le persiane delle finestre o chiuse o socchiuse…. Nessun indizio che in quella via, in quella nota casa fosse avvenuta qualche cosa di straordinario.

Sapevo che gli assassini sentono una irresistibile attrazione verso i luoghi dov'essi hanno commesso un delitto, e pensavo: È vero! È vero! giacchè un vivo impulso mi dominava, un imperativo suggerimento mi diceva:

—Scendi dal legno!… Domanda a qualcuno…. Saprai!

E il terrore che mi invadeva non era quello di ottenere la certezza del mio delitto, ma l'opposto.

Suonai replicatamente al portoncino. Nessuno venne ad aprirmi.

Una donna che usciva dalla casa accanto si fermò a guardarmi esitante, poi mi disse:

—Sa? Non c'è nessuno.

—Abitava qui… una signora….

—È partita, da un pezzo. L'appartamento è sfitto.

—Da un pezzo?—domandai stupito.

—Eh! Da tre settimane, almeno. Mi sentii dare un tuffo al sangue…. E da quell'istante ho questo cerchio, qui, attorno alla fronte, e questi chiodi confitti nelle tempie….

Com'era possibile! Non l'avevo uccisa giorni addietro? Partita da tre settimane!… O dunque? In che modo io sono vissuto questi ultimi due mesi? In che modo tutto quel che vi ho narrato si è andato formando nella mia mente con la suprema evidenza della realtà? Io la ho vista… le ho parlato, ho udito la sua voce. È certo che ella abitava colà, in quel villino di via Enrico Poggi. È certo che io sono stato più volte in quel salottino azzurro….

Visitai la casa, col pretesto di prenderla in affitto…. Non c'erano più i mobili, niente; le dure pareti…. E c'era tuttavia il suo profumo, il profumo acutissimo di quelle sue sigarette…. Se non fossi stato colà altre volte, avrei potuto riconoscerlo?

Il guasto è qui, nel mio cervello…. Dottore, liberatemi da questo cerchio alla fronte!… Strappatemi questi chiodi dalle tempie!… Non voglio impazzire!…. È orribile!… Se non è morta, se ha potuto soppravvivere al colpo dello spillone conficcatole nel seno… è lei, la maga, che continua a tormentarmi!… Non crollate la testa…. È lei!… Che male le ho fatto? L'amavo!…. Oh! Immensamente!….

FINE.