The Project Gutenberg eBook of La fantesca

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Title: La fantesca

Author: Giambattista della Porta

Release date: August 31, 2009 [eBook #29872]

Language: Italian

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA FANTESCA ***

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GIAMBATTISTA DELLA PORTA

LE COMMEDIE

A CURA DI VINCENZO SPAMPANATO

VOLUME PRIMO

BARI

              GIUS. LATERZA & FIGLI
              TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI

1910

PROPRIETÀ LETTERARIA

AGOSTO MCMX — 25353

LA FANTESCA

LA «GELOSIA» FA IL PROLOGO.

So ben ch'ogniun di voi che mi vedrá cosí vestita di giallo, con faccia cosí pallida e macilente, con gli occhi sbigottiti e fitti in dentro e co' giri d'intorno lividi, con questi faci, serpi e stimoli in mano, desidererá saper chi sia e a che fin qui comparsa, rappresentandosi agli occhi vostri piú tosto una sembianza tragica e mostruosa che convenevole a' giochi e feste della comedia che aspettavate. Né io arei avuto ardir comparir in questa scena, se anticamente non vi fussero comparsi i Lari, gli Arturi, i Sileni, la Lussuria e la Povertá, e se l'amor che porto a queste mie carissime gentildonne non mi avesse fatto romper tutti gli ordini e le leggi. Dirò chi sia e a che fin qui comparsa. Io son la Gelosia.

Ma oimè! che in sentirmi nominare, tutte queste mie nobilissime signore si sono sbigottite e conturbate e hanno annubilato il sereno di lor begli occhi come avessero inteso qualche cosa orribile e paventosa, chiamandomi tòsco e veleno di cuori, peste infernale e conturbatrice de' piaceri, e che io finalmente impoverisca e conturbi tutto il regno di Amore. Orsú, lasciate l'odio e lo sdegno da parte, ascoltate le mie ragioni, che vedrete che non ha amor cosa né piú soave né piú degna di me. Dite, di grazia, che cosa è amore? Non è altro che desiderio di possedere e di fruire la cosa amata: e che sia vero, non vedete i vostri amanti i quali, per venire a questo ultimo fine, vi amano, vi servono e vi adorano, e per voi spendono la robba, la vita e l'onore? Ma, dopo aver acquistato il vostro amore, non vedete che quel desiderio a poco a poco viene ad intepidirsi, a raffreddarsi, anzi a spegnersi in tutto? Questo è vizio della umana natura: che le cose possedute sogliono rincrescere e le vietate esser desiderate. Agli amanti, dopo conseguito l'effetto, manca l'affetto; in voi, conceduto l'effetto, piú cresce l'affetto. Or considerate, signore mie care—se pur è alcuna fra voi che l'abbia provato,—che dispiacer sente quella poveretta, quando dopo tanti prieghi, o spinta da pari ardore o da vera pietade, gli fa dono dell'amor suo, e quando stima che l'amor debba crescere, quello veggia scemarsi, annullarsi, anzi in odio convertirsi? So che alcuna per non poter soffrir tanto martello, o col veleno o co' ferri o col precipitarsi in un pozzo, ha dato fine a sí acerbi dolori. Or ecco l'arte mia, ecco l'aiuto che vi porgo.

Primo, a questi svogliati gli propongo un rivale e gli lo depingo di maggior valore di lui; poi, subito gli avento al petto una di queste serpi, le quali scorrendogli per lo core, lo riempiono di gielo e di veleno; appresso, sottentro con queste faci accese nel foco tartareo e l'accendo di fiamme cocenti e ardentissime, e di passo in passo lo pungo con questi chiodi, coltelli e stimoli: talché in poco spazio di tempo gli riduco non solo ne' primi amori, ma piú tosto in rabie e furori e nella forma che voi mi vedete. Cosí piú ardenti e piú bramosi che mai, vi si buttano dinanzi a' piedi, a chiedervi perdono delle offese fattevi e desiar i vostri favori; e rinovellasi l'amore.

Perché pensate voi che ne piaccia la primavera se non per gli freddi, per gli venti e per gli ghiacci passati? perché la pace se non per i passati travagli della guerra? perché i cibi piú saporiti se non per il digiuno e per la fame? Non si conosce la felicitá se non si prova prima la miseria. Io dunque col fargli provar queste pene cosí pungenti e acerbe, gli fo saper i gusti piú suavi e piú dolci. Vi porgo ancora un altro aiuto. Essendo la scortesia dell'amato troppo superba e villana e ch'io non basto ad addolcirla, adopro questo compagno che vien sempre meco. Questi è lo Sdegno, armato sempre di orgoglio e di furore; questi subito abbatte ed estingue l'amore, e vi guarisce affatto e vi rende di modo come se non mai piú l'aveste udito; questi sol vince amore: vedete come preso e incatenato lo tragge nel suo trionfo.

Ecco ch'io non son quella che pensavate, ma son vostra amica; e io rinuovo e accresco i vostri diletti. Voi ne avete l'essempio in questa comedia. Una fantesca gelosa di un'altra fantesca, perché l'ha tolto il padrone ch'era suo innamorato, divien piú ardente al servire. La moglie è gelosa del marito per questa fantesca, onde piú l'ama e lo guarda. Questa fantesca che dá gelosia a tanti, è avelenata da gelosia di un forastiero romano, e per me divien piú sollecita a procurar le sue nozze. Ecco qui le due fantesche che per gelosia se azzuffano insieme: cominciate a veder le mie prove, e lodate sempre la Gelosia.

PERSONE DELLA COMEDIA

  NEPITA fantesca
  ESSANDRO giovane, sotto abito e nome di Fioretta fantesca
  CLERIA giovane innamorata
  GERASTO vecchio
  PANURGO servo di Essandro
  FACIO dottor di legge
  ALESSIO giovane
  PELAMATTI servo
  SANTINA moglie di Gerasto
  MORFEO parasito
  GRANCHIO servo di Narticoforo
  NARTICOFORO pedante
  Speciale
  Capitan DANTE spagnuolo
  Capitan PANTALEONE spagnuolo
  APOLLIONE vecchio
  TOFANO servo.

La scena dove si rappresenta la favola è Napoli.

ATTO I.

SCENA I.

NEPITA, ESSANDRO sotto nome e abito di Fioretta fantesca.

NEPITA. Non può esser mai pace in una famiglia, quando vi capita qualche fantesca di cattiva condizione. Da che ha posto piede in casa questa maladetta Fioretta, non ci è stata piú ora di bene. È stata mezana tra Cleria mia figliana e uno Essandro suo parente, che l'ha ridotta a divenir pazza e a menar vita da disperata; s'è attaccata a far l'amor col padron vecchio, e ha posto tanta gelosia tra lui e la moglie che stiamo tutti in scompiglio; l'ha tolto a me, che pur qualche voltarella mi recreava, di che mi scoppia il cuor di gelosia. Ma dove mi sei sparita dagli occhi, mona Fioretta? Mi vai tutto il giorno passeggiando con i guanti alle mani come una gentildonna: cosí si serve? cosí si mangia il pan d'altri, eh?

ESSANDRO. Nepita, come tu sei stracca di travagliar te stessa, attendi a travagliar gli altri: giocherei che non sai quel che vogli o non vogli.

NEPITA. Voglio che ti scalzi i guanti, vadi a lavar le scudelle, a nettar le pignate, a vôtar i destri e a far gli altri servigi di casa, intendi?

ESSANDRO. Cleria padrona mi ha invitata per i suoi servigi.

NEPITA. Son scuse tue. T'arai data la posta con qualche famigliaccio da stalla e or lo vai a trovar cosí mattino.

ESSANDRO. Misuri gli altri con la tua misura. Questa arte dovevi far tu, quando eri giovane.

NEPITA. E ti par dunque ch'or sia vecchia?

ESSANDRO. Mi par, no; lo tengo per certo, sí.

NEPITA. Dunque hai per certo che sia vecchia?

ESSANDRO. Tu stessa il dici.

NEPITA. Menti per la gola: odoro piú io morta che tu non puzzi viva, e a tuo dispetto son piú aggraziata di te.

ESSANDRO. Io non son bella né mi curo d'esserci, e mi contento come mi fece Iddio.

NEPITA. Se tu ti contentassi come ti fece Dio, non consumaresti tutto il giorno ad incalcinarti la faccia e a dipingerlati di magra, e col vetro o col fil torto trarti i peli del mustaccio. Or puossi dir peggio che femina barbuta? Poi hai una voce rauca, che par ch'abbi gridato alle cornacchie. Sfacciata che sei!

ESSANDRO. Questa arte m'hai tu forzata a farla, e non devresti ingiuriarmi di cosa di che tu sei stata cagione.

NEPITA. Mira con quanta superbia mi favella e mi viene con le dita sugli occhi ancora! Pensi che sia alcuna ricolta dal fango e non si sappi donde mi sia, come tu sei?

ESSANDRO. Nepita, tu hai altro con me e mi vai cosí aggirando il capo.

NEPITA. Poiché siam venute su questo, vo' che il dica: se non, che ci daremo infino a tanto delle pugna che ne sputiamo i denti.

ESSANDRO. Ti duoli di me che t'abbi tolto il padron vecchio Gerasto, che prima era tuo innamorato.

NEPITA. Oh, lo dicesti pure!

ESSANDRO. Ma se tu sapessi la cosa come va, non mi porteresti tanto odio, non aresti gelosia di me e m'amaresti come amo io te.

NEPITA. Io non ho gelosia di fatti tuoi. Ma se questo fusse….

ESSANDRO. Se prometti tenermi secreta e aiutarmi, oh quanto sería meglio per te!

NEPITA. Che mi vuoi far vedere, che sei vergine?

ESSANDRO. Ti scoprirò cosa che non pensasti mai.

NEPITA. Piglia da me ogni sicurezza che vuoi.

ESSANDRO. Ma avèrti che son cose d'importanza, non da pugne ma da pugnali, e importa l'onor di tua figliana.

NEPITA. Parla presto, non mi far stare piú sospesa, non mi far consumare.

ESSANDRO. Prestami l'orecchia.

NEPITA. Eccole tutt'e due, te siano donate.

ESSANDRO. Tu pensi ch'io sia femina, e io son maschio.

NEPITA. E può esser questo vero?

ESSANDRO. Come ascolti, e si può toccar la veritá con la mano.

NEPITA. Come non m'hai fatto prima toccar con la mano questa veritá?

ESSANDRO. Non son còlto dal fango o dalla vil feccia del populazzo, come tu dici; ch'io son genovese. E se ben devrei tacer la famiglia per non macchiar lo splendor di tanta nobiltá con la mia mattezza, pur vo' scoprirlati. Son di Fregosi.

NEPITA. Perché in questo abito? che util cavi di questa pazzia?

ESSANDRO. Lo saprai, se m'ascolti. Fuggendo di Roma di casa di mio zio Apollione che, per non esser ito alla scuola, promise battermi, me ne venni qui in Napoli dove, appena giunto, Amor mostrandomi Cleria, la tua figliana, al suo primo apparir ricevei con tanta forza le sue divine bellezze nel cuore, che altro contento non arei potuto desiar in questa vita che vedermi sazi pur una volta gli occhi di mirarla. Prima feci ogni sforzo a me stesso per distormi da tal pensiero, ma tutto fu vano; ché il male era tanto impresso nel vivo che ogni rimedio faceva contrario effetto, piú accresceva la doglia e piú inacerbiva le piaghe. Onde per non morirmi di passione, poiché l'esser sbarbato mi porgeva la comoditá, mi vestii da femina e m'introdussi a servir questa casa….

NEPITA. Chi ti consigliò questo? chi ti diè tanta audacia?

ESSANDRO. Amor mi fu consigliero, Amor mi diè l'ardimento e di sua mano mi pose questo abito adosso, Amor mi fe' il sensale e mi condusse a servirla.

NEPITA. O Dio, che cosa ascolto!

ESSANDRO…. Entrato che fui dentro, tu ben sai con quanta diligenza abbi servito la casa, e principalmente la mia divina padrona; sí che in poco spazio di tempo le son divenuto cosí grato che sempre ragiona meco: m'ha scoverto tutti i suoi segreti e postomi tutte le sue cose in mano, non vuole che altri la spogli e la lavi, mi bacia e mi fa tante carezze che, se fossi nella mia forma, non le saprei desiderar maggiori….

NEPITA. Dunque sei giunto a quanto desiavi, sei felicissimo.

ESSANDRO…. Ahi, che non fussi mai stato! Ho fatto come l'infermo che sempre appetisce quel che gli nòce. Pensava io miserello che, accostandomi a quello incendio onde tutto brugiava, la mia focosa brama fusse estinta; ma io mi sento piú acceso che mai. Son avampato di sorte che non fu mai fiamma, combattuta da venti, cosí ardente come questa alma. Ardo nel fuoco ch'io medesimo m'ho fatto, e come fenice mi rinuovo nella mia fiamma. Or conosco che di tutti gli umani desideri solo l'amoroso è insaziabile. Onde, avendo gustato cosí dolcissima donna, mi par impossibile il poter vivere senza lei….

NEPITA. Dunque l'hai gustata, eh?

ESSANDRO. Dunque non si può gustare senza conoscerla?

NEPITA. Come hai potuto contenerti?

ESSANDRO…. Io, vedendo ch'ella era vergine e che non sentiva ancora di cose di amore, dubitai che, scoprendomele, l'avesse manifestato a suo padre o madre che m'avessero scacciato di casa, e la mia temeritá m'avesse posto a rischio di farmi perdere tanto bene. Mi parve piú sicuro soffrire e godere quanto poteva. Anzi, alcuna volta veggendola star allegra, volli scoprirle ch'io era uomo e l'inganno che aveva usato per servirla; ma delle parole, che prima m'avea preparate attissime a manifestarle il mio stato, parte vituperava e parte mutava; alfin, avampato di rossore, restava mutolo. Ed ella mi pregava che finisse il ragionamento, non pensando dove avesse a riuscire.

NEPITA. Sei stato un bel grosso a non manifestarti!

ESSANDRO. Anzi niuna cosa mi fe' restio se non l'esser stimato da lei per un grosso.

NEPITA. Non dubitar che alle donne piacciono piú questi uomini di grosso ingegno che quelli di delicato e sottile, per esser troppo fastidio a trattar con loro che nel piú bel maneggiargli o si torcono o si spezzano. Ma come ponno star insieme due cose contrarie? se tu sei innamorato di Cleria, come sei ruffiano di Essandro, quel tuo parente?

ESSANDRO. Or saprai il tutto…. Stando in questi dubbi, Amor che non lascia mai perir i suoi seguaci, mi scoverse un modo come avessi potuto sicuramente tentar l'animo e il suo onesto proponimento. Un giorno mi mandò per un suo servigio, tardai molto, mi domandò la cagione. Le dissi che avea incontrato un mio fratello nato meco ad un parto che tutto rassomigliava a me, che l'avea lasciato picciolo in Roma e or servea per paggio al viceré; e glie lo dipinsi tanto grazioso che a lei venne desiderio di vederlo. Come la viddi ben accesa, e me ne pregò molte volte, me n'andai a casa di Panurgo mio servo che trattengo in una osteria; e vestitomi delle mie vesti da maschio, passeggiandole intorno la casa, conobbi chiaramente ch'ella non poco godeva della mia vista. Mi spoglio le vesti da maschio, mi rivesto la gonna e torno a casa. Giunto, mi butta le braccia al collo e mi dá mille baci, dicendo che mentre baciava me, le pareva di baciar mio fratello….

NEPITA. La povera figlia diceva il vero, non s'ingannava. Alfine?

ESSANDRO….Alfin mi scuopre ch'era innamorata di lui e che la sua pena era indicibile, e mi priega che gli porti alcune ambasciate e presentucci; e io, tutte le risposte che piacevano a me, glie le diceva da parte di mio fratello.

NEPITA. Io non ho inteso al mondo mai la piú bella istoria: orsú, che pensi di fare?

ESSANDRO. Or io vedendo che la barba tuttavia spunta fuori, come hai tu detto, non posso star piú nascosto in questo abito; e il peggio è che Gerasto, il padron vecchio, è cosí sconciamente innamorato di me che fa le pazzie. Tu lo sai: non mi incontra mai sola per la casa che alla sfuggita non mi tocchi e solletichi. O Dio, a che pericolo mi trovai! che pensiero sarebbe stato il mio, se trovato altro di quel che pensava!…

NEPITA. Ah, ah, ah, con quanto piacere ascolto questo!

ESSANDRO…. Onde oggi ho proposto venirci da maschio, scoprirle i miei secreti e, se m'accetta per sposo, avisarne mio zio e farla chiedere legitimamente per sposa; ché come Gerasto sará informato ch'io mi sia, me la concederá davantaggio.

NEPITA. Certo che mi è caro, ché m'affliggeva il cuore veder patire quella povera figlia. Le vengono alle volte certi svenimenti di cuore, che par che si muoia: ti porta tanto amore che avanza ogni meraviglia. Or credo che sei de' Fregosi, poiché l'hai posta in tanta frega.

ESSANDRO. Or la fede che ho avuta in te, di averti scoverto quei secreti che fin qui non ho confidato con niuno, ti obliga ad essermi fedele; ché conseguito il matrimonio, farò che le leggi della nobiltá abbino quella forza in me che aver denno. Io ho un servo in casa, che ha gambe sotto cosí robuste ch'è buon per caminare quattro e cinque miglia per ora, come tu proprio vorresti: te lo darò per marito, e serai madre di mia moglie e padrona della casa.

NEPITA. Ne vedrai la prova, che d'oggi innanzi m'adoprerò in tuo aiuto con ogni modo possibile.

ESSANDRO. Tuo ufficio sará d'aiutarmi, poiché cosí speranza me ne dai.

NEPITA. Ma, per parlarti alla libera, non posso credere che tu sia maschio.

ESSANDRO. Credilo, che è cosí.

NEPITA. Giamai credei a parole.

ESSANDRO. Dunque, nol credi?

NEPITA. No, che voi giovani vi dilettate di dar la baia: però bisogna prima chiarirsene e poi credere.

ESSANDRO. Farò che lo vedrai.

NEPITA. E questi che fan le bagattelle, pur fan veder molte cose che non sono.

ESSANDRO. Farò che tocchi la veritá con le mani.

NEPITA. Or questo è altra cosa.

ESSANDRO. Va' e dille che si facci su la fenestra, ché vuol ragionarmi, e a questo effetto sono qui fuora.

NEPITA. Volentieri.

ESSANDRO. Col fidarmi di costei, ho fatto duo buoni effetti: toltomi dinanzi lei, che era la maggior nemica che avessi in questa casa, e adesso, come consapevole, mi aiutará con la sua fígliana.

SCENA II.

CLERIA giovane, ESSANDRO.

CLERIA. Fioretta mia, fatti piú in qua, che non m'oda mia madre che sta nell'anticamera.

ESSANDRO. Eccomi, signora mia.

CLERIA. Dirai primieramente ad Essandro mio che vorrei mandargli mille saluti e consolazioni, ma non posso; che non ho né salute né consolazione, e mal posso partir seco quelle cose che non possedo. E se pur volessi mandargli qualche salute, bisogneria che mandassi se stesso a lui medesimo; perché egli solo è il mio contento e la mia salute, e sempre che son priva di lui, son inferma e scontentissima.

ESSANDRO. Appresso?

CLERIA. Che non mi veggio mai sazia d'odiar me stessa per amar lui, e che il fuoco è tanto cresciuto che son tutta di fiamma; son tanto sua che in me non vi è nulla piú del mio, son transformata in lui stesso; e se volesse essere per qualche breve spazio mia, bisogneria che me gli cercasse in presto, avendo locato in lui la somma d'ogni mio desiderio e avendolo eletto per fin d'ogni mio bene.

ESSANDRO. Benissimo.

CLERIA. E digli che s'io potessi, vorrei chiamarlo crudele; che sapendo bene che dalla sua vista gli spirti miei prendono l'alimento della lor vita, e mancandomi la sua vista mi mancaria la vita, perché mi fa carestia di cosa che sí poco gli importa, e dandomene molto, a lui non scema nulla? E che quindi fo argomento che non risponde con amore a chi l'ama, né con la fede a chi gli è fedele: e non cercando vedermi, come posso creder che m'ami?

ESSANDRO. Signora, state sicura ch'egli sempre vi vede.

CLERIA. Mi vede, eh?

ESSANDRO. Vi vede, vi parla, vi tocca e vi sta sempre appresso.

CLERIA. Egli mi tocca e vede? Fioretta, dici da vero?

ESSANDRO. Cosí da vero come vi vedo e tocco io.

CLERIA. Egli mi tocca?

ESSANDRO. Ti abbraccia, ti bacia e ti vede sempre, e ha tanto piacer di vederti e di abbracciarti che mai simil ebbe; ed egli si terrebbe felicissimo se in quel punto fusse riconosciuto da voi.

CLERIA. Scherzi, eh?

ESSANDRO. Possa morir se scherzo.

CLERIA. Perché dunque non mi si scuopre?

ESSANDRO. Perché dubita.

CLERIA. Di che dubita?

ESSANDRO. Che avendolo forse a male, lo privaste di tanta gioia; e s'egli stesse un sol giorno senza vedervi, si morrebbe di ambascia.

CLERIA. Col pensiero forse mi tocca, ch'altrimente non so come possa esser vero ch'egli mi tocchi.

ESSANDRO. Dico che vi vede con gli occhi.

CLERIA. Come con gli occhi?

ESSANDRO. Con gli occhi aperti, e vi tocca con le sue mani proprie.

CLERIA. Lo dici per ischerzar meco; né io sarei cosí sciocca o fuori di me medema, che veggendomi innanzi e ragionandomi quello che piú della propria vita amo, io non lo conoscessi.

ESSANDRO. Anzi, or ora vi vede.

CLERIA. Forse sta nascosto qui intorno?

ESSANDRO. Dico che vi sta innanzi come io, e vi parla come io.

CLERIA. Come può esser questo vero, se qui non veggio niuno altro che te, né altri che tu mi parli? Ma dimmi, Fioretta carissima, sai tu quanto egli m'ami?

ESSANDRO. V'ama quanto io.

CLERIA. So che tu m'ami, non ne sto in dubbio; ma tu sei mal cambiata da me, che ti amo quanto si può, perché mi rassomigli tutta a tuo fratello.

ESSANDRO. Anzi piú m'amaresti, se mi conoscessi.

CLERIA. Come non ti conosco? cosí tu conoscessi l'amor che porto a tuo fratello, che trovaresti modo di darmi qualche rimedio.

ESSANDRO. O Dio, che non è cosa che piú desii al mondo, che darti questo rimedio.

CLERIA. Se ben tu dici cosí, pur ben m'accorgo non essere amata quanto merita l'amor mio. Perché se pur alcuna volta passa per qua, lo veggio cosí timido e sospettoso, cosí celato il viso nella cappa che par che dubbiti di qualche tradimento; e quanto può piú presto, da qui si parte, il che mi dá tanto dolore quanto è l'amor che li porto.

ESSANDRO. È giovane, signora: questo è il suo primo amore. Vorrei io esser lui, ché conoscendo quella bellezza che in voi singular si scuopre, i divini costumi e l'onestá, sí ricco tesoro di grazie, mi terrei felicissimo; quando una sol volta fussi mirato da voi, saresti osservata e riverita da me, qual si conviene al vostro merito.

CLERIA. Mi vergogno non essere come tu dici, solamente per piacergli. Ma se tu fossi lui e t'accorgessi ch'altri ti amassi e si struggesse per te, faresti come gli altri uomini, cominciaresti a star in contegno, far del re e alzaresti la coda.

ESSANDRO. Avete il torto, signora, far questa stima di me, che non alzarei piú la coda di quello che fo al presente o feci per lo passato.

CLERIA. Dunque, poiché t'è cosí aperto e nudo il cor mio come la fronte, perché non gli manifesti quanto l'amo?

ESSANDRO. Anzi, egli si duole di me che non gli manifesti il suo amore: alfin, io sarò la cagione d'ogni male.

CLERIA. Anzi, la radice e fonte d'ogni bene. Va' dunque, Fioretta mia, e digli che avendomi comandato che volea ragionarmi, ecco ch'io sono apparecchiata;…

ESSANDRO. Andrò volontieri.

CLERIA…. ch'io piango e ch'io muoio….

ESSANDRO. Sará fatto…

CLERIA…. E se m'ama, che venghi presto….

ESSANDRO…. quanto comandate….

CLERIA…. E se mio padre non si contenta darmelo per sposo, digli ch'io vo' fuggirmene seco nella fin del mondo.

ESSANDRO…. Volete altro?

CLERIA. Non altro; raccomandamegli strettamente.

ESSANDRO. Entratevene, che vostro padre non vi vegga.

CLERIA. Fa' di modo che tu mi porti bone novelle.

ESSANDRO. Bene.

CLERIA. E se pur non mi trovasse in fenestra, che fischi, ché verrò subito.

ESSANDRO. Me ne vo.

CLERIA. Aspetta, aspetta, ascolta questo.

ESSANDRO. Entrate, ché Gerasto vostro padre vien fuora; che non vi vegga.

SCENA III.

GERASTO vecchio, ESSANDRO.

GERASTO. Non è piú infelice vita al mondo di quella d'un vecchio e innamorato; ché se la vecchiezza porta seco tutte le infirmitá e imperfezioni, amor tutte le doglie e passioni—ch'una di queste non bastano diece persone a sostenerle,—or pensate queste due in un sol uomo quanti travagli gli ponno dare. Io amo una che, se ben la fortuna me la fa serva, la sua bellezza me le fa schiavo; e se ben l'ho in casa, n'ho carestia: se l'ho innanzi, non posso mirarla. Son come colui che sta dentro l'acqua e si muor di sete, gli pendono i frutti sovra la testa e si muor di fame; ché l'arrabbiata cagna di mia moglie n'arde di gelosia, non la lascia un sol passo sola per la casa, e se si parte, la lascia serrata a chiave in camera con mia figlia. E se desio di starmi in casa, a mio dispetto m'è forza di starne fuori. Ma eccola qui. Dove si va, Fioretta mia, mio maggio fiorito?

ESSANDRO. Per un servigio della padrona.

GERASTO. Non ti partir, Fioretta mia: lascia che ti miri un poco, se a te non è discaro l'esser mirata; e lasciami sfogar cosí parlando teco, poiché non posso altro. Tu non sei fiore che nasci a tempo di primavera; ma a suo dispetto la primavera nasce dove tu sei. Niun fiore può paragonarsi con te, che porti i giacinti negli occhi e i gigli nelle carni, e parli rose e spiri gelsomini e fior di naranci.

ESSANDRO. Dove avete lasciati i garofoli?

GERASTO. Perché son troppo palesi in questi tuoi labrucci. E se Dio volesse far un re sovra i fiori, non eleggeria altro che te, tante sono le tue bellezze.

ESSANDRO. Vo' partirmi.

GERASTO. Férmati un altro poco. Ti ricordo che non senza cagione ti han posto nome Fioretta, accioché tu ti accorga che questa tua bellezza se ne va come un fiore: la mattina è bello, la sera languido e secco. Or che sei nella primavera, sappilo conoscere, che presto verrá l'autunno, sfronderai, diverrai secco, e non serai buono né per insalata né per salsa.

ESSANDRO. Che vorresti dir per questo?

GERASTO. Ch'io vorrei essere il tuo orto, piantarti nel mio seno, zapparti ben bene, inaffiarti e farti produrre i piú bei frutti che nascessero giamai. Almeno fussi ape che andasse succhiando quel mele che sta dentro cosí bel fiore. Almeno potessi darli quel che li manca.

ESSANDRO. Ne ho soverchio e m'avanza.

GERASTO. Non dico quel che tu pensi.

ESSANDRO. Né tu pensi quel che dico.

GERASTO. Cosí potessi fartene veder l'esperienza!

ESSANDRO. Cosí io potessi farla vedere a tua figlia!

GERASTO. Che dici di mia figlia?

ESSANDRO. Dico che essendo serva di vostra figlia, mi dovreste amar da padre.

GERASTO. T'amo piú di tuo padre assai, e d'altro amor che non farebbe tuo padre o fratello.

ESSANDRO. Voi dite cose triste, mi fate vergognare: mi vo' partire.

GERASTO. Fermati, che vo' darti una buona nuova.

ESSANDRO. È qualche veste questa nuova che volete darmi?

GERASTO. Dico, novella la piú lieta che avesti avuto giamai.

ESSANDRO. Ditela, che mi sentiva prorir l'orecchia per ascoltarne alcuna.

GERASTO. Son certo che te la raspará, perché ti sará grata. Ma vo' duo baci per mancia, che mi sento prorir le labra.

ESSANDRO. Ditela, ché poi ve li darò.

GERASTO. Ho maritata la tua padroncina.

ESSANDRO. Con chi?

GERASTO. Con un giovane romano, ricco, dotto e bellissimo.

ESSANDRO. Chi è questo giovane cosí aventuroso?

GERASTO. Cintio, figliuol di Narticoforo, maestro di scola dottissimo. Ci abbiam scritto tante volte che alfin siamo restati d'accordo della dote e d'ogni cosa.

ESSANDRO. Come non n'avete fatto parola mai?

GERASTO. Se lo diceva a Santina mia moglie, che è una cicala, sarebbe andata cicalando per gli parenti, amici e vicini, e n'arebbe pieno Napoli in un'ora; e poi forse non essendo d'accordo, saressimo stati burlati da tutti.

ESSANDRO. Quando dunque verran costoro?

GERASTO. Quanto prima, e forse verran oggi che è giornata del procaccio.

ESSANDRO. Oimè!

GERASTO. Oh, come sei divenuta pallida! che ti duole?

ESSANDRO. Oimè, il cuore!

GERASTO. E come sará maritata, mariterò ancora te.

ESSANDRO. Mi sento morire, mi sento uscir l'anima!

GERASTO. Su, dammi i baci per la buona nuova.

ESSANDRO. Partetivi, di grazia: ho sentito la padrona in fenestra, e credo ne facci la spia.

GERASTO. Io mi parto non cosí mio come tuo; e amami, se ti par che l'amor mio lo meriti. Va' e da' questa buona nova a mia figlia, fatti dar la mancia e confortala a far la mia volontá. Oh, come sei tramortita! sará stato l'allegrezza della nuova che ti ho data? Fatti far una fregagione alle gambe, ché non sará nulla.

SCENA IV.

ESSANDRO solo.

ESSANDRO. Un poco piú che fusse tardato a partirsi, avrebbe veduto le lacrime ancora, ché non potea piú ritenerle. Fu tanta la doglia che strinse il cuore a questa nuova, che restai tutto conquiso; poi rivenuto e riscaldato, m'andò l'umore agli occhi: sento le lacrime, eccole cader fuora. O Amor, crudelissimo tiranno, prima ch'io conoscessi la libertá, me ne spogliasti; e prima che conoscessi la vita, mi facesti provar le tue morti. Mi vendi le tue brevi gioie, le tue fuggitive dolcezze a mari di lacrime, a milioni di sospiri, a prezzo di lunghi e infiniti affanni. Non mi tacesti provar dolcezza mai che non fusse meschiata d'assenzio, né piacere che non vi fusse il veleno sotto. In una sol cosa sei giusto, perché usi sempre ingiustizia. Con false lusinghe ne lievi fin alle stelle, per farci poi conoscere la caduta maggiore: e ché dalla grandezza del bene conoscessi l'infinitá del mio male, dal sommo dell'altezza mi abassi nel fondo de' fondi della miseria e disperazione. Maladetta sia quella altezza che è sol fatta per precipizio, maladette le tue dolcezze e maladetto sia tu, Amore, che ne le dái! O Cleria, sommo contento dell'anima mia, che farai quando sentirai questa nuova, se pur ami il tuo Essandro quanto dimostri d'amare? Tu meco ti querelerai, meco ti dorrai e da me cercherai consiglio: e io, misero e isconsigliato, che consiglio ti potrò dare? Almeno l'avessi saputo un anno prima, ché a poco a poco mi avessi avezzo a disamarla.

SCENA V.

PANURGO servo, ESSANDRO.

PANURGO. Veggio Essandro di mala voglia. Padron caro, che cosa avete?

ESSANDRO. Oimè, son morto!

PANURGO. Cattivo principio! cada questo augurio sovra chi ci vuol male.

ESSANDRO. È pur caduto sovra di me, ché non è sí misero stato col quale non cambiassi il mio.

PANURGO. Sète forse stato discoverto per maschio?

ESSANDRO. Peggio.

PANURGO. Il vecchio vi ha cacciato di casa?

ESSANDRO. Peggio.

PANURGO. Che cosa vi può accader peggio di questa? Avete confidato in me maggiori secreti, potrete confidar ancor questo.

ESSANDRO. Ho adesso quell'istesso animo, che ho avuto per lo passato, di fidarmi nella tua fede; né mi parrebbe aver compita felicitá, se non ne facesse a te parte.

PANURGO. Dite, ché forse ci troveremo rimedio.

ESSANDRO. Gerasto…

PANURGO. Che cosa Gerasto?

ESSANDRO…. ha pur…

PANURGO. Che cosa ave?

ESSANDRO…. dato…

PANURGO. Bastonate a voi, forse?

ESSANDRO. Volesselo Iddio!

PANURGO. Che dunque ha dato?

ESSANDRO…. marito a Cleria mia. Ecco venuto quel giorno che ho temuto e portato tre anni attraversato nel core! ecco la separazione e il fine di nostri amori! Cesseranno i ragionamenti, i baci e la dolcissima conversazione!

PANURGO. Non piangete.

ESSANDRO. La fiamma è cosí ardente nel petto che, se non avessi queste lacrime, abbruggiarebbe il cervello. Ma perché non debbo io piangere? che consolazione arò piú in questa vita? deh, perché non la lascio? perché non m'uccido per disperato?

PANURGO. Padrone, ricordatevi che la disperazione è ruina delle speranze; e il ricorrere che si fa piú tosto alle lacrime che a' rimedi, è di persona vile e che non vuole che i desidèri si conduchino a fine. Fa' vela quanto tu vuoi, ché con vento di sospiri mai si condusse nave in porto. Bisogna audacia contro la fortuna. Un buono animo ne' mali è un mezzo male. Non vi perdete d'animo!

ESSANDRO. L'animo non è possibile che piú lo perda.

PANURGO. Perché?

ESSANDRO. Perché è giá perso.

PANURGO. Richiamatelo a voi.

ESSANDRO. È gito in essiglio, va vagando troppo lontano.

PANURGO. Ed è possibile che siate cosí povero di partiti che non sappiate trovar rimedio al vostro male?

ESSANDRO. Se non ho l'animo meco, come posso trovarlo?

PANURGO. Orsú, lasciate che ritiri me stesso un poco in consiglio secreto; suoni il tamburro e chiami sotto l'insegna le trappole, gl'inganni, le finzioni, le furfantarie; facci la rassegna e metta l'essercito in rassetto, accioché diamo l'assalto a questo vecchio e lo poniamo in tanti travagli che a suo dispetto lo facciamo cadere.

ESSANDRO. So che, disponendoti d'aiutarmi, posso promettermi dal tuo ingegno quanto desidero.

PANURGO. Pensi che sieno finite le stampe di quei Davi e Sosi e di quei Pseudoli delle antiche comedie? Or stammi di buona voglia.

ESSANDRO. Andiamo a casa tua, che vo' vestirmi da maschio, ché oggi la vo' finir con Cleria: tentar prima l'animo suo e palesarle il tutto, poi seguane quel che si voglia.

PANURGO. Andiamo, per la strada voi mi narrerete il successo, e pigliaremo qualche partito a disturbar questo matrimonio.

ATTO II.

SCENA I.

FACIO dottor di leggi.

FACIO. Un di travagli che abbiamo in questa vita è l'aver a trattar con questi sarti ladri assassini, che dopo averti fatte tutte le tirannie possibili al panno, a' finimenti e alle fatture, gli piace, per farti il peggio che sanno, di straziarti una settimana in darti le vesti fatte, ancorché potessero farle in una ora. Mi disse iersera che all'alba me l'arebbe recate, e omai è ora di pranso e non lo veggio comparire; e mi fará partir per Salerno molto tardi. Andrò in sua bottega. Chi vuol, vada.

SCENA II.

ESSANDRO, Panurgo.

ESSANDRO. Sí che, di grazia, narrami l'inganno che hai tu pensato per disturbar questo matrimonio.

PANURGO. È tanto a proposito e grazioso che mi muoio delle risa pensandovi.

ESSANDRO. Parla presto, di grazia, che non passi l'ora di trovarmi con
Cleria.

PANURGO. Voi mi avete detto ch'eglino non si conoscono di vista.

ESSANDRO. No; ma la loro amicizia è sol per lettere.

PANURGO. Ascoltate, di grazia. Troveremo un uomo vecchio dell'etá di Narticoforo e un altro giovanetto storpiato, o lo sconciaremo noi piú della mala ventura, e li faremo oggi smontar in casa di Gerasto, che lui, veggendolo cosí brutto, si vergogni darlo per marito a sua figlia e gli dii licenza.

ESSANDRO. E quando Gerasto volesse pur darglilo, per contentarsi egli di poca dote, essendo molto ricco…?

PANURGO. Faremo che Cleria non si contenti.

ESSANDRO. Cleria è timida, rispettosa; non ardirá questo.

PANURGO. Mancherá di trovar il pelo all'uovo? Ho detto il disegno cosí in grosso, poi tanto voltaremo di qua e di lá e l'anderemo polendo e accommodando, che stii a modo nostro.

ESSANDRO. Se ben Gerasto non è degli accorti uomini di questa terra, pure con questo inganno ingarbugliaremmo altro cervello che il suo. Ma chi sará costui che saprá fingere Nartícoforo, e Cintio quel giovane cosí storpiato?

PANURGO. Stimate voi che disponendomi io a questo, non sappi fingere
Narticoforo, quel maestro di scuola?

ESSANDRO. Ma bisognarebbe alle volte sguainare qualche parola in «bus» e in «bas».

PANURGO. Se ben pensate ch'io sia qualche poveruomo, son pur nobile; che per certe fazioni della mia patria fu bisogno scamparne fuori, e non avendo avuto modo come vivere, con quelle poche lettere che avea imparate in casa mia per mio trastullo, col fare il pedante in diversi paesi ho vissuto onorevolmente. A prima giunta gli darò in faccia un «Quanquam te, Marce fili…».

ESSANDRO. Ti conosco di tanto ingegno che saresti per aggirar altro capo che il suo. Ma chi fingerá Cintio?

PANURGO. Ci sono il Capestro, il Truffa, e Morfeo parasito, che è il miglior di tutti, perché attaccandomi un fegadello al tallone, me lo strascinerò appresso dieci miglia, ed è poco conosciuto in questa terra.

ESSANDRO. Bisogna che sia ribaldo da dovere

PANURGO. Egli è ribaldo, arciribaldo, re di ribaldi e mille volte peggio di quel che vogliamo; né bisogna che molto l'ammaestriamo, ché appena accennandogli il principio, capisce il negozio e compone di testa.

ESSANDRO. O Dio, che quanto piú mi volgo questo inganno per l'animo, piú mi riesce a proposito! Dove arremo vesti orrevoli per vestir Narticoforo?

PANURGO. Pregheremo Alessio nostro amico, overo ne allogheremo alcune, se ci mancano.

ESSANDRO. Qui bisogna prestezza, ché la ruina è vicina. Vai e ritrova il parasito e Alessio, e reca le vesti a casa tanto presto che quando io stimi che cerchi le cose, ti trovi a casa.

PANURGO. Me ne vo, dunque.

ESSANDRO. Dove?

PANURGO. A casa, senza far altro, accioché quando stimi che cerchi le cose, mi trovi a casa.

ESSANDRO. Burli? di grazia, vola.

PANURGO. Dammi l'ale, che volarò. Non dubitate, sarò io colá prima che voi. Ma prima vedrò se potrò trovar Alessio per le vesti.

ESSANDRO. Io fra tanto farò il segno, poiché non è in fenestra. Fis, fis. La sento venire.

SCENA III.

CLERIA, ESSANDRO.

CLERIA. Essandro, anima mia, mirate, di grazia, se per gli usci e per le fenestre sia alcuno che curi piú gli altrui che i suoi propri affari.

ESSANDRO. Signora, giá potrete sicuramente comparire, che non appar anima viva.

CLERIA. Dolcissimo Essandro, io non vorrei, per essermi cosí volentieri condotta a ragionar con voi, vi cadesse nell'animo qualche sospetto della mia onestá: ché certo non mi sarei ridotta a questo termine, se non avessi fatto prima deliberazione di esser vostra; e se ben son in potestá di mio padre e a lui tocca disponer di me quel che ne vuole, pur se a me ne resta qualche particella, ve la dono tutta, né vo' viver se non vostra.

ESSANDRO. Né pensiate, signora, ch'io avessi avuto ardir di venir a ragionarle, se non avessi fatto fra me la medema deliberazione. Son troppo incomparabili le vostre bellezze, né il mio cuore sa arder se non per voi, né questi occhi sanno in altro specchiarsi se non in voi, lucidissimo mio sole.

CLERIA. In me non fu bellezza giamai, e se pur ve n'è qualche segno, vien dalla reverberazion della luce che senza pari è in voi. Onde oggi io vi fo dono di me stessa, e se il presente è troppo basso, accompagnato dall'affetto dell'anima mia, merita che sia accettato e gradito da voi.

ESSANDRO. O dolce oggetto degli occhi miei, come io potrò ringraziarvi del ricco presente che voi mi fate? Non è spirito in me che non si sforzi ringraziarvi, né ponno giungere al segno; vorrei che voi poteste ascoltar la lingua dell'anima, ch'ella sola lo può esprimere: onde con quello animo che ho accettato il vostro dono, accettate il mio che vi fo di me stesso.

CLERIA. In man vostra sta il far prova di questo amore, se è tal quale io lo dico.

ESSANDRO. Cuor mio caro, accorgendomi quanto sia la finezza dell'amor suo, e conoscendovi signora di gran cuore, prendo baldanza di chiederle una grazia col piú interno affetto che possa pregar un cuore: che queste parole, che con tanto periglio dell'onor suo si possono ascoltar da vicini, gliele potessi dir in camera sua.

CLERIA. Ah, Essandro, or conosco che siete come gli altri uomini, che vedendo una donna che vi mostri qualche segno d'amorevolezza, subito volete abusar la cortesia col voler giungere a quel termine senza il quale l'amor par che sia nulla; e per sodisfarvi d'un capriccio di niente, volete vituperarla per sempre. Or non è questo piú tosto umore che amore? Pregovi dunque che non mi comandiate ch'io facci cosí gran torto all'onor mio: considerate bene la dimanda che mi fate, e siate giudice di voi stesso. Vostra sorella m'ave assicurato che da voi non mi sará chiesto cosa che ad onestissimo amor non si convenga: mi volete parlare, ecco vi ubidisco; accettate dunque col mio buon volere tutto quello ch'io posso.

ESSANDRO. E vi basta l'animo, signora mia, far cosí grande oltraggio al debito e alla riverenza che vi porto, cadendovi nell'animo ch'io disegnassi farvi cosí gran torto? Può dunque essere che, veggendomi scolpita nella fronte ogni mia voglia, facciate di me cosí iniquo pensiero? Non merita tanta asprezza la mia fede che vi osservo, né l'inestimabil amor che vi porto, amandovi sovra ogni cosa mortale. V'ho chiesto questa grazia sol per iscovrirvi certi secreti de' nostri amori, non con quello animo certo che stimate; e con questo desiderio son venuto a provocar la grandezza del vostro animo a una grazia cosí segnalata. Tranquillate dunque ogni torbido del vostro cuore e scacciate da voi cosí vano sospetto. E se fedel servitú merita qualche guiderdone, fate forza a voi stessa a sodisfarmi; che qui si tratta di far cimento della realtá dell'amor che dite portarmi, e di dar vita ad uno che ha sol cara la vita per spenderla in vostro onore.

CLERIA. Padron mio caro, se son caduta in error di troppa amorevolezza, non vorrei cader in opprobrio di troppo sfacciatezza e disonestá; onde vi prego a non far cosa onde giuntamente abbiamo a pentircene, anzi voi stesso debbiate portarmene odio perpetuo. E se la cosa amata può impetrar alcuna grazia dal suo amante, vi prego che soffriate questo disgusto e compensiatelo per quando saremo nostri, col ricordo di non aver fatto mai cosa che onestissima non fusse stata.

ESSANDRO. Misero me, non ancor conoscete la mia fede a mille segni? Assicuratevi tutta nella mia fede, che la troverete piú fedele dell'istessa fedeltá, e sappiate che dubitar nella fede dimostra infedeltá.

CLERIA. S'io non fusse fidelissima, non vi arrei amato e servito con tanta fede.

ESSANDRO. E se mai fedel amor meritò che gli sia prestato fede, credetemi a questa volta; e se altramente vedrete succedere, vo' che la vendichiate con quanta asprezza e crudeltá meritarebbe cosí iniqua discortesia. Io non ardirò alzarvi gli occhi su il viso, né far altro di quello che da voi, mia regina, mi sará espressamente comandato.

CLERIA. L'amor che vi porto e la gelosia che ho dell'onor mio, stanno al pari ad una bilancia. Dio sa come posso negarlovi.

ESSANDRO. Non mi avete detto poco anzi, signora, che voi me vi donavate e che eravate mia? Dunque, come di cosa mia ne vo' disporre a quel che voglio, né voi potrete negarmi cosa alcuna; e il negarmi questa grazia è il negarmi voi stessa.

CLERIA. Io non niego che non me vi abbi donata e che non sia tutta vostra; ma in quel solo che può apportar biasmo e disonore al nostro commune amore, mi sottraggo dal vostro imperio: e in quello mi prestiate per un poco a me stessa, e poi subito torno ad esser vostra piú che era prima.

ESSANDRO. La donazione fu libera e senza queste eccettuazioni: vi dovevate pensar prima che donarmevi. Or essendo mia, vo' disponere di voi come di cosa propria.

CLERIA. Ma ditemi, signor mio, come io me vi donai tutta, cosí voi intieramente vi donaste a me: or come cosa mia e non vostra, io vi comando che non mi debbiate astringere a questo fallo. E se voi sète gentiluomo e non m'avete detto mentita, mi ubidirete; e se non m'ubidirete, è segno che mi vi sète dato per beffarmi e per mancarmi di parola; e io non vo' per signor della mia vita persona che manchi al debito di gentiluomo.

ESSANDRO. Imaginatevi, anima mia, che siate in un steccato dove si combatte con arme di amore e di cortesia; e se ben la vittoria rimane appo il vinto, pur è gran carico lasciarsi vincere di cortesia. Se questa speranza che ho in voi mi vien fallita, non mi resta altro che morte. Signora, a tanti oblighi aggiungete questo altro. La vostra cortesia vinca il mio merito; gradite la mia dimanda la qual quanto è piú importante, piú mi dimostra il vostro amore e la cortesia. Fioretta mia sorella m'ha riferito che per questo vicolo rare volte vi passa persona, e vi è una porta che vien dritto in camera vostra, e la balia ne tien la chiave: se ciò mi negate, dirò che non da téma di onore, ma vien da desiderio della mia morte.

CLERIA. Io conosco, cuor mio, che non è cosa al mondo, per grande che sia, che voi non la meritiate. Mi sento tanto intenerita da' vostri prieghi che non posso negarvi cosa che vi piaccia. Vo' che le leggi d'amore e di cortesia abbino quella forza che conviene. Disponete dunque di me come cosa veramente vostra; entrate in questo vicolo, ché Nepita v'aprirá la porta.

ESSANDRO. Ecco ch'io non posso non chiamarmi vinto dal nobilissimo animo vostro. Conosco che veramente m'amate.

SCENA IV.

PANURGO, ALESSIO.

PANURGO. O Alessio carissimo, come comparite a tempo! parmi questa una ventura dal Cielo. Voi solo mancavate al buon disegno.

ALESSIO. Eccomi al tuo comando, Panurgo caro.

PANURGO. Tu, Alessio, sei l'istesso e commune aiuto degli amici; però aiutaci: il bisogno ne fa importuni.

ALESSIO. M'uccidi tardando tanto a dirmi che vogli.

PANURGO. Essandro vi prega, straprega e scongiura che l'accommodiate per un giorno d'una veste da dottore.

ALESSIO. A che vuole egli servirsene?

PANURGO. Lo saprete poi: non lo dico adesso per non dar fastidio a questi che stan qui, che l'hanno inteso un'altra volta.

ALESSIO. A questo potrò servirti agevolmente; che Facio mio padre se n'ha fatto far certe nuove per andare a leggere a Salerno nello Studio, e or sta in casa aspettando maestro Rampino che gli le porti. Partito che sará, che fia tra poche ore, ti potrò accomodar di quelle che lascia, per parecchi giorni.

PANURGO. Per chi le mandarete?

ALESSIO. Per Tofano, mio servidore, che vi conosce; o ne cercará altre in presto. Attendete all'altre cose da farsi, che subito partito mio padre, le manderò; sol fate che non vi abbi a cercare.

PANURGO. Io abito qui presso: fate solo che compaia qui, che sará veduto.

ALESSIO. Cosí farassi.

PANURGO. Ma quello di che ti aremo maggior obligo, è la prestezza, che non è cosa di che abbiamo maggior bisogno. Al vostro servo promettete la mancia da nostra parte, accioché corra e usi diligenza.

ALESSIO. Vado.

PANURGO. E se non possiamo per adesso darvene piena ricompensa, almeno conosceremo il beneficio e resteremo con obligo di riservirvelo; e perdonateci del fastidio che vi diamo.

ALESSIO. Or queste parole sí, che mi danno fastidio; che non potrei aver consolazione a par di quella che ricevo, che Essandro si avaglia dell'opra mia.

PANURGO. Ma io veggio Morfeo parasito che vien verso qua; non potrebbe comparir a tempo piú opportuno.

SCENA V.

MORFEO parasito, PANURGO.

MORFEO. Son omai stracco e non ho trovato ancora chi mi inviti a pranso: non ci è piú caritá né piú cortesia al mondo. Un tempo era invitato da quattro e da sei, chi mi strascinava di qua e chi di lá; e or sto un mese che non sono richiesto. Non mi servono piú i motti arguti, non le buffonarie, non il dir mal d'altri per dar spasso a' convitati.

PANURGO. (Sta morto di fame a punto come io desiava, benché la fame non l'abbandoni mai; ché non ho miglior mezzo per condurlo a quanto desidero).

MORFEO. E se pur m'invito da me stesso, tutti si trovano con una parola in bocca: che mangia altrove o non ave ancor digerito o vòl perdere quel pasto o che digiuna. O che ogni volta che dicono queste scuse gli cadesse un dente di bocca! Almeno la natura mi avesse fatto polpo, che nella gran fame potessi mangiarmi le braccia proprie.

PANURGO. (Farò vista di non essermi accorto di lui e di far un apparecchio, accioché gli aguzzi e susciti l'appetito). Olá, apparecchiate la tavola e ponetevi quei presciutti e verrine fredde;…

MORFEO. (Dice bene, che se non son cotti duo giorni prima, non vagliono. Gran filosofo deve esser costui delle cose della buccolica).

PANURGO….fate che quel gallo d'India sia piú pelato del pelatoio e tutto infilzato di fettoline di lardo, accioché cocendosi pian piano, venghi tenero, ben cotto e non disseccato;…

MORFEO. (Questi vuoi far frollo me, non quel gallo, ché sentendo questo apparecchio, tutto mi sento intenerire).

PANURGO….quei pasticci stieno sempre in caldo, accioché le midolle che vi sono per dentro e di fuori non si gelino e paiano assevati, ma che sieno caldi e ben strutti;…

MORFEO. (Oimè, che a me si struggono le midolle dentro l'ossa!).

PANURGO….che le torte sfoggiate sieno ben cotte e succose, ma non tanto che nuotino nel brodo;…

MORFEO. (Mi par che questi mi sia uscito dal corpo, tanto sa ben egli ordinare quanto desidero).

PANURGO….il vin sia fresco. Date prima il greco, poi la lacrima, poi tramezzate il chiarello e moscatello. E sopra tutto il presto sia in capo alla lista, accioché venendo con quel mio compagno, non abbiamo ad aspettare ma subito porci a tavola.

MORFEO. (Io non posso ascoltar piú: l'anima si ha fatto un fardello delle sue robbe e si vuol partire; lo stomaco s'è ribellato, m'ave occupato la gola e mi strangola. Ma a che tardo ad invitarmi da me stesso?). Oh, ben trovato il mio Panurgo galante, intendente della buccolica piú di tutti gli uomini del mondo!

PANURGO. Ben venghi Morfeo!

MORFEO. Sería da vero ben venuto, se venissi per un terzo a questo tuo cenino che apparecchi.

PANURGO. L'apparecchio per un mio amico di che ho da servirmene in un bisogno importantissimo.

MORFEO. Sèrvite di me, che ti servirò al servibile e all'inservibile.

PANURGO. Vuoi tu prestarmi mille scudi?

MORFEO. Con che faccia cerchi a me mille scudi, che tutto intiero non vaglio dieci quattrini? Cercar dinari a me è come cercar acqua ad una pomice. Non posso altro prestarti se non la fame che ho adosso. Ma dammi da mangiare, e satollo vendimi ad una galea per quanto vaglio.

PANURGO. Io non ho bisogno di danari, burlo teco. Io ho bisogno di un ladro, infame, giuntatore, assassino,…

MORFEO. Questi sono i titoli dell'arte mia.

PANURGO….tristo, cattivo, malizioso, astuto, truffatore,…

MORFEO. Giá giá l'hai ritrovato.

PANURGO….bugiardo, mentitore.

MORFEO. Lascia dire a me: giotto, traditore, senza legge, senza fede, maldicente, scelerato, ingannatore. Di tutte queste cose ne ho fatto gran tempo professione e mercanzia e ne ho le botteghe e magazzini in questo petto.

PANURGO. Ma essendo tu cosí cattivo, come potrò io fidarmi di te, che non l'attacchi a me ancora?

MORFEO. Di ciò non dubitare, che corvi con corvi non si cavano gli occhi.

PANURGO. Cosí tu fossi appiccato, come piú tristo uomo di te non si trova nel mondo!

MORFEO. Cosí tu fossi squartato, come lo meriti piú di quanti vivono!

PANURGO. Tu solo hai tanti vizi che, avendonosi a partire a tutta questa cittá, a tutti ne toccarebbe bona parte.

MORFEO. Allegrati, beato te, che tu sei il priore, il monarca di tristi!

PANURGO. Per le tue grandezze meritaresti una collana.

MORFEO. E tu per le tue virtú una berlina.

PANURGO. Ho voluto dir che meriti esser un re.

MORFEO. E tu un principe di Cartagine.

PANURGO. Con un scettro in mano ben grosso e lungo per governatore e capo di quell'isoletta di legno che sta in mare.

MORFEO. E tu bersaglio di staffili.

PANURGO. Chi ti mirasse nel collo e ne' piedi, penso che ci troverebbe un callo delle collane e di cerchietti che ci hai portati.

MORFEO. Chi ti vedesse le spalle, le troverebbe di piú colori che i tapeti che vengono di Soria.

PANURGO. O forche, o scale, o capestri, che fate?

MORFEO. O berline, o scope, o asini, dove sète?

PANURGO. Ma torniamo a casa, che il tempo manca e le parole avanzano. E sovra tutto vorrei che appena accennandogli il principio, capisse il negozio e m'intendesse a cenno.

MORFEO. Anzi io in mirarti in faccia so quello che cerchi da me.

PANURGO. Dici da vero?

MORFEO. Piú che da vero.

PANURGO. E tu conoscesti la veritá mai?

MORFEO. L'ho inteso nominar cosí cosí; ma fu sempre mia capitalissima inimica.

PANURGO. La cagione?

MORFEO. Non ho mai doglia di testa se non quando son forzato dirne alcuna. E chi volesse a mezzo gennaio farmi sudar di sudor delta morte, sforzimi a dire alcuna veritá. Né pensar che cosí sia io: cosí fu mio avo, bisavo, trisavo, ventavo e settantavo.

PANURGO. Orsú, ho trovato il bisogno. Conosci tu Gerasto medico, un certo uomo da bene?

MORFEO. Io non conosco niuno uomo da bene. Che ho a far io con loro? io non prattico se non con ribaldi, perché mi danno da mangiare. Ma perché non andiamo a tavola e diamo una batteria a quel tuo apparecchio?

PANURGO. È troppo mattino.

MORFEO. Anzi mangiando presto la mattina, ogni cosa ti riesce a proposito quel giorno. Vuoi che vada a toccarli il polso, se avesse la febre?

PANURGO. La febre la devi aver tu nella gola per divorartelo; ma tu non assaggierai boccone se non prometti servirmi, anzi dopo servito.

MORFEO. Ti servirò a quel che tu vuoi, e ti loderai dell'opra mia.

PANURGO. Bisogna che tu finga esser uno sposo; e sconcierai la bocca, il viso e tutta la persona, di sorte che veggendoti il padre della sposa ti prenda a schivo e rivochi lo sponsalizio.

MORFEO. Se non mi saprò sconciar bene, piglia una ascia e sconciami a tuo modo. Ma, di grazia, avendomi a sconciar la bocca, fammi mangiar prima.

PANURGO. Mentre stiamo aspettando Alessio, un certo amico che ne manda le vesti a questo effetto, vuoi che te insegni a fingere quel che abbiamo a fare?

MORFEO. Imparami d'altro che di fingere: questo fu mio primo essercizio. Ma ecco il servo che ti porta le vesti.

PANURGO. Non viene a me, va dritto alla casa di Facio; deve essere il servo di maestro Rampino: vogliam far prova di torcele?

MORFEO. Eccomi all'ubidire.

PANURGO. Togliamcele calde calde.

MORFEO. Presto presto, che non puzzino.

PANURGO. Nasconditi, ascolta e vieni a tempo.

MORFEO. Mi nasconderò, ascoltarò e uscirò a tempo dall'imboscata.

SCENA VI.

PELAMATTI, PANURGO, MORFEO.

PELAMATTI. Non si vidde al mondo mai il piú bizzarro uomo di maestro Rampino. Mi pone le veste in spalla e dice:—Vai in tal parte, che troverai un uomo alto basso, magro grasso, che si chiama Facio; dágli queste vesti.—Se tardo, i gridi vanno al cielo; se non fo l'effetto, gioca di bastonate; se fo errore, guardite Iddio….

PANURGO. (Non conosce né lui né la casa. Queste seran mie, se tutto il mondo non m'è contrario).

PELAMATTI…. Ché per potermi ricordar tanto, bisognarebbe un cervello di lionfante, e per camminar tanto, le gambe di dromedario; dove cervello n'ho poco piú d'una oca, e gambe cosí debili che appena mi reggono sovra, e senza scarpe ancora….

MORFEO. (Va troppo carico: ne ha pietade, lo vorrebbe alleggerire).

PELAMATTI…. Oh, trovassi alcuno che me lo insegnasse. Ma ecco il fico selvaggio nel muro: questa è dessa.

PANURGO. Férmati, oh, oh, oh! a chi dico io?

PELAMATTI. So che non dici a me.

PANURGO. A te dico io, a te.

PELAMATTI. Ti ho forse ciera di cornacchia io, che per scacciarmi gridi: oh, oh?

PANURGO. Volevi tu spezzar quella porta?

PELAMATTI. Ancora non ci era accostato.

PANURGO. Ti toglio la fatica di battere, e par che te ne spiaccia.

PELAMATTI. E se fusse tua madre, aresti tanta paura che fusse battuta?

PANURGO. Se può dir mia madre, ché questa mattina, uscendone, mi ha partorito.

PELAMATTI. Dio ti facci esser nato in buon ponto. Figlio di questa porta, mi sapresti dir se dentro ci fusse Facio?

PANURGO. Facio ti sta innanzi e parla teco.

PELAMATTI. Dunque, voi sète…

PANURGO. Si, si, Facio padre di Alessio.

PELAMATTI. Me l'avete tolto di bocca, che proprio volea dimandarvi se voi eravate Facio.

PANURGO. Io son Arcifacio, son Faciissimo.

PELAMATTI. Me ne vo dunque: voi non sète quel che cerco. Vo' Facio, non Arcifacio né Faciissimo.

PANURGO. Io son quello che cerchi, or vengo dalla bottega di maestro Rampino, ché mi desse le vesti; e disse avermele inviate per un suo servo; e or aspettandole stava passeggiando dinanzi la mia casa.

PELAMATTI. Queste son dunque le vesti che aspettavate?

PANURGO. Sí, sí, queste son desse.

PELAMATTI. Ancor non l'hai viste, e dici: sí, sí. Se le volete, venite in bottega.

PANURGO. Perché non me le dai tu qui?

PELAMATTI. Non mi avete ciera di Facio.

PANURGO. Hai tu visto mai Facio?

PELAMATTI. Non io.

PANURGO. Come dunque non ti ho ciera di Facio? Ma mirami bene, questa mia ciera non è tanto buona che ne potresti far candele?

MORFEO. (Si da vero, céra proprio da esser bruggiata!)

PELAMATTI. La céra mi par cattiva e il mele deve essere assai peggiore, perché mi hai ciera di un gran ribaldo. Poiché sete venuto adesso da mastro Rampino, ditemi, dove sta sua bottega?

MORFEO. (Oimè, siamo incappati, ché non la sappiamo).

PANURGO. Te lo dirò. Búttati giú per questa strada, e come sei a quel cantone che ti dá in faccia, torci il collo a man dritta; e quando sbocchi in quei cessi e lordure, cala giú finché darai di petto in un uscio: poi rovescia gli occhi su, ché vedrai l'insegna della fistola: il vicolo si dice del Maltivegna, incontro la casa di Perotto Malanno.

PELAMATTI. A te oh come starebbe bene questa casa!

PANURGO. Anzi a te starebbono buoni questi duo luoghi, accioché quando l'uno ti fosse venuto a noia, mutassi nell'altro fresco e senza pagar pigione.

MORFEO. (Con questa burla ha saltato il fosso, il poltrone).

PELAMATTI. Poiché aspettavate me, come mi chiamo?

PANURGO. Malaventura.

PELAMATTI. Mala ventura arei da vero, se te le dessi. Io mi chiamo
Pelamatti.

PANURGO. Tu ti chiami cosí, per scherzo, Pelamatti, perché poco pelo metti in barba.

PELAMATTI. Di che etá è questo maestro Rampino?

PANURGO. Non l'ho mirato in bocca. Ma m'accorgo che tu hai poca voglia di darmele.

PELAMATTI. Perché n'hai soverchia di riceverle.

PANURGO. Come se dicessi ch'io ti volessi rubar queste vesti.

PELAMATTI. Come tu lo dicessi e io me lo vedessi.

PANURGO. Altri che tu m'arebbe credito di mille scudi.

PELAMATTI. Tu potresti esser tesoriero del re, che non ti arei credito di un quadrino.

PANURGO. Ancora non mi è stata fatta tanta ingiuria!

PELAMATTI. Il maestro m'ave ordinato che consegni queste vesti al padrone, non che le butti via. In questa terra si fan delle burle: veggio ch'hai la febre quartana d'averle nelle mani. Ma io perdo qui le parole.

MORFEO. (Giá è tempo uscir dagli aguati).

PANURGO. Ecco il servo che ho mandato per esse.

MORFEO. Padrone, maestro Rampino m'ha detto che un pezzo fa ve l'ha mandate per Purgamatti o Pelamatti suo servo.

PANURGO. Haigli tu dato i danari della fattura e de' finimenti?

MORFEO. Si bene, ecco la poliza della ricevuta.

PANURGO. È restato sodisfatto del tutto?

MORFEO. Sodisfattissimo.

PANURGO. Haigli tu rotta la testa, come t'ho detto, in farmi aspettar tutta questa mattina?

MORFEO. Signor no, perché mi disse avervele inviate, e datomi tante buone ragioni che mi parve degno di scusa.

PANURGO. Io la vo' adesso rompere a te che non fai quello che ti comando.

MORFEO. Eh, padron, per amor di Dio, quel che non è fatto, pur siamo a tempo di farlo: ci andrò adesso. Ma quel delle vesti va via.

PANURGO. Dágli tanti calci su lo stomaco fin che vomiti il sangue.

PELAMATTI. Non son tuo schiavo.

MORFEO. Perdonagli, padrone, ché maestro Rampino m'ha detto che è un grossolano: non vedete che visaccio da bufalo? quella ciera parla e grida che è la magior bestia del mondo.

PANURGO. Giá mi era venuta la stizza al naso.

MORFEO. Daglile in nome… che non voglio dire, che non so come abbi avuto tanta pazienza. Egli prima gioca de mani che de lingua. Padrone, è forastiero, non è uso a trattar con gentiluomini, tratta al modo del suo paese.

PANURGO. Andiamo a maestro Rampino; e s'egli in mia presenza non gli rompe la testa la spezzerò a tutti due.

MORFEO. Non andate, di grazia, padrone, ché costui le vuol dare a me.
Dagliele.

PELAMATTI. E ti par che gli le dia?

MORFEO. Ancor dici: mi pare?

PELAMATTI. Salvi e contenti…

MORFEO….da' mille cancheri che ti divorino o t'avessero divorato duo anni sono!

PELAMATTI. Ecco te le dono. Ma fate che non venghi in bottega.

MORFEO. Camina, sgombra, fuggi, ché la tua presenza gli accresce rabbia.

PELAMATTI. Se ho fatto errore, non mi manca la testa rotta. Orsú, ti lascio,…

MORFEO. Che cosa?

PELAMATTI…. perché mi vo' partire.

MORFEO. Mi pensavo che mi volessi lasciar qualche cosa: lascio io te.

PELAMATTI. Non ho che lasciarvi se non miserie e povertá.

PANURGO. Non le voglio, portale teco.

PELAMATTI. Voleva dir: ti lascio con bona ventura che ti aiuti.

MORFEO. N'hai tu piú bisogno di noi: che il maestro non ti rompa la testa, come s'accorgerá che sei stato burlato. Che ti par, so ben fingere?

PANURGO. Tanto bene che l'aresti dato ad intendere ad altra persona che non è lui. Oh, come ci ha giovato costui! Giá si può tener disfatto il matrimonio.

MORFEO. Andiamo a magnare, che le vivande si guastano, e di qua ne sento la puzza.

PANURGO. Andiamo a travestirci, ch'Essandro ne deve aspettare.

SCENA VII.

GERASTO, SANTINA, NEPITA.

GERASTO. (Questa mattina al far dell'alba ho fatto un sogno giocondissimo. Parevami che fussi divenuto un gatto rosso che avemo in casa, e stava innamorato d'una gatticella detta Bellina; e questa era guardata da una cagna rabbiosa. Parevami la cagna si partisse; la gattolina veniva a me, e mentre la facea miagolar come fussi mezzo gennaio, pareva che divenisse maschio come io. Ecco la cagna, la gatta fugge: cosí mi sveglio. Son stato strologando gran pezza che può significare, e l'interpreto cosí. Il gatto rosso son io, ch'ardo per Bellina, cioè Fioretta, guardata da una cagna rabbiosa—questa è mia moglie, piú rabbiosa d'ogni cagna;—quando si partirá di casa, la goderò. Quel divenir maschio non posso pensar altro se non che la impregnarò d'un figlio maschio. Or me ne vo in casa, ché questa mattina mia moglie disse volersi partire; e il mio sogno ará effetto).

SANTINA. Fate che quel gatto rosso si castri, e se non potete, strangolatelo e buttatelo in un cesso, come merita; che non vo' che vada su per i coppi de' vicini.

GERASTO. (Oimè, che tristo augurio è questo? non lo potea sentir da peggior bocca!).

SANTINA. Nepita, Nepita!

NEPITA. Signora.

SANTINA. Vien qui. (Io non mi parto di casa mai ch'io non lasci Fioretta serrata in camera con mia figlia col chiavistello, accioché, venendo mio marito in casa e non vi essendo io, non mi facesse qualche burla).

NEPITA. (La gelosia ha posto cento diavoli adosso a questa vecchia: mi chiama la notte e il giorno mille volte per saper Fioretta dove sia).

SANTINA. Come hai tardato tanto?

NEPITA. Avea il pistone in mano, l'ho forbito e riposto.

SANTINA. Dove è Fioretta?

NEPITA. In camera con Cleria.

SANTINA. (O sia benedetto Iddio! come sta volentier con mia figlia, non se le distacca da lato mai; però l'amo piú del dovere). E che fa?

NEPITA. Lavorano insieme.

SANTINA. Lavora volentieri?

NEPITA. È tanto gonfia di voglia e sta tanto col pensiero dritto a quel lavoro, che par non vorrebbe mai far altro; né si riposa se non va tutta in sudore.

SANTINA. Da vero?

NEPITA. Adesso l'ha posto l'aco in mano, e fanno quel lavore del punto brisato: piglia un filo e duo ne lassa de fuori.

SANTINA. Digli ch'io trovi finito lo staglio quando ritorno.

NEPITA. Non bisogna dircelo, ché giocano a chi piú fa. Ma Fioretta lavora tanto gagliardo che Cleria gli cede e si dá per vinta.

SANTINA. Dille che si serrino dentro e ponghino il chiavistello.

NEPITA. Ce l'han posto.

SANTINA. Non ci l'ho inteso entrare.

NEPITA. Ci è dentro, vi dico.

SANTINA. Or esco con animo quieto. Tu sali su. Ben si dice che amor fa diventar gli uomini pazzi; poiché Gerasto mio marito, da che è intrato in questo farnetico d'amore, è uscito di gangheri, che non so come i fanciulli non gli tirino i sassi dietro.

GERASTO. (O che amorevol moglie, come ben cuopre i difetti del suo marito! Che deve dir di me, quando ha chi le ne domanda, che or non sapendo a chi dirlo, lo va dicendo per le strade?).

SANTINA….Va attillato su la vita, profumato. Giunto a casa toglie lo leuto, canta, suona, sospira. La notte non dorme mai; e io per gelosia che non vada a Fioretta, sto sempre desta: mi dá la veglia. Non attende piú alla cura degli ammalati; ha due figlie in casa che gli paiono sorelle, e non prende cura di casarle; e se per altrui diligenza ne abbiamo maritata una, e aspetta lo sposo che d'ora in ora viene a casa, ne prende quella cura come se non venisse nella sua….

GERASTO. (Beato me, se nella mia morte avesse un oratore come costei, che onorasse i miei funerali!).

SANTINA…. Ben fu infelice quel giorno che lo tolsi!…

GERASTO. (Ben la tolsi io in mal punto per me!)

SANTINA…. Che mi avessi rotto una gamba piú tosto,…

GERASTO. (Mi avessi rotto il collo io!).

SANTINA…. Sventurata me!…

GERASTO. (Anzi me!).

SANTINA…. che non si trova piú sciagurato uomo!

GERASTO. (Che non si trova la piú fastidiosa e bizarra diavola di te! E il peggio è che bisogna farle carezze contro mia voglia, per non farla suspetta del fatto. Orsú, bisogna far buon animo, come si avesse a tòrre una medicina). Ben trovata la mia moglie carissima, non posso tenermi che non ti baci un par di volte per amorevolezza!

SANTINA. «Chi ti fa quello che far non suole, o t'ha ingannato o ingannar ti vuole».

GERASTO. Non si può star sempre ad un modo, moglie mia cara.

SANTINA. Oh come odori di muschio, mi pari una profumeria.

GERASTO. Passando per la bottega di maestro Cesare profumiero, mi spruzzò un poco d'acqua nanfa sul volto.

SANTINA. Non so chi mi tiene la lingua.

GERASTO. Lasciamo il ragionar di questo adesso. Maritata che sará nostra figlia con questo romano, ci vogliam menare una vita la piú felice del mondo.

SANTINA. Come será questa vita felice?

GERASTO. Maritaremo subito Fioretta e la caveremo di casa, che non è buona per servire: è troppo delicata, pare una gentildonna; ne troveremo una piú rustica, che possa spezzar legna, carriarle, far la bucata, star in cocina e sovra tutto, bisognando, toccar delle bastonate.

SANTINA. Fioretta l'ho maritata giá.

GERASTO. L'ho maritata io con un mio amico con men di dugento ducati di dote.

SANTINA. Io con men di cento.

GERASTO. Io con men di cinquanta.

SANTINA. Io con men….

GERASTO. Lasciami finir di parlar, se vuoi. Colui se la torrá nuda.

SANTINA. Questo mio gli fará la sovradote.

GERASTO. Il mio gli dará cento ducati di piú.

SANTINA. Il mio, dugento.

GERASTO. Il mio….

SANTINA. Anzi il mio….

GERASTO. Tu non sai che voglio dire, e passi innanzi.

SANTINA. E tu dici prima che altri risponda.

GERASTO. Hai detto?

SANTINA. Sí bene.

GERASTO. Invano hai detto, perché l'ho maritata io prima che tu.

SANTINA. Io l'ho maritata e dato la mia fede, né posso contravenire al giuramento.

GERASTO. A te non sta maritarla, ma al padron della casa.

SANTINA. Impácciati tu di maschi, che a me tocca la cura delle femine.

GERASTO. Tu non ti intendi di matrimoni, a pena sai filare; attendi a filare.

SANTINA. E tu attendi a medicare. Ma qualche cosa ci è di sotto: non stimi ch'io abbi prima pensato a quello che tu pensi? Se tu mi tenti…

GERASTO. Che cosa?

SANTINA. Vuoi che dica?

GERASTO. Di' tosto.

SANTINA. Quella…

GERASTO. Chi quella?

SANTINA…. che tu sai…

GERASTO. Che so io?

SANTINA. Tu non sai chi dico io, eh?

GERASTO. Ben fu grande la mia sventura aver te per moglie! che seccaggine, che febre, che inferno è questo? Che sia maladetto colui…, non lo voglio dire.

SANTINA. Che si fiacchi il collo chi fu il primo a farne parola!

GERASTO. Che fussi piú tosto morto che incorso in simil sciagura!

SANTINA. Non è stata né sará mai la piú infelice femina di me per esser maritata a tal uomo! Mira a chi ho data cosí bella dote e cosí grande intrata…

GERASTO. Tanto grande che la metá mi soverchieria; me ci affogo dentro.

SANTINA…. e bella e profumata,…

GERASTO. Puzzulente piú d'una carogna.

SANTINA…. senza quello che vi vien dietro, ché me l'hai guasto e consumato.

GERASTO. Menti per la gola! parla piú chiaro, bestia!

SANTINA. Non m'hai guasto e consumato tutto il correrio che hai avuto dietro la dote?

GERASTO. Quattro stracci fradici.

SANTINA. Non sono io nobile? non sei tu un povero medicaccio?

GERASTO. Se non fusse stato per me, i tuoi parenti sarebbono morti mille volte di fame.

SANTINA. Or vo' cominciare a farti conoscere chi son io.

GERASTO. O misero me, quando questi sassi si rompono di stracchezza, ella adesso vuol cominciare! quando finirá, se adesso comincia? in ogni modo, tu hai da star di sopra.

SANTINA. Forse non son io la peggior femina trattata del mondo?

GERASTO. Ti batto, forse?

SANTINA. Guai a te, se avessi tanto ardire!

GERASTO. Di che dunque ti lamenti?

SANTINA. Mi fai star tutta la notte in un canton del letto, sola; e se per disgrazia ti tocco le gambe, subito:—Fatti in lá, che mi rompi il sonno, mi fai caldo.—Io non sono storpiata né mi puzza il fiato.

GERASTO. Tanti figli che abbiam fatto, dimostrano se ti abbi trattato male.

SANTINA. Questo fu cosí nel principio.

GERASTO. Or son vecchio, la complession non mi aiuta: vuoi che mi muoia?

SANTINA. Ci è altro sotto: lasci il tuo terreno incolto per cacciar il vomero nell'altrui terreni; ma s'io me ne accorgo, farò le mie vendette.

GERASTO. Su su, finiamola, ché saresti per durarla tutto oggi. Dove ti eri avviata?

SANTINA. Io non ho da uscire, vo' tornarmene a casa.

GERASTO. Entriam, su presto.

SCENA VIII.

ESSANDRO solo.

ESSANDRO. Veramente, i spassi amorosi sono i piú dolci che fioriscono ne' giardini della gioventú, menati dalla primavera degli anni. È degno che un sol momento di quelli s'acquisti con lunga e penosa servitú d'anni; perché questo sol piacere par che eguagli il sommo diletto che si può trovar qui in terra, e mentre si bacia il viso della amata donna, si ha quello contento compito che possa da noi gustarsi in terra. O felici e sovramodo felici coloro che in lieta coppia, da pari ardor feriti, amor gli annoda, e senza sospetto alcuno di gelosia si godono felici insino alla morte! Entrato che fui dentro, le persuasi il mio fatto; non ebbi molta resistenza. Baciandola, diceva che il mio fiato sapea di quel di Fioretta; allora gli scoversi come io e Fioretta eravamo una cosa medema, e l'inganno che avea usato per servirla. Le dispiacque non avercelo scoverto al principio; che senza inganno arei avuto da lei quello che in sí lungo tempo avea acquistato, né saressimo stati tanto tempo ociosi. E mi cercò perdono se mentre la serviva, non sapendolo, m'avesse offeso. Ahi, quanta sarebbe la mia gioia, se non fusse interrotto da questo romano! Ahi, che quanto è stato piú smisurato il piacere, tanto sará piú senza pari il dolore, sapendo che ho da lasciarla. O fortuna, che fusse nato senza cuore, che or non sería ricetto di tante fiamme! Ma farò prima tutto quello che sará possibile, accioché i loro desideri non abbino effetto. Andrò a travestirmi, ridur quelli a casa e attendere al fatto mio.

ATTO III.

SCENA I.

ESSANDRO, PANURGO, MORFEO.

ESSANDRO. Oh, con quanto buon animo vi meno a casa, poiché vi veggio cosí bene adobbati e andar con tanta riputazione che sareste per darlo ad intendere ad altra persona che Gerasto.

PANURGO. Che ti par di questo mio raschiar grave e sputar tondo? che della portatura, delle vesti e de' guanti? che del caminare? Non ti paiono nati dalla quinta essenza della pedantaria?

ESSANDRO. Non vi manca altro se non che con gli effetti si confaccino i ragionamenti: che ragionando di cose che non sappiate, gli respondiate con parole tanto sospese e ambigue che si possono adattare ad ogni proposito, e ti lasci cadere alle volte dalla bocca qualche parola allatinata.

PANURGO. Lascia fare a me, che ti farò veder miracoli. Ma che ti par del mio aiutante? non ti ha egli ciera di magnifico?

ESSANDRO. Dimmi, Morfeo, che ballotte son queste che tieni in bocca?

MORFEO. Queste non solo mi servono che, ponendole in bocca, mi contrafanno il viso; ma son composte di agli pisti, di galbano e di assa fetida che come il vecchio s'accosterá per ricevermi, gli farò rutti in faccia tanto puzzolenti che giudicherá essere insopportabili a soffrirsi da sua figlia.

ESSANDRO. La lingua perché cosí di fuori, con gli occhi stralunati che pari un appiccato?

MORFEO. Accioché ogni persona si muova a vomito in guardarmi; ma tutto è una delicatura a par di quello che vo' mostrarvi. Che vi par della campana che ho tra le gambe?

ESSANDRO. Ah, ah, ah, a che effetto cotesto?

MORFEO. Gli darò ad intendere che per la rottura mi sieno caduti nella borsa non solo gli intestini, ma tutte le massarizie di casa ancora; accioché sua figlia esca di speranza, che non solo non sará pagata da me di grossi o di doppioni, ma né di un sol picciolo ancora.

ESSANDRO. O Morfeo galante, antivedo la cosa, che riuscirá netta.
Entrarò prima e farò con bel modo che Gerasto venghi a ricevervi.

MORFEO. Ricordati dirgli che siamo stracchi e affaticati e morti di fame per essermo stati mal trattati nelle osterie, accioché ne proveda benissimo.

ESSANDRO. So che non pensi ad altro.

MORFEO. E se lo sapete, perché farvelo ricordare da me?

PANURGO. Morfeo, ricordati chiamarmi Narticoforo e tu Cintio, e avermi rispetto proprio come ti fusse padre.

MORFEO. Me ne ricordo e straricordo cosí bene che lo potrei ricordare allo ricordo istesso.

PANURGO. Ricordati ancora…

MORFEO. Non tanti ricordi, che ad uno che si ricorda, i troppi ricordi lo fanno smenticare; ricorda te stesso, che ne hai piú bisogno di me.

PANURGO. Io che ho caro che la cosa rieschi netta, vo prevedendo tutte le cose che ne ponno fare errare.

MORFEO. Taci e poniti in postura, la porta s'apre, eccolo. Al viso conosco che è terra da piantarvi carote, la preda sará nostra, l'incapparemo al primo.

SCENA II.

GERASTO, PANURGO, MORFEO.

GERASTO. (Quel vecchio, che viene innanzi, certo deve essere
Narticoforo; quell'altro storpiato non posso imaginarmi chi sia).

PANURGO. Dopo il secondo vicolo non mi posso ben reminiscere se fusse la terza o la quarta ede.[**?]

GERASTO. O Narticoforo carissimo, voi siate il ben venuto per mille volte!

PANURGO. O Geraste, lepidum caput, voi siate il ben trovato! Cinthi fili, inchinati reverenter.

GERASTO. Questi è Cintio vostro figliuolo?

PANURGO. Ipse est e vostro famulo ancora.

GERASTO. Sii ben venuto, Cintio, figliuol mio.

MORFEO. Ben ritrovato, padre ca… ca… caro.

GERASTO. Come è cosí impedito della lingua, Narticoforo caro? come cosí sconcio della faccia? oimè, che puzza!

PANURGO. Ignoro per qual infausto numine gli venne nelle fauci un'angina e nella bocca quello apostèma, onde gli ha corrotto il fiato e toltogli la facoltá di poter ben alloquere.

GERASTO. Facciamogli tagliar quello apostèma, che qui in Napoli abbiamo valenti uomini che lo san fare.

MORFEO. Non è ma… matura, è acerba. Il vostro naso in… inco… inco… incomincia a sentir la puzza.

GERASTO. Strana infirmitá! come l'ha tutto trasformato!

PANURGO. Era il piú formoso giuvenculo che avesse la cittá di Roma, che da molte nobili matrone era chiesto in copula matrimoniale; e poi non so qual oculo maligno l'ave affascinato, overo discenso lunatico, e fatta la metamorfosi che vedete con intúito oculare.

GERASTO. In tanti anni che ho essercitato la medicina, non ho visto tal caso.

PANURGO. Il peggio è ch'è prerupto nelle parti inferne, gli è calata giú un'ernia intestinale, che non solo vi sono caduti dentro gli intestini, ma gli precordi ancora; onde l'ha fatto inabile ancora a poter fungere il munere uxorio.

MORFEO. A me è slongata cogli… cogli… cogli altri membri la borsa, e vi è dentro caduto il ca… ca… camino di urinare; onde non posso piú fu… fu… fuggire la morte.

PANURGO. Anzi l'ascosto è peggior del patente; ch'una certa egritudine, detta «lupa», gli ha devorato tutto il ventre, e in molti luoghi si veggono l'ossa denudate.

GERASTO. Mò che cosa vedo! Come l'avete voi condotto?

PANURGO. In un grabátulo, in vinti giorni; e da che vi si puose dentro, non l'abbiamo cavato se non adesso; e se gli si aggrava qui alcuno accidente, exalará l'anima. Onde exoptarei che decumbesse in un lettulo e vi si riposasse paulisper, e li facessimo qualche rimedio; e domane all'alba ambulassimo patriam versus.

GERASTO. Io gli ordinarò or ora un serviggiale, e per oggi gli faremo far dieta, che gli sará utile, che per domani stará meglio.

MORFEO. Padre ca… ca……aro, quella lupa che mi ha roso la ca… ca… carne, mi è rimasta in corpo, e mi dá tanta fame che non vorrei far altro che ma… mangiare e ca… ca… caminare.

GERASTO. Voi dovete esser molto stracco del viaggio.

PANURGO. Io ho avuto una bestia sotto che pareva un Pegaseo, un Bellerofonte, ma poi quadrupedando e cespitando non si poteva movere: dalli, dalli tutto il giorno, talché per poter compir il mio viaggio son stato sforzato smontare a terra e menarmela a mano come un figliuolo.

GERASTO. Tutte queste rozze che si prestano a vettura, sono cosí stracche e piene di guidaleschi che ti cascano sotto dieci volte per ora. Che farem dunque di questo matrimonio?

PANURGO. Carissime germane, poiché per reiterate epistole trattammo questo matrimonio, venuti ad summum conclusionis, gli venne questa egritudine.

GERASTO. Non me ne potevate avisar prima che tòrvi questo travaglio?

PANURGO. Immo saepicule ve ne resi cerziore; e dubitando che voi non mi stimaste pentito dell'appuntamento, come viro probo, per mantenervi la parola—nam «verba, ligant homines, taurorum cornua funes»—ve l'ho qui condotto.

GERASTO. Dispiacemi del vostro fastidio. Ma andiamo a riposarci,
Narticoforo: questa è vostra casa.

PANURGO. Entrate, di grazia, voi.

GERASTO. Non entrarò io, se voi non entrate prima.

PANURGO. Libenter faciam per obtruncar queste vostre cirimonie napolitane, di che intendo siate uberrimamente ripieni.

GERASTO. Olá, o di casa, condurreti questi gentiluomini in queste stanze terrene.

SCENA III.

ESSANDRO, GERASTO.

ESSANDRO. Padrone, questo è quel marito che volete dar a Cleria?

GERASTO. Sí.

ESSANDRO. Oimè, che bestiemma avete detta! o che galante, ricco, dotto e bel giovane che dicevate questa mattina! Questi è un ospedal di cancheri! Povera signora, che non fusse mai nata!

GERASTO. Perché?

ESSANDRO. Perché piú brutto mostro si potrebbe veder in terra? anima puzzolente, a cui con la sola vista non potria mover vomito?

GERASTO. È ricco.

ESSANDRO. Altro ci vuole.

GERASTO. Non le fará mancar da mangiare.

ESSANDRO. Né questo le manca in casa sua.

GERASTO. E perché è un poco infermo, non gli dará tanto fastidio.

ESSANDRO. Le moglie vogliono questi fastidi.

GERASTO. Dargli poca dote è pur buona cosa.

ESSANDRO. Per non scemar voi la vostra borsa, volete far sempre star vôta quella di vostra figlia. Certo che sotto dura e ingiustissima legge nascemo noi povere donne, se lo marito ha la moglie brutta, se la cangia a sua voglia; e se la moglie fa qualche scappata, subito il coltello alla gola!

GERASTO. L'ará portato un bel presente.

ESSANDRO. Quel pendente che ha fra le gambe, deve essere il bel presente.

GERASTO. Certo ch'io non lo stimava cosí difforme, che non l'arei fatto venire e, se posso con onor mio, lo farò tornare a dietro.

SCENA IV.

GRANCHIO servo, GERASTO, ESSANDRO.

GRANCHIO. Questo è il largo che m'è stato mostrato, questo è il tempio, questa deve esser sua casa.

GERASTO. Giovane, che vai cercando tu?

GRANCHIO. Un che non ho ritrovato ancora.

GERASTO. Parla: chi è costui? forse lo troverai piú presto.

GRANCHIO. Gerasto medico.

GERASTO. Ecco, l'hai trovato, non cercar piú. Tu chi sei? chi ti manda? che sei venuto a fare?

GRANCHIO. Io son Granchio, servo di Narticoforo romano, che mi manda per correo innanzi, ché lo avisi come esso e Cintio suo figliuolo sono in Napoli e or se ne vengono a casa sua. Ecco, t'ho detto chi sono, chi mi manda e che son venuto a fare.

GERASTO. Tu sei un correo che corri molto tardi, ché sono arrivati prima essi che la nuova.

ESSANDRO. (Oh, come è stato troppo veloce per me!).

GRANCHIO. Se avesse avuto cento piedi come un granchio, non arei potuto caminar cosí veloce, come ho fatto, per giunger presto.

GERASTO. Io penso che come granchio arai caminato all'indietro.

GRANCHIO. Se l'ho lasciati nell'osteria or ora, né si muovono se prima non gli porto la risposta! Come può esser questo?

GERASTO. Come non può essere, se è stato?

GRANCHIO. Non vi ho trovato dunque, perché non siete quello che vo cercando. Ma io tanto cercarò che lo trovarò.

GERASTO. Anzi tu non devi esser quello che ha inviato Narticoforo a cercarmi.

GRANCHIO. Voi come vi chiamate?

GERASTO. Gerasto de Guardati.

GRANCHIO. Di Gabbati piú tosto.

GERASTO. Anzi, che gabba altrui.

GRANCHIO. Però non gabberai tu me, ché andrò tanto cercando che lo trovarò. Ma, di grazia, potrei entrare in casa vostra per vedergli?

GERASTO. Potrai, se non azzoppi o acciechi prima.

GRANCHIO. Entro dunque.

GERASTO. Férmati, scòstati di lá. Tu non entrerai in casa mia, ché, avendo nome Granchio, dubito che non sii granchio da dovero, che granciassi, sgraffignassi, arruncinassi con queste tue unghie di aquila alcuna cosa. La mia casa non è buca per te: non senza cagione ti han posto nome Granchio.

GRANCHIO. A me fu posto nome Granchio, ché come avessi cento mani e cento piedi, tutti adopro in serviggio del mio padrone.

GERASTO. Piú tosto nelle casse o nella credenza del padrone; ma granchio diventi io, se ti ci fo entrare.

GRANCHIO. Son granchio, perché gracchio troppo. Me ne vado.

GERASTO. Va', Granchio, corrier veloce mio che corri all'indietro.

GRANCHIO. Resta in pace, Gerasto, che gabba altri, e voi devete essere il gabbato.

GERASTO. Se tu avessi tanto caminato quanto hai parlato, saresti giunto prima; ma non è meraviglia, ché i granchi hanno due bocche, una innanzi e un'altra dietro.

SCENA V.

ESSANDRO, GERASTO.

ESSANDRO. Ahi, misera me!

GERASTO. Fioretta mia, di che stai di mala voglia?

ESSANDRO. Del bel marito ch'hai trovato a tua figlia.

GERASTO. N'ho ritrovato uno buonissimo a te, accettalo e farai bene.

ESSANDRO. Di che etade egli è?

GERASTO. Della mia; e se ben è vecchio, è di forza piú d'un giovane.

ESSANDRO. Di che fattezze?

GERASTO. Come le mie: io e quello siamo come una cosa medema.
Conoscilo adesso?

ESSANDRO. A questo marito gli sono serva indegna.

GERASTO. O come mi terrei felice se queste parole ti uscissero dal core!

ESSANDRO. Fa' prova di questa mia volontá.

GERASTO. Su, mano a' fatti, ché la buona volontá senza l'opere non val nulla. Entriamo in casa in quella camera oscura.

ESSANDRO. Non posso adesso.

GERASTO. Quando le donne non vogliono, dicono non possono.

ESSANDRO. Or sapete che la padrona sta gelosa di noi e ci tien sempre gli occhi sopra?

GERASTO. Tu dici bene; ma andiamo in questa camera vicina, ch'io ne ho la chiave.

ESSANDRO. Questo sí, entrate e serratevi dietro bene, ché verrò or ora a ritrovarvi.

GERASTO. Perché non adesso?

ESSANDRO. Darò un'occhiatina per la casa, vedrò che facci la padrona, mi farò vedere, e me ne vengo.

GERASTO. Bene. Io tra tanto me ne andrò volando per una facenda: chi arriva primo, aspetti.

ESSANDRO. Benissimo.

GERASTO. Non mi darai tu un'arra della tua bona volontá?

ESSANDRO. Eccola. Tornate presto e serratevi dentro; e quando io batto, aprite tosto.

GERASTO. Vado.

ESSANDRO. Io era disperato del tutto; ché, venendo adesso Narticoforo ed incontrandosi con lui, il fatto era spacciato per me. Egli pensandosi che vada a trovarlo, stará tutto oggi dentro; tra tanto con Panurgo pensaremo alcun rimedio. Poiché la fortuna mi stringe troppo, bisognano prestissimi rimedi. Né vo' perdermi d'animo, ché la cattiva sorte sopportata con animo valoroso, suol convertirsi in buona. Se vincerò questi perigli, l'ardir sia degno d'eterna lode. O felici miei pensieri, se a tanta gloria giungerete. Ma se mi riesce contraria, io non so se la morte sará bastante rimedio a tanti mali.

SCENA VI.

PANURGO, MORFEO, ESSANDRO.

PANURGO. Viva, viva, il fatto è riuscito assai meglio che pensavamo!
Infin quella invenzione ha valuto un tesoro.

MORFEO. Largo, largo, scostatevi da me, ché con le corna non vi balzi nell'aria!

ESSANDRO. Che cosa hai, Morfeo mio dolce?

MORFEO. Son stato in casa tanto alla mira, e m'accorsi Nepita riponere una testa di vitella cotta. Senza esser visto, l'ho rubbata e ingoiata che non ne trovará un osso. Accostatevi, ascoltate che mugghie: oha, oha.

ESSANDRO. Bene.

MORFEO. In casa son molte robbe e s'apparecchia un banchetto da re, il tutto è in ordine, e tra poco saremo chiamati a tavola.

PANURGO. Padrone, voi state mezzo morto.

ESSANDRO. E l'altro mezzo assai peggio che vivo, anzi son morto tutto, e non ci è altro di vivo che il core, capace e pieno d'infiniti dolori.

MORFEO. Siete forse stato in cucina, ché il fumo vi fa piangere?

ESSANDRO. Voi ridete, ché non avete ancora inteso il vostro male.

PANURGO. M'uccidete tacendo.

ESSANDRO. Vuoi farmi un piacere, e te n'arò molto obligo?

PANURGO. Voglio.

ESSANDRO. Ammazzami.

PANURGO. E se v'ammazzo, quando mi pagherete l'obligo?

ESSANDRO. Quando resuscitaremo.

PANURGO. Troppo tempo ci vuole.

ESSANDRO. Burli in cosa di tanto periglio? M'offendi sul vivo, avendomi il Cielo riserbato a tante miserie.

PANURGO. Non è da saggio ricorrere al morire, quando per altra via si può uscir da affanno. Ditemi, di grazia, che cosa vi tormenta?

ESSANDRO. Il core m'ha pesto tutto il polmone,…

PANURGO. Come?

ESSANDRO…. tanto forte è sbattuto per la paura. Le passioni me l'hanno tutto circondato e oppresso. Vorrei morir per uscir da questo intrigo.

MORFEO. Se vuoi morir tu, muori a tua posta, ch'io vo' sempre vivere per poter sempre bere.

PANURGO. Non puoi dolerti che l'inganno non sia sottilmente trovato, accortamente esseguito e con gran credenza accettato.

ESSANDRO. L'inganno che mostrò cosí buon principio, ha cattivo mezzo e ará pessimo fine. Quella speranza che fiorendo dava presaggio di felicissimi frutti, or è spenta del tutto.

PANURGO. La cagione?

ESSANDRO. È venuto or ora un correo ad avisar Gerasto che Narticoforo e suo figlio se ne vengono a casa.

MORFEO. O ventura maladetta, mira a che ora e a che punto son venuti costoro per disturbare il banchetto! or non poteano venir dopo pranso?

ESSANDRO. Orsú, che mi consigliasti a fare?

PANURGO. Tu perché avevi cosí gran voglia di farlo?

ESSANDRO. Che isconsigliato consiglio fu quello che tu mi desti!

PANURGO. Chi avesse potuto pensare che avessero voluto venir cosí presto?

ESSANDRO. Aiutami, ch'io moro!

PANURGO. A che voleti che vi aiuti, a dolervi?

ESSANDRO. Oimè!

PANURGO. Oimè!

MORFEO. Oimè!

ESSANDRO. Oimè, che mi moro di dolore!

PANURGO. Oimè, che mi moro di dolore!

MORFEO. Oimè, che mi moro di fame!

ESSANDRO. Mi burli? hai torto straziarmi cosí.

PANURGO. Voi volete che v'aiuti a dolervi, io vi aiuto: questa è cosa di poca fatica.

ESSANDRO. Facciamo collegio tra noi della mia vita, e consigliamoci l'un l'altro se dobbiamo fuggircene.

MORFEO. Fuggir io? non mi partirei di questa casa senza mangiar prima, se m'uccideste: sto con tanto desiderio aspettando questa cena che il collo me s'è dilungato un miglio.

ESSANDRO. Dimmi, Panurgo, come potresti rimediare a questo?

PANURGO. Faccisi che quel che è stato, non sia stato: e quel che è per essere, che non sia.

ESSANDRO. Non t'intendo. Rispondi, che faremo?

PANURGO. Qualche cosa faremo.

ESSANDRO. Questo qualche cosa è niente.

PANURGO. Poiché abbiamo cominciato ad ingarbugliar Gerasto, ingarbugliamolo insino al fine.

ESSANDRO. Come l'ingarbugliaremo?

PANURGO. Non dubitar punto, stammi allegro e lascia fare a me che mi sono trovato a magiori garbugli di questi.

ESSANDRO. Fa' che non sia bugiarda la speranza che ho in te.

PANURGO. Almeno non será men bugiarda a te che ad altri.

ESSANDRO. Ma dimmi, di grazia, che pensi fare?

PANURGO. Prima diremo cosí…. Ma questo non è piú bono, bisogna pensar un'altra cosa. Faremo cosí…. Né questo va a proposito, perché potremo incorrere in cosa peggiore.

ESSANDRO. Parla presto.

PANURGO. Sto nel pensatoio, e mi occorrono tanti pensieri che per ogniuno ci bisognarebbe un mese a pensare.

ESSANDRO. Son rissoluto vestirmi da maschio, e se non si voglion partir per bravure, ammazzargli. Ho fatto di modo che Gerasto stará tutto oggi chiuso, e non ci potrá impedire.

PANURGO. Questo non è male, ma sería meglio…

ESSANDRO. Oimè, eccoli! quel primo è Granchio suo servo, quel vecchio deve essere Narticoforo.

PANURGO. Morfeo, entra con Essandro e vèstiti da femina, attendi a quel che si dice e aiuta al bisogno.

MORFEO. L'odor delle vivande ha tratto costui cosí presto; ma tu non n'assaggierai.

SCENA VII.

NARTICOFORO maestro di scola, GRANCHIO.

NARTICOFORO. Equidem, sive ego quidem—parenthesis,—Carcine, Carcine, vereor, io dubito che tu sii allucinato, perché con tanti reiterati verbilòqui dici ch'eravamo giunti.

GRANCHIO. Anzi io in replicargli che non poteva essere, si fecero beffe di me che come granchio avea caminato a traverso.

NARTICOFORO. Dic mihi vel responde mihi: non m'hai tu invento nel luogo, illic—status in loco ubi me dereliquisti,—e con i coturni ancora?

GRANCHIO. Sí bene.

NARTICOFORO. Igitur, ergo, dunque come era io in casa sua? alle premesse séguita giusta conclusione.

GRANCHIO. Non so altro che dirvi.

NARTICOFORO. Tu intanto sei optumo in quanto non bevi; perché non tu assorbi il vino, ma il vino assorbe te, et ob id non sei tu, ma il vino che parla.

GRANCHIO. Certo che bevendo non mi bevo i comandamenti del padrone, né voi per farmi avanzar tempo mi faceste bere una voltarella, come è mio costume, prima che mi parta dall'osteria; e io poco me ne curai, pensandomi che questo medico ne avesse ricevuto con un banchetto da imperadore.

NARTICOFORO. Io suspico certo che tu sarai entrato dentro qualche diversorio e ti arai ingurgitato qualche anfora, medimno o congio di liquor di Bacco; e cosí semisepolto nel sonno, ti sará apparso questo strano fantasma d'essere stato in casa di Gerasto, e in estasi gli facesti l'ambasciata e ancor nel somno parli meco. Onde, per saper il vero di questo fatto, bisogna che aspetti o che ti svegli dal sonno o che tu digerisca il vino e che i vapori non ascendano al cerebro.

GRANCHIO. Ed io vi dico che vigilando fui in casa di Gerasto e vigilando feci la vostra ambasciata, e, vigilantemente e stando in cervello, mi dissero che eravate giunto e me ne féro tornare a dietro.

NARTICOFORO. Alter de duobus: aut tu vigilanter sei stolto aut tu dormiendo imbriaco. Però decet, oportet, bisogna che con una buona ferola ti ecciti dal sonno, ché questa è la pozione e l'antifarmaco degli ubbriachi.

GRANCHIO. Dico il vero.

NARTICOFORO. Servorum est falsitates et mendacia dicere. Tanto può esser vero questo quanto tangere caelum digito!

GRANCHIO. Giamai dissi veritá magior di questa.

NARTICOFORO. Proh Iuppiter, che tu mi fai excandescere di rabbia! Mira se sei un búbalo: non ci hai trovati nel luogo dove ci lasciasti? come possiamo esser giunti prima di voi stessi? Furcifer, furcifer, ti prendi piacere di ludificarmi.

GRANCHIO. Non potrebbe essere che questa Napoli non fusse quella che cerchiamo noi? quante Napoli son nel mondo? o forse in questa Napoli fussero piú Gerasti, e abitasse in qualche altra casa e io l'avessi preso in iscambio? Ma io dubito che voi per qualche altra via piú breve di quella che ho fatto io, siate stati in casa di Gerasto, e abbiate mangiato e bevuto bene, e siate tornato prima di me; e or mi diate la baia che mi muoio di fame.

NARTICOFORO. Eamus, ch'io vo' concomitarti insino al luogo; né bisogna escusarti poi:—Ita mihi videre videbatur, mi parea un altro Gerasto, e mi parea che dicesse cosí, mi pensava cosí.—Turpe est dicere: «Non putaram», perché una buona ferola fará le mie vendette. Io ti farò baiular su gli omeri da uno arcipotente bastazo, e da duo pueruli ti farò tener le gambe, ché non possi recalcitare in praeceptorem—con «ae» diftongo,—e io con un corio bubále ti fustigherò ben le natiche.

GRANCHIO. Andiamo; e se non troverete quanto vi ho detto, vo' che mi strappate la lingua dalle radici e il naso ancora; ma se trovarete quanto vi ho detto che sia vero?

NARTICOFORO. Amboduo la penitenza, perché vapulando e verberando ne straccheremo.

GRANCHIO. Che colpa ci ho a questo, io?

NARTICOFORO. Non dico te, ma quello uomo nefario che sará stato áuso usurparsi il nome onorato di un tanto maestro, e luerá la pena della usurpata giurisdizione.

GRANCHIO. Ed io se trovo qualche altro Granchio che dichi che sia me, farò le mie vendette, e massime se si arà mangiato la parte mia. Ma ecco questa è la casa.

NARTICOFORO. Tocca l'ostio.

GRANCHIO. L'ho toccato.

NARTICOFORO. Quando il furore m'ave invaso la mente e sono divenuto furibondo, non scherzare. Battila, ti dico.

GRANCHIO. Che colpa ci ha la porta? avete la còlera contro coloro e la volete sfogare sovra la porta?

NARTICOFORO. Se mi muovi la stizza, sarai lo primo a pentirti di questi futili vanilòqui.

GRANCHIO. O che avessi un che la mi tenesse su le spalle, ché gli vorrei dar un cavallo.

NARTICOFORO. Taci, che s'apre da se stessa.

GRANCHIO. Oh, come ha fatto bene a sé in non farsi battere e a me questa fatica di batterla, ché giá m'aveva sputato su le mani e stretto il pugno per gastigarla; e ne vien fuori una fantesca.

NARTICOFORO. Ipsa est ipse ego, ipse tu ipsa illa.

SCENA VIII.

NEPITA, GRANCHIO, NARTICOFORO.

NEPITA. (Il rumor che fanno questi dinanzi la porta, m'ha fatto lasciar di burattar la farina. Ma chi è questo barbassoro di qua?).

NARTICOFORO. (Granchio, percontala, dimandala un poco).

GRANCHIO. O bella giovane e da bene,…

NEPITA. Sei ben un tristo tu.

GRANCHIO…. di grazia, volgetevi a noi. Prima risponde con i calci che con la lingua: certo deve esser di razza di mulo.

NEPITA. Se avessi detto d'asino, sì.

GRANCHIO. Sí ben, di razza d'asino volevo dire.

NEPITA. E tu un'altra volta lasciami stare. Ma certo che tu non serai altro che un prosontuoso, poiché arrogantemente parli e prosontuosamente tocchi.

GRANCHIO. È cosí gran male il toccare? Tocco la tazza dove beve il mio padrone, che è d'argento; non posso toccar te?

NEPITA. Pensi che se lo sapessero i miei parenti, non te ne farebbono pentire?

GRANCHIO. Tocca tu me, che i miei parenti non se ne curano.

NEPITA. Tu sei ben un cattivo.

GRANCHIO. Cattive son le vesti, ché, si mi vedesti nudo, ti parrei bellissimo.

NARTICOFORO. Tu veramente deliri e patisci di lucidi intervalli. Alloquar hominem—hic et haec homo: lo uomo e la femina.—Femina da bene!

NEPITA. Oh, oh, costui mi chiama «femina da bene»: o è un asino o non deve parlar con me.

NARTICOFORO. Optime quidem. Deterrima muliercula, idest pessima e cattiva femina.

NEPITA. Né tampoco cosí; ma dimmi «femina men cattiva dell'altre».

NARTICOFORO. Tibi Obtemperabo. Femina men cattiva dell'altre, ditemi, state voi qui?

NEPITA. Se stesse qui, non anderei caminando.

NARTICOFORO. Dove stai dunque?

NEPITA. Dove mi fermo.

NARTICOFORO. Dico se sei di qua.

NEPITA. Giá, non son d'oltramare o d'oltra i monti.

NARTICOFORO. Dico se stai in questa casa.

NEPITA. Se stessi in questa casa, non starei in piazza.

NARTICOFORO. Vo' saper se stai con Gerasto.

NEPITA. Se sto teco adesso, come posso stare con Gerasto? Vedete se siete da poco.

GRANCHIO. Ah, ah, ah!

NARTICOFORO. Tu non intendi questo mio parlare che è pieno di figure e di ornamento oratorio, da' Greci detto «schemata». Cicero in libro De claris oratoribus: «Schemata enim quae Graeci vocant, maxime ornant oratorem, eaque non tam verbis pingendis habent pondus, quam illuminandis sententiis».

GRANCHIO. Questa è la via d'entrar presto in casa!

NARTICOFORO. E si scrive con «ae» diftongo, e vien da «schima» che si scrive con «ita».

NEPITA. Voi dovete essere spiritato, che parlate in tanti linguaggi; ma io perdo qui il tempo, ché non avete altro che parole.

GRANCHIO. Abbiam fatti per te.

NARTICOFORO. Ascolta, di grazia, la conclusione, talché a primo ad ultimum se ho detto se state in questa casa, ho voluto ornatamente inferire se sète incola di questa casa.

NEPITA. Sí che che conclusione cavo io di questo?

NARTICOFORO. Questo «che che» è un «cacephaton», una cacofonia; ma dite piú ornatamente:—Che conclusione caverò io di questo?—L'altre parole sono superflue….

NEPITA. Parlate onesto, se pur vi piace, che vi devreste vergognare.

NARTICOFORO. In che ho peccato?…

NEPITA. Andate in bordello, vi dico, e innanzi quelle donne ragionate di questo.

GRANCHIO. Certo, queste parole l'hanno guasto lo stomaco.

NEPITA. Certo, che dovete essere un bel pappalasagni.

NARTICOFORO. Questo vocabulo «pappalasagni» non l'ho osservato né in Spicilegio né in Cornucopia né in Calepino. Granchio, tu che sai di zergo e di furbesco, dimmi, che vuol dire?

GRANCHIO. Che sète un grandissimo letterato!

NARTICOFORO. (Deve esser donna di gran spirito, conosce alla ciera i valenti uomini). Diteme se Gerasto fusse in casa.

NEPITA. Non v'è; né se vi fusse, potrebbe venir a voi, perché ha in casa certi forastieri romani.

NARTICOFORO. Che son questi, ádvene over ospiti?

NEPITA. Dico, forastieri non osti.

NARTICOFORO. Dico, ospiti non osti. Hic et haec et hoc hospes et advena: uomo, femina e cosa strana.

NEPITA. Un certo Nasincolio o Nartincoforo, che cento cancheri sel mangino!

GRANCHIO. Un solo possa mangiar te!

NARTICOFORO. Impara, «Narticoforo» bisogna dire, non «Nasincolio». È nome greco e viene «apò tù nartix», cioè «ferola», e «phoros», idest «ferens»; cioè «che porta la ferola». E come lo scettro è segno della regia podestá, cosí la ferola è segno della magistral dignitade. Ma avèrti che Narticoforo non è ancor giunto.

NEPITA. Come non è giunto, se l'ho visto con questi occhi?

NARTICOFORO. Te allucini, te inganni.

NEPITA. Cosí non fusse egli venuto mai!

GRANCHIO. Cosí non avessimo trovata viva te!

NEPITA. O s'avesse rotto le gambe per la via…

GRANCHIO. O t'avessi rotto il collo tu…

NEPITA…. egli, suo figlio e chi fu cagion che venisse!

GRANCHIO…. tu, tuo padrone e chi ti dà questa creanza!

NARTICOFORO. Come Narticoforo è in casa, se ragiona vosco?

NEPITA. Ho da burattar la farina per i maccheroni, e voi mi trattenete: lasciatemi andare.

NARTICOFORO. Bona verba, quaeso, ascoltiate.

NEPITA. In casa voi non alloggiarete, ben potrete andar altrove.

GRANCHIO. Bel modo di ricevere i forastieri amici del padrone!

NEPITA. Se non gli farò qualche burla, non mi torrò oggi questo barbagianni dinanzi.

NARTICOFORO. Dammi udienza, di grazia.

NEPITA. Eccovela.

NARTICOFORO. Ah, pedissequa, ancillula, scortulo, meretricula, che m'hai ottenebrati gli oculi con questa tua farina. Proh Iupiter, che l'avesse nelle mani per dilaniarla in mille frustuli!

GRANCHIO. Ecco, trovate vere le mie parole. Quanto era meglio credere e non voler provare. Ella è dentro, e noi, come quelli che non entrano mai, siamo restati fuora.

NARTICOFORO. Il canchero che ti mangi! abi in malam crucem! Costei deve essere qualche fantesca ignorante: che sa dei fatti del padrone?

GRANCHIO. Fate quanto volete, troverete vere le mie parole.

NARTICOFORO. Lasciami confabular con Gerasto, cosí vedremo chi arà ragione. Batti le valve con veemenzia, che scappino dalle fibie e contignazioni.

GRANCHIO. E pur volete battere le porte: avete la rabbia con i padroni e la volete sfogar con le porte.

NARTICOFORO. Se mi fai irascere, batterò te per lei.

GRANCHIO. Ecco s'apre di nuovo. O iudiciosa porta, quanto devi esser savia, poiché come stai per esser battuta, t'apri da te stessa.

SCENA IX.

PANURGO, NARTICOFORO, GRANCHIO.

PANURGO. O amico colendissimo, ben venghi il mio Narticoforo romano!

NARTICOFORO. O Geraste, patronorum patronissime, dii deaeque omnes te sospitent et salvum faciant, ben trovato per una miriade di volte!

GRANCHIO. (Costoro si conoscono: la cosa non va buona per me).

PANURGO. Dove è Cintio vostro figliuolo?

NARTICOFORO. Nel diversorio, ché per non essere assueto a viaggi, recumbe nel pulvinare; ma verrá quanto ocius. Ma certo, Gerastule, Gerastule lepidule, voi stesso vi lacèssite d'ingiuria, chiamandovi decrepito, che per la Dio mercé non mi parete di quaranta anni.

PANURGO. L'aria di Napoli è cosí sottile che nasconde gli anni alle persone.

NARTICOFORO. Mi scrivevate aver i piedi obsessi da nodose podagre; or veggio che gli avete scarni e delicatuli.

PANURGO. Scherzava cosí con voi, intendeva per le podagre due figlie che aveva da maritare.

NARTICOFORO. Oh lepidum caput!

PANURGO. Ma sia come si vogli, son al vostro comando.

NARTICOFORO. Ecco son venuto a tòrvi questa podagra e addossarla al mio figliuolo.

PANURGO. Di questo mi doglio ben, che v'abbiate tolto invano questo travaglio.

NARTICOFORO. Igitur, ergo, dunque col mio solo figliuolo si potevano far queste nozze?

PANURGO. Voi non sapete che voglia inferire?

NARTICOFORO. Nol posso ariolare, se non lo dite prima.

PANURGO. Dico che mi dispiace che siate venuto in Napoli, non potendosi piú effettuare questo matrimonio.

NARTICOFORO. La cagione?

PANURGO. I giorni a dietro, medicando lo spedale degli Incurabili, o fusse l'aria infetta di quel luogo o qualche occulta specie di peste, come tengo ben fermo, mi prese tutto e mi venne un spedal di malattie adosso. Questa mia figlia mi serviva a medicarmi e a mutarmi gli empiastri; fra pochi giorni, le venne la medema infirmitá e dal bellíco in giú l'ha tutta rósa e divorata, che non può piú servir per femina. E di piú, le è discesa una ernia di sotto, che è piú tosto un mostro che umana creatura; e ogni cosa che tocca infetta della medema peste. A me il male ha profundato le parti di dietro, e sono incancherite. Onde la poveretta non bisogna che piú si mariti, ma che si muoia in casa overo in un monistero, benché sian brevi i giorni suoi.

NARTICOFORO. Perché prima che mi fusse accinto a questo itinere, non mi avete reso cerziore di questo fatto?

PANURGO. Che strada avete voi fatta al venire?

NARTICOFORO. Dal Garigliano abbiam attraversata la via e venuti per
Linterno, dove Scipio piangendo l'ingratitudine della patria commutò
la vita con la morte. Poi, per la silva Gallinaria siamo venuti a
Puteoli, detta cosí «a putore vel a Puteorum multitudine».

PANURGO. Ed io ho inviato una posta tre giorni sono per la via di
Aversa e di Capua.

NARTICOFORO. Non mi potrete dar voi Ersilia, l'altra figlia? che parvi? refert sia l'una o l'altra, anzi mi piace piú di Cleria per non essere tanto formosa.

PANURGO. Piacesse a Dio che fusse viva, ché saressimo fuora di questi intrighi! sono piú di quattro mesi che si morio.

NARTICOFORO. Voi non me ne avete fatto parola mai.

PANURGO. Non mi parea convenevole, trattando di matrimoni e allegrezze, mescolarvi con augúri di morti.

NARTICOFORO. Io non parlo sine ratione; ché—avendomi voi interpellato la lezione, ché la mattina leggeva lo sesto di Virgilio con commune applauso degli audienti, e la sera le Regole di Mancinello; e fattomi profugo da' regni latini—dalla cittá romulea son venuto qui in Palepoli seu Neapoli con auspici di copular un mio figlio in matrimonio; e ragionandosi di ciò tra consanguinei e amici in Roma—ché per la Dio mercé vi siamo di qualche conto—e or tornando alla patria senza la nuora, pensaranno qualche cosa cattiva di me o del mio figliuolo, ché le genti sono piú acconcie a credere il male che il bene. Però mi reduco genuflexo a deprecarvene.

PANURGO. Padron mio caro, non saprei che fare per rimediarci.

NARTICOFORO. Geraste carissime, se forse accipiendo informazione di me o del mio figliuolo, avete inteso qualche cosa che vi spiace—perché si trovano genti che multa dicunt,—o forse la dote è troppa o la mia supellettile è poca, ditelo alla libera, ché potremo rimediare al tutto.

PANURGO. Il parentado è cosí buono ch'io nol merito, la dote posso facilmente pagarla e giá i dinari erano in banco.

NARTICOFORO. Non potrei io entrar in casa e veder questa vostra figlia cosí abrosa?

PANURGO. Io non posso farvi intrare in casa mia, ché per esservi dentro la peste, come vi ho detto, con accostarvi solo alla porta o toccar queste mura, vi viene adosso la medema infirmitade: onde mi dispero di non potervi onorare, come è mio debito, meno di un becchier d'acqua. Ma farò che Cleria mia venghi giú, su la porta. O di casa, fate calar Cleria mia figlia; e recate un poco d'aceto per unger le mani, acciò il tufo e l'aria appestata non infetti questi gentiluomini.

NARTICOFORO. Gerasto caro, accioché sappiate chi sia io, io son quello che ho commentato il Bellum grammaticale, la Priapeia di Virgilio; ridotte in compendio le Regole di Mancinello e del Valla; enucleati sensi profundissimi, reconditissimi e abstrusissimi di Prisciano; fatte postille e scòli alle Epistole di Cicerone: talché vòlito per ora virorum e per tutte le scole si parla di me. Ricordative che voi mi proponeste questo partito e io era piú avido rifiutarlo che accettarlo, ché alla mia prole non mancano matrimoni nella sua patria. Ma voi tanto mi sollecitaste e mi postulaste con iterati internunzi e chirografi, che mi facesti cadere; e or con le parole non s'accordano i fatti.

SCENA X.

MORFEO, PANURGO, NARTICOFORO, GRANCHIO.

MORFEO. Che volete, pa… pa… padre caro?

PANURGO. Narticoforo caro, eccovi un poco di aceto, ungetevi le nari, togliete questa balla di profumi.

NARTICOFORO. O mi Deus, o Iuppiter, che mostro è questo? mi incute terrore!

PANURGO. Ecco, vedetela, miratela a vostra posta.

GRANCHIO. A me ha fatto passar la voglia di mangiare.

PANURGO. Camina qua, Cleria mia.

MORFEO. No, no po… posso, pa… padre mio.

PANURGO. Orsú, entra in casa.

MORFEO. Vo… volete altro, pa… padre caro?

PANURGO. Non altro, figlia, coltello di questo cuore; va' e còrcati. Non togliete, di grazia, la balla dal naso, finché non sia entrata e ventilata quest'aria rimasta infetta per il suo apparire. Avete visto mia figlia? Or vedete, da cosí bella giovane qual era, la violenza del morbo a che l'ha ridotta e come l'ha contrafatta!

NARTICOFORO. Che sfinge, che arpia, che Medusa con la testa crinita di serpenti!

PANURGO. Assai piú difforme è quello che cuopre la gonna, che quello che appar di fuori.

NARTICOFORO. Uhá, uhá, che orribil putore che vi ha lasciato: par che sia un putrido cadavere! O che pettuscolo niveo dove sta spaziando Venere con gli Amori! Ma io dubito, Gerasto, che non vogliate ludificarmi; e poiché voi la volete romper meco, io la romperò vosco. Queste non son cose di viro probo, trattar cose di onore e venir meno della parola. Io mi armerò di iambi e di endecasillabi; narrerò lo fatto in modo che la presente e la futura etade non ignori questo facinore: durerá col tempo, che si leggeranno per i trivi publichi e per i triclini.

PANURGO. Fate quel che vi piace: non so che farvi. Perdonatemi, ho da fare a casa.

SCENA XI.

ESSANDRO, NARTICOFORO, GRANCHIO.

ESSANDRO. (Eccolo, mi sforzerò spaventarlo talmente che sgombri questa cittá). Deh, se posso trovar uomo che me lo facci conoscere, se non il farò pentire d'aver posto piede in Napoli, voglio essere sbranato in mille parti!

NARTICOFORO.

(Pape Satan, pape Satan, aleppe!

Granchio, questi è un troiúgeno Ettore o un Aiace flagellifero!).

GRANCHIO. (Ascoltiamo che dice).

ESSANDRO. Ancora che fusse in mezzo un essercito de nemici, farò tal scempio di lui che non vo' che lasci segno alcuno d'esser stato nel mondo. Che mi curo io di vita? che di giustizia? Dieci anni di vita piú o meno non m'importa.

GRANCHIO. (Chi ardirebbe toccar a costui la punta del naso?).

ESSANDRO. Mi dicono che è romano e maestro di scuola, e che si chiama Arcinfanfano. Dimandarò ogniuno che incontro, accioché per negligenza non resti di trovarlo.

GRANCHIO. (Or so che dice di maestro di scuola e di romano. Fuggete, padrone).

NARTICOFORO. (Io sono insonte, non sono stato infenso ad alcuno).

GRANCHIO. (Mirate che ciera, che guardo fiero!).

NARTICOFORO. (Le ciere torte e i guardi fieri non pungono né tagliano.
Dimandagli un poco chi sia).

GRANCHIO. (Non son uomo da questioni).

NARTICOFORO. (Sii almeno da parole).

GRANCHIO. (A questo sí, son buono, e non ve ne farò mancar mai; ma avertite che, venendo egli a fatti, io lascio le parole).

NARTICOFORO. (Sará meglio arripere la fuga).

ESSANDRO. Vien qua tu: perché fuggi?

NARTICOFORO. Voleva andare, amicto, exonerare il ventre delle superfluitá della digestione.

ESSANDRO. Dimmi, tu chi sei?

NARTICOFORO. Né romano né ludimagistro.

ESSANDRO. Alla puzza de' piedi conosco che sei pedante. O tu sei quel desso o devi conoscere quel pedante ch'io cerco. Conosci tu Narticoforo romano?

NARTICOFORO. Ti giuro per il quaternario e per la brassica ch'io non lo conosco.

ESSANDRO. Che quaternario? che brassica?

NARTICOFORO Pythagoras, philosophus philosophorum, giurava per lo numero quaternario; iuro ego similiter per numerum quaternionem. E Socrate, che fu giudicato dall'Oraculo per il sapientissimo di viventi, giurava per la brassica.

ESSANDRO. Alla loquela e all'abito mi pari un pedante.

NARTICOFORO. Non aedepol, non Hercle, non certo, non son unquanco….

ESSANDRO. Vien qua tu: conosci costui chi sia?

GRANCHIO. Nol conosco né il viddi pur una volta.

ESSANDRO. Se non mi dici chi sei, ti passerò questa spada per i fianchi.

NARTICOFORO. Saltem, annunciatemi, in che v'ha egli offeso?

ESSANDRO. Non si vergogna questo pedante pedantissimo, feccia di pedanti, voler fare una mia cugina per moglie al suo figliuolo. Siamo dieci nipoti congiurati insieme di ammazzarlo, perché l'abbiamo promessa maritare con un nostro parente, e ci va la vita di tutti; e noi per non essere uccisi tutti, vogliamo uccider lui.

NARTICOFORO. Quid igitur faciendum?

ESSANDRO. Fuggir subito da questa cittá.

NARTICOFORO. Lubenter faciam: non mi darete voi tempo ad colligendum sarcinulas?

ESSANDRO. Abbi mezza ora di tempo. E se per disgrazia dirai nulla di ciò che ti ho detto a Gerasto, guai a te! il pezzo maggior sará l'orecchia.

NARTICOFORO. Mi partirò adesso adesso.

ESSANDRO. Verremo insino a Roma ad ucciderti: non so io che abiti vicino al Culiseo?

NARTICOFORO. Non certo: alla Rotonda, sí.

ESSANDRO. Cosí prometti, fa' che l'attendi, se non…, misero te! (Io mi tratterrò da qui intorno per far un'altra bravata a Gerasto che, cosí vestito da maschio, non será per conoscermi).

SCENA XII.

SPEZIALE, PANURGO, MORFEO.

SPEZIALE. (Veggio un uomo innanzi la porta di Gerasto). Gentiluomo, qui m'invia Gerasto medico, che facci un serviggiale ad un forastiero ammalato. Se sète di casa, mi sapreste insegnar dove abbiti?

PANURGO. Entra in questa camera terrena, presso la scala, che lo troverai giacente infermo. Di grazia, disponetelo prima con belle parole, poi fate l'ufficio vostro.

SPEZIALE. Volentieri. Non mi darete voi due legna, che possa riscaldar questo pignatino?

PANURGO. Fratello, noi siamo forastieri, legne non ne abbiamo; fate il meglio che si può.

SPEZIALE. Cosí farassi.

PANURGO. (Come fui sciocco questa mattina non rispondere alcuna cosa a questo fatto; ché difficil cosa mi pare che Morfeo si conduca a farselo. Egli è tristo a tutta passata, e dubito non facci delle sue e ruini il negozio).

MORFEO. Va' via, parteti di qua.

SPEZIALE. Che faresti se t'apportassi alcun male, che, apportandoti la sanitá, cosí mi scacci?

MORFEO. Sia maladetta la sanitá che vien per tal via!

SPEZIALE. Fratello, nessun male si scaccia con piacere.

MORFEO. Mi fai del filosofo ancora. Fuggí di qua e fai bene.

SPEZIALE. Lásciatelo fare, e fai meglio.

MORFEO. Eh, va' via!

SPEZIALE. Eh, férmati!

MORFEO. Levamiti dinanzi, dico.

SPEZIALE. Io non ti sto innanzi ma dietro.

MORFEO. Dici il vero, che dovunque mi volgo, mi ti trovo dietro; par che sii l'ombra mia.

SPEZIALE. Tutto è per tuo bene.

MORFEO. Vuoi tu un buon consiglio? Vattene via ben presto.

SPEZIALE. Vuoine tu un altro migliore? lásciatelo fare.

MORFEO. Tu sei risoluto non partirti?

SPEZIALE. Tu indovini, se prima nol faccio. Fa' buon animo.

MORFEO. Come ho a far per far buon animo?

SPEZIALE. Rissoluzione: cala la testa, stringi i denti e tira il fiato a te.

MORFEO. Cosí farò.

PANURGO. (Pur alfin s'è contentato! Ma che rumore è questo?).

SPEZIALE. Oimè, oimè! che sia ammazzato quel fabro che fece quella scure che tagliò quegli alberi che féro quella barca che ti portò in questo paese!

PANURGO. Che cosa hai, uomo da bene?

SPEZIALE. In questa casa dicevi tu che ci era carestia di legne? che in nessuna casa m'è accaduto mai me ne siano state date in piú abondanza né a miglior mercato né con peggior modo!

MORFEO. Ancor sei qui, brutto poltrone?

SPEZIALE. Se non ti piaceva, non potevi licenziarmi senza cacciarmene come si cacciano i cani?

MORFEO. Sgombra, fuggi di qua!

SPEZIALE. (Deh, se posso appuntartelo dietro, o ce lo ficcherò insino al manico o farò il brodo tanto caldo che ti scotterò tutte le budelle. Ti farò peggio che non hai fatto a me).

MORFEO. Che borbotti, sozzo asino?

SPEZIALE. Era venuto a farti il serviggiale, non per esser battuto.

MORFEO. Che hai ad impacciarti se voglio vivere o morire? sei mio tutore?

SPEZIALE. Era venuto qui per un carlino, non bastano quattro a medicarmi.

MORFEO. Ti duoli forse che non t'abbi dato quanto merita la tua perfidia?

SPEZIALE. Che gran fatto era lasciarti far il rimedio? Questo ti cava tutti i cattivi umori dal corpo: ti allegerisce la testa, ti leva le fumositá dal cervello, ti mantien largo da dietro, che non arai piú male in tua vita. Il male è poco, l'utile è molto: non sète giá putto, che abbiate a vergognarvene.

MORFEO. Ben dice il proverbio: «Sei piú fastidioso del serviggiale»; ma tu avanzi tutti i serviggiali del mondo.

SPEZIALE. Lo farò con tanta destrezza che, quando stimerai che non abbi cominciato, arò finito.

MORFEO. Orsú, io fo stima che non abbi cominciato; fa' stima tu che abbi finito, e va' via.

PANURGO. (Morfeo, di grazia, obedisci: non scopriamo il fatto per cosa cosí leggiera).

MORFEO. (Fattelo far tu o il tuo padrone a cui appertiene questo, accioché vi purgasse quelli umori che dice lo speziale. Che ho a far io con gli umori tuoi o con gli amori di Essandro?).

SPEZIALE. Vorrei saper da te, vuoi o non vuoi farti questo rimedio?

MORFEO. Vorrei saper da te, vuoi o non vuoi partirti di qua?

SPEZIALE. Non accostarti, che giuro passarti questo alla trippa.

PANURGO. Di grazia, vattene.

SPEZIALE. Non me n'andrò senza vendetta: almeno, gli spezzarò questo pignatino in testa e gli butterò il brodo in faccia.

MORFEO. Ah, poltron asino, che m'hai cieco! se ti giungo!

ATTO IV.

SCENA I.

NARTICOFORO, GERASTO.

NARTICOFORO. (Heu, misero Narticoforo, tu stai in un pelago di ancipiti pensieri! A me duole partirmi senza far molti consci della ingiuria con che m'ha lacessito Gerasto; e se non mi parto, quel suo nipote vuoi trucidarmi: io sono tra Cariddi e Scilla!).

GERASTO. (Fioretta non è in camera: andrò in casa, gli farò cenno che venghi, e vedrò se gli forastieri han pranzato e se si riposano).

NARTICOFORO. (Costui deve esser forastiero in questa cittá, perché va alla casa appestata e la batte per entrare). O viro probo, arrige aures a quel che dico.

GERASTO. O son sordi o dormono.

NARTICOFORO. Perché battete quel ostio con tanta veemenzia?

GERASTO. Perché ho voglia d'entrare.

NARTICOFORO. Voi dovete esser forastiero e l'arete presa in cambio.

GERASTO. Or questa è bella, che un forastiero dica ad un cittadino che è forastiero, e gli vogli insegnar la sua casa!

NARTICOFORO.

Heu fuge crudeles terras, fuge littus avarum!

GERASTO. Perché mi dite voi questo?

NARTICOFORO. In questa casa ci è la peste, e ponendovi la testa dentro o toccando la porta, s'apprende.

GERASTO. Penso che voi vogliate darmi la baia.

NARTICOFORO. Vuoi tu un buon consiglio? scostati da quella porta, perché ti appestará. Gerasto. Vuoi tu un miglior consiglio? non trattar di quello che non sai, altramente sarai giudicato di poco consiglio e di manco cervello.

NARTICOFORO. Or giudica temet ipsum di poco cervello e di poco consiglio, che parvipendi l'ottime admonizioni di chi ti dice che questa casa è pestifera e ti importa la vita.

GERASTO. Che peste? chi t'ha riferito questo?

NARTICOFORO. Il padron istesso di queste edicole.

GERASTO. A che proposito il padron di queste case ti l'ave riferito? certo costui sará scemo di cervello.

NARTICOFORO. Lubenter faciam. Commorando io in Roma, mi scrittitò molte lettere, chiedendo copular una sua figlia in matrimonio con un mio figlio; e giá d'accordo, piú con la sua che con la mia sodisfazione, mi chiama che venghi col mio figlio a tor la sposa. Vengo, e lascio i miei consanguinei che mi venghino ad incontrar con la nuora; adesso mi dice che me ne ritorni.

GERASTO. Certo costui non può essere uomo da bene, perché vien meno della sua parola. Ma che ragioni assegna egli?

NARTICOFORO. Dice che medicando agli Incurabili s'attaccò la peste, ed egli l'ha attaccata a sua figlia nelle parti pudibonde e l'ha tutta guasta, che non vi è rimasto segno del sesso; e che a lui gli è venuta da dietro—o stomacali o peste,—che è tutto rovinato. E poi m'ha mandato un suo abnepote o trinepto a minacciarmi, se non mi parto fra mezza ora, di voler uccidermi.

GERASTO. Che cosa è trinepto?

NARTICOFORO. Mon sapete voi la linea delia consanguineitá? «Est nepos cuius relativum est avus, sic proavus cuius relativum est pronepos, sic abavus cuius relativum est abnepos».

GERASTO. Non mi curo saper questo io.

NARTICOFORO. Ascolta, che non so come puoi tu vivere senza saper questo.

GERASTO. Seguite la cagion della peste.

NARTICOFORO. Alfin, per giungerlo, gli dico che mi facci copia di veder quella sua figlia che aveva; e mi disse che avea commutato la vita con la morte.

GERASTO. Perché non vi facesti mostrar quella sua figlia appestata?

NARTICOFORO. Lo chiesi; e venne fuori con certe tumefazioni nella bocca, con una ernia di sotto, che non so se Tesifone o Megera potesse essere piú difforme di lei. E allora mi disse che mi fusse scostato dalla casa, perché era pestifera.

GERASTO. Questa mi pare una forfantaria e indegna di uomo da bene; e ne meriterebbe castigo. Però vi prego, se è però lecito, dirmi il nome, acciò ci possiamo guardar da lui.

NARTICOFORO. Lubentissime faciam. Suo nome è Gerasto di Guardati.

GERASTO. Gerasto de Guardati! come, quando e dove fu questo?

NARTICOFORO. Hic, in questo luogo; illic, in quel luoco; istic, per qua: poco innanzi, come v'ho detto.

GERASTO. Gerasto di Guardati ti ha detto che ha una sua figlia con una fistola dinanzi, ed egli un'altra di dietro?

NARTICOFORO. Certissimo, quello che ascolti.

GERASTO. Come sta fatto questo Gerasto che tu dici?

NARTICOFORO. Gracilescente, col collo obtorto, con oculi prominenti, strabbi e di color fosco.

GERASTO. Dio me ne guardi che Gerasto fusse cosí fatto! Tu mi hai dipinto un appiccato. Gerasto è tutto di contrarie fattezze: che è grasso, collo corto, naso schiacciato, colorito; e per non tenerti a tedio, io son Gerasto di Guardati. Né mai viddi te se non adesso: né ebbi io fistola dietro mai, né mia figlia innanzi, se non quella che ci ha fatto la natura istessa; e se lo luogo di mia figlia fusse men onesto, or la snuderei; e se io non stessi nella strada publica, or ora mi slacciarei le calze e te lo mostrarei in prospettiva, accioché con gli occhi tuoi vedessi il tutto. Né io ho nipote né trinepote che possa pormi legge: e tutto è mentita quanto hai detto.

NARTICOFORO. Ho detto il vero, piú vero di quel vero che tu dici.

GERASTO. È ben vero che ho promesso a Narticoforo romano, onoratissimo uomo, dar mia figlia Cleria per moglie a Cintio suo figlio, e a lui sta a menarsela in Roma quando gli piace; e tu devi esser di cattiva lingua.

NARTICOFORO. Poco anzi con encomi egregi onorasti Narticoforo ludimagistro, e or ricanti la palinodia chiamandolo semifatuo e mentitore.

GERASTO. Ho lodato Narticoforo; ho detto mal di te.

NARTICOFORO. Ego sum Narticoforus «fama super aethera notus».

GERASTO. Tu Narticoforo romano?

NARTICOFORO. Ipsissimus Narticoforus.

GERASTO. Se tu sei Narticoforo e te ho lodato, mi sono ingannato e ne mento per la gola.

NARTICOFORO. Non mi sono ingannato io di te, che ho detto quel che sei.

GERASTO. Narticoforo e suo figlio sono in casa mia; e ti farò veder la veritá quando vorrai.

NARTICOFORO. Quando venne in tua casa Narticoforo?

GERASTO. Poco innanzi; han pranzato e or si stanno a riposare per lo viaggio fatto.

NARTICOFORO. Narticoforo e suo figlio sono in casa tua?

GERASTO. Quante volte vuoi tu sentirlo?

NARTICOFORO. Potrei vedergli io?

GERASTO. Per vincer col vero la tua perfidia, vo' che gli veda. Olá, o di casa, fate venir Narticoforo e suo figlio fuori. Ti farò veder la mia veritá.

NARTICOFORO. Qui non può esser veritá alcuna; né vedrò altrimente Narticoforo se non vedo me stesso, né Cintio mio figlio se non vado nel diversorio dove l'ho lasciato.

SCENA II.

MORFEO, GERASTO, NARTICOFORO.

MORFEO. Che dimandate pa… padre ca… ca… caro?

GERASTO. Ecco il suo figlio Cintio.

NARTICOFORO. Questa non è l'indole di mio figliuolo.

GERASTO. Questo forastiero ha caro vedervi. Morfeo. Chi è questo fo… fo… forastiero?

NARTICOFORO. Profecto desio saper chi voi sète.

MORFEO. Io Ci… Cintio romano.

NARTICOFORO. Di chi sète figlio?

MORFEO. Di Na… Na… Nas… Nasincolfino romano.

NARTICOFORO. Narticoforo vuoi tu dire? Che arte egli essèrse?

MORFEO. Maestro di sco… sca… sce…, mastro di scola.

NARTICOFORO. Pensava volessi dir mastro di solar scarpe. Che sei qui venuto a fare?

MORFEO. A sbo… sbu… sbosar la figlia di questo me… men… medico.

NARTICOFORO. Di quanto hai detto, tu menti del tutto.

MORFEO. Sbu, sbu.

NARTICOFORO. Oimè, che putore! che cosa è questo che m'hai buttato in faccia?

MORFEO. È ro… rotta la postema: è lo san… sangue e la mar… marcia.

NARTICOFORO. Oimè, che fetulenzia, che cloaca è questa!

MORFEO. Ti giuro…

NARTICOFORO. Non giurare a chi non crede al tuo giuramento. Parteti di qua; se non, mi partirò io.

GERASTO. Entra, Cintio mio caro. Ecco, hai pur visto esser vero quanto ti ho detto.

NARTICOFORO. Mio figlio non è cosí fatto: è un Adone, un Ganimede, immo centies piú bello dell'uno e dell'altro. Questi è un deforme Tersite. Proh Iuppiter, questa Napoli deve essere qualche terra incantata, dove gli uomini diventano altri di quel che sono; onde son ancipite come si trovano qui uomini che non solo mentiscono chi sono, ma s'usurpano i nomi e le condizioni d'altri.

GERASTO. Ed è possibile che in Roma si trovino uomini cosí ignoranti e di sí fatta condizione che non si voglino persuadere che altri non sieno quelli che sono, e or si vogliono far conoscere per quelli che non sono?

NARTICOFORO. Non fu inteso mai il piú insigne mendacio in questa machina mundiale!

GERASTO. Perché sei incredulo?

NARTICOFORO. Anzi, tu bugiardo?

GERASTO. Questa tua barba bianca m'ave ingannato.

NARTICOFORO. La tua ciera m'ha detto la veritá. Mira faccia di boia!

GERASTO. Mira faccia d'appiccato! stolto ignorante!

NARTICOFORO. Mentiris per guttur! oh avessi la mia ferola, che ti vorrei far pentire di quanto hai detto.

GERASTO. Ti risponderei con le mani, se avessi qui un bastone, e ti impararei la creanza.

NARTICOFORO. Tu la creanza a me? il quale con publico stipendio lègo una lezione estraordinaria alla Rotonda di versi di Mancinello di costumi? Pensi che per esser qui forastiero non abbi in questa cittá alcun amico? o abbi la crumèna cosí vacua che non possa far pentirti del tuo stultiloquio? Condurrò io qui or ora il capitan Dante, hispanus Hector, e ti farò conoscere quanto importi usar ingiuria a chi non la meritò mai.

GERASTO. Né tu mi trovarai qui solo. Ma ben hai fatto a partirti, ch'essendo scemo di cervello, con un bastone ti volea far tornar savio. Mira che sorte di uomini vanno per lo mondo, mira che cantafavole! Diceva la casa mia essere appestata, che lui era Narticoforo e ch'io non fusse Gerasto; alfin volea che Cintio non fusse figlio di Narticoforo.

SCENA III.

ESSANDRO. GERASTO.

ESSANDRO. Voi sète Gerasto medico, eh?

GERASTO. Io son; che volete per questo?

ESSANDRO. Avete voi avuto rissa con un maestro di scola?

GERASTO. Con uno che per tale si volea far conoscere.

ESSANDRO. Va ragionando per le strade con quanti uomini da bene incontra, con dir che Gerasto de Guardati è un medicacavalli, castraporci, maneggiator di sterco e d'urina.

GERASTO. Egli ne mente, ché in ogni conto son miglior di lui.

ESSANDRO. Dice che ave un asino in casa, se li volete medicar i testicoli.

GERASTO. Oh, che mi vien tanta rabbia che, se fusse qui, vorrei fargli veder chi son io.

ESSANDRO. Dice che vi chiamate messer Orinale.

GERASTO. Son uomo da spezzarcene cento nel volto, di urina putrefatta.

ESSANDRO. Dice che voi solete patir di una certa infirmitá bestiale e che l'avete richiesto…, mi vergogno dirlo.

GERASTO. Egli ne mente insin dentro al suo cervello e quanti lo credono.

ESSANDRO. Va adesso a trovar un capitan spagnolo bravissimo, chiamato
Dante, perché dá bravissime bastonate.

GERASTO. Sotterrerò lui e chi vuoi difenderlo, di bastonate. Ma io non sono di sí poca stima in questa cittá che non abbi una dozzina di spagnuoli a mio comando.

ESSANDRO. È rissoluto ammazzarvi in ogni modo; e penso sará qui tra poco.

GERASTO. Egli mi troverá qui piú tosto che pensa.

ESSANDRO. Io vo' a dirglilo.

GERASTO. Né io sarò cosí sciocco che, venendo egli accompagnato, mi voglia far trovar qui solo. Menarò meco el capitan Pantaleone spagnuolo, che lo medico gratis.

SCENA IV.

Capitan DANTE, NARTICOFORO.

DANTE. Ahora decidme cuantos mil hombres quereis que yo envíe á los infiernos.

NARTICOFORO. Uno uomo solo, vecchio decrepito, veternoso e silicernio.

DANTE. ¡Ah, cuerpo de mis males! mirad lo que me dice, por vida de quien soy, que me agraviais en ello, que haya yo de atreverme á matar un viejo podrido, moho de la tierra, no es posible, porque solo en el desenbainar de esta mi espada, es tanto el aire que hace, que es bastante para hacer hundir una nave. Y al solo moto de mi persona se estremece la tierra como si por ventura fuera un terremoto. Y en fin soy tal que donde hinco mis ojos, pego fuego.

NARTICOFORO. Non m'era ancora pervenuto ad aures cosa alcuna di queste tue prove.

DANTE. Pues, ¿como no habeis oido por estos mundos mis grandes valencias?

NARTICOFORO. Nunquam, non mai.

DANTE. ¿Sabeis porqué? en solo poner mano á mis armas, el temblor de los enemigos es tan grande que luego vereis huir quien por acá y quien por acullá, quien se nasconde y quien muere de temor; y de esta manera jamás ninguno vee lo que yo hago.

NARTICOFORO. Dunque, io son nato secundis avibus, ché mai non m'accadde vederlo.

DANTE. Pues, decid de que muerte quereis que le hagamos perecer: toma este librecillo donde están dibujadas seiscientas suertes de muertes, escoje cual quereis que le hagamos provar.

NARTICOFORO. Per dirvi il vero, non vorrei mandarlo all'orco.

DANTE. ¿Que horca? Valgate todos los diablos, ¿que soy yo por ventura verdugo, que tengo de ahorcar?

NARTICOFORO. Orco, idest, cioè alle case di Dite, nel Tartaro abissale: cioè che non vorrei ucciderlo.

DANTE. ¿Como si dijese cortarle un brazo, las piernas, o llevarle medio casco?

NARTICOFORO. Non tanto, no.

DANTE. Pues, ven acá: quiero yo que le hagamos una burla.

NARTICOFORO. Dic sodes, dite di grazia.

DANTE. Sabed que yo tengo una espada de corte tan delgada y sutil que, dándole por detrás muy diestramente, le cortaré la cabeza con tanta destreza que apenas sentirá si es pulga que le morde; y andará sin saber que está descabezado, y cuando irá por abajarse, caerá la cabeza acá y el cuerpo acullá, y asi se le saldrá afuera la sangre y el ánima.

NARTICOFORO.

Purpuream vomit ille animam sanguine místam, Vitaque cum gemitu fugit indignata sub umbras.

Ma questa mi pare una deterrima burla per lui.

DANTE. Quereis que le haga morir con un resuello o con un esternudo.

NARTICOFORO. Dunque, si può interficere un uomo con queste cose?

DANTE. Espera, que os lo quiero hacer ver, aheh, aheh.

NARTICOFORO. Apage, apage, non vo' veder questa esperienza, io.

DANTE. Non puedo yo obras obrar con mis manos con tanta lijereza que donde toquen no despedacen carnes y huesos de tal manera que se pueden hacer salchichas de ellas; pero matemosle con un espanto.

NARTICOFORO. Come con lo spavento?

DANTE. Yo me paro el rostro en acto tanto fiero y espantable que non hay hombre que en viéndome no se hiele de cabeza á pies de temor, y que no le venga la cuartana.

NARTICOFORO. Dubito che la quartana non la facciate venire a me.

DANTE. Cuando vuelvo mi cara, cerrad los ojos y no temais.

NARTICOFORO. Cosí farò.

DANTE. Pues ¿donde está este, que hemos de enviar a los reinos de Pluton? A las armas, cuerpo de quien me parió, que es esto? Ya es hora de almorzar y no he matado una docena de hombrecillos; porque juro que en diez anos no he estado tan ocioso como ahora.

NARTICOFORO. Qui abbiamo avute le risse e le altercazioni.

DANTE. ¿Habeis hecho tañer las campanas á muerto?

NARTICOFORO. Non io.

DANTE. Andad, que no es mi eostumbre poner mano á la espada sino que primero la haga tañer. Ppu, ¡ya me viene el hedor de su cuerpo podrido!

NARTICOFORO. Vo dunque. Mi allargarò piú tosto per il timor che mi assale.

DANTE. Ahora bien, andad, que yo entretanto sacaré mí.

SCENA V.

ESSANDRO, Narticoforo, capitan Dante.

ESSANDRO. Ancor sei qui, pedantaccio? non m'hai tu promesso partirti?

NARTICOFORO. «Arma virumque cano». Capitan Dante, mio Ercole alexicaco, aiutami!

DANTE. ¡Holá! quien va allá, tenganse y hinquense de rodillas, y hinchad, que os quiero dar un sopapo, si no juro por vida de quien soy que os mataré á puros boffettones, que por ser vos un muchacho, no sois hombre para mí.

ESSANDRO. Vien qui, mascalzone, ch'io ti vo' far conoscere che son miglior uomo di te.

DANTE. Yo te la doy por vencida, que en la cuenta de poltrones eres mejor que yo.

ESSANDRO. Fatti innanzi, poltronaccio.

DANTE. No me venga ninguno con bravadas, que en solo poner mi brazo en postura hago caer los hombres muertos. Y yo haré que essa palabra te cueste más que el queso á los ratones.

ESSANDRO. Volta la faccia qua, codardo.

DANTE. Los diablos me te trajeron delante.

ESSANDRO. Non sei una gallina tu? rispondemi.

DANTE. Anda, majadero, que si yo fuera gallina, con essos tus puntapies ya me habrías quebrado los huevos en la madrecilla.

ESSANDRO. Che vai facendo per questa strada?

DANTE. La calle es comun, y puedo pasear como cada uno.

ESSANDRO. È commune, se tu hai da appicarti in quella. Dimmi, che vai facendo per qua?

DANTE. Voy en busca de un amigo.

ESSANDRO. Farai come quello che gioca, che va buscando danari e trova bastoni. Ma cosa è questa che tu altro hai qui sotto?

NARTICOFORO. Il mio verbere, la mia fustiga, il mio baculo magistrale.

ESSANDRO. Con questa fustiga fustigherò te, ché per adesso io non mi vo' imbrattare le mani di sangue di pedante.

NARTICOFORO. Gentiluomo de indole prestantissima, «cedant arma togae»: non far questa ingiuria a questa toga venerabile.

ESSANDRO. Vien qua tu, alzami costui su le spalle.

DANTE. Soy para esso muy flaco de lombos.

ESSANDRO. Finiamola, poltronaccio.

DANTE. Dadme essas manos, ¡con todos los diablos!

NARTICOFORO. Ah, gentiluomo—ti vo' comporre un ottastico di versi scazonti, coriambici, anapestici, proceleusmatici, e vo' che dichino ne' capiversi il tuo nome,—non far ch'io vápuli come un putto!

ESSANDRO. Ti vo' proprio vapular come un putto.

NARTICOFORO. Avertite che fate falso latino: ché «vapulo» est verbum deponens, idest quod deponit significationem activam et retinet passivam: però «ego vapulo», io son battuto; non «vapulo», io batto.

ESSANDRO. Tu stai a cavallo e impari lo falso latino a me! Ma questa mattina io ti ho dato lo latino; e adesso vo' che lo facci a cavallo, e voglio che numeri le bòtte con la tua bocca, e come fai errore, cominciarò da capo.

NARTICOFORO. Fermate, di grazia; non cominciate ancora. Come volete che numeri, adverbialiter: semel, bis, ter; overo numeraliter: unus, duo, tres; overo ordinaliter: primus, secundus, tertius?

ESSANDRO. Non tante parole: stendi le gambe; se non, che te le farò tener da un fachino.

NARTICOFORO. Fate almeno che mi reminisca l'interiezioni dolentis.

ESSANDRO. Taf.

NARTICOFORO. Heu, unus!

ESSANDRO. Taf.

NARTICOFORO. Uhá, duo!

ESSANDRO. Taf.

NARTICOFORO. Oh, tria!

ESSANDRO. Tif, taf, tif.

NARTICOFORO. Heu, oh, uhá, quater: a quatuor usque ad centum sunt indeclinabilia.

ESSANDRO. Vuoi partirti?

NARTICOFORO. Mi partirò quanto ocius; se non, vo' essere trucidato.

ESSANDRO. Lascialo calar giú. Avèrti, ascolta bene: all'altra, io ti passerò questa spada per i fianchi.

NARTICOFORO. Oh, come m'hai difeso, capitan Dante! ti dovereste piú tosto chiamar capitan Recipiente che Dante!

DANTE. ¿Parecete cosa conveniente que yo ponga mano á las armas para reñir con un rapaz, con un mancebo? ¿no sabeis vos que no es costumbre los leones pelear con ratones, sino con animales feroces? ¡Ponedme á combatir con hombres bravos y vereis lo que sabré hacer!

NARTICOFORO. Ecco il mio inimico!

SCENA VI.

PANTALEONE spagnolo, GERASTO.

PANTALEONE. ¿De manera que no sabeis como me llamo?

GERASTO. Non io.

PANTALEONE. El capitan Pantaleon, destruidor de castillos, asolador de ciudades, dejarrettador de ejércitos y desplanta campaña.

GERASTO. Potrebbe essere che fussi sfrattacampagna, perché spesso fuggi.

PANTALEONE. Porque hallándome en medio de un ejército de enemigos, así siego piernas, cabezas, brazos y cuerpos, como el villano segador siega el trigo con la hoz; y cuando yo combato, es menester que haga tres cosas á un mismo tiempo: con el brazo derecho cortar hombres al través; con la izquierda tener alto el broquel para defenderme de los brazos, piernas y cabezas que llueven por el aire; y con los puntapies apartar los cuerpos destrozados, para que no me cerquen á la redonda y me sepulten vivo.

GERASTO. Dunque, non bisogna starvi molto vicino?

PANTALEONE. Antes huir luego, porque alguno de estos miembros cortados no te coja y te meta en las entrañas de la tierra. Yo me llamo Pantaleon matador de panteras y leones; y quando tengo alguna entre las manos, la desuello como se fuera oveja, y me visto de la piel y me voy entre los bosques y me junto con ellos, y juntándome azgo una con una mano y otra con la otra por los pezcuezos, y doyles con las cabezas de tal manera que le hago saltar los huesos por los ojos; y como otros van á cazar pájaros y liebres, yo voy á cazar panteras y leones.

GERASTO. Piú tosto a caccia di cappe e ferraioli.

PANTALEONE. Ahora escucha esta otra caza.

GERASTO. Non piú, di grazia.

PANTALEONE. Escucha, viejonazo, si no vate ahorca.

GERASTO. M'andrò piú tosto ad appiccare che ascoltarne piú.

PANTALEONE. ¿Pero donde están los ejércitos de estos tus enemigos?

GERASTO. Io non ho inimicizia se non con un solo che será qui tosto.

PANTALEONE. ¿Un solo, ah? ¿o más de uno? juro por esto poderoso brazo y por esta tajadora espada, con la cual he hecho tantas hazañas en essas nuevas y vejas Indias, que si no fuesses pobre hombrecillo te enviaría por embajador de las ánimas dañadas.

GERASTO. Per adesso non ho altri inimici.

PANTALEONE. Pues, no es menester poner mano á la dorlindana: con el puño solo, con un dedo, con un soplo, con un pelo de mis barbas, le haré más agujeros en lo cuerpo que no tiene un hervidero. Pero decidme, ¿esta mañana ha dicho la de mi tierra este tu enemigo?

GERASTO. Non so qual sia questa di tua terra.

PANTALEONE. Por causa mia han añadido á la: de Pantaleon.

GERASTO. Non l'ha detta certissimo.

PANTALEONE. Peor por él.

GERASTO. Ma ecco l'inimico, e porta seco un altro bravo. Bisogna menar le mani, signor capitan Pantaleone.

PANTALEONE. Teneos, que me pongo en orden: ¡ay de mí! que haré, que juro si me pegan las haldas traseras de la camisia, cierra los ojos, para que el resplandor de la espada no te haga cegar.

SCENA VII.

NARTICOFORO, capitan DANTE, GERASTO, capitan PANTALEONE.

NARTICOFORO. Ecco il vecchio mio inimico, capitan Dante; bisogna mostrar valore!

DANTE. Boto á Dios que soy la mayor gallina covarde que hay en el mundo. Pero yo dissimularé cuando pudiere.

PANTALEONE. Yo estoy aquí.

DANTE. Y yo también estoy aquí.

PANTALEONE. ¡Sus, á las armas!

DANTE. ¡Sus, á las manos!

PANTALEONE. Llegaos, fanfarron.

DANTE. Llegaos, picarazo.

PANTALEONE. Sino os llegais vos, llegareme yo.

DANTE. Yo os vendré a encontrar.

PANTALEONE. ¿Pero que hace esta mi espada tanto tiempo en la vaina?

DANTE. Yo quiero que provais una estocadilla de esta mi chabasca que sabe mejor hallar la via del corazon que la tienta del cirujano la herida.

PANTALEONE. ¡Ay, pecador de mí! la sangre me se hiela y el corazon me da más badajadas, que el reloj de Palacio.

DANTE. Yo tiemblo de temor. Esfuérzate, traidor, y haz de las tripas corazon.

PANTALEONE. Oh, serán más duras tus carnes y huesos que esta mi espada.

DANTE. ¡Oh cuanto tardo a matarte! pues tengo menester d'essos tus huesos para hacer un par de dados.

PANTALEONE. Y yo he menester de esse tu pellejo para hacer un zurron de traer naipes.

DANTE. Esta stocada no repararas, que passará una torre, aunque sea la de Babilonia, de una parte á otra.

PANTALEONE. A este revés no tendrás reparo, que juro portará una galera por través.

DANTE. Yo te arrebataré d'essos cabellos, y te arrojaré cinco jornadas más acullá de los montes Pirineos.

PANTALEONE. ¡Ah, villano montañero!

DANTE. ¡Ah, ladron ciudadano!

PANTALEONE. Oh, beso las manos de V. M., señor capitan don Juan
Hurtado de Mendoza, de Ribera, de Castilla.

DANTE. Beso a V. M. mil veces las manos y los pies, señor capitan don
Pedro Manriquez, Leyna, Guzman, Padilla y Cervellon.

PANTALEONE. ¿Pues como en estas partes y tanto tiempo que no le he visto?

DANTE. Vengo de las Indias del Perú, donde habiendo yo acabado de conquistarlas, dejado he en aquellas partes muy grandes palacios y rentas, y por remuneracion de mis servicios me ha dado el rey don Felipe un capitanazgo de infantaria en este reino, con ventaja de quinientos mil maravedis; y mientras los venia á gozar, los bandoleros me desbalijaron por el camino; y por está desgracia me hallo en la manera que me veis.

PANTALEONE. Y yo también me he hallado en la conquista del reino de Portugal, y por merced de mis grandes y señalados servicios susodichos, me tiene aquí entretenido con paga conveniente á mi persona.

DANTE. Pensaban estos viejonazos que por los hijos de puta de sus ojos bellidos nos habriamos aquí de agujiar y despedazar.

PANTALEONE. Si, por cierto, allanado estaba la cuenta.

GERASTO. Forastiero, questi bravi per non azzuffarsi e porsi a pericolo di ferirsi, si sono accordati insieme.

NARTICOFORO. Cosí mi pare, e videre videor trattato da un barbagianni.

GERASTO. Poco anzi diceva che si chiamava Pantaleone e or dice che si chiama don Pedro Caravaial.

NARTICOFORO. Oh, come arei a caro che la rabbia che avevamo contro noi, la disfogassimo contro loro!

GERASTO. Io son del medesimo parere.

NARTICOFORO. Io ho sotto il mio baculo magistrale.

GERASTO. Io ho un legno qui presso.

NARTICOFORO. Orsú, diamogli adosso!

GERASTO. Adosso!

DANTE. ¿Que haceis? teneos, viejos mohosos, picaros ¡á tras, á tras!

PANTALEONE. ¡Válame Dios, que estos vellacones no quieren irse de mi presencia, que juro que si pongo mano á la mi espada, os haré mil pedazos!

GERASTO. Ah, furfanti!

NARTICOFORO. Ah, poltronacci!

PANTALEONE. ¡Teneos, teneos!

GERASTO. Orsú, la rabbia l'abbiamo sfogata con costoro.

NARTICOFORO. Sí bene; ma io exoptava dilucidarmi del vostro fatto.

GERASTO. Ecco, sia lodato Iddio, chi ci torrá d'ogni dubbio.

NARTICOFORO. Ecco chi ne può dilucidar del tutto.

SCENA VIII.

PANURGO, GERASTO, NARTICOFORO.

PANURGO. (Che sieno maladetti quei corbi che non ti cavaro quelli occhi, ché non m'avessero veduto. Eccomi incappato nella rete che ho teso. Se fuggo gli pongo in maggior suspetto: o che contrasto che nascerá fra noi tre!).

GERASTO. Signor Narticoforo, oh come vi veggio volentieri!

NARTICOFORO. Signor Gerasto, oh come opportune advenis!

PANURGO. (Che farò, che dirò? o bugie correti a monti, a diluvi per liberarmi da questo incontro). Voi siate gli ben trovati!

GERASTO. Signor Narticoforo, di grazia, dite, chi sète voi?

NARTICOFORO. Signor Gerasto, di grazia, dite, chi sète voi?

PANURGO. Desidererei saper ben prima da voi: sapete chi sia io?

GERASTO. Io lo so bene.

NARTICOFORO. Ed io ancora mi penso saperlo quam optume.

PANURGO. Dunque, se lo sapete, perché me lo dimandate?

GERASTO. Lo dimando per sapere se sei me.

NARTICOFORO. Ed io ancora flagito, posco, peto, rogo saper se sei me.

PANURGO. Con una risposta sodisfarò ad ambiduo. Io essendo me, non posso essere né te né lui.

GERASTO. La differenza che avemo fra noi, è se siate me o lui.

NARTICOFORO. Sí bene, non desidero saper altro se non se sète lui o me.

PANURGO. Diavolo, fammi essere altro se non che io.

GERASTO. Questo sappiamo bene; noi disiamo sapere voi chi sète.

NARTICOFORO. E per questo vi dimandiamo: voi chi sète?

PANURGO. Io son io, né posso esser altro che io.

NARTICOFORO. (Questi m'ave ottuso e retuso il cervello e postomi in tanta ambage che omai non so discernere se io sia io o un altro). Se tu sei me, io non posso esser io; e se io non son io, sarò un altro; e quello chi è o chi fu? Se tu non vuoi dirci io chi sia né costui né tu stesso, dicci almeno, chi sei di noi duo.

GERASTO. Di grazia, fatene questo piacere, chi sei di noi duo?

PANURGO. V'ho detto dieci volte ch'io son io e voi sète voi, né io posso essere alcun di voi.

NARTICOFORO. Oh, non posso far rispondere costui ad petita! Volgeti a me, parlami sine perplexitate: sei Gerasto come hai detto a me, o Narticoforo come hai detto a costui?

PANURGO. Mira con che arroganza mi parla! hai tu qualche imperio sovra di me, che sia forzato a dirti io chi sia? Io son chi piace essere a me.

NARTICOFORO. Io non mi curo che tu sia chi piace essere a te, ma non vorrei che dicessi che sei me.

PANURGO. Che dunque vorresti, ch'io non fusse niuno?

NARTICOFORO. Anzi, che non foste ad un tratto tre.

PANURGO. Orsú, fatevi tre pezzi di me, e ognuno si pigli la parte sua.

SCENA IX.

PELAMATTI, FACIO, PANURGO, GERASTO, NARTICOFORO.

PELAMATTI. Tanto sará l'andar cercando questi per Napoli?

FACIO. «Come Maria per Ravenna». Ma tu chi miri?

PELAMATTI. Facio, colui che ragiona con quei vecchi, mi par colui che mi tolse le vesti.

FACIO. Mira bene che non facci errore.

PELAMATTI. Egli è certissimo. Non vedete che le tien sovra?

FACIO. Giá le conosco. Taci tu, lascia dire a me. Galante uomo, vi vorrei dir due parole.

PANURGO. (Oimè, costui deve essere il padron delle vesti! O terra, apriti e ingiottimi vivo!). Sto ragionando con questi gentiluomini di cose d'importanza.

FACIO. Adesso adesso vi spediremo.

PANURGO. (Che farò per scappar dalle mani di costoro?).

FACIO. Vorrei sapere se sète Facio, dottor di leggi.

PANURGO. Perché me ne dimandate?

FACIO. Ho buona relazion di voi, vorrei servirmi di voi per avocato….

PANURGO. (Bene, che non è quel pensava!).

FACIO….Voi dunque sète Facio?

PANURGO. Io son Facio, vi dico; ma, di grazia, parlate piú basso.

FACIO. Ch'io parli basso? parlerò tanto alto che m'oda tutto lo mondo. Menti che tu sii Facio, che Facio son io, e tu col farti me, mi togliesti le vesti mie.

PANURGO. Saran vostre, se me le pagherete; e voi pigliate errore.

FACIO. Error pigli tu, se pensi che voglia pagar il mio.

PANURGO. Fermatevi, non m'usate forza.

FACIO. È lecito usar forza a tòrre il suo dove si trova.

PANURGO. Voi forse pensate che sia una bestia?

FACIO. Bestie stimaresti tu noi, se ti lasciassimo la robba nostra.

PANURGO. Tanto fusse tua la vita! Ma ascoltate.

FACIO. Che vuoi che ascolti? Pelamatti, pela tu questo matto, toglili le vesti; e se non si lascia pelare, peliamolo a pugni.

PELAMATTI. Lascia, ladro assassino!

PANURGO. Voi mi spogliate in mezzo la strada e mi chiamate ladro assassino.

GERASTO. Mira con quanta prosonzione costoro lo trattano male!

NARTICOFORO. Devono esser genti senza vergogna o non lo devono conoscere o l'aran preso in cambio.

PANURGO. Ah, ah, ah! or m'accorgo che tutti e tre siamo ingannati. Ascoltate. I giorni a dietro da maestro Rampino mi feci far certe vesti da dottore; e aspettando questa mattina le vesti, vedo questo giovane che le portava sotto. Dimando:—Di chi sono?—mi risponde:—Di Facio.—Io che mi chiamo Famazio, pensai subito che avesse smenticato il nome, che sono simili Fazio e Famazio; e me le presi per mie. Ma or che m'avveggio, avea fatto un bel guadagno! che dove il mio panno è finissimo e val dieci scudi la canna, questo appena val cinque Ma per mostrar che son gentiluomo, andrò a maestro Rampino e gli dirò che vi dia le mie vesti per tutto oggi—ch'or mi rincresce spogliarmi,—e fra tanto vi darò trenta scudi in pegno, dove queste non vagliono quindici.

FACIO. (Pelamatti, tu hai fatto contro il tuo nome: ti pensavi pelar un matto e pelavi un savio). Datemi gli trenta scudi in pegno per tutto oggi, e mi contento; delle vostre vesti io non me ne curo altrimenti.

PANURGO. Conoscete voi quel medico?

FACIO. Conosco benissimo.

PANURGO. Vi contentate ch'egli ve gli dii per me?

FACIO. Contento. Ma perdonateci, di grazia, se non sapendo questo, fusse trascorso piú del dovere.

PANURGO. Gerasto, vedete quel galante uomo?

GERASTO. Vedo.

PANURGO. È scemo di cervello. Venendo da Roma, lo trovai nell'osteria; e ragionando come si suole, dicendogli che veniva in casa di un medico famoso, mi pregò che l'introducesse a voi che lo guarissi d'una infirmitá che patisce, non so se umor maninconico o discenso lunatico. Parla sempre di vesti, di trenta scudi, di pegni e simil cose, e le replica mille volte; ma le dice con tanto proposito che lo giudicaresti un filosofo. E alcune volte il giorno gli piglia questa pazzia—quando, credo, si muove quello umore,—onde ti viene adosso e ti vuol spogliar le tue vesti con dir che sieno sue, che è una cosa mirabile.

GERASTO. Certo che veggendolo strapparvi le vesti da dosso con tanta furia, lo giudicai pazzo maniaco; e giá mi par pentito del suo errore, che vi ha chiesto perdono: deve patir di lucidi intervalli.

PANURGO. E vi promette trenta scudi per mancia.

GERASTO. Lo guarirò per amor vostro, non vo' premio altrimente.

PANURGO. Ma avertite che non intende molto bene: bisogna alzar la voce ragionando con lui.

GERASTO. Farò come volete. Ma bisogna aver alcuni con me, che bisognando lo ligassero. Trattenetelo un poco, ch'or ora serò qui.

PANURGO. Gentiluomo, Gerasto è andato a tor i trenta scudi, che non se gli trovava adosso; or será qui.

FACIO. Aspetterò quanto volete, non ho fretta.

PANURGO. Ma eccolo. Gerasto, sète contento voi per i trenta scudi?

GERASTO. Contento, anzi vi servirò adesso adesso, che anderemo in casa: voi restate meco.

FACIO. Volentieri.

PANURGO. Orsú, io vi lascio insieme, ch'io vo per una cosa importantissima e serò a voi tra poco. (Signor Facio, ragionando con lui, parlate alto, che non intende troppo bene).

FACIO. (Cosí farò).

NARTICOFORO. (Egli si parte senza sapersi ancora se sia Gerasto o
Narticoforo).

SCENA X.

FACIO, GERASTO, NARTICOFORO.

GERASTO. Idio vi facci sano!

FACIO. E voi sano e contento!

GERASTO. Accostatevi, galante uomo.

FACIO. Voi giá vi contentate per i trenta scudi?

GERASTO. Mi contento non tanto per i trenta scudi, quanto per farvi vedere un miracolo di una mia ricetta, che un todesco, a cui avea fatte molte carezze in casa mia, morendo, me ne lasciò erede: con duo soli lattovari, non piú.

FACIO. Che lattovari, che tedeschi, che ricette?

GERASTO. Dico che vi servirò tra pochi giorni.

FACIO. Dico che li voglio adesso.

GERASTO. Che cosa?

FACIO. I trenta scudi in pegno delle mie vesti che colui, partendosi da voi, mi vi lasciò in pegno.

NARTICOFORO. (O poveretto, giá comincia a ferneticare!).

GERASTO. Che scudi, che pegni, che vesti?

FACIO. Dico i trenta scudi che mi avete promessi per le vesti.

GERASTO. (Il male è di piú cura ch'io non pensava. Mira come parla alto! ne deve stimar sordi).

NARTICOFORO. (Deve essere proprietá dell'egritudine).

GERASTO. (Non so che dice di trenta scudi e di vesti e di promesse.
Non credo che un sacco intiero d'elleboro basterá per purgarlo).

FACIO. (Costui da vero è sordo: parlerò tanto alto che m'intenda). Dico che mi date i trenta scudi per che colui che si partí da voi—Famasio o Famosio che si chiama,—mi ve lasciò in pegno per le mie vesti. Intendetemi adesso o volete che parli piú alto?

GERASTO. Io non dico che non intendo la voce, ma non intendo quel che dici.

FACIO. Che parlo ebreo, greco o arabico, che non m'intendi?

GERASTO. Parli come me, ma non intendo che dici di trenta scudi e di vesti.

FACIO. Tu sei peggio che sordo, che il peggior sordo è quello che non vuole intendere. Tu sarai forse pentito di aver fatto sicurtá di trenta scudi, e fingi non intendere.

GERASTO. Che sicurtá? che pentire? che trenta scudi?

FACIO. Come trenta scudi? Dico che avendomi promesso…

GERASTO. Parole.

FACIO….trenta scudi…

GERASTO. Se non l'hai meglio di questa,…

FACIO….in iscambio delle mie vesti,…

GERASTO….tu sei matto da dovero.

FACIO….avendomegli promessi dinanzi duo testimoni,…

GERASTO. Tu erri in grosso.

FACIO….serò atto a farmeli pagare.

GERASTO. Arai a far con un tristo come tu sei.

FACIO. Non mi prometteva io ciò da questa tua vecchiaia.

NARTICOFORO. (Voi sapete che è capto di mente, e par che andate in contumelie).

FACIO. Son uomo di tòrvi le vesti da dosso.

GERASTO. Ecco il furore! o voi, toglietelo stretto e ligatelo che non si muova, ché gli vo' dar un lattovaro in casa.

FACIO. Che volete da me voi, furfanti? A dispetto di…

GERASTO. Riponetelo dentro, ché vo' curarlo.

FACIO….ché pensava aver a trattar con un cattivo, or ne ho ritrovato un altro peggio!

GERASTO. Se non parli come devi, ti torrò io la pazzia da capo, chè a medicare un pazzo ci vuole un pazzo e mezzo.

FACIO. Cosí mi fai tu ingiuria?

GERASTO. L'ingiuria la fai tu a me.

NARTICOFORO. (Costui mi par che parla a proposito).

GERASTO. (Non ti disse colui, che sapea la sua natura, che parlava tanto a proposito che ogniuno lo giudicava savio?).

NARTICOFORO. (Chi sa forse ora fusse tornato in sé?). Dimmi, uomo frugi, conosci che sei sano?

FACIO. Voi duo vi sète accordati insieme, e non sète pazzi ma ribaldi.

NARTICOFORO. Sodes, quaeso, di grazia, fatelo dislegare, lasciatelo libero; ché, l'animo mio se va ariolando la cosa e l'uno non intende l'altro, forse saran veri i fantasmi che mi van per la mente, e quel scurrile sicofanta ci ará ingannato con le sue sicofantie. Or ditemi voi, di grazia, che vi ha dato ad intendere colui che si è partito?

FACIO. Questa mattina venendo Pelamatti, servo di maestro Rampino sarto, a portarmi certe vesti nuove—che volea cavalcar per Salerno,—costui gli diede ad intendere che eran sue e che egli era Facio, ch'era io, e si tolse le vesti mie. Poi, cercando a ventura per Napoli, gliele avemo trovate adosso; e volendo torcele, mi pregò che le lassassi per tutto oggi, che mi arebbe dato costui per securtá di trenta scudi; e avendomegli lui promessi, l'ho lasciato andare.

NARTICOFORO. Or parlate voi, di grazia.

GERASTO. Ed a me ha detto che eravate pazzo e che sempre avevate in bocca trenta scudi, vesti e pegni; e mi pregò da parte vostra che vi avesse guarito, che mi volevate dar trenta scudi per premio; e che eravate sordo, però avessi parlato un poco piú alto.

FACIO. Un'altra volta arò perse le vesti mie! Dove lo cercarò? In un punto ha raddoppiati tre: non gli deve bastar lui solo, vuol servir per tre persone.

GERASTO. Ah, ah, ah!

NARTICOFORO. Ah, ah, ah!

FACIO. Voi forse ridete di me?

NARTICOFORO. Anzi, noi ci ridemo di noi stessi. A costui ha dato ad intendere ch'era me, a me ch'era costui: e cosí ha sicofantati tre.

GERASTO. Di piú, ha portato un mostro in casa con dir ch'era Cintio suo figliuolo: io ho tenuto voi per pazzo, non conoscendovi; poi, m'ave inviato un giovane, che questi diceva mal di me: ed è stato cagion, penso, d'azzuffarci insieme.

FACIO. Che si fará dunque delle mie vesti?

GERASTO. Io arò pensiero di ricovrarle da lui, inviarvele in vostra casa; che se ben egli ingannandovi ve l'ha promesse da mia parte, or che stimo lui un tristo, ve le prometto da senno, che vo' un poco informarmi del tutto.

FACIO. Dunque io vi cerco perdono se sono troppo con voi trascorso in parole.

GERASTO. Dove è Cintio vostro figliuolo?

NARTICOFORO. L'ho lasciato nel diversorio. Io nol condussi meco, perché il mio servo mi referí che voi l'avevate extruso di casa, con dirgli che Narticoforo era prima giunto.

GERASTO. Inviate a chiamarlo. Questa è vostra casa, che in vostro nome colui se n'era fatto possessore.

NARTICOFORO. Ed io per tal la reputo. Vale.

FACIO. Oh, povere vesti perse due volte!

GERASTO. Non dubitate, venite di qua e l'arete. Ma chi piglia i fastidi per fastidi, entra in un mar di fastidi; però non vorrei io tanto ingolfarmi in questi fastidi, che lasciassi passar l'occasione che ho desiderata mille anni. Fioretta m'ha promesso aspettarmi in questa camera, e giá due ore sono: deve star a disagio. O me felice, or corrò il frutto tanto desiderato! Ma qui non è niuno. Ella è vergine e si deve vergognare venir da lei; e se ben muore per me, la vergogna la fa restia. In somma, se non ci la conduco per forza, non verrá da lei giamai. Io ho questi amici, la farò tor per forza e menar qui dentro; ma mi meraviglio che lo speciale non v'ha condotti quei lattovari che l'ho fatti far per trovarmi gagliardo con Fioretta. Ma eccola dinanzi la porta: o voi, prendetela e di peso menatela in questa camera terrena.

SCENA XI.

ESSANDRO, GERASTO.

ESSANDRO. (Oimè, ecco Gerasto e mena genti seco! Certo gli è palese il mio fallo: prima che m'uccida, será meglio gli chieda perdono!).

GERASTO. Toglietela! che fate?

ESSANDRO. Che volete da me infelice? chi sète voi?

GERASTO. Infelice son io che muoio di rabbia per amor tuo.

ESSANDRO. In che t'ho offeso?

GERASTO. Non meritava la conscienza che ho in te, che mi avessi cosí ingannato.

ESSANDRO. Diasi colpa ad amore la cui legge è fuor d'ogni legge: conosco l'errore e, il confesso, merito la penitenza, ne chiedo perdono.

GERASTO. Cosí farò io a te: dopo l'errore ne chiederò perdono.

ESSANDRO. Questi sono errori di giovani.

GERASTO. Ti farò conoscere che sono piú giovane che tu non pensi.

ESSANDRO. Amor fu colpa del tutto.

GERASTO. Non è amore ove si toglie l'onore.

ESSANDRO. Quel che è fatto non può farsi che non sia fatto.

GERASTO. Accomodaremo questo fatto poi con un altro fatto.

ESSANDRO. Merito per ciò, dunque, d'esser ucciso?

GERASTO. Ucciso, no; ferito di punta, ben sí, se il pugnale non mi vien meno, almeno finché ne serò satollo.

ESSANDRO. Sète voi tanto crudele?

GERASTO. A te è una pietá l'esser crudele.

ESSANDRO. Sei tu tanto ingordo del mio sangue?

GERASTO. Non è sangue che si sparga con maggior dolcezza di questo.

ESSANDRO. Abbi pietá della mia gioventú!

GERASTO. Tu della mia vecchiezza!

ESSANDRO. Avertite che sono nobile.

GERASTO. Se fussi di schiatta d'imperadori, non lascierei di far quello che m'ho proposto di fare.

ESSANDRO. (Proverò fargli bravate, poiché col buono non posso ottener nulla). Gerasto, avèrti che la disperazione fa assai: tu non la passerai né mi offenderai senza vendetta.

GERASTO. A tuo dispetto, andrai di sotto, se ben fussi una Ancroia, una Marfisa bizarra.

ESSANDRO. Son giovane, ho piú forza che non stimi: ancorché mi ponessi sotto, ho le braccia cosí robuste e la presa tanto gagliarda che ti romperò le reni e ti farò sputar l'anima.

GERASTO. Non potrai altro che farmi ingrossare il fiato e buttar fuori il sangue e l'anima.

ESSANDRO. Poiché sei cosí bravo, perché non vieni meco da solo a solo? perché con queste genti?

GERASTO. Di questo ti assicuro, che il nostro duello sará da solo a solo. Non ho tolti questi per paura di te, ma per condurti qui dentro con manco rumore. Ma a solo a solo, all'oscuro e dentro un forno combatterò con te.

ESSANDRO. Con che armi combatteremo?

GERASTO. Con l'ordinarie: tu con le tue, io con le mie.

ESSANDRO. Lasciameti dir due parole.

GERASTO. Il meglio che potresti fare è tacere; e se pur sono svergognato in casa, non mi svergognar qui nella strada publica. Portatela dentro.

ESSANDRO. Oimè!

GERASTO. Oh, come piange! non deve aver urinato questa mattina, ché le donne quando vogliono lacrime in abondanza per ingannare alcuno, la mattina non urinano. È vergine, la poveretta, e pensa che quel fatto sia qualche gran cosa, almeno d'andarne un mese zoppa; ma dopo ne será piú contenta che mai. Le vergini, se le richiedi, arrossiscono, e stimano la vergogna nelle parole, no ne' fatti. Ma perché trattengo me stesso? O mia Fioretta, o mio giardino vergine, ecco che vengo a còrre cosí bel fiore.

ATTO V.

SCENA I.

APOLLIONE solo.

APOLLIONE. Veramente la nostra vita è tutta piena di travagli, né si può prometter l'uomo che faticando sempre nella gioventú, possi nella vecchiezza riposare; ché quando stimi giá esser accomodato del tutto, allora da ogni parte vengono pericoli inopinati per turbarci il viver quieto. Avea un fratello chiamato Carisio Fregoso, il quale sbandito da Genova sua patria per cose di Stato, son quindici anni che non ne ho inteso novella; e mi lasciò in casa un maschio detto Essandro. Vengo in Roma, e per non esser costui un giorno andato alla scuola, promisi di batterlo: fuggì di casa mia tre anni sono, né ne ho potuto piú saper novella; solo ho inteso che era qui in Napoli e che stava in casa di un medico detto Gerasto, vestito da fantesca. Io non posso imaginarmi altro, perché vi stii, se non per qualche trama amorosa, onde potrá facilmente capitar male. Io per veder se posso rimediare prima che si venghi a questo atto, non ho voluto risparmiar fatica in soccorrerlo. Me ne andrò informando di lui e di sua casa.

SCENA II.

SPEZIALE, SANTINA, NEPITA.

SPEZIALE. (Chi arebbe pensato mai che Gerasto, stimato fin qui vecchio da bene, or sia entrato in ghiribizzi d'amore? È venuto in bottega con la maggior fretta del mondo, ché avesse fatte certe pilole, di che io ne ho una ricetta mirabile, e ché gli le porti subito in casa, che m'arebbe dato la mancia).

SANTINA. (Io non ho visto tutto oggi mio marito, e Fioretta non è in casa: dubito di qualche trama). Nepita, vien fuori, fammi compagnia.

NEPITA. Vengo, eccomi.

SPEZIALE. Madonna, sète voi di questa casa?

SANTINA. Sì bene.

SPEZIALE. Date queste pilole a Gerasto, e ditegli che non l'ho potuto recar piú presto.

SANTINA. Che pilole son queste? per qual infirmitá?

SPEZIALE. Certe pilole che m'ha chieste per esser gagliardo in una battaglia amorosa che vuol far con una sua serva.

SANTINA. Chi ha detto a te questo?

SPEZIALE. Me l'ha detto lui, mentre stava mescolando la composizione.

SANTINA. Come si chiama questa sua serva?

SPEZIALE. Garofoletta o Rosetta, se mal non mi ricordo.

SANTINA. «Fioretta» vuoi tu dire?

SPEZIALE. Sì, sì. Ditegli che il modo d'oprarle è questo: che s'ingiotta queste, poi mangi una libra di pignoli e beva vernaccia fina, non altro, che fará facende.

SANTINA. Come potrá ingannar sua moglie?

SPEZIALE. Mi disse che erano venuti certi forastieri ad alloggiar seco, e che la casa era sozzopra e la moglie non poteva attenderci; e che presso la sua casa aveva una camera terrena oscura dove avea ella promesso venirci.

SANTINA. Non deve egli amar molto la moglie, poiché tanto l'ingiuria.

SPEZIALE. Mi dice che sua moglie è una macra, brutta come una strega e vecchia; e che la vorrebbe veder tanto sotterra quanto ora sta sovra terra, e che non vede mai giunger l'ora che la morte gli la toglia dinanzi, tanto è ritrosa, superba e fastidiosa e rincrescevole. Ma io l'ho insegnata un'altra ricetta per farla divenir umile e benevole e di buona creanza.

SANTINA. E come è questa ricetta?

SPEZIALE. Che la mattina quando è nuda nel letto, le dii a bere un poco d'acqua di legno, poi le freghi la schena con un poco di grasso di frassino o di quercia; e se alla prima volta non facessi l'effetto, che continui la ricetta finché guarisca bene.

SANTINA. Nepita, io non confido d'andar a piedi fin alla commare, e mi duole la gamba: va' a tormi il mio bastone.

NEPITA. Vado.

SANTINA. Chi t'ha imparato cosí bella ricetta? n'hai ancor fatta la pruova?

SPEZIALE. La prima volta la provai a mia moglie, ed è riuscita miracolosa; poi l'ho insegnata a molti miei amici, e tutti m'han riferito che fa effetto grande.

NEPITA. Eccolo, padrona.

SPEZIALE. Che diavolo hai meco, vecchiaccia fradicia? che t'ho fatto io che mi batti?

SANTINA. Vo' che tu facci esperienza con questa tua ricetta: arai meglio creanza.

SPEZIALE. Ritorni di nuovo? che hai meco, ti dico? non accostarti, vecchia indiavolata!

SANTINA. Perché non fece effetto la prima volta, la vo' continuare finché guarisci, ché abbi meglio creanza: non vo' che dii questi consigli contro me.

SPEZIALE. Che consigli io ho dato contro te? dove ti conobbi mai? ho detto di sua moglie, non di te.

SANTINA. Io son sua moglie.

SPEZIALE. Che sapevo io che tu eri sua moglie? certo, che è assai piú di quello che lui n'ha raccontato. Un'altra volta oggi in questa maladetta casa ho patito disgrazie e ne son stato maltrattato!

SCENA III.

SANTINA, NEPITA.

SANTINA. Che dici, Nepita? non l'hai inteso con le tue orecchie? comporterò io d'esser cosí mal maritata? Non la passerá certo senza vendetta: io vo' aventarmegli adosso come una cagna.

NEPITA. Or questo no, padrona: fategli ogni altro dispiacere e lasciate questo.

SANTINA. Vo' cavargli gli occhi e troncargli il naso con i denti.

NEPITA. Cavargli gli occhi e troncargli il naso ben potete, ma non por mano ad altro.

SANTINA. Non ti par buona vendetta?

NEPITA. A me, padrona, no. Io gli renderei pan per focaccia.

SANTINA. Taci, ché sei una pazza. Vorrei piú tosto esser stracciata da mille lupi, che esser tócca da un sol uomo che non fusse mio marito.

NEPITA. Io vorrei piú tosto esser straccata da mille uomini, che esser tócca da un sol dente di lupo.

SANTINA. S'egli ha rotto le leggi del matrimonio, non l'ho rotte io né le romperò finché viva. Egli lo meritarebbe certo; ma io vo' mirar me non lui. Una donna deve far conto del suo onore.

NEPITA. L'onor non è bianco né rosso, che si possa vedere: l'onore sta nell'opinion degli uomini, però bisogna farlo secreto. È meglio esser tenuta bona e non esserci, ch'esser contaminata senza effetto.

SANTINA. Tu desii la morte a me. Vo' che paghi questo cattivo desiderio con l'ossa tue. Ecco la casa terrena. Sta serrata a pèstio, la spezzerò a calci: l'ira mi prestará forza.

NEPITA. Per iscampar da questo cattivo influsso, tuo marito deveria far come quello animale che si strappa i suoi genitali e gli butta a' cacciatori per salvar la sua persona, ché è ricercato sol per quelli. Ma io ti dico, padrona, ch'egli andrá per la decima e ci lascierá lo sacco.

SANTINA. Che vuoi dir per questo?

NEPITA. Io ben m'intendo.

SANTINA. La porta s'apre: eccolo venir fuora tutto rosso, la serra dentro di piú. Mira come sta stracco e affaticato.

NEPITA. Ascoltiamo di grazia, padrona, che dice. Giá non vi può scappare, che non facciate le vostre vendette.

SCENA IV.

GERASTO. SANTINA, NEPITA.

GERASTO. Misero e infelice Gerasto, che meglio ti fossi posto ad arare che ad amare, che misera fortuna è questa che hai tu oggi incontrata?

NEPITA. (Dice che s'allegra della buona fortuna che ave incontrata oggi).

GERASTO. Veramente tutte le sciagure corrono dietro la vecchiezza, come le mosche a' cani magri. Ed il mio dispetto è l'allegrezza e la festa che ne fará mia moglie del fatto mio.

NEPITA. (Dice che è in festa e allegrezza a dispetto di sua moglie).

GERASTO. Non tanta furia, ascoltate bene!

SANTINA. Non posso piú tenermi! Ahi, vecchio rimbambito brutto, disgraziato fantasma, non so chi mi tiene che non ti cavi gli occhi dalla testa con queste dita, e con i denti non ti tronchi il naso dalla faccia!

NEPITA. (E tu savia, che mutasti opinione a non strappargli i fatti suoi!).

GERASTO. (Or questa sì, che è magior disgrazia della prima! Dovunque mi volgo, mi trovo aviluppato in nuovi guai).

SANTINA. Che dici adesso, bel fanciullino, innamorato galante, valente gallo che vuoi calcar due galline, e hai un piede nella fossa e un altro nel cataletto, vecchio col capo tutto bianco?

GERASTO. O capo rosso o verde che sia, moglie, ti prego che m'ascolti, e vedrai che non t'ho offeso come stimi.

SANTINA. Tu, vecchio fradicio….

GERASTO. So che vuoi dire: traditore, infame, manigoldo, e pur ancora. Hai ragione! Ascolta, che d'oggi innanzi cessaranno le discordie fra noi mentre vivremo. Ascolta, moglie mia cara….

SANTINA. Che mia? or son tua moglie cara; poco innanzi era strega, macra, puzzolente: tu non arai a far piú meco.

GERASTO. Io non dico questo, che tu abbi a distorti dal tuo proponimento; ma ascolta, e poi inteso il tutto, fammi castrare, ch'io starò piú paziente d'un agnello; e se non basti tu sola, chiama i parenti, gli amici, i vicini e Nepita ancora, ch'io perdono a tutti.

NEPITA. Padrona, di grazia, ascoltate, ché certo sará altro di quel che pensate.

SANTINA. Ragiona presto, finiamola: ti vo' dar questa sodisfazione prima che facci la festa di fatti tuoi.

GERASTO. Sappi per certo, moglie mia cara, ch'io son stato innamorato di Fioretta, e per dirtelo chiaro, arei pagato la robba, i figli e la vita, per godermi una volta lei,…

SANTINA. Lo so meglio di te, non bisognaria che lo dicessi a me.

GERASTO…. e v'ho fatto mille tradimenti per averle le mani adosso….

SANTINA. Ma poco ti ha valuto.

GERASTO…. Oggi vedendo l'occasione che la casa andava sozzopra, la feci prender da certi amici e la feci condurre in questa camera terrena oscura, e io mi serrai con lei. Ella stava dubbiosa e timida, come la volessi uccidere; e io con le piú dolci parole che sapeva, dicea:—Dolce Fioretta mia, cara mia moglieretta, core, vita, occhi!…

SANTINA. Mira il furfante con quanto sapor lo dice!

GERASTO…. L'abbraccio e mi sento pungere il mustaccio, come fusse uomo. Alfin le stava inginocchiato denanzi; ella tira a sé i piedi e mi da una coppia di calci sul petto e mi fa cascar supino in terra, che mancò poco non mi scavezzassi il collo….

SANTINA. Sia maladetto quel «poco»!

GERASTO…. Pur facendo animo a me stesso, innamorato e pesto, come meglio posso, dicendo che calci di stallone non fanno male a giumenta, con maggior rabbia e ardore torno alla battaglia….

SANTINA. Mira come me lo dice onestamente! Taci, taci, vecchiaccio senza vergogna! parti cosa onorevole ragionar di queste sporchezze?

GERASTO…. Ascolta, di grazia….

SANTINA. Non vo' ascoltare, so che vuoi dire.

GERASTO…. Anzi men sai che voglio dire, né imaginartelo puoi giamai….

SANTINA. Forse il giardinetto cominciava a spuntar fuori l'erbe piccine?

GERASTO…. Che erbe piccine? anzi, mi diè tra mano…, mi vergogno dirtelo.

SANTINA. Ti dovevi vergognar di farlo.

GERASTO…. Dico ch'era piú maschio ch'io, tanto maschio che n'aresti fatto tre maschi.

NEPITA. Se fussi gravida, mi sgravidarei: l'ha narrato con tanto sapore che m'ha fatto venir la saliva in bocca.

SANTINA. Oimè, che dici?

GERASTO. Quanto ascolti.

NEPITA. Alfin, tu serai stata la ruffiana a tua figlia, che la tenevi in gelosia sempre serrata con lei.

SANTINA. Ahi, che mirandola oggi in fronte gli leggeva il commesso peccato! Ma chi avesse potuto pensar questo? Infelice me, disgraziata me!

GERASTO. Taci e fa' rumor manco che puoi, acciò le corne che avemo nascoste in seno, non ce le ponghiamo in fronte, e altri imparino a nostre spese. Egli m'ha detto che è gentiluomo genovese di Fregosi, e si contenta star prigione finché si pigli informazione di lui; e se è vero, se gli dii per moglie, perché ella, non men che lui, lo desidera ardentemente.

NEPITA. Credetelo, che è cosí; perché dicea mia madre che queste radici han gran virtú di farsi amar dalle donne.

GERASTO. Taci, vattene a casa. Io l'ho serrato qui dentro; or andrò a certi gentiluomini genovesi miei amici e mi informerò di lui con molta destrezza.

SCENA V.

SANTINA, NEPITA.

SANTINA. O figlia, figlia, che infelice fortuna è questa che tu hai incontrata!

NEPITA. Sventura ti pare ritrovarsi con un giovane bello, di diciotto anni, nel fior degli anni suoi? oh, l'aveste incontrata voi, padrona, questa sventura!

SANTINA. Taci, porca, pensi che tutte le donne sieno cattive come sei tu? Frena la tua lingua cattiva.

NEPITA. Cattiva lingua vi pare quella che dice il vero? Vedete vostra figlia che ha manco anni di voi ed è stata piú savia di voi, che se l'ha tenuto tre anni in camera e non ha fatto saper cosa alcuna né a te né a me. A fé, che le fanciulle d'oggi san piú dell'attempate del tempo antico.

SANTINA. Tu non solo sei di cattiva lingua ma di peggiori operazioni; e se non lasci le baie, ti romperò la testa.

NEPITA. O che l'avesse incontrata io questa sventura, che non l'arei fatto saper né a voi né a vostra figlia, e me l'arei saputo goder questo tempo.

SANTINA. E chi può guardarsi da simil sciagura? entrar un giovane prosontuoso, vestito a donna, in una casa onorata per disonorarla?

NEPITA. Sarebbe assai bene farsi un officiale che, quando se avessero a tor le fantesche, le ponessi le mani sotto per veder se son uomini o femine. A che giova tener le donne serrate in camera con porta e fenestre e chiavistelli, se i giovani se trastullano con loro sotto altro abito?

SANTINA. Apri la porta: entriamo.

SCENA VI.

GERASTO, PANURGO, TOFANO.

GERASTO. Non posso cavarti di bocca una parola vera di questo fatto?

PANURGO. Certo, Gerasto, che voi non pigliate la cosa per il suo verso.

GERASTO. Che vuol dir che non piglio la cosa a verso? Tu non rispondi a proposito.

PANURGO. Che volete che vi risponda se non quello che sempre vi ho detto?

GERASTO. Che m'hai tu detto mai se non certe parole che l'una non attacca con l'altra?

PANURGO. Certo non è la cosa come pensate, vi dico.

GERASTO. O che tu mi fai rodere di rabbia!—La cosa non è come pensate…, non la pigliate a verso!—Io non posso cavar costrutto di quel che dici.

TOFANO. (Se ben miro quell'uomo che parla con quel vecchio, è quello amico a cui Alessio mio padrone manda le vesti).

GERASTO. Che rispondi?

PANURGO. Dico che quando questa mattina….

GERASTO. Non ti domando di questo, io.

TOFANO. Gentiluomo, Alessio mio padrone vi manda le vesti che questa mattina gli chiedeste con tanta istanza;…

PANURGO. (Oh, cancaro! questo è il servo di Alessio che porta le vesti). Sí, sí bene, t'ho inteso: tornale indietro e diteli ch'io lo ringrazio.

TOFANO…. che lo perdoniate se non l'ha potuto mandare piú presto;…

PANURGO. Basta, vatti con Dio.

TOFANO…. che vi volevate vestir da dottore,…

PANURGO. Vattene, che non servono piú.

GERASTO. Lascialo parlare, che te importa?

TOFANO…. che volevate ingannar un certo medico.

PANURGO. (Che ti sia cavata di bocca quella lingua traditora!).

GERASTO. Che medico? che dice di medico?

PANURGO. Non dice nulla.

GERASTO. Parla. Che dicevi di medico?

TOFANO. Dico che….

GERASTO. Che cosa «dico che»?

TOFANO. Voi mi toccate il gomito; che volete da me?

PANURGO. Chi ti tocca, asinaccio?

TOFANO. Adesso mi tocchi il piede. Omai m'avete storpiato.

PANURGO. Non si vuol partir questa bestiaccia!

TOFANO. Dove volete che vada?

PANURGO. Va' in buona ora!

GERASTO. T'ho visto con gli occhi miei che lo tocchi e cenni, e mi hai fatto entrar in maggior suspetto. Vien qui, uomo da bene: chi invia queste vesti?

TOFANO. Io, quando questa mattina…, subito che….

GERASTO. Che quando, che mattina, che subito? Vai pensando qualche trappola!

PANURGO. Io dico…

TOFANO. Lascia dire a me.

GERASTO. Taci tu; di' tu: lo vo' intendere da lui non da te.

PANURGO. Vi dará ad intendere qualche bugia.

GERASTO. Non hai ad impacciartene tu. Parla, giovane.

TOFANO…. che volevan vestire un truffatore per dar ad intendere ad un medico;…

PANURGO. Io ah?

TOFANO. Tu, sí.

PANURGO. Tu devi stare imbriaco, tu sogni: non partirai che non ti rompa la testa, prima. Mira che viso, come sa ben fingere una bugia!

GERASTO. O non posso levarmi costui da torno! Vedo che cominci a tremare. Levati di qua; vien tu qui, segui il tuo ragionamento: la vo' intender da capo.

PANURGO. (O veritá, che quanto piú l'umana forza cerca avilupparti e sommergerti sotto terra, tanto tu piú lucida e piú netta risorgi a suo dispetto! Il fatto è spacciato per me, non ci è piú rimedio).

TOFANO…. perché volevano disturbare certo matrimonio, e tutto ciò per far serviggio ad un giovane, vestito da fantesca, che faceva l'amore con la figlia di quel medico. Onde pregò caldamente il mio padrone, che si è affaticato tutto oggi per trovarle: l'abbiamo servito, e or ce le reco.

PANURGO. M'hai servito da vero e meriti la mancia!

TOFANO. Mi volete dar la mancia che m'avete promesso, se vi avessi…?

PANURGO. Meritaresti un capestro che t'appiccasse, come non ti mancherá!

TOFANO. Vi ringrazio della mancia e della buona volontá.

PANURGO. La volontá è conforme al tuo merito.

TOFANO. Vi lascio.

PANURGO. Vattene col diavolo!

SCENA VII.

GERASTO, NARTICOFORO, PANURGO.

GERASTO. Ben, bene, queste cose se danno ad intendere a pari miei? Arpione, Tenente, Graffagnino, pigliate questo, legatelo, bastoneggiatelo ad usanza d'asino.

NARTICOFORO. Vi veggio, Gerasto, in gran travagli con costui.

GERASTO. Sappi, Narticoforo caro, che son stato tutto oggi aggirato per cagion di costui, il quale è stato fonte, origine e principio d'ogni garbuglio e d'ogni male.

NARTICOFORO. Ben, come si sta galante uomo?

PANURGO. Si sta in piedi.

NARTICOFORO. Sei o non sei tu? sei uno o sei alcuno?

PANURGO. Io non son io né mi curo esser io, né vorrei che alcuno fusse me.

GERASTO. Mira che faccia di avorio! mira che volto!

PANURGO. Mi par che con questo volto possa star dinanzi ad ogni grande uomo.

GERASTO. Or che diresti o faresti, se non avessi detto e fatto quel che hai fatto e detto? Io ti darò in mano della corte e del boia che ti facci dar di capo in un capestro, non senza le debite cerimonie prima, della mitra, dell'asino, della scopa, di fischi e riso di tutto il populo.

PANURGO. Sono in vostro potere, fate di me quel che vi piace; e se questo vi par poco, giungetevi altrotanto, ch'io soffrirò ogni supplicio. Ma di grazia, ditemi, di che vi dolete di me?

GERASTO. Come! di che mi doglio di te? Barro assassino, senza vergogna e senza coscienza, ti par poco portarmi un furfantello storpiato con la lingua di fuori, e farmi scacciar di casa un uomo onorato, per favorir un prosontuoso sfacciato che vestito da fantesca tendeva insidie all'onor della mia casa?

PANURGO. Confesso esser vero quanto dite; ma quello che è fatto, non è stato comandato dal mio padrone? conviene al servo far ciò che gli comanda il suo padrone.

GERASTO. Conviene ad un uomo da bene non dispiacere ad alcuno per far piacere ad un altro.

PANURGO. Lece al servo far ciò che vuole il padrone.

GERASTO. Questo servo ne pagherá la penitenza.

PANURGO. Purché il padrone sia ben servito, soffrirò ogni cosa con pazienza.

GERASTO. Serai appiccato come meriti.

PANURGO. Viverò almeno eterno.

GERASTO. Purché il boia ti scavezzi il collo, io non mi curo che vivi eterno.

PANURGO. Di questa morte molto me ne glorio e vanto.

GERASTO. Te ne vanterai nell'inferno fra gli dannati tuoi pari.

PANURGO. Seguane quel che si voglia, vo' piú tosto che tu ti penti d'averme usato impietá, ch'io di non aver fatto il mio debito.

GERASTO. I padroni, se ben patiscono spese, carceri, esili, disaggi, sempre la scappano alfine; i servi pagano sempre.

PANURGO. Quanto piú viverò libero e con men travagli, tanto io morrò piú sodisfatto.

GERASTO. Perché non facevi un buon officio, avisarmi dell'inganno?

PANURGO. Usando buon ufficio a te, l'usava male a lui. Che ragion voleva che avessi lasciato di servire il padrone che l'amo, per servir te che non so chi sii?

GERASTO. Mi risponde da filosofo: or non ti par egli un Socrate?

NARTICOFORO. (Certo che non è uomo dozzinale. La forza della virtú è cosí grande che passa anche ne' nemici). Se ben io son stato lacessito d'ingiurie da te, il tutto ti condono.

SCENA VIII.

APOLLIONE, GERASTO, NARTICOFORO, PANURGO.

APOLLIONE. (Mi dicono tutti che abita qui d'intorno. Forse costoro me ne sapranno dar novella). Gentiluomini, mi sapreste dar voi nuova di Gerasto di Guardati?

GERASTO. Niuno ve ne può dar piú certa nuova di me, perché io son detto. Ma che volete da me?

APOLLIONE. Saper solo se in casa vostra fusse una fantesca chiamata
Fioretta, che son tre anni che si partí di casa mia.

GERASTO. Chi sète voi che me ne dimandate?

APOLLIONE. Son Apollione de Fregosi suo zio, che vo tre anni disperso per averne novella.

GERASTO. Certo avete una nipote molto onorata e da bene!

APOLLIONE. Tutto è per vostra cortesia, ché, stando in casa onorata come la vostra, stava sicuro che contagione di pessimi costumi non l'arrebbono corrotta.

GERASTO. Ditemi, di grazia, il vero—ché confidando nella bontá, che mi par conoscere nell'aria vostra, voglio crederlo,—di che qualitá è questa vostra nipote?

APOLLIONE. Se ben l'uomo deve sempre dir il vero, mi par pur gran sfacciataggine dir una bugia che potrá esser facilmente scoverta, essendo qui infiniti gentiluomini genovesi che ve ne potranno chiarire. Suo padre e io siamo fratelli, di patria genovesi, della famiglia di Fregosi, che per negozi appertinenti a Stato, quando si fe' l'aggregazion di nobili in Genova, fummo sbanditi. Mio fratello con taglia di tremila ducati se ne fuggí; e son quindici anni che non se ne intese piú novella se sia vivo o morto. Giá sono accommodate le cose della patria molti anni sono; e io cercando di lui, venni con la casa in Roma; e per un mal serviggio promettendo io di battere mia nipote, questa si partí di casa tre anni sono, che non ne ho inteso piú nulla se non pochi mesi sono, che era in Napoli in casa vostra. Onde partitomi di Roma, son qui venuto per saperne novella.

GERASTO. Come è suo nome, e del padre?

APOLLIONE. Suo nome Essandro, suo padre Carisio, io Apollione; e se ben perdemmo in quel conflitto molte robbe, pur non siamo tanto poveri che in casa nostra non sieno trentamila ducati.

PANURGO. O fratello carissimo, Apollione desiato sí lungo tempo di rivedere! benedetti questi legami di carcere e le disgrazie, poiché in esse mi tocca di rivederti!

APOLLIONE. Tu dunque sei Carisio mio fratello? o che dolcezza è questa! sogno io o vaneggio?

GERASTO. Ah, ah, ah!

NARTICOFORO. Ah, ah, ah! certo che sogni e vaneggi.

APOLLIONE. Per che cagione?

GERASTO. Questi che voi non conoscete, si trasforma in qualunque uomo ei vede: per uscir dall'intrigo dove adesso si ritrova, subito s'ha finto tuo fratello.

APOLLIONE. Ogniun crede facilmente quel che desia: il desiderio immenso di trovar mio fratello me lo fe' subito credere.

PANURGO. Deh, Apollione mio caro, non mi raffiguri tu ancora? ha potuto tanto l'assenza ch'abbi posto in oblio la mia conoscenza?

GERASTO. Oh, vedete come piange, vedete che lagrime spesse!

NARTICOFORO. Se fusse donna, non arebbe cosí le lagrime a sua posta.

APOLLIONE. Veramente or ti raffiguro, fratello: perdonami se prima non son venuto a far il debito ufficio ch'io doveva.

GERASTO. Férmati, ché tu proprio desii d'essere ingannato. Questi a me, che son Gerasto, ha dato ad intendere che sia Narticoforo; a costui, che sia me; ad un servo, per tòrli certe vesti, l'ha fatto credere ch'era un dottor di legge; or per iscampar dal periglio dove si trova, dice che è tuo fratello.

PANURGO. Non si chiamò mia moglie Zenobia? né ti raccomandai questo figlio di duo anni, piangendo in braccia, quando partimmi?

APOLLIONE. Questo che dice è vero, e a me par mio fratello.

PANURGO. Non hai tu un segnale nella schena, ché avendoti in braccio, quando era piccino, ti fei cadere e percotere in una pietra aguzza, di che giacesti duo mesi in letto e ancor ne devi aver la cicatrice?

APOLLIONE. Questo è mio fratellissimo. O fratello ricercato e desiderato!

NARTICOFORO. Può esser che tu voglia essere cosí credulo?

APOLLIONE. Chi non è uso a mentire, crede ogniun che dica il vero. Ma io tocco la veritá con le mani.

NARTICOFORO. Io non posso imaginarmi uomo piú perfidioso di te: questi è un «doli fabricator Epeus», è un altro Ulisse che fece il cavallo igneo per prender Troia. Tu ne sei stato admonito prima, che persuade a ciascun che sia lui.

APOLLIONE. Amici, mi ha dati certi segni che non può saperli altri che lui.

GERASTO. Sappiate che tiene le spie per tutte l'osterie, per star informato de' fatti di ciascuno e persuadergli quello che vuole.

PANURGO. Ed è possibile, Apollione mio, fratello, che vogli prestar piú fede a costoro che all'istessa veritade?

APOLLIONE. Amici, la forza del sangue è cosí grande che si fa conoscere da se stessa: io mi sento tutto il sangue commosso.

NARTICOFORO. Ancor potrebbe esser vero quel che dice, e noi non cel crediamo. Questo acquista chi è uso a mentire: che dicendo il vero non gli è creduto. «Qui semel malus, semper praesumitur malus in eodem genere mali».

APOLLIONE. Questi è veramente mio fratello; né fu tanta la pena che ho sentito in questa sua assenza, che non sia maggior la gioia che adesso ho che lo riveggo. Gerasto, padron caro, costui è padre di chi sta in casa vostra.

GERASTO. Talché ugualmente e dal padre e dal figliuolo son stato assassinato?

PANURGO. E può esser che io sia stato ruffiano a mio figlio?

APOLLIONE. Gerasto caro, sappiansi l'ingiurie che stimate aver ricevute da noi, accioché possiamo far le debite sodisfazioni.

PANURGO. L'ingiuria che l'ho fatta, è questa: che per far serviggio a mio figlio, allor mio padrone, prestatomi il nome di Narticoforo romano, che è questo gentiluomo, entrai in casa sua; e poi prestatomi il nome suo, mi feci conoscere a questo per Gerasto e lo scacciai dalla casa che non era mia. Che grande ingiuria è questa, ch'io ne meriti tanto castigo? Si prestano ogni giorno vesti, vasi d'argento ed altre cose che pur si logorano; né per questo se ne ha molto obligo a chi le presta. Per avermi io servito di vostri nomi per due ore, e or ve li restituisco sani e salvi e senza mancamento alcuno, dite che gran premio ne volete, che son per pagarlo. Vi vo' prestare il mio nome di Carisio per un anno, per quattro e dieci, e non ne vo' cosa alcuna né che me ne abbiate pur un minimo obligo.

NARTICOFORO. Certo che sète uomo frugi e di molta comitate: d'oggi innanzi vi vo' per ero e per amico.

APOLLIONE. Vengasi di grazia all'altra ingiuria che avete ricevuta.

GERASTO. L'altra è questa: che vostro nipote, vestito da fantesca, è stato in casa mia; e mia moglie per gelosia di me, pensandosi che fusse femina, l'ha fatta dormir sempre in camera con mia figlia. Oggi è scoverta l'alchimia, l'ho prigione, mi son consigliato con gli amici e parenti se lo debba uccidere o consignarlo in man della giustizia.

APOLLIONE. Sia benedetto Iddio che ci ha fatto giungere a tempo di remediarci! Orsú, Gerasto caro, l'indegno atto e l'offesa che ha usata contro te, n'è stato cagione amore; ché ben sapete che amore e ragione mai potero apparentare insieme, e la legge d'amore è romper tutte le leggi e non servar legge ad alcuno. Poiché amor l'ha ridotto a questo termine, vagliaci il vostro senno e prudenza a rimediarci. Poiché cosí è piaciuto a lui, piace ancora a noi che sia sua moglie; e credo che non abbiate a ritrarvene a dietro, essendo mò noi de Fregosi, casa cosí nobilissima, e tanto piú abbiamo sol questo nipote il qual sará erede di trentamila scudi. Egli è bello tra giovani non men bella che sia vostra figlia; e se egli ne è di foco, ella n'è di fiamma; s'egli arde per lei, ella ne è arsa e incenerita per lui; e s'egli ha dato il core, ella l'anima. Facciasi.

GERASTO. Ed io poiché non posso rimediare al mio onore altrimente, è forza che me ne contenti: io gli perdono né vo' che muoia, non perché egli sia degno di vita—ché dovea farmela chiedere ordinariamente e non con trappole macchiarmi l'onore;—ma lo fo per non dare a te suo padre e a te suo zio cosí acerbo dolore che avereste della sua morte. Orsú, diasi Cleria ad Essandro e Ersilia a Cintio, purché ne sia contento Narticoforo: con questo patto però, che abbi tempo duo giorni ad informarmi di voi; ché se ben all'aspetto conosco che siate di buona qualitá e conosco che sia vero quanto dite, pur per non esser tassato per leggiero da parenti e amici, cerco questo spazio di tempo.

NARTICOFORO. Io mi contento e plus quam contento che sia Ersilia di
Cintio, che quella piú di Cleria io exoptava.

GERASTO. Io ti scioglio, Carisio caro; e ponendoti tu in mio luogo, credo che essendo onorato, come ti stimo, aresti fatto altrotanto a me. Ma chi è quello cosí contrafatto che mi avete condotto in casa?

PANURGO. È un piacevolissimo buffone che altro di danno non ará potuto fare alla casa che di alcuna cosa da mangiare. Eccoci per rimediare al tutto.

GERASTO. Orsú, perché l'inganno avea abbagliato a tutti e ci sono occorsi atti e parole in pregiudicio commune, si perdoni l'un l'altro.

NARTICOFORO. Cosí si facci.

PANURGO. Cosí si facci.

GERASTO. La mia casa sará commune a tutti; se ben non posso onorarvi come si conviene, supplisca dal mio canto l'affezione. Narticoforo, mandáti a chiamar Cintio.

NARTICOFORO. Olá, togli questa crumèna, paga l'oste, che ti dii le valiggie, e mena teco Cintio in questa casa.

PANURGO. Vi chieggio una grazia, Gerasto, che possa baciar mio figlio, gli dia questa allegrezza e non lo facci piú disperare.

GERASTO. Eccovi la chiave; quella è la stanza terrena.

APOLLIONE. Entriamo.

SCENA IX.

PANURGO, ESSANDRO, MORFEO.

PANURGO. Essandro, padron mio caro, come state?

ESSANDRO. Accompagnato da una amarissima compagnia di pensieri.

PANURGO. Non domandi di tuoi successi?

ESSANDRO. Per allungar la speranza! Ma pur che novelle?

PANURGO. Cattivissime, maledettevolissime. Tu sei…

ESSANDRO. So che vuoi dire:—Misero e serbato dal Cielo a crudelissime passioni!

PANURGO. Gerasto n'ha scacciati di casa, dato Cleria a Cintio; e or si fanno le nozze.

ESSANDRO. Giá son caduto e morto!

PANURGO. Come?

ESSANDRO. Tu parli cortelli e lancie; la tua lingua m'ha trapassata la gola come un pugnale.

PANURGO. S'è inviato a dir a Sua Eccellenza; e fatto tòrre informazione del successo, ha dato ordine che tu sii giustiziato.

ESSANDRO. M'hai tornato vivo, che non fu mai piú cara morte, perché d'ora innanzi arei sempre aborrita la vita.

PANURGO. Ascolta fin al fine.

ESSANDRO. Non posso ascoltare, perché attendo al fatto mio.

PANURGO. Questi sono i fatti tuoi.

ESSANDRO. I miei fatti sono annodarmi un capestro al collo e strangolarmi.

PANURGO, Ascolta, dico.

ESSANDRO. Il mal cresce, la speranza è mancata, il disio è fatto maggiore, il consiglio disperso: non ascolto piú niuno, ragiono con la morte che sotto varie imagini mi scorre dinanzi. Giá è persa la medicina che sola mi poteva recar salute; molte vane speranze m'han lusingato fin qui; or pongo fine allo sperare, non ingannare piú me stesso.

PANURGO. Vòlgeti a me.

ESSANDRO. Ho annodata la fune e or me l'adatto al collo.

PANURGO. Chi t'ave imparato, il boia?

ESSANDRO. La disperazione! Vuoi tu alcuna cosa dall'altro mondo?

PANURGO. Sí, sí, vo' che mi porti una lettera a mio padre, che li bacio le mani e desio saper come stia.

ESSANDRO. M'allonghi la vita! giá salo la scala e annodo il capestro al trave.

PANURGO. Te terrò per i piedi, non ti farò salire.

ESSANDRO. Scherzi con la morte non con me. Adesso mi butto.

PANURGO. Non buttarti cosí presto. Ecco spezzato il capestro: perché non lo tentavi prima che adoperarlo? Volemo che la fortuna s'appicchi lei con quel capestro che apparecchiava per voi?

ESSANDRO. Fai errore trattener la morte, con beffe, ad un misero.

PANURGO. Allegrezza, allegrezza!

ESSANDRO. Hai torto darmi la baia, ch'io non t'offesi, che io seppi mai, e t'ho in luogo di padre e non di servo tenuto.

PANURGO. La via che avevi presa per gir all'altro mondo, lasciala, e prendi quella per gir alla casa di Cleria, che è tua moglie.

ESSANDRO. Come moglie?

PANURGO. In carne e ossa.

ESSANDRO. Burli in cosa dove va la vita.

PANURGO. È venuto Apollione tuo zio e riconosciutosi con tuo padre; son stati d'accordo con Gerasto e ti han concessa Cleria.

ESSANDRO. Deh, perché mi burli e aggiungi beffe a beffe?

PANURGO. Allegrati della mia allegrezza adesso, come io mi son allegrato della tua: ch'io ho ritrovato mio figlio.

ESSANDRO. Chi è tuo figlio?

PANURGO. Vieni in casa e lo saprai, ch'io non vo' tanto prolungar il tempo che possi abbracciare e stringere la tua Cleria piú che una tanaglia.

ESSANDRO. Il misero non crede a nulla che di ben gli sia detto.

PANURGO. Vieni, corri, vola e vedi il tutto vòlto in allegrezza.

ESSANDRO. Rispondi a quanto ti domando, parla piú chiaramente il tutto: Cleria è fatta mia?

PANURGO. Sí.

ESSANDRO. Gerasto m'ha perdonato?

PANURGO. Sí.

ESSANDRO. È venuto mio zio Apollione?

PANURGO. Sí.

ESSANDRO. Mio padre ancora?

PANURGO. Sí.

ESSANDRO. Ad ogni cosa che ti domando: sí, sí, sí. Mi tratti da bestia, da asino.

PANURGO. Sí, sí, sí: te l'ho detto e stradetto mille volte.

ESSANDRO. Oh, come sí orribil tempesta si è mutata in un subito in sí placida e tranquilla quiete! O felici miei pensieri, a che gloria giunti sète! O felice sole, che hai apportato il piú lieto giorno per me e ore cosí felici!

PANURGO. Dove vai, Morfeo?

MORFEO. A chiamar Essandro. Che tardi? tutti sono a tavola, si fa banchetto reale, le minestre si raffreddano e non vogliono cominciar senza te.

ESSANDRO. Deh, perché non ho l'ali da volare, o Cleria, o mio padre, o mio zio!

MORFEO. Spettatori, la cosa è riuscita a miglior fine di quello che noi speravamo e che abbiamo saputo ordinare: bisognano alcuna volta i disordini, accioché si venghi agli ordini. E se la favola vi è piaciuta, fate segno di allegrezza.