The Project Gutenberg eBook of Dal cellulare a Finalborgo

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Title: Dal cellulare a Finalborgo

Author: Paolo Valera

Release date: May 2, 2008 [eBook #25285]
Most recently updated: January 3, 2021

Language: Italian

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK DAL CELLULARE A FINALBORGO ***

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PAOLO VALERA

DAL CELLULARE A FINALBORGO

ILLUSTRATO DA G. ZUCCARO

Non è quello che si è sofferto noi quello che più mi pesa, ma quello che si è fatto soffrire agli altri.

FEDERICO CONFALONIERI.

MILANO

TIPOGRAFIA DEGLI OPERAI (SOC. COOPERATIVA)

Corso Vittorio Emanuele 12-16

1899

ALLA

MIA BUONA MARIA

__L'inverniciatore descrive il camerotto di S. Fedele.__

Ho sempre avuto la fortuna di trovare sul cammino della vita dei simpatizzatori o delle persone che mi volevano bene prima di conoscermi. Al Cellulare, nello stanzone di «carico e scarico», mi si registrava e mi si salutava come un personaggio di casa. Mi si ricordavano episodii della mia vita cui io avevo completamente dimenticati. Come quello di essere stato alloggiato in una cella come scrittore scollacciato o come un égoutier della penna.

Tra gli impiegati che volevano assolutamente essermi utili, era un giovinetto alto, elegante, con una bella faccia illustrata dai baffi superbi e chiari e illuminata dalla lucentezza degli occhioni neri in campo azzurro. L'unghia lunga del mignolo e la cravatta di foulard a palloncini gialli sul fondo solferino pallido, e i manichini che gli uscivano candidi dalle maniche, gli davano l'aria di gran signore.

—Se le occorre qualche cosa non mi dimentichi.

Lo ringraziai con la voce turbata dalla gentilezza. Era una consolazione trovare chi non aveva paura di stendervi la mano nelle giornate di Bava Beccaris. Prima dell'arresto passavo per le vie come un fantasma che faceva germogliare in coloro che mi conoscevano un'interrogazione:

—Come, non è ancora stato arrestato?

Gli intimi sgusciavano via come ombre. Era in tutti lo spavento di compromettersi. Se l'imprudenza mi faceva fermare qualche amico, l'amico diventava smorto e mi diceva, con l'orologio in mano, che doveva correre in qualche luogo.

Domandai subito una stanza a pagamento. Era troppo tardi. Le stanze di lusso erano state tutte prese dai deputati, dai giornalisti e dalle persone facoltose che mi avevano preceduto. Ma non dovevo preoccuparmene. L'impiegato che mi voleva bene se ne sarebbe occupato come di una cosa personale. Per il momento bisognava accomodarsi come si poteva, perchè il Cellulare non era mai stato così pieno.

—Ha dei libri?

—Neppure uno! Mi hanno sorpreso ieri mattina in letto e nella confusione mi sono dimenticato di insaccocciare un po' di munizione intellettuale.

—Non ci pensi, stia tranquillo. Parlerò io al bibliotecario e verrà immantinenti a portarle volumi che le piaceranno. Dei romanzi che ho letto io e che le faranno passare le giornate come in un sogno.

—Di Barrili?

Uscito dalla stanza della registrazione, passai un cancello di color oscuro e mi trovai in un ambiente assai diverso. Non c'erano più riguardi. L'angelo custode mi trattava volgarmente col voi.

—Tirate fuori tutto ciò che avete nelle tasche!

Nella stanza della visita mi ingiunse di svestirmi, e di fare presto, perchè lui non aveva tempo da perdere.

—Fuori anche le calze, mammalucco!

Mi palpeggiò gli abiti e la biancheria con la voluttà dell'aguzzino alla ricerca di qualche cosa nascosta.

—Che cos'è questo?

—Un lapis!

—Vi piacerebbe un lapis! Perchè non l'avete tirato fuori quando ve l'ho ordinato?

Non gli risposi neanche. Era anche lui un'autorità del momento.

Mi condusse di sopra al primo piano, e mi chiuse in una stanza «intermedia». Le «intermedie» servono per i malviventi di passaggio. Hanno sei o sette sacconi di paglia in terra, la secchia dell'acqua e il bugliolo delle evacuazioni nell'angolo. Nei giorni di Bava Beccaris erano affollate di «rivoluzionarii».

Non ci volle molto a capire che i miei cinque compagni erano degli idioti che nessuno sarebbe mai riuscito a intellettualizzare. Erano stati sorpresi dal ciclone militare, ma tre di loro non sapevano neppure il significato della parola rivoluzione. Il quarto era un giovanotto mingherlino che faceva il tintore in una fabbrica a qualche miglia dalla ripa di porta Ticinese, e che nella giornata di sabato era andato con degli altri a bere nelle osterie senza pagare e a domandare dei prestiti a dei fittabili senza l'intenzione di restituirli.

—Credevate di fare la rivoluzione?

—Sì, mi disse egli chiudendo le dita a ventaglio. Facevamo della rivoluzione! Non creda però che si sia fatto denaro. Finita l'escursione, avevamo bevuto mezzo litro di vino e ci saremo spartiti una e cinquanta a testa.

Il quinto era un ex-cameriere che si occupava più della sua pipa e del suo ventre che degli avvenimenti che lo avevano mandato in prigione. Era uno sboccaccione che mi fece sentire più di ogni altro la ripugnanza per la coabitazione forzata. Egli non aveva riguardi. Si scaricava delle ventosità nel modo più indecente.

Il più buono dei tre era un inverniciatore che passeggiava dalla mattina alla sera coi tacchi ferrati come i piedi dei cavalli, zufolando, o dando in ismanie per essere stato arrestato senza colpa alcuna.

—Si figuri che io non ho saputo della morte di Vittorio Emanuele che ieri; questo per dirle che non ho nulla di comune con l'uomo politico. Ero in casa che stavo per andare a dormire. Tra le otto e le otto e mezza sentii bussare. Chi è? Andai ad aprire. Erano due agenti di questura in borghese. Mi domandarono se ero il tale. Nossignori, risposi. Come vi chiamate? Così e così. Venite con noi, che il questore ha bisogno di parlarvi. Il questore? Non me lo feci dire due volte. Chi male non fa, paura non ha, va bene? Avevo lavorato tutti i giorni come nelle altre settimane e alla domenica ero andato col mio ragazzo a pescare.

Di che cosa dovevo avere paura? Dissi alla moglie di non inquietarsi che sarei ritornato subito. Il signor questore non era uno stupido e sapeva quel che si faceva. Mi buttai in dosso la giacca in fretta e giù dalle scale con loro. Mi parevano buoni diavoli. Parlavano come persone dolenti di avere dovuto disturbarmi. Si figurino! Faccio intanto una passeggiata. Sul corso di porta Magenta mi diedero anzi un solfanello per la pipa. Piperei tutta la vita. Quando fummo in questura parlarono con un altro e mi lasciarono dicendo che sarebbero venuti a prendermi. Con tante cose da fare in quei giorni, si saranno dimenticati, perchè li aspetto ancora.

Fatto sta che il nuovo individuo mi disse di vuotarmi le saccocce. Se non ho niente! Guardi pure. Faccia il comodo suo. Sono uscito di casa per un momento. D'abitudine non vado mai attorno coi denari in tasca. Al sabato consegno la settimana alla mia donna e non ci penso altro. Quando ho il tabacco per la pipa, basta. Non sono mica un beone che sciupa il sudore di una giornata nelle bettole. Coloro che frequentano il trani finiscono sempre male.

Dicevo bene? Sicuro che non avevo niente, aperse l'uscio del primo camerotto e felicenotte. Non mi disse neppure che chiudeva. In casa mia, nel casone di via Ochette, siamo in sei e si vive tutti in una stanza. Si sa, un povero operaio non può fare tanto cogli affitti così cari. Si figuri che pago più di cento lire all'anno. C'è di buono che il padrone è una pasta d'uomo. Se non arrivo in tempo non mi butta in istrada. È un padrone di casa che sa anche lui il vivere del mondo. Con dei figli che mangiano tanto pane, un povero padre non può sempre pagare la pigione in giornata. Che cosa dicevo? Parlavo del camerotto. Un vero castigo di Dio.

Mi sono trovato in mezzo a un fumo che mi fece chiudere gli occhi e tossire come un vecchio di sessant'anni. Non ci si vedeva. Era pieno come un uovo. Gli uni erano addosso agli altri e nessuno poteva muoversi. Creda a me che non dico bugie. Erano gli uni sugli altri come le sardine. Fu una vita da cane la notte del mio arresto. L'aria che si respirava rivoltava lo stomaco. Faceva venire voglia di vomitare. Nel piccolo spazio tra l'uscio e il tavolazzo, pareva di essere in una marcita. Gli sputi di tutta quella gente che masticava il tabacco avevano ridotto il terreno molle e sdrucciolevole. Coi piedi nelle pozzanghere si stava malaccio. Si sentivano i reumatismi venire su per le gambe. Non si poteva camminare perchè eravamo in troppi. Quando tiravo su il piede per poggiarsi sulla gamba, sentivo il «ciac» della palta che si staccava dalla suola. I muri sudavano. Era un sudore che restava alle dita come la gomma. Sul tavolazzo non si stava meglio. I seduti dovevano tenervi le gambe piegate fino agli occhi con le dita allacciate. Quando c'era qualcuno che aveva bisogno di spandere acqua, si voleva morire. La tinozza lasciava venir fuori un odore che asfissiava.

Non c'era posto, ma il carceriere era un diavolo che non faceva caso a quello che dicevamo. Apriva e ne cacciava dentro degli altri senza tanti complimenti. Lui non aveva tempo da perdere. Conosceva nessuno e trattava tutti alla spiccia. Cinque o sei erano vestiti bene. Si capiva che dovevano essere persone di considerazione perchè avevano gli anelli brillantati sulle dita che abbagliavano la vista. Un signore grosso, col pancione dell'uomo che mangia bene, faceva compassione. Si asciugava gli occhi e diceva che la sua famiglia avrebbe pensato male a non vederlo andare a casa. C'erano degli altri nella stessa condizione. E la mia Margherita? Mi pareva di sentirla piangere. La vedevo andare alla finestra tutta disperata a cercarmi giù nell'ombra o all'uscio della scala ogni volta che sentiva i passi di qualcuno. In dieci anni di matrimonio non ho mai dormito fuori di casa. E una povera donna che voglia bene al marito si impressiona.

In pochi nasceva il bisogno di parlare. E quelli che dicevano qualche cosa era per lamentarsi di essere stati portati via dalle loro famiglie innocenti. Io ero sempre in piedi che aspettavo il posto d'uno del tavolato. Mi ero straccato a stare lì senza muovermi.

Dovevano essere le dodici. La gente del camerotto sembrava sopita nel tenebrore della lanterna. Si vedevano qua e là teste che precipitavano sul petto come cariche di piombo. I gruppi appisolati avevano pose che in altri momenti avrebbero fatto sgangherare dalle risa. Qua e là si russava come tanti porci. Lungo il corridoio si udivano, in certi momenti, tonfi o corpi che si urtavano violentemente con delle grida che morivano dietro gli uscioni.

Un po' dopo ho dovuto ricaricare la pipa e fumare, per illudermi che gli individui sulla tinozza erano persone sedute. Venivano via i miasmi della fogna che mi andavano per la cappa del naso come della starnutiglia. C'era uno in manica di camicia che non pativa come pativo io. Mangiava il suo pane senza starnutare. Era già stato in prigione e ci aveva fatto l'osso. Mi diceva che era uscito ieri l'altro dal Cellulare e che aspettava la scarcerazione d'ora in ora. Non era però impaziente. Aveva la sorveglianza e con la sorveglianza si sta meglio dentro che fuori. Parola d'onore. Dai tredici ai diciannove anni non aveva fatto altro che uscire per rientrare, sovente senza guadagnare un centesimo. Gli ho domandato che mestiere faceva. Parve sorpreso. Sono cose da domandare? El tirador de sacchett.

Pescava nelle tasche delle signore, mi diceva lui, con una delicatezza che non disturbava le derubate. Doveva essere un buon diavolo, perchè raccontava su tutto, come tra vecchi amici. L'ultima volta era stato côlto in chiesa. Non immaginatevi grandi guadagni, mi diceva. In chiesa si busca da vivere, ma non si fanno quattrini. Le donne vi vanno a pregare con la moneta in saccoccia per la scranna e per qualche povero all'entrata. Non c'è che la signora in via a fare spese di qualche importanza che vi vada col portamonete gonfio. E poi credete che si possa continuare a lavorare nello stesso sito? Se vi ritornate prima di qualche mese vi sentite agguantato da due falsi divoti che vi aspettavano da un pezzo. È una professione piena di rischi. Se non fosse tardi, l'avrebbe cambiata da parecchi anni. Ma adesso c'è e bisogna che vi resti.

Venni svegliato dal fracasso dell'uscione. Se ne cacciarono dentro altri cinque o sei, venuti da chi sa dove, a pugni sulla testa e sulle spalle. Ero così ingarbugliato dal sonno che non ho potuto vedere le guardie in borghese che pestavano gli arrestati senza misericordia. Forse avevano ragione. I cinque o sei non mi parevano facce da galantuomini. Si erano lasciati battere senza dire una parola. Si tiravano su i calzoni e facevano sparire i pugni dai cappelli, con la grazia più naturale del mondo. Chi erano? Pochi di buono indubbiamente. Sono stato arrestato anch'io, ma non mi si è fatto nulla. Gli agenti non sono poi dei cani, diavolo. Non dànno via per il gusto di dar via. Siate onesti, se volete essere rispettati.

Si respirava come i moribondi. Anche quelli seduti incominciavano a dire che era una vera porcheria chiudere in una stanza lurida tanti cittadini. L'acqua doveva essere diventata calda come l'orina. Pure si beveva con piacere perchè c'era una caldura che toglieva il respiro e c'erano delle ore prima che venisse mattina. Non potete immaginarvi come mi dispiaceva di non avere avuto cinque centesimi in tasca. Sognavo l'alba con un bicchierino di grappa. Fa tanto bene quando si ha i piedi nel sudiciume e si è passata la notte senza dormire. Non so che cosa si faceva di fuori. Ma di tanto in tanto udivo delle persone che s'arrabattavano per la muraglia urtate da qualche prepotente che smanacciava. Erano forse degli altri arrestati che gli agenti spingevano nei camerotti.

Alle quattro non si poteva più dormire. Si sentiva il sussurro del brodo che bolle nella caldaia coperta. Si chiacchierava sottovoce. Si ragionava sui tumulti di Milano.

Nessuno sapeva come avevano avuto principio, ma tutti erano d'accordo nel biasimarli. Perchè avevano fatta la rivoluzione? Si parlava di morti e feriti come se ci fosse stata una grande battaglia. Ho sentito cose da far venir su la pelle d'oca. Perchè avevano fatto la rivoluzione? Era la domanda che si facevano l'un l'altro di tanto in tanto. Non si stava forse bene? Non erano che i lazzaroni che si lamentavano. La gente che lavora non ha tempo di pensare a tante storie. Il lavoro stracca e non lascia il tempo di sentire asinate. Quando io vado a casa alla sera, mangio la minestra con ingordigia, faccio la mia pipata con piacere e vado a letto mezzo addormentato. Gli oziosi vanno in giro e si scaldano la testa.

Si aperse di nuovo l'uscione con fracasso. L'incaricato pareva in collera. Povero diavolo, non aveva chiuso occhio in tutta la notte. Doveva essere sfinito morto. Si fece un'altra infornata. Dicevano che non c'era più posto. Ma gli agenti provavano il contrario. Cacciavano su gli arrestati calcandoli alle spalle con sfuriate di parole porcone. Aspettiamo a biasimare gli agenti. Non si sta su tutta notte senza perdere la pazienza e non si dicono villanie senza qualche ragione. L'uscio si richiuse con rabbia. Gli entrati parevano bruti. Quattro erano malvestiti e dovevano essere vagabondi. Gli altri avevano l'aria di essere signori. Uno di essi era grosso, piccolo, con un cappellaccio in testa che faceva paura. Poteva essere un rivoluzionario. Ho sentito dire che era uno scultore che aveva fatto la barricata con le sue statue e che aveva messo le mani nel sangue di un soldato. Pareva abbattuto. Aveva una faccia scolorata che faceva stremire. Gli altri dovevano essere persone istruite perchè parlavano con parole difficili. Mi fece colpo la parola lubrico—una parola che è sempre in bocca del mio padrone quando dà degli ordini agli spalmatori d'olio.

Dicevano che il suolo era lubricato, per dire che non si poteva stare in piedi. Erano stati arrestati a domicilio. Si capiva, dal tutt'assieme, che erano pesci grossi perchè non si mischiavano con gli altri.

Più tardi è entrato un signore con tanto di catena d'oro. Ci disse che era stato arrestato sullo stradone di Abbiategrasso. Veniva a Milano in carrettella e non sapeva dei disordini. Gli hanno domandato in che mondo viveva. Abbiategrasso non era mica in America. Lui era come me. Non leggeva mai i giornali e ignorava tutto quello che avveniva. Io sono buono di leggere, ma faccio troppa fatica. Cinque minuti dopo, le parole mi vanno insieme e mi pare di essere ciocco. Non sono poi curioso. A me importa proprio niente di sapere gli interessi degli altri. Ho anche troppo da fare a tirare innanzi la mia baracca, senza darmi dei grattacapi.

Dove sono rimasto? Al signore della carrettella. Egli aveva una micca in saccoccia. Gliela avevano fatta comperare i carabinieri a porta Ticinese per paura che morisse di fame. Io cominciavo proprio ad aver fame. Speravo di vedere mia moglie con la sporta. Povera donna. Mi voleva bene e io rimanevo nel camerotto a perdere il tempo.

Alla mattina, con un po' d'aria fresca e un po' più di luce, sembravamo tanti ubbriaconi che avessero passata la notte in un porcile, o in un acquavitaio che ci avesse rasi come una damigiana. Eravamo bianchi come i cadaveri. Il più allegro era sempre il precettato. Egli era rimasto in manica di camicia e con la sua giacca aveva coperto le gambe di uno sconosciuto che tremava dalla febbre e dalla paura. Gli ho dato la pipa da spazzare una seconda volta. All'odore del luogo ci eravamo abituati. Non c'era che l'impazienza di uscire. Chi doveva correre al lavoro, chi aveva degli affari importanti e chi si sentiva voglia di sgarbugliarsi gli occhi con del caffè caldo. Prima delle otto eravamo ricaduti nella disperazione. Perchè non ci si lasciava andare? C'erano gli scalmanati per l'uscita che non si lasciavano acquietare se non dicendo loro di rammentarsi che non avevano da pensare a noi soli. Alle otto venne il carceriere a domandarci se volevamo qualche cosa. Quasi tutti gli domandarono se non era tempo di liberarci. Ci disse di fare presto, che lui aveva tre camerotti zeppi di gente che aveva fame. Allora fu una gara, e il carceriere dovette pregarli di andare adagio. Chi comandava del caffè e dei sigari, chi del pane e salame e chi una frittura di fegato col limone. C'erano signori che si ricordavano del limone in un momento da strapparsi tutti i capelli dalla testa! Non ci furono che due che non gli diedero seccature: io e il precettato. Eravamo tutti e due senza il becco di un centesimo. Venuta la distribuzione, si sono ristorati come hanno potuto. Mangiavano con le mani e stracciavano il pollastro coi denti. C'erano di quelli che avrebbero voluto il tovagliolo. Ringraziate Dio, o brontoloni, si diceva, che avete il fazzoletto.

Le persone di cuore non possono mangiare senza dividere con coloro che non mangiano. Io e il precettato abbiamo finito per menare i denti più degli altri. Della gente buona ce n'è dappertutto. Ci fu quel signore col cappellaccio, che dicevano avesse fatto la barricata con le statue, che mi diede il suo vino. Egli non aveva voglia di bere. Grazie.

Non so come si faceva a non crepare. Ci mettevamo i gomiti sullo stomaco per mancanza di posto e tenevamo la mano sulla schiena di quelli davanti per non buttarci addosso le cose brodose.

I vestiti più bene offrivano i sigari a quelli che non avevano da fumare. In pochi minuti eravamo tutti in una nube, l'uno non vedeva il naso dell'altro. Il fumo purgava il camerotto che alle volte puzzava come una latrina. Verso le dieci o le undici ore eravamo stufi, stufi, più che stufi. Non si sapeva niente, nè se ci si lasciava andare, nè se ci si mandava in qualche luogo.

Il caldo era diventato eccessivo. Si sgocciolava. Finalmente si aperse un'altra volta l'uscione e ci si fece uscire a due a due. Fuori dell'uscita c'erano dei signori in borghese che a certi individui lasciavano andare degli scapaccioni. Probabilmente li conoscevano. A me non si è fatto nulla. Chi male non fa, paura non ha. Mi si fece salire in un carrozzone e mi si condusse qui al Cellulare. Nel carrozzone credevo proprio di lasciarvi la pelle. Nella mia celletta eravamo in tre. Ci mancava il respiro. Provai una grande contentezza quando mi trovai nel cortile del Cellulare.

Me l'ho scampata bella. Dio non c'è per niente.

__Il soccorso.__

È una scena piangevole che potete vedere ogni mercoledì e ogni domenica, tra le dieci e la una, sulla piazzetta Filangeri, dinanzi l'edificio della sventura sociale. Ma in un giorno o nell'altro non troverete mai la folla delle giornate di Bava Beccaris, quando ciascun cittadino aveva paura di non essere più cittadino e ogni donna poteva essere disgiunta dall'uomo da un ordine imperativo o da una mano brutale.

La mia pagina è una fotografia senza ritocchi di una di queste domeniche.

L'orologio di un campanile suonava le otto e il sole bruciava le cervella. Sul piazzale si vedevano alcune carriole cariche di frutta acerbe o sfatte, di dolci perseguitati dalle mosche e di cose mangerecce coperte di polvere. Il portone traduceva un corpo di guardia improvvisato in una città insorta. Un portone coll'andirivieni della gente che fa paura. C'erano soldati in piedi, soldati che riposavano sulla paglia sternita nei fianchi, soldati che entravano e uscivano, soldati che si asciugavano la fronte e si aggiustavano la giberna sul ventre. Si vedevano andare e venire secondini, guardie di finanza, delegati, questurini, carabinieri, ufficiali, autorità carcerarie, autorità militari—tutte persone che ricordavano il momento, persone dalla faccia feroce, persone che passavano come ventate di collera, persone pronte a venire alle mani col primo che avesse detto una corbelleria.

L'ufficiale di guardia pareva, col pensiero, a spasso. Con la ciarpa azzurra a tracolla, seduto sulla sedia addossata al pilastro con una gamba sopra l'altra, si ninnolava buttando in alto il fumo diafano della sigaretta.

Le donne giungevano sole e a gruppi con i fagotti, i canestri e le corbe piene di roba e si appoggiavano al muro della carcere o andavano ad occupare i sedili di granito della piazzetta o si aggruppavano alle altre aggruppate nel largo in faccia al bastione. Tra le popolane dal faccione prosperoso e dalle maniche rimboccate sull'avambraccio bronzato, c'erano vecchie che si reggevano a mala pena in piedi, teste che riassumevano la primavera nella chiarezza mattinale e figure dalla faccia bianca o scolorata che uscivano dalla moltitudine con le loro vesti e i loro cappelli neri come tante ditte di un ufficio mortuario.

Imperava il dolore. Ah, se si potesse uscire dal dolore come si esce dalle porte cittadine! Il dolore distruggeva la ripugnanza delle vestite bene per le vestite male e assorellava le donne colpite da una sventura comune. Tutte queste mamme, tutte queste spose, tutte queste amanti, tutte queste sorelle vedute assieme storcevano il cuore e facevano venir sulle labbra una parola tragica, una bestemmia brunita dal rancore, una maledizione che si rompeva nella testa col suono della lastra di metallo che la martellata manda in frantumi. Riproducevano l'afflizione, l'ambascia, il dietroscena domestico, il naufragio femminile, la devozione sublime delle donne affezionate agli uomini chiusi laggiù, oltre il portone, al di là dei cancelli, negli sgabuzzini del lugubre edificio imbevuto delle lagrime dell'esercito della sventura, che ha patito più del Cristo in croce. Nei loro occhi non era l'ardimento. Nei loro occhi era la stupefazione, lo sbalordimento, l'umiliazione. Povere donne! Erano donne abbattute, costernate, vinte dal supremo cordoglio che non le lasciava disfogare la piena del loro martirio.

I carrettoni chiusi scompigliavano e buttavano manate di nero sulla tela lugubre che s'allargava a ogni minuto. I traballamenti delle ruote andavano sul cuore della moltitudine come fitte che si sprofondavano nelle ferite palpitanti e sollevavano in tutti il vespaio delle supposizioni. A ogni sussulto si correva involontariamente col pensiero nelle cellette del veicolo che accarezzavano l'arrestato come la guaina accarezza la lama, a palpeggiare gli incassati come se si avesse avuto paura che si fossero rotta la testa o stessero in lotta coll'ultimo alito di vita. Chi saranno? E l'interrogazione faceva rabbrividire. Forse saranno dei ladruncoli o dei rivoluzionari o degli innocenti usciti dalle braccia della famiglia, rimasta in casa a piangere la loro sciagura! E i veicoli della tortura scomparivano e lasciavano le donne più avvilite di prima.

Questa campana! Si aspettava la campana del soccorso, la campana che doveva far dimenticare ai cellularizzati la smisurata intelligenza malvagia degli uomini, degli uomini che hanno per idealità il male, la campana che consolava lo stomaco di chi mangiava poco e male. Fate presto, in nome del Signore. Spalancate il cancello, prendetevi la corba delle vivande divenute fredde lungo la strada, divenute immangiabili aspettando qui sul selciato due ore, tutto un secolo. Siate buoni, siate caritatevoli con le povere donne trambasciate!

Il convoglio degli arrestati che veniva verso il Cellulare a piedi suscitava in ogni seno un orrore indicibile. Non poche donne erano state obbligate a chiudere gli occhi come quando si riceve un'ondata di luce in pieno viso. Era una banda che falciava gli ideali di redenzione più modesti. Sfilavano appaiati ai polsi come individui usciti da un porcaio o da un sotterraneo, con le ragnatele sulle spalle, con l'umidore nella gonfiezza sotto gli occhi, con i capelli irrigiditi in una zuffa spaventosa. Erano laidi, stracciati, dilaniati dai patimenti. Circondati dai questurini, dai carabinieri e dai soldati, il loro volto assumeva il colore acceso degli aggressori di strada che stramazzano i viandanti a coltellate. Alcuni, con gli abiti che non avevano perduta tutta l'eleganza e con la faccia cadaverica fino alla fronte, davano l'idea degli insorti còlti sulle barricate colle mani odoranti la polvere.

Altri, a piedi nudi, coi gomiti all'aria come le ginocchia, traducevano la loro vita grama di poveracci che basivano sul marciapiede e stendevano la mano ai passanti.

Le donne si lasciavano commuovere. Alcune singhiozzavano e dicevano che era meglio morire che vedersi trattati come birbaccioni che avevano fatto del male. Altre si mordevano le labbra e si scricchiolavano le dita per reprimere la sensazione che dava loro stille di sudore e faceva loro pulsare le tempie dal disgusto e dalla furia.

Non mancavano più che cinque minuti. La calca piegava verso l'entrata.

La prima fila, spinta dai nuovi venuti che si cercavano un posto al centro tra le proteste generali, andava più di una volta sul cordone militare che non si rompeva.

La ragazzaglia aveva dimenticato la tensione dell'angoscia generale e si era abbandonata al chiasso, e le donne, le più attempate, che si straccavano a stare in piedi, mormoravano con la voce piagnolosa.

Proprio, non si aveva pietà per le donne dei poveri prigionieri. Con tanta gente che soffre e con tanti soccorsi, la direzione non s'era commossa. Continuava a ricevere alla stessa ora, nelle stesse ore, come se nulla fosse avvenuto di straordinario. Inzuccherate il veleno, o signori! Ci farete penare meno, ci farete! Non ci voleva un gran giudizio per capire che bisognava far porta un po' prima. Pazienza! pazienza! pazienza! Sì, pazienza se si avesse avuto il buon senso di mettere alla porta un cristiano che non strapazzasse tutti come tanti servitori! Ma no! Ci avevano lasciato quell'anticristo di vecchio sciancato che aveva l'anima nera con le povere donne.

Tutte le volte che si doveva passare sotto un volpone di quella fatta ingrossava il cuore davvero. Era un secondino ripugnante, col collo che si gonfiava come quello del serpente quando va in collera, con la faccia ridotta a una grossa cipolla ammaccata. Bastava spremerla per vederla colare di marcia. Dio non poteva dare del bene a questi mostri verdi come la bile. Respingeva la gente dilatando la gola e dicendo parole che facevano andare il sangue in acqua. Pazienza. Si era nelle sue mani e non c'era che dire.

Anche quegli altri del soccorso erano buone lane. Non sapevano dove stava di casa la buona maniera. Bastava non aprir bene il canestro o avere dimenticato di fare la lista come volevano loro per vederli dar fuori come vipere.

—L'ultima volta m'hanno mandata a casa la figlia tutta piangente. Era uscita dalla coda per isbaglio. Si sa, una povera tosa non può sapere i regolamenti. L'hanno mandata in fila con un codazzo di rimproveri come se fosse stata la loro figliuola! Porconi! Non hanno creanza, non hanno. Ci vorrebbe…. Lo so ben io cosa ci vorrebbe. Acqua in bocca, che i tempi sono tristi.

—A me mi è toccato di peggio. Mi hanno lasciato il mio Alberto per ultimo perchè non aveva la lista scritta. Noi, povera gente, non si ha tempo di scrivere. Loro hanno un bel dire. Vorrei vederli al nostro posto. La ragione volete che ve la dica io? Hanno la bocca larga come quella dei coccodrilli e i denti in gola. Quella è la ragione. Ma i miei denari li mangio io. Sissignori, li mangio io. C'è già troppo da fare colle disgrazie che ci manda il Signore, per avere da pensare a queste sanguisughe che ci beverebbero tutto il sangue in una volta!

—Se ci fossero delle persone con due dita di testa ci lascierebbero entrare senza farci fare anticamera e senza buttar all'aria i cesti come se fosse roba rubata. Tirano fuori tutto, mettono le mani in tutto, cacciano il risotto nel salame, la torta nello stufato, le ciliege nell'insalata e l'arrosto nella minestra. Ci vuole dello stomaco a mangiare il soccorso.

—Non ditelo a me, per amor del cielo, che ho veduto quello che voialtri forse non avete veduto. Ho veduto al di là del terzo cancello come si trattano i cesti. Non ne avete idea. Non ci sarebbe che la morte che potrebbe farmi dimenticare il disgusto che ho provato in quella mattina che ho assistito a tanto scempio. Credetelo, in certi luoghi si ha più considerazione per i torsoli che si gettano ai maiali. Vuotavano i canestri come se fossero stati sacchi di patate. Rovesciavano sul tavolo tazzine, piatti, scodelle, tegami, stoviglie, senza badare se il condimento dell'insalata andava sul minestrone o se la marmellata si versava sull'arrosto. Erano sgarbati che facevano venire la rabbia. Ma quando si ha bisogno di loro, bisogna tacere. È una grande punizione questa che Dio ci ha mandata. Con lo stesso coltellaccio facevano tutto. Assaggiavano, tagliavano, mettevano sottosopra. Con lo stesso coltello infarinato e impiastricciato di intingoli affettavano le pera, rivoltavano la minestra e il risotto, dimezzavano il pane, facevano in due i limoni, sparavano i polli, dividevano lo stracotto, mettendosi in bocca ora una fetta di coratella, ora una striscia di anitra, tra le risate che facevano male. Riducevano le torte e i pasticci, fatti in casa chissà con quanti sacrifici, in una condizione compassionevole. Siate poveri diavoli e vedrete come è dura la vita. Voi state a casa a darvi del male per mettere assieme un pranzetto come si deve, per il povero diavolo che avete in prigione, correte come una disperata o prendete l'omnibus per farglielo mangiare caldo, e poi vedete che tutto va alla malora, che tutto diventa freddo, che tutto si mescola, le cose giulebbate con la carne arrostita nel brodo succoso e la cipollata col fegato nel piatto delle fragole o dei lamponi grossi come le more. Portate le uova fresche per tirar su lo stomaco a chi ne ha tanto bisogno e poi venite a sapere che gli sono arrivate in cella sfracellate, coi tuorli dispersi per le vivande. È una grande punizione questa che Dio ci ha mandata! Ah sì, non credevo che si potesse penare tanto a questo mondo! Si fa di tutto per risparmiare i soldi per un cartoccio di tabacco e al colloquio vi si dice che non avete cuore di lasciare il vostro uomo senza una pipata per passare il tempo che non passa mai!

—I sigari o il tabacco, pazienza. Se non si fuma, non si crepa. A me è andato perduto il cesto, una volta dopo l'altra, per due o tre giorni. Se non ci fosse stata una buona guardia, mio marito sarebbe morto consunto di fame. Con una pagnotta di regalo ha potuto tirar innanzi e scrivermi per domandarmi se ero morta, se l'avevo dimenticato. È stato un vero crepacuore. Gli avevo mandato un pranzo da far risuscitare i morti, un cesto pieno di grazia di Dio, e lui, povero diavolo, era rimasto in cella a straziare il mio nome onorato con delle ingiurie che non meritavo. Avete ragione voi, Antonia. È una grande punizione questa che Dio ci ha mandato!

Finalmente! I primi rintocchi rovesciarono la folla verso il banco delle guardie. La gente sgomitava, si sbuttonava, si riversava tenendo in alto i canestri, protendendo le borse e i fagotti, pregando di accettare la corba e supplicando gli agenti a essere buoni, che erano lì da un pezzo con la roba gelata.

Le guardie non avevano tempo da ascoltare storie. Prima della una dovevano verificare circa mille soccorsi. Prendevano quelli che capitavano loro alle mani, senza guardare e senza commuoversi. Chi non rispondeva sollecitamente alle domande, veniva lasciato col pranzo in mano. Ogni donna era obbligata a dire, in fretta e in furia, nome e cognome del detenuto, il numero della cella, se il padre e la madre erano morti o vivi.

—Cella 89, Giuseppe Agesilao, del fu Pietro e della vivente Teresa
Baragni.

—Avete fatta la lista?

E il braccio di chi non poteva farla vedere, veniva scansato e buttato dall'altra parte.

Alla una pomeridiana, le donne giunte tardi o rimaste tra quelle che non avevano potuto consegnare i fagotti, piangevano dirottamente.

La campana aveva chiusa la consegna e la campana non aveva budella.

Era un grande dolore rifare la strada con il mangiare, dopo aver fatto tanta fatica e avere speso tutto quello che c'era in casa per consolare i poveri cristi in prigione.

—Aveva ragione Antonia di dire che era una grande punizione questa che Dio ci aveva mandato!

__Il diario di un mese di Cellulare.__

La mia cella è una fornace. Ho il sole sulla muraglia esterna dal sorgere al tramonto del sole. Subisco una trasudazione che mi snerva. Preferisco però l'isolamento alla compagnia della stanza intermedia. Coi miei compagni sarei divenuto uno scemoide. A poco a poco il loro linguaggio antintellettuale e trivialmente sbracato sarebbe divenuto il mio. In otto giorni mi ero già abituato a passeggiare sull'ammattonato fracido dei loro sputacchiamenti.

Gli habitués del carcere manifestano ogni giorno, alle finestre, i loro rancori contro i cosidetti rivoluzionari. La polizia ne ha fatte delle retate e l'autorità carceraria ha dovuto affollarli nelle celle. Ci accusano di essere gli autori delle loro disgrazie. Dicono che i giudici, in conseguenza dei tumulti, sono diventati eccessivamente severi. Coloro che in tempi ordinarii se la sarebbero cavata con delle settimane o dei mesi, ritornano al Cellulare con degli anni di lavori forzati e di sorveglianza.

—La sorveglianza—disse uno di loro—conduce al domino (domicilio coatto).

Il capoguardia è uno sbilucione con tanto di pancia. In questo momento è impossibile dire se egli sia un burbero con del cuore o se sia in lui l'anima dell'aguzzino. Perchè il personale di custodia è come invaso dalla paura di riuscire mite. Parla a monosillabi, ha una voce che sente del carceriere e preferisce dire di no ai detenuti che gli domandano qualche cosa. Ieri, dopo tanta insistenza, ho ottenuto il permesso di tagliarmi le unghie vellutate e lunghe. Ma ho dovuto tagliarmele alla presenza di questo omaccione che rintuzza ogni desiderio col regolamento. Il suo ufficio è un bugigattolo in faccia all'ufficio di matricola. È in esso che ho avuto il primo colloquio. Il capo metteva la sua faccia tra la mia e quella del mio amico. Ci teneva addosso gli occhi semichiusi e ci interrompeva tutte le volte che tentavamo di parlare degli avvenimenti e di scambiarci notizie che sapevano tutti.

Gli ho ridomandato una cella a pagamento per avere il chiaro alla sera, la materassa sulla branda e un tavolino con la scranna.

—Ce ne sarebbero così delle persone che vorrebbero questi comodi! Abbiamo faticato a trasformare una cella a pagamento per don Davide Albertario, venuto qui il 24. Con un prete non potevamo fare diversamente. Con le guardie occupatissime siamo anzi obbligati a mandarlo al passeggio solo per impedire che qualche mascalzone lo insulti. Si sa, il Cellulare non è un collegio.

È suonata la campana che annuncia la distribuzione del pane. I prigionieri la chiamano la «voce di Dio». È un minuto di raccoglimento. Le finestre diventano quelle di un edificio disabitato. Non si sente più un'anima. I detenuti sono all'uscio ad aspettare che si apra l'usciuolo con la parola che li invade di piacere: «Pane»! Il distributore che è uno scopino la ripete a ogni pagnotta che passa per il buco. Lo ricevo anch'io, ma lo passo, colombando, al delinquente vicino alla mia cella che ha sempre fame. È un ragazzo di diciassette anni, scolorato come un onanista, e già recidivo. L'ultimo furto lo ha consumato nello studio del capomastro suo padrone. Egli si aspetta il dibattimento di giorno in giorno.

La vita carceraria è fatta per imbestiare le persone più buone e più altamente educate. Dall'oggi all'indomani si passa dal finimento da tavola alla scodella di terraglia del cane dell'accattone orbo. Non c'è più biancheria, non ci sono più posate, non ci sono più cristalli, non ci sono più tondi, più tondini, più fruttiere, più portampolle, più insalatiere, più portastecchi. Non c'è più che il maiale con un pezzaccio di legno scavato malamente in fondo.

Come, o signori, ma io sono un inquisito, sono una persona che deve essere creduta innocente fino all'ultima parola della Cassazione, e voi mi punite mettendomi in mano uno scopino disfatto e laido perchè mi scopi la cella, e voi mi obbligate, con le mie mani abituate ai guanti, a portare fuori e dentro la mia tana il vasone da notte come un latrinaio qualunque! No, accidenti, no, mi ribello! capite, mi ribello! Voi non siete autorizzati a punirmi. Voi dovete rispettare in me il cittadino anche se fossi uno squartadonne.

Ho perduto. Mi è toccato proprio scopare e mettere fuori le porcherie con le mie mani. La guardia al mio no! di stamane se n'è andata chiudendomi l'uscio sui piedi. Ella mi avrebbe fatto marcire nella puzza e nel sudiciume. Potevo ringraziare Dio—diceva—che non mi aveva fatto rapporto. I superiori mi avrebbero convinto che avevo torto, con dei giorni di pane e acqua.

Sia fatta la volontà degli altri. Ma se divento io direttore generale delle carceri!…

Noiosi! gente noiosa! Sono entrati per la seconda volta i battitori e mi hanno stordito. Battono i ferri delle finestre con un gusto e con dei finali che spaccano la testa. Tirlic-tirlac, tirlic-tirlac, tirlac, tirlac! Tirlic, tirlac, tirlic-tirlac, tirlac, tirlac, tirlac, tirlac, tirlac, lac, lac, lac, lac, lac!

Di che cosa avete paura? Come è possibile che io possa segare o schiantare i bastoni di ferro se mi avete fatto svestire e se vi siete assicurati che non è a mia disposizione neppure un chiodo? Se le vostre guardie non sono corrotte, voi potete smettere di sciupare il tempo e il personale per rintronarmi le orecchie!

Mi è rimasto in mano il manico del chiccherotto e la terraglia è andata in frantumi. È come se avessi rotto un caraffa di cristallo finissimo. C'è tutto il Cellulare sottosopra.

Il secondino di servizio guardò i cocci con aria di sospetto, fece un'annotazione e richiuse l'uscio. Rividi lo stesso agente con un sottocapo, il quale entrò a dare un'occhiatina ai frantumi.

—Come avete fatto a romperla?

—Cadde. Me ne faccia dare un'altra a mie spese.

—Uhm!

Stamattina sono stato chiamato ad «udienza». Tra le sette e le otto il direttore viene al centro della carcere, va in una stanza che partecipa della rotonda lambita dagli esagoni e dà «udienza».

Coloro che si sono fatti iscrivere e coloro che sono stati iscritti a loro insaputa, escono dalla cella al suono della campana che chiama a «udienza», discendono e si fermano sulla punta del raggio, dove aspettano che Minosse vada in sedia.

È una mezz'ora che l'ho veduto.

Il direttore era seduto a un tavolo di cucina, con la faccia sullo sfogliazzo e le braccia sul tavolo come pesi in riposo. Con una mano faceva dei segni rossi in margine al nome e con l'altra andava alla ricerca della pagina.

—Come avete fatto a romperla?

—Mi restò il manico in mano.

Mi entrò negli occhi come per precipitarsi negli abissi della mia coscienza e risalirne con la bugia in mano.

—Andate! mi disse.

Ho saputo dopo che ero stato condannato a pagarla. Non sono i venti o i trenta centesimi che mi fanno sprecare l'inchiostro. Ma io domando se è giustizia di farmi pagare un chiccherotto che mi si è dato slabbrato e pieno di crepe e che aveva servito a chi sa quanti detenuti. Vi pare, o signor direttore, è giusto che un poveraccio sconti col digiuno un avvenimento che può avvenire a voi, alle vostre figlie, alla vostra signora, alla vostra serva, a tutti coloro che bevono?

Mi tocca proprio dare dell'animale all'avvocato Guglielmo Gambarotta. È qui nel mio raggio, sullo stesso piano, ha la cella piena di volumi, mi ha lasciato supporre che mi avrebbe fatto fare un'indigestione di libri e poi mi tiene qui a penare e ad aspettarli ad ogni piede che passa! Che la guardia non abbia voluto prenderli? Ma e la «colomba», non ha ancora imparato a «colombare»?

Non ho ancora finito di scrivere l'interrogazione che sono stato chiamato alla spia da una voce sconosciuta.

—L'avvocato Gambarotta è uscito. Lo saluta.

—Chi siete?

Nessuna risposta. La sua uscita mi lasciò fantasticare. Che si sia incominciata la scarcerazione degli innocenti?

Il passeggio è monotono. È come un'altra cella scoperchiata. Il gruppo dei passeggi è di venti raggi che fanno capo a una rotonda di mattoni, circondata di pietre, sull'alto della quale è la guardia seduta che sorveglia i detenuti. In direzione opposta i raggi si slargano fino a far posto a una filata di otto uomini, l'uno al gomito dell'altro. Il cancello dalla parte più larga del passeggio ha un lastrone di ferro che impedisce di vedere il viso di chi passa. I muri divisori sono alti quattro metri, così che i passeggiatori di un passeggio non possono vedere, nè capire quello che dicono, i passeggiatori di un altro.

In venti raggi passeggiano dagli ottanta ai cento individui. Una volta che i raggi sono popolati, la guardia discende la scaletta che conduce alla sua altura con una manata di fidibus, li accende e li distribuisce, di raggio in raggio, ai fumatori.

—Fuoco!

Chiusi tra queste pareti vi accorgete subito che il detenuto che possegga un pezzo di matita lascia traccia della sua passeggiata, quantunque sia proibitissimo insudiciare o scrivere sui muri. In questi segni grafici io non vedo nè il grafomane, nè il delinquente. Vedo semplicemente l'individuo che dice sul muro quello che non può dire su un pezzetto di carta. Supponete che un condannato di ieri possa credere che i suoi amici, oggi o domani, passeranno per lo stesso passeggio. Non esiterà un minuto a scrivere: «Amici, salute. Condannato a 14 anni e otto mesi. Uscirò il 1913. Coraggio! Salutatemi la Nina. Addio.»

Si è detto che la muraglia è il libro della canaglia, perchè vi si leggono ideacce che non possono nascere nel cervello dei galantuomini. È dubbio. Io vorrei vedere costoro per qualche mese o qualche anno nello stesso ambiente. A nessuno di noi, liberi, viene in mente di scarabocchiare sui muri i «morte ai boia!» State in prigione e vi vedrete un giorno o l'altro trascinati a manifestare il vostro odio contro la spia che vi avrà denunciato, o al giudice per salvarsi, o alla guardia per ingraziarsela, o al direttore per ottenere qualche favore. Le stesse guardie carcerarie, le quali sovente sono vittime dello spionaggio, partecipano di questo sentimento che erompe e trova il suo sfogo sulle muraglie delle casematte, degli ergastoli, dei bagni di tutto il mondo. In Francia i delatori sono perseguitati sulle muraglie come in Italia.

—«Mort aux vaches

Ci è toccata la prima ora di passeggio. Si esce volentieri alla mattina, specialmente quando si ha avuto una notte fosforescente come quella passata. Non sarebbe mancata che l'imprudenza di un solfanello per metterci in mezzo alle fiamme. I miei compagni sono quelli di ieri.

Passeggiavano col piacere delle persone che godono mezzo mondo a sentirsi in mezzo all'aria fresca. Il detenuto che ha i capelli ritti come setole piantate nella testa, spingeva innanzi la faccia per sentirsela alitare sugli occhi. Andavamo in su e in giù fumacchiando e sparlando della direzione.

Un compagno ci raccontava che in un libro, che gli aveva prestato il cappellano, era detto che al bagno di Tolone i forzati avevano due arie di un'ora ciascuna. Qui invece ci si lesina anche quella poca ora regolamentare.

Col sistema della direzione che ci conta l'ora dal primo tocco della campana d'uscita al primo tocco della campana d'entrata, il prigioniero del Cellulare non sta mai a passeggio più di cinquanta minuti. Non c'è errore e ve lo dimostro. Siamo in un raggio di cento persone. Ci sono due o tre guardie di servizio. Le celle non si possono spalancare che tirando indietro il catenaccio. Mettete quattro o sei mani ad aprirle tutte, e poi ditemi se gli ultimi non devono uscire otto o dieci minuti dopo. La rientrata ha gli stessi inconvenienti. Perchè i primi a uscire sono anche i primi a rientrare. Il regolamento non è oscuro. Dice chiaro e tondo che ci si deve, nei giorni feriali, «almeno un'ora» e maggior tempo «alla domenica». Invece alla domenica ci si rubano degli altri minuti. Nei giorni domenicali non si sta mai a passeggio più di tre quarti d'ora. La ragione è che si aumentano i servizi con lo stesso personale di sorveglianza. È facile capire perchè non si protesta. Prima di tutto non è possibile trovarsi d'accordo in un carcere che ha tanti detenuti che vanno e vengono in un giorno. Poi si farebbe del male alle guardie che stanno più male di noi che abbiamo svaligiato o assassinato qualcuno. Hanno un servizio di diciassette o diciotto ore sulle ventiquattro e pagano, con le trattenute sullo stipendio ridevole, i pisolini notturni, e le mancanze che fuori di questo luogo farebbero storcere le budella dalle risa.

La barba lunga mi ha sempre fatto schifo. Al largo me la faccio radere una volta al giorno. In questo periodo di Bava Beccaris ho dovuto lasciarmela crescere quattordici giorni. I peli mi pungevano come tante pagliuzze.

Adesso sono sbarbato e non mi pento. Ma vi so dire che ho passato un brutto momento. È entrato nella mia cella un uomo che mi pareva avesse gli occhi lucidi del bevitore. Il suo alito puzzava di grappa e le maniche della sua giacca sucida erano lastricate del pattume del mestiere. A ogni movimento sputava in terra la saliva negra della cicca che egli rivolgeva come un boccone sotto i denti. Mi ha messo al collo uno straccio sporco come un cencio di cucina. Gli aveva servito per sbarbare un raggio intiero. A ogni rasoiata sudavo come sotto un'operazione chirurgica. Avevo sempre paura di vedermi cadere una sleppa di carne insanguinata. Sbatteva sul pavimento, che avevo reso lucido con le mie braccia, le ditate della spuma coi peli che si era accumulata sul suo rasoio. Il suo modo era spiccio. Dalla eminenza dello zigomo passava per la guancia come una strisciata di rasoio.

Lascia peli dappertutto, specialmente dove il rasoio non può scorrere liberamente, come nella pozzetta del mento.

Mi brucia la pelle della faccia come se fosse stata scorticata e ho ancora per il naso l'odore putrilaginoso del suo sapone orribile.

Stamattina riandavo la canzone:

C'est aujourd'hui mon jour de barbe

con piacere.

Alle undici maledivo il barbitonsore del Cellulare come un rasoio di punizione. Egli rade e punisce.

Mi sono messo in corrispondenza con uno scarpa internazionale che ha la cella al pianterreno. Fu lui che mi scrisse per dirmi che aveva letto tanti anni sono un mio libro.

Egli è il Rousseau dei borsaiuoli d'alto rango. Si sbottona senza reticenze. Egli è quello che è, e non ha bisogno di far misteri con uno che egli chiama un «dottore sociale». Non ha fatto studii, ma ha letto e viaggiato molto. In un bigliettino di ieri l'altro mi faceva sapere che non voleva nè la mia commiserazione, nè il mio compianto. «Il delitto della vita mi ha frustato e fatto saltare al di là della sbarra del codice penale, ed io non farò mai sforzo alcuno per rientrare nell'orbita della legge.»

Egli è divenuto la mia miniera. Mi sono attaccato a lui con la tenacia dei cercatori d'oro capitati in una terra aurifera. Per vederci egli mi scrisse di piegarmi sulle calcagna domattina al passeggio, vicino alla cancellata, in uno dei primi raggi, o di fare di tutto, con un pretesto qualunque, per mettermi fra gli ultimi. Indosserà un gilet e una giacca di velluto di seta e terrà il cappello duro in mano.

Mi sono stati raccontati gli ultimi particolari di Enrico Corio. Egli era un tipaccio di giovine che si lasciava concitare dalla libidine dinanzi la carne del suo sesso.

Dopo avere straziato il ragazzo fino alla strangolazione lo chiuse, nel luglio del 1896, in una fogna, credendo di seppellire con esso anche il delitto.

Al Cellulare, durante la lunga istruttoria, egli era preoccupatissimo di farsi credere innocente. Di carattere piuttosto esaltato, dava in ismanie, spesso, per convincere la guardia di servizio che egli era veramente mondo di ogni delitto. E quando gli si diceva che se era innocente non doveva avere paura, finiva per disperare della giustizia.

L'accusa non gli impediva di mangiare tutti i giorni con appetito sempre crescente.

Occupava la cella 53 del sesto raggio. Terminata l'istruttoria nell'aprile del 97, e saputo che avrebbe dovuto comparire dinanzi i giurati, divenne inquieto. Pare che non fosse più sicuro della sua innocenza.

Prima si lasciava trasportare e cercava di convincere le guardie che non sarebbe mica il primo che si manderebbe in galera innocente. La direzione, che temeva un tentato suicidio, gli mise alla spia una sorveglianza speciale e gli fece togliere dal letto le lenzuola che gli potevano servire per appendersi all'inferriata.

Era domenica, tre giorni prima del processo. In domenica le guardie sono spostate e sopraccariche di lavori. Il Corio aveva mangiato più del solito, perchè dopo il pranzo del bettoliniere gli era giunto anche il soccorso che gli aveva mandato o portato la moglie. Alle tre del pomeriggio era ancora vivo. La guardia era entrata e lo aveva sorpreso che stava lavando il fazzoletto senza sapone. Stava appunto mollificando la tela con la quale intendeva stringersi violentemente lagola. Alle tre e mezza lo si trovò sdraiato sulla branda, con la coperta fin su intorno al collo e la testa come affondata nel guanciale. Pareva addormentato, Il sangue gli aveva ammantata la faccia di un acceso bruno. Il fazzoletto bagnato con lo stringimento dell'uomo determinato a morire gli era entrato nella carne e gli si era perduto sotto il gonfiore. Tagliatogli il laccio tirò una fiatata che gli sollevò il petto. Egli era ancora tepido. Sul muro col lapis aveva scritto queste parole commoventi:

«Moglie mia, muoio innocente. Vieni a trovarmi al cimitero.»

Alla mattina del lunedì la Corte andò alla sua cella a redigere il verbale del suo suicidio, e la direzione mandò il cadavere a Musocco.

Le prove contro di lui erano schiaccianti. Incapace di resistere al fuoco dei testimoni, volle morire lasciando credere alla persona che gli era forse ancora cara che egli moriva vittima di un'accusa infame.

Non si capisce come un edificio di circa mille persone possa tirare innanzi senza un medico in casa. Una volta passata l'ora della visita medica, potete essere presi dai dolori di pancia, indemoniati da un'emicrania, disturbati dai crampi allo stomaco o istitichiti fino alla soffocazione da qualche porcheria che avete ingollato, non c'è più cane che si commuova del vostro malanno.

Pauroso di morire premete il bottoncino, fate cadere la banderuola per avvertire la guardia che avete bisogno di lei e poi le dite che state male, molto male.

—Non sarà niente. Domani mattina fatevi annunciare al medico.

—Signora guardia, non posso aspettare fino a domani. Mi sento morire ed ho come un martello nella testa che mi dà degli stiramenti nervosi fino al collo. Mi faccia la grazia di chiamarmi il medico. Veda come sudo. Sudo come in un bagno a vapore. Favorisca dirlo al direttore.

La guardia, se è buona, chiude l'uscio adagino dicendovi di avere pazienza che domattina sarete uno dei primi. Se è invece di quelle che fanno il mestieraccio senza sentire i dolori degli altri, vi scuote con una sfuriata di parole che vi lasciano tramortito e vi chiude l'uscio in faccia, dicendo che mancherebbe che si desse ascolto a tutte le frignate.

—Non dovevate andare in prigione, se eravate ammalato. Andate là che non morirete. Non è l'anno delle bestie cattive!

Al passeggio non parlavamo che di ammalati, di medici e di infermieri. I miei compagni erano d'accordo che non c'è carcere o reclusorio o ergastolo che abbia un'infermeria che s'avvicini a quella delle persone libere di due o tre secoli sono. È un'infermeria a celle o a stanzoni che passa sopra qualsiasi precauzione.

—Quella a celle deve essere preferibile.

—Illusione! È un'illusione di credere che quella a celle dia maggiore sicurezza di quelle a letti a poca distanza l'uno dall'altro. Forse voi non siete mai stato in infermeria. Io ci sono stato e mi sono convinto che è migliore quella a stanzoni e a finestroni. Almeno in uno spazio grandioso, coll'aria che si cambia più rapidamente, si respira più liberamente e si ha la consolazione di essere con qualcheduno.

—Convenite che in quella a sistema cellulare c'è meno pericolo d'infezione.

—Illusione, caro mio. Trovate un pretesto qualunque, fatevi condurre di sopra e scenderete del mio parere. Voi vedrete che le celle angustissime—larghe per un letto, col passaggio di un uomo che non sia troppo grosso—sono allineate su due file di un corridoio largo poco più di un metro. Avete capito? Gli ammalati, divisi dalle pareti, vivono in uno stesso ambiente e respirano la stessa aria.

—Con delle malattie contagiose state fresco.

—Così è del sistema curativo. V'immaginate un medico enciclopedico, che sa tutto, che non consulta che sè stesso, che si sbarazza in un'ora di cinquanta o sessanta ammalati raccolti nell'ottagono, alla presenza di tutte le guardie che vanno e vengono, di tutti i prigionieri che passano e ripassano, e che deve limitare le sue ricette a cinque giorni di latte, a delle polverine innocue o al pane bianco con tre dita di una carne soriana che non si lascia masticare che dai denti d'acciaio, in quattro dita di brodo così detto o di minestra così detta al brodo? Volete la mia opinione? Prima di abbandonarvi al delitto interrogate la vostra salute. Se non siete sanissimo, curatevi, evitate il pericolo di andare in prigione.

—Me l'ha detto anche la guardia, stamane. Non dovevate venire in prigione.

L'altro, quello coi capelli ritti, fece osservazioni di un altro genere.

—Non sono così pessimista, ma convengo che in tutto questo sistema c'è qualcosa di sbagliato. Vi racconto quello che è avvenuto a me in otto mesi di prigionia. Ho notato, prima di tutto, che per andare in infermeria bisogna essere più che moribondi. Il medico è sempre riluttante a mandarvi in una cella d'infermeria. E io non posso dargli torto. Una volta che egli vi accorda il permesso di sdraiarvi sulla branda, si sta meglio nella cella del raggio. In quest'ultima c'è più luce e aria più pura. Il guaio grave, secondo me, è che se m'annuncio ammalato mi si punisce sopprimendomi l'ora d'aria. Come, il mio malessere è forse dovuto alla mancanza di moto e d'aria libera e voi mi tappate in cella tutte le volte che vado dal medico?

Al detenuto che non abbia studiato bene il regolamento possono capitare giornate dolorose. La guardia di servizio tra le sei e le sette vi domanda: ammalato? qualche volta, salta una cella senza accorgersene. E spesso registra il trentatrè invece del trentacinque. Non c'è più rimedio. Bisogna stare attento domattina e suonare se non la si vede.

La settimana passata mi sono annunciato ammalato: la guardia mi rispose:

—Incominciate a mettere fuori la vostra pulizia—cioè a metter fuori il catino coll'acqua sporca, il vaso da notte e la spazzatura della cella.

Sono ammalato e si esige da me il servizio della pulizia!

Il quarto compagno è un galeotto. Egli è già stato in galera e ha fatto il giro di parecchie carceri giudiziarie.

—L'infermeria carceraria è una nota dolorosissima. A Milano gli ammalati sono trattati, direi quasi, meglio che negli altri luoghi. Ma qui e dappertutto ho dovuto convincermi che nei casi d'urgenza si muore come cani. Vi narrerò due casi che non ho ancora dimenticati. Ero a Bologna al tempo del processo Luraghi, Favilla, Platner e non so chi altro. Il Luraghi era alloggiato nella mia stanza con altri e il Platner dimorava in infermeria perchè sofferente di non so quale incomodo. Erano le nove di una notte buia. Qualcuno di noi russava e qualcuno di noi si voltava sui fianchi per addormentarsi. Sentimmo un grido d'uomo spaventato o d'uomo colto da un malore.

—Guardia! guardia!

La guardia non era vicina o era altrove o non sentiva.

—Guardia! guardia!

La voce del detenuto era diventata rantolosa.

—Guardia!… guardia!…

Dopo un quarto d'ora di questo lamento che ci lacerava il cuore sentimmo dei passi che andavano verso la cella del disgraziato.

—Che c'è? gli domandò la guardia.

—Sono ammalato…. muoio! Signore, fatemi morire!

—Adesso vado a prendere le chiavi.

Di notte le chiavi delle carceri sono in direzione. Nessuna guardia può aprire le celle. La parola lenta e straziante del disgraziato discendeva dal terzo al primo piano come un gemito che rimescolava il sangue.

—Muoio….

La guardia era in viaggio. Doveva discendere al piano terreno, passare una corte che non è mai finita, andare in ufficio, svegliare la guardia scelta in possesso delle chiavi e rifare la strada e le scale fino alla cella di colui che moriva.

Non esagero dicendo che ci vollero venti minuti. Le guardie, abituate a questi avvenimenti quotidiani o settimanali, ci fanno il callo.

Mezz'ora dopo sentimmo una moltitudine di piedi che discendeva e faceva tremare le pareti della scala come gente che portasse un peso enorme sulle spalle.

Il mio vicino di letto mi disse sottovoce:

—Lo portano via!

Vi fu un momento lugubre per tutta la camerata. Ciascuno era compreso della notizia e ciascuno pensava che un giorno o l'altro poteva trovarsi nella stessa condizione.

All'indomani si seppe che il detenuto era morto.

Il Luraghi che aveva visto il Platner ci raccontò la scena notturna.

—Ho veduto stamane il Platner, sbattuto come un individuo che non ha dormito. Gli chiesi se se si sentiva male.

—Non sto affatto bene. Stanotte poi non ho potuto chiudere occhio. Ci hanno portato su, verso le dieci, un uomo quasi morto. Spirò cinque minuti dopo che l'avevano adagiato sul letto. Morì mandando uno di quei gridi che restano nelle orecchie per tutta la vita. Pareva una voce di rame andata a schiantarsi su una pietra della muraglia. Se dovessi morire così anch'io? Senza un'anima che mi porga un bicchiere d'acqua o mi lenisca il passaggio dalla vita tribolata alla pace della tomba con una parola soave? Mi trovai sotto le coltri terrorizzato dal brivido che mi aveva dato il pensiero triste. Il medico? Egli è venuto troppo tardi. Passammo la notte a recitare il rosario dei morti. Col cadavere nella stanza non c'era altro da fare. Dopo la visita lo portarono nella cappella mortuaria. Povero diavolo! Nessuno sapeva chi fosse. Morto, aveva assunta un'aria così feroce che mi faceva chiudere gli occhi.

Il secondo episodio è identico al primo. Erano forse le dieci. Come al solito non potevo dormire. Luraghi mi raccontava un incidente del suo processo.

—Guardia! guardia!

Era un grido che usciva da una finestra delle celle disotto. Tra il grido e la chiave vi fu l'intervallo di una mezz'ora. Sentimmo i prigionieri della camerata che lo portarono in infermeria. Morì anche lui, poco dopo, senza sapere di che male moriva. Quando si fece vivo il medico, il sole era alto e gli ammalati avevano già pregato per la sua anima da tanto tempo.

Il Platner rinunciò all'infermeria.

La sera dopo era tra noi a ripeterci coi colori dell'ambiente quello che vi ho raccontato in poche parole.

Ci salutammo colla promessa che all'indomani mi avrebbero spiegato che cos'era la «pulce».

Questo sì che fa male! Non posso sentir piangere i ragazzi in prigione. Perchè li mettono in prigione come gli adulti?

Ce n'è uno che deve essere in fondo a una camerella sotterranea. Piange come una disperazione. Il suo lamento arriva nella mia cella come quello di uno che sia stato male ammazzato in una cantina. Ecco che grida più forte. Mamma! mamma! Taci, taci, tormento delle mie viscere, tu mi passi per le orecchie come uno spillone puntuto. Abbiate pietà di un povero ragazzo. Sentite come piange dirottamente! Con che voce chiama la mamma! Forse egli ha peccato, forse egli ha disubbidito, forse egli vi ha insultati, ma pensate ai suoi anni, perdonategli… Bravo, taci, mi fai tanto bene. Il pianto lo ha vinto. Probabilmente egli è sdraiato nel sonno. Se vedrò il cappellano farò di tutto per indurlo a gettarsi ai piedi del direttore. Non è un'umiliazione, quando si è impotenti, genuflettersi ai piedi della iena che lo ha rinchiuso. Il cappellano non c'è più. Me ne ricordo adesso. Egli è stato vittima non so se dell'autorità carceraria o militare. Peccato, era così buono. Ecco che si risveglia, santo cielo. Dormi, dormi, perchè morirai a piangere in questo modo.

—Oh mamma! mamma! oh la mia mamma!

Carnefici, non capite che vuole la mamma? Lasciatelo andare a casa, lasciatelo! Siate buoni, sono io che vi prego.

Che cosa volete che abbia fatto un fanciullo di pochi anni? Bisogna avere le viscere di ferro per resistere alle sue grida, che vanno al cuore come tante pugnalate! Potessi aiutarti, ma sono chiuso, ermeticamente chiuso in un buco. C'è nessuno che senta, che si commuova? E andai all'uscio e premetti il campanello, e feci cadere la banderuola.

—Che volete?

—Sentite come piange quel ragazzo!

—Badate ai fatti vostri!

—La «pulce» è una visita improvvisa. È avvenuta a me nelle carceri di Bologna. A Bologna nessuno entra nella cella. Chi fa la pulizia sono i detenuti incaricati dei servigi domestici. Il coperchio del bugliolo bacia bene e questo vasone da notte rimane chiuso in un buco che ha l'apertura anche lungo il corridoio esterno. Lo scopino lo porta via e ve lo rimette senza annoiare i detenuti nella stanza. Acqua, vino, cibi vengono serviti dal buco dello sportellino.

Eravamo in quattro. Si fumava. Io penso adesso, quando la Cassazione mi farà indossare la casacca del recluso, come potrò vivere senza fumare. Fumo più di quaranta sigarette al giorno.

Una volta ne fumavo cento. Eravamo dunque in quattro. Non si pensava a nulla. Si spalancò l'uscio senza darci tempo di buttar via sigarette e pipe. Entrarono quattro guardie, le quali, dopo averci ingiunto di non muoverci, ci ordinarono di spogliarci. Nudi ci fecero mettere in quella parte della stanza dove non era che la parete. Ci passarono le mani per il corpo dal capo ai piedi, ci guardarono tra le dita, ci frugarono per i capelli, ci palpeggiarono qua e là, ordinandoci di alzare le braccia e di fare dei passi. Poi ci passarono minutamente gli abiti premendoli, piegandoli, dissaccocciandoli, guardando dappertutto. Terminata questa visita minuziosa, la ricominciarono guardando negli angoli, sui banchi, dovunque poteva essere nascosto qualche cosa.

Sfecero il letto, cacciarono le mani nel pagliericcio, spiegarono la coperta, sgrupparono i fagotti e misero le mani nei tascapani. Non trovarono nulla. Pareva proprio che fossero alla ricerca delle pulci.

__Noterelle del mio amico alla matricola.__

Maggio 1898.

So quanto deve avere sofferto in una stanza con degli altri di un'altra condizione. Ma non ho potuto aiutarla. Dalla sua entrata sono avvenute cose incredibili. Il personale di custodia è terrorizzato. Noi scrivanelli non abbiamo più modo di entrare nei raggi dei politici. L'Astengo se n'è andato. Era un direttore umano. Il suo delitto è di avere permesso ai più grossi detenuti politici di pranzare insieme. Siccome non ci sono locali sufficienti e siccome anche nella cella i prigionieri sono appaiati per mancanza di spazio, così non si capisce il rigore della direzione carceraria di Roma. Provvisoriamente ha preso il suo posto l'ispettore De Luca. È uomo di cuore. Se ce lo lasciano non abbiamo perduto nulla. Ha fatto migliorare il vitto e non punisce che quelli che vogliono proprio essere puniti.

È la prima volta che mi capita di vedere una testa direttiva che riconosce i diritti dei carcerati. Di solito i direttori dei nostri giudiziari sono un po' come i direttori delle caserme dei forzati in Siberia, descritti dal Dostoïewsky—un autore che non mi lascia mai uscire dalla tristezza. Individui che hanno sempre bisogno di passare sul regolamento per schiacciare qualcuno o levare qualche cosa a qualcun altro.

Ho ricevuto la sua noticina. Si fidi pure. È un uomo che per me andrebbe nel fuoco. La guardia che sorveglia la sua cella non è cattiva, ma dice tutto quello che avviene nel suo raggio. È dunque pericolosa. Non ci sono stanze a pagamento a pagarle un occhio. È inutile strepitare. Procuri di adattarsi. Sono momenti eccezionali. Il suo pranzo è andato per due giorni in qualche altra cella. Si consoli che lo avrà mangiato un povero diavolo. La confusione è inevitabile. C'è una media di settecento soccorsi al giorno. Si raccomandi alla madonna perchè non le capiti qualcosa di peggio. Va bene, va bene. Dia sempre retta ai miei suggerimenti. Io la so più lunga di lei e non lo dico per vantarmi. Lo dico perchè la mia esperienza è più lunga della sua. Ascolti attentamente. Un buon prigioniero deve essere sempre pronto a subire la perquisizione. Ravvolga i miei fogliolini nella carta incerata che le mando e appenda il sacchetto dove la camicia è più nascosta. In queste giornate di sorprese è una precauzione necessaria.

Sugli arrestati di maggio non posso giovarle molto, perchè una volta registrati noi non abbiamo più alcuna comunicazione con loro.

Il giorno sette, cioè sabato, eravamo qui che aspettavamo, di minuto in minuto, gli arrestati della giornata. Ma non abbiamo registrato che quattro imputati di delitti comuni, completamente estranei ai tumulti. Non ricordo bene la data dei primi rivoltosi capitati al cellulare. So che i primi sono entrati alle sei ore mattina, la seconda o terza giornata che fosse dei tumulti di Milano. Erano gli arrestati di porta Ticinese. Sono giunti in uno stato da far pietà ai sassi. Erano stati trattenuti, nella caserma di S. Eustorgio, più di quarant'ore colle manette ai polsi. È un po' troppo. Non siamo mica in Russia. La mia speranza era il dubbio. Non volevo credere che ci fosse gente con tanto di pelo sullo stomaco. Ho interrogato coloro che li avevano accompagnati al Cellulare. Il fatto è vero. Le autorità militari, senza locali adatti, avevano dovuto assicurarsi dei barricatisti con le manette. Poca gente di buono e fra loro parecchi già noti ai nostri registri.

Il grosso convoglio degli arrestati è stato quello di domenica. Parlo sempre delle quattro giornate. Era accompagnato dal delegato Birondi. Egli entrò nella nostra stanza smorto che faceva paura. Ci si diceva che aveva sofferto orribilmente a passare per le vie con tanti arrestati e cogli ordini severi che avevano soldati e agenti di P. S. Un molla! molla! di qualche matto al largo poteva far nascere chi sa che tragedia. Tra gli arrestati c'erano il deputato De Andreis, il direttore dell'Italia del Popolo, l'avvocato Romussi, direttore del Secolo, l'avvocato Federici, Valentini, ex direttore della Sera, Ulisse Cermenati dell'Italia del Popolo e il professore Gilardi del Secolo.

Lunedì ho registrato gli onorevoli Turati e Bissolati e la dottora
Anna Kuliscioff.

Il Turati, non appena libero dalle manette, ci disse che non era nuovo ai nostri registri. Era stato qui, non so quando, a scontare una sentenza per un reato di stampa.

L'avvocato Leonida Bissolati, direttore dell'Avanti!, parla con la grazia di una signora altamente educata. È tutt'assieme una faccia intelligente ammantata di un'ombra spirituale. So che ha tradotto Carlo Marx con un suo amico cremonese. Ma non ho mai potuto leggerlo. Non c'è ancora nella nostra biblioteca. Se avrà occasione di vederlo me lo saluti tanto e gli dica della mia simpatia per lui.

La dottora venne registrata dopo. Io non l'ho veduta. Ma mi s'è detto che essa è venuta qui in vestaglia. È stata arrestata alle cinque del mattino in casa sua e non le si è dato tempo neppure di acconciarsi alla meglio. La sua guardiana mi ha raccontato che la prima cosa che fece in cella fu di accendere una sigaretta. Ho saputo che è una fumatrice instancabile.

È avvenuto quello che doveva avvenire. Coi continui arresti non sappiamo più dove mettere gli arrestati. Ieri eravamo 1048. Il numero eccessivo ha obbligato il direttore a ficcarne, parecchi, tre per cella, coi pagliericci in terra. Fortuna che non fa troppo caldo. L'ultimo pesce grosso che registrai fu don Davide Albertario. È alto, dalle forme erculee. Venne da San Fedele con una comitiva di venti individui della peggior specie. Quasi tutti recidivi. Per impedire agli screanzati di dirgli qualche insolenza, il direttore lo manda al passeggio solo. Mangia bene e riceve il pranzo e la colazione da una trattoria esterna. Fuma anche lui come un turco. Dopo alcuni giorni gli concessero, come ai deputati e ai giornalisti, carta, penna e calamaio. Scrive tutto il giorno ed è sempre in nota per della carta. Deve essere un grafomane.

Domenica si sarà accorto che diceva messa un'altra voce. Il cappellano Enrico Villa è stato sospeso e non può più mettere piede nel carcere. Al suo posto officiava un frate. Lei sa che io sono religioso e può darsi che pecchi d'indulgenza. Ma credo che sia impossibile trovare un cappellano come don Enrico. Era un sacerdote che adempiva al suo ministero con entusiasmo. Lo si vedeva andare e venire come il moto perpetuo. Appena uno era in cella, andava a trovarlo, a consolarlo, a incoraggiarlo. Non lasciava mai alcuno senza libri e diceva a tutti parole che aiutavano a tirare innanzi la vitaccia del cellularizzato.

Il nuovo direttore è tra noi come un flagello. Non dissimula. È una sovrapotenza assoluta, arricchita dalla funzione di punire. È in lui come una spaventevole rettitudine. Respira il dolore degli altri come una donna virtuosa la spiritualità dell'incenso.

La sua vanteria è di essere il direttore che ha fatto mangiare, come si esprime lui, più cella di rigore ai detenuti di tutti i direttori d'Italia. Le guardie che vogliono entrare nelle sue grazie devono dargli ogni mattina prova del loro zelo. Non si sono mai visti tanti puniti a pane ed acqua come in questi giorni. Se qualcuno si lamenta dicendo che la sua infrazione non è di quelle punibili col regolamento, il direttore gli risponde, in modo piuttosto brusco, che il regolamento interno del carcere lo fa lui, perchè ne è il giudice e il responsabile.

Il mio compagno all'ufficio di matricola è stato castigato stamane con dieci giorni di camicia di forza. La sua mancanza era grave. Aveva dato uno schiaffo a un collega che lo aveva accusato di poltroneria in questi giorni che non abbiamo avuto tempo neanche di dormire! Era qui con me da diciannove mesi. Lavorava come un negro ed era forse, tra noi, il più intelligente. Dopo un semestre di tirocinio gratis il suo «stipendio», per un lavoro di diciotto ore sulle ventiquattro, era di dodici lire il mese. Aspetti a dire che non c'era male. Perchè il governo, sulle dodici lire guadagnate dal detenuto, se ne prende sette e venti. Non ho mai capito perchè il governo si trattiene sui guadagni dei carcerati il sessanta per cento. Per me è una truffa. E lo dirò sempre anche se si tenterà di convincermi del contrario, come si è già fatto, mettendomi nella camicia di forza. Rubare al detenuto è il più delittuoso dei delitti. Non le pare?

La camicia di forza è di tela grossolana come quelle delle brande dei soldati e va giù fin quasi alle ginocchia. Gli occhielli per stringervi il condannato al supplizio corrono per il dorso da una estremità all'altra. Le maniche non hanno uscita per le mani. Il supplizio maggiore è intorno al collo. È una tela rigida che lo sega. Se le guardie incaricate di chiudervi l'individuo non sono umane, la camicia di forza diventa una vera tortura. Io credevo di non arrivare alla fine. Vi respiravo con una fatica rantolosa e lo stringimento mi dava una molestia che mi faceva impazzire. Dopo qualche ora passata con le braccia legate sulla schiena, come Gesù Cristo, diventai furioso. Gridavo, mi rotolavo per il suolo della cella buia e sotterranea con degli sforzi per liberarmi dal camiciotto che mi dava un tormento spasmodico, ma nessuno veniva a calmarmi o a vedermi. Non fu che il sonno che mi diede un po' di requie. Molti dei condannati al camiciotto che sopprime ogni movimento, implorano la commutazione del castigo. Preferiscono un periodo più lungo di camerella con pane e acqua alla tela che pigia le carni su sè stesse con intendimenti assassini. Ma è difficile che si riesca ad ammansare i direttori. La clemenza non è il loro forte. Ho conosciuto un detenuto, imbestialito dagli spasimi atroci, che portò via coi denti un pezzo del tavolato sul quale doveva dormire.

La maggioranza tace. Essa soffre il supplizio senza mandare un lamento. Ci sono individui che si farebbero attanagliare piuttosto che domandare perdono al loro carnefice, come ci sono nature che possono resistere a tutte le pene dell'inferno.

Il regolamento è meno scellerato dei loro interpreti. Esso dà dei riposi anche alla camicia di forza e ingiunge che dopo quarantotto ore consecutive rimanga inoperosa per ventiquattro.

Le infrazioni di poco conto, come le infrazioni al silenzio, sono punite secondo il sistema del direttore. Alcuni—e sono, mi pare, i più saggi—puniscono con la soppressione del diritto al passeggio per tre giorni, altri preferiscono dare addosso allo stomaco dei disgraziati. Diminuiscono loro la razione del pane di trecento grammi o l'aumentano dello stesso peso sopprimendo loro la minestra. La diminuzione del cibo del carcerato non è un castigo. È un omicidio. Il povero diavolo che sconta parecchie di queste sentenze, anche se rimane in vita, non è più un uomo. È un invalido. Glielo dice uno che studia l'ambiente da qualche anno.

La seconda infrazione al regolamento aggiunge alla dieta assassina la cella di rigore o il rigore del cubicolo o cella sotterranea, dove ero io quando avevo la camicia di forza.

Se l'infrazione commessa dal detenuto deve essere punita con più di dieci giorni, allora si raduna d'urgenza il Consiglio composto del direttore, del contabile, del capoguardia e del cappellano. Bisognerebbe essere imbecilli per credere all'indipendenza dei subordinati di un direttore di carcere. Una volta fatto questo Consiglio, non si esce che condannati. È inutile che le dica che le guardie hanno sempre ragione.

Non so se le hanno detto che sono qui anche Vittorio Luraghi, l'Herra e l'avvocato Gelmi. Del secondo non le parlo. Mi pare un incosciente. Non dimentichi che io sono un condannato comune come loro, e che perciò sento profondamente il loro grido angoscioso di gente finita. Di me non ho compassione. Se mi risovvengo dei miei trascorsi gli è per punirmi con una serqua di vituperi. Con gli altri, sono indulgente. Trovo in ogni loro delitto una scusa.

Nell'Herra non c'è nulla del Roberto Macaire. Non ne ha nè l'astuzia, nè l'inquietudine, nè l'audacia. È in cella come un rassegnato. Egli è caduto come una ragazza che si lascia abbracciare con un bacio lungo.—Lo aspettiamo alla matricola. Il direttore gli ha promesso un posto di scrivanello.

Il Luraghi mi desta una compassione indicibile. Tutte le volte che posso andare nella cella mi sento riempire gli occhi. Non mi parla mai dei suoi patimenti. Non mi parla che della sua mamma. Egli la piange come uno sciagurato che dispera. Mi diceva l'altro giorno che la sua povera vecchia di ottant'anni è il suo grande tormento. Ha paura di non poterla più vedere. Perdere i denari, perdere una fortuna nelle speculazioni bancarie è una cosa che si può anche sopportare. Ma perdere la mamma che si adora, in prigione, è superiore alle forze del condannato. Io spero che questo terribile dolore gli sarà risparmiato.

La sua vita è triste. Non spende per il vitto che una media di due lire il giorno. Non va mai al passeggio. Gli ho detto più di una volta che fa male. Che il moto è una necessità dell'esistenza carceraria. Ma non sono riuscito a smuoverlo. È testardo, è nemico della propria salute. Un giorno o l'altro lo porteranno in infermeria perchè non potrà più andarvi con le sue gambe. Fuma e legge avidamente. Il suo disgusto è per i battitori e per le mani dei secondini che lo palpeggiano.

L'avvocato Gelmi è un altro anacoreta che non vuol uscire dal suo guscio. Non so se sia povero o se voglia tenersi i quattrini. So che mangia come tutti i prigionieri che non hanno da spendere. Col suo, non si compera che cinque centesimi di latte. Le confesso che non ha le mie simpatie, pur essendo in questo luogo. Per me egli è troppo furbo e i furbi mi spaventano. La mia ripugnanza per lui non mi ha impedito di domandargli alcune note per il suo libro. Ma egli mi ha risposto che non potrebbe aderire al mio desiderio che commettendo un parricidio. Non appena ritornerà tra i vivi, pubblicherà un'opera intitolata: La Bancarotta della Giustizia. La prega di perdonargli questa gelosia di mestiere, concepibile in un uomo che ha bazzicato nella redazione di qualche giornale letterario.

Non si dimentichi delle tre giornate di gozzoviglia carceraria. Sono tre giornate che si segnano lungo l'anno colla matita rossa.

Alcuni si preparano la pancia come se dovessero andare a un banchetto. A Natale, a Pasqua e nel giorno dello Statuto ci si serve un pranzetto che ci fa venire l'acquolina. Invece di darci la solita sboba terrosa, ci si porta un piatto di pasta asciutta o un piattone di risotto giallo fumante, con della cipolla arrostita e annerita che mette in mente i funghi, con ottanta grammi di carne in umido che commuove le budella. Di vino non ce n'è che un bicchiere. Ma anche brusco, per la gola che non beve che acqua, diventa del Falerno o del Ghemme. Ah, il Ghemme!

È stato la mia perdizione. Vorrei essere fuori per inaffiarmene il ventre. Mi piace il Ghemme. Con tre o quattro bicchieri di questo vino sfido un esercito.

Fuori di queste giornate, non c'è che l'avvenimento reale che possa portarci del benessere.

Va a nozze un principe, o nasce una principessa, o accade al re qualche cosa che viene celebrato come una gioia nazionale? Il prigioniero rinasce. Egli vede una sosta nell'applicazione del regolamento e sogna una diminuzione della pena. Egli è sicuro che si distribuiranno dei piattoni di risotto e della carne annegata nella bagna e che verranno probabilmente delle grazie.

Questa è una delle ragioni per cui in carcere siamo più monarchici del re. Non è che lui che si ricordi degli afflitti sepolti nelle celle. È lui che ci diminuisce i tormenti. Pur troppo non sempre. Ma qualche volta, qualcuno gode di questa sua prerogativa. È il re che ci fa mangiare un po' meglio quando il suo cuore è in giubilo. E non vi maraviglierete, o signori increduli, se vi dico che gliene siamo grati e se aggiungo che più di una volta gridiamo viva il re! viva la regina! con entusiasmo.

Stanotte abbiamo avuto un aumento di detenuti senza aprire il portone d'entrata. È nato un bimbo. Mi dicono che sia belloccio. È sempre così. I figli dei tribolati sbucano dall'utero fiorenti di salute. Sembra che le loro madri siano state lì a covarli nella bambagia, mangiando bene e bevendo meglio.

La guardiana, che è venuta dabbasso, mi ha assicurato che ha le guance rosse come una mela e gli occhi azzurrati e lucidi da mangiarseli a baci.

La madre è una ragazza di vent'anni, o di circa vent'anni, recidiva, abituata ai furti domestici.

Sa far da mangiare, sa stirare, sa rammendare, ma sa anche involare la roba dei padroni. Non c'è pericolo che se ne vada da una casa senza lasciarvi il segno delle proprie dita. La colpa è forse del suo amante che vive, sovente, alle sue spalle.

Durante la mia breve carriera di matricolatore, l'ho registrata nel librone infame tre volte. Il bimbo, anche se nato nella carcere, non viene registrato. Il regolamento non permette di mettere a matricola che i ragazzi superiori ai due anni. Il legislatore deve avere creduto che, se si può nascere delinquenti, si possono commettere delitti anche in fasce. Il bimbo della ladra verrà mandato all'ospizio dei bambini lattanti.

I questuanti sono una vera piaga. Vanno e ritornano periodicamente, eternamente. Dicono che qui si sta meglio che fuori. Qui, hanno l'alloggio e il vitto sicuri. Fuori, sono perseguitati, o inseguiti, o trattati come cani e agguantati come birbe non appena stendono la mano o cercano di appollaiarsi in qualche luogo.

Il maggior contingente degli accattoni lo dà la campagna. Mi è capitato di registrare dei pezzi di giovinetti che mi facevano venire sulla lingua una folata di interrogazioni. Ma loro me le portavano via dicendo che in campagna, d'inverno, non si trova lavoro. E anche d'inverno, loro, i loro figli e le loro donne, non si dimenticano di mangiare.

Dal dicembre del '97 al maggio '98, la questura ce ne ha condotti al
Cellulare una media di quindici al giorno.

I pretori li condannano da tre giorni a un mese di detenzione.

C'è per aria qualche cosa di grosso. Da domani non potrò più tenerla al corrente. Il nostro amico è sospetto e la vigilanza è stata raddoppiata. Le guardie cambieranno raggio magari ogni giorno. Il loro posto non lo sapranno che al momento di andare in servizio. Non si scoraggi e lasci passare la bufera. Dopo vedrà che non mi chiamo mica quello che mi chiamo per nulla. Mi cambi il nome se non riuscirò a riallacciare il filo stroncato dal temporale.

__La pagina intima del processo dei giornalisti.__

Il processo dei ventiquattro è stato chiamato dei giornalisti per fare del lusso.¹

¹ Il processo dei giornalisti è stato il più strepitoso di tutti i processi delle Corti militari. I Tribunali—divenuti quotidiani durante lo stato d'assedio—hanno raggiunto, con esso, la massima tiratura, di 35.000 copie. Col processo dei deputati l'interesse era diminuito e la tiratura discese alle 10.000.

In verità, i giornalisti rappresentavano la minoranza. Tanto è vero che ciascuno di loro leggeva l'atto d'accusa facendo tanto d'occhi.

—Come, che c'entro io con costoro?

Si conobbero, o almeno si videro, alle tre del mattino del 15 giugno 1898, nella stanza ove si «caricano e si scaricano» gli arrestati che vanno e vengono dal Cellulare. Fuori e dentro c'era ressa di carabinieri silenziosi, tetri, colle mani piene di ferri. Il loro capo era un capitano con l'occhialino nel cavo dell'orbita, con una cera accigliata, con due baffi marziali, che passava da una parte all'altra, col frustino in mano, facendo risuonare gli speroni degli alti stivali alla scudiera, mentre assisteva all'ammanettamento.

Romussi pareva un po' più ingrigiato. Era ilare, salutava gli amici e presentava i polsi al suo ammanettatore con la faccia illuminata dal sorriso. I carabinieri giovani che adempivano a questo servizio erano più spietati dei vecchi. Continuavano a dare dei giri anche quando si diceva loro che i polsi facevano sangue.

Don Davide era conosciuto da tutti, ma lui, personalmente, non conosceva che l'avvocato Romussi, Valera e Zavattari. Non si capiva se era seccato in mezzo a tanti ignoti che lo guardavano come una bestia rara. Il capitano lo squadrò dal capo ai piedi, gli girò intorno col fare di un domatore di belve, e si voltò dall'altra parte percotendo leggermente lo stivalone. Si capiva che l'aveva su coi preti o che ci aveva gusto a vederne uno nelle peste.

Don Davide pareva imbronciato. Rispondeva al buon giorno di qualche amico con la voce grossa di chi è in collera con sè stesso.

La sua veste talare ambrosiana e il suo paltò di panno nero sentivano il bisogno di parecchie spazzolate. Indossava la veste, cinta dalla fascia di seta nera, dal giorno in cui dieci tra carabinieri e soldati di linea entrarono nella casa paterna di Filighera ad arrestarlo. Il suo paltò polveroso era stato buttato nell'angolo della cella dal momento che vi era entrato.

L'avvocato Bortolo Federici, noto a molti come repubblicano, attirava l'attenzione di parecchi per il suo cappello Oberdan nero, sopra un «completo» caffè scuro. Zavattari era abbattuto, dimagrato, colle guance infossate e biancastre e con le mani che tremavano come se avesse avuto la febbre. A uno degli arrestati, che gli aveva dato il buon giorno, rispose che era ammalato, gravemente ammalato e che, se non lo si lasciava andare presto, sarebbe morto in prigione. Fu una nota che diffuse un po' di tristezza in coloro che gli erano vicini. I carrettoni che li portavano al Castello erano nicchie che obbligavano gli ammanettati a stare con le labbra ai fori della respirazione.

Smontarono nel cortile ducale pallidi come cadaveri. Il primo a discendere fu Del Vecchio, un omettino che nessuno, prima dell'accusa, aveva sospettato che fosse un leone capace di arringare la folla sulle barricate. Girava gli occhi come trasecolato. Non sapeva trovare una parola e non seppe trovarla neanche al processo. Accompagnati da molti carabinieri, si fecero passare in mezzo a due file di soldati e salire per le scale anguste, al primo e al secondo piano, disperdendoli per gli stanzoni anticamente occupati dalla Corte degli Sforza. Lungo la ringhiera del primo piano, avevano messo Chiesi, Seneci, Cermenati, Federici, Valera, Lallici, Ghiglioni, Romussi. Al secondo piano, Lazzari, Valsecchi, Zavattari, qualche altro socialista, parecchi anarchici e il direttore dell'Osservatore Cattolico, il quale occupava la stanza N. 10, colla finestra sul tetto che gli lasciava entrare l'aria, il vento e la pioggia. Il primo temporale della seconda notte lo obbligò a salvarsi dall'acqua torrenziale che lo aveva sorpreso in letto in mutande.

I buchi al centro degli usci dei ventiquattro processandi permettevano di andare cogli occhi negli stanzoni in faccia, gremiti di arrestati. Davano a volte l'impressione di un immenso lazzaretto pieno di colerosi, e a volte di lunghi corridoi affollati di insorti che agitavano entusiasticamente i cappelli, i fazzoletti e le mani.

All'uscio di ciascuno dei ventiquattro, era una sentinella. Al minimo rumore che la seccava, metteva la bocca al buco e diceva:

—Eh, fate silenzio o vi mando dentro una pallottola!

Più di uno degli arrestati, per proteggersi dalla «pallottola», è stato obbligato a far chiamare il capoposto. Don Davide, che non ha mai avuto paura di farla a pugni con coloro che lo hanno insultato e come uomo e come prete, nella sua stanza si sentiva a disagio. Temeva sempre che un Misdea qualunque o una sentinella che esagerasse nella consegna lo allungasse cadavere. Una sera, mentre passeggiava fumando un virginia, una sentinella, che doveva essere anticlericale, continuava a perseguitarlo dalla spia dicendogli di non fare fracasso, di buttare via il sigaro che era proibito fumare e di andare a letto se non voleva che ve lo mandasse lui.

Il sacerdote, che non aveva angolo che non fosse visibile alla bocca di fuoco, venne preso da una specie di panico che lo obbligò a chiamare ad alta voce il capoposto, il quale, per fortuna, era un chierico.

I ventiquattro, dopo dieci ore di processo, ritornavano in camera sfiniti o stracchi morti, mangiavano un boccone e si buttavano sul pagliericcio con la speranza d'addormentarsi subito e dimenticare ciò che avevano sentito nella giornata. Le venti o le trenta sentinelle, alla distanza di pochi passi l'una dall'altra, alle otto precise incominciavano a gridare con delle voci sgangherate: Sentinella all'ertaaa!—All'erta stooo! Sentinella all'ertaaa!—All'erta stooo!—Sentinella all'ertaaa!—All'erta stooo!—Sentinella all'ertaaaaaaaa!—All'erta stoooooooo!—Sentinella all'ertaaaaaaa!—All'erta stooooooooooooooooo!

Una voce seguiva l'altra con degli o e degli a larghi che spesso morivano nell'aria come un'agonia e talvolta si rompevano con un fracasso che metteva sottosopra il cervello dei detenuti che non potevano dormire. E dopo dieci o quindici minuti di riposo, ricominciavano a gettare le voci per lo spazio più sgangherate di prima.

Gli accusati si alzavano al suono della campana con le occhiaie della gente che patisce d'insonnia. Il direttore del Secolo, che non può dormire che al buio e in un luogo tranquillo, tormentato dalle grida degli incappottati, si voltava e si rivoltava sul giaciglio anche quando aveva preso un po' di solfonal o di trional.

Il Chiesi, che non sa leggere in letto perchè gli si chiudono subito gli occhi, in Castello aveva dei momenti di disperazione perchè non gli si concedeva il riposo notturno. Ulisse Cermenati, che sa stare ritto sulle gambe, andava al processo dinoccolato e pieno di sonno, e Federici raccontava agli amici che accendeva, spengeva e riaccendeva il lume con dei tentativi di passare la notte leggendo.

Si credeva che il processo fosse ancora più sommario di quello che è stato. E ognuno che aveva qualcosa da dire si era alzato nell'ultima notte prima dell'alba, col permesso del capoguardia, a buttar giù qualche nota. Alcuni dei ventiquattro avrebbero voluto che si fosse andati al Tribunale col proposito dell'on. A. Costa, quando era tra gli arrestati al Cellulare. Lasciarsi trascinare dinanzi il Tribunale di guerra senza dire una parola.

Ma quest'idea non ha potuto prevalere, un po' perchè non si conoscevano tutti, un po' perchè nessuno poteva comunicare coll'altro e un po' perchè gli accusati appartenevano a diversi partiti in lotta fra di loro. Valera, andata a male la proposta del silenzio, credeva che sarebbe stato utile, per suo conto, di servirsi del sistema di O' Donovan Rossa, cioè di guadagnar tempo e provare, con la lettura dei documenti sparsi per i libri e per i giornali, che l'Italia era gravida di socialismo.

Ma il tampone presidenziale gli è stato messo in bocca tante volte che dovette sedere come un uomo letteralmente imbavagliato.

Il sistema di O' Donovan Rossa, il quale, tra parentesi, non era ancora il capo dei dinamitardi, era di valersi del Tribunale per far conoscere al popolo la condizione del suo paese e protrarre il giorno della sentenza con la lettura della storia irlandese attraverso gli ottantatrè Acts o leggi eccezionali, che avevano coercizzata la nazione per punirla di domandare con insistenza la libertà che avevano gli Inglesi.

Dopo tre giorni il giudice tappò la bocca al feniano, ma il suo sistema divenne un'arma poderosa nella Camera dei Comuni, ove i parnellisti costringevano i deputati coercizionisti ad assistere a delle sedute parlamentari che duravano perfino quarantadue ore e impedivano ai ministri, per delle settimane e dei mesi, di far votare i bills che dovevano imbavagliare gli Irlandesi.

Don Davide, che era sempre stato tenuto separato dagli altri e che anche al Cellulare si mandava al passeggio da solo, si era preparata un'autodifesa di circa venti o venticinque fogli da protocollo, per provare, con grande semplicità, la sua innocenza. Cominciava dal dire di ignorare il perchè era stato arrestato, carcerato e condotto al Tribunale, e tirava via affermando che, nè direttamente, nè indirettamente, aveva mai preso parte ai tumulti.

«Non solo, diceva egli in terza persona, nè indirettamente, nè direttamente non ha preso parte a tumulti, ma sempre in vita sua usò dello scritto e della parola per l'ordine nella religione, maestra di rispetto, fonte di civiltà e di proprietà. Lo stesso avvocato fiscale che lo incolpa di fini speciali, confessa di non sapere il perchè lo si perseguita. Fini speciali? Dunque, non connivenze con altri partiti, ma un'azione solitaria. Quale? Repubblicana, no; socialista, no; dunque? Distruzione dell'Italia attuale e ricostituzione del poter temporale del papa; questo, suppone l'accusatore. Ora, questo è assurdo, perchè don Davide Albertario in proposito ha per programma di attenersi a quello che gli altri poteri, l'ecclesiastico e il laicale, concertino tra di loro.

«Domando dunque, concludeva don Davide, che mi si lasci libero al mio lavoro benefico, al mio altare, alla mia famiglia. Sono cittadino e sacerdote e scrittore che ha fatto il suo dovere. Non rapitemi la libertà. L'onore, nè voi nè nessuno me lo rapiranno giammai. Rimandatemi al mio luogo di lavoro.»

Romussi, che, come tutti sanno, è un lavoratore instancabile, si era alzato alle due antimeridiane a gettar giù cartelle sopra cartelle, dolendosi, di tanto in tanto, di non avere avuto con sè la collezione del Secolo per poter documentare la sua vita di giornalista.

Ciononostante, scrisse un mucchio di cartelle che sono state distrutte o perdute.

Al Castello vi doveva essere un raccoglitore di manoscritti. Perchè di tanto in tanto si sentiva qualcuno dei ventiquattro lamentarsi di avere smarrito dei foglietti pieni delle idee che intendeva svolgere al Tribunale militare. Don Davide fu il più sventurato di tutti. Perchè, oltre all'avere sciupata la fatica per l'autodifesa, trovò che una mano ignota gli aveva involato dalla valigia un manoscritto ch'egli aveva preparato nelle lugubri giornate al Cellulare e che intendeva pubblicare subito dopo la sentenza. Egli ha potuto far avere a me una di queste cartelle, scritta con una calligrafia quasi femminile, e piena di parole feroci contro quelli che chiama i suoi delatori.

La cosa più noiosa durante gli otto giorni di processo erano le manette. A tutti noi si mettevano i ferri quando si usciva dalla stanza per andare al tribunale nel cortile della Rocchetta, quando dal tribunale si era accompagnati nella stanza a far colazione, quando ci si riconduceva sul banco degli accusati e quando ci si riconsegnava al secondino per essere chiusi in prigione fino all'indomani alla stessa ora. Lungo il passaggio tra un cortile e l'altro, v'era sempre folla. In quello ducale, era una siepe di ufficiali che amavano vedere da vicino queste persone pubbliche che avevano scritto delittuosamente nel giornale socialista, repubblicano, radicale, liberale, cattolico. In quello della Rocchetta, era la moltitudine, composta di curiosi, di amici, di preti, di soldati, che sgomitava per mettersi in prima fila a vedere, salutare, commuoversi, piangere. Si vedevano persone che si tergevano le lagrime col dorso della mano, persone che agitavano il cappello per dir loro: coraggio! e persone che levavano in alto le mani giunte per tradurre la loro desolazione.

La prima volta che riattraversavano il cortile della Rocchetta per salire a colazione, vi fu un fotografo che sentiva indubbiamente la prepotenza della funzione del giornalismo moderno di riprodurre la vita sociale illustrata. Si staccò da un capannello e si presentò colla sua macchina sullo stomaco dinanzi i primi due dei ventiquattro, i quali erano il direttore del Secolo e il direttore dell'Osservatore Cattolico colle mani legate assieme. Romussi si mise un braccio attraverso il naso e don Davide si tirò il cappello sugli occhi voltandosi di fianco—entrambi per tradurre la loro indignazione e per impedirgli di esercitare la sua professione. Anche adesso che correggo le bozze mi duole di questo loro scatto antigiornalistico. Perchè ci hanno soppresso uno dei documenti più preziosi delle giornate di Bava-Beccaris. Se fossi direttore di giornale vorrei che tutti i miei corrispondenti avessero l'audacia del fotografo giornalista. Allora sarei sicuro che il mio quotidiano sarebbe il primo quotidiano d'Italia.

Tra la folla degli avvocati accorsi a dare l'ultimo addio ai condannati, si distingueva il Majno che camminava con l'ombrello in una mano e il cappello nell'altra, salutando dappertutto: «Addio, Chiesi, ciao, Federici, coraggio, Romussi, sta allegro, Valera, arrivederci presto, don Davide, ecc.»

Nei suoi addii era lo strazio di un avvocato e di un amico reso impotente dalla legge marziale.

Questa traversata fu un attimo solenne, indimenticabile che fece piangere più di uno dei diciannove che ritornarono in camera carichi di mesi e di anni.

La Kuliscioff non ha mai partecipato a questi strazi e a queste consolazioni, perchè la sua residenza rimase sempre al Cellulare. Ne veniva e vi ritornava in brougham, vestita di nero come un funerale.

Il suo contegno è stato di donna equilibrata. Nelle poche parole che le si permise di dire, non si occupò che delle sue idee marxiste. Il resto sembrava per lei estraneo. Di tanto in tanto si assentava per fumare una sigaretta.

D'altronde, non era la prima volta che essa passava delle giornate in prigione. Era già stata nelle carceri parigine e poi per più di due anni nelle prigioni d'Italia.

Poche ore dopo la sentenza, gli anarchici vennero mandati a Finalborgo, e i giornalisti partirono il giorno seguente, cioè alle 11 della sera del ventitrè.

Alla Stazione Centrale, c'era una folla enorme ch'era riuscita a sapere l'ora della partenza. Ma i carabinieri fecero entrare i condannati dalla parte opposta—evitando di passare sulla prima piattaforma, piena di amici che volevano salutarci. Tra gli intimi di Romussi, vi era il professore Pietro Panzeri, direttore dell'Istituto dei rachitici, che piangeva come un ragazzo.

Il vagone cellulare era nuovo o pennelleggiato di fresco. Perdeva un odore di vernice che faceva turare il naso.

Don Albertario, grosso come era, non riuscì a mettere il piede sul predellino che aiutato. Nello sforzo gli cadde il cappello da prete: istintivamente tentò di raccoglierlo, ma si avvide tosto di essere ammanettato ed alzò gli occhi al cielo.

Nessuno disse una parola. Pareva che la vita fosse finita sul montatoio. Ciascuno, ravvolto nel proprio dolore come in un mantello, sentiva gli strazii delle famiglie che singhiozzavano sotto la tettoia.

__In Vagone cellulare.__

Viaggio notturno da Milano a Finalborgo la notte dal 24 al 25 giugno 1898.

Mentre i carabinieri si preparavano a metterci i ferri per avviarci alla casa di pena a scontare le sentenze militari, ciascuno di noi pensava, involontariamente, al carrozzone che ci doveva condurre dal Castello alla Stazione Centrale. Nessuno di noi aveva potuto dimenticare la nicchia nella quale, venendo dal Cellulare, aveva subito, per più di mezz'ora, lo strazio di pencolare tra la vita e la morte per mancanza d'aria!

I ferri ci distrassero. I carabinieri adempivano alla funzione di ammanettarci, incalzati dal «fate presto!» del tenente dei carabinieri, che ci guardava con la caramella nell'occhio.

L'ordine era di ammanettarci a fior di pelle. E chi si lamentava riceveva la buona misura di qualche altro giro di vite. Io protestai. Dissi che non era possibile che ci fosse ordine di stringerci i polsi fino a farceli sprizzare di sangue. Mi si fece tacere, assicurandomi che alla stazione mi sarebbero stati allargati.

Chiusi nel carrozzone, credevamo di morire. C'era un fetore che dava il capogiro. La cella era angusta, buia, col sedile di legno cosparso di crostini di pane e coi fori per l'aria che parevano tappati. Il veicolo ci sballottava in un modo crudele. Quando le ruote sussultavano sui sassi o attraversavano i binari, ci sembrava che il carrozzone stesse per rovesciarci sulla strada.

Non abituati a questi viaggi di punizione, sognavamo il treno.

Alla stazione ci si fece discendere passandoci sotto l'ascella, a zig-zag, una catena che ci teneva uno dietro l'altro e ci impediva di pensare alla fuga.

Per scappare bisognava che il condannato si trascinasse dietro tutti gli altri.

Eravamo così male informati sul trasporto del bestiame di galera, che credevamo sul serio che ci avrebbero fatti viaggiare in un vagone di terza classe. Invece fummo disillusi non appena ci trovammo in quella specie di corridoio lungo due filate di celle.

A mano a mano che si saliva, si veniva spinti e incassati dal carabiniere che aspettava il condannato dietro l'uscio. L'operazione di cellularizzarci veniva fatta in un modo fracassoso. Si schiudevano gli usci con collera, si bestemmiava contro i catenacci che cigolavano senza andare avanti o indietro, si ingiungeva il silenzio con degli imperativi brutali a coloro che volevano sapere dove diavolo ci si mandava, e si sbattevano sulla faccia gli usci come tanti schiaffi ribaldi.

Rimanemmo per qualche minuto sbalorditi. Io mi trovavo in una cella di mezzo, tra Romussi e don Davide Albertario. Chiesi era in faccia al direttore del Secolo e io potevo vederlo, attraverso la ferriata, di profilo. L'avvocato Federici era in una delle prime celle della fila a destra e gli altri, compresi due che non conoscevo, erano sparsi nelle celle in fondo.

Aspettavamo con ansia che venissero a liberarci le mani indolenzite dal peso del ferro che diventava sempre più enorme.

Faceva un caldo eccessivo. Nella tana inverniciata il giorno prima, coll'uscio sulle ginocchia che non ci permetteva nè di allungare, nè di incavalcare le gambe, si respirava un'aria pestilenziale e si sudava come in un forno. L'indugio del treno a mettersi in moto era per noi un vero supplizio. Speravamo che, lanciandosi nello spazio, folate d'aria sarebbero venute ad attutirci la sete e a rinfrescarci la faccia.

Finalmente il treno si era mosso. La lentezza e le prime fermate ci fecero capire ch'eravamo attaccati a un treno omnibus. Il treno, che s'incammina adagio adagio e sosta a tutte le stazioni, diventa una tortura per i poveracci calcati nelle nicchie che lasciano respirare a disagio e intetrano l'ultima scena dei condannati sulla via della espiazione.

Invece delle buffate d'aria fresca che non venivano, nè potevano venire, perchè il nostro vagone era l'ultimo e aveva le aperture in faccia a due altri, fummo obbligati a incominciare una lotta disperata contro l'usciuolo dell'inferriata a scacchi, che si chiudeva e minacciava di soffocarci a ogni scossa.

—Signori carabinieri, facciano il piacere di fermarci l'usciuolo!

I signori carabinieri non potevano essere umani con noi, perchè avevano ricevuto ordini imperiosi di essere severi e perchè temevano, a ogni stazione, di trovarsi alla presenza di qualche ufficiale incaricato di «dare un'occhiata ai polli nella stia». Ma per l'usciuolo facevano proprio di tutto per inchiodarlo alla parete e spesso sacramentavano contro la compagnia ferroviaria che si era dimenticata di configgervi la molla o l'uncino per tenerlo aperto. Di tanto in tanto veniva qualcuno di loro a sbattercelo indietro con un sostantivo energico. Ma il più delle volte dovevamo respingerlo noi con la punta delle dita.

Alla stazione di Pavia, una voce umana riuscì a intenerirci fino alle lagrime.

—Signor Romussi, signor Chiesi, posso fare qualche cosa per loro e per i loro compagni?

La persona che parlava era invisibile. Si sentiva solamente che la sua voce era commossa.

A così poca distanza, eravamo già tutti stracchi morti per la posizione incomoda in cui ci teneva la celletta, per i ferri che ci avevano intormentite le braccia e per l'arsura che ci faceva dire a ogni minuto:

—Signori carabinieri, un po' d'acqua!

La voce dello sconosciuto ci era andata al cuore come una consolazione. C'era dunque qualcuno che pensava ai poveri diavoli che soffrivano. Romussi, interpretando il pensiero di tutti, con una voce che avrebbe impietosito i sassi, disse:

—Se ci potesse dare una gasosa!

Lo sconosciuto ci rispose con dei singulti.

Era troppo tardi. Il ristorante era chiuso e il treno stava per partire.

—Addio e coraggio! ci disse lo sconosciuto con degli altri singhiozzi.

Lungo questo viaggio indimenticabile ci domandavamo di tanto in tanto l'un l'altro se eravamo vivi.

Chiesi: Come stai, Fritz?

Federici: Bene.

—Don Davide, dormite?

—Magari potessi dormire!

—Romussi, come ti senti?

—Maledettamente male. Non avrei mai creduto che il trasporto dei prigionieri fosse fatto in questo modo. Siamo trattati peggio delle bestie.

—Pazienza, che non siamo lontani da Sampierdarena.

Guardando nelle celle della fila opposta mi si agghiacciava il sangue. La testa dei cellularizzati che ubbidiva al moto del treno si delinquentizzava in un modo spaventevole. Pareva la testa di un mostro. Illuminata dalla luce fosca che tremolava, assumeva proporzioni spaventevoli. La fronte si allungava sovente con delle gibbosità che facevano abbassare le palpebre dalla paura. Gli occhi ingrossavano e venivano alla superficie con una luminosità feroce. La bocca, sbadigliando, spalancava un abisso circondato da una dentiera enorme che digrignava come quella di un teschio appeso nella penombra.

Lazzari sembrava una iena in agguato.

Lungo le gallerie avevamo il fumo della macchina che entrava nelle celle a volumi a ubbriacarci e ad avvelenarci le ultime ore.

—Signori carabinieri, un po' d'acqua. Io muoio dalla sete!

A Sampierdarena il cuore del brigadiere si lasciò intenerire dalla voce piangevole dei condannati.

—Ci faccia dare un caffè, signor brigadiere. Sia buono.

—Dio gliene renderà merito, gli disse don Davide che tirava il fiato come un uomo che si sente morire.

Il carabiniere con la caffettiera in una mano e la chicchera nell'altra ci conciliò con l'umanità che sembrava composta di tigri.

Ci si aperse la cella e ce lo si versò in bocca a sorsi, con una pazienza materna. Bravo carabiniere!

Discendemmo a Finalmarina come gente scampata a un pericolo. Aprivamo la bocca per sorseggiare l'aria e ci auguravamo che il reclusorio fosse lontano lontano per aver tempo di sgranchirci le gambe e di rimetterci dallo sbalordimento di un vagone che chiamavamo assassino.

Qualche mese dopo, nella quinta camerata del reclusorio di Finalborgo, ricordando questo episodio della nostra vita carceraria, i direttori del Secolo, dell'Osservatore Cattolico e dell'Italia del popolo si strinsero la mano e promisero che, non appena ritornati al largo, avrebbero intrapresa la campagna contro questa abbominazione che si chiama vagone cellulare.

__L'arrivo al Reclusorio.__

Alla stazione di Finalmarina non c'erano che cinque o sei persone, compresi due preti. Eravamo disfatti. Avevamo gli occhi della gente che non ha dormito, i capelli spettinati, le guance cadaveriche e le punte dei baffi piegate come una desolazione. Il sole ci illuminava le lividure ai polsi che avevano assunto un colore nerastro. Ci si passò la catena da un braccio all'altro e fiancheggiati dai carabinieri e seguiti dai facchini coi fagotti, ci avviammo verso il reclusorio. Il silenzio intristiva la scena. Attraversammo il binario, continuammo lungo la linea ferroviaria fin quasi all'imboccatura di un tunnel e voltammo a destra, per lo stradone carrozzabile che i finalborghigiani chiamano delle «catene», perchè è percorso dai galeotti che vanno e vengono dalla Casa di pena.

I carabinieri ci stavano ai panni e ci incalzavano con degli avanti! È per loro il momento più trepido. Anche legati come cani, potrebbe saltare in testa a qualcuno di darsi alla fuga. Sprofondavamo i piedi nella polvere alta, sollevando un pulviscolo che ci imbiancava e ci andava per la gola e per le nari come un prurito che ci raddoppiava il malessere. Rasentavamo Capra Zoppa perseguitati da un'arsura indicibile. Ciascuno di noi sognava una sorsata di latte o un'altra chicchera di caffè per snebbiarci il cervello. A metà strada, al dorso di un parapetto, trovammo un giovine che aveva l'aria di un chierico e piangeva come un ragazzo. Forse sapeva chi eravamo o forse provava una commozione violenta dinanzi un prete alto e spalluto che passava incatenato come un grassatore.

Dopo una ventina di minuti, vedevamo sorgere a destra la torre quadrata del malaugurato edificio nel quale dovevamo passare tanto tempo. Svoltammo il ponte, passammo tra mezzo alla folla, infilammo il viottolo tortuoso a sinistra e, dopo pochi passi, ci trovammo alla porta del reclusorio di Finalborgo.

L'entrata è quella di un portone qualunque. Non dà l'impressione di una tomba di vivi, neppure pensando alle sentinelle di guardia.

Ci si tolsero i ferri tra due cancelli che inchiudono l'ufficio del capoguardia e ci si domandò se avevamo bisogno di qualche cosa.

—Dell'acqua, rispondemmo.

Ce ne portarono due bottiglie e i secondini, con la premura di dissetarci, ci diedero l'impressione di persone che non incrudeliscono col Regolamento.

Anche colle mani libere, sembravamo galeotti autentici. Romussi, coll'ala del cappello floscio che gli ombreggiava la faccia fuligginosa, col solino gualcito e annerito dal sudore e coi baffi sottosopra, aveva assunto l'aspetto di un uomo feroce. Chiesi, colla barba e coi capelli impolverati e coi neracci della notte perduta sotto gli occhi, pareva un capo ciurma invecchiato di dieci anni in poche ore. Don Davide in un altro luogo avrebbe fatto scompisciare dalle risa. Aveva l'aria di un Ernani passato attraverso il polverone della strada. Al margine del cubicolo, colla tesa del tricorno pelosa e abbandonata dalle stringhe, colla collarina scomparsa sotto il merinos, col panciotto dai bottoni escoriati pieno di chiazze, colla veste talare ammantata di polvere e colle scarpe scalcagnate e coperte d'uno strato bianco, faceva compassione. Sulla sua faccia erano tutti i patimenti di uno strazio inenarrabile. I carabinieri consegnarono le buste dei nostri denari al capoguardia, il quale si mise a registrarle, ci salutarono e noi passammo nello stanzone a pianterreno intitolato «banchi di rigore». Lo stanzone, colle due finestrucole che davano sul viottolo, era buio. Col suo immenso lastrone infisso lungo la parete, cogli anelloni sotto il rialzo dei piedi e al disopra della testa, faceva rabbrividire. Si vedeva che eravamo proprio in una casa di pena. Ogni infrazione al regolamento voleva dire andare sul tavolato di pietra incatenato alle mani e ai piedi.

Il capoguardia non ci fece cattiva impressione. Era alto, piuttosto magro, con una voce che faceva sentire il twang americano e con un accento leggermente meridionale. Valera lo battezzò subito per il Javert del reclusorio, per un Regolamento ambulante, per il funzionario che si sarebbe stroncata la vita piuttosto che violarlo.

E attraverso i mesi che siamo rimasti sotto la sua sorveglianza non abbiamo avuto occasione di modificare il giudizio valerano. Egli è rimasto, per tutti noi, l'uomo-regolamento, guidato da uno zinzino di buon senso. Prima di noi, in altre galere, egli aveva avuto sotto di sè Amilcare Cipriani e De Felice.

Per ammazzare il tempo e impedire agli amici di pensare che stavamo per diventare dei numeri di matricola, mi misi a narrar loro la fuga del principe Krapotkine dall'ospedale dei detenuti di San Nicola di Pietroburgo. Fu un grido unanime di protesta. Era una fuga che sapevano tutti a memoria. Sapevano della stanzetta al terzo piano dirimpetto all'ospedale, del violino che suonava che la via era libera e la carrozza di fuori ad aspettarlo, e dei passi guadagnati sulla sentinella coi famosi due lati del triangolo.

Entrò il capoguardia mentre don Davide e Federici, dall'alto del tavolato, cercavano di capire dalla finestruola da che parte dell'edificio penale ci trovavamo. Egli aveva in mano un opuscolo.

—Loro sono persone educate. Questo è il Regolamento. Lo leggano e procurino di non violarlo per non obbligarci a infligger loro delle punizioni.

Rientrò il capo con una guardia che portava il misuratore e con un'altra che aveva sotto il braccio il mastro dei delinquenti.

—Adesso, dobbiamo registrarli e prendere loro la misura.

Ci lasciammo registrare e misurare con la docilità delle pecore. Non eravamo mica in galera per romperci la testa contro gli articoli del regolamento. Il primo a sottomettersi fu Chiesi e l'ultimo Achille Ghiglioni, l'uomo terribile che aveva messo sossopra tutto Niguarda con una Cooperativa di commestibili di trecento o quattrocento lire!

L'attraction, sulla piattaforma del misuratore con l'asta che discendeva sulla testa, era don Davide, il quale, tra noi, aveva raggiunto l'altezza massima. Sul misuratore, con le cosce voluminose e la grandiosità del torace, egli aveva più del granatiere che del sacerdote.

Finita questa operazione, ci si annunciò il bagno. Era quello che desideravamo. Dopo tanti giorni di processo, tante notti passate sul saccone in terra e un viaggio che ci aveva diminuito di peso, un bagno era la suprema delle consolazioni corporali. Vi andammo l'uno dopo l'altro senza ritornare ai «banchi di rigore».

Il bagno era in un angolo della vasta cucina, ove cuoce la minestra quotidiana dei condannati, diviso da una coperta appesa a due chiodi. Ciascuno di noi dovette svestirsi e tuffarsi nell'acqua alla presenza di una guardia incaricata di tener sempre gli occhi sul recluso. Don Davide ebbe delle ritrosie. Egli non seppe decidersi a liberarsi degli ultimi indumenti che quando la guardia si rassegnò a voltare la faccia dall'altra parte.

__Filippo Turati.__

Il criterio nostro è questo; ogni provvedimento sarà vano se non sia assicurata al Paese piena ed intera libertà: libertà di propaganda, di pensiero, d'associazione, d'organizzazione, a tutte le classi della società.

(Dal primo discorso alla Camera).

L'ho conosciuto nell'ottanta o nell'ottantuno. Io caricavo l'appendice della Plebe di Bignami della zavorra umana che scovavo e raccoglievo negli angiporti e nelle stamberghe, e lui riempiva le colonne di una terapeutica che inchiudeva, colle spinte e controspinte romagnosiane, i germi della giustizia sociale. Era forse la prima volta che la democrazia adulta leggeva in un giornale socialista che la questione criminale è intimamente connessa colla questione economica. Con un centinaio di pagine intitolate Il delitto e la questione sociale il Turati si rivelava un naturalista della scienza penale, un verista che studiava oggettivamente l'uomo delinquente, un sociologo che accusava la società di essere «complice impune dei misfatti che freddamente puniva». Egli credeva fino d'allora che l'ordinamento punitivo fosse essenzialmente transitorio e che il delitto troverebbe la sua cura in uno Stato che volesse «a tutti garantito il frutto integrale del proprio lavoro».

Il suo cruccio erano i suoi nervi. I nervi non gli davano requie. Non lo lasciavano dormire, non lo lasciavano lavorare e gli distruggevano il pensiero di prepararsi un futuro intellettuale. Egli si diceva sfibrato, fiacco, senza attività cerebrale. Doveva morire. Sarebbe morto fra due o tre anni o fra due o tre mesi, non lasciando di sè che «misere strofe» ai suoi cari. Tutti i medici lo avevano abbandonato. Egli era un nevrastenico. La sua era una nevrosi inguaribile. Pazienza. E ci salutava commosso e ritornava, sfiduciato, alla sua villa di S. Croce, a due passi da Como, colle tasche e le valige piene di libri che aveva comperato dal Dumolard o che gli aveva dato a prestito il suo e il mio amico intimo Felice Cameroni—il critico che aveva incominciato a predicare lo zolismo nell'appendice del Sole.

Durante questa battaglia accanita tra lui e il suo sistema nervoso egli, come il dott. Pascal, si preparava silenziosamente i dossiers coi quali avrebbe poi intrapresa la campagna per liberare la società borghese dalle sofferenze sociali. Condannato da una malattia implacabile, consumava le sue ultime ore nel laboratorio della putredine sociale a cercare i parassiti distruttori che saccheggiano l'organismo umano. Morente, sentiva, come Pascal, la voluttà e la grandiosità della vita, della vita sana, economicamente e moralmente sana. Oui, je crois au triomphe final de la vie.

Egli leggeva, postillava, ammucchiava note sopra note e maturava nel cervello allargato dallo studio febbrile la rivista alla quale diede poi tutta la sua intelligenza.

Con la tendenza a credersi eternamente ammalato e dotato della pigrizia del divoratore di libri che non darebbe mai mano alla penna della produzione, il Turati sarebbe forse divenuto un frutto secco o rimasto un autore stitico s'egli non avesse potuto fondere la sua esistenza con quella di una donna capace di agitargli lo spirito cogli stessi ideali e di piegarlo a un lavoro meno sbandato e più omogeneo. E questa donna fu Anna Kuliscioff. È lei che lo ha incalzato, che lo ha fortificato, che lo ha imparadisato. Lei e lui e la Critica Sociale non si distinguono più.

La Critica Sociale, Filippo Turati e Anna Kuliscioff sono più che un nome. L'una e l'altro e l'altra si completano. La Critica Sociale è fatta della loro carne, nutrita del loro ingegno, calda dei loro pensieri. In essa è la redenzione degli uomini, è la pace nel benessere economico, è il trionfo della felicità della specie sull'egoismo e sugli interessi degli individui. La Critica Sociale è stata l'università della generazione crescente. È dessa che ha dato a quasi tutti noi la «coscienza sociale». Nata il quindici gennaio 1891, quando il socialismo scientifico era un lusso per i superuomini delle scienze economiche, fece nascere nella gioventù la fede nell'uguaglianza di condizione e un bisogno prepotente di gettarsi negli studi che devono avere per risultato la sconfitta della borghesia e l'elevazione del proletariato.

La bibbia di Filippo Turati è il Capitale. Non c'è altro di più nutriente. Dal Capitale si esce uomini completi. Un giorno che gli si è domandato di dire pubblicamente quale libro avrebbe raccomandato a chi fosse condannato a portarsi seco in un eremo tre soli volumi, egli rispose ripetendo tre volte il Capitale. Con questo libro che egli paragona o mette al disopra al Darwin's Journal, la gioventù entra nella vita corazzata di altruismo, con una idea chiara dello Stato a base di produzione socializzata. Ammiratore convinto del grande novatore della scienza sociale, egli è, necessariamente, entusiasta dei socialisti tedeschi—talli erompenti, dice lui, dal forte ceppo scentifico di Carlo Marx—i quali, con la loro marcia gloriosa, hanno infuturato il più grande fatto e l'esempio più significante della storia contemporanea.

Cresciuto in un ambiente prefettizio—idolatrato dalla mamma—con un avvenire trionfale nel foro milanese—circondato dagli agi della vita, egli preferì discendere nell'agone sociale a lottare per l'esistenza collettiva—a sostenere i diritti dei proletari incatenati agli anelloni del salario—ad agitare il programma marxista che deve eliminare dalla società i ricchi e i poveri.

Lui, coi nervi che gli impedivano un'occupazione costante, si dedicò a un lavoro febbrile—a un lavoro che aumentava in ragione degli anni—a un lavoro che lo cacciava dalla redazione sulla piattaforma pubblica—e dall'angolo del correttore di bozze nel girone legislativo.

Perdutamente innamorato dei suoi ideali, egli non sospettava che sarebbe venuto il giorno in cui i suoi nemici—che sono anche i nostri—lo avrebbero sorpreso sulla strada e svaligiato di tutto.

È stato mandato al reclusorio di Pallanza come incitatore di tumulti e come un demagogo che mette un po' di barricata in ogni frase. Ma non c'è nessuno che abbia mai sentito come lui tanta avversione per la turbolenza oratoria che sprona alla battaglia ogni minuto e per i «discorsi che acclamano la rivoluzione, sovreccitano i sentimenti delle masse e fanno sbottonare lo stifelius di un delegato di pubblica sicurezza». No, il bavardage épouvantable degli esaltati non ha mai fatto parte del suo bagaglio di piattaforma.

Il socialismo in bocca di costoro non può impensierire alcuno. Dovrebbe impensierire i suoi nemici quando si ritrae dal palcoscenico dei teatri diurni per entrare nel laboratorio «a notomizzare col bisturi della scienza il carcame sociale steso sul tavolaccio della statistica e della disciplina positiva». Allora sì. Allora gli statisti dovrebbero proprio incominciare a sentire delle apprensioni. «Perchè quei miti pensatori, nutriti di cifre e di sillogismi, onesti, riservati, impeccabili sovente nella vita privata, magari un po' puritani e un po' quacqueri se se ne gratta la scorza, quei sacerdoti dell'altruismo, quei mangiatori d'hascisch dell'ideale, hanno più dinamite nella loro parola e nella scatola ch'è sotto il loro cappello, che non ne sia nelle tasche dei feniani e nelle cantine di Pietroburgo: con quest'aggravante che, di cotesta nitroglicerina spirituale, non c'è doganiere o segugio di polizia dal fiuto fine che ne possa sentire l'odore e mettervi sopra la zampa. Quando il moderno Anteo—come il Colaianni definisce il socialismo—che ad ogni caduta risorge più vigoroso, agguerritosi negli studi e nel raccoglimento, uscirà in piazza con idee mature e propositi determinati, è allora che sarà davvero formidabile, quanto prima era innocuo.»¹

¹ Socialismo e Scienza di Filippo Turati.

Nell'ambiente parlamentare egli era una forza legislativa—una voce gagliarda che domanda giustizia per gli affamati di pane, di libertà e di pensiero—un ragionatore che sa disorientare i legislatori borghesi, i quali non vogliono convincersi che la società degli sfruttatori s'avvia verso il periodo della sua naturale decomposizione. Eloquente, con una dizione esatta, egli sa far ingoiare, con garbo, agli onorevoli tutto quel diavolo che vuole, spruzzando la sua prosa tersa ed elegante di una ironia e di un sarcasmo che non trovate se non in bocca degli oratori altamente educati.

I discorsi di Sheridan si leggevano una sola volta e si mettevano in libreria. Quelli di Filippo Turati si leggono e si consultano sovente come quelli di Burke, perchè sono densi di pensieri, pronunciati in una lingua che dovrebbe far testo nelle scuole, caldi dell'anima dell'oratore che vuole condurci ad espropriare la società a beneficio di tutti.

Va sulla piattaforma con riluttanza. Preferisce il tavolino di redazione al palco dinanzi la folla che lo saluta col battimano fragoroso e lo ascolta a bocca aperta. Nemico dei parolai e degli smargiassoni che sciolgono i problemi con qualche frase alcoolizzata, non capisce la piattaforma che quando si ha qualcosa da dire. È una tolda che lo impensierisce, che lo mette in orgasmo, che lo obbliga a buttar giù note, a raccogliere fatti, a pulire della prosa che andrà perduta per l'aria, perduta fino a quando avremo anche noi il quotidiano che darà il discorso tale e quale è pronunciato. Ma una volta che egli è in piedi, pieno dell'argomento, il suo discorso esce come dal libro di un grand'uomo.

Tutti lo hanno sentito parlare. La sua eloquenza non è l'eloquenza bolsa che va in giro per il comizio a mendicare gli applausi. È l'eloquenza di un grande oratore. Qualche volta pare una tempesta di pensieri. I suoi periodi snodati, brevi, vigorosi si inseguono con un calore crescente e precipitano sull'uditorio come un uragano intellettuale.

La sua penna di giornalista, che gli ha conquistato un mondo di lettori, è una penna che cesella ed ubbidisce al padrone. Non è mai sbrigliata anche quando è virulenta o infuria sull'avversario. Produce uno stile nervoso—uno stile che ti mette sottosopra il sangue—che ti accarezza—che ti schiaffeggia—che ti intenerisce. Ha immagini scultorie, grandiose, indimenticabili.

Adesso che i nervi lo lasciano tranquillo, la sua salute si è rinvigorita e le sue forze intellettuali si sono triplicate. Egli è diventato un lavoratore metodico come l'autore dei Rougon-Macquart. Vi può dire coll'orologio alla mano il manoscritto che vi potrà consegnare in un mese per un anno di seguito.

Veste male, non è mai stato vestito bene. Da giovane andava per le vie coi calzoni che gli lasciavano vedere tutto il corame della scarpa, con una giacca o un paletot che lo tirava da tutte le parti e un cappello floscio che lasciava vedere il suo alto disprezzo per la spazzola e il copricapo nuovo. Il nodo della sua cravatta traduceva l'uomo che non si guarda mai nello specchio; era mal fatto e andava da tutte le parti, tranne che sotto il bottone del solino spesso sgualcito. Parecchi di noi che scrivevamo nella Farfalla lo credevamo un bohémien eternamente alla caccia di un louis d'or come gli eroi di Murger. Lo si vedeva e si pensava all'assalto alla borsa. Ma lui ci stringeva la mano, ci parlava di qualche pubblicazione e ci salutava senza domandarci nulla. La giornata dopo che il Giarelli lo aveva fatto diventare celebre presentandolo ai lettori delia Ragione come autore del Mago—un canto che sentiva del profumo dei suoi anni e che sgretolava il vecchio mondo come il canto satanico di Carducci—lo pregai di prestarmi un libro.

—Figurati!

Mi lasciai trascinare a casa sua con uno stringimento di cuore. Mi aspettavo di vedermi spalancato l'uscio di un uomo in mare. Credevo di trovarlo in una soffitta che venisse inaffiata dalla pioggia, con una dozzina di volumi pieni di ditate untuose per il suolo, con dei fogli imbrattati di inchiostro su un tavolo che non sta mai quieto, con una seggiola sventrata, con una camicia sudicia appesa alla parete e un paio di ciabatte squinternate vicino a un saccone di foglie di granturco sui cavalletti di legno.

All'entrata diventai di tutti i colori. La sua casa in via Gesù era di quelle che respirano il benessere degli inquilini. La portinaia lo salutò con una mezza riverenza, lo chiamò signor dottore, e gli lasciò prendere un mucchio di lettere da un casellario che rivelava l'ambiente signorile. Salimmo per uno scalone, entrammo per l'uscio aperto da una cameriera e mi trovai coi piedi sul tappeto, in un salotto sontuoso, circondato da mobili eleganti, cogli occhi che andavano da una tela di qualche sommità del pennello ai bibelots di un'étagère superba.

La mamma non pareva la mamma di un figlio che si trascurava negli abiti fino all'indecenza. La guardavo e pensavo alla castellana. Alla signora alta, coi capelli bipartiti come una Madonna, con la faccia signorilmente lunga, con l'abito nero giù a piombo, illuminato intorno al collo dal pizzo antico e illustrato al seno da una nidiata di solitari sepolti nelle trine. Nella penombra del salotto le sue dite affusolate si muovevano e perdevano faville dappertutto.

Se avessi qualcosa da amministrare e potessi indurre Filippo Turati a prendersi cura del mio patrimonio, non esiterei un minuto ad affidargli la mia amministrazione. In pochi anni sarei sicuro di andare verso la ricchezza che ride dei rovesci degli altri. Egli è un ragioniere consumato. Ha l'occhio nell'avvenire ed è di una esattezza direi quasi scrupolosa. Questa abilità, che in un uomo di cifre diventerebbe una virtù grandiosa, in lui è un difetto che gli costa una somma enorme di lavoro intellettuale perduto. Mi sento male quando vedo il direttore della Critica Sociale scrivere gli indirizzi degli abbonati, registrare gli incassi, impaccare libri e correre alla posta carico come un facchino. Ma lui non smetterà mai. Egli chiama tutto questo una distrazione. Abituato a non darsi al riposo, continuerebbe a scrivere e diventerebbe prolisso e slavato come un pennivendolo da ottanta lire il mese.

Fuma dalla mattina alla sera. Terminata una sigaretta ne accende un'altra e continua così fino al momento di addormentarsi.

Alcuni che non lo conoscono bene sospettano in lui il tirchione che si lascerebbe ammazzare piuttosto che metter fuori un centesimo o offrire una bibita agli intimi che vanno a trovarlo. È un errore grossolano. Filippo Turati non è uno sciupone. Ma coloro che frequentano la sua casa sanno che la sua tavola è sempre popolata di amici e che la sua mano mette sempre nella mano dei bisognisti dei biglietti di banca.

Una sola volta l'ho veduto seccato di sapersi all'uscio persone che hanno bisogno di dirgli una parola. Stava facendo colazione e questi signori lo avevano fatto smettere sei volte. Alla settima rifiutò di muoversi.

—Ah, per oggi basta, perdio! Ditegli che non ci sono, ditegli!

Poi, dopo qualche boccone, si trovò pentito,

—Era forse uno che meritava più degli altri. La ragione è che ne ho troppi. Da un po' di tempo il mio uscio sembra l'uscio del duca Scotti.

È buono, generoso, leale, capace di amicizie vere, sentite. Il socialismo è la sua anima, la sua fede, il suo ideale. Per esso ha combattuto—per esso soffre—per esso sarà pronto domani e sempre a morire.

__Il cubicolo.__

Passando per il corridoio dei cubicoli, vidi nel secondo Chiesi, nel terzo Romussi, nel quarto Federici, e nel quinto don Davide. Credo di essere diventato pallido come un morto. Veduti col viso ai due bastoni di ferro in croce dell'uscio, mi parvero delle bestie o delle ditte di un museo di criminali. Le loro facce non erano più che grinte spaventevoli, con delle mascelle enormi, degli occhi biechi, delle fronti con tutte le stimmate del delinquente nato. Entrai nel sesto. Dopo di me, venivano Achille Ghiglioni e Costantino Lazzari.

Il cubicolo era completamente vuoto. Non vi trovai che una lastra d'ardesia, larga poco più del corpo d'un uomo, infissa nella parete a destra. Mi distesi carico di emozioni, chiudendo gli occhi come per obbliarmi. Sarebbe bastata, una parola qualunque per farmi piangere. Non avevo paura, ma tutto ciò che si compiva nel silenzio di quell'attimo mi commoveva fino alla gola. Vi rimasi assopito non so più quanti minuti. Mi risvegliai spossato. Il cubicolo era così tetro e angusto che mi ricordai delle camerucce dei famosi forni di Monza, ove i Visconti avevano scontato i loro mesi di prigionia. Per muovermi, non avevo che uno spazio di un metro e sessanta di lunghezza e un metro circa di larghezza. Era alto, con una finestrolina sopra la porta che riceveva la luce scialba del corridoio chiuso e largo poco più della tana. Per vederci malamente, dovevo stare cogli occhi alla inferriata.

Nessuno dei miei compagni fiatava. Si capiva che attraversavano anche loro il momento della prostrazione.

Sentii Chiesi che domandava a Fritz come stava.

—Bene, grazie.

Nacque subito il dialogo.

Romussi: Mi pare di essere in un antro. È possibile che ci si facciano passare degli anni in questo buco?

Federici lo tranquillava assicurandolo che la segregazione personale non poteva durare più di un sesto della pena.

Romussi: Saccorotto! Ci dici poco a vivere in questa tana per sette od otto mesi? Ho tentato di leggere col libro alla ferriata, ma ho dovuto smettere. Vi avrei lasciata la vista…

Chiamammo due o tre volte don Davide senza averne risposta. Credevamo che dormisse. Invece, il povero prete, entrato nel cubicolo, non seppe più reggere. Pianse dirottamente. Pianse nel silenzio soffocando i singhiozzi per non farsi sentire dai colleghi, pregando Dio di aiutarlo in un momento di tanta ambascia.

Io, che personalmente lo conoscevo da parecchi anni e che durante il processo avevo ribadita l'amicizia, inquieto del suo silenzio, gridai:

—Don Davide? Che cosa fate? Dormite?

Rispose con una voce cavernosa che non dormiva. Non aveva bisogno che un po' di calma per riaversi da tutte quelle emozioni che stavano per strangolarlo.

Fummo sorpresi dalla guardia con le scarpe di cimossa, la quale ci spiava in agguato.

—Silenzio! gridò imperiosamente il secondino.

Mezz'ora dopo venne il direttore a vederci, cubicolo per cubicolo, col cappello in testa e la voce che sentiva dell'uomo abituato a parlare coi galeotti. Così fu anche in seguito. Venne sempre nella nostra camerata col cappello in testa e col linguaggio dell'uomo che vuole essere temuto e vuole essere considerato un domatore di dannati alla galera.

Uscito il direttore dal corridoio, entrò nel cubicolo un pagliericcio di crine vegetale puntato, assolutamente insufficiente anche per un corpo mingherlino come quello di Romussi. Mancava ai piedi di mezzo braccio e bisognava addormentarsi sul fianco e con la faccia al muro, se non si voleva cadere sull'impiantito.

—Pane!

Trasalimmo.

Era un galeotto con la catena a parecchie maglie, accompagnato da una guardia, che andava di buco in buco a distribuire la pagnotta.

Il pane regio—come lo chiamavamo—parve a tutti noi immangiabile. Dovevamo aver fame, perchè eravamo ancora con l'ultima costoletta e l'ultimo risotto che avevamo mangiato al Castello.

Romussi mi fece sapere che aveva divorata la sua pagnotta fino all'ultima briciola. Coi suoi denti da mastino e il suo apparecchio digestivo sempre in ordine, ne avrebbe mangiata un'altra. Gli altri la sbriciolarono.

—Minestra!

—Uh! sentii dire.

Era un uh! che traduceva la nausea.

Nessuno di noi seppe ingoiare la minestra.

Guardai che cosa mi aveva scodellato nella gamella. Vidi una pasta che mi pareva esalasse un non so che di tufaceo e una broda piena di scandellature gialle alla superficie. Tutto assieme mi faceva recere.

L'afa del pomeriggio ci rendeva inquieti e ci faceva sentire un bisogno prepotente di uscire all'aria a vedere un po' di cielo.

Verso sera, ci si portò una coperta, un fiaschetto d'acqua, un catino di zinco ed un asciugatoio ruvido a quadrettoni colorati, largo come un fazzoletto.

Alle cinque, per noi era notte fatta. Ci augurammo la buona sera.

Mi adagiai sul pagliericcio nella speranza di addormentarmi. La tristezza aumentava in ragione della oscurità che andava diffondendosi nel cubicolo.

Verso le nove, sentii due mandate all'uscio del portico.

Era la ronda.

La ronda è composta di un sottocapo e di due guardie, una delle quali porta la lanterna fumosa e puzzolente.

Entra in ogni cubicolo tre volte per notte, sbatte in faccia la luce della lanterna, da un'occhiata alla finestra e alla ferriata e se ne va richiudendo l'uscio a chiave.

Ci vogliono dei mesi prima di abituarsi a queste sorprese notturne.

Romussi non poteva dormire che con dei narcotici. Gli sbatacchiamenti gli davano sui nervi.

Il secondo giorno fu più triste. Ci eravamo alzati all'alba, chiamati dalla campana come gente che non aveva tempo da perdere e poi ci si era lasciati nella capponaia a cellucce senza darci un libro, senza dirci una parola, senza lasciarci sperare che all'indomani saremmo usciti.

Bisogna proprio essere aguzzini che gustano la voluttà dell'altrui sventura, per tenere degli infelici cento e più ore sotto l'impressione che il sesto della loro sentenza verrà consumata in una tana senza luce e senz'aria!

Nel cubicolo siamo rimasti due giorni e mezzo.

Durante questo primo periodo, non abbiamo visto che un'ombra che passò dalla nostra cella con una parola per ogni buco: coraggio!

L'ombra era il cappellano.

Uscimmo storditi. Ci palpavamo la nuca e guardavamo il cielo come abbacinati. Erano bastati due giorni e mezzo per solcarci le guance e imbrutirci come gente che si levasse da una sbornia potentissima.

Ci scambiammo su per giù gli stessi pensieri.

—Credetti di morire, sapete. Mancavo d'aria: avevo bisogno di moto e di luce, sopratutto di luce, sopratutto di moto, sopratutto d'aria.

Don Davide aveva avuto delle nausee che lo avevano impensierito.

—Ci fu un momento in cui dovetti raccogliermi e pregare il Signore
Iddio.

Costantino Lazzari aveva l'aria di uno smemorato. Si palpeggiava il collo e continuava a battere i piedi in terra come per ridar loro la circolazione del sangue.

Ci si condusse al passeggio in un cortiletto che sentiva del luogo. Non avevamo che uno spazio di pochi passi inquadrato da muraglie giallognole, scrostate e sbullettate. Col dorso verso la torricella, dalle finte finestre, che usciva da un angolo dell'edificio, vedevamo un largo verde di Capra Zoppa. La torricella era triste e ci ricordava che in essa erano le celle più orribili del reclusorio.

Al lato opposto della porticina d'entrata del portico, è la muraglia con le finestruole a mezzaluna e a doppia inferriata, dietro la quale è una filata di cubicoli.

Quante volte, durante la passeggiata, abbiamo sentito gli inquilini dei cubicoli prorompere in pianti dirotti!

Nella muraglia che taglia il cortile, è un pozzo chiazzato di verde.

Le due diane dipinte sul muro sono gli orologi solari dei reclusi. L'una segna il corso del sole dalle 7 del mattino a mezzogiorno, ed ha per epigrafe: Sic mea vita fugit! Una condanna atroce, dicevamo al passeggio, per i poveri prigionieri che portano tanti problemi nella testa, e sono costretti a sciupare il tempo con le mani in mano! L'altra, adorna dei segni dello zodiaco, si accontenta di avvisare i galeotti al passeggio che senza sole non serve a niente: Sine sole, sileo.

Le dita della destra battute sul palmo della mano sinistra di un sottocapo ci avvertirono che la nostra ora d'aria era terminata.

__Nella quinta camerata.__

Nella quinta camerata entrammo il 27 giugno 1898. È al primo piano. Vi si sale curvando la testa nel buco di un enorme cancello di ferro, la cui porticina è aperta e chiusa a chiave a ogni passaggio di forzati e di reclusi da un cerbero negli abiti di guardia carceraria. Col piede nell'antiporto che mette nell'intimità dell'edificio, subite la sensazione che state per essere perduti nella vasta tomba del reclusorio. Al margine di tanti stanzoni affollati di numeri di matricola, non sentite alito di vita. Vi sembra di essere nell'androne di un convento spopolato. La voce di un vivo diventa sonora e vi fa rabbrividire. Dal buio dell'antiporto, si sale a tentoni per il buio pesto di due scale, si riesce in una specie di pianerottolo fosco come la nebbia e si sbuca in un corridoio chiaro, in fondo al quale è la quinta camerata a fianco di altre camerate.

Vi entrammo l'uno dopo l'altro accompagnati da una guardia e da un sottocapo. L'entrata è un altro cancello di ferro, foderato nella parte superiore da un lastrone munito di spia, che sopprime il di fuori fino alla distanza di un mezzo metro da terra. Di modo che i secondini, accosciati negli angoli, possono assistere ai movimenti dei piedi, oppure coll'occhio al buco vedere tutti i condannati che escono dalla rete del regolamento.

La nostra camerata non ha che la spia nella fodera del cancello. Ma le altre ne hanno due anche nelle muraglie che le fiancheggiano.

La guardia le scopre all'insaputa dei reclusi e li sorprende fuori di posto o a chiacchierare o a giuocare a dama colle pedine di mollica di pane.

Di tanto in tanto la udite che ingiunge loro di stare quieti o zitti.

—Fate silenzio, voi, numero tale, se non volete andare in «camerella»!

La guardia di Finalborgo fa il suo dovere senza esagerazione e senza imbestialire contro la ciurma che ha delinquito. Ma è possibile, dite, di rimanere in un camerone di settanta o ottanta individui per delle settimane, per dei mesi, per degli anni, con una mano nell'altra, col pensiero istupidito, senza mai lasciarsi scappare una parola, un'interrogazione, un grido che viene su dall'anima in un momento di crepacuore? No, non è possibile. Me lo disse tutto il personale del penitenziario di Dublino quando ero là a visitare i dinamitardi e gli altri condannati alla servitù penale. La lingua non sa acconciarsi alla paralisi completa. Me lo disse e lo scrisse il principe di Krapotkine che ha scontato la condanna francese nella Maison centrale di Clairvaux.

Questo sistema—diceva—è così contrario alla natura umana che non poteva essere mantenuto che a forza di punizioni. Nei tre anni che passai a Clairvaux, il sistema era caduto en désuétude. Lo si era abbandonato a poco a poco, a condizione che le conversazioni all'atelier e alla passeggiata non fossero troppo rumorose.

Volete un documento che le punizioni non riuscirono, nè riusciranno mai a far perdere agli inquilini delle carceri l'abitudine di parlare?

Ero al Cellulare quando il signor Sampò prese il posto del signor Astengo. I detenuti conversavano senza vedersi, stando alla ferriata della finestra. Il nuovo direttore si mise a infliggere delle settimane e dei quindici giorni di pane ed acqua, con l'aggiunta magari della cella di rigore, ai violatori del silenzio. Credete che ci sia riuscito?

Dalla conversazione di finestra in finestra era stato eliminato il linguaggio stomachevole. Ma il chiacchierìo era rinato pochi giorni dopo con maggior vigore di prima. E quale castigo, o signori carcerieri, riuscirebbe mai a tappare la bocca ai prigionieri subito dopo la sveglia e mentre squilla la campana del silenzio? Voi sentite mille bocche in una volta che si scambiano dei buon giorno commoventi, degli addii pieni di cuore, dei saluti che inchiudono il «coraggio!» o il «non pensarci che passeranno anche questi mesi!»—Ciao, Biscella!

—Addio, Lumaghin!

—Giuliano, dormi bene!

Una sera ci sono cascato anch'io. Un detenuto sopra o vicino alla mia cella si mise a gridare:

—Numero tale?

—Che c'è?

—Che cosa hai fatto?

Non risposi.

—Buona sera.

—Buona notte.

Questo semplice dialogo mi fece affiggere sul dorso dell'uscio della mia cella che il direttore mi aveva punito con dieci giorni di pane ed acqua!

Dopo il Cellulare, il Castello e il cubicolo, la quinta camerata dell'ex convento dei frati, dell'ordine di san Domenico, ci parve un paradiso. La percorrevamo in lungo e in largo con delle fiatate di soddisfazione. Finalmente qui si respira! Le pareti erano pulite, imbiancate di fresco, con del verde che girava tutto intorno a un metro d'altezza.

Le due finestre a doppia inferriata, coi famosi cassoni, che non ci lasciavano vedere dall'alto che un profilo di Capra Zoppa, diventarono, per noi, delle aperture illimitate che lasciavano entrare aria a volumi. Le brande lungo il dorso del camerone assunsero la forma di letti elastici, con dei materassi sprimacciati, sui quali si poteva adagiare il corpo affranto dai patimenti, con un guanciale soffice che pareva appena uscito dalle mani del materassaio.

Guardavamo tutto con compiacenza. Paragonavamo l'asse al disopra delle brande, che correva lungo la parete, a una elegante guardaroba o a una comodissima dispensa. Ciascuno di noi aveva un largo spazio per ammonticchiarvi la biancheria e i libri, per mettervi il catinetto di zinco, la fiaschetta impagliata, la brocca per bere, la spazzola e la pettinina, la gamella con inciso il nostro numero di matricola e la pagnotta che ci avrebbero portata tepida due volte il giorno. Il sole completava la nostra contentezza. Vi entrava un po' di sbieco dalla prima finestra e veniva a frangersi sui bastoni di ferro della seconda, lasciando cadere dei barbagli fino al suolo e portandoci del calore e della gaiezza che si diffondeva dappertutto.

La sola noia del luogo erano le mosche—delle mosche grosse come quelle che vivacchiano intorno ai letami—delle mosche pesanti che aleggiavano con un ronzìo greve, che parevano sonnolente anche nell'aria, che si fermavano sul nostro naso, sulle nostre orecchie, sul nostro collo, sulle nostre labbra, sulle nostre mani, senza paura di essere schiacciate dalla nostra collera. Si cacciavano via e ritornavano a noi con una insistenza feroce e con una ostinatezza che ci faceva perdere la pazienza. Più di una volta fummo obbligati a rincorrerle e a dar loro una caccia disperata coi fazzoletti, inseguendole fino alla inferriata. Ma era della fatica sprecata. Ricomparivano a sciami più inviperite di prima. Erano le nostre arpie.

In camerata non eravamo più che delle cifre. Gustavo Chiesi era divenuto il numero 2555, Carlo Romussi il 2556, don Davide Albertario il 2557, Bortolo Federici il 2558, Paolo Valera il 2559, Costantino Lazzari il 2560 e Achille Ghiglione il 2561.

La prima volta che si spalancò il nostro cancello e che entrò un sottocapo con due galeotti a fare la distribuzione degli asciugatoi e delle lenzuola, ci fu un po' di confusione. Nessuno era ancora riuscito a tenersi a mente il proprio numero di matricola e a convincersi che non eravamo più che dei numeri.

—2555?

—Presente!

A mano a mano che si veniva chiamati, si andava vicino al cancello a ricevere la «biancheria». Per asciugarci la faccia e tutto il corpo, ci avevano dato una pezzuola di canape ruvidissima, a rigoni spaventevoli, a listoni alternati, che andavano dal bigio al cioccolato—due colori che porto nella testa con orrore. Perchè sono le striscie che rappresentano la casa di pena e riassumono l'emblema del reclusorio. Sono i colori della camicia, i colori delle lenzuola, i colori del saccone, i colori del tascapane, i colori delle mutande, i colori del berretto, i colori della casacca e i colori dei calzoni.

Per tutto il tempo della condanna non si vedono che dei clowns. Delle schiene a rigoni, delle braccia a rigoni, delle gambe a striscie e delle teste col copricapo listato di caffè e di bigio con dei puntini che paiono tante punzecchiature di pulci.

Il numero di matricola aveva ingrossato il cuore di alcuni miei compagni. Romussi si era seduto sul suo sedile di legno con le lenzuola sulle braccia e l'asciugatoio in mano dicendo: «Saccorotto!» Don Davide, di temperamento sensibilissimo, che si lascia commuovere, o trasportare, o abbattere dagli avvenimenti, sarebbe dato fuori a piangere se non fossimo stati presenti. Gli pareva impossibile, come diceva lui, che un sacerdote, che indossava la veste talare da trentasei anni, questa veste, aggiungeva, «che mi fu compagna e amica nei tempi lieti e tristi», potesse essere diventato il 2557, con la gamella matricolata e con la branda in una camerata comune ch'egli doveva calare e piegare al suono di una campana!

Era inutile abbandonarci alle malinconie. Perchè non eravamo che alla titillazione del sistema. Ci aspettavano ben altre sorprese.

Costantino Lazzari si era seduto, come al solito, tra due brande senza dire una parola. Egli si teneva come isolato. Non aveva confidenza in alcuno e nel suo angolo era il suo mondo. Se qualcuno lo interrogava, rispondeva come un mastino irritato. Una volta che gli domandai se aveva qualche dispiacere, mi rispose di occuparmi delle cose mie!

—2559?

—Presente!

Presi la mia biancheria e me la appesi dando in una risata che mise quasi tutti di buon umore.

Noi credevamo che nei penitenziarii i forzati e i reclusi venissero abbandonati al rimorso dei loro misfatti, e non vedessero che la mano incaricata di stendere loro dal buco la pagnotta, la minestra e l'acqua. Invece, in una camerata di galera, si è come in una sala di ufficio telegrafico. C'è sempre gente che va e viene. Alla mattina, quando avete ancora gli occhi ingarbugliati, vi dovete mettere sul guardavoi, nello spazio delle brande, per la «conta». Si spalanca il cancello ed entrano tre guardie seguite da un sottocapo o da una guardia scelta che vanno fino in fondo alla muraglia, contando, mentre passano, uno, due, tre, quattro, cinque, sei e sette. È la consegna dei reclusi dalla guardia notturna alla guardia diurna. Escono, si chiude e si schiude di nuovo il cancello per i reclusi che vengono a portar via il mastello dell'acqua sporca, per il recluso che viene a prendere il barile dell'acqua, per il forzato che vuota il «bugliolo» e il pitalone. Il «bugliolo» è il recipiente di legno con coperchio del liquido puzzolente. Scoperchiandolo, vi sentite in faccia la tanfata pestifera delle uova putrefatte. Il «pitalone» delle altre camerate è un enorme mastello che rimane negli angoli e passa per i corridoi come una cloaca. Nel reclusorio di Finalborgo non ci sono latrine! Quando si vuotano e passano dinanzi i cancelli, si è come in mezzo ai bonzoni dei pozzi neri che si scaricano. Il fluido nauseabondo vi sommerge come in un edificio coperto fino ai coppi di materie fecali.

Credete di essere lasciato in pace ed ecco il delinquente che viene col secchione del latte a mescervene nella brocca cinque centesimi. Rimane chiuso per cinque minuti e poi si riapre per lasciar entrare il recluso con la pagnotta.

—Pane!

State per mettervi a sedere e si spalanca un'altra volta il cancello. È il sottocapo che batte le dita della destra sul palmo della sinistra dicendo: aria!

Ritornati dal passeggio, viene a farvi visita il forzato della spesa.

La spesa non durava mai meno di quindici minuti.

Era la cosa più difficile di questo mondo. Ogni mattina si doveva sciogliere il problema come si poteva vivere all'indomani con 25 centesimi, se si era condannati alla reclusione come il 2555 e il 2556, o con 35 centesimi se si era condannati alla detenzione come gli altri numeri di matricola della nostra camerata. Il 2555 rinunciava di solito al vino. Un quarto di vino costava nove centesimi. Era del lusso. E si faceva registrare per due «uova al tegame»—cioè per 22 centesimi. Il resto lo scialava in frutta.

Il 2256 non rinunziava alla bibita. Senza una golata di vino non avrebbe saputo ingoiare tutte le porcherie del bettolino.

La lista della spesa includeva anche il caffè. Il 2557 e il 2559 persistettero per più di una mattina a berne mezza razione di cinque centesimi. Ma dovettero rinunciarvi. Era un'acqua colorata e tepida di un sapore che faceva fare gli occhiacci. Lo si inghiottiva come una medicina disgustosa.

Il 2557 non lasciò mai il suo mezzo litro di vino di 18 centesimi, anche quando il vino era acre o imbevibile come l'aceto. Egli aveva uno stomaco di ferro, ma senza una goccia di vino non avrebbe potuto digerire i piatti del menu carcerario.

Il nostro piatto di forza erano i gnocchi di dodici centesimi conditi coll'olio, puah! che sentiva della colatura della lucerna. Il lunedì avevamo la leccornia di 200 grammi di bue in umido per ventotto centesimi e di 100 per quattordici. La carne era dura come il corame, e il 2556 diceva appunto che ci volevano i suoi denti o i denti del leone per masticarla. Nel sugo pepato, pepatissimo, bisognava mollificare il pane, guardando altrove e mangiando a occhi chiusi. Il sugo era una miscela che sapeva di un po' di tutto e che diventava succolento in ragione dello sgrassamento che si compiva in noi sotto il regime di una dieta di ferro.

Non ho veduto sbatterlo via con indignazione che una volta.

—Aristocratico! aristocraticone! gridammo in coro al 2558.

—Bravi! guardateci in fondo!

C'era un semplice scarafaggio in decomposizione!

Lo regalammo al forzato latrinaio, avvertendolo della nausea in fondo.

Lo prese come un intingolo regale, leccandosi le dita e curvandosi con la fraseologia dei ringraziamenti sentiti. Ne avessero tutti i giorni i galeotti di queste vivande che rifocillano lo stomaco e rincarnano gli ischeletriti!

—La nostra sentenza—ci disse—sembrerebbe meno dura.

Il secondo moto di violenza che ricordo fu quello del 2557. Era una domenica e indossavamo già la casacca galeottesca. In domenica, in luogo delia minestra delle undici, c'è la carne e il brodo. Eravamo seduti al desco. Il 2557 aveva sbocconcellata un po' di pagnotta nel brodo, come gli altri. In un attimo lo vedemmo alzarsi con un impeto di revulsione, suggellato da un porci! Egli si era drizzato in piedi come un fusto d'orgoglio, aveva preso la gamella ed era andato alla spia del cancello:

—Dite al signor direttore che non sono un maiale! Questa carne puzza come una carogna!

Fu un sottosopra. Siccome, in fondo, volevano tutti bene al 2557, un po' perchè era un sacerdote, un po' perchè era un bell'uomo, e un po' perchè era buono, così venne su subito il sottocapo a constatare il reato d'incipiente putrefazione e a dirgli che gli avrebbe mandato di sopra una sleppa di manzo eccellente!

Noi però non gli abbiamo perdonato lo scatto che ci aveva tolto l'appetito. Il 2555 lo pregò di leggere il «manuale del buon sacerdote».

—È doloroso che un secolare vi debba richiamare ai doveri che vi impone la vostra veste. Mangiate quello che vi portano; siate umile, siate modesto, siate paziente e perdonate a tutti coloro che vi fanno del male. Andare sulle furie per un po' di carne «passata», è da uomo volgare.

—Avevo fame! capite che avevo fame! Ho 52 anni, sono alto e grosso e mi tocca mangiare la razione comune, la razione della gente mingherlina, piccola, senza il mio apparecchio digestivo! È vero o non è vero che c'è voluto più stoffa per vestirmi? È vero o non è vero che c'è il supplemento al vitto per gli uomini della mia proporzione anche nelle caserme? È dunque naturale che mi si dovrebbe trattare con una dieta diversa.

—Voi vorreste dei privilegi!

—Abbasso i privilegi!

—Privilegio! gridai anch'io.

—Privilegio! Chi è mingherlino non può mangiare come mangia un uomo dalle mie proporzioni!

Anche senza avere l'apparecchio digestivo del 2557, in galera si patisce la fame pur avendo i mezzi per il sopravitto. Se poi non se ne hanno, si diminuisce di peso di giorno in giorno.

Con 600 grammi di pane cento volte inferiore a quello del soldato, e 150 grammi di pasta sempre scellerata, un condannato si sente i crampi nello stomaco più di una volta in 24 ore. In tutte le camerate si ripete la stessa storia:—«Ho fame, si ha fame, abbiamo fame.»

I trentacinque minorenni della nona camerata, quasi in faccia alla nostra, ci impietosivano. E tutte le volte che potevamo, mandavamo loro le nostre pagnotte e la nostra minestra.

Senza le nostre cinque o sei o sette o dieci pagnotte al giorno avrebbero fatto della fame tutti i giorni. Perdio in prigione si patisce inesorabilmente la fame.

Tanto è vero che in prigione si soffre del digiuno prolungato, che il 2556—cioè il direttore del Secolo—mi disse, la seconda volta che fummo al Cellulare, queste testuali parole che trovo registrate nel mio diario:

—Una buona novità introdotta dal direttore cav. Codebò è quella di avere diviso la distribuzione della minestra e del pane. Certi prigionieri, giovinetti robusti, mangiavano d'un colpo i 600 grammi di pane, e alla sera si trovavano tormentati dalla fame. Egli pensò di distribuirlo in due riprese: alle 10 e alle 3. Così pure divise la minestra quotidiana. I detenuti, con questo sistema, hanno un cibo caldo, benefico, specialmente d'inverno.

Ma anche così, si pativa. Con una quantità insufficiente e una qualità abbominevole non era possibile uscire dal regno della fame.

__Nequizie regolamentari.__

I pasti e le cimici.

Gli entusiasmi per la quinta camerata non potevano durare a lungo. Chiudetemi in un salotto elegante con le inferriate a scacchi e il cancello di ferro, e vedrete che in pochi giorni i mobili mi diventeranno odiosi e l'ambiente senza uscita mi incendierà il cervello e mi ridurrà in un angolo a imbecillire nella mia impotenza.

Il silenzio è obbligatorio: disteso a caratteri neri sul fondo bianco della muraglia in faccia al cancello, diveniva, di ora in ora, odioso e intollerabile per dei giornalisti che avevano passata la vita tra il chiasso delle redazioni. Era una ingiunzione che ci riduceva a una ragazzaglia di casa di correzione.

Vivere con degli amici—e degli intellettuali come i miei compagni—è una vera consolazione e spesso anche un'istruzione. La loro parola vi va per le orecchie come una carezza, vi solleva lo spirito abbattuto, vi distrae e vi porta in mezzo ai ricordi tumultuosi della loro professione battagliera. Ma sempre, sempre, sempre, senza mai un minuto di isolamento, diventa, spesso, una pena e una tortura!

Vi fa male di vedere loro crescere lentamente le unghie sucide senza aver modo di offrir loro la limettina per tenerle regolate e pulite, e di assistere a tutto ciò che fuori di galera si fa nel bagno, alla latrina, nello spogliatoio e nella stanza da letto. E vi sentite desolati di udire la bestemmia di qualche vostro compagno che aveva l'abitudine di lavarsi i denti collo spazzolino.

—Che male ci sarebbe—incominciava a dire qualcuno di noi—se la direzione mi permettesse uno spazzolino e della polvere e dell'acqua dentifricia?

—E che strappo si farebbe al regolamento se io, prete, continuassi a indossare quella divisa di sacerdote che io credo di non avere disonorata?

—Capisco la punizione.

—Io no, non la capisco. Se capisco qualche cosa è la mia separazione dalla società che posso avere offesa. La punizione che mi distrugge è un delitto. E lo griderò dai tetti, o meglio dal giornale, non appena al largo.

—Lasciami dire. Io posso capire la punizione. Ti va? Ma la raffinatezza di sopprimermi le sigarette se ho l'abitudine di fumare, di mandarmi a dormire all'ora delle galline invece di lasciarmi lavorare o studiare, di costringermi a stare sul saccone duro come una pietra per dieci o dodici ore, di non permettermi una locomozione che mi mantenga sano, di tenermi in piedi con una nutrizione che mi restituirà alla mia famiglia, e alla società, idiota e incapace di guadagnarmi l'esistenza?

—Taci! C'è raffinatezza più diabolica di quella di romperti violentemente la comunicazione epistolare con tutto il mondo che hai conosciuto, che conosci, che ti ama e continua a volerti bene, anche dopo la condanna dei tribunali di guerra? Raffinatezza più triste, più sciagurata di quella di impedirti di scrivere a tua moglie, a tua madre, ai tuoi figli, a coloro che ti amano e che ti piangono e che ti idolatrano, se non una volta ogni tre mesi, se sei alla reclusione, o una volta al mese, se sei alla detenzione? E anche questa lettera mensile e trimestrale non è un'altra tortura? Tu non puoi parlare, ti si dice, che dei tuoi interessi. Non è un interesse dire, per esempio, ai tuoi di casa di non addolorarsi perchè ti si è mandato alla reclusione innocente? No, perchè insulteresti la giustizia. Non è un interesse parlare di ciò che fai e di ciò che vedi, della tua salute, se stai bene o male? No, perchè il condannato non deve parlare di quello che avviene nella casa di pena!

Più di una volta, io e don Davide abbiamo dovuto discendere in direzione a riprenderci la lettera coll'ordine di riscriverla senza qualche frase contraria al regolamento. Per due settimane ero stato malaccio. Mi sentivo debole e non sapevo più digerire la pagnotta e la pasta del penitenziario. Scrissi nella lettera della mia indisposizione, aggiungendo «che adesso stavo bene». Si poteva essere più modesti? La direzione trovò modo di farmela rifare.

—Non le pare, signor direttore, o signor capo, che questa sia una notizia di carattere intimo?

—No, perchè il recluso non deve occuparsi di ciò che avviene nel reclusorio.

—Aguzzini! gridai mentalmente. Aguzzini!

E le lettere che ci pervenivano dal di fuori? Bastava un accenno alla vita pubblica, un alito dell'agitazione che si faceva a favore dei condannati, un'allusione a una prossima amnistia, una frase ministeriale, il pensiero di un deputato, l'opinione di un giornale, perchè la mano della direzione corresse sul delitto, con la penna carica di inchiostro a coprire tutto di nero. Ho veduto delle lettere piene di chiazze, piene di rigoni che sgrammaticavano la dicitura o sopprimevano le parole che potevano suscitare delle speranze o lasciar trapelare la commozione pubblica.

Qualche volta la mano diventava brutale e allora recideva il foglio alla testa o alle gambe o lo metteva spietatamente in un cassetto senza neanche dire crepa al numero di matricola al quale era indirizzato!

Una scena che avrebbe fatto piangere gli amici, se avessero potuto mettere l'occhio alla spia della nostra camerata, era quella dei pasti dei primi tempi. Gli abiti dei sette amici, che aspettavano il monosillabo della Cassazione per uscire o per indossare la casacca galeottesca, si erano consumati e malconciati. C'erano delle maniche sdrucite, dei calzoni sfilacciati agli orli, degli occhielli sfatti o che si sfacevano, delle ginocchia e dei gomiti lucidi o maculati di larghi oleosi e dei baveri sui quali si era andata accumulando la forfora di una cute che nessun parrucchiere spazzolava da un pezzo.

Don Davide pareva uno di quei preti descritti dal Porta. Colla veste piena di macchie, colle calze rotte, colle brache stralucide che perdevano, col nero, dei brandelli, e con la collarina inamidata da tanto tempo che lasciava vedere il giallo delle trasudazioni del collo.

Abituati al tovagliolo e alla posata lucente sul candore diffuso per la tavola, la mobilia della nostra sala da pranzo si riduceva a una lunga panca dalla quale sbucavano, di tanto in tanto, gli insetti rossicci che la povera gente chiama cimici, e a dei sedili di legno rotondi, le cui capocchie laceravano di frequente i calzoni dell'avvocato Romussi. Mettevamo la panca vicino alla seconda finestra e sedevamo quattro da una parte e tre dall'altra. Coi tozzi di pane sparsi qua e là lungo la panca, colla gamella fumante sul palmo della mano sinistra, e un moncone di cucchiaio di legno greggio col quale tentavamo di sbasoffiar via una pasta scondita o condita fino al disgusto, potevamo essere copiati per un mucchio di pitocchi di frateria che si scalda lo stomaco colla minestra del convento.

Ho parlato delle cimici, perchè ne ho trovate dappertutto. Nei camerotti polizieschi, nelle celle del Cellulare di Milano, nelle stanze del carcere giudiziario di Genova e nello stanzone del penitenziario di Finalborgo. Dopo la condanna, il Turati occupava, al Cellulare, una stanza spaziosa e ariosa nell'esagono del secondo raggio. Io, De Andreis, Romussi e Federici passavamo parte della giornata con lui. Nessuno di noi poteva adagiarsi sul suo letto a pagamento, senza che venissero alla superficie filate di queste schifose bestioline che fanno pancia col vostro sangue. Mi diceva Turati che di notte sciupava il tempo con questi puzzolentissimi insetti che non lo lasciavano dormire. Tre o quattro giorni prima che andasse alla reclusione, il direttore, impressionato dal suo tormento, gli fece imbiancare il cellone e passare alle fiamme il letto di ferro.

—Ne ho trovate, ci diceva lo scopino incaricato di farli morire col fuoco, a nidiate. Morivano mandando un'odore pestilenziale che mi dava le vertigini.

Un'ora dopo questo nettamento e questa pulitura, ne vedemmo tre che andavano via, pian piano, per il cuscino!

Nelle vecchie carceri di Genova non mi sono fermato che 15 ore. Se vi fossi rimasto di più, ne sarei uscito dissanguato. Venivano fuori a frotte.

Il soffitto ne era pieno e negli angoli delle pareti si potevano prendere a manate. Alla notte, per paura che mi andassero nelle orecchie, o su per il naso, o in bocca, fui costretto ad alzarmi. Il letto ne formicolava. Potevo coglierle a manate al buio. Sdraiato non mi lasciavano quieto. Le mie mani precipitavano sulle gambe, sul petto, e le rincorrevano per il corpo senza riuscire mai a liberarmene. Come erano spietate le cimici del carcere giudiziario di Genova! In questo carcere maledetto, non ebbi coraggio di mangiare, ma ebbi l'imprudenza di comandare un caffè. Ritirandolo dal buco dell'uscio me ne caddero tre nella chicchera e due nel piattino. Buttai via la bevanda dal disgusto.

Nello stanzone di Finalborgo formicolavano per i cornicioni, si sorprendevano sulle pareti, si trovavano in letto, nelle screpolature dei muri, nelle commessure delle finestre, e perfino nelle crepe del tavolo.

L'ambiente ha una grande influenza sugli individui. Anche l'uomo cresciuto nella reggia, nelle tombe penali diventa, a poco a poco, un porco. Dopo due o tre mesi non è più schifiltoso e non si meraviglia più di nulla. Si abitua a mangiare le cose meno mangiative o più repulsive con le i mani, a pulirsi le dite nella giacca, a vedersi gli orli delle unghie calcate di sudicerie nere, a lavarsi maledettamente male in un cucchiaio d'acqua senza sentirsi invaso dal malessere, a considerare i pidocchi come amici di casa e a prendere delicatamente le cimici senza contorsioni e travolgimenti d'occhi.

Se volete convincervi che l'ambiente agisce potentemente sull'individuo, invitate un ex recluso a pranzo. Osservatelo attentamente quando mangia e lo sorprenderete più di una volta in flagrante violazione delle regole più comuni della persona allevata bene.

__Don Davide Albertario.__

Se il direttore dell'Osservatore Cattolico fosse stato ministro della chiesa anglicana, a quest'ora egli sarebbe padre di una nidiata di figli. Perchè le misses non gli avrebbero permesso di consumare la gioventù nel celibato, in un paese ove il servo di Dio prende moglie come qualunque altro mortale.

Fisicamente è più corazziere che sacerdote. È un bell'uomo alto, spalluto, con un petto che traduce la sua salute di ferro, piantato su due gambe poderose, che fanno tremare le pareti della quinta camerata di Finalborgo quand'egli passeggia concitato o disperato di sapersi un leone in gabbia. La dieta della fame non è riuscita a smagrarlo, o a chiazzargli di lividure le guance voluminose, o a fargli nascere delle rughe sulla fronte. I suoi 52 anni sembrano 38. Ha la carnagione di un prelato in fiore, gli occhioni luminosi che rivelano la bontà del suo animo ed è dotato di una forza che mi piegava in due non appena mi mettevo a lottare con lui.

La sua attività cerebrale è prodigiosa. Non appena gli furono concessi gli strumenti di lavoro, la sua mano non è stata più quieta. Con una corrispondenza che avrebbe tenuto occupati tre segretari, egli trovò modo, in due mesi, di riempire 587 fogli di protocollo, che rappresentano l'opera sua di prete, di giornalista, di predicatore e di recluso. Senza essersi completamente sbottonato, come in una autobiografia, i lettori—se i manoscritti verranno pubblicati—vi troveranno il polemista che si ferma dove incomincia l'invettiva, il letterato che si sdraia con compiacimento nel suo letto intellettuale, l'oratore che ripassa pieno di letizia attraverso le sue orazioni trionfali, il sacerdote che sta ritto sulla tolda della sua nave cattolica, agitando il suo programma che si riassume nella formola «col papa e per il papa».

È nato nella provincia di Pavia, studiò all'Università gregoriana—frequentata dagli stranieri che si avviano alla carriera ecclesiastica. Si laureò in sacra teologia nel 1868, in diritto canonico nel 1869 e a 23 anni venne consacrato sacerdote dall'arcivescovo di Milano, mons. Calabiana, unitamente al suo compagno di infanzia, il padre Zecchi, il noto scrittore della Civiltà Cattolica e uno dei più insigni oratori della predicazione sacra.

L'Osservatore Cattolico si può dire sia stato il suo bimbo adottivo. Incominciò a volergli bene nel 1869 e continuò ad amarlo e a nutrirlo col suo ingegno fino al giorno in cui Bava Beccarla mandò i carabinieri e i soldati ad arrestarlo come un malandrino qualunque nella casa paterna.

Io non posso dire di essere un lettore costante di fogli religiosi. Ma credo che non ci sia in Italia un giornale del partito che possa essere paragonato al quotidiano di don Davide. È un giornale che sente tutta la modernità professionale senza perdere del suo concetto fondamentale, che è la necessità della chiesa cattolica. È redatto bene, redatto da giovani che lo seminano di idee col ventilabro e che riempiono le sue colonne di uno stile spigliato, nervoso, che non lascia mai giù le ali sui guazzi sociali per paura di sporcare chi legge. È interessante per ogni lettore. Vi trovate l'appendice drammatica, l'appendice letteraria, l'articolo politico, il trafiletto, la cronaca, gli avvenimenti internazionali e una larga piattaforma per i servizi municipali—per le questioni operaie—per i problemi dell'avvenire.

L'Osservatore Cattolico è stato condannato nella persona del suo direttore per queste motivazioni: 1.° perchè ha con fine ironia combattuta la monarchia; 2.° perchè si è unito ai repubblicani e ai socialisti e agli anarchici per demolire le istituzioni dello Stato; 3.° perchè ha eccitato all'odio i contadini contro i signori e contro altre classi sociali; 4.° perchè ha educato il clero alla vita battagliera invece che alla missione di pace alla quale è destinato da Cristo.

—Che c'è di vero, don Davide, in tutto questo?

—Per capire la portata della motivazione della sentenza che mi ha relegato per tre anni in questo reclusorio, bisogna conoscere la natura del mio giornale. L'Osservatore Cattolico è anzitutto un giornale che si dedica alla propaganda e alla difesa della chiesa cattolica e del papa. Siccome l'Italia è aderente a questa chiesa, così si deve ritenere necessaria la religione al bene sociale, per la vita presente e per la vita futura, come si deve ritenere necessario che essa sia tenuta in onore e non perda influenza. Questo è il caposaldo del programma del mio giornale nel rapporto religioso.

«Nel rapporto politico io, direttore dell'Osservatore Cattolico, sono indifferente alla forma monarchica o repubblicana di governo. Do la preferenza a quella forma in cui i governanti sono col mio programma religioso, al quale subordino tutto il resto. Quindi è una bugia dire che io combatta la monarchia, come è una brutta invenzione quella di accusarmi di complicità coi repubblicani e socialisti e anarchici. In un ambiente monarchico io lavoro in mezzo al popolo, perchè il governo abbia a cessare dall'opposizione contro il papa e contro la religione e abbia a promuovere la pace religiosa nel paese.

«Il mio programma sociale è ampio e generoso. Io accetto tutto ciò che nei postulati del socialismo è compatibile colle dottrine della chiesa cattolica e mi adopero per attuarlo formando l'opinione in questo senso. Deploro il concetto fondamentale materialista del socialismo, deploro che non ammetta le verità cattoliche, perchè il materialismo e la negazione delle verità cattoliche scavano un abisso tra il cattolicismo e il socialismo. L'Osservatore Cattolico combatte la speculazione che impoverisce, combatte l'usura, invoca provvedimenti di Stato che salvaguardino i diritti e gli interessi delle classi inferiori e ne migliorino le condizioni. Esso però rifugge dallo Stato collettivista. Tutto questo vogliamo ottenere con la persuasione della propaganda pacifica, con la carità generosa, col mezzo delle autorità e delle leggi. Credetelo, è una calunnia dire che io ecciti all'odio o alla discordia.

«Da questo potete argomentare del valore delle motivazioni della sentenza del Tribunale militare. No, non sussiste la fine ironia contro la monarchia, non sussiste la congiura con altri partiti contro le istituzioni, non sussiste l'eccitazione di odio tra le varie classi sociali, non sussiste l'educazione del clero in senso opposto alla missione assegnatagli da Cristo. Non sussiste nulla di nulla. Di vero non c'è che questo: che si è mandato in galera un innocente.

«Volete una prova che il direttore dell'Osservatore Cattolico non ha tentato di sviare dal retto sentiero il clero italiano? Da che sono nella casacca del galeotto, sua santità il papa mi ha mandato la benedizione più di una volta, e una medaglia d'oro che tengo carissima, centinaia di vescovi, da ogni parte d'Italia, scrissero a me e a mia sorella lettere affettuosissime, sacerdoti e vescovi—come quello di Savona—sono venuti a trovarmi e a ogni distribuzione postale ricevo, come avete veduto, un mucchio di lettere e di telegrammi. Se non ci fossero di mezzo i patimenti di questa vitaccia, che sopprime il sacerdote e distrugge l'uomo, direi che il Tribunale di guerra mi ha reso un segnalato servigio.»

L'affezione per sua sorella è nota a tutti coloro che leggono le sue lettere datate da Finalborgo e indirizzate alla «cara Teresa». Sono lettere castrate e scritte nella condizione di un uomo che non può dire quello che sente e che vuole. Ma in esse è il pathos di un'anima addolorata. C'è la tenerezza di chi soffre della separazione e della lontananza. E la sorella lo ricambia di pari affetto. La sua assenza è il suo strazio. Per liberarlo, ha messo sossopra mezzo mondo. Ha mandato una lunga epistola all'episcopato italiano—ha scritto al presidente dei ministri e ha fatto bussare, a insaputa del fratello, fino alle porte reali.

In mezzo a noi, don Davide, non ha mai fatto sentire il prete. Egli era un compagno che prendeva parte alla discussione, che si adattava in un modo mirabile alla vita comune, e che rideva delle nostre risate come un giovialone che non si ricorda della condanna.

__I forzati.__

Il «forzato» è colui che sta scontando la sentenza che gli ha inflitto il vecchio codice. Lo si può dire il martire del bagno penale. Nessuno ha subito le sue torture. Egli è passato attraverso tutte le sevizie che sono nel regolamento composto dagli «estratti dei regi bandi del 22 febbraio 1826». Un'infrazione qualunque, come quella, per esempio, di essere reo di bestemmia o di imprecazione contro l'onore e la riverenza dovuta alla Maestà di Dio, alla Beatissima Vergine ed a tutti i santi, lo avrebbe mandato croatescamente sulla panca a ricevere la punizione di parecchie «bastonate». Tutti noi, compresi i direttori dei reclusori, possiamo smarrire qualche cosa senza crederci, per questo, meritevoli di punizioni corporali, non è vero? Il forzato che perdesse il semplice libretto di «massa» viene invece disteso sulla pancaccia della bastonata!

Istigando alla disubbidienza o all'ammutinamento o rivoltandosi contro i «suoi custodi», il galeotto incorreva «nelle pene corporali estensibili sino alla morte».

Il bastonatore era sempre un grandiglione dalle braccia poderose che faceva divenire alto il sedere con colpi che strappano dei misericordia!

L'abito del forzato differisce da quello del recluso. Il forzato a vita indossa una giacca rossa, porta una callotta verde alta e rotonda, ed ha sul cuore una striscia nera sulla quale è stampato il numero di matricola.

<tb>

Il forzato a tempo ha la callotta scarlatta e la striscia di un verde slavato. Se vedete un camerotto o un cortile di queste «facce da galera», vi sentite correre per la schiena i brividi dello spavento. Provate gli orrori di sapervi dinanzi ai sanguinarii che hanno fatto a pezzi le donne, squarciata la gola agli uomini e spaccato il cranio ai bimbi. Il loro abbigliamento e il loro viso galeottizzato triplicano la ripugnanza che vi ispirano.

Non appena il forzato entrava nello stabilimento di pena, gli completava la toilette il fabbro, un altro collega che gli ribadiva al malleolo l'anellone di ferro massiccio della catena. Il catenone a diciotto maglie era così lungo e così pesante che nessun forzato, per quanto forte, sapeva stare in piedi più di un'ora.

Uno di questi sventurati di Finalborgo mi descriveva tutta quella massa di ferro, che il codice gli imponeva di trascinarsi dietro fino a sentenza finita, con queste parole:

«La maniglia—come chiama lui l'anellone—era assai diversa da quella che mi vedete ora. Era un grosso cerchio che mi dava un grande fastidio. Di giorno mi lacerava le mani a ogni movimento e di notte, con la parte mal ribadita, mi scorticava l'altro piede tutte le volte che mi voltavo addormentato. Mi alzavo con la gamba stracca e indolenzita.

«Il catenone mi tribolava dalla mattina alla sera. Non sapevo dove metterlo. Se me lo tiravo sui fianchi, non sapevo reggerlo più di dieci o quindici minuti. Erano minuti di spasimi. Se me lo tenevo sospeso con le mani, dovevo abbandonarlo non appena mi dolevano le braccia. E se me lo ammucchiavo sulla spalla o sul braccio sinistro, sentivo subito il bisogno di levarmelo.

«Erano dei quintali che mi indemoniavano. Non era che in terra, seduto sulla pietra, incatenato al grande anello di ferro confitto nel rialzo del granito della cella, che potevo trovare un po' di quiete. Con la maggior parte del peso sul suolo, si poteva tirare il fiato. Ma tutti noi, di questi ambienti, sappiamo che il moto delle gambe è questione di vita. Guai al condannato che poltrisca nella disperazione! La sua sentenza si estingue presto. Egli si avvia col treno lampo al sepolcro.»

—E adesso, quest'altra di quasi due chili di ferro, che vi penzola dalla gamba, vi rompe le scatole?

—Una catena alla gamba, coll'anello massiccio che non si può rompere che colla morte o nel giorno in cui avete finito di espiare la pena, è un tormento senza nome. Quante volte questa catena mi ha fatto pensare al suicidio!

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Il galeotto di questo straziante periodo, che si chiuse, credo, nel 90, veniva accoppiato con un altro.

Il compagno di «branca», vale a dire di catena, rimaneva indivisibile per degli anni e degli anni. Attaccati allo stesso anellone del macigno, dovevano dividersi, con la noia penosa dell'unione coercitiva, il peso della catena e seguirsi ogniqualvolta uno si moveva.

Se, per esempio, il 387 si alzava, il 130 non poteva rimanere seduto. Se uno degli infelici aveva dei bisogni urgenti, l'altro si doveva accosciare rasente il mastello puzzolente e aspettare che facesse i comodi suoi. I passi di ciascuno dovevano essere studiati, e il desiderio del 387 doveva essere il desiderio del 130. Immaginatevi, mi diceva uno di questi forzati, di trovarvi appaiato con un tale che avesse la diarrea, come è toccato a me per tre mesi! O supponete, voi che siete educato, che non avete perduto tutto e che aspirate alla riabilitazione, di essere inchiodato allo stesso anello con un uomo volgare, magari brutale, magari capace di fracassarvi lo stomaco con un pugno per una parola mansueta che gli è andata nell'orecchio come una scudisciata!

—Ho letto una volta un libraccio che raccontava gli orrori degli inquisitori spagnoli. Certamente, leggendo, mi si accapponava la pelle. Ma non credevo che il Gutzman sia riuscito più feroce dell'inventore della «branca». Essa non vi fa scricchiolare le ossa contorcendovi, ma a lungo andare vi deturpa e vi masturba la vita assai più degli ordigni di tortura. Appaiato per degli anni con un grassatore o un brigante o un omicida! Pensateci un minuto e vi troverete col capogiro!

<tb>

In generale il forzato, come lo abbiamo conosciuto noi, è buono. Nella zona della espiazione diventa un fratello che si intenerisce dei vostri dolori e vi rincuora alla speranza. A Finalborgo c'è stato un tempo in cui adempiva alla funzione pietosa d'infermiere Alfonso Carbone, un capo brigante che aveva della iena e che mutilava le sue vittime attorcigliandosi le loro budella intorno la mano. In infermeria, lo si poteva dire una suora di carità. Si alzava a tutte le ore, accorreva al letto di chiunque lo chiamasse e faceva di tutto per alleviare le sofferenze. Un compagno, che aveva passato dieci e più anni al «Castellaccio», mi raccontava della bontà di Cipriano La Gala. Egli, Cipriano La Gala, era là a scontare la prima condanna di dieci anni di isolamento. Fu un modello di condotta. Così irreprensibile che il direttore, signor Brunellesco, dopo sette anni, lo fece scatenare e mettere in compagnia di altri quindici galeotti. In sette anni il La Gala non aveva mai detto una parola alla guardia, che non fosse di ringraziamento. Nella vita in comune, egli era un agnello che si prosternava alla volontà del primo o dell'ultimo galeotto. Durante la sua residenza, non ebbe mai un rapporto, mai un accento che rivelasse l'eroe di tanti delitti.

In galera, ho conosciuto gente che sente la fratellanza come non la si sente all'aria libera. Ho conosciuto forzati che si sono levati il pane di bocca per darlo a chi aveva più fame di loro. So di un tale che si è tolto il panciotto, che si era pagato coi suoi denari—perchè il panciotto è una concessione del direttore o del medico—per regalarlo a un poveraccio senza fondo di massa, oppresso dalla tosse a scatti che non perdona.

La solidarietà per il diritto comune è nel grido di fuori! fuori! di tutte le camerate, quando i forzati si credono curvati dall'arbitrio e vittimizzati dagli abusi. Spieghiamoci. Supponete che una guardia sia tanto cattiva da farvi punire per dei nonnulla o che il pane non sia che della mota malcotta e indigeribile. In galera non è ammessa la protesta, nè collettiva, nè individuale. Se voi dite: rifiuto questa gamella di minestra perchè è immangiabile, siete sicuro che vi si ordina di portare il vostro materiale lettereccio in magazzino e di andare diffilati ai banchi di rigore. Se vi fate registrare per un'«udienza col signor direttore», vi capita, novantanove volte su cento, che il direttore vi dice che siete un insolente e che fuori, prima di andare in galera, non mangiavate tanto bene e che per questa volta vi manda a mangiar meglio nel cubicolo, per una quindicina di giorni, con l'aggiunta della camicia di forza se osate lamentarvi.

Sovente alcuni forzati, si sottomettono alle punizioni individuali per richiamare l'attenzione del direttore su questo o quel sopruso. Ma quando il sopruso continua con maggiore accanimento e quando il direttore si ostina a «ignorarlo», allora i forzati perdono la pazienza e ricorrono alla violenza del fuori! fuori!.

__Un fuori! fuori!__

Uno di questi ammutinamenti è avvenuto poche settimane sono nella casa di pena di Padova. L'ultimo di Finalborgo è sotto la data del 3 gennaio 1896. Il direttore Codebò aveva assunta la direzione del reclusorio nell'ottobre del 1895. Egli vi era andato preceduto dalla fama di direttore «severissimo», d'un direttore, per esprimermi con la frase di un forzato, che terrorizzava con una disciplina di ferro.

Direttore di un reclusorio, egli voleva che imperasse il silenzio assoluto. Il guaio era che gli inquilini di questo bagno penale—come lo si chiamava mava prima—erano misti: cioè erano reclusi e forzati.

I primi, col nuovo codice, devono scontare la condanna senza parlare; i secondi, col codice vecchio, possono conversare sottovoce tra loro.

Il reclusorio poi deve essere a celle. E nel reclusorio di Finalborgo non ci sono che cubicoli, banchi di rigore e celle di punizione in Torretta. Nei lavorerii in comune avveniva, per esempio, che i reclusi dovevano tacere e i forzati potevano scambiarsi delle parole sottovoce.

Il direttore, per impedire che si mancasse di rispetto al regolamento, fece affiggere un ordine del giorno il quale ingiungeva di farla finita col chiasso. Forzati e reclusi lo stracciarono. Il direttore incominciò allora con le punizioni e i reclusi e i forzati si misero a gridare e a urlare che gli avrebbero fatto un fuori! fuori!

La sera prima, i più eccitati si erano scambiati degli abbracci e salutati con dei baci, dicendosi l'un l'altro: chi sa quando ci rivedremo!

Il giorno dopo si trovarono—come dicevano loro—decimati. In ogni camerata ne mancavano venticinque. Dove erano andati? Erano stati mandati via o erano in punizione?

La questione del malcontento generale non era mica limitata al «silenzio». I reclusi si lamentavano anche per altre cose. Essi dicevano, per esempio, che era antiumano e contrario all'igiene affollare i tavolati delle camerate di ottanta pagliericci. «Dormivano l'uno addosso all'altro come bestie.» Uno—mi si raccontava—che avesse avuto bisogno di sputare di notte, doveva mettersi sul sedere e sbattere l'espettorazione al di là dei piedi.

La direzione persisteva nel mantenere due soli—dico due soli—catini di zinco, d'un litro e mezzo o due d'acqua ciascuno, per ogni camerata. Alla mattina era una lotta. Tutti volevano lavarsi nel recipiente, e invece dovevano contentarsi di una manata d'acqua che raccoglievano nel cavo delle mani. Questo modo di lavarsi produceva un altro inconveniente: lasciava le pietre della camerata sempre umide. E anche la popolazione delle case di pena ha una paura maledetta dei reumatismi.

Nel subbuglio entrava anche la biancheria. Si cambiavano loro le lenzuola ogni quaranta giorni e le camicie lacere e acciabattate a intervalli di quindici giorni.

Il fuori! fuori! era sempre in discussione. I più vecchi ricordavano ai più giovani che tale grido voleva dire una rivolta: e una rivolta di forzati e reclusi poteva avere delle conseguenze terribilissime.

Mentre si svolgeva nelle camerate il concetto di limitarsi a una protesta individuale, si sentirono dei gemiti e delle voci strazianti che uscivano dai banchi di rigore.

Il fuori! fuori! fu un fatto compiuto.

Tutte le camerate furono in piedi. In ciascuna nacque un pandemonio indescrivibile. Le «asse dei pancacci»—mi diceva uno di loro—incominciarono a volare da una parte e dall'altra. Si urlava, si sgolavano ingiurie e si imprecava contro la giustizia. I reclusi aggiunsero al casaldiavolo il rifiuto della minestra. Nessuno di loro aveva voluto sporgere la gamella.

—Datela ai maiali! datela!

Un quarto d'ora dopo, lo stabilimento era invaso dalla truppa, dai carabinieri e dall'autorità locale.

Il direttore, seguito dai soldati, si presentò all'uscio del banco di rigore per sedare il tumulto.

I puniti gli risposero scaraventando al buco della spia una fiaschetta d'acqua. Gli spruzzarono la faccia e lo scalfirono in qualche parte.

Passò al cancello delle due camerate dei reclusi. Lo ricevettero con degli urli e dei gesti minacciosi. Lo accusarono di essere «causa di tutto il male» e lo coprirono di villanie.

L'eccitamento divenne così intenso che i capitani dei carabinieri e della fanteria dovettero pregarlo di ritirarsi.

Gli ufficiali, con delle buone parole, cercavano di calmarli. Promettevano loro tutto, compresa la giustizia. Ma, mentre riducevano una camerata alla ragione, le altre davano fuori e strepitavano dicendo che era meglio morire subito che continuare una «vita infame come questa». Dappertutto si schiamazzava e si levavano in aria i pugni come da gente determinata a tutto.

Qua e là si sentivano voci che domandavano un'inchiesta.

—Vogliamo la Commissione! Venga una Commissione da Roma!

A mezzogiorno erano nel reclusorio il prefetto d'Albenga e il sindaco di Finalborgo.

Il prefetto parlava loro con grazia. Incominciava i suoi piccoli discorsi così: Poveri sventurati! Ma li terminava dicendo loro che aveva pieni poteri civili e militari.

—Se non farete silenzio, mi varrò di questi diritti.

Fu come una dichiarazione di guerra.

Gli occhi dei forzati erano illuminati dalla vendetta.

Il capitano ordinò il pronti e i fucili si curvarono verso la regione del petto dei rivoltosi.

Non ci volle altro. Nacque tra i forzati la gara di voler morir prima. Ciascuno si cavava la giacca, si sbottonava la camicia e si presentava ai fucili, gridando:

—Fuoco! fuoco!

Il primo di tutti fu Vitale—un forzato siciliano. Sbattuta in terra la giacca, diede un addio commovente ai compagni, ne baciò qualcuno stringendoselo al seno, e con un addio generale, un «addio a tutti», si mise innanzi ai soldati:

—Voglio essere il primo! Tirate! tirate! Fate fuoco! fate fuoco!

Coloro che hanno assistito a questa scena mi hanno assicurato che nessuno aveva mai veduta tanta gente offrire entusiasticamente la vita grama della galera alle palle militari.

—Avremo finito di tribolare! Fate fuoco! fate fuoco!

Ufficiali e soldati rimasero paralizzati. Sarebbe parso loro una vigliaccheria di tirare sulla moltitudine che voleva morire.

Il capitano, invece del fuoco, ordinò il pied'armi e si ricominciarono i discorsi.

Ci si disse che «eravamo tutti figli d'Italia, figli di una grande e bella nazione e che anche noi un giorno saremmo stati degni di farne parte».

Le parole affettuose passarono sui loro dolori come un balsamo. L'odio lasciava posto al moto del cuore.

Le mani dei galeotti irruppero negli applausi e le loro bocche incominciarono a gridare: Viva l'Italia! Viva l'Italia!

Ai reclusi venne fatto lo stesso discorso e anche nelle loro camerate risonarono i battimani e il: Viva l'Italia!

I soldati rimasero nel reclusorio tre giorni e i caporioni passarono sotto consiglio e andarono ai banchi di rigore per qualche mese. Dopo vennero quasi tutti traslocati in case di pena, ove la reclusione si svolge in tutto il rigore.

Il risultato è chiaro: il fuori! fuori! fa delle vittime e lascia gli altri in una condizione peggiore di prima.

In galera non si protesta: si muore.

__L'influenza dei sanguinarii.__

Il Frezza e i «mozzi» nostri amici.

In galera, anche se siete superbiosi o illustri, diventate così piccini che, in meno di due mesi, non ricordate più se eravate qualcuno. L'ambiente e i compagni vi sfasciano e vi disperdono il passato e vi mettono sur una base d'eguaglianza sulla quale i livellatori del tempo cromwelliano non troverebbero da ridire.

Tra voi e gli assassini della Carcano di via Torino non può essere che questa differenza: che se non siete sanguinarii come lo Zanzottera e il Coturno, non dominate la camerata e non suscitate l'ammirazione dei vostri colleghi di catena che idolatrano il coraggio infuturato nelle pagine dei delitti celebri.

I sanguinarii, raccontando i romanzi della loro vita, crescono di fama ogni giorno, diventano temuti e assumono, sovente, il posto di «capo di società»—il posto più eminente al quale possa aspirare chi indossa la casacca del forzato. Perchè il «capo di società» è l'arbitro o il despota dei «paesani» o dei «patriotti».

È lui che scioglie le contese e che ordina il boycottaggio di questo o quel galeotto sospetto di delazione o di essere il confidente di qualche agente di custodia. Quando il «capo di società» sussurra all'orecchio degli altri il nome del «traditore», lo sciagurato si trova in una condizione peggiore del landlord crudele in Irlanda. Egli non solo subisce l'isolamento del coleroso, ma è respinto da tutte le camerate.

Le autorità del penitenziario sono obbligate a curvare la fronte dinanzi a questa sentenza invisibile che infligge al malnato una specie di ostracismo sociale. E quando non vogliono sottomettersi alla legge galeottesca, avviene sempre qualche inaffiata di sangue. Mi spiego con una di queste tragedie che si è svolta nel bagno di Castellaccio nel 1880. Due galeotti—un abruzzese e uno di Terra di Lavoro—vennero assunti come «mozzi», cioè come persone di servizio. Una spia tra i «mozzi» diventa, in un bagno, una vera disgrazia in famiglia, mi diceva uno dei miei amici forzati, ora in un altro bagno. Nessuno si arrischia più a mandare un addio a un «paesano» nella camerata in faccia.

L'odio per la spia è il sentimento che signoreggia tutti gli altri. In ogni galera e in ogni carcere giudiziario voi trovate sulle pareti, sui cancelli, lungo i corridoi e per i muri dei raggi di passeggio un solo pensiero che nessun direttore è mai riescito a far cancellare, questo:—Morte ai boia! I boia, cioè le spie, cioè i Petito, non hanno quartiere. Sono considerati dei rognosi e presi a pugni e spesso a coltellate. Dove è uno di loro, l'ergastolano o il recluso o il detenuto non è più tranquillo. La sua vita rimane un tormento spasmodico fino alla sua scomparsa. Chi l'uccide diventa un eroe ed ha l'applauso generale, perfino, spesso, dei secondini che disprezzano le spie.

Francescone, della provincia di Caserta e Topino, di non so più dove, vennero incaricati di «accomodare la faccenda.» E costoro, senza giri fraseologici, proposero ai due «sospetti» il dilemma: o di smettere di fare il «mozzo»—occupazione che dava loro modo di fare la spia—o di prepararsi a morire.

I due mozzi che si credevano protetti dal personale del bagno, non vollero credere alla sentenza e tirarono innanzi a fare il loro mestiere. La cosa non andò per le lunghe. I due sanguinarii, con un pezzo di cerchio di mastello, si erano preparati due ferri affilatissimi. Il giorno in cui, nel cortile di passeggio, capitarono loro tra i piedi, non esitarono un attimo. Piombarono sulle «spie» a guisa di due «leoni». Una di esse cadde in terra come un sacco di cenci. Era morta. L'altra, ferita mortalmente, si contorceva e boccheggiava nel proprio sangue.

Il Francescone credo che sia ancora nel bagno Dalghera di Finalborgo, col numero di matricola 2031.

L'influenza del sangue, tra i criminali, la trovate pure nei «delitti di camerata». I delitti di camerata si limitano a tre: amori turpi—scoppi di odio personale—e vendette covate a lungo.

I primi possono infiammare o eccitare i galeotti fino all'omicidio—l'odio personale può erompere con una morsicata che mangi via il naso o strappi fuori un orecchio o lasci un guazzo sanguinoso nel collo—e la vendetta—specialmente tra i delinquenti del Mezzogiorno, quali erano quelli di Finalborgo—si compie quasi sempre con lo «sfiguramento». Vale a dire facendovi uno sberleffo che vi renda orribili tutta la vita, come la celebre fioraia milanese scomparsa dalla scena col viso illustrato dal rasoio di un malnato.

Nel bagno di Castellaccio, per esempio—diceva il mio informatore che aveva passata la gioventù in parecchi bagni—le «tagliatine di faccia» erano avvenimenti quotidiani.

Mi pregava però di credere che coloro che si «abbandonavano a questi brutti scherzi» erano tutti «avanzi di galera».

—E voi credete che queste esplosioni di collera malvagia elevino gli autori di qualche gradino sugli altri?

—Senza dubbio. Sarà qualche volta anche per paura. Ma è certo che questi misfatti, se non hanno, s'intende, la disapprovazione della maggioranza e dei cosidetti capi di società, costituiscono, più che un merito, una prodezza che dà dell'influenza in mezzo ai compagni.

«Ve ne posso dare la prova, rimanendo qui dove siamo. Voi sapete che in questo reclusorio, due anni sono, la moltitudine dei condannati era composta di napoletani e di siciliani. Per una ragione o per l'altra erano nati, tra loro, odii implacabili. Una popolazione aveva giurato di estinguere l'altra. Mancavano loro le armi. Ma c'era un fabbro. E questo fabbro calabrese, che li armò tutti di uno spuntone micidiale, entrò nella testa dei galeotti come un dio. Non c'era più che lui. Lo si venerava e coloro che potevano gli baciavano la mano con la quale aveva fabbricato gli strumenti da sventrarsi l'un l'altro.

—Avvenne poi lo scontro?

—Sono stati armati sette mesi, aspettando tutti i giorni un'occhiata, o un gesto, o una parola per rovesciarsi, napoletani contro siciliani. Ma i capi di società che avevano dato ordine di guardarsi bene dal provocare qualcuno della parte nemica, evitarono il disastro di un conflitto inaudito rimandandolo di settimana in settimana. Io ne rabbrividisco ancora.

«Il Natale del 96 dissipò ogni malinteso. I capi si rappattumarono, e i siciliani e i napoletani si abbracciarono per organizzare il fuori! fuori!

—So che c'è qui anche il Frezza, l'assassino di Raffaele Sonzogno, il direttore della Capitale di Roma.

—C'era. È partito, qualche giorno prima del vostro arrivo, per il bagno, credo, di Civitavecchia.

—Che tipo era?

—Un tipo ignorante. In ventisei o ventisette anni di galera, è rimasto l'imbecille del processo. La sua mania era di credersi un personaggio politico—un uomo che aveva «fatto il colpo» per ordine di Garibaldi.

«Mentre tutti noi, che disprezziamo il sicario, gli dicevamo che non era che un vile accoltellatore che ammazza per una somma qualunque. Qualche volta si sentiva umiliato e qualche volta scattava con una caterva di improperii!

—Diceva mai nulla di Luciani?

—Ch'era contento di sapere che portava la catena come lui. Quando era abbattuto e si sentiva stufo di questa vita che non gli dava mai un barlume di speranza, lo chiamava la sua «disgrazia». Senza l'amico del Paino dell'Olmo, egli diceva che non sarebbe mai andato all'ergastolo.

__Callegari Sante.__

Il Callegari Sante, uno studente di scultura, di diciassette anni, che fece parte del cosidetto «processo dei giornalisti», si è trovato nel vagone cellulare che lo conduceva a scontare i suoi diciotto mesi di casa di correzione, con il Frezza. «La nostra prima tappa, mi disse questo minorenne, doveva essere Bologna. I miei compagni di viaggio erano quasi tutti condannati per reati comuni. Nelle celle del vagone mi parevano tante bestie. Parecchi di loro erano usciti dal reclusorio di Finalborgo ed erano sulla strada dei penitenziarii sparsi per l'Italia meridionale. Vicino alla mia cella era un certo Frezza, del quale non avevo mai sentito il nome—nome che ignorerei forse ancora, s'egli non mi si fosse rivelato per l'uccisore del povero Sonzogno. Quantunque separato, sentivo un bisogno prepotente di scappare lontano da questo ributtante assassino. Ma ero legato come un salame e nessuno dei carabinieri mi avrebbe cambiato cella. Durante il viaggio non fece che parlare. Quanto più si andava innanzi, tanto più mi diventava interessante.

—Non credi ch'egli abbia voluto personeggiare il Frezza? Perchè avevo sentito dire o letto in qualche giornale che era morto.

—Può darsi anche questo, ma non credo. Per quale ragione mi avrebbe infinocchiato, se io non lo conoscevo e se fra qualche ora ci saremmo separati per non vederci più mai?

—Continua.

—A suo modo mi svolse il dramma, persistendo a ribadire il chiodo che il suo delitto era politico.

«Prima di arrivare a Pesaro, ove dovevamo fare tappa, perchè viaggiavamo tutti per «corrispondenza», il Frezza mi si era palesato per un individuo d'animo piuttosto mite. Le dirò un fatto il quale prova che è in lui un fondaccio morale. Dall'altra parte della sua cella era una ragazza condannata per i tumulti nei dintorni di Bologna. Io non potevo vederla. Era ciarliera e un po' licenziosa. Diceva parole poco convenienti alla età sua. Il Frezza le fece una predica. Pareva un padre che desse una lavata di capo alla propria figlia!

«Tra il vagone cellulare e la carcere di sosta, mi trovai accoppiato con questo sciagurato. È piuttosto alto che basso, è snello ed ha un non so che sulla grinta che pare della malizia diffusa sulla faccia di tutti i galeotti.

«Mi raccontava che aveva lasciato il bagno penale di Finalborgo e che la sua nuova destinazione era Barletta.

«—Questo, mi disse, è il mio dodicesimo trasloco in trent'anni di bagno!

«Lungo il viaggio mi offerse continuamente del suo pane e del suo salame.

—Quanto tempo impiegasti da Milano a Urbino?

—Sette giorni per un viaggio di dodici ore! A Urbino entrai nella R. Casa di correzione—un grande edificio che pare un palazzo, situato nella parte più alta della città—e, tutto sommato, non mi trovai male. Ero il numero 362. Quando me lo cucirono al camiciotto mi parve di sentire l'ago entrare nel mio cuore. Che impressione diventare un numero! Questo stabilimento—come lo chiamano la direzione e gli inquilini—ha parecchie officine, quattro dormitorii, in ciascuno dei quali dormono trentaquattro corrigendi, e due vasti cortili per il passeggio. Ci mandavano a dormire alle sette e ci facevano alzare alle sette. Era la cosa più noiosa della casa di correzione. Dodici ore di letto duro come il macigno, quando si è giovani, sono troppe. Prima della campana io stavo là supino, ad occhi aperti, colle gambe impazienti di sdrucciolare dal letto.

—Non vi si facevan fare gli esercizi militari?

—Sì, tre volte la settimana.

«I miei compagni erano tutti minorenni e tutt'altro che simpatici.

«Mi consideravano, per le mie idee, un ladro. Dicevano che volevo la roba degli altri. Erano sboccaccioni che mi facevano schifo. Sono esseri degradati, depravati, rotti a tutti i vizi. Mi accapigliai con uno di loro che mi insultava e andai in cella di rigore, dove mi si indossò la camicia di forza per alcune ore. Al mio avversario la lasciarono per alcuni giorni.

«Del direttore posso dire tutto il bene. Egli mi procurò i mezzi di stare in esercizio, facendomi lavorare come scultore in legno. Riuscii a fare il busto di Raffaello ed altri lavori lodati dal «capo officina» e dallo stesso direttore. Il capo officina, prima che me ne andassi, volle baciarmi. Tenendomi tra le sue braccia continuava a dirmi di non dimenticarlo e di dire a mia madre che nella casa dei corrigendi avevo trovato «una brava persona, onesta e degna del mio affetto!»

«Il nostro vitto era come quello, probabilmente, delle altre carceri. Una pagnotta nera e una minestra che aveva tutti i sapori, all'infuori di quello della nostra minestra. Il Natale lo passammo maledettamente male. Ci aggiunsero al solito vitto un boccone di carne che non m'invogliava ad averne dell'altra, e un quarto di litro di vino che mi bruciava la gola.»

__Studio galeottesco.__

L'uguaglianza di trattamento non impediva ai forzati di avere una grande simpatia per gli inquilini della quinta camerata e di manifestarla tutte le volte che capitava loro l'occasione. Alla mattina e alla sera, per esempio, venti o trenta forzati addetti ai lavori del reclusorio passeggiavano nel cortile sotto le nostre finestre. Il tintinnìo delle loro catene ci chiamava al davanzale, cogli occhi tra il cassone e la ferriata. E loro, passeggiando, con dei cenni rapidi, con degli inchini che nessuno, all'infuori di noi, poteva avvertire, con dei palpeggiamenti di berretta che parevan grattamenti di capo, con dei rovesci d'occhi che mi andavano al cuore, o dei movimenti di labbra che sfuggivano alla sorveglianza, ci salutavano, ci davano il buon giorno e la buona sera, ci infondevano coraggio e ci traducevano la loro impotenza a fare qualche cosa per noi.

La loro passeggiata era per me uno studio. Notavo il loro modo di andare in su e in giù e chiamavo Romussi e don Davide Albertario a constatare che il loro passo rivelava il galeotto. Dimostravo loro come un Jean Valjean avrebbe potuto essere scoperto dal segugio di polizia anche vent'anni dopo, vestito con eleganza, in una sala immensa affollata di signori che la percorressero conversando.

Si vedeva che il piede, il quale aveva l'anellone della catena appesa al fianco o attorcigliata intorno la caviglia, indugiava uno zinzino più dell'altro a muoversi, e sfiorava assai più il suolo del sinistro, come se l'uno dei due fosse carico di piombo. Aggiungevo un'altra osservazione sui passi. Nei passi è l'uomo che è stato in branca, cioè incatenato con un altro per degli anni e costretto a esercitare le gambe in uno spazio di pochi metri. Contraggono un'abitudine indimenticabile. Adesso che sono disgiunti e che è a loro disposizione un terreno venti volte più lungo e più largo della cella, consumano l'ora di passeggio come prima, gomito contro gomito, con un movimento di tre o quattro passi avanti e indietro, voltandosi come quando erano appaiati, cioè senza urtarsi e senza spostarsi.

I tipi di forzati, che abbiamo conosciuto più da vicino e che possiamo presentare al pubblico come nostri amici, erano i «mozzi» o coloro che adempivano alle funzioni domestiche. Il 129 era il latrinaio—un galeotto che riassumeva il suo delitto come un grande artista. Si passava la mano sulla fronte e lo paragonava a «un temporale», a «una notte buia», a «una tempesta». Fu l'uragano dei sensi che gli fece recidere la gola alla padrona ch'egli serviva come cocchiere a Ferrara. Egli la voleva o viva o morta. E se la baciò durante il «temporale» tepida ancora di vita, con gli occhi spalancati che pareva una strega. Egli è ormai tranquillo e non pensa più, come gli altri, a rientrare nel mondo dal quale venne scacciato. Per lui, «stare qui o altrove, è lo stesso. In qualche luogo, mi diceva, bisogna stare».

Veduto da vicino, con gli occhi nelle buche della sua faccia massiccia e larga, si prova la repulsione di chi si sente a tu per tu con un sanguinario. Dalle sue linee facciali sbuca il violento, ghiotto dell'altro sesso. Ha delle occhiate diaboliche, lambite dalle rughettine che infittiscono e si gonfiano quando spalanca la bocca per la risata che pare uno scroscio. Le sue mandibole voluminose completano l'orrore con la zucca enorme, calva alla superficie, leggermente schiacciata alle pareti.

Intorno alle sue labbra carnose, è diffuso il cinismo che si prolunga fino alla radice del naso, dove incomincia una fronte spaziosa, fuggente, giallognola, la quale si increspa ogni volta che parla. Ha le gambe arcuate e ha sempre fame. Tutte le volte che veniva nella nostra camerata gli davamo parecchie pagnotte.

Veduto da lontano, immobile, nel sole, con le mani sulle reni e le pupille velate o addormentate nel fondo cristallino, ha l'aria di un uomo impagliato.

Un altro tipo curioso sotto parecchi aspetti, era l'infermiere che veniva nella nostra camerata nei pomeriggi della caldura a inaffiarla di acido antisettico per tentare di salvarci dalle mosche inique e dalle cimici implacabili. È un forzato di cuore, che si trova in galera per avere creduto nella fedeltà della sua donna. È piccolo, tozzo, giallastro, con una fronte bassa, rugosa e senza fughe, con delle pupille che stanno spegnendosi nelle occhiaie fonde, con un naso camuso, delle guance che incominciano a piegarsi e a incresparsi come cortine vecchie e una bocca che spalanca una voragine di fuoco pallido e lascia vedere le gengive quasi sguernite.

Non ci fu ammalato che non mi abbia parlato con entusiasmo di questa perla di condannato che nessun direttore o capo guardia è mai riuscito a punire in ventisette anni di carriera dolorosa. Me lo si raccomandava dicendomi che in infermeria, senza di lui, si poteva morire.

Egli è una suora di carità, un fratello che va dovunque si soffre. Accorre al letto degli infermi con sollecitudine materna, si alza di notte se qualcuno si sente male, e, con quel poco che il medico mette a sua disposizione, cerca di lenire i dolori altrui. Avete la schiena tormentata dai reumatismi? È la sua mano che viene a battervela, a spalmarvela di una goccia d'olio come un allievo del professor Panzeri, o a pennelleggiarvela magari con della tintura di iodio, se ne ha nell'armadio e se il medico lo ha ordinato. Avete un dente che vi strazia? Eccolo pronto con la tenaglia. Non è un cavadenti di professione, ma ha la praticaccia del frate che sdenta il pubblico senza passare gli esami.

Per provare la bontà del 193, non ho da citare che tre testimoni che non lo dimenticheranno facilmente. Gaspare Giucchetto, minorenne, Giovanni Vedani, di 32 anni, e Angelo Vanoni di Luino, come il Vedani, e padre di tanti figli.

Il primo aveva ricevuto una palla al petto con lesione, pare, al polmone; il secondo era stato colpito allo stinco, e il terzo aveva lo stomaco perforato da due proiettili—uno dei quali gli è rimasto nel corpo. Io li ho veduti in infermeria, subito dopo il loro arrivo.

Erano giunti a Finalborgo in una condizione da commuovere le pietre. Straziati dai dolori, con le ferite ancora aperte e col Vedani che non poteva e non può, credo, neppure oggi,¹ stare in piedi, perchè la ferita continua a produrre materia purulenta. In una infermeria, dove non ci sono che dei letti, una cassetta di polverine, un vasetto di tintura di iodio e della liquirizia per i catarri stomacali e le tossi che non lasciano dormire, anche un infermiere come il 193 non può fare molto. Ma li curava da cristiano, lavando, fasciando loro le ferite, aiutandoli a mangiare, curvandosi a ogni minuto per spostare la gamba al Vedani, la testa al Giucchetto e le spalle al Vanoni, il quale Vanoni era diventato tetro, perseguitato dal pensiero che il suo polmone fosse stato toccato dal proiettile. Mi diceva che «si sentiva il polmone in sussulto».

¹ Questo capitolo fu scritto prima del secondo indulto.

Il Gaspare Giucchetto portava il numero di matricola 2749; il Giovanni
Vedani il 2731, e l'Angelo Vanoni il 2747.

Don Davide Albertario non è stato in infermeria che quattro o cinque giorni a trangugiare due o tre drastici per liberarsi da una tenia che noi chiamavamo, per ridere, un «serpente boa».

Il direttore dell'Osservatore Cattolico ritornò nella quinta camerata pieno di entusiasmo per il 193 che lo aveva curato come una madre. Gli stava alle calcagna quando era in piedi, gli andava intorno quando era nell'altra stanza a scrivere e sedeva di notte, per delle ore, vicino al suo letto, a vegliare i suoi movimenti.

Il 193 è vecchio, e nelle mani della giustizia dal 25 luglio 1873 e la sua condotta è sempre stata irreprensibile. Se io fossi nel ministro di grazia e giustizia direi: basta! E lo lascerei andare al suo paese di Ariano di Puglia, a morire in santa pace, sotto gli occhi di sua sorella, che gli vuol bene, tanto bene.

Il nostro barbiere era un altro omicida, condannato a trent'anni. Nel reclusorio sembrava mite, gentile, afflitto soltanto di trovarsi in mezzo a tanta zavorra umana. Era pallido, emaciato, colle sfumature, intorno gli occhi, degli individui che portano nei polmoni i bacilli della morte. I suoi colpettini di tosse mi davano la sensazione penosa di essere accanto a un moribondo. La sua faccia era repulsiva per la carne scrofolosa gualcita dal coltello anatomico, per le contrazioni che gli avevano lasciato il segno sulle guance scarne e sulle palpebre rosse e senza peli.

Ci considerava uomini superiori e ci radeva con una delicatezza femminile, raccontandoci sovente il suo amore sventurato.

A diciannove anni si era ammogliato con una giovane che ne aveva diciotto. Dopo la cerimonia nuziale la sposa gli raccontò che un altro—un «civile»—l'aveva delibata a tredici. Fu una notte burrascosa quella della sua confessione. La poveretta gli buttava le braccia al collo piangendo dirottamente e gli domandava perdono. La colpa non era stata sua. A tredici anni non si ha la testa e una ragazza si lascia saccheggiare della verginità come un viandante dai malandrini. Lui la consolò con una sfuriata di baci, impromettendosi di obbligare il «civile» a farle la dote. Chi rompe paga, era la sua morale. All'indomani andò a trovare il «ganzo» e a dirgli come stavano le cose. Il «civile» promise di pagare. Ma i denari non venivano mai. Allora ritornò a ripicchiare allo stesso uscio e a esigere la promessa. Il «civile» gli rise in faccia.

—Adesso che l'hai, tientila!

Gli «calò una benda sugli occhi» e lo uccise come un dissoluto malvagio.

—Il mio dolore massimo è di essere stato creduto capace di premeditare il delitto.

«Ero andato da lui per riscuotere, non per ammazzarlo. Il mio fu un impeto di passione. Lo dissi al presidente del mio processo.

Ora ne era pentito. Non potendo andare dalla famiglia, come fra Cristoforo, a domandarle perdono, le mandò una lettera bagnata delle sue lagrime.

—La famiglia mi ha perdonato, il parroco del mio paese lo ha fatto sapere a tutti dal pulpito, ma il governo tace ancora. Ah, è duro il governo coi poveri condannati! Una volta che siamo pentiti dovrebbe permetterci di riabilitarci. Invece ci lascia morire in galera o ci manda fuori quando non siamo più che dei carcami da ricoveri.

«Porto la catena e la giacca rossa da diciannove anni e morirò forse in galera. Sia fatta la volontà di Dio! Ma mi dispiace, credano, di non rivedere più il mio paese!

E il dolore gli fece sputare del catarro sanguinoso.

Il sei settembre, il giorno in cui ci rase i baffi, era commosso come un minorenne perduto nel buco di una cella di rigore. Egli sapeva che cosa volevano dire questi crepacuori. Nei baffi era l'uomo. Radendoli, radeva il cittadino e non lasciava dietro il rasoio che un numero di matricola.

Eravamo in sette e l'operazione durò più di un'ora. Andammo uno dietro l'altro dal barbitonsore, senza dirci una parola. Ciascuno di noi sembrava compreso del sacrificio, tranne forse Gustavo Chiesi, il quale conservò sempre l'attitudine dello stoico. Sotto il rasoio a più d'uno di noi si riempirono gli occhi. Federici e don Davide furono del numero. Non si aveva paura, nessuno pensava alla paura, ma l'emozione, più forte di tutti, rompeva la diga.

Mentre mi si radeva, con la guardia carceraria seduta in faccia, mi venivano le lagrime in bocca come a un bimbo sculacciato!

—Coraggio! diceva a ciascuno di noi il barbiere. I baffi e la barba ricresceranno più vigorosi di prima.

—E voi, don Davide, gli domandai qualche giorno dopo, perchè avete pianto, se non avete mai avuto baffi e se vi facevate radere il labbro superiore anche prima?

—Perchè mi si infliggeva una punizione infamante. Perchè mi si riduceva il 2557.

Dall'emozione profonda passammo all'ilarità clamorosa. A mano a mano che uno di noi rientrava nel camerone con la faccia galeottizzata, si scoppiava in una risata sonora. Sembravamo dei mostri. Salve le proporzioni individuali e la voce, potevamo benissimo scambiarci per dei galeotti sconosciuti.

Il solo che non avesse alterato la figura era il sacerdote. Gli altri pareva che fossero stati in un'altra stanza a truccarsi o a cambiarsi la testa.

Gustavo Chiesi, grasso e grosso, aveva del frate Melitone. Il buon Suzzani—che si chiamava, con compiacenza, «compagno di Carlo Marx»—aveva assunta l'aria d'un abatino pieno di modestia. Costantino Lazzari era uscito dalle mani del parrucchiere una edizione peggiorata. L'avvocato Federici si era trasformato in un santocchione che sginocchia pelle chiese. Ghiglione era ritornato in mezzo a noi come un uccello di rapina. Il suo naso lungo si era prolungato e la punta appariva più adunca di prima. I peli scomparsi dalla guancia sinistra gli avevano lasciato all'aria una prominenza che gli delinquentizzava la faccia.

Il nostro barbiere è nato sotto una cattiva stella. Egli ci sbarbava direi quasi con orgoglio. Considerava il sabato il più bel giorno della sua vita, perchè poteva scambiare qualche parola con noi. Ma venne il giorno triste della partenza. Il direttore lo aveva destinato per il reclusorio di Finalmarina. Trovò modo di venirci a salutare. Strinse la mano a ciascuno di noi con la voce che tremava. Addio, si ricordino di me, del povero barbiere pentito del suo fallo. E lo sentimmo che si allontanava col singhiozzo che egli tentava di soffocare nel fazzoletto a quadrettoni.

__Il condannato in traduzione.__

Il mio viaggio da Finalborgo a Milano, per subire un altro processo, mi ha dato modo di studiare una delle pagine più dolorose della vitaccia del bestiame che passa da una galera all'altra.

Ricordo tutto, come se fosse adesso. Era il 27 luglio, una giornata afosa. Io e alcuni abitanti della quinta camerata stavamo con la gamella capovolta, sul mastello dell'acqua sporca, per lasciar colare la pasta dalla brodaglia maculata di scandellature.

Entrò il sottocapo Osmiani a scompigliarci. Era l'uomo più serio del personale di custodia. Non sciupava parole. Ci chiamava guardando in terra e tenendo l'indice della sinistra in alto.

—2559!

—Presente!

Ero già pronto. Mi lasciai baciare teneramente dagli amici, presi il fagotto sotto il braccio e uscii con la gola rasa di commozione. Per evitare il disastro di una gita galeottesca avevo fatto di tutto. Avevo detto al direttore che soffrivo e che non ero in grado di rimettermi in un vagone cellulare. Ma non ci fu verso. Il medico, dopo avermi palpeggiato, come se fossi stato di straccio, mi trovò sanissimo.

Il mio compagno di viaggio era uno della «rivoluzione». Egli era stato côlto in piazza di Luino durante i tumulti e condannato dal tribunale militare a sei anni di reclusione.

—Vi rincresce?

—Sì, perchè sono innocente e perchè ero l'aiuto dei miei genitori.

Facemmo la strada a piedi. I veicoli ci empivano gli occhi e la bocca di polverone bianco e la gente voltava via la faccia inorridita. Un nugolo di studentesse sull'omnibus a giardiniera ci fece venire le vampe della vergogna alla faccia.

—Come sono brutti!

E non avevano torto. Il più bel giovine d'Italia, che esca da un reclusorio, spaventa. In pochi mesi il reclusorio te lo rende irriconoscibile.

Eravamo giunti tre quarti d'ora prima del treno. Ne ero contentissimo. Era dell'aria fresca guadagnata. I carabinieri, invece di chiuderci nella stanza di sicurezza, ci lasciarono sul margine del binario della stazione. Grazie! Ebbi tempo di fumare tre sigarette. In questo frattempo, vennero alla mia volta alcuni signori a domandarmi se ero il tale.

—Sissignori, risposi a colui che mi aveva interrogato.

I signori si tolsero il cappello e si curvarono leggermente.

—Scusino, dissi loro, commosso; ma io non li conosco.

—Non importa. Noi sappiamo chi è lei.

Rimasero lungo il binario fino alla partenza del treno, salutandomi con un'altra scappellata.

Il vagone cellulare del mio secondo viaggio apparteneva al tipo vecchio. Era composto di venti celle, divise da un piccolo corridoio longitudinale, con un largo all'entrata per i rappresentanti dell'arma regia.

Una volta entrati, si è sommersi nella penombra anche col sole allo zenit, perchè non ci sono finestre alle pareti dei fianchi.

La cella era più angusta e più nauseosa di quella che mi aveva condotto nel reclusorio. Col sedile di legno e con le pareti insudiciate di sputacchi e di mucillaggine nasale, mi sentivo in una cassa da morto in piedi, con un traversino sotto il sedere. Il legno mi accarezzava dappertutto. I piedi stavano più male. Si trovavano sopra uno strato molle e viscido e non potevo alzarli. Per quanto facessi, non riuscivo a tener su le ginocchia sull'uscio. Si respirava l'atmosfera riscaldata dall'alito dei detenuti. Lo sfiatatoio era il contrario di un conduttore d'aria. Si crepava dal caldo e i malviventi imploravano un sorso d'acqua. Non so da dove venivano perchè a tutte le stazioni se ne caricavano e in alcune se ne scaricavano.

Il brigadiere che aveva in consegna le stie, era un uomo tarchiato con una faccia da simpaticone. Quando gli si diceva di essere buono e di provvedere gli assetati di un fiasco d'acqua, andava sulle furie dicendo che non voleva essere buono. I buoni non facevano carriera e lui era già sulla lista dei futuri marescialli.

—Consideratemi cattivo e mi troverete buonissimo.

E io, davvero, ero della sua opinione. In fondo alla mia nicchia, lo consideravo uno di quegli arnesi di sentina che godono a far patire la gente tribolata, come godevano i carabinieri dell'Andalusia del 1893-94, i quali davano pane e merluzzo ai morenti di sete e nerbate a coloro che desistevano dal correre intorno la stanza giorno e notte!

Un po' più in là, dovetti ricredermi. Egli non era la iena che supponevo. A una stazione intorno il collo della riviera di levante, si era lasciato impietosire da tutte le voci che gli dicevano:

—Sia buono, signor brigadiere!

E mi ha fatto piacere. Perchè è sempre una consolazione sapere che un uomo rinsavisce o si stanca del piacere di torturare gli impotenti.

Il brigadiere fece discendere il carabiniere a riempire il fiasco e ordinò che se ne desse una golata a ciascuno.

Per dissetarvi, il carabiniere è obbligato ad aprire la cella con un catenaccio che cigola dalla ruggine e non scorre che con dei calci, e a versarvi l'acqua in gola. Se il carabiniere non è gentile, il liquido gorgoglia, trabocca dalle labbra e va giù a biscia per lo stomaco. Io avevo sete, ma non ho voluto suggere al cannello comune. Pensavo alla infezione. Ma ho dovuto pentirmene. Un'ora dopo mi sarei lasciato inaffiare il gorgozzule anche da un cannello imbrattato dalle labbra di una generazione!

Lungo il tragitto è avvenuta una delle solite scene stomachevoli di questi trasporti. Un poveraccio in traduzione si sentiva incalzato da una urgenza corporale.

—Signor brigadiere, mi faccia smanettare che non ne posso proprio più.

—Fate silenzio o vi metterò le catene ai piedi!

Sul pavimento della celluccia, sono gli anelli infissi nel pavimento per incatenare i furiosi o i pericolosi o i prepotenti.

Il galeotto torturato dai dolori di pancia era vicino alla mia cella.
Udivo che si moveva e si lamentava.

Qualche minuto dopo, l'ambiente era pestifero. Il miserabile si era sgravato come aveva potuto.

Gli inquilini gli diedero dell'animale a braccio di panno e del porco senza fine, ma lui si difese dicendo che si fa presto a rimproverare quando non si è nella stessa condizione.

I discorsi che si facevano erano noiosissimi. I condannati non si occupano che di pane, di reclusori, di regolamenti, di minestra, di punizioni, di guardie buone e cattive e di direttori con o senza peli sullo stomaco. Per me, erano però discorsi utilissimi. Perchè mi rivelavano la vita intima del detenuto. Il mio vis-à-vis, per esempio, raccontava che le giornate di traduzione volevano dire, per loro, la fame completa.

«Di solito, diceva, ci si fa partire dal carcere alle quattro antimeridiane con una pagnotta di seicento grammi di pane stantio, e nessuno pensa più a noi se non all'indomani per darci un'altra pagnotta e rimetterci in viaggio. Se la si dimenticasse nel vagone o la si perdesse mentre si va dall'omnibus al vagone, felicenotte. Bisognerebbe rimanere digiuni fino all'altra distribuzione. Non si capisce perchè il trasloco da una galera all'altra faccia perdere il diritto alla minestra.

«La gente onesta che viaggia tutto il giorno, quando arriva, si mette a tavola e si ristora con dell'acqua fresca sulla faccia e un buon pranzo inaffiato bene. Noi galeotti arriviamo, ci si registra e ci si chiude in una stanzaccia con quattro o cinque pagliericci in terra. Tutta la nostra consolazione è un secchio d'acqua nell'angolo, stato riempito magari il giorno prima. Quando sono nel penitenziario ho diritto, coi miei denari, a una spesa di cose mangerecce di venticinque centesimi. Perchè il viaggio mi fa perdere questo diritto?»

E il condannato concluse dicendo che le giornate di traduzione sono, per il ventre del recluso, le più desolanti. Lo si dimentica.

A Genova ci si fece discendere dopo che il treno si era vuotato. Ci dovevano essere, col nostro, altri vagoni cellulari, perchè la «catena» si era ingrossata. Potevamo essere una cinquantina, compresa una reclusa. La donna, che aveva le mani slegate, non era trattenuta dal giro della catena comune. Ci seguiva. Era una donna brutta, bassotta, con tanti capelli neri e con le labbra sottili della sanguinaria. La maggioranza era in borghese, in viaggio per la casa di espiazione. I reclusi, col loro abito carnevalesco, colorivano la scena, e i galeotti, col tintinnìo della catena che penzolava loro dal fianco, la intetravano. Tutti assieme, circondati da un nugolo di carabinieri, facevamo paura. Sembravamo il rifiuto delle classi sociali. Una banda di ladri e di assassini stati colti con le mani nel sangue delle vittime. C'erano grinte che facevano rabbrividire anche me che vi avevo fatto l'occhio.

Fuori della stazione ci aspettava una folla enorme. Passammo tra i commenti degli spettatori e filammo, in linea, per tre o quattrocento passi, fin dove ci aspettavano i veicoli.

Le vetture erano meno crudeli delle carrozze cellulari. Erano omnibus lunghi, a giardiniera, col tendone che giungeva a filo dell'orlo del veicolo. Col tendone legato alla sponda, non potevamo vedere, curvandoci, che i sassi o le pietre della strada e il lucido del mare conturbato quando lo rasentavamo. Eravamo pigiati, quasi l'uno sull'altro, ma rinfrescati, di tanto in tanto, da una buffata d'aria marina.

L'impressione che si subiva era però più spaventevole di quella di essere chiusi nel carrozzone cellulare. Perchè quando il veicolo passava sui sassi metteva in rivoluzione le budella e quando sterzava pareva che stesse per riversarci nella via sottostante o nel mare.

A un certo punto, i cavalli smisero il trotto. La salita era divenuta faticosa e i vetturali facevano schioccare la frusta. Nessuno dei miei colleghi aveva mai fatto tappa al carcere giudiziario di Genova e così nessuno sapeva se era lontano o vicino. Dalla salita, credevamo tutti che fosse fuori, lontano qualche miglio dalla cinta cittadina. Mentre si facevano queste supposizioni, sentimmo le voci che fermarono i cavalli.

La discesa fu più difficile. Uscendo dal buio, col fagotto nella mano legata con l'altra, e la catena intorno all'ascella tirata da quelli che precedono e seguono, si mette il piede sul predellino con la paura di scavigliare o di ruzzolare sul selciato.

Nella luce dei lampioni foschi e delle fiamme libere dei becchi a gas delle botteghe che sembravano cave, ero come disorientato. Ci volle uno strappo di catena per convincermi che facevo parte del convoglio di galera. La via era ripida e tortuosa. Si saliva lentamente e si passava attraverso ondate di luce sfacciata. La gente del quartiere non sembrava interessata di una «catena» che indubbiamente assomigliava alle altre degli altri giorni. Le donne rimanevano sedute in terra, dinanzi la porta delle loro abitazioni o sul gradino all'entrata dei loro negozi, e gli uomini, in manica di camicia, continuavano a pipare e a chiacchierare tra di loro senza degnarci di un'occhiata. Carichi del fagotto, con la catenella che tirava ora indietro e ora innanzi, si saliva sudando. Al secondo svolto di via, incontrammo due portatrici con due pesi enormi sul capo che facevano tremolare i loro fianchi possenti. Non abituato a vedere le teste femminili calcate alla superficie da un quintale di roba, mi parve di passare attraverso un popolo barbaro che delle donne facesse dei ronzini.

Arrivai in faccia a un portone spalancato e sormontato dallo stemma del carcere giudiziario, con la lingua che penzolava dai denti come quella di un cane. Ero digiuno, con la bocca secca. La lingua mi sembrava un pezzo di carne dalla pelle ruvida in bocca come un castigo. A sinistra dell'entrata, era un tubetto di ottone che usciva arcuato dal muro e lasciava cadere una colonnuccia d'acqua. Il rumore della caduta sulla pietra decompose la catena. Malgrado gli ordini imperiosi dei carabinieri che avevano fretta di sbarazzarsi di noi per andare a cena, nessuno volle muoversi prima di essersi saziato di acqua fresca. Quando venne la mia volta, rimasi disilluso. Per la mia bocca, era un'acqua di un sapore marcioso. Dopo una risciacquata e una golata, la buttai in terra come se fosse stato un liquido avvelenato. Puah!

Lo smanettamento, la consegna delle buste coi denari e la registrazione dei detenuti durò una buona mezz'ora. I viaggiatori sembravano stracchi morti. Nessuno diceva una parola. Qualcuno sbocconcellava la pagnotta e qualche altro rimaneva in piedi. Io fui l'ultimo, perchè mi ero posto dietro tutti, sulla panca in giro dello stanzone immenso. Mi si conosceva di nome e questo mi suscitava la speranza che avrei potuto indurli a farmi comperare qualche vivanda per la cena. Ma era troppo tardi. Erano quasi le nove. E i detenuti, a quest'ora, dovevano avere la pancia piena. Se avessero potuto aiutarmi, lo avrebbero fatto volentieri. La sola cosa, che potevano fare per me, era di mettermi in una stanza solo e di offrirmi un bicchiere d'acqua fresca con del limone del loro fiasco. Accettai tutto con dei grazie e mi lasciai condurre di sopra da un secondino che mi aperse e mi chiuse in una stanza.

Delle cimici che divoravano il soffitto, annerivano le pareti e muovevano il pagliericcio, ho già parlato.

__Anna Kuliscioff.__

È una donna nuova. Imbevuta di idee proibite, uscì dalla società dello czar come una rivoltosa che non ha paura di stroncare i legami che la legano al mondo pieno di pregiudizi e di ingiustizie. Fortificata dall'esempio delle nichiliste delle classi superiori del suo tempo, le quali abbandonavano la casa paterna come le mogli del teatro di Ibsen abbandonano la casa maritale, Anna Kuliscioff, consumato il periodo della propaganda pratica per la campagna russa, si avviò verso l'esilio, con l'anima piena di negazioni, con la fede nell'avvenire, determinata a compiere la sua evoluzione intellettuale in mezzo alla gente latina in lotta per la rigenerazione sociale.

La Kuliscioff è stata la prima nichilista che ho conosciuto. Le venni presentato da Benoit Malon, a Lugano, quando il comunardo scriveva, se mi ricordo bene, la Revue Socialiste, l'organo massimo, in allora, delle alte intelligenze dell'emigrazione rivoluzionaria.

La Kuliscioff poteva essere intorno ai venti anni. Mi parve una vergine slava. Con una testa da madonna, con la carnagione bianca imporporata di salute, con le trecce lunghe, di un biondo luminoso, per le spalle, mi faceva pensare alle donne graziose dei preraffaelliti che in quei giorni ammiravo come uno narcotizzato dai loro colori.

Malon parlava, e io mi perdevo negli occhi della nichilista, inondati di quella malinconia che va al cuore come una nota soave, al punto da farmi riprendere da una voce grave—una voce che mi insegnava che un socialista non deve contemplare una signorina viva come si farebbe con una figura sulla tela di un pittore illustre.

Seppi dopo molte cose di lei. Della sua agitazione, dei suoi studi, della sua prigionia, del suo sfratto dall'Italia, dei suoi amori, della Rivista Internazionale del Socialismo ch'essa pubblicava con Costa, della nascita della sua Andreina, delle sue tribolazioni, della sua laurea di dottora, della sua unione con Turati, della sua malattia crudele, ma non la vidi più che nel '95, cooperatrice e collaboratrice della Critica Sociale.

Nel '78 il mio pensiero si genufletteva alla bellezza. Oggi, esso, si inchina alla pensatrice.

Migliaia di donne, in mezzo agli uragani della sua esistenza fortunosa, sarebbero naufragate cento volte. Anna Kuliscioff è sempre rimasta in faccia alle procelle come una sfida. Dagli avvenimenti che volevano inghiottirla, usciva sempre più forte, più saggia, più preparata a sgomberare la società del passato per far largo all'avvenire.

Neppure la sua malattia implacabile seppe vincerla. Di tanto in tanto si diffonde, tra gli amici, una notizia funebre. La Kuliscioff sta male—la Kuliscioff ha poco da vivere—la Kuliscioff è in fine di vita. E poi non se ne sa più nulla. Non si parla più del suo male implacabile. La si rivede, con la sigaretta in bocca, al tavolino dell'amministrazione o della redazione a lavorare come una negra. Avveniva, su per giù, la stessa cosa con la Harriet Martineau—la grande giornalista inglese del tempo chartista. Questa collaboratrice del Daily News era così sicura di essere agli sgoccioli della vita, che in un momento disperato si mise a scrivere la propria autobiografia, incominciando dall'ultimo capitolo per paura di non finirla.

La Martineau ebbe tempo di completarla e di lasciarla negli armadi dell'editore per venti anni. Per venti anni i suoi amici si aspettavano, ogni mattina, di leggere nei giornali la fine della giornalista che ha prodotto più di ogni altro uomo del suo tempo.

Nel '98 è capitato alla Kuliscioff quello che un secolo prima era capitato a madame Roland. Di vedersi svegliata all'alba dagli agenti di pubblica sicurezza e di andarsene in prigione nella vestaglia.

Nelle poche parole ch'essa pronunciò dinanzi il Tribunale militare è tutta la donna che ho presentato. Compendiano il suo cuore, la sua modestia e il suo carattere. Leggetele, vi troverete la indifferenza tragica per tutto ciò che riguarda l'imputata—la serenità della martire che crede, che persiste a credere, che crederà sempre che nel socialismo sia la rigenerazione sociale.

«La mia azione nel partito socialista era molto limitata e molto modesta. Se verranno fuori dei fatti a mio carico io ne assumo fin d'ora la responsabilità. Io sono socialista da quasi 25 anni, ma in Italia non feci nessuna propaganda, sia per una certa delicatezza verso un paese presso il quale sono ospitata, sia per la paura di essere sfrattata. Io sono poi invalida da un anno, e sono obbligata a rimanere sempre in casa. In questa condizione come volete che io sia in caso di fare propaganda?»

In letteratura io e la Kuliscioff siamo divisi da un abisso. Ella, se l'ho capita bene, sente ancora dell'affezione per la vita romanzesca intessuta dalla fantasia dell'autore e drappeggiata nella fraseologia che non lascia esalare i cattivi odori dell'ambiente. Io sono più rude. Spalanco tutte le porte, discendo in qualunque fogna e mi servo del linguaggio dei personaggi che riproduco. Il mio temperamento mi trascina ad essere sincero in ogni manifestazione della vita senza preoccuparmi se farò smettere di leggere o chiudere il libro anche agli amici che mi vogliono bene.

La ragione di questo nostro dissenso letterario è che in fondo alla Kuliscioff è rimasto un po' d'idealismo e un po' di misticismo. Ella dà la preferenza al libro che lascia vivere qualche illusione e che non svergina o smaga brutalmente chi legge, e crede alla immortalità dell'anima. Non mi meraviglierei domani di saperla spiritista.

Sul terreno delle questioni economiche essa torreggia. E il futuro storico del socialismo italiano lascerebbe un gran vuoto nel suo lavoro s'egli non ci dicesse l'influenza che questa donna ha esercitato sul movimento di quest'ultimi venti anni.

Nel resto la Kuliscioff è donna capace di grandi amori e di odii inestinguibili.¹

¹ Non conoscevo la lettera che la Kuliscioff scrisse in carcere. Ne taglio via due brani, perchè documentano il mio profilo e ribadiscono in tutto la convinzione che la dottora congiunge a un'alta intelligenza un carattere adamantino.

«Sentite, caro Prampolini: voi sapete che non sono ipocondriaca, che non sono portata all'esagerazione dei miei malanni fisici, anzi sono fatalista e piuttosto fiduciosa della mia resistenza. Ho tante volte visto vicina la morte e le ho sempre resistito: perchè dovrei proprio morire in questi due anni?

«Ma, dall'altro lato, sono osservatrice e sono medico. Vedo che i sintomi dell'idremia si aggravano: temo che il medico, per rassicurarmi, non mi dica tutta la verità, asserendo che non vi siano alterazioni renali. Caso mai, dunque, che il mio stato si aggravasse, lascio a voi, a Leonida la tutela della mia dignità. Vi prego a mani giunte di opporvi a qualunque passo che si volesse fare per ottenere la mia libertà con una grazia personale o con un indulto speciale. Impedite a chicchessia, per amor di chicchessia, fosse anche mia figlia, che mi sia fatta un'offesa morale. Se dovessi conquistare la libertà a questo prezzo, sarei tanto avvilita, tanto diminuita, tanto degradata, che nulla mi sarebbe la libertà, l'affetto pei miei cari, l'affetto degli amici buoni. Questa, caro Prampolini, è l'unica preghiera che rivolgo agli amici, prima che si rinchiuda la nostra tomba.»

__Gli ultimi giorni dei deputati e dei giornalisti al Cellulare.__

Turati, De Andreis, Romussi, Federici e Valera si sono riveduti, dopo tante noie, con dei baci, degli abbracci e delle strette di mano, nel cellone esagonale B, numero 2, del secondo raggio. Gli ultimi tre erano giunti dal reclusorio di Finalborgo e i due deputati erano ancora sbalorditi dai dodici anni di reclusione che aveva inflitto loro il Tribunale militare.

La loro vita era piuttosto agitata. Si alzavano, alla mattina, mezz'ora prima dell'alba e ciascheduno nella propria cella, dopo il caffè, si metteva al lavoro. Turati aveva sempre un mucchio di lettere da scrivere e un numero infinito di Riviste da leggere; Romussi, il quale sdrucciolava dal letto sempre di buon umore, era sommerso nelle opere di Carlo Cattaneo, del quale stava facendo uno studio; De Andreis, l'uomo che non pensava mai alla condanna, aveva del lavoro fin sopra i capelli. Leggeva dei poeti inglesi, tedeschi e francesi—-tre lingue ch'egli deve sapere benissimo—studiava o piuttosto correggeva il suo latino con lo Schultz alla mano e dedicava parecchie ore a un lavoro di elettricità che deve avere veduto la luce prima che gli abbiano spalancate le porte del reclusorio di Alessandria. Federici si nutriva di storia e negli intervalli rileggeva l'opera massima di Giuseppe Ferrari, del quale è sempre stato ammiratore fervente. Valera studiava o fingeva di studiare il tedesco e passava attraverso la Social England di Traill—volumi che incominciano col Conquistatore e finiscono col regno della regina Vittoria, e danno una pittura esatta della vita intima e pubblica di un popolo che non ha più freni nè per la penna del giornale e del libro nè per la lingua della piattaforma.

Alle otto antimeridiane, si trovavano tutti nel raggio del passeggio—un raggio angustissimo—si davano il buon giorno, si dicevano se avevano dormito bene o male—la maggioranza pativa di insonnia—si comunicavano le notizie portate loro dalle ultime visite e dalle ultime lettere e poi incominciavano la conversazione, la quale era sempre interessante anche quando, per ridere, discutevano della possibilità di una evasione, citando quelle storiche di Napoleone III, di Rochefort, dei prigionieri politici della monarchia di luglio, di Krapotkine, di Bakunine, ecc., ecc.

Ritornavano in cella a lavorare per un paio d'ore e poi, alle undici, ciascheduno usciva con la sedia, col tovagliolo, con la forchetta e col cucchiaio di legno e andava a far colazione nel cellone turatiano.

La loro colazione alla forchetta era modestissima. Quando non ordinavano il risotto alla certosina o la polenta col fegato in comune, Romussi mangiava i tagliatelli al sugo e la costoletta coll'osso, Turati un piatto di carne e due uova strapazzate, De Andreis vi aggiungeva un po' di gorgonzola, Federici faceva precedere al pollo o al fegato la zuppa alla pavese e Valera alternava le uova al tegame con la pasta al burro, ben cotta.

La discussione si animava bevendo qualche bicchiere di vino buono delle bottiglie che mandavano gli amici, mangiando dei dolci che inviavano la mamma di Turati, o la signora di Federici o di Romussi—e fumando le sigarette che trovavano un po' dappertutto. Qualche volta capitavano loro, durante la giornata, dei cestelli di frutta fresca, dei panettoni che obbligavano De Andreis a mettere sul tavolo la bottiglia di barolo che Turati dimenticava nell'angolo.

Il deputato di Milano non voleva mai bere. Egli diceva che gli astemi vivono più a lungo e sani come corni. Ma si insisteva e lui beveva, versandoselo in gola come una medicina che gli faceva stralunare gli occhi.

Il discorso eterno era la Cassazione che li teneva sugli aghi. Ma facciano presto!

Mandateci in galera, dicevano, ma fate presto in nome di Dio!

Nessuno si lasciava cullare dalla speranza che magistrati dell'alto tribunale avrebbero accolto il ricorso. Tuttavia, quando andava Majno a trovare qualcuno di loro, rinasceva la discussione con un po' di fede.

—Me l'ha detto lui adesso! Egli si crede, legalmente, in una botte di ferro.

—Volete che Majno non sappia quello che dice?

De Andreis faceva il suo solito risolino e voltava le pagine del libro che aveva fra le mani. Per lui, erano chiacchiere inutili. E si metteva a sviluppare il suo programma di condannato a dodici anni con una indifferenza che faceva scappare la pazienza a Turati, il quale non voleva assolutamente diventare un eroe della casa di pena.

Dodici anni sono lunghi, eterni, sono la vita di un uomo! È un errore, aggiungeva il Turati, credere che si possa lavorare serenamente in queste condizioni, quando si manca di tutto, quando si deve vivere in un buco ove si soffoca d'estate e si gela d'inverno, con venticinque centesimi al giorno!

Romussi metteva sul tappeto la questione del viaggio. Egli, che si ricordava del vagone cellulare che lo aveva condotto a Finalborgo con degli scotimenti di testa, vedeva avvicinarsi il giorno della partenza con orrore.

Gli rincresceva di lasciarsi chiudere in quella specie di cassa da morto. Ma non avrebbe ceduto. No, non avrebbe ceduto! Se il Governo voleva disonorarsi, tanto peggio per lui. E andava sotto la finestra a dare delle puntate di scarpa nel muro.

—No, no, e poi no! non mi lascerò commuovere dalle lagrime di mia moglie e di mia figlia. Non voglio andare nel vagone a mie spese per salvare Pelloux dall'infamia di trattare i giornalisti come delinquenti comuni!

—Ci lasceremo tagliare i baffi e indossare l'abito del recluso?

La Kuliscioff, che Turati vedeva spesso nella stanza dei colloqui speciali, era determinata a sostenere una battaglia in favore dell'abito del condannato politico. Essa aveva già detto al capoguardia che nessuna guardiana avrebbe osato metterle le mani addosso per farle indossare la veste abbominevole della reclusa.

Federici non ne era molto interessato. Egli diceva che non si disonoravano i condannati politici indossando la toletta del condannato comune. Sono quelli che la impongono loro che si disonorano. La preoccupazione sua era piuttosto se si dovesse lasciare sola la Kuliscioff a sostenere la lotta per l'abito. Valera ricordava che anche i deputati irlandesi, ai tempi delle ultime leggi eccezionali, erano divisi su questa questione. Il più accanito fu O'Brien—l'ex direttore dell'United Ireland, Egli la considerava una grande battaglia politica e la sostenne non lasciandosi svestire che dopo lotte disperate tra lui e gli aguzzini di Kilmainham—prigione di Dublino. Ci vollero otto carcerieri a strappargli la giacca ed il panciotto. E i calzoni, otto giorni. Egli stette otto giorni in cella, in camicia, senza coperta e senza pagliericcio d'inverno, a costo di crepare di freddo e di starnuti.

Ma poi ha dovuto finire per lasciarsi vestire come gli altri. Mandeville, il quale ha voluto imitarlo, è uscito sconquassato dai pugni ed è morto. E gli altri deputati—Hooper, Sheehy e Carew—che non hanno resistito come O'Brien, dopo il pugilato in carcere, non sono stati più loro. Anche al Parlamento non si son fatti più sentire che come votanti. L'amico Michele Davitt, che è ora alla Camera dei Comuni ed è stato alla servitù penale, come feniano, per sette anni, non dava alcuna importanza agli sforzi di O'Brien. Mi raccontava che era del tempo sciupato. L'Irlanda aveva altro da fare che occuparsi dei calzoni di O'Brien!

A mano a mano che si avvicinavano alla decisione della Cassazione, i colloqui si succedevano ai colloqui in un modo straordinario. Erano parenti, amici, compagni di lavoro che andavano al Cellulare come in processione. Pei condannati, era uno strazio. Passavano da un abbraccio all'altro commossi della commozione altrui. Toccava ai condannati far coraggio ai visitatori! Il Turati risaliva qualche volta sfatto.

—È un supplizio. A momenti, mi facevano piangere!

Romussi, più di una volta, entrava nel cellone colle lagrime negli occhi.

Federici rientrava e si metteva a passeggiare colle mani imbracciate. De Andreis invece si toglieva la giacca—lui non stava mai che in maniche di camicia—la metteva con cura sul letto di Turati, accendeva una sigaretta e ricominciava a mandare a memoria delle declinazioni latine!

Il giorno in cui si seppe l'esito della Cassazione mangiarono con maggior appetito senza punto discuterlo. Lo sapevano anche prima. Il ricorso per loro non era stato che un modo per guadagnar tempo e per aderire alla volontà dei parenti e degli amici che volevano che si andasse fino in fondo. Il dolore comune erano le centocinquanta lire!

—Queste sì, disse De Andreis, che sono state sciupate!

—Rubate! dicevo io.

Dopo la parola della Cassazione fu davvero una pena. Nessuno era riuscito a dir loro il giorno della partenza e ogni sera si separavano coll'ambascia di non rivedersi più per del tempo.

—Ci manderanno assieme?

Turati aveva una pallida speranza di rimanere al Cellulare con la compagna della sua vita o di andare a Pallanza, dove la sua buona mamma avrebbe potuto andarlo a vedere di tanto in tanto senza fare un lungo viaggio. Romussi aveva paura di ritornare a Finalborgo, un luogo maledettamente umido, lontano da Milano, ove gli sarebbero ritornati i dolori artritici. Federici era considerato il fortunato dei fortunati. Lui aveva già scontato quattro mesi dei dodici che gli avevano appioppati e lo avrebbero lasciato a Milano, senza dubbio, a far compagnia al Maffi, il quale era entrato a fare il sesto nel cellone da pochi giorni. Forse non lo si sarebbe neppure galeottizzato.

—Te fortunato! gli dicevano.

Di giorno in giorno, ne passarono dodici. Dodici giorni di ansie crudeli. Facevano il pacco alla sera, dopo essersi salutati con un abbraccio fraterno, e lo sfacevano alla mattina, ricominciando il lavoro di suggestionarsi l'un l'altro.

L'ultima sera, disperati di non partire mai e determinati a non pensare più alla partenza, si proposero di mangiare tutti assieme il pollo alla cacciatora.

—Allora, disse Romussi, vedrete che ci manderanno via. Il pollo alla cacciatora è sempre stato l'ordine di partenza. In Castello abbiamo ordinato il pollo alla cacciatora e ci hanno fatto partire prima di mangiarlo. Lo abbiamo comandato a Finalborgo e ci hanno rinviati a Milano.

Alle due e mezzo della notte del 4 settembre il capoguardia andò nelle celle dei condannati politici a dir loro di alzarsi in fretta che si doveva partire.

Alle tre si trovavano nell'ottagono Romussi, De Andreis, Federici e
Valera.

La cella di Turati era illuminata.

Vennero ammanettati e cellularizzati nell'omnibus che li aspettava.

Alla stazione centrale si fecero prima uscire De Andreis e Romussi.

Quando discesero dal predellino della vettura Valera e Federici, gli altri due erano scomparsi.

Turati lo si fece partire per Pallanza mezz'ora dopo, in un omnibus piccolo, che lo aspettava nello stesso cortile.

Egli si era portato via il materiale per scrivere un libro sul socialismo italiano. Ma poi, ricordatosi della sua idea fissa, che in galera non si scrive, smise l'idea per rimpinzarsi di libri.

__La «colomba» e il linguaggio dei detenuti.__

La «colomba» e il linguaggio dei detenuti non si possono capire bene che dopo sei mesi di cella in una casa di pena o in un carcere giudiziario, dove la voce degli inquilini è perseguitata dalle punizioni che macerano lo stomaco e riducono in una tana sotterranea come tanti animali.

Una volta che siete passati attraverso questo periodo di segregazione completa, con le guardie di custodia quasi sempre in agguato per sorprendervi in flagrante violazione del regolamento, voi entrate nel periodo di adattamento e incominciate a imparare tutte le astuzie che vi aiutano a modificare la disciplina antisociale che impera nell'ambiente dei reclusi.

La preparazione alla vita carceraria, nell'isolamento senza interruzione, vi ha resi più sensibili.

La caduta di un fazzoletto vi fa trasalire come il chiavone che entri nella toppa. Ci sono momenti in cui vi pare di poter sentire le pulsazioni del cuore degli individui che abitano ai fianchi della vostra abitazione. L'udito vi si raffina in un modo che nessuna zampa di gatto può avvicinarsi all'uscio a vostra insaputa. A furia di ascoltare le pedate dell'individuo che vi passeggia sulla testa, siete in grado di distinguere il suo stato d'animo, di indovinare quando il suo pensiero è tranquillo o rassegnato o quand'esso è sottosopra o imperversa per il suo cervello come una tempesta.

Un addio sommesso, uscito da una di quelle buche che chiamano finestre, vi giunge all'orecchio con tutti i larghi della voce squillante e sonora. L'alito diventa, per il recluso, un suono. Un suono dolce, un suono che va giù a remigarvi nell'anima come un notturno tenero ed elegiaco di Chopin.

Dotati di questa percezione, voi sentite nell'aria la voce di un sepolto come un'armonia lamentosa uscita da un organo toccato da una mano raffinata. È lui che chiama in aiuto la vostra «colomba», perchè ha bisogno di sapere o di comunicarvi una notizia, perchè i crampi del suo stomaco lo obbligano a cercarvi un tozzo della vostra pagnotta, perchè ha una voglia matta di accendere la pipa o il sigaro, o perchè desidera farvi leggere un giornale che gli è riuscito di avere per la via della via.

La «colomba» è una funicella o un attorcigliamento di stracci, di striscie di fazzoletti o di camicie, o di liste di lana o di panno sfilacciate. Tutto è buono, purchè si riesca a mettere assieme una specie di corda lunga tre piani di Cellulare. Per coloro che sono condannati in un carcere giudiziario e quindi senza biancheria propria, la «colomba» diventa un problema che non può sciogliere che la pazienza o qualche detenuto sotto processo capace di regalarvi il materiale per farla.

Con la pazienza potete rarefare il tessuto della coperta del letto, del pagliericcio, dell'asciugamano, del fazzoletto e magari degli abiti che indossate.

Una volta che siete padroni di una «colomba», voi potete mettervi tra i prigionieri, diremo così, agiati. Voi possedete un tesoro che vi permette di comunicare con tutte le finestre della facciata dell'edificio che vi ospita e delle facciate degli altri raggi congiunti col vostro.

Mi spiego con un esempio.

Supponete che io occupi una cella al primo piano di un ambiente di cento finestre. Le finestre sentono dell'aguzzino. Vedute all'esterno, sembrano grandi buche da lettere incorniciate in un rialzo di granito. All'interno, spaventano il novizio. Hanno l'inferriata staccata dal pietrone che si protende in fuori e impedisce di vedere le altre finestre e di agguantare la funicella che penzolasse dinanzi.

Io ho un solfanello e tutti gli altri miei colleghi della mala vita vogliono fumare. Il solfanello del buon prigioniero deve sempre essere di legno. Con uno spillo, del quale un vecchio frequentatore di carcere deve essere munito, a costo di nasconderselo nella pelle, lo apro in quattro.

Metto i tre quarti nel ripostiglio più recondito della cella, e mi servo dell'altro per accendere un po' di lisca ravvolta in un mucchietto di filacce per impedirgli di divampare. Con poco solfo sulla capocchia, sarei un cretino se mi dimenticassi dell'esperienza dei miei colleghi. La quale è che non si deve mai passare allo sfregamento senza prima avere strofinato ben bene un bottone di metallo o un chiodo delle scarpe o un legno qualunque.

Sfregando leggermente sulla parte calda o infocata voi potete scommettere che farete pipare tutti.

I miei amici del Cellulare sono tutti pronti e non aspettano che il segnale che può essere uno starnuto, o un colpo di tosse, o anche una battuta di mano.

Accendo il mio virginia, tossisco, metto fuori dalla finestra la scopetta e aspetto la fune dalla finestra del terzo piano perpendicolare alla mia. Tutto ciò avviene in un modo rapidissimo. Alla estremità della «colomba» è un peso o un sasso nel sacchetto o nel mucchietto di cenci. Lo tiro a me con la scopetta, vi lego il sacchetto con la lisca che fumacchia internamente adagio adagio, sale, si ferma alla seconda finestra ove è atteso, riprende la via e scompare nella cella di colui che mi ha lasciato giù la fune.

Costui se ne serve e poi getta il sacchetto attaccato alla fune sulla scopetta della cella a fianco.

È questo il movimento più difficile della «colomba». Ma la mano abituata vi riesce al primo colpo.

Il compagno che l'ha presa ne stacca il sacchetto dalla funicella che viene ritirata, lo appende alla sua «colomba», se ne serve e lo lascia cadere dalla prima alla seconda finestra, ove sosta come accenditoio e riprende la discesa per fermarsi alla terza finestra dove avviene la stessa operazione di staccarlo da una «colomba» per attaccarlo a un'altra e gettarlo sullo scopino della finestra a fianco.

Mi sono servito dell'esempio più difficile. Gli esempi facili sono con le finestre sopra o sotto o a fianco della mia. Se non ci sono le piantelle (guardie) nel cortile che adocchiano, io sono sicuro, con la «colomba», di soccorrere e di poter essere soccorso.

Il linguaggio dei detenuti è di una semplicità alfabetica. Lo si impara in mezzo minuto. Ma non si può servirsene che dopo avere esercitato i pugni sulla parete per dei mesi.

Le lettere dell'alfabeto del prigioniero sono ventuna e ciascuna di esse corrisponde a un numero:

a b c d e f g h i l m n o p q r s t u v z. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21.

Io e un altro siamo in due celle divise da un muro. Non ci conosciamo, non ci siamo mai visti e forse non ci vedremo mai. Ma l'uno desidera di sapere chi è l'altro e tutt'e due vogliamo narrarci la storia dei nostri delitti.

Se io batto undici volte, voi avrete capito che ho battuto una m, mentre se non do che tre colpi avrò segnato il c.

Sono io che invito il compagno dell'altra cella a fare conoscenza o a parlare con me.

Incomincio con una sfuriata di pugni che pare traduca dell'allegria.

Egli mi risponde con altrettante battute precipitate che rappresentano il saluto.

Lo interrogo con due colpi secchi e serrati che vogliono dire: sei pronto?

Egli mi risponde con due battute l'una dietro l'altra che equivalgono a «sono pronto, parla».

Supponete ch'io voglia domandargli:

—Chi sei?

Batto prima tre colpi, poi otto, poi nove, poi diciassette, poi cinque, poi nove. Tra una lettera e l'altra c'è una pausa per dar tempo al mio compagno di battere due colpi e farmi sapere che ha capito.

In meno di dieci minuti io, colla rapidità delle battute, posso fargli sapere chi sono, che cosa ho fatto, quante volte sono stato condannato, se ho L'amante, se sono ammogliato, quando finirà la mia sentenza e in che modo uscirò senza finirla.

La conversazione termina sempre con una sfuriata di battute da una parte e dall'altra, come uno scambio di saluti.

Mi sono spiegato?

Di sera, verso l'ora della campana, le muraglie delle celle diventano i nostri pianoforti. I nostri pugni sprigionano fughe commosse, preludii che vanno nel sangue come tessuti di tenerezza, arie, duetti, finali che si diffondono nella grandiosità dell'ombra, come una fusione di poesia e di musica.

__Note autobiografiche del deputato Luigi De Andreis.¹__

¹ Il deputato De Andreis non poteva farmi piacere maggiore di autorizzarmi a pubblicare le sue note, messe assieme al Cellulare per il tenente Giglio, suo avvocato militare. Non è che l'uomo forte che sappia fotografarsi per il pubblico. In un centinaio di righe egli ci ha dato, direi quasi, il romanzo del ragazzo povero. Senza enfasi e senza una frase che trascini alla commozione, egli ti fa piangere. Ti mette in una stamberga dove è tutta una famiglia che muore di fame. Con un periodo ti rivela la disuguaglianza tragica tra i bimbi dei ricchi e i bimbi dei poveri. Da una parte figli che nascono nella batista, che si sviluppano suggendo al seno di nutrici superbe, che crescono circondati dalle cure delle bambinaie, tra una carezza e l'altra delle mamme, in ambienti principeschi. Dall'altra figli che sbucano dall'utero materno e cadono in una bracciata di stracci. Le madri straziate dalla miseria non possono dar loro il capezzolo che negli intervalli della vita ladra. Svezzati, non c'è più per loro che il rifiuto di qualche buona donna, o la scodella odiosa dell'asilo. La società è loro matrigna. Li punisce non appena, nati. Li condanna alle astinenze, alle privazioni, agli orrori della carità cittadina o pubblica.

De Andreis dalla società monarchica non ebbe che calci. Essa nun gli ha dato nulla. Lo ha trattato come e peggio di un mendicante. È alla sua tenacia ch'egli deve la sua liberazione. È a sè stesso ch'egli deve l'uscita dai rigagnoli dell'esistenza plebea. È con uno sforzo supremo che il pitocco è salito all'altezza del laureato, alla sommità del legislatore, alla grandiosità del popolarizzatore di scienze.

      Egli è autore di due manualetti pratici, pubblicati dalla Società
      Editrice Sonzogno: Manualetto di Elettricità e I raggi X.

      Di lui mi ricorderò tutte le volte che sarò sulla piattaforma a
      convincere i cittadini che i figli devono essere del Comune.

Sono nato il 29 dicembre 1857.

Mancato presto il padre, Giuseppe, rimase la sola madre, Gadda Teodolinda, senza alcun mezzo, con sette figli, di cui il maggiore aveva poco più di 14 anni. Anche i più grandicelli non avevano nessun mestiere; perchè poco prima della mia nascita, la mia famiglia era venuta a Milano da Solbiate Olona, dove mio padre era agente di campagna.

Non so come non siamo morti tutti di fame! Tutti i miei fratelli buoni a qualche cosa furono messi a lavoro, senza scuola od altro insegnamento.

Io e mio fratello Benedetto, nato nel 1855, eravamo troppo piccoli per poter essere messi a bottega.

Appena in età (credo a quattro o cinque anni) fui accettato all'Asilo Infantile posto sul corso Garibaldi (ora Laura Mantegazza, dal nome della fondatrice, madre del senatore Paolo Mantegazza); avevo almeno la minestra a mezzogiorno, e una vesticciuola; alle scarpe spesso dovevano pensare i benefattori straordinari; molte volte, dopo la minestra del mezzogiorno, non c'era più nulla fino al mezzogiorno dell'indomani, tranne qualche pezzo di pagnotta che mi veniva dato dai vicini, un po' meno poveri di noi.

Finiti gli anni dell'Asilo infantile, fui ammesso al Conservatorio della Puerizia, dove pure avevo la minestra e la blouse. Un vecchio dottore dell'Ospedale Maggiore, il dott. Adamoli, mi conobbe come dottore dei poveri; ebbe pietà della mia miseria e fu meravigliato del mio amore allo studio; perciò la famiglia ebbe da lui qualche soccorso. Dovevo restare al Conservatorio tre anni, ma vi rimasi, per grazia, un quarto, per usufruire del nutrimento. Ne uscii nel 1868.

Il fratello maggiore, Giovanni, era morto nel 1866, a Custoza, caporale nel 65.° regg. fanteria; mia sorella s'era maritata, ed era la maggiore; e quindi continuavano le strettezze.

All'uscire dal Conservatorio, avrei dovuto mettermi a lavorare; ma alcuni benefattori, cui la direttrice vantava il mio amore allo studio, si occuparono di pagare i libri e le spese di cancelleria, perchè proseguissi gli studi nelle scuole elementari; così feci la terza e quarta elementare (ora quarta e quinta) dal 68 al 70. Guadagnavo qualche soldo facendo i cómpiti a qualche compagno, e vendendo giornali, specialmente nelle vacanze.

Nel 71, benchè fossi sempre il primo della classe, eravamo ancora al bivio.—Mio fratello Benedetto, due anni maggiore di me, faceva allora il 2.° corso tecnico provveduto da un benefattore; lo stesso benefattore provvide alle spese mie; e così mi iscrissi alla Scuola tecnica, che seguii, sempre primo, dal 1870 al 1873. Il mio nome è ancora ricordato alla Scuola tecnica di via Bassano Porrone dai vecchi professori.

Intanto però aumentavano le esigenze della vita, poichè il benefattore, tranne qualche soccorso irregolare, non pensava che alla scuola. Perciò, durante il secondo anno di scuola tecnica, cominciai a far da ripetitore a giovanetti delle scuole elementari, nelle ore serali; e durante il terzo anno (e gli anni dell'Istituto Tecnico che vennero dopo) guadagnai da vivere dando ripetizioni e lezioni, specialmente di matematica e scienze affini, a studenti delle scuole tecniche.

Finita la Scuola tecnica, ero destinato ad entrare in uno studio commerciale, come mio fratello Benedetto, ma il mio successo negli studii e le insistenze e le preghiere del direttore della Scuola tecnica, signor Vigo Pellizzari, indussero il benefattore a continuare le spese, e mi iscrissi all'Istituto Tecnico di Santa Marta (ora Carlo Cattaneo), sezione Fisico-Matematica. Non pagavo nessuna tassa, perchè raggiungevo sempre il primo posto; e le ripetizioni, benchè mi costassero enorme fatica, dovendo tutto il giorno attendere alla scuola, cominciavano a fruttarmi qualche cosa di più. Specialmente nelle vacanze, quando accorrevano a me molti bocciati, per essere preparati agli esami di ottobre.

Nel 1877 finii l'Istituto Tecnico, primo tra i licenziati; oramai le condizioni finanziarie mi imponevano di cessare gli studii per dare qualche aiuto alla famiglia. Ma poichè ripetutamente si era esposta al Ministero la necessità di fondare delle borse di studio presso la Scuola d'applicazione degli Ingegneri, si approfittò dell'occasione mia speciale, a cui le condizioni famigliari impedivano anche la possibilità di recarmi a Pavia nel Collegio Ghislieri e, per la prima volta e per me personalmente, fu stabilito un assegno di studio di 600 lire annue dal Ministero d'Istruzione Pubblica.

Così nel 1877 fui iscritto alla Scuola Preparatoria dell'Istituto
Tecnico Superiore di Milano.

Le cinquanta lire mensili non sarebbero bastate, alla mia età (20 anni), se non avessi continuato il lavoro delle lezioni private. Durante i cinque anni dell'Istituto Tecnico Superiore, in media io davo alla famiglia 70 lire mensili, pensando per mio conto alle spese personali e agli abiti.

E notisi che le condizioni per il sussidio erano gravissime; perchè io dovevo ottenere, non in media, ma in ogni singola materia, almeno 9/10: bastava un otto, perchè il sussidio potesse cessare. Pure superai sempre la misura richiesta, anche negli esami di laurea, in condizioni specialissime di salute e di preoccupazioni famigliari e personali. Non discesi mai al disotto di 94%, e in un anno arrivai a 98%.

Il tempo per le lezioni mancava, perchè l'orario di scuola era gravissimo (dalle 8 alle 5½ o alle 6); ma mi aiutavo nelle vacanze, dando perfino cinque lezioni al giorno di calcolo differenziale e integrale, di geometria proiettiva e descrittiva e di meccanica razionale.

Laureato ingegnere nei primi di settembre 1882, agli ultimi dello stesso mese fui assunto dal professore Colombo come ingegnere dell'allora Sindacato per l'applicazione dei brevetti Edison: e presso la Società Edison restai fino ad ora.¹

¹ De Andreis non era ancora condannato. Adesso egli ha aperto studio per suo conto.

<tb>

Dall'82 all'84 attesi alla costruzione dell'officina in via S. Radegonda, come direttore dei lavori, e alla posa in opera delle fondazioni delle macchine e delle caldaie. Finita la costruzione del fabbricato, fui uno degli ingegneri addetti all'officina elettrica, sotto gli ordini del direttore sig. J. William Lieb, e fui incaricato in modo speciale delle caldaie e delle macchine a vapore, e accessorii. Nel 1887 fui incaricato degli impianti elettrici nella città di Milano.—Nel 1888 fui incaricato degli impianti (previo progetto e preventivo) d'illuminazione elettrica fuori di Milano. Citerò tra gli impianti, quelli dei teatri S. Carlo di Napoli e Carlo Felice di Genova, della città di Cuneo, della città di Ferrara, ecc.

In una delle mie brevi fermate a Milano allora (poichè specialmente Napoli e Cuneo mi tennero occupato per quasi tre anni), mi venne offerta dalla Società Edison la direzione della Società di illuminazione elettrica di Venezia, a condizioni vantaggiosissime. Dovetti, con dispiacere del professore Colombo, ringraziare dell'offerta, per le condizioni specialmente di famiglia: io non avrei potuto portare mia madre (da tanti anni abituata al quartiere di P. Garibaldi, e allora sessantacinquenne), in un nuovo elemento, come Venezia, senza ch'ella ne soffrisse enormemente; e poichè avevamo da vivere—benchè umilmente—a Milano, rinunciai alla nuova posizione.

Prima di questo incidente era avvenuta la morte del mio fratello maggiore, Benedetto.

Mio fratello, già capo contabile della ditta Carlo Erba, in Milano, a un certo punto credette di poter lavorare per suo conto come rappresentante in generi coloniali. L'attività sua, l'intelligenza, l'onestà, già l'avevano avviato sopra una via promettente, ma tutti i suoi fondi erano impegnati con una casa di Buenos Aires, la quale, per la crisi di quello Stato, fallì. Qui a Milano d'altra parte, la firma per l'acquisto delle merci era di mio fratello; e in un mio colloquio con lui, senza che lo sapesse la mamma, egli mi espose lo stato suo, ed io mi accordai con lui per pagare a poco a poco con lui i debiti non suoi. In pochi anni pagammo forse diecimila lire. Ma mio fratello si ammalò di lavoro e di consunzione, e nel 1889 morì dopo sei mesi di letto. Non trovai che un centinaio di lire, e più che tremila lire di debito restante ancora dell'antico.

Decisi di pagare io del mio i debiti; e li pagai in poco più di un anno e mezzo, economizzando sulle trasferte e sul mio stipendio di 250 lire mensili.

Parecchi amici mi consigliarono di denunciare che mio fratello non aveva lasciato nessuna eredità, e non pagar nulla. Rifiutai, d'accordo con la mamma, e pagai tutto.

Dopo qualche anno le mie condizioni migliorarono nonostante altre e continue sventure famigliari.

La Società Edison ebbe sempre maggior fiducia in me, perchè nel 1895 fui nominato direttore dell'officina d'illuminazione elettrica di Santa Radegonda, allora la prima officina d'Italia.

Non abbandonai la direzione dell'officina (che richiedeva vigilanza notte e giorno), se non dopo la mia elezione a deputato per Ravenna. Conclusi allora nuovi impegni colla Società Edison, per riservarmi la libertà di tempo e di lavoro richiesta dall'ufficio parlamentare.

Intanto però avevo già avviato, appunto per la libertà di tempo e d'ufficio contrattata, parecchi lavori privati. L'impianto di Molfetta, nella parte di studio, consulenza e collaudo; l'impianto di Bisceglie, per consulenza e collaudo; l'impianto di Perugia, per studio e decisione in unione ai signori ingegneri Zunini e Fera. Ciò per rispondere all'atto d'accusa che dice ch'io mi sono dato tutto alla politica. Si può anche rispondere che parecchie volte invece fui chiamato dalla fiducia del Tribunale di Milano ad eseguire perizie giudiziarie, nonostante il mio carattere politico.

<tb>

Nel 1874 mi inscrissi al partito repubblicano; nel 1876 cominciai ad apparire in pubblico come oratore. Nel 1882, quasi durante gli esami di laurea, ebbe luogo un processo mio in Corte d'assise, ed era, non so se il decimo o il duodecimo. Fui processato anche dopo, e ultimamente nel 1896 a Milano e Livorno, sempre per delitti di stampa e sempre assolto. Non fui mai incriminato o processato per i miei discorsi attraverso l'Italia, in 24 anni di vita politica.

Nel 1892 mi presentai candidato nel primo Collegio di Milano (Porta Garibaldi e Porta Nuova); nel 1895 mi ripresentai; fui eletto in ballottaggio con 155 voti di maggioranza. La Camera ritenne eletto il mio competitore a primo scrutinio. Nel 1897 caddi a Milano per 60 o 70 voti, ma riuscii a Ravenna per più di 150 voti.

Il mio discorso sulla crisi, per cui entrò nel Ministero Rudinì l'on. Zanardelli, benchè di gravissima opposizione, ebbe gli elogi di tutti, anche dell'Italie!

Dopo non c'è più nulla, perchè la Camera è sempre stata in riposo, ed io, anch'io, sono stato messo in riposo, qui al cellulare.¹

¹ Mentre era al cellulare è stato a un pelo per essere fucilato.

__Rivelazioni di un ergastolano.__

(Note all'autore).

Voi avete insistito tanto, con tante buone ragioni, che io mi lascio indurre a prendere la matita. Non so come incominciare. Un uomo, che è in galera da trentadue anni, deve riuscire per gli altri un ingenuo o un semplicione. Non ho che una pallida idea della ferrovia. Non ci fui che da inquisito e da forzato. E, anche come tale, me la ricordo come un cubicolo di punizione.

Non saprei del telefono se non ne avessi veduto l'apparecchio in Direzione, e ignorerei completamente la luce elettrica, se da qualche mese non ne fosse illuminato lo stabilimento. Pensate, sono vent'anni che non esco da questa casa. Venti anni che faccio le stesse scale, che percorro gli stessi corridoi, che incontro, si può dire, le stesse facce, che mangio la stessa pagnotta e la stessa minestra, che ubbidisco alle stesse voci e che mi alzo e mi corico al suono della stessa campana. Ho dimenticato la forma delle lettere. Non ne ricevo più da un secolo. Mia madre è morta e i pochi che mi scrivevano mi hanno seppellito nella loro memoria. E mi facevano tanto bene le lettere! Una lettera era un avvenimento che mi commoveva i nervi cerebrali in un modo straordinario. La tenevo nella mano trepidante e la leggevo per una settimana, piangendo, ricordando, facendo sogni di rivedere tutto ciò che avevo perduto, e poi, sazio, la mettevo con le altre e ricadevo nell'insensibilità di prima.

Il passato non ha più alcuna presa su me. Non vivo più di esso e per esso come nei primi tempi. Non ho più rimpianti, non ho più aspirazioni. La mia vita è finita, completamente finita. Lo stesso mio delitto pare diventato il delitto di un altro. Posso rivedere il sangue che usciva a fiotti dal collo di mia moglie e riudire le sue ultime grida senza che si accenda il mio polso o si acceleri la palpitazione del mio cuore. È come se il sangue non fosse stato versato dalla mano che scrive. Prima, no. Prima, la tragedia mi metteva sottosopra.

Non potevo rivedere il cadavere che mi ha galeottizzato, senza rinfuriare col coltello sulle carni insudiciate dalla concupiscenza dell'uomo che si ubbriacava tra le sue braccia. Esagitato, come chi non vede che la colpa dell'altro, giuravo, con la bocca piena di fiele, che non le avrei mai perdonato. Adesso, non ho più rancori. Ciascuno di noi ha avuto il suo. Ella è stata ricacciata nell'eternità in un momento tragico, calda ancora dei baci del suo drudo—io sono stato condannato alla morte lenta, attraverso i supplizi della casa di pena. Lui? L'ho lasciato fuggire. Con le mani imbrattate di sangue, sentivo i suoi passi che correvano verso Serralunga, al di là di un fosso asciutto, senza punto pensare a rincorrerlo. Sono stato vile. Dovevo ammazzare anche lui. Anche lui doveva scontare la tresca con la vita. Non vi pare? Chi s'allaccia alla donna di un altro e fuori della legge, è un nemico della legge. A che gioverebbe, dite, il matrimonio, se non proteggesse i coniugi e non li obbligasse ad essersi fedeli a vicenda? Dovevo sgozzarlo come si sgozzano le galline dopo aver loro torto il collo, dovevo, allora. È l'unico sentimento di vendetta che sia rimasto in me più a lungo d'ogni altro. Autore di tutto, rimpiangevo di non averlo trascinato a partecipare della scena finale. Adesso? Adesso, potrei sedere sulla stessa panca senza trasalire. L'amante è come se fosse morto.

Avete ragione di interrompermi. A voi importa poco il mio stato d'animo. Voi non volete del condannato che i patimenti, ed eccomi a compiacervi.

Sono della provincia di Avellino e nato nel '48. Facevo il massaro, e il ganzo di mia moglie adultera era il figlio del padrone. La mia causa durò più di cinque anni e al terzo processo venni condannato dalle Assisie di Salerno, come da quelle di Avellino e di Benevento, all'ergastolo.

La sentenza mi fece l'effetto di una legnata sulla testa. Caddi sul banco degli accusati come istupidito. I carabinieri mi dovettero scuotere e trascinare fuori della gabbia. Sono passato, tra la folla che aspettava di vedermi, con il cervello confuso e gli occhi vitrei. Erano fissi in terra e non sentivo che le fiamme alle orecchie. Tra un processo e l'altro, ero obbligato a passare da una prigione all'altra. Il modo di traduzione, ai miei tempi, era feroce. Ogni prigioniero era considerato e trattato come un brigante.

Per andare, per esempio, da Ariano, il mio paese, ad Avellino, mi facevano fare quattro tappe, in quattro paeselli, dove era la caserma dei carabinieri, con la camera di sicurezza. La stanza di sicurezza era un luogo di tortura, buia come una cantina e larga come una tana. Rimanevo perduto nella foscaggine per dieci minuti senza raccapezzarmi il luogo. C'era, di solito, una finestrucola all'estremità della parete rasente il soffitto, armata di due bastoni di ferro in croce, e un tavolato con una secchia in un angolo. Vi si respirava un'aria malsana. Il supplizio incominciava quando mi si mandava a dormire. Me ne ricordo ancora con dei brividi. Mi si faceva sdraiare con i polsi nei ferri, mi si ordinava di mettere le gambe nei cavi di un rialzo ai piedi del tavolato, il carabiniere vi calava sopra la stanga che chiamavano ceppo, la chiudeva baciata al rialzo con un grosso lucchetto e mi lasciava così fino all'indomani. Ogni movimento equivaleva a un dolore atroce e a una scorticatura che diventava, con le ore, ardente. Legato e adagiato in questo modo, non avevo, per i bisogni corporali, che i calzoni.

Non ero ancora condannato e potevo essere innocente e già mi si sottoponeva a un castigo infernale! Mi alzavo dodici ore dopo con le ossa rotte e le carni indolenzite. Intorno ai malleoli e ai polsi, erano le strisce lividastre dei tormenti notturni. Mangiavo il pane che mi davano. Pane che mi si rompeva sotto i denti come un impasto di terriccio e ghiaia minuta. Nessuno potrà mai descrivere il pane dei miei tempi. Quello d'oggi, risovvenendomi dell'altro, mi pare del pane di lusso. L'acqua del secchio era sempre fetida. Pareva attinta in un pozzo dall'acqua stagnante; qualche volta sentiva della rigovernatura. Lamentarsi voleva dire inferocire il personale di custodia. Supino sul tavolato, non m'immaginavo che m'aspettava qualcosa di peggio.

Nelle carceri di Avellino mi trovavo in una parte dell'edificio chiamato dei «ferri», perchè non vi mandavano che galeotti o individui che stavano per diventarlo. Era, tutt'assieme, un corridoio composto di quattordici o sedici stanzoni, in ciascuno dei quali venivano chiuse cinque persone. Quando entrai in questo ambiente, c'erano cinquantotto individui condannati ai lavori forzati a vita, e dodici alla pena capitale. I condannati a morte facevano pietà. Passavano da un'ansia all'altra. Ogni mattina, per dei mesi, si aspettavano di sentirsi dire che il momento di prepararsi era venuto. Io ero ignorante di legge. Ma dicevo che era una crudeltà senza nome tenere la gente in questa condizione tanti mesi. Trenta giorni di questo strazio equivalgono bene all'attimo del cappio che fa vomitare la vita.

Di questi infelici, ne conobbi, intimamente, due. Ora l'uno e ora l'altro mi raccontavano la loro paura di morire. Avevano una grande speranza nella clemenza di Vittorio Emanuele. E io li aiutavo a nutrirla. I loro nomi erano Alfonso Minetti e Carmine De Vito. Il primo aveva accoltellato il padrone a morte, e il secondo aveva fatto a pezzi una donna con la scure. Una mattina che eravamo al passeggio e parlavamo appunto della grazia sovrana, venne una guardia a chiamare il De Vito.

—Ti vuole il signor direttore.

Supponevamo che fosse stato chiamato per la comunicazione della grazia. Ritornò la guardia senza il De Vito a chiamare il Minetti.

—Ti vuole il signor direttore.

Non vidi più nè l'uno nè l'altro. Seppi poi che erano stati condotti in cappella per la preparazione. Quando c'ero io, i sentenziati a morire venivano legati alle mani e ai piedi per il resto della loro esistenza, vale a dire per tre giorni e tre notti. Era una precauzione che impediva loro di sottrarsi alla condanna con qualche atto insensato. Si dava loro quello che desideravano da mangiare e da bere, e venivano, più volte nel giorno, consolati dalla parola affettuosa del sacerdote. Sono però rari i delinquenti che si abbandonano all'orgia del ventre in cappella. Alfonso assaggiava appena ciò che gli portavano e Carmine non beveva che della limonata. L'aurora dell'8 giugno 1875 fu triste. Sentivamo i passi affrettati che andavano e venivano e i rintocchi che diffondevano il terrore per la carcere. Tutti quelli della mia camera andarono con me in ginocchio. Pregammo con fervore fino a giustizia finita. Tutti e due sono andati all'altro mondo pentiti del loro misfatto.

Nella carcere di Benevento mi trovai con un altro condannato di ventidue anni, che aveva mozzato il capo alla ragazza che non voleva più sposarlo. Si chiamava Muscischio. Respinta la rinnovazione del processo, venne isolato in una stanza, al cui uscio era stata messa una guardia che non doveva fare altro che tenerlo d'occhio dalla spia. Rimase dieci giorni tra la vita e la morte. Venne graziato il venticinque aprile 1876. Ritornato in mezzo a noi, ci raccontò lo spasimo che aveva subito in quelle notti e in quei giorni. Ci diceva che il pensiero di morire non gli dava mai requie, e che, anche quando la prostrazione gli chiudeva gli occhi, il suo sonno veniva conturbato dal carnefice, del quale gli pareva sempre di sentire la voce. Durante il giorno non mangiava cinquecento grammi di pane. Lo rivedemmo spaventevolmente denutrito. Egli era contento della grazia, ma diceva che in dieci giorni aveva sofferto assai più che se lo avessero impiccato dieci volte.

Finalmente, venne l'ordine della mia destinazione. Il ministro dell'interno aveva scelto per me il bagno penale di Genova. Non si sa ancora perchè il delinquente viene mandato a scontare la pena quasi sempre agli antipodi dal luogo del delitto. La nostra catena era composta di otto a vita e di tredici a tempo. Parecchi indossavano il costume del galeotto e parecchi, come me, l'abito, diremo così, borghese. Non ricordo il nome della nave. Ma sarà difficile che io dimentichi il viaggio di mare che mi ha convulsionato tutto l'organismo e mi ha fatto patire le pene dell'inferno. Il tavolato della camera di sicurezza, paragonato alla stiva, mi diventava un letto di bambagia. Con l'odore di catrame, si aspirava un'afa che sentiva di latrina. Pigiati come eravamo, mi pareva di essere in un affogatoio. I carabinieri non furono certamente umani.

Ammanettati, ci legarono a due a due al braccio e ci incatenarono tutti assieme. L'uno non poteva muoversi senza tutti gli altri. Stivati peggio che i conigli in una conigliera, non vedevamo che le onde del mare che venivano a frangersi sui vetri dei buchi rotondi. Qualche volta la nave ballonzolava, piegava come se avesse voluto rovesciarsi sulle acque agitate e qualche altra saliva rapidamente alla superficie per affondare di nuovo nei flutti che tentavano di inghiottirla. Alcuni dei miei compagni si erano già vuotati lo stomaco, non potendo frenare gli impeti del vomito. Io ne sentivo gli urti, ma tenevo duro. Parecchi di noi avevano le labbra paonazze e le orecchie orlate del rosso smorto dei febbricitanti. Dalle finestrucole, la nave ci dava l'impressione che stesse per sommergere. Il vento muggiva disperatamente e incalzava i cavalloni che venivano a schiantarsi sui suoi fianchi come fasci di verghe d'acciaio. Nella stiva, si moriva. Cedetti e incominciai a recere come tutta la catena. Senza poterci staccare o avere dei recipienti, ci sbattevamo le eruzioni gli uni sugli altri, imbrattandoci da far pietà ai sassi. La notte fu ancora più spaventevole. La nave, violentata da tutte le parti, pareva in deriva. I venti scatenati le andavano sotto e la elevavano sui flutti come se avessero voluto scaricarla del suo carico. La nostra catena incominciava a temere un naufragio. Dovevamo essere orribili. Seduti o sdraiati nelle chiazze della materia eruttata, recitavamo tutti dei pater e degli ave domandando perdono a Dio dei nostri peccati.

In un momento in cui fummo invasi da un terrore indicibile, chiamammo il brigadiere all'uscio della stiva e lo pregammo di metterci in condizione di poterci aiutare con le nostre gambe e con le nostre braccia in caso di disastro. Lo supplicavamo con tutte le parole carezzevoli a nostra disposizione. Gli dicevamo che eravamo condannati a scontare una pena in un ergastolo, non a naufragare in blocco, legati come un sol uomo. Se non ci dava modo di salvarci, il delitto del brigadiere sarebbe stato un delitto peggiore del nostro.

A mano a mano che parlavamo, il terrore ci era entrato fino nel midollo spinale. Ciascuno di noi gareggiava di vigliaccheria. Piangevamo e imploravamo la vita come tanti miliardarii attesi sulla spiaggia dai parenti straziati dal dubbio. Il bastimento, che aveva tentato di mantenersi in equilibrio con le àncore, pareva avesse rotto gli ormeggi e fosse in balìa di una corrente che volesse scavargli l'abisso.

—Abbia pietà di noi, signor brigadiere,

—Pezzi d'asini! Tacete o vi farò incatenare i piedi agli anelloni del pavimento! Siamo qui anche noi e per colpa vostra e non diciamo niente. Se andrete in fondo non sarà un gran male. Io ho degli ordini e non posso violarli. Fate dunque silenzio e non rompeteci più le scatole. Siamo intesi.

Rimanemmo intontiti. Non credevamo che ci potesse essere un uomo capace di dirci, in un momento simile, che se anche fossimo annegati non sarebbe stato un gran male. Nel cervello di molti di noi è passato il delitto. Se qualcuno di noi fosse stato libero, il brigadiere non avrebbe potuto finire la frase. Egli sarebbe stato piegato in due e cacciato in mare da uno dei portelli del naviglio.

Dopo, al bagno, seppi ch'egli non avrebbe potuto fare altrimenti. Era la legge che ingiungeva al carabiniere di lasciarci annegare ammanettati in una prigione durante il naufragio della nave.¹

¹ I lettori crederanno che l'ergastolano esageri. Ma io posso disilludervi. Quello che avveniva allora avviene anche adesso. Me lo diceva pochi giorni sono un brigadiere dei carabinieri che si è proprio trovato in piena tempesta con una catena di condannati.

—Ero incaricato di condurli da Civitavecchia alla Sardegna. Partimmo con un mare tranquillo. I forzati erano stati stivati, incatenati e chiusi nella stiva. La burrasca incominciò nel mezzo del mar Tirreno con tanta furia da obbligare il capitano a preparare l'equipaggio a tagliare le corde delle lance di salvataggio e a dare a ciascun passeggero il salvagente. I miei forzati strepitavano e domandavano con alte grida di essere slegati e smanettati. Era una scena da far piangere e, se devo dire la verità, provai un'emozione che mi inumidì gli occhi. Tentai di pacificarli con buone parole dicendo che il pericolo non era così imminente come credevano. Loro mi rispondevano buttando su tutto ciò che avevano mangiato. Il mare era così grosso che attraversava il ponte, e innondava l'interno in un modo così rapido e così frequente da impedire ai marinai di far lavorare le pompe. Il moto della macchina a vapore non era più regolare. Lo stantuffo non manovrava più bene e il tubo sul ponte pareva qualche volta che si piegasse a baciare il mare in lotta con sè stesso. Quando vidi che il naufragio era imminente andai dal capitano e ottenni il permesso di togliere loro le catene. Era tutto quello che si poteva fare in un momento spaventoso come quello. Loro, i galeotti, urlavano disperatamente, e mi accusavano di non avere cuore perchè non toglievo loro le manette. Ma nè io nè il capitano potevamo contentarli. Anche se fossimo stati arcisicuri del naufragio la legge non ci avrebbe permesso di essere umani. Eravamo obbligati a lasciarli affogare ammanettati e chiusi nella stiva. È una legge di ferro, ma legge.

Non c'è penna che possa narrare che cosa ho sofferto e che cosa hanno sofferto i forzati lungo la traversata burrascosa. Io credevo di essere diventato grigio. I galeotti uscirono dalla stiva lividi e paonazzi come gli annegati. Io non sono giornalista, ma se lo fossi non starei quieto fino a quando questo assassinio legale fosse cancellato dai regolamenti che regolano il trasporto dei forzati per mare. Sono severità penali che gridano vendetta.

Siamo stati in mare tre giorni e tre notti. Tre giorni e tre notti di stiva, in mezzo ai guazzi e alle pozzacce delle porcherie vomitate, senza lavarci, senza svestirci, senza cavarci le scarpe, con un mastellone per i bisogni corporali vicino a noi, in mezzo a noi, come se fosse stato della catena, mangiando di tanto in tanto un boccone di pane insudiciato e stantio e bevendo nella secchia come il cane che vi tuffa il muso e ne lambisce il liquido con la lingua!

Sbarcammo più morti che vivi. Ci guardavamo sulle pietre del porto come gente che non sapeva più in che mondo vivesse. Avevamo le occhiaie dei naufragati. Eravamo macilenti, con le facce bianche come quelle dei cadaveri buttati sulla spiaggia e andavamo via come poveracci che non sapevano più reggersi in piedi. Che viaggio, oh che viaggio! Me ne ricorderò per tutta la vita. Sarà e rimarrà l'episodio più spaventevole della mia esistenza di condannato perpetuo.

Arrivai al bagno di Genova più morto che vivo. Ci tolsero le manette e ci slegarono dalla catena che incatenava il braccio dell'uno al braccio dell'altro. Le mie mani rimasero giù penzoloni come se fossero state riempite di piombo. Non le sentivo più che come un enorme peso che mi trascinava verso terra. I ferri m'avevano lasciato un cerchio profondo e nerastro nelle carni come se i polsi fossero stati nelle strette della morsa.

Ero tutto in un'acqua. L'arsura prolungata e il polverone dello stradale, ci avevano perfino attutita la sete spasmodica che avevamo in mezzo al solleone. Ma non appena vedemmo i mastelli d'acqua, divenimmo quasi tutti impazienti di agguantare il boccalino. Ne votai due, uno dopo l'altro, senza prender fiato. Il terzo non potei finirlo. Mi parve un'acqua di tinta motosa col sapore dell'acqua salmastra.

Al bagno di Genova non arrivavano mai meno di due o tre «catene» al giorno. Era come il bagno che incatenava i galeotti che dovevano poi disperdersi in altri bagni. Cogli altri giunti, eravamo più di una cinquantina. Coloro, che non indossavano ancora il costume del forzato, vennero vestiti alla presenza di tutti e di una moltitudine di guardie. Ci si buttavano gli abiti, senza badare se erano adatti per un gigante o per un nano. A me, come ergastolano, diedero la berretta verde, la cravatta rossa, la giacca rossa, e i calzoni con strisce turchine. I calzoni avevano la gamba destra divisa coi bottoni per la catena. Non riuscii a mettermeli che aiutato da un mozzo che vi aveva fatta l'abitudine. Vestito da galeotto, dovevo avere l'aria di un diavolo o di un sanguinario. Lo scarlatto mi ricacciava col pensiero nel sangue di mia moglie.

Ci si condusse in un cortilone che gelò il sangue a tutti. Nel mezzo c'erano due montagne: una di catenoni e una di grossi anelli che chiamavano maniglie. A destra di questi ferramenti che sospendevano il respiro, si vedeva una lunga fucina infocata che sparpagliava una pioggia di faville e incendiava superbamente i battitori del ferro rovente. Era una scena terribilmente dantesca. Le incudini erano parecchie. Su alcune precipitavano le mazze che scrostavano il volume del ferro ardente che incominciava ad assumere una forma, su altre irrompevano i magli che massellavano i ferri che avevano già assunta la forma che volevano dar loro. Quando tuffavano nella pila i ferri che uscivano dalla fucina come pezzi di lava incandescente, e i mozzi soffiavano col mantice nel bracere, i lavoratori galeottizzati rimanevano come perduti in una nube bianca e luminosa. I fabbri, per completare l'orrore dell'inferno, si levavano sui piedi, portando in alto la mazza, e colle loro braccia poderose si curvavano violentemente nel fitto dei barbagli che mettevano della brace sulle loro facce annerite. I sussulti cupi delle catene dei galeotti che martellavano il ferro mi passavano dalle viscere come un tremuoto. Io guardavo. Guardavo con gli occhi smarriti nell'incendio, come dinanzi a uno spettacolo fantastico.

Furono i mozzi che mi scossero. Era venuta la mia volta. Mi chiamarono vicino alle due montagne, scelsero un catenone e una maniglia e mi fecero sedere su uno sgabellotto, vicino all'incudine che si levava un palmo dal terreno.

—Non fatemi male, dissi loro.

—Non fargli male che è di zuccaro!

E quasi tutti i ferratori—che erano degli altri forzati—scoppiarono in una risata che mi andò al cuore come un punteruolo.

—Dammi qua la gamba, piagnolone!

Mi misero il piede sull'incudine, mi inanellarono il ferro al disopra della caviglia e poi coi martelli si misero a battere e a ribadire i chiodi senza pietà alcuna. Avrei giurato che godevano del mio strazio. A ogni lamento che voleva frenare le brutalità del martello, mi rispondevano con parolacce che mi facevano male quanto il peso che mi avevano attaccato al piede.

—Dammi qui la catena da appendergli all'orologio, disse il ferratore al mozzo.

E me la ferrarono all'anello con dei colpi spietati che davano loro piacere.

—Basta, basta, Signore Iddio!

Mi rialzai e prese il mio posto il mio compagno di branca, cioè l'uomo col quale stavo per essere appaiato chi sa per quanti anni. Ero così assorbito dalla mia sciagura, che non ebbi uno zinzino di compassione per il mio futuro fratello di catena. Incatenati l'uno con l'altro, ci si condusse in un ufficio ove venimmo matricolati, lui col numero 3446, io col numero 3414.

Il mio compagno di catena era certo Stefano Cristini, della provincia di Roma, condannato a sedici anni di lavori forzati, il quale rideva e mi dava la baia perchè piangevo di essere carico di catene che potevo a mala pena tenere su col braccio o con le braccia.

—Se fai così, mi disse, staremo assieme poco. Andrai al cimitero assai prima che finisca la mia sentenza. Caro mio, il pianto è debolezza d'animo. L'uomo non deve mai perdersi di coraggio. Io ho già portato le catene per cinque anni nel bagno di Civitavecchia e non sono morto. Non ci penso neanche a finire i miei sedici anni. Provati a dire che non c'è rimedio e vedrai che la vita ti diventerà meno pesante.

Tre giorni dopo lasciammo il bagno alla Foce con una «catena» di novantasei persone. L'idea di scappare non poteva venire a nessuno. Eravamo incatenati come delinquenti che non avessero fatto altro al mondo che pascersi del sangue della gente macellata con le loro mani. L'estremità della mia catena a destra era stata attaccata all'occhiello dell'anellone al piede sinistro dell'altro al mio fianco. Di modo che il mio piede destro e il piede sinistro del mio compagno di sventura, dovevano fare passi limitati e avere movimenti isocroni. Si intende che, oltre a questa precauzione alle gambe, ci avevano ammanettati fino al gonfiore e passata la catena dall'ascella dell'uno all'ascella dell'altro, lucchettandocela nella schiena dell'ultimo in fondo. Coi zigzag ci legarono tutti e novantasei assieme, lasciandoci appena lo spazio per muoverci e per i passettini.

Il passo rapido dei primi veniva sentito dagli ultimi e le punte delle scarpe di una fila andavano sul dorso delle scarpe di un'altra.

Da questo bagno al Castellaccio c'erano, su per giù, tre chilometri. Era una strada malagevole che si ascendeva sudando come bestie, sotto un sole di giugno che scottava fin negli occhi. Perdevamo la lingua come i cani. I carabinieri che ci circondavano erano quaranta, tutti a cavallo, armati fino ai denti. Fumavano e si buttavano da una parte all'altra le birichinate della sera prima con le donne, senza punto badare al nostro supplizio. L'assieme era lagrimevole. Ci sarebbe voluto un fotografo. Perchè la penna, per quanto sia addestrata alle descrizioni minute e sia padrona di un'officina di vocaboli, non riesce mai a impadronirsi di tutto e a conservare, cogli atteggiamenti individuali, i colori del quadro grandioso.

Al Castellaccio ci matricolarono, separando i buoni dai cattivi. Le coppie che avevano subìte punizioni, venivano mandate nelle stanze a pian terreno, mentre le altre venivano disperse per i piani superiori. Il bagno era composto di stanze di sedici persone, con otto pagliericci da una parte e otto pagliericci dall'altra. Così che non vi so ancora dire la differenza tra le stanze di sotto e quelle di sopra.

La prima cosa spiacevole del Castellaccio, fu la distribuzione degli utensili di cucina. Invece della gamella, mi si diede una cosa di legno rotonda, coperta di due dita di muffa, e un pezzaccio di cucchiaio che pareva stato in una cantina umida per degli anni. Me li lavai e me li rilavai senza mai far loro perdere l'odore nauseoso contratto in un ambiente dalle pareti viscide. Un mio compaesano che si trovava nella stanza, prese a proteggermi e a consolarmi. Si chiamava Francesco Gentile, stato condannato a vita dal tribunale di guerra, come brigante che non aveva voluto sottomettersi al governo di Vittorio Emanuele. Egli aveva fatto parte della banda dello Schiavone, il capo brigante che avrete sentito nominare. Il Gentile era vecchio, ma di cuore. I suoi primi consigli sono stati la mia guida.

—Rispetta tutti e specialmente i tuoi superiori. Procura di farti amare dal tuo compagno di branca, anche se fosse il peggiore degli assassini. Perchè senza vincerlo con la tua benevolenza, la vita ti diventerebbe odiosa e intollerabile. Fatti animo e non lasciarti mai adescare a far delle confidenze al personale di custodia, se ti preme di morire nel tuo letto.

Mi prese a volere così bene che il giorno dopo il mio arrivo mi regalò un piatto di zinco, una striscia di pelle ovattata per mettermi sotto la maniglia che mi spellava e mi piagava la noce del piede, e un panciotto di flanella bianca per salvarmi il petto dai clima traditore. Il gilet era un sacrificio superiore ai bisogni del galeotto. Ma il buon vecchio mi pregò di non darmene pensiero, perchè lui, in sartoria, con gli stratagli, avrebbe saputo farsene un altro.

Nella prigione di Benevento avevo imparato a consumare il tempo con dei lavori di carta. In pochi mesi ero riuscito a mettere assieme una gabbiuccia che regalai a un secondino. Ma al Castellaccio non c'era proprio nulla da fare. Eravamo condannati ai lavori forzati per ridere. Tranne i mozzi addetti ai lavori domestici e alcuni fabbri, non avevamo da lavorare che col catenone che pesava e ci martoriava. Era una fannullonaggine tormentosa in tutta la camerata. Il mio compagno di catena, col quale rimasi appaiato trentadue mesi, era un originale bizzarro che sapeva, di tanto in tanto, farmi ridere con qualche frizzo o con qualche lepidezza. Col tempo diventava però noioso. Ignorante come una talpa, era stato preso dalla pazzia del dantomane.

Senza capire il sommo poeta, aveva imparato dei canti—specialmente quelli dei gironi—e me li recitava a ogni quarto d'ora, trascinandomi sulla riviera del sangue bollente quando avevo voglia di conciliarmi col genere umano e facendomi lacerare dalle cagne bramose, proprio nell'ora in cui sentivo il bisogno di una voce pia che mi consolasse e mi aiutasse a credere che le anime affannate dei cerchi del sepolcro dei vivi potevano cullarsi ancora nella speranza di un perdono! Non gli dicevo nulla e fingevo di sorridere sotto la pioggia dei versi che mi picchiavano il cervello, perchè avevo giurato di non inasprire colui dal quale non potevo disgiungermi; ma nel silenzio infuriavo e gli andavo sopra con le verghe a fargli sanguinare le carni. Prostrato dalla sua voce assassina, dicevo mentalmente: taci! taci! taci! o «fiera crudele» che io «sono un che piango»! Se volete offendermi, mandatemi la Divina Commedia. Non posso più sentir parlare di Dante. Se non avessi che i suoi versi in cella, farei voto di non leggere più mai. Un suo verso mi provoca il vomito.

Il solo spasso che riuscii a conquistarmi a furia di preghiere e di sottomissioni, fu quello di fare le calze. Non ridete, perchè facevo ridere anche il mio compagno di catena, ma io, coi ferri, con la lana e col cotone, ho passato giornate relativamente tranquille. Tra una soletta e l'altra, mi si addormentava l'idea che dovevo morire alla servitù penale. A mano a mano che i miei ferri divenivano abili e frettolosi, riacquistavo la calma che avevo perduta. Mi confortavo dicendomi che ce ne erano delle migliaia nella mia condizione, che non uno di loro disperava di rientrare nel mondo. Il mercante di Genova, che ci somministrava la lana e il cotone, mi fece sapere che era contento dei miei calzini. Provai a fare delle calze traforate. Le prime non erano eleganti, ma in seguito non c'era più nessuno nello stabilimento che mi potesse tener dietro. Quando si voleva illustrare la gamba con delle calze scicche, si ricorreva, senza esitazione, al 3414.

Due anni dopo ero stufo di calze come di Dante. Lavoravo per ammazzare il tempo. La mia anima trambasciata non era più nel lavoro. Era la praticaccia che me lo faceva fare ancora con del gusto. Incominciavo a credere, col mio compagno, che sciupavo il tempo nel mestiere della vecchia sdentata che assecchisce sotto la cappa del camino. L'abitudine del movimento aveva resa inutile la mia attenzione. Così il mio pensiero sbrigliato mi ripiombava, di tanto in tanto, a filosofare sulla mia incommensurata disgrazia. Maledivo e stramaledivo il mio difensore governativo, l'avv. Alfonso Alberosa, che mi aveva strappato dall'ultimo supplizio. Quante volte mi sono augurato ch'egli fosse stato afono! Non mi avrebbe salvato il collo. Pazienza. Allora avevo paura di morire. Nel Castellaccio, invece, sognavo la morte. La privazione della vita, credetelo, non è il massimo dei castighi. La condanna a vita sì, che è peggiore della morte esasperata, inasprita dagli ordigni che lacerano e squartano, e lasciano appesi come un quintale di delinquenza! Beccaria assassino, tu sei stato il più iniquo degli scrittori penali italiani. La tua è stata una vendetta, una atroce vendetta. Tu hai voluto sottrarci al carnefice per inebriarti dei nostri tormenti. Se la libertà individuale perisce alla porta di questi edifici, perchè hai tu voluto emendarci? Giuseppe De Maistre, tu sì che sei stato cristiano. Più ancora che cristiano. Tu sei stato un avvenirista dell'antropologia moderna. Dato che il mio pensiero sia veramente criminoso, a che risparmiarmi il tratto di corda? Ben venga la morte che sopprime il pericolo sociale e la tortura individuale!

Scusate se mi lascio trasportare. Sono ancora convinto che sarebbe stato meglio mi si fosse seppellito vivo in un sacco, che non avermi fatto espiare ventinove anni di galera senza che il sovrano abbia trovato un minuto per pronunciare la parola perdono. Perdonate, o signori, a un povero peccatore pentito che ha attraversato tutto questo periodo senza un'ora di punizione!

Bisogna essere stati in galera per capire la pagina della condotta bianca come un giglio. È una pagina tragica. Riassume un secolo di umiliazioni, un'eternità di esistenza carpone, ai piedi del primo e dell'ultimo tirannello del bagno penale. Scusate se sono commosso. Le fonti del mio dolore non sono ancora inaridite. Abbiate la bontà di credere che in fondo sono migliore del vestiario ridicolo che indosso. Proprio, davvero, ve lo giuro!

Voi mi avete raccomandato di non dimenticare le mie conoscenze di questi ambienti. Il Castellaccio era pieno di briganti. C'erano tutti i superstiti della banda Schiavone e della banda di Alfonso Carbone. Costui era di Mombello, della provincia di Avellino, e un buon diavolo che mi faceva dei favori. Forse avrete sentito parlare di lui. Egli è stato vittima del generale Pallavicino, il quale, dopo avere messo sulla sua testa una taglia di tremila lire, gli scrisse che, se si fosse presentato spontaneamente, avrebbe dato a lui la taglia e lo avrebbe condannato a qualche anno di esilio. Il Carbone, prima di darsi alla campagna, ammazzò due fratelli e un compare della stessa famiglia per vendicare la morte di un suo fratello, ch'egli diceva di idolatrare. L'assassino di suo fratello era in galera. Covò la vendetta per cinque anni—la pena alla quale era stato condannato l'uccisore. Uscito dalla casa penale gli andò sopra con un coltellaccio e glie lo ficcò nel ventre fino al manico. Il Carbone parlava di questo omicidio con dei tremiti i quali rivelavano che la belva aveva ancora sete di quel sangue.

Il Carbone mi diceva che la sua famiglia era agiata e possidente. Con lui si presentarono al Pallavicino, che li aspettava per farne una retata, quattordici della banda—nove dei quali vennero condannati a morte, cinque a vita e Vincenzo Volpe, minorenne, a venticinque anni.

I condannati a morte erano: Carbone, Ciavo, Longo, Vertuto, Cozzi, Palombo, Zorio, Savalino, Perrone. Tutti costoro rimasero per qualche anno sotto la sentenza capitale. Ogni mattina, per quattro anni, si toccavano la testa. Graziati da Vittorio Emanuele, vennero al Castellaccio.

La crudeltà del Carbone brigante è in uno dei suoi ultimi delitti. Egli era riuscito a impadronirsi di una spia che aveva tentato di farlo ghermire dai gendarmi. Avutolo nelle mani, lo buttò a terra a ceffoni. In terra gli andò sopra coi piedi, calcandoglisi sulla pancia e lavorandogli il naso e la faccia colle scarpe ferrate. Quando fu sazio di questi scherzi crudeli, compiuti alla presenza della banda che sputava sull'infelice tutto ciò che poteva tirar su dalla gola e lo bruttava con tutte le ingiurie brigantesche, lo fece svestire e stare in piedi. Il Carbone era seduto. Lo puntava qua e là col coltello intanto che gli altri indemoniavano sulla schiena e sulle natiche del paziente.

Lui, prima di andare a mangiare, gli sprofondò ripetutamente il coltello nel corpo fino a quando lo vide esalare l'ultimo respiro. Senza lasciarlo venir freddo, gli fece una larga ferita nel ventre, raccolse le viscere fumanti e se le attorcigliò a torno il braccio come un trofeo di vittoria.

Le spie e i falsi testimoni sono i tipi più esecrati dalla popolazione degli ergastoli. Mentre ero al Castellaccio c'era un certo Santo Sterpone, nato a Luccoli, della provincia d'Aquila. Era stato condannato a venti anni, come omicida, per due false deposizioni. In galera non poteva darsi pace. Diceva a tutti che era innocente e agli intimi che non sarebbe molto tranquillo se non dopo avere scannati quei due cani. Noi lo lasciavamo sfogare e ridevamo dei suoi sogni di vendetta.

—Fra venti anni sarai morto o saranno morti i tuoi testimoni.

Lui ci rispondeva travolgendo gli occhi e mordendosi il labbro.

Con la buona condotta e con l'intelligenza era diventato scrivanello. Dal momento che ebbe in mano la penna che lo lasciava girellare per lo stabilimento, la sua vendetta divenne una fiaccola accesa. Non ebbe più requie. Pensava a una fuga. Studiò bene i più riposti angoli, si provvide degli strumenti che lo avrebbero aiutato a demolire e a segare, e aspettò il momento opportuno. Egli avea notato che a fianco della stanza numero 4, ove dormiva con altri quattro che uscivano a lavorare, era la cucina con una porta che egli avrebbe potuto scardinare e con una serratura che non gli sarebbe stato difficile di staccare con uno scalpello.

Eravamo nell'aprile del 1877. Pioveva che Dio la mandava. La pioggia torrenziale cadeva sui coppi e sulle pietre con un fracasso che soffocava ogni altro rumore. Con la pioggia era caduta una nebbia che non lasciava vedere a due passi.

Al di là dell'uscio della cucina c'era uno spazio, con un alto muro sul quale signoreggiava il bastione con la garetta nella quale era accovacciata, indubbiamente, la sentinella.

Il muro, col consenso dei compagni, era stato trapassato nella penultima notte. I compagni, all'ultimo momento, ebbero paura. Sterpone, che delirava di mettere le mani nel sangue dei suoi falsi accusatori, non esitò un minuto. Spostò i quadrelli, entrò nella cucina come un gatto, levò l'uscio in un attimo, s'arrampicò sul muro strisciando fin dietro la garetta, e coi rompimenti del tuono si lasciò giù dal bastione colla leggerezza e l'agilità dello scoiattolo.

Andò al suo paese, precipitò sui falsari come una iena e andò a Roma a lavorare fino a quando venne denunciato da un compaesano che lo riconobbe.

Lo rividi a Finalborgo invecchiato, con una sentenza a vita. Era stato nei bagni di Civitavecchia e di Orbetello ed aveva lavorato, come compositore di carattere, nella prigione di Regina Cli di Roma.

È ancora vivo. Aveva fatto conoscenza con una quindicina di bagni penali. Lo si può dire l'Ebreo errante della vita galeottesca.

In sette anni non feci altro che calzette e qualche maglia coi ferri lunghi. Chiusosi il bagno di Genova, si impiantò da noi una calzoleria e un lavorerio di tessitura. Imparai a fare il tessitore.

Non guadagnavo che sei o sette lire il mese, dalle quali dovevo dedurre il sessanta per cento per il Governo, ma mi piaceva. A poco a poco finii per amare il telaio come una cosa viva. Il rumore lento e monotono dei battenti che spingevano l'ordito tra un colpo di spola e l'altro, suonava al mio orecchio come una melodia che scendeva nel mio animo esulcerato.

Il tessuto che si avvolgeva sul cilindro, aveva tutte le mie carezze. Fu una gioia di pochi mesi. Il subbio, sul quale calcavo il ventre, finì per darmi una infiammazione intestinale. Dovetti andare in infermeria e poi ricominciare un altro mestiere.

Divenni legatore di libri—come si può diventarlo in un luogo dove si manca di tutto. Come tale mi si mandò nel bagno di San Giuliano. Ritentai il telaio e ricaddi più ammalato di prima. Qualche mese dopo mi si trasportò al bagno di Portolongone. Potete immaginarvi che cosa abbiamo sofferto nella traversata. Avrei preferito la mulilazione del braccio destro. Eravamo una catena di cento galeotti. Al nostro sbarco assisteva una folla enorme. Dal porto al bagno, ci sono tre chilometri tutti di salita, coi margini dello stradone che smottavano sotto i piedi e facevano pensare ai precipizi. Prima di arrivare all'ergastolo si passa sotto un arco rozzo.

L'entrata di questo bagno è tetra. Sente del luogo. Le camere sono assai più piccole di quelle del Castellaccio e in ciascuna di esse sono accomodati otto ergastolani.

Quando vi giunsi era affollatissimo. C'erano mille e cinquecento condannati. Trovai che l'impressione dell'entrata rispondeva esattamente alla vita interna. Le camere erano senza tavolaccio e senza letti da campo. Bisognava dormire sullo strapuntino di cinque chilogrammi di capecchio—in terra, con un cuscino che pareva per la testa di una pupattola. Le stanze erano male arieggiate. Avevano una parvenza di finestra nella vôlta e una porta sempre chiusa.

Gli ultimi che arrivano subiscono un ozio di mesi e di mesi. O non c'è posto, o non c'è lavoro, o non si sono ancora studiati i nostri caratteri. In un modo o nell'altro si rimane neghittosi.

Il passeggio avveniva sull'alto della terrazza con muraglie così alte che ci lasciavano come in fondo a una tomba scoperchiata. Non vedevamo che il cielo sopra le nostre teste.

C'era anche Cipriani, quello che era stato eletto deputato parecchie volte. Lo tenevano completamente isolato da noi. Occupava una stanza da solo, andava all'aria da solo e gli portava la minestra un sottocapo in una scodella di latta. La sua spesa quotidiana era un quarto di vino. A Portolongone si beveva il vino dell'isola d'Elba. Era migliore di quello degli altri bagni. Il Cipriani era mite e buono. Ma si diceva che era di un carattere fiero, altezzoso e anche borioso. Voleva quello che voleva e non accettava nulla.

Signore, abbiate pietà di me! Dopo una lunga malattia che mi lasciò sperare la fine delle mie tribolazioni, mi incatenarono di nuovo con una catena di duecento galeotti e ci stivarono in un bastimento per Finalmarina.

Non vi dico altro perchè dovrei ripetervi lo strazio e le torture delle altre volte. Oh, come si soffre, Dio mio, nelle stive dei bastimenti carichi di galeotti! Vi basti sapere che sulle spiagge mi pareva o ci pareva di essere usciti da un'orgia di oppio. Eravamo istupiditi dalla notte spaventevole e ci pareva di non avere più sangue nelle gambe.

Voi ve n'andrete presto. Ricordatevi del 3414. Pensate qualche volta a questo povero diavolo che subisce l'ira della legge da ventotto anni per avere fatto scomparire dal mondo una donna infedele, una donna che tradiva il marito, un'adultera.

Finalmarina, 24 settembre 1898.

3414.

__Carlo Romussi.__

Non si sa se la sua mano e la sua testa c'entrino per qualche cosa nella sua sempiterna attività prodigiosa. Si sa ch'egli è una macchinetta automobile che riempie un foglio dopo l'altro tutte le volte che c'è da scrivere. Al suo tavolo di redazione voi vedete sempre proti e compositori che aspettano originali.

Supponete ch'egli stia scrivendo un articolo sulla esposizione artistica. Gli si dice che mancano ancora due pagine a compilare il numero unico per i bagni. Consegna il manoscritto sull'arte, corre difilato alla stazione balneare senza rivedere lo stampone per riattaccare il filo interrotto e pochi minuti dopo riprende l'opuscolo sui doveri dei cittadini ch'egli deve finire per domani, o la prefazione agli scritti di Carlo Cattaneo che ha promesso fino da ieri l'altro.

Intanto che scrive, passa e ripassa dinanzi il suo tavolo la popolazione che lavora intorno al giornale e alla casa editoriale. Impiegati, fattorini, portieri, telegrafiste, traduttori, personaggi d'amministrazione. Lo si interroga, lo si interrompe, gli si annunciano visite, gli si rammentano nomi o fatti. Ci sono persone che hanno bisogno di vedere il signor direttore, amici che vanno a trovare Romussi, zuppificatori che vogliono infliggergli certe idee su date questioni, veterani del partito che salgono per stringergli la mano e interessarsi della sua salute o della salute della sua signora, archeologi che seggono sulla scranna che trovano per conversare e buttargli, tra un periodo e l'altro, un monumento storico che è stato scoperto, o che si minaccia di demolire o che stanno illustrando. Nel momento in cui si crede stia per incominciare la quiete, entra un filantropo a squadernargli un progetto che deve commuovere e vuotare le tasche ai cittadini, o un segretario di qualche circolo o di qualche associazione operaia che vuole assolutamente ch'egli tenga una conferenza sul risorgimento del Comune o sulla battaglia di Legnano, o un disgraziato che è ansioso di leggere stampato il manoscritto che gli ha portato da tante settimane.

—E questo mio articolo, signor Romussi!

—È sul «bancone». C'è tanta materia da perdere la testa. Ecco, veda, buttiamo via dei telegrammi per mancanza di spazio.

—Il signor Edoardo Sonzogno lo chiama dabbasso,

Butta lì la penna, passa dagli usci come una folata di vento che schiuda e chiuda fracassosamente, ritorna di sopra stropicciandosi le mani o rosso fino alle tempie, e ricomincia l'articolo su Crispi, parlando tra lui e il manoscritto, come se stesse dettandolo, spesso posando la voce più fortemente su una sillaba che su l'altra.

—L'onorevole Crispi è una vera sfortuna per l'Italia.

Questa vita quotidiana, capace di ammazzare due o tre uomini, è per lui un passatempo. Il lavoro ponderoso, quello nel quale è necessario ch'egli metta i suoi studi e la sua intelligenza, lo fa a casa, mentre altri dormono o si divertono. Dalle sei alle dieci del mattino e per parecchie ore del pomeriggio, egli non si occupa che di archeologia, di storia, di letteratura. Scrive: Milano nei suoi monumenti, Milano che sfugge, Petrarca a Milano, uno studio sul Trionfo della libertà di Manzoni, Sant'Ambrogio; o mette assieme un volume di poesie dialettali e italiane che la musa satirica e bernesca produsse prima e durante le barricate del 1848, eccetera, eccetera, eccetera, eccetera, eccetera.

Se sono bene informato, egli è al Secolo da ventinove o trent'anni. Vi è entrato in un modo curioso. Moneta era alla ricerea di un redattore che avesse delle qualità giornalistiche e una coltura che andasse al di là di quella dei soliti giornalisti improvvisati. Un giorno trovò per la strada Leopoldo Marenco, il romantico del palcoscenico d'allora.

—Senta, professore, non saprebbe mica aiutarmi a scovare un giovane che abbia imparato qualche cosa e facilità di scrivere?

Il professore di letteratura si passò la mano sulla fronte.

—Eh, proprio, è difficile. Ne ho conosciuto uno, quello sì… Era un diavolo che sapeva scrivere drammi, novelle, brani di storia, biografie… La sua penna andava come il vento.

—Se è morto non parliamone.

—È vivo. Ma non so dove sia andato a finire. Aspetti, deve essere a Pavia. Credo che studii legge. Certamente non vorrà smettere per fare il giornalista.

In allora, per spiegare la frase dell'autore della Celeste, non erano che gli scapigliati che si compiacessero di prendere delle sbornie coll'inchiostro di redazione. Erano giovani pieni di coraggio e anche d'ingegno o degli studiosi che volevano farsi largo, ma irregolari nella vita e nel lavoro. Nessun direttore poteva contare sul loro articolo pel numero di domani. Gli editori pagavano poco o niente e i giornalisti di professione, come è naturale, non esistevano. Non esisteva che la bohême chiassosa, buontempona, nottivaga, capace di annunciare in prima colonna e in corpo dieci che i redattori avevano orgiato e non potevano quindi scrivere l'articolo di fondo o l'appendice drammatica!

Un anno dopo, Moneta rivide il padre del Falconiere e lo ripregò di procurargli un giovanotto che avesse la stoffa del giornalista.

—Fra i miei scolari passati e presenti non ne conosco uno. Non potrei suggerirle che quello dell'anno scorso scorso. Quello là ha tutte le attitudini per uno scrittore di giornale. Ha una penna pronta, sollecita, che si piega a tutte le movenze di uno stile facile. Ha letto molto. È una biblioteca ambulante.

—Me lo mandi, dunque!

—Vedrò di cercarne l'indirizzo.

Un giorno, in cui il pensiero di Moneta era lontano le mille miglia dal redattore che gli doveva mandare il Marenco, si sentì annunciare il dottor Carlo Romussi.

—Passi.

Fiscamente non gli fece una grande impressione. Non gli si era presentato che un omino il quale non lasciava supporre in sè tanta resistenza al lavoro. In due parole s'intesero. Il Romussi faceva pratica d'avvocato ed accettava volentieri di passare a teatro le serate come critico d'arte. Moneta voleva qualcosa di più di un critico d'arte, ma per il momento si accontentava.

È inutile ch'io dica dei suoi ideali drammatici. Tutti sanno che il Romussi in arte e in letteratura non è stato figlio del suo tempo. Egli è entrato nel giornalismo come un vecchio che sente e difende le glorie virtuose del passato. Assoluto come tutti quelli che credono di avere il monopolio della verità, ha sempre dato addosso o ignorato la gioventù che ha portato sul palcoscenico e nel romanzo o sulla tela o nel marmo la vita con le sue grandezze e coi suoi orrori. Zola fu uno dei suoi boicottati fino a ier l'altro. La Duse, per lui, è rimasta un'artistaccia di provincia. Ibsen non gli uscirà mai dalla penna che come un degenerato del teatro.

La fortuna del Secolo data dalla guerra franco-germanica. Il Moneta simpatizzava per la Francia antimperiale e la tiratura salì vertiginosamente dalle otto alle venticinque mila. Era un trionfo giornalistico che bisognava conservare migliorando il servizio. E Moneta assunse, come cronista a ottanta lire il mese, l'avvocato Carlo Romussi.

Il suo primo articolo fece scalpore. Gli altri giornali avevano narrato il giorno antecedente un grave scandalo contro un patrizio milanese. Moneta, giudizioso e temperato, non volle lasciar correre la notizia se non dopo essersi informato personalmente che esisteva una querela e che c'erano i genitori i quali affermavano che la loro figlia minorenne era stata deflorata da un duca. Romussi non fu che l'esecutore. Avuto l'incarico dalla direzione, si mise al tavolino a fianco della vecchia scrivania del direttore e scrisse più di una colonna colorita, spigliata, nervosa, paragonando il violatore di fanciulle al Borgia crapulone. Venuta la minaccia di una querela per diffamazione, e sinceratisi, con le visite mediche, che la ragazza era virgo intacta il Secolo trangugiò uno di quei rospi vivi che non lasciano sopravvivere che la buona fede del giornale.

La cronaca composta di note aride e di fatterelli che facevano sbadigliare, divenne, nelle mani del Romussi, una rubrica importantissima. A poco a poco del Broglio del Pungolo—il quale passava per il cronista sommo della Risottopoli per le sue noterelle patrie e per avere introdotto, tra i fatti cittadini, le notizie che la questura comunicava a lui solo—non rimase più nulla. La cronaca si era elevata, Romussi l'aveva intellettualizzata, allungata, drammatizzata e resa indispensabile. Con lui i pennivendoli più sfacciati della cronaca cittadina sono stati obbligati a divenire più prudenti o a frenare la loro ingordigia.

Egli è ora direttore del Secolo, di quasi cento mila copie, ma io, a costo di farmi lapidare, persisto a credere che sia in lui più l'uomo di lettere che il giornalista. Chi ha letto i suoi lavori e specialmente Milano nei suoi monumenti—un'opera che quando sarà terminata rappresenterà la sua gloria—non può venire che a questa conclusione. Egli è un illustratore passionato. Charles Dickens è stato il primo direttore del Daily-News a due mila ghinee l'anno. Ma anche i suoi più grandi ammiratori hanno dovuto convenire che la sua tendenza era verso l'immortale Pickwick. Romussi è sempre pronto a buttar giù, lì per lì, qualunque articolo su qualunque soggetto. Ma il giornalismo moderno non si contenta della vitesse della penna. Esso esige tutta l'attività di un uomo anche se quest'uomo non scrive mai un articolo. I più grandi direttori dei più grandi giornali del mondo scrivono pochissimo. John Dilane, l'autore, si può dire, del Times dei nostri giorni, non fu mai a writer. Non scrisse che qualche articolo tra un anno e l'altro. Ma i suoi biografi sono concordi nel dire che egli era il Times.

Carlo Romussi è pieno di cuore, ha ridondanza di affetti ed è un amico, se vi dà veramente la sua amicizia, prezioso. Egli è capace di dedicarvi l'esistenza. La sua intimità con Cavallotti, la sua affezione per Cavallotti, la sua idolatria per Cavallotti sono cose di ieri. Nessuna donna ha amato il poeta anticesareo coi trasporti del direttore del Secolo. Per degli anni egli non ha veduto che cogli occhi di lui, non ha palpitato che col cuore di lui e non ha avventato un'idea politica che non fosse un idea cavallottiana. Ed è stato un errore. La devozione di Pilorge per Chateaubriand mi commuove. L'uomo privato può darsi il lusso dell'adorazione. L'uomo pubblico, il direttore di un giornale, non può sposare un uomo con le sue virtù, con i suoi difetti, con le sue aspirazioni, con le sue beghe personali. L'uomo è un individuo, il giornale è una istituzione, è un veicolo che deve andare in casa di tutti come un informatore. Cavallotti può odiare il socialismo e i socialisti fin che gli pare e piace. Il Secolo non può, non deve seguirlo. E con Romussi, ipnotizzato da Cavallotti, il Secolo ha ignorato per degli anni il socialismo e i socialisti. Non ne ha più parlato. Per lui non esistevano o non erano mai esistiti o erano morti. Boicottare un partito per delle bizze personali vuol dire rendere un cattivo servizio ai lettori che pagano per essere informati di tutti gli avvenimenti e alla amministrazione che pubblica il giornale per arricchire il suo editore o dare grossi dividendi agli azionisti. Boicottate un uomo pubblico o un partito o una notizia e voi sopprimerete dei lettori. Il giornale, che non è superiore ai rancori personali, che non sa essere imparziale cogli amici e coi nemici, che ha delle antipatie e delle simpatie, che ommette questo fatto ed esclude quest'altro, perde il diritto a questo nome. Diventa l'organo di Tizio o di Caio, ma non è più un giornale nel significato professionale.

Carlo Romussi è nato a Milano il 10 dicembre 1847.

__La tristezza di Natale.__

Ci siamo alzati, come gli altri giorni, al suono del din din, din dan della campana del reclusorio. I miei compagni parevano tante mutrie. Rispondevano al buon giorno e agli augurii con dei buon giorno e degli augurii secchi, come gente che si sarebbe morsicata se non ci fosse stato di mezzo il galateo. Don Davide andò a dire le tre messe alle muraglie della cappelletta addossata alla muraglia dell'infermeria, dicendo di non aspettarlo che non avrebbe bevuto il caffè al ritorno.

L'intervallo tra il caffè e l'aria fu sepolcrale. Passeggiavamo in su e in giù, con le mani sulla schiena, con la faccia rabbuiata e con gli occhi che parevano altrove. Il latrinaio, che ci aveva salutati con tutti i complimenti che aveva potuto raccogliere la sua testa, rimase senza risposta.

—Signori, buon Natale e tanti anni come questi!

Parecchi di noi lo avrebbero sprofondato. Asino porco di un ammazza donne, non è buono neanche di essere gentile!

Va all'inferno!

—Aria!

—-Ci lasci almeno prendere il caffè, signor sottocapo. Un minuto, meno di un minuto.

Il caffè era squisito. Era stato fatto dalla mano maestra del Federici che non lo beveva. Don Davide prese la chicchera senza ricordarsi dell'ordine che aveva dato. Il moka ci lasciò immusoniti più di prima.

Andammo all'aria come a un funerale. Nel cortile eravamo sbandati. Ciascuno passeggiava per proprio conto. Pareva che l'uno non volesse avere contatto con l'altro. Ritornammo nella camerata accigliati e taciturni. Chiesi sedette sulla branda piegata e si sprofondò in una Histoire de la Commune illustrata, don Davide si sommerse nel Breviarium romanum che teneva sempre sul tavolo, Federici aperse il Dodo—un romanzo che riproduce la vita intima inglese e lascia sentire l'odore della classe che dipinge. Lazzari si rimise sulla figura che stava disegnando con gli occhi torvi e l'aria di un mastino che avrebbe addentato il polpaccio del primo che gli si fosse avvicinato. Suzzani ricominciò a percorrere lo stanzone senza zuffolare l'inno dei lavoratori, la sua aria favorita che ci regalava dalla mattina alla sera senza perdere di lena—e Ghiglione, il tremendo Ghiglione che aveva sobillato con fervore i terrazzani di Niguarda, si era gettato a capofitto in un manuale di musica da quindici centesimi.

La colazione passò nel silenzio. Ciascuno mangiava quello che aveva ordinato senza dire una parola. La sola cosa in comune fu una bottiglia della cassetta che ci aveva inviato il buon Quadrio, direttore della Valtellina di Sondrio. Era un vino eccellente che non bevevamo da un pezzo.

—Buono, dissi vuotando il bicchiere.

Nessuno rispose. Pareva avessi detto loro una insolenza.

Dopo la colazione entrò il sottocapo con un immenso pacco di lettere e di biglietti di visita e una manata di telegrammi. Si buttarono loro sopra come avari che ricuperino il sacco dei denari che credevano perduto per sempre, e si ingolfarono nella lettura intima senza lasciar trapelare un pensiero dei tanti pensieri che erano loro giunti.

Le sole cose che riferivano erano i saluti o gli augurii nei quali fossimo compresi tutti od alcuni di noi.

—Il tale vi saluta tutti!

—L'Aliprandi saluta anche te, Paolino.

—Grazie.

—Il tale augura a tutti buon Natale!

Tra i tanti telegrammi ricevuti nella giornata ricordo quelli di
Bertolazzi, i quali riuscirono a smutriare qualcuno.

—Buon Bertolazzi!

—Buonissimo!

Lungo l'asse che correva al dorso della parete erano parecchi panettoni. Furono dessi che incominciarono a dar vita alla conversazione.

—Che cosa ce ne facciamo? Non possiamo mangiarceli tutti.

—E se ne dessimo uno ai poveri forzati? I reclusi del maggio ricevono qualche cosa, hanno forse ricevuto tutti qualche cosa. Mentre i perpetui e gli a tempo con la catena, non sono ricordati neppure dai parenti. Chi ha vergogna di loro e chi li dimentica come individui morti. E se ne dessimo una fetta a tutti loro? C'è questo del Mascarini, offelliere di Milano, mandato a don Davide. È grosso come un cetaceo.

Federici non si fece ripetere l'interrogazione. Se lo portò sul tavolo e con una cordicella si mise ad affettarlo.

—Quanti sono?

—Ventinove o trenta.

Incaricammo di distribuirlo don Davide Albertario. Fu una scena commovente—una scena che inumidì gli occhi di tutti coloro che hanno potuto essere presenti. I forzati si alzarono in piedi, rimanendo vicini al loro stramazzo, visibilmente commossi. Era forse la prima volta in tanti anni che sentivano parole dolci pronunciate da una persona che li capiva e li compiangeva.

«A nome dei miei compagni della quinta camerata—disse loro don Davide—vi dirigo il saluto in questo giorno di pace; come prete, io vi auguro la benedizione di Gesù Cristo che consoli il vostro cuore: accettate questo segno dei sentimenti del nostro cuore desideroso del vostro bene.» E incominciò subito la distribuzione. I volti duri dei galeotti si ingentilivano. Dal loro occhio scendevano le lagrime. Don Davide piangeva e noi, che vedevamo tutto dalla nostra cancellata, eravamo profondamente inteneriti. Si rimaneva a bocca aperta dinanzi alla commozione di tanti galeotti che avevano scannati gli uomini, massacrate le donne, fatto in quattro i padroni e distrutte le famiglie a colpi di coltello.

Don Davide mi prese sotto il braccio e mi disse:

—Avete notato che piangevano? Dinanzi al prete vestito d'assassino come loro, reo solo di avere professata la sua fede con maggiore sincerità e fervore, si sono sentiti le lagrime agli occhi. Non sono dunque completamente perduti. Credetemi, l'uomo che ha ancora la rugiada del cuore, è ancora un essere redimibile. Sembravano degli agnelli. Perchè non vi sarà maniera di rendere duraturi nell'anima di quegli sventurati questi nobili sentimenti e di ricondurli alla buona via?

«Ve lo giuro sull'anima mia: non dimenticherò mai questo momento del Natale in galera. È un episodio che mi resterà nella memoria in eterno. Mi hanno intenerito come un fanciullo.

—Diamo loro un altro panettone.

—Se si potesse, figuratevi!

Durante la giornata abbiamo avuto la visita del capo guardia prima e del direttore poi. Il primo ci parlò delle sue noie con dei prigionieri politici nello stabilimento. Per suo conto avrebbe voluto che ci avessero lasciati andare oggi piuttosto che domani. Non c'era più modo di aver pace. Parevamo gente in relazione con tutto il mondo. Una volta non si vedevano i portalettere che per la Direzione. Adesso il reclusorio è diventato un ufficio postale. Vi arrivano carri di pacchi postali, furgoni di biglietti di visita, centinaia di vaglia e di cartoline-vaglia, specialmente per don Davide, mucchi di telegrammi. Stamattina ne abbiamo ricevuti più di cento. E non sono mica gli altri che li registrano. Tocca ai poveracci dell'amministrazione. Non c'è più tempo neanche di mangiare. Si sciupa un paio di scarpe al giorno. Si sale, si discende e non la si finisce mai. E lui, per compenso, si trova con le scarpe rotte da pagare. Il bel mestiere che ha scelto! Doveva fare…. Basta, ora è troppo tardi. Le responsabilità poi sono tutte sulle sue spalle. Speriamo che oggi la vada bene e non accadano disordini. Sarebbe lui la vittima. Perchè il capo guardia dovrebbe essere dappertutto. Dabbasso, a ricevere, a rispondere, a registrare, e di sopra, con un occhio in ciascuna camerata. Bel mestiere che è fare il capo guardia con poco più di tre franchi al giorno! Speriamo che tutto passi via tranquillo e che si lasci fare un po' di Natale anche al capo guardia…

—Senta, signor capo guardia, non si potrebbe mica avere qualche sigaretta di quelle che mi hanno ritirate?

—Quest'altro, adesso! Vorrebbe la gallina e poi anche l'ovo. Vorrebbe farmi nascere la rivoluzione. Una sigaretta… guai se si sentisse il fumo…. Tutti gli altri vorrebbero fumare. Si starebbe freschi. Mancherebbe che ci fosse anche il permesso della sigaretta per far diventare il reclusorio uno spaccio di tabacchi.

Il direttore era stato in tutte le camerate a fare una specie di predicozzo sui doveri del condannato e a incoraggiare i reclusi a sperare nella grazia sovrana. Lo ascoltavano in silenzio, in piedi, tra una branda e l'altra, e lo lasciavano voltar fuori con dei viva l'amnistia! che forse lo facevano sorridere.

A noi non disse che qualche parola insignificante e non parlò, con deferenza, che col Chiesi, il quale sembrava nelle sue grazie. Io lo vedo ancora passarci in rivista col cappello calcato in testa, col bavero del paltò alzato e con le mani in tasca. Col suo sguardo truce e la sua voce da terrorizzatore, non mi invogliava a vederlo, tra noi, per un pezzo.

Noi poi, escluso sempre il Chiesi, non avevamo ragione di essergli riconoscenti. A Federici aveva negato parecchie cose che lo avevano fatto imbestialire più di una volta. A Lazzari aveva fatto sequestrare tutti i suoi disegni dopo che erano stati finiti. Tra gli altri eravi un don Davide vestito da galeotto e alcune guardie alla nostra cancellata, che avrebbero potuto illustrare qualche pagina del mio libro. A me non lasciò mai scrivere una lettera senza farmela copiare e ricopiare per delle inezie o delle parole contrarie al suo gusto letterario. A don Davide ne fece di quelle da farlo venire di sopra con gli occhi pieni di pianto.

Una volta che il direttore dell'Osservatore Cattolico si era permesso di mettere, per distrazione, le dita sulla scrivania del direttore, il signor Reoboamo Codebò gli disse in tono grave:

—2557, tenete giù le mani!

Un'altra volta…. Ma non ricordo più bene il perchè. So che gli si doveva comunicare qualche risposta ministeriale a una sua domanda e che la comunicazione gli era stata fatta in un modo brutale o da fargli capire ch'egli non era più che un numero di matricola.

Eravamo nel periodo della fame, quando stavamo in piedi con la pagnotta e la minestra. Noi eravamo già tutti intorno la panca che ci serviva da tavola. Ritornò di sopra con la faccia che pareva un temporale.

—Che cosa vi è accaduto?

Stette in forse se mangiare o buttar via la gamella.

—Mi è accaduto…. Mi è accaduto che mi si è detto chiaro e tondo che io non devo considerarmi ormai più che il 2557 e io ho dato fuori. Sissignori, ho dato fuori! Dunque, dissi al direttore, mi considerano e intendono trattarmi come un vero delinquente? Sia! La prego però di darmi la carta per scrivere al ministro Pelloux che mi faccia fucilare! Laggiù non si conosce che cosa sia la dignità umana e io gliela farò imparare!!

Noi ci guardammo tutti in faccia come spaventati. Non lo avevamo mai veduto con gli occhi stralunati e le guance convulsionate dallo sdegno.

—Calmatevi, don Davide.

—Anche il direttore dopo avere veduto che mi aveva indignato mi ha detto di calmarmi. Non si è più padroni di sè quando ci si dicono certe cose!

—Mangiate la minestra che è quasi fredda, e passate sopra alle parole che vi possono dire in un luogo come questo.

—Siete o non siete il 2557?—gli diss'io ridendo e facendolo ridere.

—Lo sono.

E si mise a manducare.

La novità del giorno di Natale è stata che abbiamo potuto, per la prima volta, mangiare sulla tovaglia candida, avere il tovagliolo candidissimo e servirci dei cucchiai, delle forchette e dei cucchiaini di metallo. Era della roba che ci aiutava a rientrare nella società che stavamo per dimenticare. Mancavano a completare la tavola imbandita i coltelli—arnesi pericolosi per della gente in galera.

L'allegria era assente. Si iniziò il pranzo con un bicchiere di vino bianco di botte e con del presciutto tagliato di fresco. Assaggiammo una minestra stata cotta sul fornello della trattoria esterna e attaccammo, con qualche appetito, un tacchino di Filighera e dei polli stati allevati in Liguria, che mandavamo giù tra una forchettata e l'altra di insalata giovine. Giungemmo al sabaglione dopo avere vuotate parecchie bottiglie valtellinesi, senza dire una parola che valesse la pena di essere ricordata sul palinsesto della mia memoria.

Il pensiero dei miei compagni era probabilmente intorno il collo dei loro cari. Chiesi pensava alla sua mamma, Federici alla sua signora e alla sua bimba che spasimava di vedere, don Davide alla sua Teresa, la sorella che lo idolatra e Suzzani a sua madre che nominava sovente.

Potevamo star su fino alle dieci.

Alle otto eravamo tutti a letto.

Chiesi russava maialescamente da dieci minuti.

__Gustavo Chiesi.__

Gustavo Chiesi è uscito dalle pagine di Mazzini. Tutto ciò che è regio non entra nei suoi ideali. Tutto ciò che è frivolo non partecipa della sua esistenza. Le sue alte aspirazioni sono per una Repubblica di repubblicani ammodernati dalla vita pubblica.

In un periodo di specialisti, egli è rimasto l'uomo di una coltura straordinaria. Volgendosi verso la montagna della sua produzione, si può credere che egli abbia dato fondo all'universo. Si è occupato, con competenza, di tutto lo scibile umano. Di storia, di scienza, di letteratura, di invenzioni, di geografia, d'arte, di navigazione, di esplorazioni, di musica, di coreografia, di questioni agrarie, di strategia militare, di industria, di drammatica, di legislazione. Egli ha biografato mezzo mondo. Da Dante a Cimarosa, da Leonardo da Vinci a Cavour, a Cantù, a Crispi. Non c'è uomo illustre nella storia e nel rinascimento patrio che non sia entrato nella sua collezione illustrata.

Self-mademan del giornalismo italiano, egli si è scelto un motto inglese adatto alla sua pertinacia di lavoratore: time is money—il tempo è danaro. Con una testa costantemente in eruzione e convinto che «la volontà è l'anima dell'ingegno e la vittoria del progresso», egli resiste al tavolo fino ai crampi nella mano. Passa indifferentemente da un soggetto all'altro, senza bisogno di sosta. Smette l'articolo politico e riprende la continuazione dell'appendice, consegna al proto la pagina critica e si riversa sull'Italia irredenta—una pubblicazione che deve «tener vivo nelle masse il sentimento della loro nazionalità, il retaggio sacro della lingua, la speranza di una rivendicazione avvenire».

È difficile trascinarlo in una conversazione che gli faccia perdere il tempo e il danaro, ma una volta ch'egli si decida per il riposo, vi trovate con un causeur nel vero senso della parola, con un uomo il quale sembra non abbia fatto altro nella vita che occuparsi di salotti aristocratici o di aneddoti politici o di musica wagneriana. Verso sera, quando si aspettava la luce elettrica o si flanellava, gli abitatori della quinta camerata lo ascoltavano tra una meraviglia e l'altra.

Pareva Villemesant o Rochefort che stesse dettando le sue memorie. Si andava dall'Africa—ove era stato due volte come corrispondente del Secolo—al palcoscenico di una prima donna che ha fatto storia—nel dietroscena di Caprera quando donna Francesca rimase col generale—alla redazione di un giornale che si ricorda ancora—a un periodo tumultuoso che egli sapeva rimettere in piedi tale e quale, colla data, cogli incidenti, cogli attori principali, sceneggiando il disastro o il trionfo coi colori di una tavolozza arciricca. Un semplice paesucolo sconosciuto diventava nella sua bocca di un interesse sommo. Ce lo circondava delle industrie e degli uomini della regione e ci diceva l'avvenimento che lo aveva reso celebre.

Pur pensando a Cavallotti quasi balbuziente, dubito che il Chiesi abbia qualità oratorie. Gli mancano i mezzi vocali e l'inconsapevolezza di Castelar che sa stare sulla piattaforma con la tranquillità di uno scrittore a tavolino.

Il processo del tribunale di guerra è riuscito a propalare assai più il suo carattere, la sua produzione letteraria, la sua attività giornalistica.

Prima, quantunque avesse scritto una ventina di romanzi, descritta l'Italia da un capo all'altro, il suo nome non era nelle moltitudini come oggi. Giornalista che aveva nutrito una legione di giornali, gli mancava la simpatia nazionale che gli ha data una condanna la quale ha fatto fremere anche coloro che sono agli antipodi de' suoi ideali politici.

In Gustavo Chiesi è l'imperturbabilità grandiosa di Danton che dice al carnefice di mostrare la sua testa al popolo. È rimasto sul banco degli accusati di un tribunale militare come uno stoico. Se ha aperto bocca, non è stato per proteggere la sua prosa giornalistica, ma per salvare i suoi cooperatori e adempiere al dovere di direttore.

—Io non ho da dire che due brevi cose.

«Prima, ringrazio i miei difensori per la grande dottrina colla quale mi hanno difeso. (Era stato difeso dai tenenti Giglio e Corselli). Secondo, dichiaro sulla mia parola d'onore che il Cermenati si recò a Pavia e a Piacenza soltanto in qualità di redattore del giornale, e per nessun'altra ragione.»

E quando Bacci, il sostituto avvocato generale in missione, escluse dal numero dei colpevoli Ulisse Cermenati e Arnaldo Seneci, amministratore dell'Italia del popolo, sulla faccia del direttore si diffuse la consolazione. Egli respirava più liberamente. La reclusione degli amici gli sarebbe pesata sul cuore come un martirio.

In galera nessuno lo ha mai sentito lamentarsi. Egli lavorava dalla mattina alla sera e non sostava che per pensare alla vecchia madre che lo piangeva disperatamente.

Pochi idolatrano la famiglia dei genitori e contribuiscono al suo benessere come Gustavo Chiesi.

Egli è stato eletto deputato mentre era nel reclusorio di Finalborgo e Forlì continuerà ad eleggerlo per un pezzo, perchè Gustavo Chiesi non è di coloro che si abbandonano subito dopo che la giustizia delle masse ha stravinto la giustizia delle classi.

Conosciuto, lo si ama per la sua intelligenza, per la sua bontà e per la saldezza dei suoi principii.

In questi tempi di uomini di carta pesta, un uomo di bronzo, come Gustavo Chiesi, diventa, in un ambiente legislativo come il nostro, un tesoro nazionale. Tiene in piedi anche i legislatori di pasta frolla.

È dotto, è una biblioteca ambulante ed è una penna incorruttibile che perseguita i corrotti.

__A Finalborgo studio degli altri galeotti.__

Ci fu un galeotto che ci disilluse tutti. Era il cuoco del bettolino—un buon diavolo cogli occhioni pieni di lampeggiamenti e con le ganasce lardose. Aveva per noi della vera affezione. Coi pochi centesimi che potevamo spendere, si struggeva per farci mangiare meno scelleratamente che poteva. Sopratutto era pulito. Ci portava alla mattina una minestra per venticinque centesimi, la quale, in galera, potevamo dire buona e delle porzioni di gnocchi di patate che mandavano in visibilio Romussi.

—Neanche la mia cuoca saprebbe cucinarli così bene!

Gustavo Chiesi, che si interessava assai poco della vita del reclusorio e che giurava, di tanto in tanto, che non avrebbe mai scritto una riga sulla sua prigionia, aveva della tenerezza per il cuoco. Ci diceva che, se andava fuori, voleva fare qualche cosa per lui, perchè lo meritava. Sapevamo che era un fratricida, ma avevamo la sua parola d'onore ch'egli era innocente. Secondo lui, non fu che il caso che lo fece trovare nella stanza ove un altro suo fratello scannava il terzo. In galera poi non si può pretendere di trovare delle mani immacolate.

Una mattina che avevamo più fame del solito, lo aspettavamo andando in su e in giù per la camerata e gettando occhiate per il corridoio attraverso la spia.

—Ma questo cuoco?

Giunse in vece sua un recluso dei fatti di maggio. Che aveva? Era egli ammalato? Nessuno ne sapeva niente e nessuno ci voleva dire niente. Alle nostre interrogazioni, si rispondeva con smorfie che suscitavano una curiosità maggiore. Che cosa gli era capitato? Il direttore lo aveva condannato a quindici giorni di cella di rigore e di camicia di forza. Che cosa aveva fatto? Quando lo sapemmo, lo buttammo tutti idealmente dalla finestra, come si fa con una persona della quale non si voglia più ricordarsi. Egli si era appaiato con uno della sua specie.

Dopo quest'uomo triviale che ci ha trascinati nei bassifondi della malavita, è una consolazione ritornare alla superficie dove sono esseri di una morale un po' più sostenuta.

Il 598 era il modello di tutti quanti ho conosciuti. Egli gode la fiducia del direttore e non ne abusa. È fedele, è rispettoso, è astemio e lavora dalla mattina alla sera come un martire. Va da un corridoio all'altro senz'essere accompagnato dalla guardia. È il solo che esca tutti i giorni dallo stabilimento—accompagnato, si intende, dall'agente di custodia—a portare la corrispondenza alla direzione dei reclusori ed è il solo che vada fino a Finalmarina a prendere i medicinali.

Un giorno, mentre il buon Pascotto stava spolverando la lampada della nostra camerata, gli domandai perchè non scappava.

—Voi non avete più che dodici anni da fare. Ma pensate che la vita è breve, accidempoli! Nei vostri panni io non esiterei un minuto. Mi servirei della casacca per insaccarvi la testa del mio guardiano e obbligarlo a sciupare del tempo a distrigarsela e poi direi: gambe mie, aiutatemi! Continuerei a fuggire senza mai voltarmi indietro.

Non smise neanche di strofinare la lampada. Per lui erano tutte sciocchezze. Lui non era uomo da lasciarsi scaldare la testa. Prima di tutto aveva la sua pena da espiare e non intendeva sottrarvisi se non gli si faceva la grazia. Aveva violata la legge e la legge doveva essere rispettata. Ai suoi tempi era stato un bulo e anche un grassatore di strada. Ma adesso aveva fatto giudizio ed era, per lui, un piacere mantenersi sulla via retta. La fuga poi, per un povero cristo, era una ridicolaggine. Come si poteva scappare colla catena o cogli abiti del galeotto?—E quando siete al largo e cercato dappertutto dagli agenti di polizia, dove andate a nascondervi? La vita del fuggiasco è più grama di quella del recluso. Credetelo. E come troverete da mangiare in giro, senza amicizie e senza denari? Rubando. E io non farò mai più il ladro.

Egli mi rispondea da uomo emendato, e il mio pensiero incanagliva e trepidava, preparandosi una fuga clamorosa e spettacolosa. Lui mi parlava di ridicolaggine e di catena, e io sentivo il mare che si frangeva fracassosamente sulla spiaggia di Finalmarina. Lui si vedeva inseguito dai cagnotti sguinzagliati dalla giustizia che non dà tregua, e io mi gettavo sul mare supino e, a forza di gambe, raggiungevo la nave straniera che mi accoglieva a bordo a braccia aperte. Il 598 si vedeva impacciato, perseguitato e morto di fame. Io mi sentivo libero, sulla piattaforma inglese o americana, circondato da migliaia di persone che mi salutavano con dei battimani fragorosi e mi riempivano le tasche di dollari o di sterline udendomi raccontare le avventure della mia fuga e il periodo della fame de' miei amici della quinta camerata!

Il 77 era il lavandaio. Era alto come un palo telegrafico, secco come il merluzzo e giallognolo come la pelle di un giapponese. Con il suo collo esile, sormontato da una testa poco voluminosa, con le sue braccia lunghe appese alle spalle come cose floscie giù rasente il corpo, con la sua faccia piena di rientrature, pareva uno scheletro ambulante.

Gli occhi, nascosti nelle occhiaie profonde sotto le tettoie ossute e pelose, sembravano focolari di delinquenza. Erano in essi i guizzi del delitto che facevano passare per la schiena l'aria fredda.

Tutte le volte che lo guardavo, mi obbligava a liberarmi dai fremiti che mi suscitava con degli scotimenti di spalle. La sua bocca a culo di gallina e il suo mento che tirava da sinistra a destra, mi riassumevano il tipo del luogo.

Aveva la mano denutrita e le dita lunghe del fantasma. Si movevano come tentacoli. Prendevano la biancheria sporca con un movimento meccanico. Sul cuore del 77 era il listone nero del suo trasporto, e sulla sua testa gibbosa era il berretto giallo a spicchio che lo incadaveriva.

Come tutti i sanguinarii, era di modi carezzosi. Parlava con dolcezza e non si lamentava mai della sua sorte. Una volta che gli domandai se pensava di rientrare nella vita sociale, mi offerse una presa di tabacco con una spallata di sprezzo. Pareva volesse dire: Società ingrata, non avrai le mie ossa! I suoi compagni mi dicevano che era religiosissimo. Non mangiava mai senza farsi il segno della croce e non andava mai sulla branda senza prima essersi inginocchiato a ringraziare il Signore Iddio di averlo mantenuto buono anche in quella giornata.

Tra tutti i condannati della quinta camerata preferiva don Davide. Il sacerdote nel camiciotto del recluso gli faceva sanguinare l'anima. Non gli pareva giusto che un uomo di «talento», come diceva lui, fosse in prigione per avere del «talento».

Don Davide si soffiava il naso sovente a Finalborgo. Aveva preso un raffreddore che gli era divenuto cronico. E il lavandaio, di nascosto, gli lavava un fazzoletto al giorno e glielo portava pulito e piegato come una cosa proibita dal regolamento.

L'udito del 77 era molto difettoso.

C'era un recluso che aveva già scontato otto anni e che anche nel saio della casa di pena non aveva perduto la caratteristica del mestiere che esercitava prima di essersi intriso le mani nel sangue dei suoi simili. Lo si vedeva e si pensava al palcoscenico. Egli non poteva essere che un calcascene. Il suo viso era una ditta teatrale. Una di quelle facce grassottelle di venticinque anni, con la carne biancastra della gente che va a letto quando la notte sfittisce, con l'ombreggiatura per la mezza faccia della barba fitta e nera che ha subito il contrappelo e con gli occhioni dalle pupille fulgide nella vivezza lattiginosa che inondano l'assieme di una bontà infinita.

La sua vita di «scrivanello»—una vita che lo lascia libero tutto il giorno e gran parte della notte—non gli ha fatto dimenticare che gli mancano quattro anni, anni che egli chiamava quattro secoli anche quando gli si diceva che la sua liberazione non poteva essere lontana.

Le lettere che riceveva dalla famiglia gli rinverdivano le speranze ogni tre mesi, ma, tra l'una e l'altra del trimestre, aveva dei momenti neri di ipocondria. Gli pareva che più nessuno pensasse a lui. Prima che venisse l'indulto me ne fece leggere una la quale gli dava l'idea che finalmente il sovrano si era commosso del suo stato. Egli era convinto che S. M. stava per firmare la sua grazia. Ma il giorno che mi vide partire senza novità per lui, ricadde nella disperazione.

—«Non mi dimentichi!» mi disse. E dicendolo si asciugava gli occhi, volgendosi dall'altra parte. «Se posso ritornare a casa, le assicuro che non mi vedranno più in questi luoghi. L'ho scontata troppo cara per dimenticare la vita del recluso. Poi ho la mamma e la sorella che mi vogliono un bene dell'anima. Lei ha letto l'ultima loro lettera e può dire se hanno del cuore.»

Di mattina, era addetto al medico. Registrava la medicina da mandarsi a prendere. Dopo, andava per le camerate a raccogliere le ordinazioni mangerecce, e nel pomeriggio, fino magari dopo la mezzanotte, rimaneva con un galeotto perpetuo a preparare gli specchietti del movimento amministrativo quotidiano.

Il suo numero di matricola era il 2107.

Prima dell'attore veniva da noi, col libro della spesa e il calamaio attaccato per un lembo di pelle al bottone della giacca, uno scrivanello che aveva ammazzato un carabiniere il quale lo aveva sorpreso a svaligiare una carbona (casa) fuori di porta Magenta. L'omicidio gli aveva dato modo di rimanere fuori dalle unghie della giustizia per parecchi mesi. Ma la gatta, anche dopo una paura maledetta, va al lardo fin che vi lascia lo zampino. E un bel giorno lo agguantarono con degli altri ladri o degli altri grassatori e lo mandarono in galera con una sentenza di vent'anni.

Era recidivo, qualche colpo gli era andato bene e sapeva adattarsi all'ambiente in un modo meraviglioso. Quando la direzione non lo imbestialiva coi conti che gli aveva affidato, non si accorgeva di essere in un reclusorio. Lasciava l'ufficio verso mezzanotte e dalla spia della nostra camerata lo rivedevamo al lavoro prima delle quattro.

Qualche volta, se la guardia che lo accompagnava non gli era vicino, gli dicevo che faceva male a lavorare tante ore in un periodo in cui gli operai che mangiano meglio si agitavano per un orario quotidiano di otto. Vi ammalerete e andrete al cimitero senza rivedere Milano.

Mi rispose che stava meglio in ufficio che in infermeria, ove poteva coricarsi e alzarsi presto senza svegliare alcuno. L'infermeria è uno stanzone lunghissimo con delle finestre libere dai cassoni e con due filate di letti quasi sempre vôti.

—Come, vi lamentate di dormire sulla materassa?

—Non mi lamento, ma lei non sa….

—Datemi del voi, gli dissi celiando. Sapete bene che il regolamento proibisce ai detenuti di servirsi di un pronome che non sia di seconda persona plurale.

—Giusto, voi non sapete che in letto—anche sulla materassa—sto male. È l'unica cosa alla quale non sono mai riuscito ad abituarmi. Il galeotto è incatenato alla branda. Ora, mettetevi nella mia posizione, e vedrete che darete la preferenza al pisolino sulla scranna dello scrivanello. La lunghezza della catena non mi permette che di mettere il piede in terra dalla parte dell'anello e di rimanere, se non voglio scorticarmi, in una posizione supina. Il letto, per me, è una tortura.

Fu lui che ci iniziò ai pasti dei peperoni, dei pomidori, dell'insalata di cipolle e di patate coll'aglio e di fagiolini tirati fuori dalla pasta del convento, quando la minestra era coi fagioli.

Egli è piuttosto piccolo, con la pelle sulla faccia scura e butterata, con gli occhi un po' loschi e con le estremità del taglio della bocca non esattamente equidistanti. È tutt'assieme una figura rapace.

Lo abbiamo perduto per avere alzato il gomito. Poco abituato a bere, un giorno era riuscito ad ubbriacarsi. Lo trovai nel letto della infermeria incatenato alla branda, con la cuffia di cotone bianco sulla fronte, che stava aspettando la sbriacatura.

—Che cosa fate? gli domandai.

—Non ho potuto alzarmi alla solita ora per un po' di vino brusco.
Accidenti al vino brusco!

All'indomani, o qualche giorno dopo, il direttore lo mandò nell'altro reclusorio a mia insaputa e io non ho potuto restituirgli lo Stecchetti che mi aveva imprestato per passare il tempo.

Lo scrivanello lo sapeva quasi tutto a memoria.

__Fra i passatempi dei condannati.__

Fra i passatempi dei condannati giornalisti nel Reclusorio v'era pur quello di mettere in versi i fatti che destavano qualche impressione. Come saggio pubblico le seguenti strofe di don Albertario. La notte dal 26 al 27 novembre una libecciata terribile devastò la sponda ligure e recò gravi danni in mare e in terra. A Finalborgo furono schiantati alberi, trasportati dal vento comignoli e tetti; il camino della caldaia a vapore del Reclusorio di Finalborgo venne spezzato a metà, cadde sull'infermeria del carcere, sprofondò il tetto e, per prodigio, non schiacciò nei loro lettini gli ammalati. Al mattino si celebrò il fatto doloroso, con le strofe di don Albertario:

      O cielo di Liguria, o ciel furioso,
    E quando, dimmi, la farai finita
    A ridonarmi il sol, la nostra vita,
    Che tieni dentro al guardaroba ascoso?

      Qui, dal tepido mar, dall'alpi algenti,
    Scendon sul lido alla battaglia atroci
    Scirocco e Tramontana, e a lor veloci
    Schieransi intorno i bellici tormenti.

      Dense le negre nubi e gonfie d'ire
    In groppa ai venti stendonsi pel campo;
    Il tuono scoppia inseguitor del lampo,
    De' mostruosi guerrier folle è l'ardire.

      Dalle cime native il ghiaccio chiede
    Borea e lo muta in grandine funesta;
    Libeccio intanto del Tifone appresta
    L'arma a Scirocco che terribil riede.

      «Pel Simun, rugge, per le arene e il fuoco
    «Del genitor deserto, il giuro al cielo,
    «In fra le nevi porterò lo sgelo
    «E di Borea il mugghiar farassi fioco.

      «Siccome nebbie spersi carovane,
    «Come fuscelli sprofondai navigli,
    «Ho atterrato i leon quasi conigli; … ,
    «Rido del soffio delle Tramontane.»

      Sì dice—e fiero e furibondo attacca
    Con Libeccio e Tifon, colle saette
    Sferza Aquilon dalle scoscese vette
    I suoi guerrieri e lo Scirocco fiacca.

      Le navi trottolâr nell'oceáno,
    E in un baleno l'inghiottisce il gorgo;
    Crollano torri e case; a Finalborgo
    Del fornello il camin vien raso al piano.

      O cielo di Liguria, o mar Tirreno,
    E quando l'aure e l'onde tue saranno
    Serene e quete ed avrà fine il danno
    Orrendo inflitto al dolce lido ameno?

    Non fia sicuro sullo stelo il fiore,
    E allo stranier che ti sospira ed ama.
    Colle tempeste appagherai la brama
    Di qui svernar sul suolo dell'amore?

    Torvo risponde il Ciel: «Allor letizia
    «Del suo sorriso abbellirà la terra,
    «Quando fien salvi i prigionier di guerra,
    «E a splender torni il sol della giustizia.

    «Ma fin che a Finalborgo, tra le pene,
    «Giaceranno innocenti, il mar col flutto,
    «Col vento il Ciel, semineran tal lutto
    «Che in pianto scioglierà fin le catene.»

__Costantino Lazzari.__

Tra l'ottanta e l'ottantatrè i pionieri del movimento marxista continuavano a battere il chiodo che, se si voleva organizzare i mestieri, bisognava costituire un partito puramente operaio, il quale, a suo tempo, avrebbe potuto trasformarsi in partito socialista italiano. Parecchi operai, che studiavano e frequentavano i circoli di studi sociali, si misero a concionare in questo senso, e subito dopo la morte di Carlo Marx la loro organizzazione si potè dire iniziata.

Ormai, si disse, l'operaio farà da sè. Chiunque si occupava di questioni sociali e non aveva i calli del lavoratore alle mani, veniva considerato una specie d'intruso. Lo si vedeva negli angoli dei meetings come un rognoso.

Coi pregiudizi che pullulavano nella testa operaia e con la stampa che blatterava di progresso e dava eternamente ragione agli intascatori di lavoro non pagato, senza un giornale che stimolasse, che aiutasse, che confortasse, che difendesse e che rivelasse la vita che si svolgeva negli stabilimenti padronali, gli operai non avrebbero potuto tener duro.

Un giornale era necessario. Senza di esso sarebbero stati calunniati, schiacciati. Non si domandarono neanche chi di loro sapeva scrivere o chi di loro sapeva mettere assieme un foglio qualunque. L'esperienza li avrebbe fatti andare sulle pedate degli altri. Il loro partito era nuovo e nuovi dovevano essere gli scrittori. Non si trattava di scrivere in ghingheri. Si trattava semplicemente di dire chiaro e tondo che cosa volevano, dove tendevano, a che cosa aspiravano. Non altro. E il Fascio Operaio—voce dei figli del lavoro—il 29 luglio 1883 era già nelle mani del pubblico. Lo scopo della pubblicazione era condensato in queste parole di Malon stampate a destra, in corpo otto, sotto il titolo del giornale: «Se non pensano a far da loro gli operai italiani non saranno mai emancipati.»

Nel primo articolo intitolato «chi siamo e che cosa vogliamo», dicevano apertamente che erano «operai nel più stretto senso della parola, cioè, operai manovali».

«Siamo i figli di quella immensa moltitudine a cui la vita non è concessa che a patto di una perenne produzione—di quella classe che lavora e soffre, senza adeguati compensi—che vede il frutto delle proprie fatiche aumentare le ricchezze dei capitalisti.»

L'attività dei redattori del Fascio Operaio era infaticabile. Restando al lavoro, tenevano conferenze ogni sera, organizzavano la lega di resistenza ogni volta si trovavano coi compagni, e scrivevano articoli ogni settimana. In due mesi la «voce dei figli del lavoro» seppe preparare e inaugurare un Congresso operaio a cui il Fascio mandava il suo saluto «perchè i congressisti erano puramente dei lavoratori che si ispiravano alla loro coscienza di lavoratori». «Siate uomini nuovi, diceva loro. Due siano le vostre stelle polari. L'eguaglianza di tutti gli uomini in faccia alla giustizia e l'indipendenza della personalità umana.»

Il Fascio Operaio discuteva i problemi operai, polemizzava coi giornali che si occupavano dei redattori e dei loro articoli, decomponeva, a poco a poco, il Consolato operaio nelle mani dei romussiani, e attaccava, con qualche violenza, la democrazia al dorso del Secolo, chiamandola «vile». Cavallotti, che fino dai tempi del Gazzettino Rosa aveva imitato don Margotti, tenendo nella sua casa il casellario degli uomini pubblici—casellario che se venisse pubblicato adesso sorprenderebbe molti e susciterebbe polemiche infinite—si era occupato anche dei redattori del Fascio e specialmente di Costantino Lazzari, il quale, oltre essere il redattore capo del Fascio, era l'anima del partito operaio.

Per capire l'importanza dell'accusa contro Costantino Lazzari, bisogna ricordarsi che nell'86 Cavallotti aveva già assunto il carattere di leader parlamentare ed aveva già iniziato il sistema di inseguire e snidare i corrotti dovunque li trovava o li sapeva.

Nel salone dei Giardini Pubblici, ove aveva finito di parlare Cavallotti sulle elezioni generali, non appena il redattore capo del Fascio si permise di domandare la parola, si sentirono voci spaventevoli.

—Fuori le spie! fuori le spie!

Chi erano le spie? I redattori del Fascio. Ma l'indiziato era
Costantino Lazzari. Tanto è vero che nel questionario, che invitava
Cavallotti a dare «risposte categoriche in nome della verità e della
giustizia», c'era questa interrogazione:

—È giusto paragonare il compagno Lazzari ad un agente di polizia?

Cavallotti non volle mai smentire l'accusa e non volle mai dire pubblicamente su quale documento era basata. Ma tutti gli amici dell'autore di Anticaglie sapevano e sanno che l'accusa era basata su una ricevuta di cinquecento lire, firmata da Costantino Lazzari, nelle mani di Nicotera, ministro dell'interno. Chiunque di noi l'avesse veduta senza cercare altro, non avrebbe potuto venire ad altra conclusione. Cioè che Costantino Lazzari non aveva schifo dei fondi segreti. Ma la cosa non è così. E ne parlo appunto per distruggere una calunnia che perseguita Lazzari da parecchi anni. Non lo si può dire prudente, questo no. Prendere del danaro per un partito senza domandare da che parte venga, con la scusa che il denaro non ha «odore», è un po' arrischiato. Ma in verità Costantino Lazzari entrò come un sorcio nella trappola. Non sapeva del tranello. Gli si esibirono cinquecento lire per il partito in un momento elettorale, le prese, e le consegnò intatte al partito senza curarsi d'altro. Un fatto consimile è avvenuto tra i socialisti di Londra. I tories diedero parecchie centinaia di sterline a un leader socialista per moltiplicare le candidature socialiste tra il candidato tory e il candidato liberale. Il giuoco era che col terzo candidato i liberali avrebbero perduto i voti che venivano dati ai socialisti e quindi qua e là dei collegi. Si gridò al tory money, come qui si gridò alla spia. Ma il leader inglese e il leader italiano poterono salvarsi mostrando, come Walpole, le mani pulite.

Dopo questo fatto il Fascio Operaio—del quale parlo perchè è come parlare di Costantino Lazzari—e il partito operaio subirono le violenze prefettizie e passarono attraverso un uragano indemoniato. Il Comitato Centrale del partito operaio italiano venne sciolto, il Fascio Operaio sospeso e la redazione intiera messa sotto chiave al Cellulare per ottanta giorni. I condannati furono cinque, tra i quali Costantino Lazzari, a tre mesi di carcere e a trecento lire di multa.

E il Fascio Operaio risorse, dicendo che «il socialismo è un gigante che nessuna forza può vincere».

In Costantino Lazzari è rimasta l'avversione del Fascio Operaio per gli «intrusi». Un socialista dottore o avvocato o scrittore o ingegnere o architetto gli fa torcere il viso dall'altra parte. Ha per tutti costoro un'antipatia invincibile. Li chiama i socialisti dal panciotto bianco o i socialisti dal gilé de gess.

Si dice che la gratitudine non sia il suo forte. Ma è indubitato ch'egli, giovanissimo, si è dato la briga di soccorrere la sua famiglia povera, e di mantenere alle scuole di Milano una sua sorella e un suo fratello.

Ha rinunciato alla carriera commerciale per dedicarsi completamente al socialismo. Ma le vicissitudini dell'esistenza tribolata gli hanno fatto riprendere la via di prima. Egli è ora commesso viaggiatore. È stato in prigione più di una volta. Ma i giorni di Finalborgo gli sono ancora sullo stomaco. Perchè il Lazzari si considera il povero Fornaretto del processo dei giornalisti. Egli era nell'Umbria ed è andato in galera per i tumulti di Milano!

Ha un'istruzione tumultuaria, è un conferenziere improvvisatore, ha una tendenza sentita verso la misantropia, ed è disgustato degli uomini e della vita.

Se dovessi riassumere Lazzari, direi, con Tommaso Grossi, ch'egli è un «orso mal leccato».

__Si muore di fame.__

Per ricordarmi di queste giornate negre, ammucchiavo le mie impressioni sui margini, sui frontispizi e sotto e sopra gli indici dei libri. Mi servivo di un moncone di lapis che tenevo nascosto tra il dorso e la legatura di un volume, il quale rimaneva con me giorno e notte. I libri che giovano di più al prigioniero sono quelli che offrono più spazio.

Quelli che hanno cinque o sei pagine bianche prima di arrivare alla prefazione, che incominciano e finiscono i capitoli con dei vuoti preziosi, che sono stampati in modo da lasciarvi una linea tra una riga e l'altra e che terminano in fondo col lusso della entratura. A me, per esempio, sono stati di grande giovamento la grammatica tedesca del dottor Friedmann e le Ascensioni Umane del Fogazzaro. Mi hanno permesso di scrivere un volume su ciascun volume. Se dovessi ritornare in prigione e qualcuno volesse regalarmi qualche libro, non dimentichi di dare un'occhiata agli spazi.

Copio, o meglio completo i periodi coi riempitivi che lasciavo fuori per economia.

«Il periodo della fame venne inaugurato stamane, sei settembre. Se lo avessi saputo prima, ieri sera mi sarei imbottito con un pranzo luculliano. Non si è mai contenti. Era una giornata che ci aspettavamo di minuto in minuto, ed ora che è giunta troviamo che è giunta troppo presto. Io poi, che non ho tanti denari da spendere, non dovrei tormentarmi con queste seccature di gola. Tanto più che mi rincresce di stare a tavola cogli amici, che non sono capaci di mangiare in santa pace il loro pranzo, senza costringermi, con la massima gentilezza, ad assaggiare un po' di questa o di quella pietanza. Adesso siamo pari. La nostra mensa è diventata la mensa degli uguali.

«Che cani! Ci hanno portato via penne, calamai e lapis. Sono venuti a prendere i libri per registrarli. Ho domandato il permesso di scrivere una lettera per comunicare agli amici l'avvenimento, ma mi si è detto che il regolamento non mi autorizza a scriverne che una al mese. Chiesi, che è alla reclusione, non può scriverne che una ogni tre. A proposito, egli è alla reclusione, e rimane con noi. Dunque non c'è differenza che nelle spese e nelle lettere. Lui può spendere venticinque centesimi e noi, alla detenzione, trentacinque.

«Non riuscirete mai, signori aguzzini, a farmi capire l'utilità sociale di impedirci di scrivere per tenerci qui a guardarci l'un l'altro. Seguitiamo a chiacchierare sulla dieta. Nessuno ha paura. Se non sono morti quelli con la catena che la subiscono da anni senza migliorarla col sopravitto, vuol dire che non si muore.

«Le latrine sono indecenze primitive. Mi sono messo con la faccia alla ferriata della prima finestra e sono stato lì per recere. Sotto, nel cortile, è un mastellone nascosto da un murello a curva, che lascia venir su una puzza velenosa. È il mastellone dei condannati addetti ai lavori domestici. Il direttore di questa casa di pena deve avere l'olfatto molto ottuso. In tutto il penitenziario non c'è una latrina. Ciascuno fa i suoi bisogni come in un bosco. Peggio che in un bosco. Perchè qui non potete alzarvi e andarvene via. Qui vi si lascia il mastellone che riceve il materiale di tutta la camerata tutto il giorno e tutta la notte. Non lo vuotano che alla mattina e nel pomeriggio. Noi, per fortuna, non siamo che in sette. Immaginatevi il fetore costante di una camerata di settanta o ottanta individui! C'è però un guaio anche nella nostra. In alto alla parete sono due finestrucole che comunicano con una camerata piena di reclusi. Di notte e di giorno riceviamo la loro atmosfera appestata e siamo condannati a sentirli trullare come maiali!

«Non è la prima volta che mangio la pagnotta, ma era un pezzo che non la sbocconcellavo. Me la hanno portata e mi sono ricordato degli ultimi tozzi di pane bianco che ho dato al recluso che ci porta il barile dell'acqua. Come sarebbero buoni, adesso! In un reclusorio non mi aspetto il pane di fantasia. Ma certamente mi aspetterei un pane migliore di questo. I cavalli ne mangiano del più buono. Le nostre sono pagnotte di mollica ammassicciata. Non è la mollica pastosa, duttile, allungabile, come quella del pane dei signori. È una mollica friabile, di un colore brunastro e di un sapore sciapito.

«Ho sempre sentito dire che la crosta solida è un indizio della bontà del pane; Dev'essere abbondante, fitta, resistente, cotta bene. Questa è molle, sottile, che si stacca senza fatica, che ritiene la ditata non appena la premete leggermente. Ha un colore tra il rosso-bruno e il giallo-dorato.

«Fanno sul serio. È cessata anche la pulizia domestica. Prima ci facevano scopare la camerata e lavare la gamella dai galeotti. Adesso ci si è detto che la cuccagna è finita. Benissimo. Non marciremo neanche per questo. Il male è che con la minestra condita d'olio la latta rimane unta. Senza acqua calda ci ungiamo come guatteri e ce le laviamo male. Ciascuno di noi si è scelta la giornata di pulizia. Lunedì Lazzari, martedì Federici, mercoledì Valera, giovedì Chiesi, venerdì Ghiglione, sabato don Davide, domenica Suzzani. È un movimento igienico. Si puliscono e si mettono a posto i tavoli e si scopa due volte il giorno. I più volonterosi e i più abili sono indubbiamente Lazzari e Federici. Entrambi scopano adagio, passano l'arnese sotto le brande, si fermano a far uscire i crostini dalle commessure tra mattone e mattone e tra pietra e pietra e si tirano a dietro il materiale fino in fondo, senza lasciare per la via polvere e briciole. Scopa bene anche don Davide, ma non con la diligenza degli altri due. Se al sabato si dimentica del suo turno, il Chiesi, gli grida subito alle spalle:

«—Non più privilegi e non più privilegiati!

«Il Ghiglione, campagnolo, scopa male, lo fa di mala voglia e pulisce i tavoli come un uomo che si senta umiliato.

«La direzione di qualunque casa penale vende ogni mese la Rivista di discipline carcerarie, diretta dal Beltrani-Scalia, direttore delle carceri (ora, come si sa, ha preso il suo posto il Canevelli). Lo scopo della rivista è pio. È di assistere con delle sottoscrizioni i figliuoli derelitti dei condannati. Una cosa la quale vi suggerisce che la società punisce più i figli che i genitori. Perchè mette sotto chiave i secondi e lascia sulla strada i primi.

«Le ultime pagine sono occupate dal movimento dei liberati dagli stabilimenti penali durante il mese. In agosto hanno lasciato uscire 54 uomini e 6 donne per grazia sovrana, 299 uomini e 12 donne per indulto e 31 maschi e 2 femmine condizionalmente.

«La tabella dei liberati condizionalmente prova che l'Italia è più crudele d'ogni altra nazione. L'Inghilterra, punto tenera pei suoi delinquenti, dà loro modo, colla buona condotta e col lavoro persistente, di guadagnarsi tre mesi su ogni anno. Conquistandosi il numero fisso di marchette, il condannato, poniamo, a sei anni, è sicuro di non rimanere in carcere che quattro anni e mezzo. Il nostro sistema non assicura nulla al condannato e premia la condotta incensurata con una lesineria che fa piangere. Deduce, su per giù, da un anno a un anno e mezzo per ogni dieci anni di galera!

«Ne scelgo uno. N. A., di Napoli, contadino, condannato a dodici anni, è uscito a 37 anni, dopo avere scontato una pena di undici anni ed un mese!

«Nella stessa tabella si nota che la donna subisce gli stessi rigori. A. L., di Palermo, entrata nella casa di pena a 38 anni, con una condanna di vent'anni per omicidio, è uscita dopo una pena di diciotto di lavori forzati. Che tigri!

«Aggiungo che la liberazione dei condannati non dovrebbe mai essere lasciata all'arbitrio del direttore—il quale è, novantanove volte su cento, parziale e crudele.

«Non so se dipende dalla dieta. Ma con una dieta scellerata e insufficiente ho perduto persino la voglia di leggere. In un mese non sono riuscito a rileggere il primo volume dei dieci anni di Louis Blanc. Sbadiglio spesso, e spesso, dopo una specie di torsione alla regione epigastrica, mi istupidisco in un sopore che mi spaventa. I miei amici di camerata mi dicono che mangio troppo poco e che butto via troppo sovente la minestra. Non so che farci. È una minestra che mi ripugna e che non so ingoiare nè asciutta nè col brodo. Ci sono dei cani liberi che la lascerebbero nella scodella. Ho notato una certa sonnolenza anche negli altri. Più di una volta ho veduto Federici fermarsi sulla pagina, coi gomiti sul tavolo e la faccia nelle palme. Alle undici antimeridiane d'ieri ho sorpreso don Davide che dormigliava sul breviario. Anche Lazzari subisce la stessa legge di prostrazione. Rimane assopito per delle ore. Forse è perchè egli legge troppo di notte. In Chiesi ho notato che la sua respirazione notturna è diventata più rantolosa.

«Ci hanno portato di sopra delle lettere piene di cancellature. A noi che abbiamo il limone per diseppellire le parole dai neracci del direttore, importa poco. Ma mi piacerebbe che qualcuno, mi rivelasse l'utilità di queste soppressioni di parole. Una volta che siamo condannati, che cosa deve importare a voi che qualcuno ci faccia sapere un breve minuto della vita del mondo dal quale siamo stati espulsi con tanta violenza? È una cretineria da mettersi con le altre che si commettono in questi luoghi.

«Il mio amico Mario Borsa, corrispondente londinese del Secolo, mi manda una rivista mensile per tenermi al corrente dei grandi fatti europei. Una rivista estera non può impensierire alcuno. Qui impensierisce. Il direttore mi ha fatto chiamare in direzione per dirmi che non poteva darmela perchè ci sono in essa articoli che si occupano di cose che non devo sapere! Suppongo per un minuto che vi sia qualche narrazione sui fatti di maggio. Nossignore, me la nega perchè vi è un articolo sulla guerra tra gli Stati Uniti e la Spagna! Sono o non sono un giornalista? Una società che corregge e non abbia per compito di mandarmi fuori imbecille, dovrebbe procurarmi, anche a proprie spese, le riviste ed i giornali che mi dovrebbero tenere al corrente di tutto ciò che avviene. Non vi pare? Anche al Chiesi hanno trattenuto delle riviste francesi per le stesse ragioni. Asini!

«Piove. Quando piove, il condannato perde il diritto all'aria e al moto delle gambe. Senza uscire dalla gabbia si diventa di umore nero. È una meraviglia che uno non s'avventi sull'altro. Ci si tiene nella camerata sino a quando il cielo si rasserena. E in questa regione, quando incomincia a diluviare, è capace di tirare innanzi senza interruzione per una settimana. Nella camerata al dorso della nostra sembrano diventati tanti leticoni indiavolati. Di tanto in tanto qualcuno si sfoga gridando: aria! In uno stabilimento di tanta gente ci dovrebbe essere anche il passeggio coperto. Ma non ci si pensa. Perchè il bestiame in galera può crepare senza inumidire l'occhio sociale.

«La visita del medico che abbiamo avuta ieri l'altro mi ha fatto un effetto strano. Mi parve un uomo incaricato di venire a vedere se avevamo ancora delle giornate da vivere. Sì, o signori aguzzini, siamo languidi più di ieri, ma non siamo ancora moribondi. Anche col vitto insufficiente possiamo vivere degli anni.

«La nota di ieri è stata un po' baldanzosa. Si indebolisce lentamente e lentamente mi pare che si perda la memoria. Stamane, parlando degli affamati americani al polo Nord, non ho saputo rammentarmi il nome del generale che venne trovato inconscio vicino al cadavere di un nero che gli era stato fedelissimo. E non me lo ricordo neppure adesso. Questo fatto mi mette addosso del freddo. Credo che a grado a grado ci avviamo verso l'abolizione della intelligenza. Usciremo delle pagine bianche. Non sapremo più neppure di essere stati in prigione!

«Siamo calati tutti di peso. Il pancione di don Davide è rientrato di molto. Forse sarà l'effetto della rasatura dei baffi, ma il naso di ciascuno di noi mi riproduce il naso dell'allampanato. Anche il Federici è dimagrito. Parla poco e fa dei pisolini ripetuti con pochi intervalli. A Chiesi si sono formate le scodellette sotto gli occhi. Il naso di Ghiglione pare il becco adunco dell'aquila. La faccia di Suzzani è accesa e si è spiritualizzata. Egli mi ha detto che si sente di tanto in tanto dei dolori dietro l'orecchio destro. Noto tutto senza spiegare nulla. Lazzari ha avuto degli stringimenti pilorici. Dorme poco, e durante il sonno parla con delle interiezioni di dolore.

«A me non passa più nulla. Federici mi ha dato un cucchiaio della sua magnesia effervescente. Per una concessione speciale egli può tenersene un vaso e farselo riempire quando è vuoto. Se ne prende una cucchiaiata ogni mattina in due dita d'acqua. Mi ha fatto bene. Ho potuto trangugiare la gamella di pasta senza gli impeti di repulsione. Sento che mi ritornano le forze. Leggo e più rapidamente. Ieri ero proprio in uno stato compassionevole. Ho dovuto domandare il permesso di adagiarmi sulla branda. Mi sentivo vicino al deliquio. Sdraiato, ebbi degli assopimenti leggeri. Mi pareva di essere in decomposizione. Rimasi più di tre ore col dorso completamente abbandonato allo stramazzo. Non sentivo più che il languore delle braccia ed un certo calore insolito alle tempia.

«Il grido che si muore di fame è nell'aria.—Tutte le camerate ci fanno chiedere dei bocconi di pane. Noi, che soffriamo un po' tutti di inedia, mandiamo gli avanzi delle nostre pagnotte ai 35 minorenni della camerata quasi in faccia alla nostra. Tra loro sono pochissimi quelli che possono spendere per il sopravitto. Devono essere tutti poveri o figli di poveri. Don Davide, che ha tra loro il suo chierico, va a dir messa spesso collo schianto del cuore. Gli rincresce di non avere sempre un boccone di pane da dargli. Quel ragazzo patisce la fame sotto la sorveglianza governativa! Se fossi direttore dello stabilimento butterei via lo stipendio. Non saprei mangiare coi piedi sotto la tavola senza pensare al battaglione di affamati sotto la mia custodia. Il grido dei minorenni mi sospenderebbe il boccone in gola.

«Stanotte sono stato svegliato da un grido acuto di qualcuno che stava male nella camerata al dorso della nostra. Non ci ha lasciato più dormire. Aveva il rantolo bronchiale ed emetteva gemiti che si ripetevano anche dopo che la guardia gli vociava dalla spia:

—«Fate silenzio, che domani andrete dal medico!

«Un compagno deve averlo soccorso con una goccia d'acqua. Ho sentito i suoi piedi nudi che correvano da una parte all'altra.

«Come deve essere triste morire in questo luogo!

«La luce misurata dai cassoni alle finestre finisce per indebolirci la vista. A me si è dilatata la pupilla e Lazzari si lamenta di non avere un paio d'occhiali. L'indebolimento gli ha come paralizzato i nervi ottici.

«Alla domenica c'è sempre speranza di rifarsi lo stomaco con una gamella di brodo e 250 grammi di carne. È sovente una grande disillusione. Più di una volta si è obbligati a sbattere via tutto. Il brodo è grasso con gli occhi dell'olio alla superficie che fanno venir voglia di vomitare, o è magro come l'acqua bollente. Manca sempre di sale. Quello di stamane vale un fico secco. La carne è peggiore. La carne di questa domenica è squamosa, sciapita, dura come il corame. L'ho voltata e rivoltata sotto i denti senza riuscire a masticarla. Pazienza, aspetterò quella di domenica ventura. Siamo sotto l'azione del regime forcaiolo da qualche mese e non abbiamo veduto neppur l'ombra della commissione. Questi signori, che assumono una carica così importante e poi la trascurano, meriterebbero un po' di reclusione. La loro assenza dovrebbe essere considerata un delitto. Ah, se fossi io il loro giudice! Farei mozzar loro le orecchie come ai tempi della buona Elisabetta.

«Il pane di stamane è esecrabile. Sente dell'acido del lievito che ha tentato di farlo levare prestamente. Mi par di sentire il gesso sotto i denti. La mollica umida ha qua e là dei punti biancastri che rivelano la qualità infame della farina. Ghiglione ci consola dicendoci che prima, quando lo facevano i galeotti nello stabilimento, era più buono. Adesso, coll'appalto, è malcotto, pesante, indigeribile. L'indigestione di un pane come questo produce a tutti noi effetti straordinari. Sembra che ci fermenti nel ventre. Un'ora dopo ci sentiamo tutti gravidi. Lo si fa con una farina di quarta o quinta qualità e con poco o nessun glutine. Preferisco ancora la pagnotta che i signori danno ai cavalli.

«Anche i galeotti che lo mangiano da tanti anni se ne lamentano e farebbero un «fuori! fuori!» se non avessero paura di un rincrudimento di rigore. Sarei contento che una volta o l'altra mi si processasse per diffamazione. Io non domanderei che la testimonianza dei sei compagni della quinta camerata e il permesso di citare una cinquantina di galeotti e un centinaio di reclusi. Proverei come due e due fa quattro che la qualità del pane è infimissima e che alla reclusione si imbecillisce dalla fame. Sarebbe uno dei processi più emozionanti di questo secolo.

«Ho trovato modo di eliminare la pasta dal mio cibo quotidiano. Non sapevo mandarne giù che qualche cucchiaiata e con ripugnanza. Un galeotto mi ha raccontato ch'egli vive da anni con l'insalata di patate e cipolle. Mi sono messo sulle sue pedate una settimana e non mi trovo malcontento. Qualche volta mi sento sazio. Le patate potrebbero però esser più buone. Ne butto via una su tre. Si vede che sono il rifiuto delle corbe. Quasi tutti ci siamo dati all'insalata di patate e cipolle. L'olio è troppo cattivo e peserebbe troppo sui miei trentacinque centesimi. La condisco col sale e coll'aceto. Più di una volta vi aggiungiamo i fagiuoli che troviamo nella minestra di pasta. Sono fagiuoli bianchi. Compero pure qualche spicchio d'aglio. Ho dovuto eliminare definitivamente anche il pane. Non potevo più ingoiarlo. Abbiamo protestato sovente e qualcuno di noi se ne lamentò col direttore e col sottocapo. Ma all'indomani ritorna peggio di prima. C'è stato un giorno che non lo si volle in nessuna camerata. Molti rifiutanti vennero castigati con della cella di rigore. In prigione non si sa come fare. Se si protesta si è puniti e se non si richiama con questa misura l'attenzione dell'autorità carcerarie, si mangia come bestie.

«Tutto il mio essere sta in piedi con trentacinque centesimi al giorno. Ecco come li ho spesi stamane. Ho comperato cinque centesimi di sapone, dieci di pane bianco, cinque di patate, tre di cipolle, due d'aglio, tre di sale, cinque di fichi secchi e due di carta per la pulizia. La carta per i bisogni corporali e il sapone non dovrebbero essere a spese del condannato. Come? volete educarmi, e mi impedite di tenermi pulito e di lavarmi come si lavano tutti i cristiani! I fichi secchi ho dovuto gettarli nelle immondizie che raccogliamo nell'angolo. Li aprivo, e uscivano i bachi. Don Davide, mi fece dimenticare i fichi con un motto latino. Sursum corda. Sit gressus ad superiora; melius est ascendere. In alto i cuori. Volgiamo i passi alle regioni superiori; è miglior cosa salire.

«Siamo fortunati che non c'è specchio. Ci spaventeremmo. Sento che la pelle della faccia mi stiracchia da tutte le parti.

«Ho dovuto comperarmi due centesimi di refe per trasportarmi il bottone dei calzoni. Senza bretelle, li perdo. Sono diventato magro, magro. Ho i miei dubbi che si esca tutti. Ho sempre avuto schifo dei sorci. Ma se ce ne fosse uno abbrustolito lo mangerei con l'appetito dei parigini durante l'assedio della loro capitale. È strano che non ci siano topi in questo vecchio edificio. Noi non ne abbiamo mai veduto uno. Ci sono parecchi gatti. Ma rimangono tutti nel cortile e sono sotto la protezione di una guardia alta, addetta alle celle di rigore. Un gatticidio potrebbe costarmi parecchi mesi di cella di rigore e di camicia di forza.

«La ciarla si è ammorzata. Non parliamo più tanto. Una lettera suscitava, settimane sono, una discussione che durava delle ore. Adesso la si legge e la si lega con le altre. Sembriamo tanti nevrastenici. La nostra conversazione è diventata monosillabica. Ci guardiamo difficilmente in faccia.

«Ho comunicato a Federici i miei timori. Ho paura di uscire idiota. Ci sono dei momenti in cui sono obbligato a mettermi la mano sulla testa per paura che mi scappi il pensiero. Egli mi disse che è dovuto alla mia cocciutaggine di non voler mangiare abbastanza. In carcere bisogna essere alliatrofago. Inghiottire ogni cosa, anche se ributtante. Con trentacinque centesimi non si può vivere. E con trentacinque centesimi mi compero il limone, il sapone, il refe, gli aghi e i bottoni che perdo. I bottoni sembrano stati attaccati con gli sputi. Son sempre in terra. Questa mane al passeggio mi sono lustrato le scarpe. Il sottocapo mi disse che erano indecenti. Erano ormai divenute rosse.

«Ha ragione Federici. E poi tutti i giorni insalata! Son tre giorni che mi brucia lo stomaco e non la mangio più con lo stesso piacere. Mi danno 100 grammi di bue in umido per quattordici centesimi. Ma è necessario uno stomaco foderato di rame per trangugiarlo. A me ha provocato la nausea.

«Ho notato che Federici verso gli ultimi del mese diventa più cupo. Pare che incominci a pensare al suo colloquio. Non sono che lui e don Davide che hanno la consolazione di vedere qualcuno che non sia di questa casa maledetta. Dopo il colloquio con la sua signora, Federici risale gaio, amico di tutti, coi saluti per tutti.

«Come mi farebbe bene una goccia di cognac! Mi tirerebbe su lo stomaco e mi ridarebbe le forze perdute. Il mio corpo deve avere una calorificazione incompleta. Stanotte mi sentivo freddo. O piuttosto mi pareva di avere in me un umidore freddo che mi andava dalla radice dei capelli alle unghie dei piedi. Provavo la sensazione di un organismo che sta raffreddandosi. Sommerso nell'ombra e nel silenzio m'intenerivo. Mi sentivo le lagrime in gola e non piangevo. Che cosa pagherei a essere un fisiologo consumato! Potrei uscire con un diario completo sulle sensazioni della fame. A me pare che ne risentano tutti gli organi. Sono spossato dappertutto. Il cervello pare vuoto, la testa è indolenzita e pesa due volte, le braccia sentono il bisogno di rimanere adagiate, i polpacci delle gambe paiono carichi di piombo e i piedi mi danno l'idea che stiano per slogarsi. E tuttavia, dopo i primi giorni, non ho mai provato le insurrezioni di una fame canina. Mastico senza piacere come un automa.

«I miei movimenti sono diventati lenti e faccio fatica a tener aperti gli occhi. Sono determinato a rifarmi con la pagnotta, ma la mia determinazione non val nulla dinanzi all'atonia dell'apparecchio digestivo. La forza digestiva è come interrotta. Ieri sera stavo facendo il letto e ho dovuto sedere sul materasso due volte. Mi sembravo vicino al deliquio. Federici è stato buono anche questa volta. Mi ha dato un cucchiaio di magnesia effervescente. L'ho bevuta col piacere che da lo champagne. Ho respirato più liberamente.

«Ghiglione è andato dal medico. Non ci ha detto nulla. È egli ammalato? Non è ammalato?

«Vi sono andato anch'io, ma solo per domandargli il permesso di un bagno. Io mi immergo sempre con piacere nell'acqua. Non capisco come le persone possano tirare innanzi degli anni senza mai buttarsi addosso un secchio d'acqua. Pulitevi, se volete star sani!

«Nessuno dorme profondamente. L'insonnia è generale. Qualcuno parla o straparla. Stanotte ho dovuto confessare alla guardia scelta di ronda che stavo proprio male. È andato in infermeria e mi ha portato una polverina di bismuto e magnesia. È un'infermeria che non ha nulla. Tutti gli ammalati sono curati con delle polverine di calomelano, di bismuto e magnesia e di bicarbonato di soda. C'è qualche pennellata di tintura di iodio per i reumatismi e i dolori acutissimi e basta. Il cavadenti è un condannato. È un vero miracolo che egli non abbia mai smascellato qualcuno. Il suo sistema è questo: mette la testa del paziente sulle ginocchia, gli guarda in bocca, si fa puntare col dito il dente cariato, l'agguanta con la tenaglia e tira. Spesso, nello sforzo, si levano in piedi operatore e paziente e l'uno segue l'altro fino alla parete. A una di queste operazioni era presente don Davide.

«Siamo salvi o per lo meno siamo salvi per un po' di giorni. La signora di Federici è riuscita a far passare del cioccolatte. Deve avere sgelato il cuore della direzione. Federici ha incominciato subito col distribuirne due pezzi a ciascuno di noi. Mi sentii immediatamente ristorato. E non ne ho mangiato che uno. Il secondo sono stato capace di tenerlo in tasca fino alle sei di sera. Poi ho cominciato a scartocciarlo con l'intenzione di non rosicchiarne che un angolo e non ho smesso che a tavoletta finita. Ingordo!

«Ho passato una buona notte e alla mattina mi sono messo a leggere di gusto. Credendo che fosse permesso a tutti di mangiare del cioccolatte, ho scritto subito a casa di mandarmene due chilogrammi. Son stato chiamato dal capo, il quale era incaricato dal direttore di farmi sapere che il cioccolatte non è nel regolamento. Al Federici venne dato perchè era giunto come pacco postale e a sua insaputa. Se giungesse anche a me, a mia insaputa, si potrebbe fare lo stesso.

«Ci sono state annunciate delle cassette, di biscotti. Sarebbero stati provvidenziali. Li abbiamo aspettati per due giorni. La direzione ci ha fatto comunicare che potevamo rimandarli a chi ce li aveva spediti o regalarli all'ospedale di Finalborgo. Non potendo mangiarli noi, abbiamo votato per gli ammalati.

«Federici, ci tiene in piedi col suo cioccolatte. Non appena ci si porta la pagnotta, egli va da tutti con una tavoletta e li costringe ad accettarla. Una tavoletta di cioccolatte in galera, nella nostra condizione, val un tesoro. Pochi se ne disfarebbero con tanta sollecitudine. Bisogna avere del cuore per compiere sagrifici come questi.

«Novità. Ci deve essere qualcuno che lavora per noi. Il periodo della fame che produce le allucinazioni è finito. È venuto un ordine che ci permette di spendere settantacinque centesimi al giorno. Abbiamo subito domandato il permesso di farci fare, a nostre spese, una minestra collettiva da venticinque centesimi ciascuno. Ci è stata concessa.

«Incominciamo a smutriarci. Facciamo delle spanciate di baccalà fritto per venti centesimi. Beviamo quasi tutti un quarto di vino per nove centesimi. È brusco, accidenti se è brusco! Io e Lazzari siamo ritornati al pane bianco. Anche Chiesi e Suzzani si son dati al pane bianco. Don Davide e Federici resistono e continuano col pane della casa. Il piatto più buono sono le uova al burro arrostite, per ventidue centesimi. Vi manca però il burro e se c'è lo vedono appena. Non poche volte sono putrefatte, ma a lamentarsi ce le cambiano. Ci si dà una tazza di caffè per dieci centesimi. È una tazza di un boccalino, ma imbevibile. Io e don Davide abbiamo tenuto duro per qualche settimana, ma abbiamo dovuto rinunciare anche a questo lusso. Nella tariffa dei generi in vendita nella dispensa, è stata introdotta la polenta. Con otto centesimi ce ne danno trecento grammi. È buona. Con ventisei centesimi di salsiccia in umido e una sleppa di polenta, inaffiata dal quinto di vino, non si crepa. Mi duole che la concessione della spesa sia stata accordata alla sola nostra camerata. E le altre, non sono piene di reclusi stati condannati dagli stessi tribunali militari per un identico delitto?

«Sette dicembre. Non si muore più di fame. Il Governo ci ha inviato il commendatore Berardi a comunicarci personalmente che da oggi possiamo mangiare e spendere quello che vogliamo noi. Egli è già stato a comunicare la stessa notizia al Romussi e al De Andreis nel reclusorio di Alessandria e a Turati in quello di Pallanza.

«Ecco che cosa mi ha detto:

—Io sono un ispettore inviato dal Ministero. So che lei adesso non può spendere che settantacinque centesimi e che questo aumento non le è stato concesso che pochi giorni sono. Da oggi io posso comunicarle ch'ella può spendere per il suo vitto cinque o anche dieci lire al giorno, se lo desidera. Non c'è limite. Se non le piace la cucina del reclusorio può servirsi dell'osteria o dell'albergo di fuori. Desidera qualcosa altro?

«Uno dopo l'altro gli domandammo due arie, cioè tre ore di passeggio. Perchè un'ora sola, lesinata anche quella, non ci dava esercizio sufficiente per conservarci sani:

—Concesso, rispose a ciascuno di noi. Desidera qualche cos'altro?

—Se si potesse fumare qualche sigaretta.

—Lo domanderò al direttore. Se fossero completamente separati dagli altri, non esiterei a dire di sì senza interrogarlo. Lei sa che cosa voglia dire il vizio di fumare. Gli altri che sentissero il fumo impazzirebbero e farebbero un chiasso indemoniato e non avrebbero torto. D'altro?

—Lei sa che noi siamo tutti bevitori di caffè. Se ci permettesse di comperarci la macchinetta, il caffè, lo zuccaro, lo spirito e di farcelo quando vogliamo noi, in camerata?

—Concesso. D'altro?

—Scusi, se abuso.

—Faccia, perchè io sono venuto qui per contentarli.

—Grazie. Senta, ci sono libri che il signor direttore non ci consegna perchè si ostina a considerarli immorali o pornografici. Lei sa che noi siamo abituati a leggere tutto.

—Concessi. D'altro?

«Mi curvai. Egli mi strinse la mano. Così va fatto.»

………………………………………..

«Sono uscito con l'indulto. L'indulto è una remissione di pena, è un perdono. Chi ve lo ha domandato? E se non ve l'ho domandato perchè non mi date il permesso di rifiutarlo? Non so che farmene del vostro perdono.

«Sono uscito arciconvinto che nei reclusori italiani si istupidisce la gente con la fame.

«Un anno di reclusione, con seicento grammi di pane in due razioni e due mezze gamelle di pasta in brodo al giorno, basta per ritornare alla società secchi come chiodi e col cervello completamente rammollito.»

PS.—Permettetemi di aggiungere due parole alle note di Finalborgo. Sono stato perdonato, non è vero? Ma, o signori, o cosa direste se io, legge, vi mettessi sotto chiave per dei mesi e poi vi perdonassi? C'è stato un processo, lo so. Non siamo mica stati mandati alla reclusione così alla cieca. Ci si è detto che avevamo commesso un delitto. Ma anche noi, o signori, abbiamo detto e ridiciamo che ci si è mandati in galera innocenti. E se siamo stati mandati in galera innocenti, non c'è che una via alla riparazione. Rifare il processo, restituirci quello che ci si è tolto e risarcirci dei danni. Il risarcimento dei danni vogliamo, o signori, che ci avete mandati in galera e ci avete lasciati fuori come mendichi che avessero limosinato l'indulto. Non altro.

__Achille Ghiglioni.__

Sono sicuro che se Achille Ghiglioni dovesse autobiografarsi, si presenterebbe ai lettori come un uomo senza importanza. Al Castello, nella stanza lungo il ballatoio che dà sul cortile della Rocchetta egli, con grande modestia, si meravigliava di trovarsi impigliato nel processo dei giornalisti.

Con noi, nella quinta camerata di Finalborgo, è stato il modello degli uomini industriosi. Si alzava e si metteva al lavoro. In un giorno egli studiava, senza mai stancarsi, un po' di tedesco, un po' di olandese, un po' di spagnuolo, un po' di musica, un po' di manuale del capomastro, un po' di stenografia, un po' di disegno, un po' di computisteria, un po' di letteratura moderna, un po' di Porta e un po' di altre cose che non ricordo.

Egli è entrato ed è uscito un tenace cooperatore.

__Io e Federici ritorniamo a Finalborgo.__

La «catena» era composta di noi due. Il vagone cellulare era nuovo e non puzzava di biacca. Le celle erano assai più comode delle altre del primo viaggio. I carabinieri non sembravano cattivi diavoli. I ferri erano noiosi, ma non ci pigiavano i polsi come le altre volte. Chiusi nelle due celle in fondo, l'una in faccia all'altra, vicini alla finestra del vagone, non mancavamo di qualche boccata d'aria.

Ricordandomi dei due viaggi, mi dicevo contento.

—Almeno qui, non si crepa. Mi misi in bocca una sigaretta con un po' di fatica e con un po' di fatica riuscii ad accendermi Io zolfanello.

Federici attraversava la tempesta. Era tetro, non diceva nulla e non rispondeva alle mie interrogazioni, che volevano distrarlo, se non con dei monosillabi che non invitavano alla conversazione. Forse si sentiva umiliato a rifare la strada che conduceva a un reclusorio dal quale era uscito con tanto piacere, dove erano persone che non amava rivedere o persone con le quali non avrebbe scambiato una parola, gli fosse costata la lingua.

Verso Sampierdarena i lineamenti facciali di Federici assunsero una parvenza di dolcezza. L'uomo stava per convincersi che era inutile lottare contro l'invisibile. Eravamo nelle mani di sconosciuti che ci sbalestravano da una parte e dall'altra e bisognava adattarsi. Anche a me sarebbe piaciuto andare in un altro reclusorio, dove avrei potuto raccogliere del materiale nuovo, dove avrei potuto fare la vera vita del galeotto con dei galeotti autentici, dove avrei potuto studiare tipi che nella quinta camerata non avrei mai trovato. Ma pazienza, ormai mi hanno abituato a fare la volontà degli altri.

A Sampierdarena il nostro vagone venne staccato e lasciato fuori dalla tettoia. C'era un intervallo di due ore e mezza. Era un'altra punizione che avremmo scontata se i carabinieri non avessero avuto fame. Avevano appetito, volevano mangiare col sedere sulla scranna, e dare anche a noi il modo di far colazione più comodamente che ammanettati nella cella. Ci domandarono se volevamo cavarcela con qualche cosa di asciutto in cella o se preferivamo di andare alla sezione dei carabinieri con loro. Io non esitai un minuto a votare per l'uscita. L'idea di muovermi e di respirare l'aria libera mi metteva gli aghi nelle gambe.

L'indugio di un attimo mi diventava un supplizio. Mi faceva salire le fiamme alla faccia e mi dava l'impressione che soffocavo. Federici era riluttante. Lui e Romussi, nel viaggio di traduzione, avevano imparato che per le strade, di giorno, si attira l'attenzione di tutti i passanti. Vinse l'aria libera. Uscimmo e fummo contenti. La gente sostava sulle botteghe, i ragazzi ci correvano dietro, i passanti si fermavano a vederci, alcuni commentavano, ma noi passavamo senza darcene pensiero. Ormai ci avevamo fatto il callo.—Chi ci conosce ci conosce e chi non ci conosce felice notte.

Giunti alla sede dei carabinieri ci si chiuse in uno stambugio buio più di una cantina, esalante la mefite. Incominciavamo a dolerci di non essere rimasti in gabbia.

—Piuttosto che mangiare in questo luogo, preferisco la fame.

—Anch'io. Ma vedrai che non saranno tanto cani.

Stavano a farci preparare la tavola.

Facemmo colazione nella loro cucina, la quale aveva una larga apertura verso il cortile. Mangiammo due ossi buchi indimenticabili. Erano eccellenti. Bevemmo del vino eccellentissimo, e facemmo scomparire un pezzo di formaggio di gorgonzola bianco e un'alzata di uva e pesche saporitissime.

—Vogliono anche il caffè?

—Vada per il caffè!

—La Cassazione ha parlato e può darsi che questa sia l'ultima colazione dell'uomo libero.

—Non pensiamoci. Ce ne sono tanti in galera e non sono morti.

I carabinieri dicevano anche loro che la bestia non era poi così brutta come la si dipinge.

—E poi loro! ci si diceva. Usciranno più presto di quello che credono. C'è tanta agitazione per il paese.

—Sembra che non ci siamo che noi in prigione!

Il maresciallo della caserma era un uomo tarchiato, con una faccia grossa e grassa da bonaccione.

—Li condurrò alla stazione in carrozza per non farli passare traverso la folla.

—Grazie.

—Pagheranno la vettura!

—S'intende.

Alla stazione venimmo circondati da una moltitudine che aumentava di minuto in minuto.

Entrammo in un vagone di terza classe. È stata una vera sorpresa. Non eravamo mai stati così bene.

Prima che suonasse il campanello della partenza, un signore ottenne il permesso di salire sul predellino a stringere la mano a Federici.

—Faccia buon viaggio.

—Grazie.

Il signore era commosso. Federici con le mani legate non aveva potuto stringergliela come avrebbe voluto.

—Partenza!

Il maresciallo ci salutò con un gesto della mano.

Al reclusorio trovai il capo guardia in collera.

—Lei si lascia intervistare!

—Da chi?

—Lei si lascia intervistare dai giornalisti per dir male del
Reclusorio.

Mi vennero in mente parecchi giornalisti che erano venuti a trovarmi nel camerotto indecente della Corte d'Appello di via Clerici. Chi sa che cosa mi avranno fatto dire!

—Lei si lamenta!

—Certamente che io sto meglio fuori.

—Non doveva entrare se non le piaceva!

—Non ci sono venuto spontaneamente.

—E va bene, loro hanno sempre ragione!

—Mi faccia leggere questa intervista e le dirò se quello che ho detto è esatto.

—Gliela farà leggere il direttore!

__I lavoratori della quinta camerata.__

Erano dei mesi che intisichivamo dietro la speranza che un giorno o l'altro ci avrebbero restituiti il calamaio e la penna. Senza la distrazione di vuotarci la testa coll'inchiostro, non sapevamo che infelicitarci con discussioni pessimistiche o nere fino in fondo. Non vedevamo che delusione e dolore. Anche quando traluceva qualche lampo, si finiva per intetrarci o immusonirci assai più che seduti sotto le finestre di faccia a Capra Zoppa, senza una parola.

Non ci si proibiva di leggere. Ma si legge male in una camerata e in una camerata ove gli individui sono padroni di fare quello che vogliono. Tu leggi, e gli altri chiacchierano. Tu leggi, e due amici ti passano innanzi e indietro sussurrandoti il coro:

    A casa, a casa, amici,
    Ove v'aspettano,
    Le vostre spose.

Tu leggi, e un compagno zufola e rizufola per il lungo e per il largo, per delle ore, l'Inno dei lavoratori e subito dopo, un altro, te ne canticchia la prima quartina, ricominciandola con sempre crescente piacere:

    Su fratelli, su compagni.
    Su venite in fitta schiera,
    Sulla libera bandiera
    Splende il sol dell'avvenir.

Tu leggi, e due altri passeggiano, come in una caserma, o lungo un corridoio, o nel cortile, con le braccia sulla schiena, battendo i tacchi, scombussolandoti il pensiero col tremuoto dei piedi. Tu leggi, ed ecco un animale che si sveglia di soprassalto, con dei versi in bocca:

    Me non nato a percuotere
    Le dure illustri porte,
    Nudo accorrà, ma libero,
    Il regno della morte.

Tu leggi, e nasce una conversazione che ti prorompe nel cervello come una gazzarra di voci, ma che finisce per piacerti e uncinarti a prendervi parte. Tu leggi, e un prigioniero si sbottona e ricorda aneddoti contemporanei che ti fanno chiudere il libro, tanto sono interessanti. Tu leggi, e un agente del reclusorio ti chiama dabbasso, in direzione, per una cosa che ti si poteva dire con un monosillabo, o anche fra cento anni. Tu leggi, ed entrano i battitori a scomodarti e a rintronarti le orecchie. Tu leggi, e suona la campana della distribuzione della minestra e del pane. Tu leggi…. Credetelo, in una camerata perdete l'illusione di potervi sommergere in un libro per ritornare alla vita rifocillato di qualche cosa.

Col permesso di scrivere, il nostro tempo penale si accumulava e si accorciava rapidamente. Qualche volta si avrebbe voluto che la giornata di diciassette ore fosse più lunga, per avere modo di prolungare la gioia del lavoro. C'era tra noi la gara degli operai a cottimo. Ci si alzava e ciascuno andava al proprio posto. Chiesi e Federici avevano un tavolo nello spazio in fondo, a fianco della finestra. Il primo scriveva dalla mattina alla sera, senza mai smettere che all'ora dei pasti o quando aveva bisogno di stiracchiarsi le braccia, appendendosi al bastone più alto dell'inferriata. Senza i libri necessari per un'opera descrittiva, o storica, o politica, egli si era votato interamente al romanzo—un lavoro, da quello che vedevo, che non gli costava che la fatica manuale. Non è mai a secco nè di idee nè di scene. Dotato di un apparecchio digestivo che non gli annoia il cervello, e arciricco di vocaboli, egli poteva prendere la penna ad ogni minuto, digiuno o col boccone in bocca, quando pioveva a diluvio e quando il sole si riversava nella nostra camerata come un'allegria. Alla mattina riprendeva il filo del racconto senza neppure degnarsi di leggere l'ultima frase e, dopo la colazione, il passeggio e il pranzo, ricominciava come se non vi fosse stata interruzione. Il Sue si popolava il tavolo, sul quale scriveva, di pupazzi per tenere a mente i personaggi che gli nascevano a mano a mano che entrava nella intimità del romanzo. Gustavo Chiesi ha potuto completare Il Corpo di Ballo—un romanzo d'ambiente che racchiude tutta la popolazione del palcoscenico della Scala—senza sciupare più di alcuni nomi scritti sul cartone dei fogli che produceva. Il suo modo di composizione è dei più semplici. Incomincia la prima riga e tira via senza mai voltarsi indietro, cioè senza mai dare un'occhiata alle cartelle che la sua penna ha ammonticchiato. Non cancella che di rado, una volta o due alla settimana. Non potendo leggere il suo manoscritto per la sua calligrafia illeggibile, non lavora di lima che sulle bozze. Ma è difficile ch'egli si permetta di alterare una frase. Sul suo stampone non vedete ai margini che poche correzioni o dei segni che paiono lasciati giù da una mosca che lo abbia percorso con le zampe umide d'inchiostro. Perchè la frase gli esce limpida, corretta e brunita, come da una officina. In pochi mesi ha scritto tre romanzi, letto parecchi volumi e mantenuta una corrispondenza abbastanza voluminosa.

Il secondo, cioè Federici, si alzava sempre prima di ogni altro, un po' perchè amava il pediluvio quotidiano, e un po' perchè gli piaceva diguazzare del catino più lungamente degli altri. Iniziava i suoi lavori con una spanciata di verbi inglesi, che egli si trangugiava tranquillamente, tra un passo e l'altro, fatti colla leggerezza e la mollezza della gallina che non disturba. Lo si vedeva andare in su e in giù, rasente le brande, colla grammatica sotto gli occhielli scintillanti, o chiusa con l'indice tra le pagine, con la sinistra sul collo della destra o cogli occhi che vagolavano per il soffitto come quelli dell'inspirato o dell'uomo che manda versi o prosa a memoria. Dopo la distribuzione del pane, la quale avveniva verso lo ore otto, sedeva e si metteva di schiena al lavoro di traduzione, divorando un esercizio dopo l'altro, senza magari dire una parola.

E noi, fino a quando non si sapeva di che umore si era alzato, ci guardavamo bene dal buttargli l'amo della ciarla. Perchè, malgrado la gentilezza e la squisitezza d'animo, il Federici, era il compagno più difficile della camerata. Non si sapeva mai da che parte pigliarlo. Proprio nel momento in cui lo credevate il vostro migliore amico, poteva scattare per un nonnulla o vi poteva tappare la bocca con una di quelle parole solenni che arrivano alla testa come un pietrone, o vi poteva isolare per un tempo indeterminato, senza mai accorgersi della vostra presenza, anche se vi trovavate gomito a gomito o a faccia a faccia, allo stesso tavolo. Terminato il boicottaggio, risentivate l'amico che vi dava il buon giorno, che spartiva i suoi cinque centesimi di frutta con voi, che vi dava, se ne aveva, con la miglior grazia del mondo, un pezzo del suo cioccolatte eccellentissimo, o che si metteva con voi al passeggio, ingolfandovi in una conversazione piacevole e spesso istruttiva.

Il tempo che gli lasciava l'inglese lo consumava nella lettura. Leggeva romanzi, filosofia, storia e tutto ciò che di buono gli capitava tra le mani. In musica mi parve più che un orecchiante o un buongustaio. Canticchiava sovente le arie popolari o più conosciute delle opere moderne—sapeva dei pezzi di Wagner come e assai più del Chiesi che aveva propalato e difeso il maestro di musica dell'avvenire con uno studio, e correggeva le voci stonate degli altri che volevano imitarlo.

Don Davide incominciava dopo la messa. Prima della messa passeggiava impaziente. Se la guardia, che doveva accompagnarlo nella cappelletta, ch'egli aveva l'audacia di paragonare a un'oasi nei claustri del dolore, tardava un po', diventava nervoso. Anche noi, il mattino, non appena in piedi, sentivamo un bisogno immenso di uscire da uno stanzone dal quale l'afa se ne andava assai lentamente. Per il 2557 un minuto diventava un secolo. Percorreva la camerata a passi lunghi, con le mani sul dorso, sotto la giacca, con la faccia torva.

Lo si chiamava e si fingeva di credere ch'egli andasse a compiere i suoi uffici divini fuori del Reclusorio.

—Don Davide, fate il piacere di comperarmi trenta centesimi di sigarette virginia.

—Don Davide, se vedete il pollivendolo, mandateci a casa un'anitra, sgrassata, come quella della settimana scorsa.

Don Davide, non dimenticate di passare dall'oste, che siamo senza vino.

Don Davide, se trovate del pesce fresco, mandatene a casa una padellata.

Rientrava ilare e pieno di scuse. Ci diceva che il pescivendolo era alla spiaggia, che il tabaccaio era andato alla dispensa e che il pollivendolo non veniva in paese che tre volte la settimana.

Si metteva al lavoro senza indugio. Il suo tavolino era tra il finestrone e la sua branda. Si perdeva su suoi fogli di protocollo fino a colazione. Durante il lavoro taceva volentieri, ma non andava in collera se lo si interrompeva e se si faceva di tutto per fargli perdere del tempo.

Chiesi: Don Davide, come state?

Don Davide: Bene, grazie.

Chiesi: Che cosa supponete che stiano dicendo, in questo momento, De Andreis e Romussi?

Don Davide: È difficile indovinarlo.

Chiesi: Ve lo dirò io che cosa stanno pensando. Stanno pensando a una chicchera di caffè buono, magari con una goccia di grappa buonissima.

Don Davide: Piacerebbe anche a me, adesso, una tazza di caffè caldo con uno spruzzo di grappa di quella che ho a casa mia, a Filighera!

Riprendevano il lavoro e poi ricominciavano il dialogo.

Don Davide: Che opinione hai tu questa mattina sull'amnistia?

Chiesi: Conosco Pelloux. È un soldato, ma un soldato che ha sempre fatto parte della sinistra. È impossibile ch'egli si mangi il passato in un boccone. Lascerà passare la tempesta per contentare un po' i fanatici e poi, alla prima occasione, metterà nel discorso reale, per guadagnare della popolarità al re, l'amnistia.

Interveniva qualcuno di noi a dire che un soldato non poteva dar torto ai soldati.—L'amnistia che cosa vorrebbe dire? Che le sentenze militari sono state ingiuste. E questo un generale non lo può dire.

Chiesi: Tu non conosci Pelloux. Nella sua vita parlamentare ha dimostrato più di una volta di non essere quello che gli inglesi chiamano un martinet della caserma. L'esercito non può fargli dimenticare che c'è della gente che soffre ingiustamente.

Don Davide: Vedremo.

Chiesi: Non sì tratta di voi, don Davide. Voi siete qui per «fini speciali».

Don Davide intingeva la penna con un risolino, la piegava dolcemente sul pezzetto di carta che si teneva a destra, e si rimetteva a scrivere. Nessuno ha mai potuto leggere una riga dei suoi manoscritti. Ma dai discorsi si sapeva ch'egli riempiva le pagine di impressioni, di reminiscenze, di note autobiografiche, di vita giornalistica, di articoli di polemica e di sfoghi poetici.

La sua calligrafia non fa mettere gli occhiali. È nitida e arieggia l'inglesino. Non è quella dello scrittore che va via all'impazzata e lascia agli altri la briga di capirla. Se il pane terroso non gli aveva fatto peso o non gli aveva gonfiato il ventre, il pensiero gli si sgomitolava senza interruzioni. Giornalista col fondaccio letterario, gli piace, quando non è infuriato dalla rotativa, rifare il manoscritto, senza toccarlo troppo o levargli la naturalezza della prosa spontanea. Il suo stile è pastoso, la sua prosa calda, la sua penna duttile, il suo periodo limpido come un cristallo. Con qualche predilezione per la frase pariniana, rifugge dalle inversioni del poeta del Giorno, che svogliano il lettore. L'ingiustizia gli scalda il calamaio e gli fa produrre una prosa vigorosa, senza ridondanze e senza i plebeismi del Baretti. Con o senza collera egli non è mai volgare. Il suo ingegno poliedrico fa pensare a don Margotti. La tendenza sentita negli scritti di don Davide è la mestizia o piuttosto l'emozione.

Le tre mila lettere ch'egli ha scritto durante la sua prigionia—lettere che potrebbero formare, per il pubblico cattolico, un epistolario interessantissimo—ne sono un documento. Sono in esse la sua bontà infinita, lo spandimento della sua anima mal rassegnata a stare in prigione, l'affezione intensa per la gente ch'egli ama e che lo ama, il perdono incommensurato per tutti gli avversari pentiti che gli hanno tribolata l'esistenza a 52 anni, proprio quando, diceva lui, si ha bisogno di un po' di vita buona.

In prigione non ha mai avuto rimpianti. Egli è sempre stato orgoglioso del suo passato. Non ha mai avuto che parole d'amore per la sua penna che l'ha mandato «tra i ferri anzichè adattarsi a mentire e adulare», come non ha avuto che trasporti per il suo Osservatore Cattolico «divenutogli più che mai prezioso, ora che gli ha procurato il carcere, e dato occasione di soffrire per la causa che difende e dimostrare che seriamente anche in faccia alla morte, la difende e la difenderà sempre.»

Costantino Lazzari consolava i suoi ozii forzati nel silenzio, nella lettura, nel disegno. Taceva per delle ore, leggeva volumi ponderosi senza sbadigliare, rileggeva i Promessi Sposi con piacere, la Vita di Benvenuto Cellini direi quasi con entusiasmo e il Sant'Ambrogio di Romussi, superbamente illustrato, con ammirazione, e disegnava, disegnava sempre. Disegnava galeotti, secondini, reclusi, frontoni del reclusorio, compagni di camerata. Copiava danzatrici, madonne, bimbi, uomini illustri, donne celebri, quello che trovava nelle riviste e nei libri illustrati. Con la tenacia del volere è potere, dell'uomo che vuol riuscire ad ogni costo, la sua matita faceva progressi meravigliosi. Le sue figure prendevano forma, diventavano vive, assumevano la grazia dell'arte.

—Perchè non smetti di fare il commesso viaggiatore e non ti dai interamente al lapis che ti serve così bene e che ti darebbe una vita meno stentata?

Perchè era troppo tardi, perchè non aveva fantasia, perchè l'artista, per essere tale, non deve essere tormentato dai bisogni urgenti della vita, perchè altri lo precedevano di parecchie miglia.

Non so s'egli abbia continuato e se continui. So che, se all'abilità del disegno egli potesse aggiungere la sollecitudine, potrebbe diventare un giornalista che illustra i suoi e gli articoli degli altri. Egli non è l'ultimo dei ritrattisti. Ha disegnato un don Davide seduto, vestito da galeotto, il quale resterà il suo capolavoro di Finalborgo. Ci ha dato una mezza figura di Chiesi mirabile e un Suzzani intiero, con la gamella in mano, che non dimenticherò facilmente. Ma io sciupo le parole come il padre di Cellini che voleva fare del figlio un suonatore di flauto e di cornetta. Cellini lo contentava di tanto in tanto, con qualche pifferata. Ma continuava per la sua strada a cesellare. Così sarà di Costantino. Egli diventerà tutto fuorchè un artista.

Le ore della sera erano le più tranquille. Si passava come dall'inferno al paradiso. Chiesi, Federici e don Davide—il primo in mezzo e gli altri due in faccia—avevano una lampada a petrolio in comune sui loro due tavoli riuniti. Noi quattro ci servivamo della lampaduccia a luce elettrica, la cui poverezza di luce ci faceva chinare sovente gli occhi, o ci lasciava per dei minuti sotto un rossore crudele. Migliorammo la nostra condizione quando a furia di guardarla ci accorgemmo che aveva del filo attorcigliato che ci poteva servire per allungarla fin quasi al tavolo.

Tutto sommato, erano ore deliziose. Il chiasso delle camerate vicine alla nostra cessava con la campana del silenzio. Salvo qualche gola che sprigionava versi da dannato o qualche voce che dava fuori nel sonno o qualche disgraziato che manifestava i suoi tormenti fisici con degli: oh Signor! femm morì, femm!, potevamo supporci in un sepolcro. Si poteva sentire la penna di qualcuno che s'impuntava sulla carta, o il piede di cimossa di un sottocapo in giro a origliare e a guardare attraverso i pertugi, o la respirazione di un recluso al di là della parete, male adagiato. Lo starnuto di Lazzari, fatto a bella posta per ricordarci che eravamo vivi, ci faceva trasalire o sussultare come quando si sentono sulle spalle le mani degli sconosciuti che vi dichiarano in arresto in nome della legge.

Si lavorava immersi nel lavoro. Chiesi a mettere in iscena i suoi ballabili, don Davide a scrivere una epistola dopo l'altra per vivere di ricordi e riallacciare i legami col mondo che lo conosceva, Lazzari a riprodurre il momento storico dei tre lavoratori con un disegno grandioso che toccava e ritoccava ogni sera senza dirlo mai finito, Ghiglione a illustrare le parole di un dizionario tedesco con l'idea froebeliana che chi legge Himmel accanto a una chiazza di cielo e Frau dinanzi a una testa di fanciulla, impara una lingua e vapore e non la dimentica più mai.

—Come farai, gli domandavo, a illustrare ich habe kein Geld?

—In un modo semplice. Mettendo tra le parole un individuo che si fruga svogliatamente nelle tasche.

—Ma il tuo dizionario diventerà una montagna!

Federici allargava la zona dei suoi studi nella letteratura di altre lingue, in manica di camicia, senza mai smettere, senza mai aprire bocca, come se fosse stato obbligato dal regolamento carcerario a divorarsi un dato numero di pagine, e Giovanni Suzzani si sprofondava nei romanzi dell'editore Aliprandi, scoppiando talvolta in risate così plateali e così rumorose che costringevano il secondino di guardia a buttare per il buco un ordine imperioso:

—Silenzio!

In certe sere….. In certe sere nessuno lasciava cadere un libro, nessuno tossiva, nessuno si muoveva come se avessimo saputo che avevamo alle spalle gli occhi e le orecchie degli agenti incaricati della sorveglianza notturna.

Ci capitava addosso la ronda, col lanternone fumoso, come una sorpresa che metteva freddo.

—Sono le dieci!

Non ce lo facevamo dire due volte. In un minuto spostavamo i tavoli, mettevamo carta e libri al posto, lasciavamo giù le brande, facevamo il letto e ci buttavamo sul pagliericcio senza aver modo di cambiare la camicia.

Chiesi era sempre il primo a toccare le lenzuola. Adagiato, con la guancia sul guanciale, incominciava subito a ruggire come una belva con una palla nella testa. Don Davide non dormiva subito. In letto, con una coperta che non lo copriva completamente nè da una parte nè dall'altra, sembrava un enorme cetaceo a mezz'acqua. Si voltava faticosamente come un pachidermo. Federici si metteva sul fianco, con un libro in mano, in una posizione da ricevere la luce sulle pagine e continuava la lettura per un'altra mezz'ora. Poi mi diceva:

—Ciao, Paolino, dormi bene.

—Ciao.

Lazzari, sentone, con gli occhiali che gli aveva prestato l'amico Scannatopi e che gli davano l'aria di una vecchia in collera, si dava furiosamente alla lettura, leggendo cento, centocinquanta pagine di un fiato, lasciandosi magari sorprendere dalla seconda ronda col libro in mano.

Dove siamo adesso stiamo assai meglio che nella quinta camerata. Ma pochi di noi, rientrati in questa vita vertiginosa, rigodranno la pace delle serate intellettuali del reclusorio di Finalborgo.

L'uomo è un animale che rimpiange perfino la galera!

__Ulisse Cermenati.__

Non so se sia in lui il giornalismo nuovo. So che è giovine e che il giornalismo lo ha stregato. Anche dopo che la professione gli ha fatto rasentare la porta del reclusorio, non sa staccarsene. Con la penna del giornalista gli pare di essere più uomo.

Dal processo è uscito di carattere piuttosto timido. È buono come un marzapane e ricco al di là delle cento mila lire, ma gli manca l'audacia giacobina. Tutti i testi, compreso il sindaco di Lecco, ce lo profilarono con parole che andavano al cuore. Lo stesso Plutarco di S. Fedele non seppe o non volle adagiarlo nei colori foschi delle altre biografie.

Sul banco degli accusati lo consideravamo un problema professionale. Dalla sua condanna o dalla sua assoluzione si doveva sapere se un giornale potesse inviare sul teatro di una sommossa i suoi redattori, senza che la legge dei tribunali militari li considerasse dei partecipanti côlti con le armi alla mano.

—Dopo l'assoluzione, gli domandai un giorno che facevamo colazione al
Savini con un amico, che cosa ti è avvenuto?

—Nulla. Io, Seneci, Zavattari, Del Vecchio, socialista, e Invernizzi, anarchico, fummo accompagnati a San Fedele da due agenti di P. S. in borghese, in due carrozze a nostre spese. Nella prima erano Del Vecchio e Zavattari, nella seconda io e gli altri due. Alla porta della questura c'era la signora Seneci, colorata dalla morte, che aspettava il marito con la paura di perderlo un'altra volta.

L'Invernizzi e il Del Vecchio vennero rinchiusi in un camerotto per ordine del viceispettore Prina. Zavattari e Seneci vennero rilasciati dopo le solite formalità. Zavattari, quando l'ispettore Latini gli fece un'interrogazione, divenne un po' agitato. Non voleva sentire più niente. Voleva andarsene sui monti e non pensare al brutto sogno attraverso il quale era passato. Io fui sfrattato dalla provincia di Milano, entro le ventiquattro ore.

All'uscita trovai l'ing. Ongania, sindaco di Lecco, e l'avv. Ignazio Dell'Oro che mi aspettavano. Stavamo per andarcene, quando il vetturale che mi aveva condotto alla questura mi ricordò la corsa.

—Dica, e la corsa?

Non mi si avevano ancora restituiti i denari. Il mio amico sindaco tirò fuori subito il portafogli.

Vetturale: Scusi, lei è forse uno del processo dei giornalisti?

—Sissignore.

Diede una frustata al cavallo e via senza la corsa,

—Ho anch'io un cuore, diss'egli scappando.

__L'arresto dei redattori dell'«Italia del Popolo» narrato da un testimonio.__

A me pare una scena che inchiuda Bava Beccaris. Una di quelle scene che si svolgono con una rapidità straordinaria, e lasciano dovunque tracce di un momento che passa alla storia. Rifacendola per il tuo libro, il mio pensiero si commuove e si contrista come dinanzi una sventura. Gli è come rivivere l'ora tragica, in cui la stampa si lasciava strangolare senza neppure il grido della resistenza legale. Ma non perdiamoci in considerazioni. Tu non ne vuoi. Voialtri del giornalismo moderno non volete che il fatto nudo e crudo. Io crepo a digerire i fatti nella prosa arida. Ma sia fatta la volontà di quelli che sentono l'avvenire del quotidiano diverso dal mio.

La giornata era il 7 maggio 1898—una giornata piena di sole. I fatti di Ponte Seveso e di via Napo Torriani avevano fatto scrivere al direttore dell'Italia del Popolo l'ormai famoso trafiletto intitolato: «Ne erano assetati». Lo salto senza commenti, perchè tu non hai bisogno di essere sequestrato. Tu non godi i privilegi del Corriere della Sera, neppure in tempi ordinari. Il Corriere della Sera, il quale nei giorni di Bava Beccaris è stato fratricida, ha potuto, senza molestia di sorta, darlo e ridarlo, tale e quale, ai suoi lettori, in tre edizioni consecutive. Il proposito del giornale di via Soncino Merati non può essere sfuggito ad alcuno. Lo pubblicava e ripubblicava con l'intenzione assassina di infuriare la mano militare contro i redattori del giornale di S. Pietro all'Orto. Questa è storia.

Potevano essere le quattro e mezzo. Mi sentivo spossato dalla fame e dal lavoro e la testa confusa dagli avvenimenti. In redazione c'era stato l'andirivieni della commozione cittadina. Sembrava una sala d'aspetto. La gente era andata e venuta sbalordita, concitata, terrorizzata. Gli sconosciuti entravano, raccontavano con la parola spaventata dal loro spavento o esaltata dalla loro esaltazione e scomparivano, senza magari lasciarsi mai più vedere. Erano i reporters spontanei delle giornate tumultuose.

I locali dell'Italia del Popolo li conosci. Si entrava dal portone della casa di via S. Pietro all'Orto, si saliva al primo piano, si passava dallo stanzone amministrativo, si voltava a sinistra, si entrava nella sala di redazione, e si vedeva il direttore spingendo l'uscio in fondo alla parete di fronte.

Il reportage spontaneo era cessato. Nella direzione si trovavano Chiesi e Federici—in redazione Ulisse Cermenati e l'avvocato Valentini, il quale, come sai, scriveva, in quei giorni, degli articoli finanziarii. Il Seneci era dabbasso in tipografia che lasciava andare a casa gli operai, raccomandando loro di ritornare per l'edizione di notte. Di fuori, dinanzi il locale di distribuzione, la folla degli strilloni aspettava con impazienza l'ultima edizione della giornata. Ne avevano vendute delle bracciate nella mattina e nel pomeriggio, e s'impromettevano di spacciarne assai più nella sera. Il pubblico era ansioso di sapere che cosa avveniva, ma la cronaca di qualunque giornale non gli portava che fatti slegati e non gli diceva come avevano avuto principio, se erano inanellati e perchè continuavano.

La via di S. Pietro all'Orto venne occupata militarmente. Non pensavamo neanche che si trattasse di noi. Io poi, che avevo dovuto essere da una parte e dall'altra e mi ero convinto che Milano stava per diventare una rete di cordoni militari, tirai via a chiacchierare sui tumulti spaventosi senza badare a ciò che avveniva nella strada. I fatti ci assorbivano. Come si erano compiuti? Chi li aveva provocati? C'era stato scambio di fucilate? Chi sarà stato il primo a far fuoco? Annegavamo nelle supposizioni senza venire in chiaro di nulla. Il tavolo del cronista rigurgitava di note sanguinose, ma nessuna ci dava la chiave della giornata. La nostra conversazione venne interrotta da una moltitudine di piedi che sentivamo venire alla nostra volta. Erano il viceispettore Prina, il delegato Gislon, e parecchi agenti in borghese che invadevano gli uffici dell'Italia del Popolo.

Le prime parole che ci dissero furono che il giornale era sequestrato. Una notizia che ci lasciò tranquilli. Non era la prima volta che ci si capitava addosso coi sequestri. Ma il Prina non ci permise di tirare il fiato liberamente, senza aggiungere che era dolente di comunicarci «la cessazione del giornale fino a nuovo ordine». Il direttore rimase senza sorpresa. Passammo in stamperia. Assistevano alla scomposizione del giornale Chiesi, Federici, Cermenati e Seneci. Prima di risalire negli uffici il Prina diede ordine di non permettere l'uscita ad alcuno.

In redazione ci si disse:

—Ci rincresce, ma siamo incaricati di fare una perquisizione.—Nessuno di noi rispose. Tanto e tanto il nostro consenso o la nostra protesta non avrebbe contato per nulla. Si misero a perquisire. Guardavano nei cassetti del direttore e dei redattori, leggevano o scorrevano affrettatamente i manoscritti, raccoglievano le cartelle scritte o incominciate per i tavoli e frugavano e adocchiavano dappertutto. Intanto che avveniva questa operazione, Federici si era affacciato alla finestra, proprio nel momento in cui De Andreis riusciva, nella sua qualità di deputato, a passare il cordone militare. Si protese e gli disse:

—Hanno sequestrato il giornale e stanno facendo una perquisizione.
Vieni di sopra.

Due minuti dopo era anche lui in redazione. Terminata la perquisizione, il Federici chiese, come di legge, che si facesse il verbale delle cose sequestrate. Uno dei due funzionarii rispose:

—Lo faremo in questura, dove abbiamo l'incarico di accompagnarli.
Loro signori sono invitati dal questore per delle comunicazioni.

Cermenati: Allora vuol dire che siamo tutti in arresto.

Gislon: Non abbiamo quest'ordine e non credo ci sia probabilità d'arresto.

De Andreis: Come deputato protesto per la perquisizione e per la violazione di domicilio, senza mandato dell'autorità giudiziaria.

Suggellati i pacchi dei manoscritti sequestrati, il Prina invitò Chiesi, Federici, Cermenati, l'avvocato Valentini e Seneci ad andare con loro a S. Fedele.

Senici, in pantofole, domandò il permesso di mettersi le scarpe.

—Faccia.

De Andreis: Vengo anch'io.

Prina: Scusi, onorevole, ma io non ho ordini che riguardino lei.

De Andreis: Io voglio andare dove vanno i miei amici.

Prina: Se crede, s'accomodi.

Cermenati: Se non siamo in arresto, noi non vogliamo essere accompagnati dagli agenti di P. S.

Il delegato Gislon li fece allontanare.

In via Soncino Morati, dinanzi l'entrata del Corriere della Sera, incontrammo Colautti. Il Chiesi, incrociando i polsi, gli fece segno che eravamo in arresto.

—Ci siamo!

Colautti rispose, con un gesto, che non poteva essere.

In S. Paolo, Seneci entrò dal tabaccaio a bere una bibita. Era stato in tipografia e nel locale di distribuzione tutto il giorno, e aveva sete. I funzionari non lo aspettarono neanche. Ci raggiunse correndo. Questo fatto ci lasciò credere che non eravamo in arresto. Che si tratti solo di dirci che la stampa subirà la censura preventiva da qualche impiegato di questura?

In questura ci si lasciò in un'anticamera.

—Aspettino; saranno ricevuti dal questore non appena sarà libero.

Aspettammo una buona mezz'ora, facendo mille supposizioni. Annoiati di essere trattenuti tanto tempo, incominciammo a mormorare. Ma dunque? Ci prendono per dei domestici, questi signori di questura! Facciano presto, ci dicano se siamo in arresto, se siamo liberi, e che cosa vogliono da noi. Entrò un impiegato ad invitarci di andare con lui.

—Tutti, meno l'onorevole De Andreis.

De Andreis non voleva saperne di aria libera. Si mise a protestare con parole vibrate e a dichiarare ch'egli sarebbe andato dove andavano i suoi amici. E tutti noi, compreso l'on. De Andreis, passammo in un'altra stanza, dove ci si trattenne un'altra buona mezz'ora.

Aspettavamo e parlavamo sottovoce. Perchè in questa seconda anticamera eravamo tenuti d'occhio da un agente in borghese, seduto in mezzo a noi come un muto. Conversando, si almanaccava sul tempo che ci avrebbero fatto perdere. Federici manifestava la sua opinione che anche De Andreis sarebbe stato trattenuto. Qualche altro pregava quest'ultimo a prendere l'uscio intanto che era libero.

—Libero ci potrai essere più utile che non chiuso in carcere con noi.

Fu testardo e rimase.

Alle sei e mezzo circa entrò un vecchio impiegato a dirci queste parole:

—Sono spiacente di comunicar loro che, essendo stato proclamato in questo momento lo stato d'assedio, loro signori sono tutti in arresto.

Ci fu un'irruzione di guardie in borghese le quali, senza tanti complimenti, ci presero per la manica. Protestammo e dicemmo che non era il modo di trattare persone che non volevano fuggire, e i delegati ordinarono agli agenti di lasciarci andare. Discendemmo ed entrammo nell'ufficio del delegato Eula, il quale, per essere sinceri, ci trattò con la massima gentilezza. Ci sequestrò carte e matite che avevamo nelle tasche, ci lasciò denari, orologi e anelli e ci fece firmare il verbale, porgendo ad ognuno la penna.

—Già che ci deve mandare in guardina, ci potrà mandare anche da mangiare.

—Senza dubbio.

E il delegato promise che ci avrebbe fatto portare qualcosa dall'Orologio.

—Devono avere un po' di pazienza, perchè in questo momento ho molte cose da fare.

Ci si chiuse nel camerotto riservato alle donne, il quale, secondo l'espressione dell'Eula, era «il meno peggio». Avevamo fame ma non aspettammo molto. Tre quarti d'ora dopo si spalancava l'uscio ed entravano roast-beef, un fiasco di vino, del formaggio, della frutta e delle sigarette.

Mangiando si chiacchierava e si rideva.

De Andreis era di opinione che avrebbero montata qualche macchina per tenerci in prigione.

Federici fumava disperatamente una sigaretta dopo l'altra per cambiare l'odore dell'ambiente.

Chiesi si contentò di dire che avrebbe pagato il conto.

Un po' più tardi Seneci ci faceva sapere che non aveva mai dormito così bene.

—Vi raccomando di ravvolgervi la testa nel fazzoletto, se non volete che certe bestioline vi vadano nelle orecchie.

Cermenati si allungò sul tavolato con una frase tragica:

—Così giovane e già tanto galeotto!

Qualche minuto dopo, ricordandosi d'essere stato dilettante drammatico, si drizzò in piedi e si mise a declamare un po' d'Amleto:

    Potesse, oh! questa troppo salda carne
    Che mi veste, scomporsi, andar diffusa,
    Sfarsi come rugiada!

Il carceriere, lungo il corridoio, ci impose il silenzio.

—Signori, faccian silenzio!

Ci addormentammo.

Tra le dodici e mezzo e la una venimmo svegliati dal fracasso che si fece a schiudere l'uscio. Entrarono, tra la sorpresa generale, l'avvocato Carlo Romussi e il professore Emilio Girardi, accompagnati dalla guardia carceraria che portava la lanterna fumosa.

Romussi: Ho ottenuto il permesso di venirvi a trovare coll'amico Girardi. E giacchè ci siamo, vogliamo tenervi compagnia fino a domattina.

Girardi andò sul tavolato con un: dio cane!

Seneci fece loro la raccomandazione del fazzoletto. Romussi ci raccontò che gli agenti erano andati al Secolo a perquisire la redazione, a far scomporre il giornale e ad arrestare tutti i redattori che vi si trovavano. Non vi hanno trovato che il direttore ed un redattore. Negli uffici vi erano parecchie persone, come l'Antongini e il Missori. Ma nessuno di loro venne arrestato. L'episodio storico dell'arresto del direttore del Secolo fu quello della sedia.

Romussi era al suo tavolo che scriveva non so più che cosa sulle ultime notizie. Il delegato, col codazzo dei questurini in borghese, gli annunciò la perquisizione e credo anche la sospensione del giornale. Romussi disse qualche parola sulla libertà di stampa e lasciò che l'uomo di questura andasse a mettere sottosopra il suo cassetto e a rovistare le carte del tavolo unito a quello di lavoro. Per la maledetta abitudine di Romussi di accumulare i manoscritti gli uni sopra gli altri per un anno di seguito, gli sequestrarono un numero infinito di carte e di lettere, non poche delle quali dovevano essere di Cavallotti. Suggellati i pacchi e fatto il verbale di sequestro, Romussi e Girardi vennero invitati in questura. Romussi, prima d'andarsene, voleva scrivere due righe non so se alla moglie o ai colleghi. Prima di sedere buttò via la penna con la quale aveva scritto il delegato, diede un calcio alla sedia, sulla quale era stato seduto e ordinò al portiere di portarla via subito e di bruciarla.

—Portamene un'altra e dammi un'altra penna.

Alla mattina ci svegliammo con le ossa rotte. Avevamo sulla faccia il colore di una notte trambasciata. Ci eravamo coricati sul tavolazzo, vestiti come eravamo entrati, e lungo la notte il sonno ci era stato interrotto centinaia di volte. Dal fracasso degli usci che si aprivano e si chiudevano, dal trambusto, nel cortile, dei soldati che pareva arrivassero ogni quarto d'ora, dai piedi che tumultuavano sotto il portico e dalle voci che giungevano a noi come di gente ammutinata.

Verso le dieci antimeridiane il delegato Eula ci annunciò che era giunto l'ordine della traduzione al cellulare. Venimmo chiamati a due a due, e a due a due venimmo legati, polso a polso, con una catenella, da un maresciallo dei carabinieri alto e spalluto. Eravamo così appaiati: Valentini e Chiesi, Seneci e Federici, Cermenati e Romussi, De Andreis e Girardi. Uscimmo ed entrammo in una folla di circa ottanta arrestati.

Il balcone del palazzo di questura era gremito di altri monturati con alcuni borghesi. Non posso dire se vi era Bava Beccaris, perchè non lo avevo mai visto neppure sulla fotografia. C'era certamente il questore. Un uomo magrettino che ha l'aria di essere gobbo. I grandi gallonati parlavano tra loro e gli uni ci additavano agli altri col dito puntato verso noi.

Prima che il convoglio si mettesse in moto, il delegato Birondi disse a tutti:

—Non salutino alcuno e non parlino, perchè ho ordini severissimi.

Eravamo tutti a piedi, circondati dai carabinieri e dai soldati di cavalleria col revolver in pugno. Qua e là c'erano parecchi questurini.

C'incamminammo verso le undici. L'itinerario fu questo: piazza S. Fedele, piazza della Scala, Santa Margherita, via Mercanti, via Dante, foro Bonaparte, S. Gerolamo, S. Vittore, via Filangieri.

Gustavo Chiesi abita in foro Bonaparte 93. I suoi vecchi genitori erano alla finestra che si asciugavano le lagrime col fazzoletto. Nessun altro incidente.

Sai come si è ricevuti al Cellulare.

De Andreis, il quale si sentiva male per il lungo digiuno, domandò subito da mangiare. Gli altri lo imitarono. Impolverati, sudati, passati traverso un'ora piena di pericoli, avevamo una sete da cani trafelati. L'Astengo, il direttore, ci fece portare dell'acqua con del fernet dal bettoliniere.

Ci si separò in tante celle e ci si riunì in un cellone a mangiare. Mangiammo del salame, della pasta al sugo, dell'arrosto e del formaggio e bevemmo del vino comune. Eravamo serviti da due scopini e sorvegliati da due guardie carcerarie. Terminato il pasto, venimmo visitati dal cappellano, accompagnato dal direttore. Subito dopo Federici, Cermenati, Seneci, Valentini e De Andreis vennero cellularizzati in infermeria. Romussi e Chiesi vennero chiusi in celle separate al secondo raggio.

Il secondo giorno vedemmo arrivare in infermeria i deputati Turati e
Bissolati.

Il resto ti è troppo noto perchè io sciupi dell'inchiostro.

__Al Tribunale di Guerra.__

Il primo Atto d'accusa, senza commenti.

Ritenuto che dall'esame dei testimoni, dall'interrogatorio degli imputati e dai documenti esistenti in processo, risulta quanto appresso:

Già da tempo i diversi partiti sovversivi, sotto l'egida della libertà loro concessa, avevano estesa la più attiva propaganda in tutta Italia; anarchici, socialisti e repubblicani, ostentando un antagonismo apparente, si trovavano concordi nell'istillare nelle masse incoscienti l'odio verso le classi più favorite dalla fortuna, nello screditare l'esercito, le pubbliche amministrazioni, le persone rivestite di autorità, nel vituperare le istituzioni. I giornali, gli opuscoli, le riunioni, le conferenze, i comizi di tutti costoro erano concordi nell'eccitare l'odio di classe, e nel creare ovunque agitazioni rispondenti ai loro scopi criminosi.

Questa campagna quasi febbrile si accentuò nel decorso inverno; tutto era ormai pronto all'azione; si attendeva soltanto l'occasione propizia che si presentò nel disagio economico delle popolazioni, pel rincaro del pane.

Così sulla fine dell'aprile or decorso moti e tumulti cominciarono a Minervino Murge, a Bari, a Foggia, ed attraverso le Marche e la Romagna, si propagarono ben presto in diversi piccoli paesi ed in alcune città della Toscana, proseguendo poi per l'Emilia fino a Milano, dove dovevano pur troppo avere il loro pieno sviluppo e cambiarsi in aperta insurrezione.

In proposito è da notarsi che tutti i moti avvenuti nelle diverse parti d'Italia non furono fatti improvvisi, isolati, occasionati da una causa accidentale o locale, ma furono la conseguenza di una lunga preparazione diretta all'unico scopo di mutare gli ordini politico-sociali, e della quale erano specialmente creatori ed istigatori i capi repubblicani e socialisti, appartenenti ai rispettivi Comitati centrali direttivi residenti in Milano.

Basta a dimostrare ciò il solo esame del modo uniforme col quale i moti medesimi si svolsero.

Infatti, ovunque, facendo a fidanza coi nobili e generosi sentimenti dell'esercito, erano disumanamente spinti in prima fila contro la forza armata i ragazzi, poi le donne e per ultimo venivano gli uomini; ovunque i primi tumulti furono fatti sorgere nei piccoli centri, allo scopo di attrarvi distaccamenti di truppa e sguarnire le città e tentarvi poi un colpo di mano.

E prima di scendere ad indicare le specifiche responsabilità degli odierni imputati, è altresì utile premettere che Milano fatalmente era stata prescelta all'azione principale e risolutiva per molte ragioni, cioè: perchè a Milano la propaganda rivoluzionaria era stata fatta più attiva e proficua da frequenti riunioni, comizi e conferenze pubbliche e private tenute dai più influenti, intelligenti, operosi ed energici capi dei partiti rivoluzionari ivi residenti o convenuti, e col mezzo dei giornali locali, quali ad esempio La Lotta di Classe, il Popolo Sovrano, l'Italia del Popolo, il Secolo, la Critica Sociale, e per altri scopi speciali l'Osservatore Cattolico; perchè in questa città e nei suoi contorni ingente è il numero degli operai dei grandi stabilimenti industriali; perchè quivi più che altrove i rivoluzionari avevano recentemente avuto agio di contarsi e passarsi in rassegna in occasione dei funerali di Cavallotti e della commemorazione delle Cinque Giornate; perchè Milano, per la sua posizione geografica, con minore difficoltà avrebbe potuto isolarsi dal rimanente del regno onde impedirvi l'arrivo di altra truppa in rinforzo, qualora specialmente si fosse verificato lo sciopero totale e già pronto dei ferrovieri uniti in potente lega di resistenza; perche quivi più sollecito sarebbe stato il soccorso già preparato ed organizzato degli operai e fuorusciti italiani residenti in Svizzera; ed infine fors'anco perchè, in caso di insuccesso, con minore difficoltà i capi ed i maggiorenti avrebbero potuto fuggire e riparare nella vicina, e per loro ospitalissima, Svizzera, lasciando che i gregari da essi illusi, ipnotizzati e spinti al macello, scontassero il fio delle loro colpe nelle prigioni e con la rovina delle famiglie.

Vero è che nella ricca ex capitale lombarda mancava il disagio economico assunto altrove a pretesto per tumultuare ed insorgere; ma era però ovvio che altro potesse trovarsi, ed infatti fu doppiamente trovato nella disgraziata morte di un giovane figlio di notissimo deputato e nel richiamo delle classi sotto le armi.

Ed appunto per questi pretesti nella mattina del 6 maggio incominciarono dimostrazioni e disordini che divennero poi tumulti e vere rivolte con devastazioni e saccheggi nei successivi giorni 7, 8 e 9, nei quali le turbe inferocite, dalle strade, dalle barricate, dalle finestre e dai tetti, trassero contro la truppa e gli agenti della forza pubblica colpi di fuoco, sassi, tegole e fumaiuoli.

Finalmente, dopo quattro giorni di fiera lotta, la insurrezione fu vinta dalla energia delle Autorità superiori militari e dalla abnegazione e dal coraggio dell'esercito.

A questi tumulti presero parte attiva Callegari Sante, Castelnuovo
Umberto
, Cerchiai Alessandro, Gabrielli Alfiero e Gruppiola
Francesco
; nel 6 maggio si trovarono al Ponte Seveso ed in via Napo
Torrioni, e nel giorno 7 sul corso di Porta Venezia.

Costoro sono anarchici e lo confessano; e tali sono pur anco gli altri imputati Baldini Domenico, Fraschini Giuseppe ed Invernizzi Pietro. Tutti facevano attivissima propaganda delle idee del partito; sono tristi apostoli del disordine e dell'odio sociale ed hanno pessimi precedenti politici.

Taluni anche riportarono condanne, cioè il Baldini nel 1893 per eccitamento all'odio di classe e nel 1894 assegnato al domicilio coatto; il Fraschini ammonito nel 1889, condannato nel 1891 per eccitamento all'odio di classe e assegnato nel 1894 al domicilio coatto; il Gruppiola condannato nel 1897 per apologia di reato; l'Invernizzi condannato due volte per oltraggio e violenze alla forza pubblica ed altre due volte per reati di stampa.

Inoltre il Callegari, coll'istigazione del Cerchiai, nel marzo scorso, alla commemorazione delle Cinque Giornate, portò la bandiera anarchica con la scritta «viva la rivoluzione

Il detenuto Gustavo Chiesi si distingue fra i repubblicani intransigenti; è direttore dell'Italia del Popolo, sul quale giornale ogni articolo tende a scalzare il principio di autorità ed a suscitare nelle masse sentimenti di odio verso il Governo e le istituzioni. Ispirò e scrisse nel numero del 6 al 7 maggio l'articolo «Ne erano assetati» ove, narrando i fatti avvenuti nel 6 maggio al Ponte Seveso ed in via Napo Torriani, fra le altre frasi, tutte dirette a maggiormente eccitare in quei tristi momenti gli animi della popolazione, si legge: In tutta la giornata i tutori dell'ordine non avevano bevuto, avevano sete, sete di sangue, s'intende.

Fu visto nella mattina del 7 maggio con l'amico deputato De Andreis in carrozza a Porta Garibaldi fermarsi ripetutamente a discorrere con persone del popolo; più tardi si installò negli uffici del giornale da lui diretto, ricevendo dallo stesso De Andreis, che più volte si era recato alle barricate del corso porta Venezia, notizie ed episodi. In quell'ufficio furono più tardi ambedue arrestati insieme all'avvocato Bortolo Federici, al prof. Stefano Lallici, al pubblicista Ulisse Cermenati ed all'Arnaldo Seneci, che colà si trovavano riuniti in comitato quando cominciava a fervere la lotta, con la intenzione manifesta di dirigerla e dare le istruzioni occorrenti per proseguirla. Ciò risulta, oltre che dal sopraricordato articolo «Ne erano assetati» da due cartelle manoscritte preparate per una nuova edizione del giornale, nelle quali sta scritto che il deputato De Andreis, presso le barricate sul corso di porta Venezia, aveva protestato contro la violenza dell'Autorità, e si riferiscono avvenimenti esagerati svoltisi sul Corso medesimo, fra questi un episodio orribile quanto bugiardo sull'uccisione di un bambino per opera di un vicebrigadiere. Tale intenzione viene pure confermata dalla risposta data dal De Andreis presso le barricate suddette al tenente Patella, che lo scongiurava di interporsi per ottenere la calma: «Tenente, ormai è tardi, c'è sangue.» A quella riunione di repubblicani, invitato, doveva intervenire il deputato Filippo Turati con altri socialisti.

Inoltre il Federici, avvocato di molto ingegno, fervente ed efficace conferenziere, è membro attivissimo della direzione centrale del partito repubblicano italiano e collaboratore dell'Italia del Popolo. Durante le dimostrazioni tumultuarie del marzo 1896 istigò le turbe a perseverare nei tumulti sperando che il soffio di rivolta manifestatosi a Milano dilagasse preludendo all'avvento della repubblica; nello stesso anno 1896 firmò un memorandum del partito repubblicano al paese eccitando alla rivolta; e nel 20 marzo u. s. al monumento delle Cinque Giornate pronunciò un discorso riassunto dall'Italia del Popolo del 21 al 22 marzo, ove spingeva all'azione e annunciava che stavano per suonare le diane dell'ora novella e che l'ora fatale precipitava. Cercò di mettere in buono accordo socialisti e repubblicani.

Il prof. Lallici, fondatore e presidente del Circolo repubblicano irredentista adriatico orientale, fondò pure un giornale umoristico repubblicano, Il Figaro, che ebbe poca vita a causa di replicati sequestri. Nell'occasione della commemorazione delle Cinque Giornate fatta il 20 marzo u. s. si oppose acchè fossero portate le bandiere con lo scudo di Savoia, e pretese che non fosse suonata la marcia reale. Nelle dimostrazioni di piazza fu sempre immischiato; accentuò l'agitazione per il rincaro del pane; e l'opera sua contribuì ad acuire i sentimenti di ribellione negli adepti del partito repubblicano in cui milita.

Il Cermenati, pure repubblicano, fu collaboratore col Chiesi e col
Romussi nei giornali da essi diretti.

Il Seneci, amministratore dell'Italia del Popolo, fece propaganda di idee repubblicane e scrisse articoli adatti all'indole del giornale da lui amministrato.

L'altro imputato, Romussi avv. Carlo, è noto per le sue opinioni repubblicane e per la sua intimità coi capi più influenti di quel partito e con Amilcare Cipriani, col quale conferì in Milano circa la metà dell'aprile scorso; ispirò e dettò nel giornale il Secolo, di cui è direttore, continui e innumerevoli articoli di una deleteria propaganda contro le autorità e le istituzioni e propugnò sempre una politica di azione. Basta citare l'ultimo numero dall'8 al 9 maggio, ove si trovano gli articoli: A che giovano le perifrasi, ed il Richiamo alle armi della classe 1873. Ed anche nei suoi discorsi e nelle sue conferenze predicò sempre con esagerate e false affermazioni contro l'esercito e tutto ciò che è principio di autorità, non risparmiando neppure la sacra memoria del re Vittorio Emanuele.

L'ex deputato Zavattari Pietro, pure arrestato, e ascritto al partito repubblicano-rivoluzionario, prese parte attiva ai tumulti del 1896; tentò il connubio dei partiti repubblicano e socialista; coprì varie cariche nei circoli repubblicani, e il suo nome si lesse in tutti gli statuti, programmi e manifesti del partito stesso; nell'ultima agitazione per il rincaro del pane si dette a sobillare i rivoltosi, ad eccitare i perplessi, e specialmente i facchini di dogana, dei quali è console.

L'imputato Costantino Lazzari è audace socialista fra i più pericolosi e temibili. Fu uno dei primi apostoli del partito e cooperò alla costituzione di tutti i circoli e delle associazioni. Dotato di discreto ingegno, lo ha tutto rivolto all'agitazione settaria; è il vero socialista di mestiere che campa la vita sui contributi che pagano gli illusi gregari e sui magri lucri dei giornali del partito, ove iscrive con stile sempre velenoso e ribelle, onde riportò diverse condanne. Fece attiva propaganda rivoluzionaria specialmente nelle Marche e Romagna, ed il recente malumore delle popolazioni pel rincaro del prezzo del pane fu da lui sfruttato a danno dell'ordine pubblico in Ferrara, Ravenna e Camerino.

Pure pericoloso propagandista è l'arrestato Gatti Oreste, il quale cercò sempre distinguersi promuovendo riunioni e prendendo parte a tutte le manifestazioni pubbliche, nelle quali raccomandava la disobbedienza e la resistenza alle autorità.

Fanatico socialista è l'altro Achille Ghiglione, che a Niguarda, ove è domiciliato, sobillò con fervore quei terrazzani incitandoli alla resistenza e al disprezzo per le autorità e per i padroni. Ha istituito altresì in quelle campagne circoli e cooperative con base di resistenza.

L'imputato Paolo Valera è uno dei dirigenti del partito socialista anarchico, ed esercita molta influenza a causa della sua coltura e delle sue aderenze con tutti i caporioni dei partiti estremi. I suoi scritti sono sempre violenti ed informati ai più stretti principii della lotta di classe. Fu più volte condannato, e nel 1884, per sottrarsi ad una condanna, riparò a Londra, donde tornò nel 1894, dopo il termine della prescrizione. Successivamente militò nel campo di azione e negli ultimi di aprile decorso, discutendosi dai socialisti sulle manifestazioni del Primo Maggio, esso, appoggiato da un forte gruppo, propugnò il progetto di resistere alle autorità e di fare ad ogni costo un pubblico corteo. Facile quindi è a dedursi quale debba essere stato il di lui contegno negli ultimi tumulti.

Mestierante in politica risultò l'Angelo Oppizio, prima anarchico, poi repubblicano, ora socialista. Di fenomenale attività nella propaganda, ha atteso validamente alla costituzione di circoli, ad organizzare e congressi e riunioni e pubblicare opuscoli, giornali, ecc. Si ingerì negli scioperi, consigliando la resistenza. In occasione dell'agitazione per il rincaro del pane tenne concioni spiccanti per violenza ed eccitamento alla rivolta. Nel 6 maggio, appena scoppiati i tumulti in via Napo Torriani, fece testamento in vista dei pericoli ai quali si esponeva; ed infatti risulta che prese parte ai tumulti in via Galileo unitamente al Turati, e fu arrestato nel 9 maggio a Porta Monforte durante la mischia.

L'ingegnere Valsecchi Antonio, altro degli imputati, figura fra i capi più influenti del partito socialista milanese; a Borghetto, suo paese di nascita, per la insistente e larga propaganda delle malsane teorie, fu denunciato per eccitamento all'odio di classe. Dopo il 1894 fu segretario della Federazione Socialista Milanese; e riportò tre mesi di condanna di confino come dirigente di diversi circoli. Si mantenne in relazione coi correligionari di fuori, scrisse sui giornali socialisti violenti articoli, sempre consigliando pubblicamente la resistenza, ed eccitando alla ribellione, preparando così il terreno alla violenta ultima rivolta.

Di ugual tempra è Ennio Del Vecchio, pure socialista attivo nella propaganda ed eccitatore all'odio di classe; fu esso pure condannato due volte alla pena della multa.

La russa dottoressa Anna Kuliscioff, venuta a Milano nel 1885 dopo aver peregrinato per le varie capitali d'Europa e città d'Italia, ebbe prima intima relazione col socialista deputato Andrea Costa, poi col deputato Filippo Turati, seguendo l'azione di essi. È fervente socialista e propagandista efficace quanto tenace; cooperò alla costituzione di circoli, pubblicazioni di giornali, di programmi e di statuti, figurando indefessamente nei congressi, nelle riunioni, nelle pubbliche passeggiate. Nel 1894, come dirigente del partito socialista dei lavoratori italiani, fu condannata al confino. Dopo la elezione di Filippo Turati a deputato, raddoppiò di attività per la propaganda delle teorie socialiste; ed all'intento di mantenere ad esso salda la base elettorale del suo collegio, tenne parecchie conferenze pubbliche al Circolo Cappellini, cercando di organizzare in lega di resistenza, inscrivendoli nel partito, gli operai dello stabilimento Pirelli, i quali, perchè ben trattati, avevano fino a questi ultimi tempi resistito; e come essa riuscisse nelle sue mire lo prova il fatto che già 1200 operai si erano ascritti alla lega, ed imbevuti di massime sovversive, di sentimento d'odio, si segnalarono nel primo giorno della sommossa a Ponte Seveso e via Napo Torriani, e specialmente le donne, sulle quali la Kuliscioff esercitava molto ascendente, dimostrarono maggiore ferocia.

Un altro imputato è don Davide Albertario, direttore dell'Osservatore Cattolico, organo di quel partito clericale intransigente che avversa le istituzioni e l'unità della patria; di carattere battagliero e violento, sostenne lotte vivissime con quella parte del clero che si ispirava a principii temperatamente liberali. La sua condotta poco morale, non rispondente alla dignità del sacerdozio, gli valse un processo penale per delitto contro il buon costume ed una procedura disciplinare per parte della Autorità Ecclesiastica. Tenne conferenze consigliando e dirigendo nel senso della più aperta intransigenza l'organizzazione clericale. Nella lunga sua carriera giornalistica i suoi sforzi furono diretti a far cadere in disprezzo le istituzioni e l'Esercito, prendendo di mira la stessa Dinastia, onde ebbe molti sequestri per offese alla Sacra Persona del Re ed alla Real Famiglia. Divenendo sempre più violento negli ultimi tempi dimostrò tendenza a favorire il cambiamento della forma di Governo, e da altra parte si faceva banditore di idee democratiche e socialiste, come apparisce dall'opuscolo stampato nella tipografia dell'Osservatore Cattolico col titolo «Dal Socialismo alla Democrazia Cristiana», gareggiando così col partito repubblicano e socialista nel combattere la Monarchia e nel suscitare l'odio di classe. Tale malefica propaganda, esercitata continuamente con somma energia e fine arte di polemista, agiva pur troppo sulla parte meno colta dei credenti e del clero, e contribuì potentemente a formare l'ambiente ostile ed a maturare lo spirito della rivolta ora repressa. Nel corrente anno ebbe l'Albertario più occasioni per accentuare l'azione del suo giornale contro le istituzioni, nel marzo la commemorazione del cinquantenario dello Statuto e quella delle Cinque Giornate, poi i moti che scoppiarono in diverse località per il rincaro del pane. Questi moti furono nell'Osservatore Cattolico malignamente narrati, esagerati, commentati; ed a qualche altro giornale che rivelava questa condotta intesa a creare imbarazzi alle istituzioni, rispondeva nel numero dal 6 al 7 maggio: «Ah canaglie, voi date piombo ai miseri che avete affamati, e poi vi lanciate contro i clericali.» Questo fu l'ultimo numero, perchè lo stesso giorno scoppiò la rivolta ed il giornale sospese le sue pubblicazioni. In tal modo è manifesto che l'Albertario divide cogli altri imputati la responsabilità della sommossa.

L'ingegnere Giuseppe De Franceschi fu arrestato e denunciato perchè militò nel campo socialista; vi ebbe per l'addietro una parte attiva; e più specialmente perchè si ritenne che avesse dato ricetto a rivoltosi che tirarono sulla truppa a Porte Monforte nel 9 maggio. Ma dalle assunte verifiche risulta che il De Franceschi dopo il 1894, da che è proprietario dello stabilimento industriale all'Acquabella, si è ritirato dal partito socialista e si è astenuto da ogni manifestazione e propaganda. È risultato altresì che soltanto per errore fu ritenuto che avesse dato ricovero a rivoltosi nel suo stabilimento, giacchè è accertato che costoro si erano invece posti in salvo da una piccola via, che rasentando il fabbricato porta ai campi, e che sul momento non era stata osservata. Manca quindi a di lui carico ogni responsabilità penale.

Il Girardi Emilio, arrestato insieme al Romussi, è redattore del Secolo, e sebbene militi nel campo repubblicana, non risulta peraltro che abbia tenuto pubbliche conferenze ed abbia in qualsiasi modo fatto propaganda delle teorie che professa, e non sarebbe coinvolto in alcun delitto.

Considerato che dietro le risultanze sopra indicate gli imputali Callegari, Castelnuovo, Cerchiai, Gabrielli e Gruppiola, sarebbero incorsi nei delitti previsti dagli articoli 190, 248 e 252 del Codice penale—gli imputati Baldini, Fraschini e Invernizzi nel delitto previsto dall'articolo 248—gli imputati Chiesi, Federici, Lattici, Cermenati, Seneci e Romussi nei delitti previsti dagli articoli 64, 77, 118, 120, 134, 246, 248 e 252 del Codice penale ed articoli 1 e 2 della Legge 19 luglio 1894 N. 315—l'imputato Oppizio nei delitti previsti dagli articoli 190 e 247 del Codice penale—gli imputati Zavattari, Lazzari, Gatti, Ghiglione, Valera, Valsecchi, Del Vecchio e Kuliscioff nei delitti previsti dagli articoli 118, 120, 135 e 246 del Codice penale—e l'imputato Don Albertario nei delitti previsti dagli articoli 118, 120, 135, 246 e 247 suddetto e dagli articoli 1 e 2 della Legge 19 luglio 1894, N. 315.

Considerato che in forza dei Bandi pubblicati dal R. Commissario Straordinario in virtù dei pieni poteri accordatigli con R. Decreto 7 maggio 1898 spetta a questo Tribunale Militare di Guerra la competenza a giudicare gli individui suddetti pei delitti a ciascuno di essi imputati;

PER QUESTI MOTIVI

dichiara non farsi luogo a procedere contro l'ingegnere Giuseppe De Franceschi e contro il professore Emilio Girardi pei delitti ad essi rimproverati ed ordina la loro scarcerazione quando non debbano rimanere detenuti per altre cause.

Pronuncia l'accusa contro:

Callegari Sante, Castelnuovo Umberto, Cerchiai Alessandro, Gabrielli Alfiero e Gruppiola Francesco Giuseppe; pei delitti previsti dagli articoli 190, 248 e 252 del Codice penale per essersi associati in più di cinque persone onde commettere delitti contro l'ordine pubblico, le persone e le proprietà e per aver usato violenze contro gli agenti della forza armata commettendo altresì fatti diretti alla guerra civile.

Contro:

Baldini Domenico, Fraschini Giuseppe e Invernizzi Pietro; per il delitto previsto dall'articolo 248 per essersi associati in più di cinque persone onde commettere delitti contro l'ordine pubblico, le persone e le proprietà.

Contro:

Chiesi Gustavo, Federici Bortolo, Lallici Stefano, Cermenati Ulisse, Seneci Arnaldo e Romussi Carlo; pei delitti previsti dagli articoli 64, 77, 118, 120, 134, 246, 248, 252 Codice penale degli articoli 1 e 2 della Legge 19 luglio 1894, N. 315, perchè allo scopo finale tra loro concertato e stabilito di mutare violentemente la costituzione dello Stato e la forma di Governo e far sorgere in armi gli abitanti del Regno contro i poteri dello Stato, si associarono fra loro ed altri, e coll'istituire e dirigere circoli, comitati, riunioni o leghe di resistenza con discorsi e conferenze pubbliche o private e con scritti pubblicati per mezzo della stampa, furono causa diretta ed immediata della insurrezione, e cooperarono così efficacemente con tali mezzi di istigazione alla guerra civile, ai saccheggi ed alle devastazioni che ebbero luogo in Milano nei giorni 6-7-8-9 maggio ultimo decorso.

Contro:

Oppizio Angelo, pei delitti previsti dagli articoli 190 e 247 del Codice penale, per aver usato violenza contro gli agenti della forza armata, ed incitato pubblicamente alla disobbedienza della legge ed all'odio fra le varie classi sociali in modo pericoloso per la pubblica tranquillità.

Contro:

Zavattari Pietro Giuseppe, Lazzari Costantino, Gatti Oreste, Ghiglione Achille, Valera Paolo, Valsecchi Antonio, Del Vecchio Enrico e Kuliscioff Anna; pei delitti previsti dagli articoli 118, 120, 135 e 246 del Codice penale, per avere pubblicamente eccitato a commettere fatti diretti a mutare violentemente la costituzione dello Stato, la forma del Governo ed a far sorgere in armi gli abitanti del Regno contro i Poteri dello Stato.

Contro:

Albertario don Davide, pei delitti previsti dagli articoli 118, 120, 135, 246 e 247 del Cod. penale e 1 e 2 della Legge 19 luglio 1894, N. 315, per avere specialmente per mezzo di iscritti pubblicati nell'Osservatore Cattolico incitato all'odio fra le varie classi sociali in modo pericoloso per la pubblica tranquillità, ed a commettere fatti diretti a mutare violentemente la costituzione dello Stato, la forma del Governo, ed a far sorgere in armi gli abitanti del Regno, contro i Poteri dello Stato.

Ordina quindi l'invio dei suddetti 24 accusati avanti il Tribunale Militare di Guerra sedente in Milano competente a giudicarli pei delitti loro rimproverati rispettivamente.

Il Sostituto Avvocato Generale Militare in missione E. BACCI.

__Il secondo Atto d'accusa.__

Il Pubblico Ministero nella causa contro:

De Andreis Luigi, fu Giuseppe, d'anni 47, nato e domiciliato in Milano, ingegnere; Turati Filippo, fu Pietro, d'anni 39, nato a Canzo, domiciliato a Milano, avvocato; Morgari Oddino, fu Paolo, d'anni 33, nato a Torino, domiciliato a Roma, pubblicista;

Tutti e tre deputati al Parlamento Nazionale—detenuti ed imputati dei delitti previsti dagli articoli 134, 246, 247, 248, e 252 del Codice Penale;

Ritenuto che dalla istruita procedura risulta che fino dalla prima gioventù i tre imputati De Andreis, Turati e Morgari si dedicarono quasi interamente alla politica, e con la loro attività, energia ed intelligenza riuscirono ad acquistare grandissima influenza nei diversi partiti radicali nei quali militavano;

Infatti il De Andreis, repubblicano intransigente, rivoluzionario fino dal 1892, figurò sempre fra i capi e promotori di tutti i comitati e circoli repubblicani di Milano, ne fu delegato ai congressi, ed era uno dei cinque membri del Comitato centrale repubblicano italiano trasferito da Forlì a Milano, e talvolta ne tenne la presidenza; fondò poi in ogni porta della città di Milano un circolo repubblicano rionale. Oratore violento e demagagico nelle conferenze, nei comizi, nelle commemorazioni e dimostrazioni, spingeva le masse alla resistenza contro le autorità ed all'azione, che nel 31 gennaio ultimo in una commemorazione a Russi annunziava più vicina di quanto potesse immaginare; ed in altro discorso per le feste del 50.º anniversario dello Statuto al monumento di Garibaldi in Milano, disse fra le altre cose: «il popolo per ottenere le sue rivendicazioni ha due armi: il voto e la carabina».

Il Turati, fervente socialista, propugnò con attivissima propaganda le dottrine più avanzate del socialismo in Milano e nelle campagne, istituendo, anche nei più piccoli paesi, comitati e circoli; attrasse nell'orbita del partito la Lega ferroviaria, la Camera del lavoro con trenta società operaie e di mutuo soccorso confederate, ed altri sodalizi, falsandone la primitiva istituzione. Esso è l'autore dell'Inno dei lavoratori divenuto il grido di guerra del partito; è direttore della Critica Sociale; nella quale rivista, detta scientifica, si trova per esempio una nota del seguente tenore: come diavolo mai l'anno scorso venne in mente al Costa di appoggiare la proposta d'Imbriani per chiamare l'esercito non Regio, ma Nazionale? ma l'esercito è bene che si chiami regio come il lotto, come gli impiegati, come la questura, come tutto ciò che vi è di sudicio in Italia. Il Costa doveva invece proporre che fosse intitolato regio anche il debito pubblico. (N. 9 del 1.º maggio 1898). È altresì da notarsi che in un articolo intitolato «Il Domani» contenuto nel N. 6 del 16 marzo 1896, parlandosi dei gravi moti avvenuti in diverse città d'Italia dopo la battaglia di Adua, si preconizzò fin d'allora che Milano, la città cui son volti tutti gli sguardi, sarebbe stata l'arena della rivoluzione futura; e si previde che a Milano da 40 a 60 mila persone d'ogni età, d'ogni sesso si riversino senza intesa nelle vie, si addensino al centro, unite da un solo grido, da un solo entusiasmo, cui non manca se non chi sappia imprimergli direzione rapida e precida per vedere instaurato nel Comune un governo provvisorio locale repubblicano.

Allo stesso Turati si devono l'organizzazione del partito e l'indirizzo datogli di odio di classe: illimitata è la influenza che esercitava specialmente sulle classi operaie, ed è indubbiamente a ritenersi l'anima e la mente del partito socialista rivoluzionario in Milano, del quale era il capo riconosciuto ed il rappresentante ufficiale nelle occasioni più solenni.

Il Morgari può dirsi fosse nella città e provincia di Torino quasi quello che il Turati era in Milano. Abile, instancabile conferenziere e propagandista, partecipò a tutte le manifestazioni della vita collettivisti del partito: organizzò riunioni, pubblicò programmi, circolari ed opuscoli e specialmente uno intitolato: L'Arte della nostra propaganda che è un completo manuale da servire pei propagandisti, fondatori di circoli e gruppi socialisti.

Alla sua ferrea volontà si deve l'incremento dei socialismo rivoluzionario in Piemonte.

Che con tali mezzi di organizzazione e di propaganda i tre imputati, insieme e di concerto con altri capi rivoluzionari che si adoprarono nello stesso senso nelle altre provincie, riuscirono nei primi mesi dell'anno corrente a creare e mantenere in Italia, e specialmente in Milano, nei loro affigliati e nelle masse operaie, uno stato di continuo eccitamento e di tensione e lo spirito di rivolta, la quale quindi per opera loro era pronta a scoppiare ad un sol cenno, all'occasione propizia, ed anche per un accidente imprevisto.

Che sebbene repubblicani e socialisti siano discordi nelle teorie e nei principii, pure sono pienamente d'accordo nel voler cambiare la costituzione dello Stato e la forma del Governo, ed è questo lo scopo comune cui miravano i tre imputati e i loro associati con la propaganda e l'organizzazione dei partiti. Infatti lo stesso Morgari ebbe a dichiarare nelle sue commemorazioni e conferenze: Essi, i socialisti, essere i veri repubblicani, giacchè vogliono la repubblica non come fine, ma come mezzo, che apre la via al fine di togliere, insieme al re, gli altri piccoli re di officina, di latifondi e di banche.

Che oltre a ciò in Milano risiedè fino dopo la sommossa il noto Pietro Gori, maestro e riorganizzatore degli anarchici, e sull'appoggio e concorso di costoro, sempre pronti al disordine, alla devastazione ed al saccheggio, potevasi sicuramente contare, tanto più che col Gori, e coll'Amilcare Cipriani (qui di passaggio nell'aprile ultimo decorso), e con gli altri anarchici, vivevano i socialisti in buon accordo, giacchè di costoro il Morgari dice: non sono cattiva gente e lavorano essi pure per il bene della società; ma credono che l'uomo debba essere libero come l'uccello nell'aria, senza alcuna legge, nè autorità nè comando, e questo per molto tempo non sarà possibile.

Che inoltre i socialisti avevano sparse le loro malsane, ma abbaglianti teorie fra i ferrovieri e si erano concertati coi capi della Lega dei ferrovieri medesimi, onde mediante uno sciopero generale in occasione di una sommossa fosse ritardato od impedito il trasporto della truppa ed il richiamo delle classi in congedo.

Che infine anche oltre i confini dello Stato i capi dei partiti sovversivi tutti uniti e concordi avevano spinte le loro mene; ed infatti i loro associati predicavano il socialismo e l'anarchia agli operai italiani residenti in Svizzera, e con una attiva propaganda erano riusciti a tenerli pronti a scendere in Italia al momento opportuno per recare aiuto ai compagni rivoltosi.

Che intanto sulla fine dello scorso aprile a causa del disagio economico delle popolazioni, del quale i capi dei partiti non mancarono di approfittare, cominciarono moti e tumulti in alcuni paesi e città dell'Italia meridionale, e a traverso le Marche, le Romagne e la Toscana, proseguirono a Parma, Piacenza, Pavia e raggiunsero Milano, ove, per le circostanze e le condizioni già esposte, dovevano pur troppo avere il loro pieno sviluppo, e cangiarsi in aperta insurrezione.

Che infatti nelle ore pomeridiane del 6 maggio al Ponte Seveso ed in via Napo Torriani gli operai dello Stabilimento Pirelli si dettero a tumultuare sotto vari pretesti e specialmente per l'arresto di un individuo che spargeva un manifesto socialista diretto: ai Cittadini lavoratori; e tali tumulti si cambiarono in rivolta e guerra civile con devastazioni e saccheggio nei successivi giorni 7, 8 e 9, nei quali le turbe—numerosissime di persone di ogni età e di ogni sesso—si riversarono nelle vie, innalzarono alle porte dei diversi rioni della città molte barricate, trassero dalle barricate medesime, dalle strade, dalle finestre e dai tetti contro la truppa e gli agenti della forza pubblica colpi di fuoco, sassi e tegole, con l'intento di addensarsi poi al centro unite da un solo grido, da un solo entusiasmo ed instaurare nel Comune un governo provvisorio locale repubblicano, come appunto aveva preconizzato il Turati nella Critica Sociale fino dal 16 marzo 1896, e sarebbero riusciti nei loro disegni senza l'energia delle Autorità superiori militari, l'annegazione, il coraggio e la disciplina dell'Esercito.

Che le località, nelle quali nella sera del 6 maggio ebbero principio i disordini, fanno parte del Collegio di cui l'onorevole Turati è deputato, dove esso gode della massima influenza sopra i numerosi operai di quegli stabilimenti industriali; e dove nei giorni precedenti avevano tenute conferenze alcuni suoi intimi amici e compagni di fede, quali la Kuliscioff e il Dell'Avalle.

Che il manifesto: Cittadini lavoratori, sparso in quel primo giorno e causa dei primi disordini, e firmato: I Socialisti milanesi, ed in esso si parla di rivolta della fame e della disperazione, alla quale il Governo del Re risponde coll'eccidio scellerato dei supplicanti pane e lavoro, si parla del militarismo piovra della nazione a servizio di alleanze e d'interessi dinastici, di privilegi odiosi, ecc.—Si dice che il Governo del Re ha preparato quelle rivolte e le ha volute; sono opera sua. La responsabilità del sangue che essa versa in questi giorni ripiomba tutta sul suo capo, e dopo altri periodi dello stesso genera termina: Giorni gravi si appressano; è tempo che il popolo Italiano rifletta, ricordi ed alfine provveda a sè stesso. Il paese, salvi il paese! Or bene, si hanno gravi ragioni per ritenere che di quel manifesto sparso fra le masse in momento di sì grave commozione pubblica sia autore il Turati, il quale poi in ogni caso deve averlo ispirato e necessariamente conosciuto.

Che durante quei primi disordini il Turati, insieme all'altro capo e ben noto socialista Dino Rondani, ora latitante, si recò sul posto, si impose alle Autorità esigendo la liberazione dell'arrestato, ed arringò le turbe raccomandando apparentemente la calma e promettendo di unirsi e battersi insieme ad esse in un giorno più propizio.

Che nella mattina successiva lo stesso Turati col Rondani si trovò a Porta Venezia quando si innalzavano le barricate, ed infieriva maggiormente la lotta, e ad un bravo cittadino che a lui rivolgeva preghiera d'interporsi e far cessare un inutile eccidio, rispondeva cinicamente: I cadaveri servono a qualche cosa: sono le pietre miliari delle conquiste avvenire del popolo.

Che poco appresso esso ed il Rondani, sempre insieme, si diressero alla Stazione centrale ferroviaria, ed ivi introdottisi si trattennero a colloquio presso il deposito delle locomotive col noto socialista, pur latitante, Giuseppe Mantovani, conduttore ferroviario a riposo, segretario del Comitato esecutivo della Lega ferrovieri, il quale subito dopo lavorò a tutto uomo per determinare lo sciopero generale dei ferrovieri. Infatti nel giorno appresso furono diramate fra i ferrovieri medesimi due circolari che eccitavano allo sciopero;—nel dì 9 diversi macchinisti e fuochisti si rifiutarono a prestar servizio, e firmarono una dichiarazione diretta ad indurre i compagni allo stesso rifiuto; e soltanto per l'energia delle Autorità superiori e per il pronto accorrere della truppa, fu evitato lo sciopero, le cui conseguenze sarebbero state gravissime.

Che in una perquisizione eseguita nel 7 maggio negli uffici del giornale L'Italia del Popolo fu trovato e sequestrato un biglietto da visita, in cui s'invitava il Turati e compagni socialisti ad una riunione coi repubblicani per quel giorno, e sebbene la riunione non avesse più luogo, pure rimane il fatto a dimostrare il buon accordo fra i repubblicani e socialisti.

Che nella stessa sera del 7 maggio i capi dei diversi partiti sovversivi di Milano in numero di circa 20 si riunirono in casa del dott. Ceretti Vittorio, ora latitante, e da una di lui lettera-testamento ivi rinvenuta si arguisce in modo sicuro la deliberazione presa di proseguire nell'insurrezione, che infatti divenne sempre più fiera nei giorni successivi.

Che nel giorno 8 maggio il Rondani, il fido compagno del Turati, si recò in Svizzera; ed a Brissago, Locarno, Bellinzona e Lugano cercò riunire, formare in bande e dirigere al confine i numerosi operai italiani per accorrere a Milano in aiuto degli insorti.

Ed anche successivamente costui insieme agli altri fuorusciti ha colà raddoppiato nella propaganda e nello spirito settario, collaborando nella redazione dei giornali L'Italia Nuova ed Il Socialista, scrivendo od ispirando articoli della maggiore violenza contro lo Stato italiano, le Autorità e L'Esercito.

Che l'imputato Oddino Mogari nel dì 9 maggio da Torino si diresse a Milano, ove, dopo lasciata la ferrovia a Magenta, si introdusse in modo guardingo e misterioso; vi si trattenne il giorno 10, e nel dì 11 giunse a Lugano e col Rodani dette opera ad organizzare le bande che già si dirigevano al confine; ma poi, al sopraggiungere della truppa, egli si allontanò recandosi a Roma, ove fu arrestato nel 14 maggio e fu trovato possessore di L. 1740,05. Egli deve pure rispondere avanti il Tribunale di Biella di eccitamento all'odio di classe, pel quale delitto la Camera dei Deputati autorizzò il provedimento in seduta del 14 marzo ultimo decorso.

Che infine l'imputato De Andreis è uno dei principali ed assidui redattori dell'Italia del Popolo, giornale che ebbe sempre di mira scalzare il principio di autorità e suscitare nelle masse sentimenti di odio verso il Governo e le istituzioni, ed i di cui articoli divennero ancor più violenti negli ultimi tempi. Basta infatti leggere tutto il numero dal 7 all'8 maggio e specialmente l'articolo intitolato «Ne erano assetati» ove, narrandosi i fatti avvenuti nel 6 maggio al Ponte Seveso ed in via Napo Torriani, fra le altre frasi tutte dirette a maggiormente eccitare in quei dolorosi momenti gli animi della popolazione, si legge: In tutta la giornata i tutori dell'Ordine non avevano bevuto, avevano sete, sete di sangue, si intende.

Che nel giorno 7 maggio il De Andreis si recò più volte negli uffici di quel giornale; vi portò, per essere pubblicati, episodii svoltisi a Porta Venezia, esagerandoli e falsandoli; ed ivi intervenne chiamato ad una riunione di amici repubblicani.

Che il De Andreis si trovò a Parma, Piacenza e Pavia, nei giorni in cui si verificarono disordini in quelle città. Nella mattina del 7 maggio era alle barricate di Porta Venezia in Milano, quando più fiera ferveva la lotta fra gli insorti e la truppa: vi ritornò nelle ore pomeridiane; e al tenente Petella che lo scongiurava ad interporsi per ottenere la calma, rispose in tono quasi di sfida: «Tenente, ormai è tardi, vi è sangue.» Inoltre, tanto nella mattina quanto nelle prime ore pomeridiane del 7 fu veduto a piedi ed in carrozza in corso Garibaldi parlare con diverse persone estranee a quel quartiere, mentre appunto vi si stavano costruendo le barricate; e finalmente nelle ore pomeridiane dello stesso giorno fu arrestato negli uffici dell'Italia del Popolo.

Considerando che dietro le risultanze sopra indicate gli imputati De Andreis, Turati e Morgari sono incorsi nei delitti previsti dagli articoli 134 e 252 del Codice penale.

Considerato che la Camera dei Deputati nella seduta del 9 luglio corrente ha accordata l'autorizzazione a procedere contro di essi.

Considerato che in forza dei Bandi pubblicati dal Regio Commissario
Straordinario di Milano in virtù dei pieni poteri accordatigli col
Regio Decreto 7 maggio 1898 spetta a questo Tribunale Militare di
Guerra la competenza a giudicarli,

PER QUESTI MOTIVI

Visto l'articolo 544 del Codice penale per l'Esercito, pronunzia l'accusa contro i deputati De Andreis Luigi, Turati Filippo e Morgari Oddino per i delitti previsti dagli articoli 134 e 252 del Codice penale comune,—perchè col mezzo di opuscoli, discorsi e conferenze, col mezzo dell'istituzione di circoli, comitati, riunioni e leghe di resistenza, ed allo scopo concertato e stabilito fra essi ed altri capi ora latitanti di partiti sovversivi di mutare violentemente la costituzione dello Stato e la forma di Governo, riuscirono a suscitare la guerra civile ed a portare la devastazione ed il saccheggio nella città di Milano nei giorni 6, 7, 8, e 9 maggio ora decorso, cooperando anche immediatamente e direttamente all'azione, e procurando di recarvi assistenza ed aiuto.

Ordina quindi l'invio di essi accusati avanti questo Tribunale di guerra competente a giudicarli.

Milano, addì 17 luglio 1898.

Il Sostituto Avvocato Generale Militare in missione E. BACCI.

__La sentenza contro i deputati.¹__

¹ Tolgo questa e la successiva sentenza dai Tribunali di Enrico Valdata—il giornale che, nel periodo del Bava Beccaris, fu, compatibilmente col momento, il più indipendente ed audace.

In nome di S. M. Umberto I, per grazia di Dio e volontà della Nazione Re d'Italia. Il Tribunale Militare Territoriale di Milano, funzionante da Tribunale di Guerra, ha pronunciato la seguente sentenza nella causa, contro De Andreis Luigi, fu Giuseppe, di anni 47, nato e domiciliato in Milano, ingegnere; Turati Filippo, fu Pietro, d'anni 39, nato a Canzo, domiciliato a Milano, avvocato; Morgari Oddino, fu Paolo, di anni 33, nato a Torino, domiciliato a Roma, pubblicista.

Tutti e tre Deputati al Parlamento Nazionale, detenuti ed imputati dei delitti previsti dagli articoli 134 e 252 del Codice penale, perchè col mezzo di opuscoli, discorsi e conferenze, col mezzo dell'istituzione di circoli, comitati, riunioni e leghe di resistenza, ed allo scopo concertato e stabilito tra essi ed altri capi ora latitanti di partiti sovversivi di mutare violentemente la costituzione dello Stato e la forma di Governo, riuscirono a suscitare la guerra civile ed a portare la devastazione ed il saccheggio nella città di Milano nei giorni 6, 7, 8 e 9 maggio ora decorso, cooperando anche immediatamente e direttamente all'azione, e procurando di recarvi assistenza ed aiuto.

Ritenuto in fatto come emerse, al pubblico dibattimento dalla lettura dei documenti, dalle deposizioni dei testimoni e dalle dichiarazioni degli accusati;

Che sui primi dello scorso mese di maggio, in seguito alle agitazioni manifestatesi in varie parti del regno, e sopratutto pei tumulti di Pavia, nei quali ebbe a soccombere lo studente Mussi, i vari partiti politici sovversivi di Milano si trovavano in uno stato di fermento, e bastava una causa qualsiasi per farli scoppiare in aperta rivolta. Qui, ove il rincaro del pane non poteva essere causa sufficiente, la spinta fu data da un manifesto diretto ai lavoratori italiani, nel quale si leggono frasi eccitanti alla ribellione e che stampato nel giorno 5 maggio fu divulgato nel pomeriggio del giorno 6 successivo nelle località di Ponte Seveso e Napo Torriani, ove maggiore è il numero degli operai addetti ai vari stabilimenti industriali colà esistenti.

Che quel manifesto essendo stato colpito da sequestro della Procura Generale, fu eseguito l'arresto d'uno degli spacciatori, ma alcuni operai cominciarono subito a tumultuare ed astenersi dal lavoro, reclamando la liberazione dell'arrestato.

Che informato di quanto avveniva in quella località, l'accusato Turati vi si recò subito coll'ora condannato in contumacia Dino Rondani e parlando agli operai promise d'intromettersi presso le autorità onde l'arrestato fosse posto in libertà, e raccomandando loro di rimanere tranquilli, disse che quello non era il momento opportuno per scendere in piazza, che quel momento lo dovevano scegliere loro, e non la questura, e che quando quel momento fosse venuto egli sarebbe stato con loro, a fare le fucilate.

Che il Turati recatosi dal Questore, dal Procuratore del Re ed alla Prefettura, ripetè con parole certo meno accentuate lo stesso concetto, ed ottenne la liberazione dell'arrestato, la quale fu concessa nella speranza di evitare mali maggiori. Recatosi nuovamente il Turati dagli operai rese conto della sua missione e si allontanò.

Che poco dopo, in una via adiacente, mentre le guardie rientravano alla loro caserma, furono accolte da una fitta sassaiola, ed intervenuta la truppa fu necessario far uso delle armi. Una guardia di P. S. venne uccisa da un colpo di revolver partito dai tumultuanti; rimase pure morto un operaio e vi furono diversi feriti.

I tumulti cominciati nella sera ebbero disgraziatamente seguito nel mattino del 7; gli operai, parte volontari e parte costretti dai compagni, disertarono gli stabilimenti, la rivolta si propagò in varie parti della città, sorsero barricate, furono saccheggiati palazzi e negozi, ed in quel giorno e nei successivi 8 e 9 la truppa si trovò sempre di fronte ai rivoltosi, dovette far uso delle armi e vi furono morti e feriti.

Che, premesse queste constatazioni generali, è d'uopo esaminare da quale causa ebbero origine i tumulti. Si volle far credere, che quanto successe in quei giorni in Milano non fu che un movimento teppistico, ma troppi argomenti stanno a provare che fu l'effetto di teorie sovversive da lungo tempo instillate negli operai dai vari circoli socialisti e repubblicani, i quali tendevano con metodi diversi ad un unico fine, quello di mutare violentemente la costituzione politica dello Stato.

In altra sentenza in questo Tribunale fu già affermato che i moti scoppiarono improvvisamente, che i capi dei vari partiti furono sorpresi dagli avvenimenti, e questo giudizio viene ancora confermato dalle risultanze di questo dibattimento. Questa è certo l'unica ragione per la quale i partiti non hanno potuto prendere accordi definitivi, quali dovevano essere nel loro pensiero. Nè la riunione in casa del dott. Ceretti, nè il tentato, ma non avvenuto convegno all'Italia del Popolo fra repubblicani e socialisti, sono sufficienti per provar con certezza l'esistenza di un concerto sul mezzi d'esecuzione, ed i nuovi elementi sorti dalla discussione di questo processo non sono tali da infondere nel Tribunale una diversa convinzione.

Nessun fatto è venuto a dimostrare un accordo fra i tre odierni accusati, non constando che nei giorni dei tumulti, ed in quelli che li precedettero, si sieno riuniti, se anche per mezzo d'interposte persone abbiano potuto concertarsi fra di loro per dirigere l'insorto movimento.

Mancando la prova del concerto, rimane ad esaminare quale fu la parte che ciascuno di essi ha individualmente preso nella preparazione degli avvenimenti e nei giorni della sommossa.

Dai rapporti esistenti in atti consta che il Turati è certo la personalità più spiccata ed influente del partito socialista milanese. Direttore e redattore della Critica Sociale, scrittore nella Lotta di Classe, fondò circoli socialisti ed attrasse nell'orbita del suo partito numerose società di operai, inspirando in essi l'odio di classe, e promuovendo leghe di resistenza verso i padroni. Fu già condannato per un articolo scritto dopo la condanna di De Felice.

Altra volta lo fu per la pubblicazione di un almanacco socialista e nelle dimostrazioni del 1896, parlando al pubblico tumultuante, elogiò gli studenti di Pavia, i quali per impedire la partenza di soldati per l'Africa avevano svelte le rotaie della ferrovia e fu con quelle parole causa dei disordini che poco dopo successero alla Stazione centrale.

Nei numerosi suoi scritti trapela sempre il disprezzo per le istituzioni e l'esercito. A lui si deve l'Inno dei lavoratori, divenuto il grido di guerra dei socialisti. È designato quale autore, insieme al Rondani, del manifesto ai lavoratori italiani, di cui si è sopra parlato. Certo egli ne ebbe conoscenza prima che fosse divulgato.

Come già si è detto, nel 6 maggio, volendo raccomandare ai tumultuanti la calma e di attendere il momento opportuno, parlò in modo da incitare maggiormente, ed il maggiore cav. Montuori, colà comandato pel mantenimento dell'ordine, chiese al funzionario di pubblica sicurezza che era là in servizio di potere agire o di far ritirare i soldati, non volendo che questi assistessero a quelle esortazioni alla rivolta.

Nel pomeriggio del successivo giorno 7, in prossimità delle barricate di P. Venezia, sentendo l'avv. Cavalla rimproverare alcuni giovinetti che si munivano di sassi, osservando loro che era da pazzi esporsi a morire in quel modo, il Turati si rivolse a lui aspramente dicendogli in tono da poter essere sentito dai rivoltosi: «I cadaveri servono a qualche cosa. Essi sono le pietre miliari delle conquiste avvenire del popolo»; e chiamato a sè il Rondani, se ne andò con lui, dicendo: «Qui nulla più vi è da fare, andiamo a Ponte Seveso.»

Si recò invece alla Stazione centrale, si abboccò col noto Mantovani, esso pure condannato in contumacia, e nel giorno successivo si ebbe il manifesto ai ferrovieri e poscia il tentato sciopero dei macchinisti e fuochisti che potè essere fortunatamente scongiurato.

L'accusato De Andreis, fino dall'epoca in cui era studente, professò apertamente opinioni repubblicane, fondò giornali, fece attiva propaganda delle sue teorie, coll'istituzione di circoli, conferenze e discorsi pubblici, tendenti sempre allo scopo di cambiare violentemente alla prima occasione la costituzione politica dello Stato, parlando sempre con sarcasmo della persona del Re e della sua reale famiglia.

A dimostrare quali sieno sempre state le sue idee, basterà ricordare che, avendo il giornale la Provincia di Parma riferito un suo discorso fatto in commemorazione della morte di Mazzini, osservava che gli aveva fatto dire essere necessaria una evoluzione, mentre egli intendeva una rivoluzione.

Nelle feste cinquantenarie dello Statuto parlando alle Società radicali riunite al monumento di Garibaldi, disse che il popolo per ottenere le sue rivendicazioni non ha altro mezzo che il voto e la carabina. Nei primi giorni dello scorso maggio adempiendo ad un incarico avuto dal Comitato centrale repubblicano italiano, del quale era uno dei cinque che lo costituiscono, fu, durante i tumulti, a Parma, Piacenza e Pavia per osservare quanto vi succedeva.

Era collaboratore ed ispiratore di articoli del giornale l'Italia del Popolo, organo del partito repubblicano, di quel giornale che nel suo numero del 7 maggio, a disordini già cominciati, scriveva che i tutori dell'ordine avevano sete di sangue. Nelle cartelle trovate negli uffici di quel giornale ve ne era una nella quale stava scritto che il De Andreis fin dal mattino si trovava a Porta Venezia per protestare contro le violenze dell'autorità.

Sempre nel giorno 7, fu visto in varie località ove vi erano rivoltosi. Mentre era in casa, due giovinotti lo andarono a cercare per condurlo all'Italia del Popolo, ove erano riuniti vari repubblicani, e nel recarvisi, lungo il corso Garibaldi, parlò in modo sospetto con varie persone estranee a quel quartiere, poco prima che vi si erigessero le barricate.

Che verso le ore 15 il De Andreis si trovò sul corso Venezia in un punto ove la via era sbarrata dalla truppa ed ivi, avendo chiesto al tenente dei Reali Carabinieri cav. Petella di farlo passare avanti, questi gli raccomandò d'interporsi per far cessare i disordini, al quale invito il De Andreis rispose: «oramai è tardi, vi è sangue».

Che, sebbene a queste parole siasi dall'accusato e da qualche testimonio, che pretendeva essersi trovato presente, cercato di dare la significazione dell'impossibilità in cui si trovava di far valere la sua autorità, pure, pel fatto d'essersi trovato colà ove nessuna ragione lo giustificava, e pel modo col quale furono pronunciate le parole stesse, lasciano nel Tribunale la convinzione che egli approvava la rivolta, tanto che il Petella indignato ebbe a rispondergli: «peggio per loro», ed ebbe anche l'idea di arrestarlo, ma ciò non fece perchè in quel momento doveva attendere ad urgenti incarichi.

Il Morgari è, al pari del Turati, socialista, attivo propagandista del suo partito; quando scoppiarono i disordini in Milano, si trovava a Torino, di dove partì dopo che i giornali di quella città annunaziarono che qui la rivolta era domata. Si fermò a Magenta, prese il treno che lasciò prima di giungere a Milano ove entrò a piedi inosservato. Egli disse che era venuto per assumere informazioni sui moti per conto del giornale l'Avanti e per poterne riferire in una seduta dei deputati del suo partito che doveva tenersi a Roma nel giorno 12 di quel mese.

Non risulta quanto abbia fatto dalla sera del 9 a tutto il 10; si sa che nel giorno 11 era a Lugano di dove andò direttamente a Roma, ed ove fu arrestato nel giorno 14.

Ritenuto, per quanto sopra, che la propaganda fatta dal Turati e dal De Andreis, nei circoli, colle conferenze, discorsi e pubblicazioni, la parte che entrambi hanno preso nei giorni 6 e 7 scorso maggio durante i tumulti, e della quale si è sopra parlato, costituiscono quel fatto diretto a suscitare la guerra civile ed a portare la devastazione, il saccheggio e la strage, contemplato dall'art. 252 del Codice penale, e punibile nella specie a senso dell'ultima parte dell'articolo stesso, essendosi ottenuto l'intento, perchè essi non potevano ignorare quali dovevano essere le conseguenze dell'odio che avevano seminato fra le varie classi sociali, epperciò è da ritenersi che essi le abbiano volute, e sono quindi da considerarsi come cooperatori immediati e come tali penalmente responsabili.

Ma per quanto riguarda il Morgari la sua colpabilità non può ritenersi accertata, sebbene il modo col quale si è clandestinamente introdotto in città, darebbe a dubitare sul vero scopo della sua venuta.

PER QUESTI MOTIVI

dichiara non essere sufficientemente accertata la colpabilità del Morgari per l'ascrittogli delitto.

Visti gli art. 485, 486 del Codice penale per l'esercito;

Lo assolve ed ordina che sia posto in libertà, ove non sia per altra causa detenuto.

Dichiara colpevoli gli accusati Turati Filippo e De Andreis Luigi del solo delitto di cui all'art. 252 del Codice penale in correlazione all'art. 63.

Visti altresì gli articoli 31, 33, 39 e 40 del Codice stesso,

Li condanna entrambi alla pena d'anni dodici di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, all'interdizione legale durante l'espiazione della pena e nelle spese di procedimento.

Milano, 1.º agosto 1898.

__La sentenza nel processo dei giornalisti.__

La sentenza, dopo avere ricordato i titoli di imputazione, continua:

Ritenuto che alla pubblica discussione, per la lettura dei documenti, per la deposizione dei testimoni e per le dichiarazioni degli accusati, sarebbe risultato in fatto: che da vario tempo si erano potentemente costituiti in Milano i partiti repubblicano e socialista, che crearono la Camera di Lavoro, vari circoli, associazioni e leghe di resistenza, le quali, sotto la parvenza del benessere materiale degli operai, dovevano nella mente dei capi essere per loro strumento da valersene in una propizia occasione.

Per far propaganda delle loro idee i partiti si valsero dei giornali l'Italia del Popolo e il Secolo ed altri ne crearono, quali la Lotta di Classe, Il Popolo Sovrano, la Critica Sociale e tutti uniti intrapresero un'attiva campagna sussidiata da frequenti conferenze, pubblicazioni di opuscoli e foglietti sovversivi, ispiranti negli operai e nei meno abbienti desiderii che non sarebbe possibile soddisfare e che lasciavano in essi sentimenti d'odio verso le classi più favorite dalla fortuna.

Che a questo odio concorrevano e lo attizzavano alcuni nuclei di anarchici i quali non perdevano occasione di pubblici comizi per portare in essi la nota del disordine e far propaganda delle loro teorie rivoluzionarie.

Che fra i giornali, l'Osservatore Cattolico, organo del partito clericale intransigente, per aspirazioni diverse da quelle di altri giornali, tendeva allo scopo di sconvolgere gli ordini politici, vagheggiante restaurazioni che allo Stato attuale sono impossibili.

Che tutti questi partiti, discordi nei principii, ma concordi nel fine, si valsero delle poco floride condizioni economiche del Regno per esagerare con fosche tinte le sofferenze del popolo, inviperendo l'odio fra le varie classi sociali.

Che i tumulti, avvenuti in varie parti del Regno, che si estesero a Piacenza e Pavia, agitarono profondamente la classe operaia in Milano, e nelle ore pomeridiane del 6 scorso maggio un fatto, che in altre circostanze sarebbe rimasto inavvertito, quale fu l'arresto di un operaio spacciatore di manifesti sovversivi, determinò i primi tumulti a Ponte Seveso e più tardi in via Napo Torriani, durante i quali vi furono morti e feriti.

Che quei moti repressi nella sera si ripeterono con maggior audacia ed organizzazione nei giorni 7, 8 e 9, estendendosi a tutta la città, mutandosi in aperta ribellione, la quale dovette essere repressa dalla forza armata con numerose vittime.

Che a disordini già cominciati e nel momento in cui si pubblicava il Regio Decreto che poneva, in istato d'assedio la Provincia di Milano, l'Italia del Popolo, il Secolo e l'Osservatore Cattolico, a vece di far esclusivamente sentire una parola di pacificazione, scrissero articoli violenti, esagerarono i fatti già avvenuti, per cui l'Autorità fu obbligata a sopprimerli, ordinando l'arresto dei direttori e di alcuni redattori.

Che è ben naturale che ora degli avvenuti disordini ogni partito cerchi declinare da sè la responsabilità, tentando far credere che quello non fu un moto rivoluzionario, ma solo teppistico al quale concorsero i bassi fondi sociali; ma se è giusto ammettere che quel moto fu improvviso e che i capi di ogni partito furono sorpresi dagli avvenimenti, è fuori di dubbio che colla loro propaganda ne furono la causa, riservandosi di trarre profitto da quanto poteva succedere, e di ciò ne sono prova il fatto che alcuni capi si trovarono nei luoghi dei disordini, il tentato convegno di repubblicani e socialisti negli uffici dell'Italia del Popolo mediante l'intromissione dell'avv. Garavaglia, e l'avvenuta riunione nella casa del socialista dott. Ceretti, entrambi rifugiati in Svizzera.

Che dall'esposizione generale dei fatti passando a stabilire le singole responsabilità, è accertato che i primi sette accusati, Callegari, Castelnuovo, Cerchiai, Gabrielli, Gruppiola, Baldini e Fraschini, nonostante le contrarie affermazioni di essi, sono tutti anarchici e non tralasciarono mai sino agli ultimi giorni di far propaganda delle loro teorie sovversive.

Il Callegari e il Castelnuovo poi presero parte ai disordini di via Napo Torriani ed a Porta Venezia e devono quindi rispondere anche di ciò: quanto all'Invernizzi nessuna prova si è raccolta a suo carico e deve quindi essere prosciolto.

Ritenuto, per quanto riguarda gli accusati Chiesi, Federici, Lallici, Cermenati, Seneci e Zavattari, che tutti ammettono di essere di fede repubblicana, ma varie sono le responsabilità e non tutti sono responsabili.

Cermenati fu arrestato quale reporter dell'Italia del Popolo ed il
Seneci quale amministratore dello stesso giornale.

È constatato che quest'ultimo non scrisse mai articoli di colore politico; solo si occupò della parte amministrativa e della réclame e quindi nessuna ingerenza aveva nella redazione. Nulla dell'opera sua risulta incriminabile.

Il Cermenati nella sua qualità di redattore giudiziario e teatrale fu solo occasionalmente per deficienza di personale mandato dal direttore a Piacenza e Pavia per riferire sui fatti che là avvenivano e consta che non prese parte alcuna in quelle manifestazioni.

Nella stessa sua qualità fu pure in Milano dove avvennero disordini nella sera del 6 e nel mattino del 7 e l'unico fatto che gli si addebitava era quello di essere l'autore di due cartelle trovate nell'ufficio del giornale, ma una sola fu riconosciuta di suo carattere, quella cioè che descriveva fatti avvenuti con tinte meno fosche, e non incriminabili. D'altronde lo scritto di quella cartella non fu stampato, nè pubblicato.

Lo Zavattari, sebbene appartenga al Comitato repubblicano, non aveva altro incarico che quello della contabilità.

Da circa tre anni cessò da ogni agitazione e propaganda; nei giorni in cui avvennero i disordini fu sempre al suo posto alla Stazione centrale, consigliando la calma, mentre una sua parola avrebbe potuto far insorgere i facchini da lui dipendenti sui quali aveva molto ascendente. A carico quindi dei tre sunnominati non si riscontra reato.

Prescindendo ora dall'esaminare quanto il Chiesi ha potuto fare quale direttore dell'Italia del Popolo, esso, al pari del Federici, è di fede repubblicana.

Si volle che nel mattina del 7 maggio fosse sul corso Garibaldi a conferire con varie persone, ma questa circostanza non risultò sufficientemente provata.

Che aspirazione sua e del Federici fosse quella di giungere, anche con un moto rivoluzionario, all'instaurazione di un governo repubblicano, è facile ammetterlo, ma le risultanze della pubblica discussione non hanno posto in essere a loro carico alcun elemento sicuro dal quale desumere che essi in unione con altri concertassero e stabilissero con determinati mezzi di commettere il reato di cui agli art. 118, 120 Codice penale (fatto diretto a cambiare la forma di governo e a far sorgere in armi); nè questo elemento può ravvisarsi nella forse tentata, ma non avvenuta riunione di repubblicani e socialisti all'Italia del Popolo.

Il Chiesi e il Romussi, repubblicano il primo, radicale il secondo, negli articoli che da lungo tempo scrivevano sui loro giornali, attaccavano continuamente le istituzioni e le autorità, eccitavano all'odio di classe e con la lunga serie non interrotta di quegli articoli crearono l'ambiente dal quale scaturirono i recenti disordini: la loro opera, nella quale si mantennero sino alla soppressione dei loro giornali, costituisce il fatto materiale diretto a suscitare la guerra civile ed a portare la devastazione ed il saccheggio, come pur troppo avvenne, sebbene ciò non fosse in quel momento da essi desiderato e sia avvenuto per cause indipendenti dalla loro volontà.

Escluso un previo concerto tra il Chiesi ed il Federici ed altri, questi non può essere chiamato a rispondere del reato di cui all'art. 134 Codice penale, in correlazione agli articoli 118 e 120, ma solo di istigazione a delinquere commessa mediante discorsi e pubbliche conferenze, nelle quali espresse concetti che tendevano a sconvolgere gli attuali ordinamenti politici, mantenendosi in questo stato di propaganda sino al suo arresto, come emerse dalle lettere a lui sequestrate, le quali rivelano che anche in quei giorni era atteso in altre città per conferenze repubblicane, e dal fatto ancora della sua presenza negli uffici di redazione dell'Italia del Popolo nello scorso 7 maggio.

E dello stesso reato deve rispondere anche il prof. Lallici pel fatto della costituzione del Circolo Adriatico Orientale d'indole prettamente repubblicana e per discorsi in pubbliche riunioni.

Non regge l'eccezione pregiudiziale da lui sollevata d'essere egli pei fatti stessi colpito da un Decreto di sfratto, poichè un provvedimento di P. S. non può avere effetto di escludere la competenza del Tribunale a conoscere dei fatti stessi.

Ritenuto, per quanto riguarda l'Oppizio, che egli, designato quale pericoloso socialista, fu arrestato in mezzo ai tumulti e scrisse nella sera del 6 il suo testamento dal quale risulta che scendeva in piazza, e devesi quindi ritenere che abbia preso parte ai disordini di P. Venezia e d'altre località, cade quindi sotto le sanzioni degli art. 196, 247 Cod. penale.

Ritenuto in ordine a Lazzari, Gatti, Ghiglione, Valera, Valsecchi e signora Kuliscioff che tutti appartengono alla parte militante più attiva del socialismo, che tutti sono propagandisti e da molto tempo non hanno trascurato occasione di riunioni e conferenze per eccitare gli operai e, per parte della signora Kuliscioff, le operaie a premunirsi contro i loro padroni, eccitando l'odio di classe, preparando il terreno alla rivolta, continuando nell'opera loro fino a che la rivolta scoppiò e della quale devono quindi ritenersi in varia misura istigatori.

Quanto al Del Vecchio nessuna prova è sorta a suo carico e deve essere assolto.

Osservato per ultimo a riguardo di don Albertario che gli articoli del giornale da lui diretto gareggiavano cogli altri di violenza così da attaccare con sottile ironia la Monarchia e le istituzioni, seminando l'odio di classe fra contadini e padroni e fra le altre classi sociali e distogliendo buona parte del clero da quell'opera di pacificazione che per la sua missione sarebbe destinato a compiere, costituendo in tal modo un fomite alla rivolta anche con articoli violenti, quando questa era già scoppiata.

Ritenuto che da quanto sopra è detto, essendo accertato che causa unica dei torbidi avvenuti in questa città fu l'opera di propaganda e sobillazione fattasi nei modi sovra indicati dagli odierni accusati, i medesimi devono tutti essere giudicati da questo Tribunale di Guerra che, istituito per giudicare i rivoltosi, è competente a conoscere tutti i fatti anteriori alla proclamazione dello stato d'assedio, i quali abbiano correlazione coi disordini avvenuti ed abbiano ai medesimi dato causa in qualunque modo e con qualsiasi mezzo siano stati commessi.

PER QUESTI MOTIVI

dichiara colpevoli Chiesi Gustavo e Romussi Carlo del delitto di cui agli art. 64, 252 e 246 Codice penale.

Don Albertario Davide del delitto di cui agli art. 246, 247.

Callegari e Castelnuovo del delitto di cui agli art. 252 e 248, tenendo conto dell'età inferiore agli anni 18 pel Callegari ed inferiore ai 21 pel Castelnuovo, ammettendo per quest'ultimo le attenuanti.

Cerchiai, Gabrielli, Gruppiola, Baldini e Fraschini del delitto di cui all'art. 248.

Oppizio del delitto di cui agli art. 190 e 249.

Federici, Lallici, Lazzari, Valera, Valsecchi, Kuliscioff del delitto di cui agli art, 246 e 247.

Dichiara non costituire reato i fatti portati a carico di Zavattari,
Seneci e Cermenati e non provata la reità di Invernizzi e Del Vecchio.

CONDANNA

Callegari Sante, anni 1 e 6 mesi di detenzione da scontarsi in una casa di correzione—Castelnuovo Umberto, anni 2 e mesi 1 di reclusione—Cerchiai Alessandro, anni 3 di reclusione e 3 di sorveglianza—Gabrielli Alfredo, 10 mesi di reclusione—Gruppiola Francesco, 1 anno di reclusione e 3 di sorveglianza—Baldini Domenico, anni 3 di reclusione—Fraschini Giuseppe, 1 anno di reclusione e 3 di sorveglianza—Chiesi Gustavo, direttore dell'Italia del Popolo, ad anni 6 di reclusione e 1 di sorveglianza—Federici avv. Bortolo, anni 1 di detenzione e L. 1000 di multa—Romussi avv. Carlo, direttore del Secolo, anni 4, mesi 2 di reclusione e anni 1 di sorveglianza—Lallici prof. Stefano, giorni 45 di detenzione e L. 50 di multa—Oppizio Angelo, anni 2 di reclusione e 2 anni di sorveglianza—Lazzari Costantino, anni 1 di detenzione e L. 300 di multa—Gatti Oreste, mesi 2 di detenzione e L. 50 di multa—Ghiglioni Achille, anni 1 di detenzione e L. 300 di multa—Valera Paolo, anni 1 e mesi 6 di detenzione e L. 500 di multa—Valsecchi Antonio, mesi 1 di detenzione e L. 50 di multa—Kuliscioff Anna, 2 anni di detenzione e L. 1000 di multa—Don Davide Albertario, direttore dell'Osservatorio Cattolico, 3 anni di detenzione e L. 1000 di multa.

ASSOLTI

Cermenati Ulisse—Del Vecchio Enrico—Invernizzi Pietro—Seneci
Arnaldo—Zavattari Pietro.

__I giornalisti che assistevano ai processi.__

Foto: 1 Prof. Nicoletti, stenografo 2 Tedeschi 3 L. L. Bevacqua 4 Avv. D. Archinti 5 Dott. Giuseppe Bolognesi 6 Italo Bianchi 7 Ing. Giovanni Biadene 8 Cav. Leopoldo Bignami 9 A. G. Bianchi.

I giornalisti non sono ammessi ai Tribunali militari che muniti della tessera, rilasciata dal Comando del terzo Corpo d'armata. Ne copio una per conservare il documento:

«Milano, addì 22 maggio 1898.

«Si autorizza il signor Tal dei Tali ad assistere alle udienze del Tribunale di Guerra nei locali di S. Angelo e Castello Sforzesco, con facoltà di redigere i resoconti dei processi.

«Si avverte che il resoconto dei processi dovrà essere puramente oggettivo¹ e sarà presentato per il visto al R. Commissariato, via Brera 15.

¹ L'essere oggettivo non voleva dire niente. La cancellatura veniva fatta tutte le volte che l'Autorità lo credeva conveniente. Potrei citare gli episodi delle cancellature.

«Una copia del giornale nel quale sarà stampato il resoconto dovrà essere spedita al R. Commissariato.

                                «Per il R. Commissario
                                «IL COLONNELLO RAGNI.»

Conosco quasi tutti i reporters al nostro processo. Il più vecchio è probabilmente Leopoldo Bignami, qui per la Stampa di Torino. Quando scriveva per il Pungolo di Leone Fortis era fegatoso e io lo chiamavo un latrinista della penna. Adesso mi pare si sia modificato. Non voglio offendere nessuno. Ma credo che il più illustre tra loro sia l'A. G. Bianchi, del Corriere della Sera. Da semplice reporter di fatti cittadini è diventato uno dei più distinti scrittori di criminologia. Tra i molti suoi libri, conosco il Mondo criminale italiano, scritto con Ferrero e Sighele, e il Romanzo di un delinquente nato. Pochi possono aspirare al suo avvenire. La bontà di Giuseppe Bolognesi è proverbiale. È la testa dell'Associazione lombarda dei giornalisti. Le ha dedicato più tempo che tutti i giornalisti presi assieme. Se volete vederlo in collera, toccategli la sua istituzione. È cronista della Lombardia (ora del Tempo) da quindici anni. Qui al Tribunale rappresenta il Popolo Romano, L'Adige, il Resto del Carlino e la Nazione. Non conosco l'avv. cav. Usigli della Gazzetta di Venezia, il giornale più forcaiolo d'Italia. Mi si dice che l'Usigli, assistendo al processo, da mangia-giornalisti sia diventato uno dei difensori degli imputati. Non ho modo di constatarlo. Vedo là in fondo il professore di stenografia Nicoletti che lavora senza alzare gli occhi. È lui che stenografa, parola per parola, tutto il processo per i Tribunali divenuti quotidiani. Il redattore capo della Perseveranza è il cav. Bignami. Non so se sia lui che abbia scritto certi trafiletti e certi articoli della Perseveranza. So che qui è considerato un lebbroso. Non c'è alcuno, neppure l'Usigli o il Moschino della Tribuna, che gli rivolga la parola. Lo si punisce coll'ostracismo. Gli è toccato sedere al tavolo dell'ispettore di questura. Se non è lui l'autore delle delazioni, doveva rinunciare al posto. Diamine, non si vive di solo pane. Mi dicono che il resoconto della Perseveranza lo faccia l'avv. Coridori e con una fedeltà che non trovate nelle altre colonne del giornale. Il secondo dei fotografati è il Tedeschi della Provincia di Brescia. L'Italo Bianchi è il cronista della Sera. È alto e magro più di ogni altro cronista milanese e lo si vede in mezzo agli avvenimenti cittadini come un affamato di notizie. È buono e gli si vuol bene. Ci sono parecchi caricaturisti, ma non conosco che il Biadene. È un ingegnere che si è innamorato del giornalismo. Ha la matita pronta e la penna che illustra le sue illustrazioni. Come caricaturista non ha ancora trovato la testa che lo faccia diventare celebre. Gould, caricaturando quella di Gladstone, è diventato famoso in una mattina. Non ricordo il nome dell'artista che è diventato mondiale coi tre capelli di Bismark. Al processo il Biadene rappresenta i Tribunali.

Vedo anche l'avv. Valdata, direttore di questo giornale. È il giornalista più coraggioso di queste giornate bestiali. È stato chiamato al Comando più d'una volta ed è stato minacciato della soppressione e del bavaglio due volte. Ma il direttore non è scappato e i Tribunali, fino all'ultimo momento della serie quotidiana e, più tardi, nei numeri della serie settimanale, non hanno mai cessato di mantenersi indipendenti e di far sentire ai Tribunali di guerra che razza di zibaldoni erano le loro sentenze.

La Lombardia mi ha fatto l'effetto di una vecchia sdentata. Non ha più sangue indosso. Il suo redattore al processo è l'avv. Desiderio Archinti. Quegli che gli è vicino è l'avv. Raspi, redattore del Commercio. So che è liberale. Ma non so dire l'atteggiamento del suo giornale, perchè non ho modo di leggerlo. L'altro in fondo è il Bevacqua, un buon ragazzo, ma un po' presuntuoso. Rappresenta la Provincia di Como ed è il critico teatrale del giornale La Sera.

INDICE.

Pag.

  L'inverniciatore descrive il camerotto di S Fedele 7
  Il soccorso 23
  Il diario di un mese di Cellulare 35
  Noterelle del mio amico di matricola, maggio 1898 60
  La pagina intima del processo dei giornalisti 76
  In vagone cellulare: viaggio notturno da Milano a Finalborgo
          la notte dal 24 al 25 giugno 1898 89
  L'arrivo al Reclusorio 97
  Filippo Turati 103
  Il cubicolo 116
  Nella quinta camerata 124
  Nequizie regolamentari—I pasti e le cimici 139
  Don Davide Albertario 147
  I forzati 154
  Un fuori! fuori! 161
  L'influenza dei sanguinari—I Frezza e i «mozzi» nostri amici 168
  Callegari Sante 174
  Studio galeottesco 179
  Il condannato in traduzione 191
  Anna Kuliscioff 203
  Gli ultimi giorni dei deputati e dei giornalisti al Cellulare 209
  La «colomba» e il linguaggio dei detenuti 219
  Note autobiografiche del deputato Luigi De Andreis 226
  Rivelazioni di un ergastolano 237
  Carlo Romussi 270
  La tristezza di Natale 280
  Gustavo Chiesi 291
  A Finalborgo studio degli altri galeotti 297
  Fra i passatempi dei condannati 307
  Costantino Lazzari 310
  Si muore di fame 317
  Achille Ghiglioni 342
  Io e Federici ritorniamo a Finalborgo 344
  I lavoratori della quinta camerata 349
  Ulisse Cermenati 365
  L'arresto dei redattori dell'Italia del Popolo
          narrato da un testimonio 368
  Al Tribunale di Guerra—Il primo Atto d'accusa, senza commenti 381
  Il secondo Atto d'accusa 392
  La sentenza contro i deputati 400
  La sentenza nel processo dei giornalisti 406
  I giornalisti che assistevano ai processi 412

Proprietà letteraria ed artistica riservata a sensi di legge.

ILLUSTRAZIONI

  … si aggruppavano alle altre aggruppate nel largo in faccia
      al bastione. (pag. 24). 25

  … per liberarmi dal camiciotto che mi dava un tormento
      spasmodico … (pag. 67). 69

  …. si veniva spinti e incassati dal carabiniere che aspettava
       il condannato dietro l'uscio. (pag. 90). 91

[Filippo Turati] 105

CARLO ROMUSSI. 137

[Don Davide Albertario] 149

…ha l'aria di un uomo impagliato (pag. 182). 183

Passammo tra i commenti degli spettatori e filammo, in linea, per tre o quattrocento passi, fin dove ci aspettavano i veicoli. (Pag. 198). 199

[Anna Kuliscioff] 205

LUIGI DE ANDREIS. 216

[1712 - Luigi De Andreis] 229

… non vedevamo che le onde del mare che venivano a frangersi sui vetri dei buchi rotondi. (pag. 245). 247

—Basta, basta, Signore Iddio! (pag. 253). 255

[Carlo Romussi] 271

[Gustavo Chiesi] 293

[Costantino Lazzari] 311

Sembriamo tanti nevrastenici. La nostra conversazione è diventata monosillabica…. (pag. 332). 333

[Achille Ghiglioni] 342

… Chiesi, Federici e don Davide—il primo in mezzo e gli altri due in faccia—avevano una lampada a petrolio… (pag. 360). 363

[Ullisse Cermenati] 366

[I giornalisti che assistevano ai processi] 412

End of Project Gutenberg's Dal cellulare a Finalborgo, by Paolo Valera