The Project Gutenberg eBook of La favorita del Mahdi

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Title: La favorita del Mahdi

Author: Emilio Salgari

Release date: April 26, 2008 [eBook #25180]
Most recently updated: January 3, 2021

Language: Italian

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA FAVORITA DEL MAHDI ***

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EMILIO SALGARI

LA

FAVORITA DEL MAHDI

PARTE PRIMA

Greci e Arabi

PARTE SECONDA

L'insurrezione del Sudan

PARTE TERZA

Il Mahdi

MILANO

CASA EDITRICE BIETTI

1911

PROPRIETÀ LETTERARIA

Tipografia Casa Editrice Bietti—Milano

LA FAVORITA DEL MAHDI

PARTE PRIMA.

Greci e Arabi

CAPITOLO I.—Il Fidanzato di Elenka.

Era la sera del 4 Settembre 1883. Il sole equatoriale, rosso rosso, scendeva rapidamente verso le aride e dirupate montagne di Mantara, illuminando vagamente le grandi foreste di palme e di tamarindi e le coniche capanne di Machmudiech, povero villaggio sudanese, situato sulla riva destra del maestoso Bahr-el-Abiad o Nilo Bianco, a meno di quaranta miglia a sud di Chartum.

Da ogni parte dell'orizzonte accorrevano bande di superbe antilopi e di sciacalli che venivano a dissetarsi sulle poetiche sponde del fiume, e nell'aria svolazzavano arditamente schiere di fenicotteri dalle penne rosee e le estremità delle ali fiammeggianti, schiere di ibis sacre che calavan sulle foglie arrotondate e galleggianti del loto, e file di grossi pellicani che s'appiattavano fra i canneti, cacciando i pesci.

Sul molo e per le viuzze del villaggio, Negri, Arabi e Turchi, andavano e venivano rumorosamente, gli uni affacendati a scaricare cammelli e asini, altri a condurre mandrie di buoi tigrati e di cammelle ai pozzi, e altri ancora a tirar a secco le barche o a disarmarle. Per ogni dove si udivano monotone canzoni accompagnate dal suono del tamburello, che gli echi delle foreste ripercotevano: un salmodiare di versetti dell'Alcorano, un muggito di animali, uno sbattere di remi, un chiamarsi, un salutarsi e al disopra di tutti quei rumori la voce nasale del muezzin che dall'alto dell'esile minareto, colla faccia rivolta verso la Mecca, gridava:

La Allàh ila Allàh (Non è Dio fuor di Dio) Mahàmmed rosul Allàh (Maometto è l'apostolo di Dio).

La preghiera del muezzin era appena terminata, quando una barca partita dalla riva opposta, venne ad arenarsi dinanzi al Machmudiech. Un ufficiale egiziano che era a prua, scambiate alcune parole coi battellieri e gettati loro alcuni parà (centesimi) saltò lestamente a terra salendo la erta sponda.

Era questi un bel giovinotto sui venticinque o ventisei anni, alto di statura, di forme snelle, eleganti ed insieme vigorose. Il colorito della sua pelle era d'un bronzo alquanto carico con riflessi rossigni, la faccia piacevolissima, maschia, ardita, con due occhi che brillavano d'un fuoco selvaggio e d'indomita fierezza e lunghi baffi neri. Appena ch'ebbe posto piede sul molo, guardò a dritta e a manca come cercasse qualcuno, poi si avvicinò ad un soldato egiziano, che deposto il fucile contro un muricciuolo diroccato, filava del canape nè più nè meno di una donna:

—Hai veduto il luogotenente Notis Cayma? gli chiese con voce brusca.

—Mi sembra d'averlo scorto, rispose il soldato, pigliando rapidamente il fucile e salutando.

—Dov'è andato?

—L'ignoro.

L'ufficiale stette alcuni istanti silenzioso guardando la corrente del fiume e le barche che la solcavano, poi tornò a chiedere:

—Dove trovasi il tenente Oòseir?

—È seduto laggiù sotto quella rekuba (tettoia) che beve il narghiléh[1].

[1] Bere il narghiléh significa fumare col narghiléh, ossia colla pipa.

L'ufficiale girò sui talloni e si allontanò, camminando colla libera eleganza degli animali selvaggi e colla nobiltà che è tutta propria delle nazioni arabe. Attraversò con fatica le linee dei cammelli inginocchiati sulla via carichi di gomma, d'avorio e di maiz, e si arrestò dinanzi ad una rekuba sotto la quale fumava beatamente un basci-bozuk.

Es-selàm âlekom, Oòseir (la salute sia con te) disse l'ufficiale.

Il basci-bozuk, che volgevagli le spalle, si alzò prontamente, fissando su lui due occhi verdi come quelli d'una iena.

—Ah! sei tu Abd-el-Kerim! esclamò. Come mai ti trovi qui? Hai da raccontarmi qualche battaglia avvenuta con quei cani del Mahdi?

—Niente affatto, Oòseir, rispose Abd-el-Kerim. Cerco il greco Notis.

—Tuo cognato?

—Non corriamo tanto, amico mio, disse Abd-el-Kerim, sorridendo. Non lo è ancora.

—Ma lo diverrà.

—Se Allàh (Dio) e il Profeta lo vorranno… L'hai veduto tu, Notis?

—È arrivato dieci minuti or sono, e sorseggia il caffè laggiù in quel tugul.

—Andiamo da lui.

L'arabo e il basci-bozuk, l'uno a fianco dell'altro presero la via che conduceva al caffè del villaggio.

—Come sei con Elenka? chiese Oòseir.

—Sempre in buona relazione, rispose Abd-el Kerim, con tono alquanto freddo.

—Sei un uomo assai fortunato.

—Può essere.

—La sorella di Notis è una ragazza seducente, la più bella che si possa trovare in tutta la Nubia e in tutto il Sudan, tanto ammirabile che tenterebbe anche il Profeta se fosse ancora vivo.

—Sì, bella, superba, forse troppo superba e troppo terribile.

—E l'ami molto, tu?

—Come può amare un arabo.

—È troppo poco Abd-el-Kerim.

—A me sembra sufficiente, Oòseir.

—Mi sembri un po' freddo, oggi. Una volta parlavi con più fuoco. C'è pericolo che la lontananza e la vita del campo abbiano a spezzare il nodo?

—Non lo credo, rispose l'arabo quasi di cattivo umore. Elenka è sempre radicata nel mio cuore. Eppoi chi ardirebbe romperla con quella creatura? È una greca, ma una greca terribile.

—Deve esserti costato assai, conquistare il cuore di quella superba donna che disprezzò l'amore di pascià e di mudir (governatori)

—Per conquistarla mi fece soffrire due anni, e soffrire a segno che credetti d'impazzire. Mi disprezzò, mi derise atrocemente, mi dilaniò il cuore, poi ebbe pietà di me, si mostrò meno superba e meno feroce e finì per amarmi. Aveva vinto la greca, ma assai a caro prezzo.

L'arabo si passò la mano sulla fronte e sospirò.

—Ecco il caffè, disse Oòseir, arrestandosi.

Erano giunti dinanzi ad una grande capanna colle mura di mattoni cotti al sole, diroccate e col tetto acuminato coperto di ghérsc o paglia durissima.

Vi entrarono. Era occupato da una ventina di persone, parte Arabi, parte Nubiani e parte Sennaresi avvolti, nonostante il caldo, in candide farde o in grandi taub (mantelli) orlati di rosso. Alcuni erano sdraiati su tappeti scolorati e sfilacciati e fumavano silenziosamente nei loro scibouk di terra cotta e dorata; altri erano seduti su panche primitive o su vasi rovesciati e bevevano il merissak, specie di birra fatta con maiz fermentato, o centellinavano con voluttà sibaritica del vero moka fumante racchiuso in fiugiàn o vasetti senza manico.

In un canto, su di un angareb coperto di stuoie dipinte, stava sdraiato un greco di media statura dalla pelle chiara, occhi castani e grandi e una gran barba nera e ispida. Appena che scorse i due ufficiali scattò in piedi, movendo loro incontro.

—Olà! Abd-el-Kerim! gridò, gaiamente.

—Ah! sei tu, Notis! esclamò l'arabo stringendo vigorosamente la mano che l'altro gli tendeva.

—Avevo paura che tu non mi venissi incontro. Ira di Dio! Posso chiamarmi ancora fortunato.

—Avesti torto di supporre che non sarei venuto. Quanto tempo è che sei arrivato?

—Può essere una mezz'ora che ho lasciata la dahabiad (barca) di quel birbone d'Ibrahim. Ah! che viaggio noioso, amico mio! Sono arrostito nè più nè meno d'un montone. Come va, Oòseir?

—Come la può andare ad un uomo che fuma ed ozia tutto il giorno, rispose il basci-bozuk.

—Voi nei villaggi state sempre bene. Ehi! wadgi (caffettiere) portaci un vaso di merissak.

Il basci-bozuk e l'arabo si sedettero e tracannarono parecchie tazze di birra recate dal wadgi.

—Ebbene, Abd-el-Kerim, chiese Notis, come mai non mi chiedi nulla di mia sorella Elenka? Avresti, per caso, dimenticata la fidanzata?

L'arabo trasalì leggermente e sulla sua fronte si disegnò una ruga.

—Ah! perdona, Notis, rispose egli. La tua presenza, la gioia di rivederti, me l'avevano fatta dimenticare. Come sta la mia bella fidanzata?

—Ti porto, innanzi tutto, un monte di saluti e una botte di proteste amorose, disse Notis ridendo. La piccina sta sempre bene, ma smania dalla voglia di rivederti e ha sempre paura che tu la dimentichi o che una disgraziata palla ti colga.

—Ha torto di temere che io l'abbandoni. Dal primo dì che la vidi sempre l'amai e spero ritornare da lei fedele.

—Tu sai già come sono le donne che amano, e quando queste donne sono greche. Sono sempre gelose di tutti e di tutto, gelose persino del sole, dell'aria, della luce.

—Povera Elenka, mormorò l'arabo. Se il Profeta mi conserverà in vita, la farò… felice.

La sua fronte s'abbuiò e la fiamma vivace che brillavagli negli occhi si spense.

—Hai qualche funesto presentimento, Abd-el-Kerim? chiese il greco celiando.

—No, e spero di non averne mai. Sono fatalista come quelli della mia razza, e ciò basta per tranquillarmi anche nei più terribili momenti.

«Cambiando discorso, che si fa a Hossanieh?

—Si ozia sempre. Dhafar pascià senza i rinforzi che devono venire da Chartum non si metterà in campagna. Manchiamo totalmente di artiglierie e tu sai che senza queste non si possono affrontare i ribelli.

—Temo che i rinforzi arrivino molto tardi. La spedizione di Hicks pascià costò dodici milioni ed ora le casse sono vuote. E che nuove dal Sudan?

—Sempre tristi, Notis. Il Mahdi è più forte che mai e non so come lo vinceremo.

—Bah! fe' il greco, alzando le spalle. Non dò due mesi di vita a quel falso profeta. Aspetta che veniamo alle mani colle sue orde e tu le vedrai squagliarsi come neve al sole.

—Non illudiamoci, Notis, e non disprezziamo troppo quegli insorti che l'anno scorso hanno schiacciato completamente 8000 Egiziani di Yussif pascià e che hanno espugnato El-Obeid. Credi a me, abbiamo un osso duro da rodere.

—Ma coi cannoni e coi remingtons lo si roderà.

—Gli Egiziani hanno paura del Mahdi e dei suoi terribili guerrieri.

—Eh! via! Siamo in molti e bene armati.

—Ma disorganizzati. Allàh non voglia che noi abbiamo ad essere vinti: se veniamo rotti, neppure uno rientrerà in Chartum, te lo dico io, Notis. Non si darà quartiere a nessuno, nemmeno ai feriti.

—Abbiamo Hicks pascià che ci guida, Abd-el-Kerim.

—Peggio che peggio. Questi Inglesi non sono ben visti dagli Egiziani, la maggior parte dei quali ben si ricordano del bombardamento d'Alessandria e dell'eroico Arabi pascià. E poi, che conoscenza hanno del Sudan, gl'Inglesi?

—E Aladin pascià, non lo conti?

—Aladin è un comandante sottoposto agli ordini dell'inglese e dovrà curvare il capo per forza.

—A ogni modo si vedrà.

—E a Chartum che si dice della insurrezione? chiese Oòseir.

—Si ha paura che non la si possa domare, rispose Notis. Eppoi vi sono molti abitanti che parteggiano per il Mahdi, credendo realmente che egli sia l'inviato di Dio.

—Di già?

—Eh! fe' il greco, alzando una mano e facendo schioccar le dita. Vi sono in città dei partigiani del ribelle, i quali fanno proseliti su larga scala.

—Quel cane di Mohamed Ahmed è fortunato.

—E anche un grand'uomo, disse Abd-el-Kerim.

—Zitto, dissero improvvisamente alcuni arabi.

—Che c'è? chiese Notis, stizzito da quell'intimazione.

—Udite?…

Al di fuori si suonava un cembalo e tratto tratto s'udivano fragorosi battimani uniti alle grida di:

—Viva l'almea!

—Che succede? domando Oòseir, alzandosi.

—Pare che s'avvicini qualche almea, rispose Abd-el-Kerim. Stiamo qui che verrà a danzare.

—Se la popolazione applaude, deve essere una celebre almea, osservò
Notis.

—È Fathma, la più bella danzatrice del Sudan, disse un arabo.

Il suono del cembalo s'avvicinava e si arrestò dinanzi alla porta del caffè. S'udì un fruscio di vesti di seta e un istante dopo una donna entrava nella stanza. I tre ufficiali saltarono in piedi mandando un grido d'ammirazione e di sorpresa.

La donna che entrava era una creatura di bellezza straordinaria, irresistibile, una di quelle creature nelle quali sembra che Dio abbia voluto dare un saggio della forza di bellezza, di seduzione e di incanto a cui può arrivare una donna. Poteva avere appena vent'anni, alta, robusta, vivace, dalle forme voluttuosamente tondeggianti e stupendamente sviluppate.

Era di colorito bruno, ma di un bruno caldo, con una testa superba, con grandi occhi neri, tagliati a mandorla, vivi, scintillanti come neri diamanti, sormontati da folte sopracciglia arcuate, labbra coralline, carnose, procaci che lasciavan vedere i candidi denti, che parevan purissime perle. Dal rosso tarbusch scendevano fluttuanti e profumati capelli che ricadevano come vellutato mantello sulle robuste spalle, tutti cosparsi di monetucce d'oro.

Vestiva una leggera gonnella di seta azzurra, ornata di frange d'oro, stretta mollemente sotto il petto da una ricca cintura tempestata di stellette d'argento e scendente fino ai calzoncini bianchi che le coprivano le gambe; un giubbettino rosso le racchiudeva armonicamente il turgido seno, e nascondeva i nudi e piccoli piedi in babbuccie di marocchino giallo. Gran copia di aurei cerchietti d'oro le rifulgevan attorno alle ignude, bellissime e tondeggianti braccia.

—Ah! l'ammirabile almea! esclamò Notis.

Infatti quella stupenda donna era un'almea araba. Le almee, sono danzatrici e cantanti sparse per l'Egitto e pel Sudan, che per la loro coltura e studiata grazia si considerano come il fiore delle donne egiziane. Esse conoscono le regole della poesia e sanno improvvisare e comporre canzonette e balli a seconda delle circostanze e prendono parte a tutte le adunanze di giocondità e a tutti i festini in cui esse sono sempre il principale ornamento. Formano la delizia delle giovani donne degli harem, alle quali insegnano tutte le moal o elegie che sanno, raccontano storie galanti o danno lezioni di ballo; assistono alle pompe matrimoniali precedendo il corteggio della sposa e seguono persino i funerali cantando moal lamentevoli, piangendo e dimostrando un tal dolore che qualcuno potrebbe credere che facciano ciò da senno e di cuore anzichè indotte dal prezzo della mercede.

L'almea, entrata nel caffè, dopo di aver salutato gli astanti con un sorriso affascinante e d'aver dispensato baci colla punta delle sue manine, s'avvolse in un azzurro velo.

Quasi subito entrò un giovane schiavo munito di un cembalo. Egli si assise in un canto e, dopo di aver suonato per qualche minuto, gridò:

—Nahbè ia (ecco l'ape!).

L'almea che aveva di già cominciato a danzare con brevi passi e flessuosi molleggiamenti sui fianchi facendo ondeggiare graziosamente il velo e tintinnare i cerchietti d'oro delle braccia, a quel grido si era subitamente arrestata, guardandosi attorno con profondo terrore.

—Ah! esclamò Notis. Eseguisce la danza dell'ape. Sta attento,
Abd-el-Kerim, che merita di essere veduta.

L'arabo non lo udì nemmeno. Colla testa stretta fra le mani e i gomiti appoggiati sul tavolo, egli fissava l'almea con due occhi fiammeggianti. La sua faccia era visibilmente alterata, le sue labbra di quando in quando fremevano e grosse gocce di sudore scorrevangli sull'ampia fronte. Non respirava quasi più; lo si avrebbe detto pietrificato.

L'almea s'era messa allora ad agitare le braccia come cercasse di respingere l'ape che voleva punzecchiarla, atteggiando il suo superbo volto ad una grande angoscia, ed agitava il leggero velo azzurro con una varietà di movenze voluttuose. Talvolta si soffermava come spossata e i suoi occhi, che scintillavano d'un fuoco strano, selvaggio, si portavano su Abd-el-Kerim, il quale trasaliva come gli penetrassero in fondo all'anima.

La lotta contro la supposta ape durò per un buon quarto d'ora animata dall'incessante suono del cembalo, poi l'almea s'arrestò angosciata e smarrita, gettando un grido acuto di dolore. L'ape apparentemente le era penetrata fra le vesti e le faceva sentire l'acuto suo pungiglione.

Essa cercò di liberarsene, poi con movenze agili, vertiginose si mise a rigirare su sè stessa, abbandonandosi spossata fra le braccia dello schiavo.

Gli astanti scoppiarono in un grande applauso.

—Ira di Dio! esclamò il greco, battendo fortemente il pugno sul tavolo. Non ho mai visto una donna simile! È superba come un urì!

Abd-el-Kerim rialzò il capo, le sue mani si raggrinzarono rigando colle unghie la pelle dell'angareb e lanciò una torva occhiata sul greco.

—Lui! mormorò.

L'almea si era avvicinata a loro tendendo le mani. Abd-el-Kerim trasse una manata di piastre e gliele porse. Il sorriso che ne ebbe lo sconvolse.

Notis li guardò entrambi con sorpresa e sentì una ondata di sangue montargli alla testa nel sorprendere lo sguardo che si scambiarono e al sospetto che gli balenò in mente.

—Come ti chiami bell'almea? chiese egli sardonicamente.

—Fathma, rispose con nobile alterigia, la danzatrice.

—Tu sei bella! esclamò Oòseir, alzandosi. Tanto bella che io voglio posare le mie labbra sulle tue.

L'almea si trasse indietro. I suoi occhi s'infiammarono per l'ira e lo sdegno.

—Non toccarmi, diss'ella con tono di minaccia. Vi sono pugnali capaci di forare il petto anche a un basci-bozuk.

Volse bruscamente le spalle ed uscì dal caffè seguita dallo schiavo. Oòseir fe' atto di slanciarsi dietro a lei, ma due mani di ferro lo curvarono sull'angareb.

—Non muoverti, gli disse Abd-el-Kerim gravemente.

—Che ti salta in capo? chiese il basci-bozuk irritato.

—Non muoverti, ti ripeto.

—È forse la tua amante?

Il greco si levò coi capelli irti, guardando fissamente l'arabo.

—Tua amante! esclamò con voce strozzata. Ed Elenka? E mia sorella?

—Non aver paura, Notis, disse Abd-el-Kerim, pacatamente. È la prima volta che io vedo quella donna e sono incapace di tradire la mia fidanzata.

—Posso crederti?

—Lo devi credere.

—E allora, che importa a te se io voglio baciarla? chiese Oòseir.

L'arabo si tacque, non sapendo certamente che cosa rispondere.

—Hai forse paura che quell'almea mi pugnali.

—Ne sarebbe capace, disse un sennarese, che fumava lì vicino.

—La conosci tu? chiese Notis, con vivacità. Dove abita?

—Non so chi sia. È giunta a Machmudiech due giorni fa e si è subito fatta temere. Un barcaiuolo che voleva abbracciarla fu da essa pugnalato e precipitato nel Bahr-el-Abiad.

—È una jena quest'almea?

—Forse peggio, rispose il sennarese.

—E dove credi che sia andata ora? domandò Oòseir.

—Ho veduto di fuori il suo cammello. Deve essere partita in direzione di Hossanieh, giacchè parlava di volersi recare al campo egiziano.

Abd-el-Kerim che aveva prestato molta attenzione a quelle risposte, si levò in piedi come spinto da una molla.

—È notte diss'egli, con voce leggermente alterata.

—E che importa! esclamò Oòseir.

—Abbiamo da percorrere molta via prima di giungere a Hossanieh.

—Non avete dei mahari?

—I mahari non impediscono alle fiere di uscire dai loro covi.
Andiamo, Notis, andiamo.

—Hai ragione, Abd-el-Kerim, rispose il greco alzandosi.

Gettarono una manata di parà al wadgi, cinsero le scimitarre che avevano deposte in un angolo e strinsero la mano al basci-bozuk.

—Addio, Oòseir, disse l'arabo.

—Buona fortuna, amici miei, rispose il basci-bozuk. Che Allàh e il
Profeta tengano lontani i leoni e le iene.

Arabo e greco salutarono gli astanti e uscirono dal caffè.

CAPITOLO II.—L'almea.

Le tenebre allora erano calate. Al nord, sulla cima delle creste del monte Auli, appariva la luna la quale vedevasi spandere un incerto chiarore al di sopra delle oscure boscaglie del Gemanje, e in cielo salivano le stelle che riflettevansi vagamente sull'azzurra e placida corrente del Bahr-el-Abiad. Alcuni Sennaresi ed alcuni Arabi gironzavano ancora o sedevano in mezzo alle vie o a ridosso ai muricciuoli delle capanne, fumando nel scibouk o nei narghilèh.

I due ufficiali scesero verso la riva presso la quale galeggiava una dahabiad a sei remi montata da alcuni barcaiuoli. Vi entrarono e si fecero traghettare alla sponda opposta, sbarcando ai piedi delle foreste, i cui rami giganteschi e fronzuti si curvavano graziosamente sulle acque.

—Dove sono i cammelli? chiese Notis.

—A cinquecento passi da qui, rispose Abd-el-Kerim, distrattamente.

—Hai preso con te il mio schiavo Takir?

—No, l'ho lasciato al campo onde preparasse la tua tenda.

—Allora chi li guarda? Se tu gli hai lasciati soli non so se li troveremo ancora. Gli Arabi, amico mio, non sono fiori di galantuomini.

—Non aver timori, Notis. Gli ho affidati ad un sudanese di mia conoscenza.

S'arrampicarono sulla riva che veniva giù quasi a picco, tutta cosparsa di canneti e di enormi radici che s'intrecciavano confusamente le une colle altre e s'internarono sotto le oscure vôlte della foresta. Notis prese un sentieruzzo appena appena visibile, ed Abd-el-Kerim gli si mise dietro in silenzio e colla fronte aggrottata, come se un grave pensiero lo tormentasse.

Quanto il greco procedeva con passo spedito, altrettanto l'arabo camminava lento e come svogliato. Anzi quest'ultimo di tratto in tratto si fermava, voltavasi indietro e mirava con occhio triste e cupo le rive del fiume e i dintorni, tendendo attentamente l'orecchio.

Dopo una ventina di minuti, il greco scorse, semituffato fra le piante, una zeribak, specie di recinto formato da pali nei quali si radunano usualmente gli armenti per proteggerli contro gli assalti delle bestie feroci. Egli si arrestò, armando per precauzione il suo revolver.

—Olà, Abd-el-Kerim, dove siamo noi? chiese egli.

L'arabo che era lontano, non l'udì e per conseguenza non rispose. Notis si volse indietro e lo vide fermo in mezzo al sentiero che guardava fissamente le rive del Bahr-el-Abiad.

—Che può avere Abd-el-Kerim? mormorò egli. Poco fa, quando gli parlai di mia sorella era diventato gaio e pareva felice. Come ora è diventato triste? Si direbbe che ha lasciato qualche cosa a Machmudiech… si direbbe che s'allontana a malincuore.

Egli tornò indietro in punta di piedi e osservò minutamente il compagno. S'accorse che aveva gli occhi rivolti al villaggio e precisamente verso il caffè. Fece un gesto di sorpresa e fors'anco d'impazienza.

—Oh!… esclamò egli.

Uno strano lampo guizzò nei suoi neri occhi. Quasi nel medesimo istante Abd el-Kerim si volse. La sua faccia si alterò, atteggiandosi a meraviglia e a dispetto.

—Che vuoi, Notis? chiese egli colla maggior calma del mondo.

—Ho veduto una zeribak, rispose il greco con egual tranquillità.

—Non temere, che è quella del sudanese. Là vi sono i nostri mahari.

Notis non si mosse; aspettò che egli fosse vicino, poi gli chiese bruscamente.

—Che hai Abd-el-Kerim?

L'arabo lo guardò come cercasse leggergli negli occhi lo scopo di quella domanda.

—Tu guardavi fisso fisso Machmudiech, continuò Notis quasi distrattamente. Perchè?

—Bah! per curiosità.

—Ti dispiacerebbe per caso allontanarti da quel villaggio?

—Perchè, e l'arabo lo guardò ancor più attentamente e con sospetto.

—Non so, mi pareva…

—Non ho alcuna cosa che m'interessi a Machmudiech. Tiriamo innanzi,
Notis, che è tardi. Dobbiamo fare più di 40 miglia per giungere a
Hossanieh.

Essi si rimisero in cammino e giunsero vicini alla zeribak, in mezzo alla quale vedevansi sorgere due lunghe aste sostenenti uno stracciato vessillo egiziano.

Al primo fischio che mandò Abd-el-Kerim, un sudanese uscì, abbigliato con una semplice farda bianca gettata graziosamente su di una spalla e d'un tarabisc rosso sul capo.

—I mahari? chiese brevemente l'ufficiale.

—Sono pronti.

Entrarono nella zeribak, in mezzo alla quale stavano inginocchiati i due animali. Questi mahari o hadjin, meglio conosciuti per dromedari, sono cammelli riservati per le corse, docili come cani, più intelligenti dei cavalli, più sobri e più pazienti dei djemel o cammelli comuni, dal portamento nobile, altero, e che alla menoma pressione della guida legata all'anello incastrato nelle nari, vanno rapidi come il vento percorrendo persino settanta miglia al giorno. S'accontentano di un nulla, d'un pezzo di pane, d'un pugno d'orzo o di datteri o di un fastello d'erbe secche e spinose, e son felici quando l'arabo lascia a loro aspirare il fumo del scibouk prima che passi dalla cannuccia e doppiamente felici d'una parola affettuosa, d'una semplice carezza.

Il sudanese li aveva già insellati, accomodando sulla loro gobba una sella di pelle di montone cava nel mezzo e fornita dinanzi e di dietro di un pezzo di legno rotondo, posto orizzontalmente, che serve di appoggio al cavaliere, e appendendo ai loro fianchi i fucili remingtons, le borse di cuoio e le otri contenenti il cibo o l'acqua, viveri indispensabili in Africa, dove le città sono rarissime e i villaggi assai scarsi.

Nel mentre che il greco esaminava le cinghie della sua cavalcatura,
Abd-el-Kerim con un cenno impercettibile chiamava a sè il sudanese.

—Hai veduto passare alcuno? chiese rapidamente e sotto voce.

—Sì, disse il sudanese.

—Chi?

—Due persone su di un mahari dal mantello fosco.

—Erano?…

—L'ignoro, ma una pareami una donna.

Abd-el-Kerim sussultò. La sua faccia, che poco prima era tetra, s'illuminò di un raggio di gioia. Con un gesto congedò il sudanese.

—In sella Notis, diss'egli.

I due ufficiali fecero inginocchiare i mahari emettendo un semplice khh! khh! sospirato e s'arrampicarono sulle gobbe sedendosi colle gambe incrociate.

—Allàh vi guardi, disse il sudanese,

Ih! ih! gridò Notis.

I due mahari, obbedienti al segnale, uscirono dalla zeribak e partirono seguendo il sentiero che menava all'ovest, prendendo un lungo trotto, alzando e abbassando bruscamente la testa e la coda, andatura assai malagevole per chi non vi è abituato, il quale crede sempre di perdere l'equilibrio e per le continue e violenti scosse prova forti dolori al capo, dolori alle mani che si gonfiano e dolori alle reni che si pestano e pare che si spezzino.

L'oscurità allora erasi fatta assai più fitta, specialmente sotto la foresta, le cui grandi vôlte di verzura impedivano che trapelassero quasi i raggi lunari. Appena appena scorgevansi i colossali tronchi di tamarindi i cui rami flessibili sostenevano enormi quantità di frutta sei volte più lunghe che larghe e ripiene di una polpa molle e acida; le grandi camerope a ventaglio dal fusto cilindrico coperto di grosse squame regolari e coronate alla sommità da un magnifico ciuffo di trenta o quaranta foglie disposte a ventaglio; le acacie mimose alte come un olmo, sui cui tronchi risaltavano le grossissime bolle della preziosa gomma che trasuda; le palme deleb coi fusti rigonfi nel mezzo e tutti i centomila arrampicanti che s'attortigliavano come serpi attorno ai tronchi degli alberi e che s'arrampicavano sui rami formando spesso dei pergolati naturali veramente ammirabili.

I mahari eccitati dalla correggia dei cavalieri, che serve nel medesimo tempo di frusta, in meno di quindici minuti attraversarono la foresta, la quale stendesi in lunghezza, sì a destra che a sinistra del Bahr-el-Abiad, da Chartum fino ad Machadat Abu Zet, su due miglia o poco più di larghezza. Sbucati nelle grandi e aride pianure di Gemaije, animate solo da qualche gruppo di palme, da qualche acacia tisica e da miserabili tugul o capanne, allungarono il passo filando come giganteschi e silenziosi fantasmi verso gli ondulati terreni del sud, in direzione d'Hossanieh.

Notis che galoppava a pochi passi di distanza da Abd-el-Kerim, s'avvide subito che questi dava segni strani d'inquietudine della quale non sapeva ancora indovinare la cagione. Lo vedeva spesso rizzarsi in sella come volesse abbracciare maggiore orizzonte, spingere lo sguardo a destra, a manca e dinanzi, e talvolta fare un gesto quasi di scoraggiamento e di stizza. Più volte lo vide portare ambe le mani agli orecchi e piegarsi verso terra come uno che cerchi raccogliere qualche lontano rumore.

—Che mai può avere? andava chiedendosi il greco tormentando la correggia del mahari e figgendo sempre gli occhi addosso al compagno. Si vede che ha qualcosa che lo preoccupa ma cerca di nascondermelo. Quegli occhi fissi sul villaggio, anzi sul caffè, proprio in quel medesimo luogo ove danzò…. Potrebbe essere vero?…

Un terribile sospetto balenò nella mente di lui, sospetto che gli fe' gelare il sangue nelle vene e montare, nel medesimo tempo, una fiamma in viso. Un truce e sinistro lampo animò i suoi occhi che s'accesero come due carboni.

—Ah!… mormorò egli.

Trasse dalla sua borsa un pizzico di tabacco, lo arrotolò in un fogliolino di carta, ne formò una sigaretta che accese, malgrado la rapidità vertiginosa del mahari, mandò in aria tre o quattro boccate di fumo, e volgendosi verso Abd-el-Kerim:

—A che pensi cognato mio? gli chiese, affettando la massima noncuranza.

—A mille cose, rispose l'arabo.

—Tu pensi a mia sorella Elenka, Abd-el-Kerim, te lo dirò io.

L'arabo stette un momento muto, come non avesse capito.

—Non puoi ingannarti, rispose di poi. La fiamma che nasce nel cuore, non si spegne neanche in sogno.

—Ed io sai a chi penso?

—Leggere il pensiero dell'uomo non è dato che ad Allah e al suo profeta.

—Penso a quell'adorabile almea che vidi danzare a Machmudiech.

Sulla bruna pelle dell'arabo passò un fremito.

—A Fathma, articolò sordamente egli.

—Sì, a Fathma. Come la trovasti tu?

—Mi pareva avere dinanzi…

Voleva aggiungere una uri di Maometto, ma le parole gli morirono sulle labbra.

—Una bella donna, vuoi dire.

—Presso a poco. E come mai tu pensi a lei?

—Perchè?… Credo di non dir troppo, se ti confesso che i suoi occhi mi hanno affascinato e che la sua voce mi toccò il cuore.

Se fosse stato giorno Notis avrebbe potuto vedere le labbra dell'arabo contrarsi e la sua faccia diventare cinerea.

—Ah!… si sforzò di dire Abd-el-Kerim.

«Quella creatura ti ha morso il cuore?

—Di' invece che vi ha gettato una scintilla dentro.

—E questa scintilla sarebbe?

—D'amore.

L'arabo diede un sì violento strappo alla correggia che il mahari fu forzato ad alzare la testa. Notis se ne accorse.

—Che diavolo hai Abd-el-Kerim?

—Nulla, ho sostenuto il cammello che stava per inciampare contro un sasso.

—Uh! fe' il greco. Non so come un sasso possa trovarsi fra questi terreni.

La conversazione finì li. I due mahari che avevano per un istante rallentata la corsa, la ripresero più velocemente salendo e discendendo le colline cosparse d'erbe spinose chiamate dagli indigeni alfèh, arse dai cocenti raggi del sole equatoriale.

La pianura, rotta qua e là da radi ed intristiti palmizi e da qualche torrente pantanoso, andava allora allargandosi fiancheggiata all'est dalle selve che seguono il Bahr-el-Abiad nel tortuoso suo corso e all'ovest da piccole catene di montagne, dietro le quali giganteggiavano i monti Arab, Mussa, Scemela e Mantara.

A mezza notte avevano già percorso più di mezza via, e stavano per rallentare la corsa per dare un po' di riposo ai due animali, quando in lontananza scoppiò improvvisamente una detonazione.

Abd-el-Kerim a quello scoppio sussultò.

—Hai udito, Notis? chiese egli, staccando dalla sella il remington.

—Distintamente, amico mio, rispose il greco senza scomporsi.

—Può essere qualcuno che corre un pericolo.

—E può essere stato anche un cacciatore.

—È impossibile.

—E perchè di grazia? M'hanno detto che in queste contrade amano cacciare il leone e tu sai meglio di me che quest'animale non si caccia che di notte.

—Tuttavia…

—Aggiungi che siamo in un paese sollevato a rivolta e che le spie dei ribelli non di rado vengono a ronzare attorno agli accampamenti egiziani. Lascia Abd-el-Kerim, che colui che tirò la moschettata si appicchi.

L'arabo non rispose, però eccitò il mahari e si sollevò maggiormente guardando innanzi a sè. Fu appunto elevandosi che scorse un'ombra giallastra galoppare furiosamente per la pianura.

—Oh! oh! Sta in guardia, Notis, che abbiamo un leone vicino, diss'egli.

—Quando è così, credo che faremo bene ad armare i remingtons. Spero che il signore del deserto non ardirà d'assalirci. Eh!…

Una seconda detonazione risuonò in lontananza, poi una terza un momento dopo.

—Ah! Notis, non è un cacciatore! esclamò Abd-el-Kerim. Te lo dico io.

—Hai delle idee strane, quest'oggi. Ti commuovi per due o tre fucilate!

—Abbiamo dinanzi a noi un mahari, Notis.

—Ebbene, e che vuol dir questo?

—Non sai… lo monta una donna, un uri…

—Chi? Chi?…

—È Fathma!

—Il mio amore! Vola, Abd-el-Kerim! Accorriamo!

La faccia dell'arabo si sconvolse trucemente a quelle esclamazioni, però non disse parola alcuna, Montò il remington e sferzò il cammello curvandosi in sella.

I due mahari partirono come il vento e salirono una collina che impediva di scorgere la sottostante pianura. Un quarto colpo di fucile ruppe il silenzio della notte e così vicino, da credere che colui che l'aveva esploso fosse appena a un cinquecento metri dalle alture.

Quasi subito s'udì un terribile grido:

—Aiuto!… Aiuto!…

—Ah! qual voce! esclamò Abd-el-Kerim, Corri Notis, corri!

Giunsero sulla cima della collina, e di là videro rovesciati in mezzo alla pianura un cammello e un uomo che si dibattevano disperatamente fra le sabbie, e a pochi passi da loro una donna, la quale mirava un gigantesco leone che volteggiavale vertiginosamente attorno con salti mostruosi.

—Notis!… È Fathma! gridò Abd-el-Kerim.

Con un salto da tigre si precipitò di sella, s'inginocchiò e puntò il remington. Il colpo partì. Il leone ferito alla testa fece un balzo di quindici piedi, gettando uno spaventevole ruggito.

S'arrestò colla criniera irta che lo faceva parere due volte più grosso. Sfuggì alle moschettate di Notis e di Fathma e s'avventò contro l'arabo che aveva tratto l'jatagan.

L'urto fu terribile. Uomo e leone caddero al suolo, l'uno gettando urla selvaggie e l'altro ruggendo orrendamente.

Notis volò coraggiosamente in aiuto di Abd-el-Kerim, ma prima che potesse giungervi vicino, questi erasi già sollevato coll'jatagan lordo di sangue fino all'impugnatura, calmo, sorridente, e con un piede sul corpo del leone che era morto sul colpo.

—Sei ferito?… Tu mi fai paura!

—Non aver timore, Notis, disse Abd-el-Kerim. Il leone è morto senza che abbia avuto il tempo di toccarmi le carni.

—Tu sei stato pazzo assaltarlo coll'jatagan.

—In questa notte e in questo posto avrei lottato con dieci leoni.

Afferrò il suo mahari per la correggia e si diresse a rapidi passi verso Fathma che si era inginocchiata accanto all'uomo. Notis lo seguì.

Es-selàm-alekom (la salute sia con te) disse l'arabo all'almea.

Fathma alzò il capo, lo guardò per alcuni istanti con quei due occhi che fiammeggiavano, si rizzò in piedi e tendendo la sua piccola mano verso di lui.

—Sei un eroe! gli disse.

—Grazie, Fathma.

L'almea gli si avvicinò ancor più.

—Ah! tu sei quello che vidi a Machmudiech.

—Non t'inganni. Ecco qui il mio compagno.

—Allàh vi compensi del bene che mi avete fatto. Senza di voi sarei a quest'ora morta.

—E della tua morte non me ne sarei giammai consolato, adorabile creatura, disse galantemente Notis.

L'almea crollò il capo e un sorriso sfiorò le sue labbra, ma parve un sorriso amaro, forzato e forse anche ironico.

—Dove ti rechi? le chiese l'arabo.

—Al campo d'Hossanieh.

—Come noi. Mi pare che il tuo mahari e il tuo schiavo sieno morti,

—Il leone li ha uccisi.

—Vuoi salire sul mio mahari? È un animale forte e le mie braccia sono capaci di sostenere il leggero tuo corpo. Vi starai come in un angareb.

—E perchè no sul mio? domandò Notis.

—L'eroe è sempre più forte, disse l'almea.

Il greco aggrottò la fronte e strinse le pugna con dispetto.

—Ah! mormorò egli. Eroe!… Lo vedremo, Abd-el-Kerim!

L'arabo salì sul mahari, allungò le braccia all'almea e la trasse in groppa, facendola sedere sulle proprie ginocchia e circondandola delicatamente colle braccia. Notis da canto suo s'accomodò sulla sella del suo animale.

—Va, mio nobile amico, disse Abd-el-Kerim, prendendo la correggia a facendola fischiare nell'aria. Tu sei abbastanza forte per portarci entrambi.

I mahari ripigliarono la disordinata loro corsa in mezzo alla pianura, divorando la via con crescente rapidità.

Fathma, abbandonata fra le braccia dell'arabo che talvolta se l'accostava al petto in modo da sentire i battiti del suo picciol cuore, non diceva parola. Solo di tratto in tratto girava la testa verso colui che la reggeva, figgeva i suoi neri e grandi occhi sul di lui volto, e le sue labbra coralline aprivansi a un sorriso affascinante.

Abd-el-Kerim, nel sentirla appoggiata così mollemente sulle ginocchia, nel sentire la lunga e nera capigliatura sferzargli il volto, e talvolta circondare e arrestarsi intorno al suo collo, nel respirare l'ardente alito di lei, nel guardarla, provava delle emozioni così strane, così voluttuose, così dolci, che parevagli talvolta di sognare. Il sangue gli montava alla testa e gli circolava più rapido nelle vene, il cuore battevagli febbrilmente, i suoi occhi si fissarono involontariamente su lei, e, per quanto facesse, non riusciva a staccarneli.

In mezzo a quelle emozioni che a poco a poco facevansi più forti, l'immagine abbagliante della fiera Elenka s'oscurava, sfumava, scompariva. Persino l'immagine di Notis s'abbuiava e cancellavasi, e a segno che l'arabo credevasi di essere solo con Fathma a percorrere la pianura.

—Fathma, disse d'un tratto egli, con una voce nella quale suonava un accento infinitamente accarezzevole.

L'almea, nell'udirsi chiamare, si scosse e volse il capo verso di lui.

—Fathma, dove andrai quando saremo a Hossanieh?

—Perchè? chiese ella.

—Perchè?… Ma…

—Ti interesserebbe forse il saperlo?

L'arabo sussultò e ammutolì.

—Rimarrò in Hossanieh.

Abd-el-Kerim la trasse vivamente sul petto. Egli si chinò verso di lei, come volesse dirle qualche cosa, ma non ne ebbe il tempo.

—Abd-el-Kerim! gridò Notis in quell'istante.

L'arabo tremò e si volse indietro come se una vipera l'avesse morso.

—Siamo in vista del campo!

Un profondo sospiro uscì dalle sue labbra.

CAPITOLO III.—I due rivali.

Il campo egiziano era piantato in una pianura aridissima, solcata però qua e là da piccoli ruscelli e sparsa di antichi bir o pozzi, a pochi passi dalle ultime capanne o tugul del villaggio d'Hossanieh. Si componeva di un trecento tende, disposte su tre ordini, che si piegavano cingendo la gran tenda del pascià sulla quale sventolava la bandiera egiziana, e quelle inferiori ma non meno elevate, degli ufficiali.

Ottocento uomini, la maggior parte dei quali nubiani e sennaresi, con pochi pezzi d'artiglieria e una compagnia di basci-bozuk a cavallo, erano tutti quelli che occupavano il campo, sotto il comando di Dhafar pascia, uomo agguerrito ed intrepido che conosceva a menadito e l'Hossanieh e il Sudan, e che si era proposto di raggiungere, nonostante che il paese fosse battuto da numerose orde del Mahdi, l'esercito di Hicks e di Aladin pascià che operava verso El-Obeid, la capitale del Kordofan.

I due mahari, appena che ebbero fiutato la vicinanza dell'accampamento, s'affrettarono ad allungare il passo, sicché pochi minuti dopo arrivarono alle prime sentinelle, le quali conosciuto in coloro che li montavano due ufficiali, li lasciarono passare senza dare l'allerta né chiedere chi fossero.

Abd-el-Kerim s'arrestò dinanzi alle ultime capanne d'Hossanieh.

—Dove vai, Fathma? chiese egli all'almea.

—A quella casipola che vedi laggiù sull'orlo di quel campo di durah, rispose Fathma con voce dolce. Non occorre che tu mi accompagni, il leone che uccise il povero Daùd non mi minaccia più.

Notis era disceso da sella e si era avvicinato al mahari dell'arabo. Egli tese ambe le mani, sulle quali s'appoggiarono i piccoli piedi dell'almea, tanto piccoli da muovere ad invidia quelli delle chinesi, e la depose a terra.

—Ci rivedremo ancora, adorabile creatura? domandò il greco.

Un sorriso leggiadro sfiorò le labbra di Fathma.

—Se Allàh lo vorrà, rispose ella.

—Proverei gran dispiacere se tu avessi a scomparire per sempre.

—Ah!…

—Sei bella, Fathma.

—Non te lo domando.

—Sei più bella delle urì del paradiso. Ed io…

L'almea gli lanciò un'occhiata fulminea e aggrottò la fronte.

—Notis, disse l'arabo gravemente.

Il greco, che stava allungando le braccia verso l'araba, si arrestò.

Allàh ybàrek fik, (Iddio ti benedica) disse Fathma, alzando le mani verso Abd-el-Kerim.

Si gettò la carabina ad armacollo, s'avvolse nel suo bianco taub e s'allontanò con passo rapido, con andatura fiera e maestosa facendo tintinnare graziosamente le numerose anella che ornavano le sue braccia.

—Per Allàh! esclamò Notis quasi con collera. Non ho mai trovato in vita mia un'almea simile. Da quando una donna che va a danzare pegli accampamenti, torce il viso per una parola melata?

—Ti sorprende forse? chiese Abd-el-Kerim, con un tono di voce sotto il quale sentivasi una leggiera vibrazione ironica.

—E sfido io!

—Fathma, non è un'almea comune.

—E nondimeno s'abbandonò fra le tue braccia. Ah! Abd-el-Kerim tu sei fortunato.

—Perchè?

—Avrei pagato mille piastre per sentirmela pur io adagiata sulle mie ginocchia, colla sua testolina appoggiata sul mio petto.

—Sei pazzo, Notis. Saresti per caso innamorato morto di lei?

—Non ti pare che sia bella?

—Più bella di tutte le donne che vidi da venticinque anni a oggi.

—Anche più bella di mia sorella Elenka?…

L'arabo preso alla sprovveduta si turbò e non rispose.

—Ah! fe' il greco ironicamente. Elenka adunque la trovi inferiore a quell'almea, tu, l'innamorato, il fidanzato di mia sorella.

—Tu discorri senza riflettere, disse Abd-el-Kerim, rimettendosi prontamente, come vuoi che io, che adoro Elenka, trovi che un'altra donna, che non mi interessa nè punto nè poco, la sorpassi in bellezza! Hai torto di dubitare di me.

—Sono pazzo, amico mio, lo so, a dubitare di te. Orsù, riparliamo di
Fathma.

—Come vuoi Notis.

—Sai innanzi a tutto chi è e da dove venga?

—L'ignoro. So che chiamasi Fathma e nulla di più. E perchè queste domande.

—Perchè sono innamorato cotto di quella bella danzatrice.

—Di già? Corri come un mahari dei più rapidi, disse l'arabo sforzandosi a far parer calma la sua voce che invece tremavagli.

—Sento qui, nel cuore, una fiamma che comincia ad ardere. È fiamma d'amore, e temo che prenderà fra non molto proporzioni gigantesche.

L'arabo alzò Le spalle e cercò di sorridere, ma senza riuscirvi.

—Se non vi eri tu, ti giuro, Abd-el-Kerim, che avrei stampato sulle sue piccole labbra un gran bacio. Ma la ritroverò e sola.

Una fiamma balenò negli occhi di Abd-el-Kerim, ma una fiamma d'ira e di sdegno. La sua fronte s'increspò e le sue mani si posarono sui calci del revolver.

—Sta in guardia, Notis! diss'egli con accento cupo.

—Credi che io abbia paura di una donna?

—Chi sa! Potrebbe darsi che su quella donna brillasse una scimitarra!

Il greco rimase di stucco, guardandolo cogli occhi stravolti. Mai aveva udito parlare Abd-el-Kerim con quel tono cupo e minaccioso e in quel modo. Credette di aver compreso male.

—Una scimitarra, hai tu detto? chiese egli.

—Sì, e la scimitarra di un uomo che ha il braccio di ferro.

—Avrei forse un rivale? Abd-el-Kerim, tu sai qualche cosa e cerchi nascondermelo.

—Non so nulla.

—Tieni a mente che io amo di già Fathma come tu ami Elenka, e forse io l'amo più ancora di te.

—Zitto, Notis, non parliamone più. È tardi, e io ho sonno.

—Eh! per Allàh! Vorrai bene dirmi qualche cosa prima.

—Non mi caverai una parola di bocca nemmeno colle tenaglie. Buona notte, amico mio. Vado a dormire nella mia tenda e tu va nella tua che trovasi a pochi passi da quella del pascià.

L'arabo non aggiunse una sillaba di più e lasciò lì Notis, dileguandosi fra le tenebre col suo mahari.

—Un rivale! esclamò il greco con mal repressa ira. E chi potrebbe mai essere?

Rimase un istante lì, pensieroso, cupo, tormentando l'impugnatura della scimitarra, poi si cacciò in mezzo alle tende e ai fasci dei moschetti, traendosi dietro il suo animale. Dopo dieci minuti s'arrestava dinanzi alla sua tenda, sulla cui entrata russava un nubiano colossale del più bel nero.

Lo svegliò, gli affidò il mahari e si gettò sulla coperta, dopo aver acceso un sigaretto. Il suo pensiero volò subito dietro all'almea.

—Ho un bel dire che quell'adorabile creatura diverrà mia, mormorò egli, ma ho certi timori dei quali, mi pare che io dovrei tener conto. Non so, ma Abd-el-Kerim mi ha parlato in una certa maniera, con un tono così grave, così strano che mi dà da pensare seriamente. Se non fossi sicuro che egli ama alla pazzia Elenka, quasi, quasi, direi che egli parlava con rabbia, che parlava come fosse mio rivale.

«Come mai egli mi ha parlato di una scimitarra che brilla su Fathma? Ciò vuol dire che vi è qualcuno che veglia sull'almea, è chiaro, chiarissimo. E chi potrebbe mai essere quest'uomo? Che abbia egli spifferato questa minaccia per indurmi a starmene lontano da quella donna?

«Se è vero questo, hai sbagliato Abd-el-Kerim. Gli occhi di Fathma si sono impressi nel mio cuore in modo tale, che nessun altro amore sarebbe capace di velarli. Vi è una fiamma che arde nel mio petto, fiamma appena accesa e che è di già immane!…

Egli si levò a sedere e guardò attorno. Gli parve vedere ovunque degli occhi fiammeggianti che lo fissassero: gli occhi dell'almea. Scattò in piedi come spinto da una molla, staccando la sua carabina.

—Egli mi ha parlato di un rivale, diss'egli con ira. Andrò ad assicurarmene e guai a lui, se lo trovo ronzare nei dintorni della casupola!…

Saltò via il nubiano che era tornato ad addormentarsi, e uscì con passo silenzioso. Si guardò attorno sospettosamente, ma non vide che i soldati di guardia che vigilavano accanto ai fuochi. Tese gli orecchi, ma non udì che il fragoroso russar dei negri che dormivano sotto le tende e il sibilo del vento che agitava gli stendardi infioccati.

—Tutti dormono, mormorò egli. A noi due, o mio incognito rivale!

Attraversò il campo e s'arrestò alle prime capanne di Hossanieh. Si gettò a terra per non esser visto da alcuno, e si mise a strisciare lentamente, senza fare più rumore di un serpente, tenendosi nascosto dietro le macchie di mimose. Ben presto si trovò nei pressi della casupola di Fathma, un'abitazione col tetto di paglia e le pareti di legno fiancheggiata da una rekùba, sorta di tettoia sostenuta da pali, sotto la quale si riposano ordinariamente i cammelli ed i viaggiatori.

Si alzò e guardò attentamente dinanzi, di dietro, a dritta e a manca, ma non vide anima viva ronzare all'intorno. Alzò gli occhi verso le finestre, ma le vide oscure e socchiuse. Respirò.

—Che mi abbia ingannato? E con quale scopo? mormorò.

Fece il giro della casupola per due o tre volte, e stava per allontanarsi, quando vide un'ombra che moveva verso quella volta. Impallidì e afferrò rapidamente la carabina.

—Il rivale! esclamò egli con voce sorda.

Esitò, poi si cacciò sotto la rekùba e guadagnò, senz'essere stato scoperto, una macchia di leguminose arborescenti nascondendovisi nel mezzo.

—Chi sei? chi sei tu, che vieni a disputarmela? si chiese egli.

L'individuo che veniva innanzi in punta di piedi, e spesso girava la testa attorno come un uomo che teme di essere scoperto, era alto dal portamento svelto, vestito da ufficiale, ma con una bianca farda avvolta attorno il petto. Una carabina pendevagli da una spalla e portava in una mano un oggetto allungato, che Notis non giunse bene a distinguere.

Egli si fermò dinanzi la rekùba e stette lì immobile, guardando le finestre della casupola, poi girò e rigirò parecchie volte attorno, tornò a fermarsi, prese l'oggetto allungato che era una rabâda, sorta di chitarra e trasse alcuni suoni melanconici, flessibili.

—Ah! esclamò Notis, sardonicamente. Si vede che il mio rivale non manca di buon gusto. Per Allàh! Egli vuol fare una serenata sotto le finestre della bella con la chitarra. Guardati! Potrebbe darsi che io irrigidissi le tue dita con una palla del mio remington.

In quell'istante quell'uomo si pose a cantare. Alla prima sillaba
Notis fe' un balzo guardando trucemente il cantore.

—Sogno io forse? si chiese egli.

La canzone continuò, cadenzata, dolce. Notis tremò tutto e sentì i capelli rizzarglisi sulla fronte.

—Abd-el-Kerim! Abd-el-Kerim!…

La voce gli si soffocò. Una grossa nube gli passò dinanzi agli occhi.

—Ah! traditore!…

Alzò il remington, l'armò e mirò Abd-el-Kerim che continuava a cantare frammischiando alla sua canzone il nome di Fathma. Dopo qualche secondo l'abbassò.

—E mia sorella? E la povera Elenka? E la sua fidanzata?… Ah!
miserabile!… Eri tu quel rivale di cui mi parlavi! Ma da quando?…
Come?… Come è possibile che egli abbia obbliata mia sorella?…
Tuoni di Dio!…

Per la seconda volta alzò il remington e per la seconda volta l'abbassò.

Un freddo sudore scorrevagli abbondantemente per la fronte e un tremore fortissimo agitava le sue membra. Impeti di ira lo assalivano e sentivasi spinto da una pazza voglia di fare, con una palla di fucile, scoppiare la testa all'arabo. Tuttavia non si sentì capace di puntare per la terza volta il remington e d'assassinare il traditore.

Alzò la testa come se avesse preso una pronta risoluzione, e si mise a strisciare, a carpone, fino a che ebbe raggiunta una piantagione di durah. Di là camminò sempre senza produrre il menomo rumore, fino sulla via che menava agli avamposti del campo, imboscandosi dietro a una macchia d'alte erbe spinose.

—Passerai di qui, Abd-el-Kerim, disse con accento minaccioso. Ti affronterò.

L'arabo cantava sempre, con maggior dolcezza, con tono più malinconico, e ogni volta che pronunciava il nome dell'almea, il greco sentivasi il sangue accendere e il cuore battere più precipitosamente. Tutti i colori dell'arcobaleno passavano uno per uno sulla sua faccia tetra.

Cominciava all'oriente a biancheggiare, quando Abd-el-Kerim si tacque. Notis lo vide aggirarsi per qualche tratto attorno alla casupola, colla testa sempre alzata verso le finestre che si tenevano ostinatamente chiuse, poi raccogliere la carabina e prendere la via del campo. Un beffardo sogghigno sfiorò le sue labbra collericamente strette.

L'arabo s'avvicinava a rapidi passi e pareva pensieroso e scoraggiato. Quando fu a pochi metri di distanza, Notis balzò fuori e gli si presentò dinanzi come una spaventevole apparizione.

—Alto là, Abd-el-Kerim!… gl'intimò brutalmente.

L'arabo nel vederselo lì, colla testa alta, in una posa minacciosa, fece un salto indietro portando involontariamente la mano sull'impugnatura dell'jatagan. Impallidì orribilmente e fece un gesto di sorpresa e di spavento.

—Notis! esclamò egli, con un fil di voce.

—Sì, proprio Notis, il fratello di Elenka, della tua fidanzata, rispose il greco con ira mal repressa.

Essi stettero a guardarsi in silenzio, ma cogli sguardi provocanti.

—Che facevi, Abd-el-Kerim, sotto le finestre di quella casupola? chiese Notis, ironicamente.

—Avevo la febbre indosso e sono andato a passeggiare per le vie d'Hossanieh.

—Tu menti, Abd-el-Kerim!

L'arabo si turbò e tornò ad impallidire, ma più per la collera che per la paura.

—Te lo dirò io, giacchè tu nol sai, che facevi, disse Notis, alzando la voce. Tu suonavi la rabâda e cantavi una canzone d'amore.

—E che ci trovi di strano?

—Ma disgraziato, non sapevi adunque che tu cantavi sotto le finestre di Fathma?

—Ebbene?… chiese Abd-el-Kerim con calma.

—Ciò vuol dire che quel rivale di cui mi parlavi sei tu, tu,
Abd-el-Kerim!

—Follie.

—Tuoni di Dio, non mentire! Tu cantando pronunciavi il nome dell'almea!

—Ah! tu sai questo?…

—Abd-el-Kerim, rammentati di mia sorella Elenka. Ella è greca.

—Ma il Corano…

—Non parlare di Corano, nè di poligamia. Elenka non avrà che un marito o tu non avrai che una moglie. Il Profeta udì i tuoi giuramenti.

—Elenka!… Elenka!… balbettò l'arabo.

—Saresti capace tu di dimenticarla per Fathma?

—Non parlare d'Elenka, Notis, disse l'arabo sordamente.

Il greco fece tre passi indietro e alzò la mano verso di lui.

—Abd-el-Kerim! disse egli gravemente. Sta in guardia!…

—Notis!…

—Sta in guardia! È l'ultima mia parola!

Il fratello d'Elenka lo mirò per un minuto cogli occhi scintillanti, poi gli volse le spalle e s'internò in mezzo al campo di durah.

CAPITOLO IV.—Nel mezzo di un bosco.

Quando Abd-el-Kerim giunse agli avamposti il sole cominciava a far capolino fra le gigantesche foreste del Nilo e il campo a svegliarsi. Qua e là, dalle tende, uscivano soldati sbadigliando e stiracchiandosi le membra intorpidite; alcuni si affacendavano a pulire o a insellare i loro briosi cavalli che caracollavano nitrendo; altri alzavano i mahari o i cammelli conducendoli ai pozzi per abbeverarli, e altri ancora accendevano i fuochi pel rancio del mattino, o portavano legne, o portavano paglia, o facevano un po' di pulizia, o lucidavano i fucili, gli jatagan o le daghe, o i cannoni. Dappertutto vedevansi ufficiali andare e venire, scintillanti per gli ori, affannarsi a portare o a dare ordini, a cambiare le sentinelle, a radunare le compagnie per farle manovrare; dappertutto udivasi un cicaleggio allegro, canzoni monotone e cadenzate, voci che salmodiavano i versetti del Corano accompagnate dalla voce nasale dei muezzin d'Hossanieh che percorrevano il campo, e ragli d'asini, e nitriti di cavalli e muggiti di buoi.

Abd-el-Kerim, colla faccia aggrondata, pensieroso, taciturno, attraversò la triplice fila di tende e andò a sedersi vicino alla sua, su di un tronco di palmizio atterrato, prendendosi la testa fra le mani.

Il povero arabo sentivasi tutto scombussolato dagli avvenimenti della notte e come ammalato. Una terribile lotta fervevagli nel cuore, lotta gigantesca nella quale si cozzavano furiosamente due passioni egualmente grandi: l'amore per la bella Elenka alla quale gli aveva giurato fedeltà e l'amore per Fathma, l'incomparabile creatura dagli occhi di fuoco che l'aveva suo malgrado affascinato.

Egli trovavasi per così dire equilibrato fra due abissi in uno dei quali tendeva le braccia la greca e nell'altro l'araba, due abissi che sì l'uno che l'altro l'attiravano, due abissi che gli mettevano le vertigini entrambi.

Aveva un bel dire che a Elenka aveva promesso la sua mano, aveva un bel dire che Elenka aveva gli occhi neri e pieni di fuoco, che Elenka era bella, che Elenka era incomparabile, divina, ma non riusciva a scacciare nè a eclissare dalla sua mente le fiera figura dell'almea, nè sapeva cancellare, nè estirpare quegli occhi che in certo qual modo erano impressi vivamente nel suo cuore o che lo tormentavano come fossero due carboni accesi collocati sulle sue carni.

Invano cercava di frapporre fra sè e l'almea delle tenebre, invano ritorceva i suoi sguardi portandoli su Elenka, invano mormorava il caro nome della greca, invano sforzavasi di frenare i tumultuosi battiti del suo cuore, invano richiamava alla mente le sinistre e minacciose parole di Notis. Egli vedevasi sempre dinanzi la superba immagine dell'almea col fucile in mano, come l'aveva veduta in mezzo alla pianura puntare calma e terribile il leone che volteggiavale d'intorno; parevagli di sentirsela ancora fra le braccia col capo appoggiato dolcemente al suo petto, trasportato sul dorso del veloce mahari coi capelli neri e profumati attorcigliati al collo; parevagli di ascoltare il debole suo respiro, il battere del suo cuoricino, il fremito delle sue membra, e provava emozioni violente, sconosciute, ignote, voluttuose, e sentivasi il sangue turbinare più rapido nelle vene, un fuoco strano accendersegli nel petto, fuoco che mettevagli la febbre indosso, fuoco che prendeva proporzioni gigantesche, che divorava e la memoria di Elenka e quella di Notis.

—Fathma! Fathma! mormorò egli sospirando. Tu hai fatto nascere nel mio cuore una passione che cancellerà quella della povera Elenka! Una passione che mi mette paura, una passione che mi fa tremare!…

Si levò dal tronco d'albero girando uno sguardo indagatore sul campo come se cercasse di scoprire colei che avevagli acceso in petto una scintilla d'un amore sconfinato. I suoi occhi si fissarono su d'un uomo, un capitano dei basci-bozuk, che lo guardava sorridendo quasi beffardamente.

—Olà, che diamine te fai qui, solo soletto e pensieroso, gli chiese il capitano, incrociando le braccia sul petto con aria comica. È un bel pezzo che sono qui a guardarti, curioso di sapere come l'avresti finita.

—Ah! Sei tu, Hassarn? disse Abd-el-Kerim, ricomponendo la faccia tetra.

—In carne e in ossa, amico mio, rispose il capitano.

—Che vuoi da me?

—Che m'accompagni alle foreste del Bahr-el-Abiad per far ritornare quella compagnia di basci-bozuk, che abbiamo lasciato in un zeribak. Sono stati segnalati dei ribelli, e non vorrei che quei poveri diavoli venissero qualche notte massacrati.

—Ah!… Sono con te, Hassarn.

—Prendi la tua carabina e affrettiamoci a metterci in cammino.
Viaggiare di notte in simili tempi non è prudente.

Abd-el-Kerim esitò, poi raccolse la carabina che aveva posata sulla palma e seguì senza dir sillaba Hassarn, che si era già messo in cammino. Si fermò venti volte prima di uscire dal campo, ora guardando il villaggio d'Hossanieh e precisamente la casupola di Fathma e ora la tenda del greco ermeticamente chiusa.

Il capitano dei basci-bozuk prese un sentiero aperto in mezzo a un campo di dùrah che conduceva alle grandi foreste del Bahr-el Abiad; Abd-el-Kerim gli si mise dietro, ma senza quasi sapere ove andasse e col pensiero fisso a tutt'altra cosa che alla compagnia dei basci-bozuk.

—Ehi! Abd-el-Kerim, gli chiese Hassarn, dopo qualche tratto di cammino. Che diavolo hai che sei muto più d'un pesce?

—Nulla, rispose l'interpellato seccamente.

—Penseresti per caso, a quella bella ragazza che hai condotta questa notte nel campo?

Abd-el-Kerim trasalì e lo guardò sorpreso.

—Come sai tu questo?

—Bah! fe' Hassarn, alzando un braccio come uomo che la sa lunga. Credi tu che escano ed entrino nel campo persone senza che io lo sappia? Ti dirò che tu sei arrivato in compagnia di Notis e che la bella almea riposava fra le tue braccia. Dove sei andato a pescare quella urì?

—La trovai venendo da Machmudiech, nel momento che un leone stava per assalirla. Perdette lo schiavo e il cammello, perciò la feci salire sul mio.

—Sulle tue braccia, corresse maliziosamente Hassarn.

—Come vuoi.

—E tu uccidesti il leone?

—Puoi immaginartelo.

—Sfido io! Si trattava di far vedere la propria valentìa dinanzi a
Fathma.

—Fathma? La conosci forse tu?

—E da molto tempo, Abd-el-Kerim.

—Chi è? da dove viene? Dove va?

—Corri come i miracoli di Mohammed. Ti dirò innanzi a tutto che è un'almea dagli occhi che paiono diamanti neri, dai piedi lunghi come un petalo di rosa e che ha le mani più piccole di una urì del Profeta.

—Lo so, e poi?

—E poi non ne so di più. Ti interessa molto quell'adorabile creatura?

—Molto, rispose Abd-el-Kerim con slancio appassionato.

—Oh! esclamò Hassarn. Avresti per caso dimenticata la bella Elenka?

—Non parlarmi di lei, Hassarn.

—Bada, che Elenka è una iena.

—Ed io un leone! rispose fieramente l'arabo.

Il capitano gli si avvicinò e ponendogli amichevolmente una mano su di una spalla:

—Abd-el-Kerim, disse. Tu questa notte hai avuto di che dire con
Notis.

—Mi spiasti, Hassarn?

—Il campo ha orecchi e occhi. Se non vuoi dirmelo tu, ti dirò che ronzavate tutti e due attorno a una casupola e che questa casupola era l'abitazione di Fathma, poichè fu vista entrare. Sareste rivali?

Abd-el-Kerim non rispose. Egli era diventato improvvisamente cupo.

—Non rispondi, ma leggo nel tuo cuore come legge il Profeta e forse più, Abd-el-Kerim.

—E che leggi?

—Amore, amore e amore per…

—Per chi?

—Per Allah! Amore per Fathma!

—Zitto imprudente, mormorò l'arabo guardandosi sospettosamente attorno.

—Confessi adunque che io lessi giusto.

—Non posso negarlo. Amo Fathma.

—Ed Elenka? E Notis?…

—Cancello l'una e aborro il secondo che minaccia diventare mio rivale!

L'arabo fece un gesto di spavento. Avrebbe voluto riafferrare e ricacciare in gola quelle parole uscitegli imprudentemente dalle labbra. Sentì una fitta al cuore; chinò il capo sul petto e sospirò.

—Povero Abd-el-Kerim! esclamò Hassarn.

—Non compiangermi!… Ah!…. Se tu sapessi qual lotta ferve nel mio cuore! disse ferocemente l'arabo. Quale mai delle due?

—Tu pensi ancora ad Elenka, adunque?

—Forse. Non so, per quanto mi sforzi, non riesco a cancellarla totalmente. L'ho sempre dinanzi agli occhi, bella, divina…. Eppur non l'amo!

D'un tratto si arrestò, afferrando bruscamente la carabina. Erano allora arrivati sul limitare della grande foresta che si estendeva a perdita d'occhio dal sud al nord, seguendo il tortuoso corso del Bahr-el-Abiad.

—Che hai? gli chiese Hassarn, armando per ogni precauzione una pistola.

—Abd-el-Kerim si guardò d'attorno con circospezione, figgendo l'acuto suo sguardo sotto gli alberi che strettamente uniti toglievano quasi la vista.

—Mi sembrò d'aver udito un fruscio fra i cespugli, disse poi.

—Sarà stato qualche scimiotto. Tu sai che in queste foreste abbondano.

—Che ci sia qualche spia?

—Potrebbe darsi. Il Mahdi ha della gente coraggiosa, che non ha paura di avvicinarsi agli accampamenti egiziani.

L'arabo fece cenno al capitano di tirar innanzi, continuando a guardarsi d'attorno e aprendo con precauzione i cespugli. Dopo dieci minuti essi giunsero ad una specie di zeribak, nell'interno della quale stava accampata una compagnia di basci-bozuk a piedi.

Il sergente che la comandava si fece loro incontro.

—Che nuove? chiese Hassarn.

—Nessuna, rispose il sergente. I ribelli fino ad ora non si sono spinti fin qui ma…. non avete incontrato nessuno? Ho veduto….

—Chi? domandò Abd-el-Kerim.

—Una apparizione.

—Spiegati per Allàh! esclamò Hassarn, mosso in curiosità.

—Che so io? Ho veduto passare un fantasma, vestito stranamente, e che potrebbe darsi che fosse un ribelle. È passato or ora a cento passi da qui.

—Oh! oh! fe' Hassarn. Chi può essere mai? Abd-el-Kerim, sei in vena di accompagnarmi, intanto che i basci-bozuk fanno i bagagli?

—Ho la mia carabina e ciò basta. Ti seguirò fino al deserto di
Korosko, se tu lo vuoi.

—Basta così. Tu sergente fa levare il campo e se non ci vedi tornare, incamminati per Hossanieh. Potrebbe darsi che noi tardassimo assai e che prendessimo un'altra via.

Arabo e turco volsero le spalle alla zeribak, internandosi nella foresta, seguendo un sentieruzzo appena visibile pel quale era passato il fantasma. Avevano tutte e due le ali ai piedi come se si trattasse di inseguire qualche persona più che importante.

—Chi può essere mai questo fantasma, si chiedeva Hassarn. Che sia qualche capo di ribelli?

In quell'istante Abd-el-Kerim, che camminava innanzi, tornò ad arrestarsi, urtando bruscamente il turco che gli veniva dietro.

—Fermati, per mille demoni! esclamò egli con voce alterata.

—Che hai veduto? chiese Hassarn sorpreso.

—Zitto!…

In lontananza si udiva il suono del tamburello che l'eco delle foreste ripeteva distintamente. Abd-el-Kerim impallidì come un cadavere.

—Odi Hassarn? domandò egli con un filo di voce.

—Sì, che odo. Deve essere qualche arabo che suona il tamburello.

—No, non è un arabo! esclamò vivamente Abd-el-Kerim.

—Come lo sai tu?

—È una donna, io l'ho udito ancora questo tamburello, disse l'arabo con maggior animazione.

—Per Allàh! Andiamo a vedere, Abd-el-Kerim.

L'arabo lo afferrò vigorosamente per le braccia e lo tenne fermo.

—Tu non sai di quale donna io intenda parlare, gli disse.

—Parla di quella che vuoi, io vado innanzi.

—Quella che suona è Fathma!….

Il turco lasciò sfuggire una esclamazione di sorpresa.

—Hassarn, continuò Abd-el-Kerim, lasciami solo. Tu non puoi essere testimone a quello che io dirò all'almea.

—Tu sei pazzo. Io voglio vedere Fathma.

—Hassarn, tu non lo farai, disse recisamente l'arabo.

—Ma disgraziato, e non pensi che sei promesso a Elenka.

—Io spezzo il nodo e mi getto corpo e anima fra le braccia di Fathma.
Ho il sangue che mi brucia le vene e il cuore che batte per l'almea.
Lasciami solo.

Il turco lo guardò con compassione.

—Tu ti perdi, Abd-el-Kerim, gli disse con dolce rimprovero. Fa come vuoi; io ti aspetterò ai piedi delle colline sabbiose.

L'arabo chinò il capo sul petto; poi rialzandolo con gesto risoluto:

—Vo' gettar la mia vita ai piedi di Fathma, disse e si allontanò a rapidi passi, dirigendosi verso il luogo ove risuonava il tamburello.

Aveva la testa in fiamme e il cuore battevagli precipitosamente; parevagli di essere ubbriaco e camminava quasi senza volerlo, meccanicamente, attirato da quel suono come il serpente viene attirato dal flauto dell'incantatore.

In breve tempo giunse in una vasta radura contornata da maestosi tamarindi sulle cui cime strillavano numerosi scimmiotti. Egli si fermò frenando a grande stento un grido di gioia.

Là, sulle rive di un ampio stagno cosparso di grandi foglie di loto sacro, se ne stava ritta l'almea col tamburello in mano, i capelli neri sciolti sulle spalle e una bianca farda gettata pittorescamente su di un braccio. Vista così, sotto una pioggia di raggi solari che si riflettevano sui monili e sui braccialetti d'oro che le cingevano il collo e le nude braccia, la si sarebbe presa per una apparizione celeste, per una urì del paradiso di Mohammed il profeta.

Abd-el-Kerim sentì mancarsi le forze. Esitò, volle fuggire, ma gli fu impossibile e si spinse macchinalmente innanzi, senza fare il menomo rumore. S'arrestò a pochi passi dall'almea che continuava a sbattere il tamburello con un ritmo cadenzato e malinconico. Egli tese le braccia avanti.

—Fathma!… Fathma! mormorò con voce tremante.

L'almea si volse verso di lui.

CAPITOLO V.—Il Rapitore.

Nel vedersi dinanzi Abd-el-Kerim, immobile come una statua, coi lineamenti sconvolti e le mani tese con gesto supplichevole, Fathma non potè trattenere un movimento di sorpresa. Ella lo guardò fisso coi suoi grandi e neri occhioni, che magnetizzavano e che penetravano fino al fondo dei cuori, senza dir sillaba.

—Fathma, ripetè l'arabo, scuotendosi e dando alla sua voce un tono commosso.

L'almea gli si avvicinò, guardandolo come con curiosità.

—Che fai tu qui? diss'ella di poi,

—Mi riconosci bella fanciulla?

—Non dimentico mai chi mi salvò con pericolo della propria vita. Non sei tu quell'arabo che mi raccolse nella pianura dopo aver ucciso il leone che mi assaliva?

—Quello stesso, Fathma.

Fra loro due successe un breve silenzio, durante il quale si guardarono ancor più fissamente.

—Che vuoi da me? chiese alfin l'almea, rompendo quel silenzio che diventava imbarazzante.

—Sai dove ti trovi?

—Nelle foreste del Bahr-el-Abiad. E che vuol dir ciò?

—Sai che vi sono dei ribelli nascosti in questi dintorni?

Fathma sorrise sdegnosamente e mostrandogli un pugnaletto che teneva infisso nella sua râhad (cintura) dorata:

—Non ho paura, gli disse con fierezza.

—Ti potrebbero rapire.

—E che male ci sarebbe? Rapirebbero una povera almea.

—Ma io piangerei la tua perdita, disse l'arabo con iscoppio appassionato.

—I grandi occhi di Fathma si dilatarono e le sue labbra s'apersero ad un sorriso indefinibile. Ella si avvicinò vieppiù all'arabo, tanto che l'ardente suo alito gli sfiorò il volto. Abd-el-Kerim tese le braccia innanzi come per afferrarla, ma si frenò e senza volerlo fece un passo indietro.

—Ah! diss'ella, quasi ironicamente, ti dorrebbe il non vedermi più?

—Sì, Fathma, te lo giuro!…. Proverei del dolore e più di quello che tu credi!…

—E perchè? chiese l'almea freddamente.

—L'arabo ammutolì e la sua fronte s'abbuiò. Non seppe cosa rispondere.

—Che t'importa se io avessi a scomparire? continuò Fathma. E poi, credi tu che io rimanga sempre in Hossanieh? Mi libro come l'aquila e mi poso or qua or là a seconda che mi spinge o il capriccio o la follìa.

—Ma tu non puoi lasciare così Hossanieh, dopo esserti fatta vedere.

—E chi me lo impedirebbe?…

—Fathma!… Fathma! esclamò Abd-el-Kerim. Tu sei bella, più bella di
El….

L'imprudente rattenne a tempo il nome di Elenka che stava per uscirgli dalle labbra. L'almea aggrottò la fronte e le sue mani si contrassero, chiudendosi: un lampo cupo balenò nei suoi occhi, un vero lampo d'ira.

—Di chi?… chiese ella vivamente. Di chi?…

—Di tutte le donne che io vidi in vita mia, si affrettò a soggiungere l'arabo. Sì, tu sei bella Fathma, e tanto bella che mi riesce impossibile cancellarti dal mio cuore, tanto bella che ne sono affascinato.

—Follie, amico mio, follie.

—Fathma, ti giuro su Allàh che tu mi hai toccato il cuore, continuò Abd-el-Kerim con crescente passione. Io ti ho veduta e mi sono sentito scuotere tutte le fibre dell'anima; ti ho sostenuta fra le mie braccia, e ho sentito il sangue accendersi nelle mie vene. Ovunque volga lo sguardo non vedo che i tuoi occhi più fulgidi delle stelle e il tuo volto più bello delle urì del paradiso del Profeta; ovunque tenda l'orecchio non odo che la tua voce incantevole, quella che udii laggiù, a Machmudiech, la prima volta che ebbi la fortuna d'incontrarti! Fathma, tu sei bella, tu sei sublime e io ti amo!… ti amo!… sono tuo schiavo!…

Abd-el-Kerim era caduto in ginocchio e la guardava con due occhi che mandavano fiamme. Un urlo strozzato, furioso, partito fra gli alberi, lo fece saltar in piedi. Un freddo sudore gli bagnò la fronte.

—Chi è la? domandò egli con voce rotta. Fathma che aveva ascoltata la confessione dell'arabo senza battere ciglio, nell'udire quell'urlo erasi voltata come una iena, col pugnale in mano.

—Chi ci spia? chiese ella rivolgendosi all'arabo.

—L'ignoro, rispose Abd-el-Kerim, armando la carabina.

Fra i cespugli si operò un movimento brusco, un corpo nerastro si slanciò dai rami di un gran tamarindo e cadde in mezzo alle erbe allontanandosi con rapidità fulminea. Abd-el-Kerim fece fuoco.

Nessun grido tenne dietro alla rumorosa detonazione della carabina; l'arabo fece atto di slanciarsi dietro a colui che fuggiva, ma Fathma lo arrestò.

—Era una scimmia, diss'ella. Non ne vale la pena.

—Mi parve un uomo; una scimmia non avrebbe gettato quel grido.

—Tanto peggio per lui. Io l'ho veduto cadere e a quest'ora sarà morto o sul punto di morire, disse l'almea con voce calma.

—Posso andare ad assicurarmi.

—Farai meglio a continuare la tua via.

—Fathma!….

—Ti comprendo tu vorresti ripetermi quella parola che cento altri prima di te mi ripeterono. Quella parola per me è morta; non ci credo più.

—Oh! non dire questo, Fathma! Ti amo, ti amo, ti amo e per te darei tutto il mio sangue. Mettimi alla prova: vuoi tu che ti porti la pelle di cento leoni? Non avrai che a comandarmelo e io, Abd-el-Kerim, te le porterò!

L'almea lo guardò con più dolcezza; un sospiro sollevò il suo seno.

—Ah! diss'ella con voce cupa. Sarebbe vero che tu avessi proprio ad amarmi? Sarebbe vero che tu parlassi col cuore? Anche un altro uomo un giorno mi ripetè le tue parole e poi le disperse e infranse i centomila giuramenti pronunciati ai miei piedi! Non credo più.

—Chi? Chi?… domandò Abd-el-Kerim, che si sentì mordere il cuore della gelosia, Chi è quest'uomo? Parla, Fathma, parla!

L'almea chinò il capo sul petto, poi rialzandolo bruscamente e prendendo una mano dell'arabo:

—Sai tu, innanzi a tutto, chi io sia?

—Chi ha sollevato fino ad ora il velo che ti copre? Molti ti conobbero, ma nessuno sa chi tu sei, qual fu il tuo passato nè in qual paese tu sei nata. Vi sono delle tenebre attorno a te.

—E tenebre fitte, disse Fathma, sospirando. Sono araba, se tu nol sai, e un dì fui la favorita di un uomo che oggi è più possente del re che ci governa, di un uomo che ha seco migliaia d'armati, forti e coraggiosi, che nessuno sarà capace di vincerli; nè gli infedeli che bombardarono Alessandria e che vinsero Araby pascià, nè l'esercito che conducono Hicks e Aladin.

—Favorita!… Favorita!… urlò Abd-el-Kerim, dando indietro con ispavento.

Le labbra di Fathma s'incresparono ad un amaro sorriso.

—E chi credi tu che sia un'almea? chiese ella.

—Hai ragione, perdonami, balbettò l'arabo. E quest'uomo chi è?

—Contro chi, Dhafar pascià conduce i suoi uomini?

—Contro il ribelle Mohammed Ahmed.

Fathma tese il braccio verso occidente con gesto altero.

—Chi impera laggiù nel Kordofan?

—Il Mahdi. E che vuoi concludere?

Guardami in faccia! Io fui la favorita del Mahdi!….

Abd-el-Kerim si nascose la faccia fra le mani e cacciò fuori un urlo strozzato.

—Non è vero, non è vero! ripetè egli. Non è possibile!

—Perchè? Il Mahdi non può dunque amare come gli altri mortali?

—Io l'odio quest'uomo, lo esecro!

—Hai torto Abd-el-Kerim. Quest'uomo che tu esecri è il vendicatore degli Arabi che languono sotto il giogo e la sferza dei Turchi ed infedeli.

—Ma come tu l'hai abbandonato? Come tu sei qui? Qual capriccio ti spinse a lasciare El-Obeid per venire in queste terre?

—L'amore, rispose Fathma con aria tetra.

—Ah! tu hai amato un altra uomo adunque? chiese l'arabo.

—Sì, un uomo bello e prode come te, che mi giurò eterno amore e che mi trasse sulle rive del Bahr-el-Abiad per poi abbandonarmi.

—Ma io lo odio questo tuo secondo amante e più ancora del Mahdi. Io ho sete del mio sangue nè tornerò tranquillo fino a che non l'avrò ucciso. Voglio vendicarti!

—È inutile, mio eroico amico. Egli cadde morto l'anno scorso nella battaglia di Kadir, pugnando contro Yussif pascià. Il Profeta mi vendicò.

—Ed ora?… chiese Abd-el-Kerim con angoscia.

—Sono libera come l'aquila che vola negli spazi del cielo.

—Tu puoi adunque accogliere nel tuo cuore un nuovo amore, una passione grande, gigantesca, che non si spegnerà che colla morte. Ah! se tu lo volessi Fathma!

—Non tentarmi, vattene Abd-el-Kerim, non mi scorderò mai di te… basta!

Ella volse altrove la faccia e fece qualche passo. L'arabo l'afferrò per le mani e la rattenne violentemente.

—No, Fathma, no. Ti amo, sono tuo schiavo, fa di me quello che tu vuoi, ma non respingermi, non parlare così.

L'arabo cadde per la seconda alle sue ginocchia.

Una fiamma umida passò sugli occhi dell'almea,

—È proprio vero adunque che tu mi ami? chiese ella, quasi con ferocia.

—Sì, ti amo, ti adoro.

—Giuralo su Allàh!

—Lo giuro su Allàh, sul Profeta e sul Corano.

—Vattene ora, ma guardati bene da me, Abd-el-Kerim! Se venissi a sapere che tu ami un'altra donna, se avessi una rivale guai a te e guai a lei! Vi infrangerei entrambi come due lastre di vetro!

Raccolse i lembi della farda, s'avvolse il corpo e si allontanò lentamente con calma maestosa. L'arabo le si slanciò dietro per seguirla.

—Sola venni e sola ritorno, diss'ella arrestandolo con un gesto,
Vattene: io te lo comando, io lo voglio!

Abd-el-Kerim chinò il capo e si cacciò sotto gli alberi. Fathma rimase lì a guardare il luogo ove era scomparso, poi si ripose in cammino colle labbre strette ma la fronte spianata e gli occhi che brillavano d'un raggio di gioia.

—È bello, prode, ardente, mormorò ella. Il Mahdi non mi rivedrà più mai!

Costeggiò lo stagno e si inoltrò sotto le grandi vôlte verdi formate dalle palme deleb, dai tamarindi e dalle acacie gommifere, guardando a destra e a manca e con una mano sull'impugnatura del pugnale. Dieci minuti dopo, nel mentre che il sole si nascondeva dietro le foreste e che gli uccelli e le scimmie cominciavano a tacersi guadagnando i loro nidi o i loro covi, giunse su di un sentiero. Ella si fermò incerta nello scorgere un uomo appoggiato ad una carabina in attitudine sospetta. Impallidì leggermente nel riconoscere in quell'individuo il greco Notis.

Volle tornare indietro ma il greco che pareva si fosse appostato lì appositamente per aspettarla, non gliene lasciò il tempo. Egli si fece lentamente innanzi con un sorriso ironico sulle labbra e senza preamboli disse:

—A noi due Fathma!

—Che vuoi dire? chiese ella seccamente.

—Mi riconosci?

—Se non m'inganno tu sei quello che seguiva Abd-el-Kerim da
Machmudiech a Hossanieh.

—Sono il greco Notis.

—Tanto peggio per te, io odio gl'infedeli e più di tutto i Greci.

—Non monta, disse Notis freddamente. Che avete detto all'arabo poco fa, che scorsi inginocchiato dinanzi a voi?

—Ah! fe' Fathma con mal celata collera. Sei stato tu a gettare quel grido?

—Potrebbe darsi. E che, ti sorprende?

—Io disprezzo gli uomini che si nascondono per spiare.

—Ira di Dio!…. gridò il greco.

Si scambiarono uno sguardo provocante. Il greco cedette dinanzi agli occhi scintillanti dell'almea che schizzavano fuoco.

—Sai chi era quell'uomo che ti giurava eterno amore? chiese egli, affettando la massima calma.

—So che si chiama Abd-el-Kerim il prode, e ciò mi basta.

—Ti dirò allora che quell'uomo è promesso a una donna, che questa donna, che trovasi presentemente a Chartum, si chiama Elenka, e che Elenka è mia sorella!

—Tu menti! esclamò l'almea, saltando innanzi come una leonessa ferita.

—Te lo giuro, Fathma. Abd-el-Kerim, quando era di guarnigione a Chartum s'innamorò di mia sorella e chiese la sua mano. Appena finita la campagna contro il Mahdi egli la sposerà ed io diverrò suo cognato.

—Tu menti! Tu menti! ripetè l'almea con maggior forza. Quale scopo hai per inventare simili calunnie?

—Quello d'aprirti gli occhi, di conservare lo sposo a mia sorella e di offrirti la mia mano poichè ti amo Fathma, e immensamente.

L'almea fece un gesto di disprezzo, gli volse le spalle per allontanarsi, ma il greco non era un uomo da scoraggiarsi, nè da lasciarsi sfuggire così facilmente la preda che con tanta impazienza aveva atteso. Gli si mise dinanzi risoluto a impedirglielo, all'uopo di usare la forza.

—Odimi, Fathma, diss'egli. Ho giurato di farti mia, dovessi perdere ambe le braccia e anche le gambe, dovessi venire ucciso. Tu sei bella e mi hai affascinato; tu sei povera e io son ricco; tu sei maomettana e io sono greco ma mi farò, se vuoi, maomettano. Perchè non vuoi esser mia?

—Perchè amo di già un altro uomo.

—Ma tu non puoi prestar fede ad Abd-el-Kerim; ti tradirà, ti schianterà il cuore e più presto di quello che tu abbi a crederlo. Bada a me, che lo conosco a fondo quell'arabo; è un miserabile, è di più un vile!

Una fiamma di sdegno e di collera salì in volto all'almea; tese le mani chiuse verso il greco con gesto minaccioso.

—Taci! Taci, insensato! esclamò ella con violenza. Abd-el-Kerim è un eroe.

—Sì, eroe, perchè ebbe la fortuna di abbattere un povero leone, disse Notis con ironia. Bella prodezza in fede mia!…. Fathma, è ora di finirla. Abbiamo parlato anche troppo, senza nulla concludere.

—Ma che vuoi infine?

—Voglio portarti con me, lontano da questo campo e farti mia, lo capisci Fathma, farti mia a dispetto di Abd-el-Kerim. Verrai tu?

—Giammai! esclamo l'almea con forza.

—Ira di Dio! Dimmi il perchè? disse Notis furibondo.

—Perchè ti odio e ti disprezzo. Vattene!….

Il greco lanciò una bestemmia ed alzò le mani come per abbracciarla.
L'almea fece un salto indietro, ponendo la dritta sul pugnale.

—Non toccarmi, maledetto! gli disse con voce sibilante per l'ira.

—Guarda, Fathma, noi siamo soli, la foresta non ha abitante alcuno, e io sono risoluto a farti mia. Non opporre resistenza veruna, se vuoi che non diventi feroce come una iena.

Egli si slanciò addosso all'almea che tornò ad indietreggiare traendo il pugnale. I suoi occhi si ingrandirono stranamente e il volto prese una espressione di indomita fierezza.

—Non toccarmi! gli disse cupamente. Se tu muovi un passo verso di me, ti assassino!

Il greco si mise a sogghignare, ma non s'avanzò nè toccò le sue armi. Egli girò lo sguardo attorno, tese per alcuni istanti l'orecchio, poi accostò le mani alle labbra e mandò un acuto fischio. Un fischio eguale vi rispose quasi subito.

—A noi due, ora, Fathma, disse poi. Per quanto tu sii forte e per quanta resistenza opporrai, Takir ti porterà via.

—Vigliacco!

—Io ti amo e voglio farti mia,

—Miserabile, io ti abborro!

—E io ti amo. Avanti Takir!

L'almea faceva un salto da invidiare un leone e tentò fuggire, ma un negro di statura colossale, l'ordinanza di Notis, sbucando improvvisamente dai cespugli vicini, le sbarrò la via. Ella gettò un urlo di rabbia e indietreggiò fino al tronco di un palmizio col pugnale alzato.

—Addosso Takir, gridò il greco, facendosi innanzi colla scimitarra in mano.

Il nubiano s'aggrappò all'estremità d'un ramo di tamarindo, si sollevò in aria con una spinta e venne a cadere addosso a Fathma prima che questa avesse tempo di evitarlo. Egli l'afferrò fra le vigorose braccia alzandola da terra.

—Sta cheta, mugghiò egli stringendola così fortemente da farle crocchiar le ossa.

—Aiuto! a me Abd-el-Kerim! urlò la povera almea, dibattendosi disperatamente.

Ella cacciò il pugnale in un braccio del negro che si coprì tosto di sangue, ma Notis le afferrò i polsi e glieli torse tanto da farle abbandonar l'arma. I due uomini si misero a trascinarla verso il folto della foresta.

L'almea gettò un secondo grido, un grido di furore e di dolore.

—Lasciatemi maledetti! Aiuto! Aiuto!

Si udì un calpestio precipitato, un fragor di sciabole e uno scricchiolio di rami furiosamente schiantati. Abd-el-Kerim rosso d'ira, con una frusta nella dritta e una pistola nella sinistra, apparve, e dietro a lui Hassarn e l'intera compagnia dei basci-bozuk. Egli si scagliò in un lampo sui due assalitori.

—Miserabile! ruggì egli, sferrando Notis in faccia.

Il nubiano fu lesto a sparire sotto gli alberi, ma il greco si volse, caricando l'arabo colla scimitarra in pugno. Hassarn ebbe appena il tempo di arrestargli il braccio.

—Ah! esclamò Notis, con indefinibile accento d'odio. Sei qui traditore!

Cercò una seconda volta di gettarsi sul rivale, ma il turco lo disarmò e lo respinse violentemente, puntandogli una pistola sul petto.

—Se tu ti muovi, gli disse minacciosamente Hassarn, sei morto.

—Tutti contro di me, codardi! gridò Notis fuori di se.

—Basto io solo per punire un vigliacco tuo pari, disse l'arabo con disprezzo. Notis, qui uno dei due vi lascierà le ossa.

Fathma, che si era subito rizzata in piedi s'avvicinò ad Abd-el-Kerim.

—Grazie mio prode amico, le disse con voce commossa.

—Fathma, mormoro l'arabo non meno commosso, ringrazia Allàh che mi fece giungere in tempo per salvarti. Ma quell'uomo là, non ti oltraggierà più mai, poichè fra pochi minuti io l'ucciderò.

—Uccidi tuo cognato, disse Notis sogghignando.

—Taci!…

—Ed Elenka mi vendicherà, quando sarà diventata tua moglie.

—Non bestemmiare per Allàh! Se v'era un filo io l'ho spezzato e per sempre.

—Fathma, guardati da quest'uomo che tradì mia sorella.

L'arabo strinse i pugni. L'almea lo prese per le mani e volgendosi verso Hassarn e l'intera compagnia dei basci-bozuk.

—Io dò a quest'uomo la mia mano, il mio sangue e la mia vita! diss'ella.

Abd-el-Kerim la strinse fra le braccia e stettero così abbracciati per qualche minuto durante il quale Notis continuò a sogghignare, poi si separarono.

—Fathma, disse l'arabo. Va con questi soldati che ti accompagneranno alla tua dimora. Io e Hassarn qui restiamo a giuocare la nostra vita contro quella di quel vigliacco. Prega Allàh e il Profeta per noi.

L'almea non tremò nè diede alcun indizio che dimostrasse timore. S'avvolse nella sua farda con gesto maestoso e s'allontanò seguita dai basci-bozuk.

L'arabo la seguì cogli occhi, poi quando sparve in mezzo agli alberi si volse contro Notis, che digrignava i denti sotto la pistola d'Hassarn.

—E ora, diss'egli con calma forzata, sono con te Notis. L'uno o l'altro vi lascierà la vita. Tu più che mio nemico sei mio rivale e ciò basta.

Hai dimenticata Elenka adunque?

—L'ho dimenticata.

—E per Fathma, per una spregevole almea!

—Sì, per un'almea.

—A noi due, adunque. Bada, Abd-el-Kerim, che non ti risparmierò!

Hassarn a un cenno dell'arabo abbassò la pistola ed andò ad appostarsi a sei passi di distanza: i due rivali impugnarono la scimitarra.

CAPITOLO VI.—Il duello.

La notte era oscura, essendo la luna e le stelle nascoste da una nera fascia di densi nuvoloni, tuttavia vi si vedeva abbastanza per cacciarsi dieci pollici di lama attraverso il corpo. Notis, cui un'ira feroce animava in unione alla gelosia e ad una smania terribile di vendicarsi dell'affronto subito dinanzi agli occhi di Fathma, fu il primo a mettersi in guardia, dopo di aver provato l'elasticità della sua scimitarra. Abd-el-Kerim, quantunque gli ripugnasse il battersi col fratello di colei che aveva tanto amato prima di aver veduto l'almea, non tardò a mettersi di fronte a lui, colla calma propria degli orientali.

—Abd-el-Kerim, disse Notis, sforzandosi di parer tranquillo. Raccomanda la tua anima ad Allàh, poichè non uscirai vivo da questa foresta e manda un ultimo addio alla tua nuova amante, che non rivedrai mai più.

—Non annoiarmi inutilmente, disse l'arabo freddo freddo. Se ti ricordi qualche preghiera, spicciati a dirla, poichè io non ti risparmierò.

—Ho raccomandato l'anima al diavolo mio patrono e ciò basta. Orsù, guardati, che il fratello della tua Elenka incomincia.

L'arabo lo guardò cupamente.

—In guardia, Notis, diss'egli. Una donna non sta più fra noi!

Quasi nel medesimo istante le due scimitarre s'incrociarono con uno stridore rapido e duro. I due avversari, tasteggiatisi un po', dopo di avere tentato di far passare reciprocamente i loro ferri per arrivare alle carni, si ritrassero di qualche passo, riponendosi in guardia.

Hassarn incrociò le braccia sul petto e il duello cominciò furiosamente.

Notis, più impetuoso e meno padrone di sè, fu il primo ad attaccare, moltiplicando gli assalti, portandosi ora a dritta e ora a sinistra, turbinando come un lupo attorno alla preda, e avventando tremendi colpi sul capo dell'arabo che li parava senza muoversi di una linea. Per cinque minuti continuò ad assalire, tentando, ma invano, di far saltare di mano la scimitarra ad Abd-el-Kerim, poi, visto che non c'era mezzo di riuscirvi nè di far abbassare quell'arma che copriva l'avversario come uno scudo, tornò a sostare.

—Ah! esclamò egli sogghignando. Tu sei una rupe adunque, incrollabile anche fra i più impetuosi attacchi.

—Può darsi, rispose l'arabo che si teneva in guardia.

—Aspetta un po' che provi una botta che mi fu insegnata ad Atene. Se il fratello d'Elenka non ti spacca il cuore, proverò un colpo maestro che mi fu insegnato dal tuo compatriota Dhafar.

—Non nominarmi Elenka, disse Abd-el-Kerim con ira.

—Ah! fè' Notis, ridendo diabolicamente. T'inquieta tanto questo nome?

—A che nominarmela? Credi tu di turbarmi l'anima e d'approfittarne per cacciarmi il tuo ferro in mezzo al petto? Se è così, sei più vile e più miserabile di quello che ti credeva. Ti disprezzo.

Il greco impallidì e il suo volto si sconvolse ferocemente.

—Ira di Dio! esclamò egli, facendo un passo indietro e alzando la scimitarra. Vuoi proprio che ti strappi il cuore colle mani? Sta attento, Abd-el-Kerim!

S'abbassò bruscamente rimpicciolendosi, quasi aggomitolandosi su sè stesso e allungò il braccio presentando la scimitarra che lo minacciava una superficie stretta e corta riparata ancora dalla distanza. L'arabo, dinanzi a quella manovra per lui nuova, s'arrestò esitando.

Di repente il greco si raddrizzò assaltando furiosamente e spingendo violentemente la scimitarra di punta. Abd-el-Kerim cercò di parare la botta, ma non fu in tempo e riportò una scalfittura al braccio sinistro; la bianca manica che lo copriva si tinse di rosso. Notis emise un grande scroscio di risa.

—E una diss'egli. Fra dieci minuti l'amante di Fathma sarà senza braccia. Sta attento mio caro arabo, che ricomincio.

Abd-el-Kerim non diede segno alcuno di dolore nè di spavento. Egli s'avventò addosso al greco colla rapidità d'un lampo, incalzandolo vigorosamente, stringendolo tanto che l'avversario fu forzato a rompere e a fare un passo indietro.

Tre volte Notis cercò di abbassarsi per ricominciare il giuoco, ma l'arabo gli era sempre addosso, impedendoglielo. Al quarto tentativo fu ferito alla faccia.

—Ah! esclamò il greco tergendosi colla mano sinistra il sangue che colavagli abbondantemente. La è così? Aspetta un po' canaglia.

Spiccò un salto di dieci piedi o si riaggomitolò cercando di strisciare fra le gambe di Abd-el-Kerim che gli correva addosso, ma il colpo di punta fu deviato dalla scimitarra che l'avversario stringeva con polso di ferro. Tornò a indietreggiare dinanzi a quei crescenti attacchi, dirigendosi verso lo stagno.

—Indietro! indietro! gridava l'arabo, che s'infiammava. Giù nello stagno.

In capo a cinque minuti Notis erasi ridotto proprio sulla riva dell'acqua; non gli restavano che due risorse. O lasciarsi ammazzare o gettarsi a testa bassa contro l'arabo.

—Arrenditi, gli disse Abd-el-Kerim.

La faccia del greco s'alterò e il sorriso beffardo che incoronava le sue labbra disparve. Tentò con un colpo disperato di disarmare l'avversario avventandogli una gran botta a mezza scimitarra. Ebbe per risposta una nuova puntata che gli lacerò la manica sfiorandogli la pelle.

Non vi era più nulla da tentare. La sua mano era stanca, si difendeva più lentamente e per quanto studio vi mettesse per non lasciarsi sopraffare e disarmare, sentiva la scimitarra che talvolta minacciava sfuggirgli di mano. Emise un ruggito furioso.

—Ira di Dio! tuonò egli. Che non riesca ad attraversare il cuore di questo vigliacco?

Cercò di portarsi a dritta e poi a manca, ma si trovava dinanzi sempre alla scimitarra dell'arabo che miravalo al petto. Fece un ultimo passo indietro e sentì i capelli rizzarglisi sul capo nel trovarsi proprio sul margine dello stagno. Una nube di fuoco gli passò dinanzi agli occhi. Si vide perduto, ma non chiese grazia.

Si difese per altri cinque minuti, poi gettò un urlo terribile e portò le mani sul petto, abbandonando la scimitarra. Abd-el-Kerim avevalo colpito sul fianco sinistro, nella direzione del cuore.

Stralunò gli occhi, spiccò un salto gigantesco e piombò in mezzo alle larghe foglie di loto che galleggiavano sulle acque dello stagno. Fu visto dibattersi per alcuni istanti, poi scomparire.

Abd-el-Kerim si chinò sulla riva, ma l'oscurità era così profonda, accresciuta anche dagli alberi che stendevano i loro rami al disopra delle acque, che non vide più nulla. Hassarn fu lesto ad avvicinarglisi.

—Si vede? chiese questi.

—No, rispose con voce sorda l'arabo.

—L'hai ucciso sul colpo?

—L'ignoro. Mi parve che la scimitarra incontrasse qualche costola.

—Che il diavolo lo accolga nel suo inferno.

—Taci, Hassarn, disse Abd-el-Kerim con emozione. Mi pare di aver commesso un assassinio.

—Bah! fe' il turco alzando le spalle. Un rivale di meno.

—Era il fratello di Elenka.

—Che importa, dal momento che tu hai spezzato il nodo che ti univa ad Elenka? Ora sei libero di far tua Fathma senza che Notis abbia a disputartela e che abbia ad invocare l'amore che tu avevi per sua sorella. Buona notte ai morti e buona fortuna ai vivi.

—Scendiamo nello stagno, Hassarn. Forse non l'ho ucciso sul colpo e respira ancora.

—Se tu non gli hai attraversato il cuore, a questa ora si è annegato. Lasciamolo lì e ritorniamo all'accampamento dove Fathma li aspetta con viva impazienza. Allàh penserà al morto.

L'arabo approvò con un cenno del capo, ma non si mosse. Cercò di scendere nello stagno ma l'acqua pareva profonda e l'oscurità non permetteva di vedere dove si appoggiavano i piedi. Egli dovette in breve convincersi che era impossibile pescare il corpo di Notis, nascosto fra il loto e fra i canneti.

—Infine l'ha voluto, mormorò egli sospirando. Povera Elenka, che dirà mai quando gli si narrerà che suo fratello è stato ucciso e che l'uccisore fui io, il suo amante. Ah! sento come un rimorso!

—E Fathma? Hai dimenticato così presto quella adorabile creatura?

—Hai ragione, Hassarn. Ho giurato di dare la mia vita a Fathma e
Fathma l'avrà! Vieni, Hassarn questo bosco mi fa paura.

Il turco raccolse la carabina, passò un braccio sotto quello del compagno e tutti e due, a lenti passi s'allontanarono.

Erano appena scomparsi dietro gli alberi, che le grandi foglie di loto dello stagno si sollevarono silenziosamente e la faccia di Notis apparve. I suoi occhi, animati da una tremenda collera, si fissarono, sul luogo appena lasciato dall'arabo e dal turco, nè si staccarono per un bel pezzo.

Ah! tu mi credi morto, diss'egli, cacciando fuori le pugna con gesto minaccioso.

«Tu credevi che fosse così facile ammazzare un greco della mia tempra che s'era giurato d'infrangerti come una canna e che s'era giurato di conquistare il cuore d'una bella donna, qual'è Fathma. Ti mostrerò io ora, quanto sei imprudente a non cacciarmi due dita di ferro di più in petto. Uscirò vivo di qui e guarirò presto e allora a me la vendetta. Ho da vendicare Elenka e la frustata che tu mi hai dato in volto e di più ho da far mia quell'almea che tanto mi abborre. Ti schianterò il cuore in modo tale che non abbia a guarire mai più!…

Tese l'orecchio: non si udiva che il riso smodato delle iene che vagavano sulle rive del Nilo cercando cadaveri e il sibilo del vento che scuoteva i rami dei tamarindi e le foglie delle palme. Egli sorrise stranamente.

Si sbarazzò delle foglie di loto che lo circondavano lacerando i gambi che si appiccicavano al suo corpo e s'avanzò verso la riva tasteggiando prudentemente il fondo limaccioso dello stagno. In pochi minuti guadagnò il pendìo, e si issò, senza rumore, fino a che si trovò completamente fuori dell'acqua.

Un acuto dolore che provò al fianco sinistro l'arrestò. Si stracciò la casacca a mise allo scoperto la ferita infertagli da Abd-el-Kerim, esaminandola attentamente.

La scimitarra eragli penetrata sotto la quinta costola, dopo di aver urtata la quarta ed aveva lacerato le carni per una lunghezza di sette od otto centimetri, ma senza che avesse toccato alcuna parte delicata. Capì subito che la ferita era dolorosa ma niente affatto mortale e respirò.

—Credeva che m'avesse ferito più pericolosamente, mormorò egli. Tanto meglio per me e tanto peggio pel mio rivale. Sta cheto, Abd-el-Kerim, che questo duello ti costerà caro, oh sì, assai caro! E ora, fingiamo di essere morto per tutti eccettuati Elenka e il mio fedele Takir. A proposito dove si è cacciato il nubiano? Non è possibile supporre che egli si sia allontanato nel mentre che io mi battevo.

Accostò le mani alle labbra e imitò il riso sgangherato della iena, che ripetè per tre volte. Pochi minuti dopo udì l'urlo lamentevole del sciacallo che si ripetè pure tre volte.

—Bene, il nubiano è qui, disse Notis, sforzandosi a sorridere.
Aspettiamo.

I cespugli si mossero di lì a poco e la atletica figura di Takir si mostrò. Egli accorse subito accanto a Notis, gettando un vero grido di gioia.

—Ah! padrone, vi credeva morto con una scimitarra attraverso il petto, diss'egli. Per qual fortuna quel dannato d'Abd-el-Kerim vi risparmiò?

—Mi risparmiò! esclamò Notis con furore. Il maledetto non è così generoso da risparmiare un rivale par mio che è per di più il fratello di Elenka. Guarda qui che mi fece.

Egli s'apri la camicia e gli mostrò la ferita che sanguinava abbondantemente.

—Vi ha ferito mortalmente?

—No, per buona ventura, disse Notis. Ho qui poi in faccia il segno lasciatomi dalla sua frusta e una scalfittura al disotto dell'occhio che mi rammenteranno sempre del traditore Abd-el-Kerim.

—Ma come siete stato risparmiato adunque?

—Gettandomi nello stagno e fingendomi morto.

—Sicchè vi credono…

—All'inferno, interruppe, Notis ironicamente. Tanto meglio, se mi credono bello e morto. Avrò agio di vendicarmi più facilmente.

—Voi nutrite, adunque, la speranza di restituire quel colpo di scimitarra?

—Non solo, ma di far mia Fathma, disse con aria feroce il greco. Ora che lei mi aborre, sento d'amarla ancor più, e tanto che senza Fathma mi sarebbe impossibile il vivere. Mi comprendi tu, Takir?

—Perfettamente, padrone, rispose il nubiano, ed io vi aiuterò, poichè…

—Zitto Takir. Afferrami fra le tue braccia e portami.

—Dove? Al campo forse?

—I morti non ritornano più fra i vivi, è giusto adunque che io non ricomparisca al campo. Non conosci tu qualche luogo deserto dove possiamo ricoverarci senz'essere veduti?

—Sulla cima delle colline che si estendono al settentrione d'Ossanieh, mi ricordo di aver veduto una bella caverna che potrebbe servirci di abitazione, e che è abbastanza vicina al campo, disse il nubiano.

—Andremo ad abitarla, Takir, e poi penseremo alla vendetta. Orsù, prendimi fra le tue braccia e portami. Io sono debole per ora.

Il nubiano lo prese, se lo gettò in ispalla e partì correndo colla stessa facilità come se portasse un fanciullo. Attraversò come un'antilope la foresta e sbucò nella pianura senza rallentare un solo istante la corsa. Notis gli guizzò fra le braccia mandando una orribile bestemmia.

—Guarda laggiù, diss'egli, mugolando come una belva. Guarda, Takir, guarda.

Il nubiano vide due persone che salivano le colline sabbiose a meno di quattrocento passi di distanza. Riconobbe subito chi erano.

—Quello là col cofatan bianco è Hassarn, disse. L'altro col fez è l'arabo Abd-el-Kerim: io li conosco tutti e due.

—Sì, sono i due maledetti. Essi si dirigono al campo dove li aspetta
Fathma.

—Calma, padrone, che verrà il dì che l'almea aspetterà voi.

—Puoi star sicuro che verrà quel giorno e mi aspetterà allora in ginocchio. Se tu potessi ammazzarne almeno uno con un colpo di carabina!

—È pericoloso, padrone. Ho il braccio dritto ferito e mi trema, e di più la notte è troppo oscura per mandare una palla a buon segno. Pazientate, li piglieremo entrambi e fra non molto, ve lo giuro.

—Cammina, adunque, e più presto che puoi. Bisogna che tu ti rechi al campo e che mi porti tutto il denaro che trovasi nella mia tenda. Potrebbe darsi che mi occorresse per prezzolare qualche arabo poco scrupoloso.

Il nubiano riprese la corsa, tenendosi dietro le colline sabbiose per non essere scorto dall'arabo e dal turco. Era mezzanotte passata, quando giunse in vista dei primi tugul d'Hossanieh dinanzi ai quali bivaccavano, al chiaro di numerosi fuochi, alcune compagnie di basci-bozuk e di negri d'Etiopia.

Si riposò alcuni istanti, poi s'internò tra i campi di durah e giunse ai piedi di alcune colline aridissime: esitò un momento, poi s'arrampicò su pei dirupati fianchi di una delle più alte, aggrappandosi agli sterpi e ai crepacci e raggiunse quasi la vetta, dove s'arrestò dinanzi a una gran caverna.

—Ci siamo, diss'egli, deponendo il greco a terra.

—È qui che noi pianteremo il nostro nido?

—Sì, padrone, e da questa cima si domina Hossanieh e il campo. Ci sarà facile vedere chi entra e chi esce.

—Sta bene, accendi qualche pezzo di legno per vedere dove si va. Ho paura che abbiamo a incontrare parecchi serpenti.

Il nubiano accese un pezzo di torcia resinosa e tutti e due entrarono con precauzione. Ben presto si trovarono in un ampio stanzone, la cui vòlta era sostenuta da parecchie colonne trasparenti che riflettevano magnificamente la luce. Le pareti, scavate bizzarramente, erano umidiccie ma il terreno, eccettuato un angolo dove raccoglievansi gli scoli che formavano un fossatello, era asciutto e cosparso di una sabbia bianchiccia in mezzo alla quale brillavano pezzi di salgemma. Il nubiano, ammazzati tutti gli scorpioni grigi che l'abitavano, i cui morsi sono pericolosissimi, s'accinse a correre al campo, prima che la notizia della morte di Notis si spargesse e che il pascià Dhafar s'impadronisse di tuttociò che conteneva la tenda.

—Alto là, disse Notis, che seduto su di un macigno si fasciava la ferita. Se tu vai laggiù, non dimenticare d'informarti dove sia Fathma e come vadano le faccende.

Il nubiano sorrise mostrando i candidi denti e scese in fretta la collina correndo verso il campo. Notis, che aveva finito di fasciare la ferita, uscì e andò a sedersi sul limitare della caverna, guardando attentamente il villaggio d'Hossanieh e le tende del piccolo esercito egiziano.

—Essi sono là, dìss'egli con gioia feroce, tutti e due là, a portata della mia mano, a portata della mia vendetta. Parlatevi di felicità, di amori, di immense gioie, ma io schianterò il cuore di entrambi, e in modo che non abbiate a guarire più mai. Non si conosce fino a qual punto sappia odiare il greco Notis.

«Non ho forze ora, m'è impossibile assalirvi di fronte poichè io sono morto, ma troverò io i mezzi per colpirvi e farvi cadere l'uno nelle mani di Elenka e l'altra nelle mie. Io sarò il leone e mia sorella la iena! Oh! allora…

Egli interruppe bruscamente il monologo e si drizzò come spinto da una molla. Al chiaror di un raggio lunare che cadeva sul campo, aveva scorto un mahari dal mantello nero lasciare la tenda dell'arabo Abd-el-Kerim e dirigersi a rapidi passi verso gli avamposti.

Guardando con maggiore attenzione, vide sul dorso dell'animale un uomo avvolto in un gran taub bianco. Impallidì e le sue mani cercarono un'arma.

—Dio mi punisca, se quell'uomo là non è lo Amr, lo schiavo d'Hassarn.
Dove può mai recarsi, che lascia il campo a quest'ora?

Notis rimase un istante indeciso, poi si levò e ritornò in furia alla grotta, dalla quale uscì armato della carabina di Takir. Una cupa fiamma brillava nei suoi occhi e il suo volto tradiva un feroce proponimento.

Quantunque le ferite lo tormentassero crudelmente dopo mille sforzi che gli costarono cento bestemmie e cento lamenti dolorosi, scese la erta collina e guadagnò la pianura cosparsa qua e là di intristiti alfèh e di pochi tamarischi. Egli strisciò silenziosamente fino a raggiungere un misero tugul diroccato, una capannuccia di paglia di forma conica. Si nascose lì dietro colla carabina armata e gli occhi fissi sullo schiavo d'Hassarn che si avvicinava rapidamente, aizzando con un fischio, il mahari.

—Bisogna che sappia ciò che quell'uomo porta, mormorò Notis. Con un colpo di carabina gli farò scoppiare la testa come fosse una zucca.

Alcuni minuti dopo il mahari giungeva a centocinquanta passi dal tugul. Amr continuava a fischiare tranquillamente, senza darsi la pena di guardarsi d'attorno, più che sicuro che il luogo era deserto.

Notis credette giunto il momento opportuno per mandarlo nel paradiso di Maometto. Puntò la carabina, mirò per qualche tempo con mano ferma, poi premette il grilletto.

La detonazione non era ancor finita che Amr precipitava di sella, contorcendosi disperatamente fra le erbe.

—All'armi! s'udirono gridare le sentinelle dell'accampamento.

Notis non si sgomentò. Raggiunse l'agonizzante che emetteva rantoli strazianti, cercando di sollevarsi, e l'atterrò spezzandogli la testa col calcio della carabina.

—Sta cheto, disse l'assassino, sogghignando.

Si curvò sul poveretto che non dava più segno di vita, e lo frugò ben bene rovesciandogli tutte le saccoccie. Trovò una lettera accuratamente suggellata che s'affrettò a leggere, valendosi del chiaro di luna, Ecco il contenuto:

«Elenka,

«Non pensate più a me. Il nodo che univa i nostri cuori si è spezzato per sempre sotto il destino e i voleri del Profeta. Non indagate le cause che mi spinsero a lasciarvi, nè cercate di raggiungermi che ormai ogni altro nodo è impossibile. Che Allàh vi conservi e il Profeta vi protegga.

ABD-EL-KERIM

Il greco, nel leggerla, vacillò come fosse stato côlto da improvviso malore. Una bestemmia gli uscì dalle labbra contratte.

—Ira di Dio! tuonò egli, tenendo il pugno chiuso verso il campo d'Hossanieh. Che i fulmini del cielo m'inceneriscano, se io non vendicherò mia sorella e poi me. Sta bene, Abd-el-Kerim, a noi due ora!…

CAPITOLO VII.—Fit-Debbeud.

Spuntava l'alba quando il greco, dopo di aver nascosto fra le alte erbe il povero Amr e il mahari che aveva sventrato con una coltellata, giungeva alla grotta.

Una collera senza limiti alterava il suo volto già per sè stesso abbastanza truce e una smania terribile, una sete di vendetta ardevagli in petto. Egli comprendeva ormai che tutto era terminato e che le speranze che Abd-el-Kerim avesse finito per ravvedersi e ritornare ad Elenka, erano troncate, come pure comprendeva che Fathma per lui era definitivamente perduta a meno di un miracolo o di un tradimento.

—Ah! esclamò egli coi denti stretti, lasciandosi cadere su di un macigno e prendendosi la testa fra le mani, È proprio vero che quel traditore di Abd-el-Kerim l'ha definitivamente rotta con mia sorella Elenka? Eppure mi pareva innamorato alla follia; eppure aveva giurato di farla sua e giurato non su Allah, ma sul Corano. Traditore e spergiuro adunque, quest'arabo del demonio!… Maledetta Fathma, sei stata la causa di tutte le mie disgrazie!

«Ma Notis è forte e tremendo nelle sue ire e nelle sue vendette, e per quanto io ami quell'almea, mi vendicherò, ma ben terribilmente. Va, Fathma, abbandonati nelle braccia di quello spergiuro che ingannò mia sorella; disprezzami fin che vuoi, ma io ti schianterò il cuore, oh sì, te lo schianterò. Se non fosse un barlume di speranza che ancor mi trattiene, la speranza che Abd-el-Kerim abbia a tornare ai piedi di Elenka, lo assassinerei questo mio rivale!

Egli si assise dinanzi l'apertura della grotta spiando attentamente il campo egiziano per rendersi conto di quanto succedeva.

Di quando in quando uscivano lunghe file di egiziani carichi dei loro sansemieh di pelle di capra che andavano a empire ai pozzi d'Hossanieh e dietro a loro schiere di asini coi boricchieri che trottavano ai loro fianchi emettendo il lamentevole loro haaahh per animarli, squadroni di basci-bozuk che si esercitavano a manovrare sui terreni malagevoli e compagnie di soldati che marciavano in qua e in là formando di spesso i quadrati, come se si trattasse di sostenere una canea di arabi Abu-Rof.

Mille rumori venivano dal campo in mezzo ai quali risuonava la stridula voce degli acquaiuoli che gridavano incessantemente, moja! moja! (acqua! acqua!) e quella nasale dei muezzin.

D'improvviso Notis si levò in piedi come spinto da una molla, emettendo una bestemmia.

Aveva visto un ufficiale uscire dal campo e dirigersi verso Hossanieh e precisamente verso la casupola di Fathma.

—Ah! esclamò con indefinibile accento d'odio. Sei tu Abd-el-Kerim! Va a trovarla pure quell'altera almea, ma ti giuro che la vedrai per l'ultima volta. Cadrai nelle mie mani e quando ti avrò spezzato il cuore ti getterò in quelle dell'antica tua fidanzata, in quelle di mia sorella Elenka. Ira di Dio! Ti farà uscire il sangue a goccia a goccia, se tu non ti piegherai dinanzi a lei. So quanto sia vendicativa mia sorella che ha nelle vene puro sangue greco.

Egli si tacque nello scorgere il nubiano che montato su di un mahari carico d'oggetti, galoppava furiosamente verso la collina. Sorrise di gioia e si stropicciò le mani mormorando più volte:

—A me ora la vendetta.

Takir in pochissimo tempo giunse ai piedi della collina e salì subito alla grotta carico di viveri, di coperte e di talleri.

—Avete udito, poco fa, un colpo di fucile sparato qui vicino? chiese il nubiano, gettando a terra tutta quella roba.

—Non inquietarti Takir, disse Notis. L'ho sparato io contro uno schiavo di Hassarn.

—Avete ammazzato Amr? L'ho veduto un'ora fa uscire dalla tenda dell'arabo.

—Gli ho fatto scoppiare la testa e poi l'ho seppellito. Ma lasciamo lì i morti e parliamo dei vivi, ora. Che notizie rechi dal campo?

—Novità eccellenti, padrone.

—Fathma, trovasi ancora nella sua casupola?

—Trovasi sempre là.

—Come mai Abd-el-Kerim commette simili imprudenze?

—Non so di chi dovrebbe aver paura, ora che vi crede morto.

—Hai ragione, Takir, disse Notis sorridendo. Credo che questa mia morte abbia a giovarmi assai per condurre a buon fine i miei progetti. Tira innanzi, negro mio.

—Ho veduto l'arabo recarsi alla casupola ed entrare.

—L'ho scorto pure io. Parlami d'Hassarn, quel maledetto turco che odio quasi al pari di Abd-el-Kerim. Che fa egli?

—Per quanto lo cercassi non potei vederlo ma suppongo che si trovasse nella tenda di Dhafar pascià.

—Sia bene, ora faremo i nostri piani per colpirli proprio in mezzo al cuore tutti quanti.

Stette un momento silenzioso immergendosi in tristi pensieri, poi, fattosi versare un bicchiere di bilbel, specie di birra fatta con maiz e dòkòn, di sapore dolcigno, e tracannatala, s'alzò, piantandosi dinanzi al nubiano.

—Takir, disse con voce grave. Se tu fosti nei miei panni che faresti?

—Assassinerei tutti e tre quei miserabili, rispose il negro senza esitare.

—Sarebbe una vendetta troppo dolce, eppoi, bisogna che serbi Fathma per me ed Abd-el-Kerim per mia sorella.

—Allora che fare? È una gran disgrazia che vi siate innamorato di quell'altera almea.

—Taci, Takir; io l'amo alla follia, l'amo furiosamente. È tanto bella e tanto giovane che sarebbe un peccato farla morire. Ma non credere che l'ami solamente, no, ira di Dio! L'amo tremendamente, ma nel medesimo tempo l'odio ferocemente.

—E dunque che volete fare?

—Innanzi a tutto bisogna che abbia in mano uno dei due, meglio se avrò prima Abd-el-Kerim.

—Abd-el-Kerim! esclamò Takir sorpreso. E per che farne?

—Una volta in mia mano penseremo a strappargli quella passione che ha per Fathma e a gettarlo nelle braccia di mia sorella. Coi tormenti a tutto si riesce.

—Si capisce che volete tormentarlo per bene.

—Sì, e terribilmente. Odimi ora, Takir.

Tornò a sedersi, vuotò la fiaschetta del bilbel, e facendo cenno al nubiano di avvicinarglisi:

—Tu comprendi, che senza aiuti sarà difficilissimo se non impossibile, d'impadronirsi di Abd-el-Kerim. Conosci tu qualche hossanieh poco scrupoloso che si possa comperare con un bel pugno d'oro?

—So che alle ruine di El-Garch sta accampato lo sceicco Fit Debbeud con un seguito abbastanza numeroso. Questo beduino, che io conosco a fondo, per un bel gruzzolo d'oro potrebbe mettersi ai vostri servigi. È un uomo forte, coraggioso, capace di pugnalare cento uomini senza commuoversi.

È quello che io cercava, Takir. Tu ti recherai nelle foreste e gli parlerai, poi monterai sul tuo mahari e trotterai verso Chartum. Ho bisogno assoluto di mia sorella Elenka per vincere Abd-el-Kerim.

—Oh! fe' il nubiano, Elenka qui, al campo?

—Sicuro, la condurrai a Hossanieh ed ella non indugierà a venire quando tu le avrai raccontato come stanno qui le cose. Orsù, mettiti in cammino e recati a parlare con Fit Debbeud.

E voi?

—Io verrò con mio comodo, quando tu avrai spianata la via e messo al corrente di tutto lo sceicco.

Il nubiano riprese gli oggetti che aveva deposti a terra e tornò a partire. Notis, dopo d'averlo visto a correr come un'antilope, verso le foreste, esaminò la sua ferita, vi sovrappose un cataplasma di erbe medicinali e si sedette dinanzi a un vaso ripieno di ebrèk, cibo assai appetitoso e rinfrescante composto di durah ridotto in pasta sottile e un po' agro per meglio conservarsi.

Finito il pasto che inaffiò con un abbondante sorso di merissak, sorta di birra inebriante fatta con durah fermentato, e fumato un sigaretto, discese la collina e salì sul mahari di Takir, spingendolo a lento passo verso le foreste che chiudevano, all'est, l'orizzonte.

Alle tre dopo il mezzodì giunse ai primi alberi e incontrò il nubiano che veniva in cerca di lui, accompagnato da un beduino avvolto in un gran taub, armato d'una lunga harba (lancia) e munito di una daraga, grande scudo di legno coperto di pelle di elefante.

—Tutto va bene, gli disse Takir. Lo sceicco Fit Debbeud è a secco di talleri e purchè voi riempiate le sue tasche vi ammazzerà dieci volte Abd-el-Kerim. Siate prudente, col danaro, so non volete venire assassinato sulla porta della tenda.

—Non temere, Tahir; rispose Notis. So cosa è il beduino.

—Allora in marcia e che Allàh ci protegga.

S'internarono tutti e tre sotto la foresta seguendo un sentiero ombreggiato da magnifici tamarindi e giunsero, dopo una mezz'ora, dinanzi a una gran spianata cosparsa di colonne infrante, d'arcate cadenti ornate di mille ghirigori in mezzo ai quali spiccava l'ibis religiosa degli antichi nubiani e seminata da grandi sfingi, di statue colossali semi-coperte dalle piante arrampicanti e da ammassi di rottami.

—In mezzo a quelle ruine, chiamate d'El-Gareh, s'alzavano otto tende d'un color bruno sporco a striscie gialle, alte appena da potersi tenere in piedi, ma vastissime, sostenute da pali piantati irregolarmente, e gli orli rovesciati all'insù, di maniera che l'aria vi potesse circolare liberamente.

Dispersi qua e là, fra una mandria di mahari e di cammelle, alcuni seduti e altri sdraiati sui tappeti laceri, se ne stavano due dozzine di beduini avvolti nei loro mantelli bianchi forniti di cappuccio infioccato, occupati a fumare pacificamente nei loro scibouk o nei loro narghilek. Essi inviarono al greco un saluto e si recarono a baciargli la mano a lo condussero nella tenda del loro capo, che era più elevata e più vasta delle altre.

Nel mezzo di essa, Notis scorse, sdraiato indolentemente su di un mucchio di tappeti di kiki di tessuto di pelo di cammello, Fit Debbeud, il capo o meglio lo sceicco della piccola banda beduina.

Era questi un uomo sui trent'anni, di mezzana statura ma di forme vigorose ed elastiche. La sua pelle, di color pan bigio, portava numerose cicatrici bianche ricevute in diverse battaglie; aveva naso acquilino, labbra sottili, zigomi poco salienti, occhi neri, tetri, che brillavano stranamente e una barba arruffata, ancora più nera, che dava alla sua faccia un'aria cupa, selvaggia, poco rassicurante. Il suo costume componevasi di un paio di calzoncini corti fino al ginocchio, attillati in modo di mostrare il rilievo dei muscoli, di un taub, sorta di mantello orlato di rosso, d'una cintura di cuoio nella quale eranvi passate una lunga sciabola, specie di jatagan coll'elsa di ferro in forma di croce, alcuni pistoloni a pietra, un sacchetto di marocchino rosso pieno di preziosi amuleti e una corona di chicchi di vetro giallo de' Mussulmani. Sul capo portava una calotta rossa, una specie di fez turco.

Appena vide Notis, s'alzò, senza troppo scomporsi, e secondo l'usanza gli baciò la mano dicendogli colla più squisita cortesia:

Salem alek (la pace sia teco) frase sacramentale la cui abitudine risale a più secoli.

Allàh ybarèk fik: (Dio ti benedica) rispose Notis non meno cortesemente.

Sceicco e greco si guardarono per alcuni istanti in silenzio, con reciproca curiosità, poi il primo fece cenno al secondo di accomodarsi su di un tappeto, il migliore che si trovasse nella tenda.

Quasi subito entrò uno schiavo portando un vecchio vassoio di lamiera di ferro, su cui stavano numerose tazze coll'orlo rotto, fesse, abbominevoli, vecchie chi sa da quanti anni e comperate chi sa mai in quale bazar di Cairo, di Costantinopoli o forse anche di Bagdad. Ve n'erano di tutte le grandezze e di tutte le forme; di porcellana europea, di finta porcellana chinese, di ferro o di argilla, un campionario infine di quanto di triviale e orrendo, si fabbricano in tutto il mondo. Un bricco indescrivibile, di piombo, tutto sformato e coperto d'ammaccature, conteneva il caffè mescolato con un'abbondante porzione d'ambra grigia.

La bevanda confortante e veramente eccellente fu sorseggiata nel più profondo silenzio, dopo di che lo sceicco, acceso automaticamente il suo annerito scibouk e aspirate alcune boccate di fumo odoroso, si volse verso Notis dicendogli sempre colla più squisita cortesia:

—E ora, mio caro amico, sono a tua disposizione.

—Sai di che si tratta? chiese Notis.

—Takir tutto mi disse.

—Sei tanto coraggioso da imprendere questa guerra contro
Abd-el-Kerim.

—Odimi, amico, disse lo sceicco con orgoglio. Un giorno dodici Egiziani mi assalirono e io li ammazzai dal primo all'ultimo portando le loro teste al mio marabuto che le mostrò all'intera tribù; un altro giorno sorpresi una famiglia di Arabi miei nemici, addormentata nel deserto. Strappai a loro gli occhi, tagliai le orecchie, il naso, le gambe e le braccia e frastagliai minutamente, col mio jatagan, i corpi dei loro bambini. Sono coraggioso e feroce!

—Troppo feroce per ammazzare degli inoffensivi ragazzi.

—È il costume delle nostre tribù sì del Sahara che del Mar Rosso.

—Ti senti, adunque, capace di affrontare il mio rivale.

—Se tu vuoi che io cacci il mio jatagan fra le spalle di quell'arabo e tronchi d'un sol colpo la vita, io la troncherò. Vuoi che io lo passi da parte a parte colla mia hàrba? Io lo trapasserò e poi gli caverò gli occhi, gli taglierò il naso, le gambe e le braccia. Vuoi che io rapisca la tua bella che si mostra verso di te tanto ritrosa? Io la rapirò per quanti urli e per quanto mi maledica. Allàh, da qualche tempo non mi manda carovane da depredare ed io e la mia banda siamo a secco di talleri: paga come un sceicco che nuota nell'argento e io e i miei uomini siamo ai tuoi comandi.

Notis estrasse dalla saccoccia una grassa borsa di talleri di Maria
Teresa, e la gettò allo sceicco che la prese al volo.

—Questo per cominciare, disse.

—Ne hai molte con te di queste borse? chiese il beduino, i cui occhi s'accesero di cupidigia.

—No, disse il greco.

—Dove troverai gli altri talleri?

—Al campo egiziano.

—Sta bene, me li darai quando me li meriterò. Parla ora.

—Bisogna che noi ci impadroniamo del mio rivale.

—Dove trovasi quel cane d'arabo?

—In mezzo all'accampamento d'Hossanieh.

—Hum! fe' lo sceicco, crollando il capo. Sarà affar serio andarlo a prendere laggiù, ma Fit Debbeud ha nel suo sacco mille astuzie. Bisognerà con qualche pretesto farlo uscire dal campo e poi saltargli addosso.

—Lo so, ma non sarà tanto facile.

Il beduino s'accarezzò la barba con compiacenza.

—Bah! esclamò egli sorridendo. Dove trovasi, innanzi a tutto, la sua amante? Assieme a lui o separata?

—Lui trovasi al campo e lei in un tugul d'Hossanieh.

—All'ora l'arabo è nostro. Dal campo al villaggio vi corrono più di mille passi e sono bastanti per portar via il tuo rivale prima che gli Egiziani possano accorrere in suo aiuto e inseguirci.

—Ma come lo farai uscire dal campo? Senza un forte motivo non oltrepasserà di notte la linea degli avamposti. Tu sai che hanno paura dei ribelli che si crede che ronzino per la pianura.

—Sta a sentire, padron mio, disse lo sceicco riaccendendo il suo seibouk. Questa sera mando uno dei miei uomini alla tenda del tuo rivale, anzi ci andrò io in persona, e lo avviso che la sua amante lo desidera. L'innamorato, che m'immagino sarà cotto, mi crederà e uscirà senz'altro dal campo. Tu comprendi il resto; i miei beduini saranno imboscati dietro a qualche macchia, gli piomberanno addosso, lo atterreranno e lo porteranno via. Quando gli Egiziani accorreranno, noi saremo assai lontani.

Notis stese la mano al bandito che gliela strinse vigorosamente.

—Se tu riesci nell'impresa, disse, ti darò tanti talleri da comperare cento fucili e una mandria numerosissima di cammelle.

—Lascia fare a me.

—Takir, gridò il greco.

Il nubiano, che fumava sul limitare della tenda fu pronto ad accorrere alla chiamata del padrone.

—È ora che tu ti metti in viaggio per Chartum, disse Notis. Dirai a mia sorella Elenka come stanno qui le cose e la incaricherai d'ottenere dal governatore il mio congedo assoluto, poichè bisogna che io sia libero per lottare col mio rivale e vincerlo. Le dirai altresì che si faccia firmare, dallo stesso, una lettera che obblighi Dhafar pascià a condurre Abd-el-Kerim nel basso Sudan, dovesse trascinarvelo colla forza.

—Perchè? Non vi capisco.

—L'ignoro io pure, il perchè, ma potrebbe darsi che questa lettera mi tornasse utilissima. Va, Takir, e ritorna presto con Elenka. Mia sorella è abbastanza ricca e potente per ottenere dal governatore quello che vuole.

Il nubiano girò sui talloni e s'allontanò. Poco dopo si udì il sonaglio del suo mahari che indicava che erasi già messo in viaggio.

—E ora che facciamo? chiese Notis allo sceicco.

—Il sole è ancora alto per dirigerci al campo e io ho una fame da lupo. Pranzeremo allegramente.

Fece distendere dinanzi un tappeto nuovissimo e gettò un leggiero fischio. Un beduino entrò portando sulle spalle, appeso ad una pertica, un agnello intero arrostito e lo depose su di una specie di sporta piatta di foglie di palma.

—Bismillah! (in nome di Dio) disse Fit Debbeud, frase abituale che pronunziano sia per cominciare a mangiare, sia per scannare o torturare il loro nemico.

Lo sceicco divise l'agnello colle dita, essendo sconosciuta la forchetta presso i beduini, tagliò la pelle brunastra, lucida e croccante, in lunghe striscie e servì Notis, che le assalì vigorosamente inaffiandole con latte di cammella fermentato nella pelle di una capra, che sapeva orribilmente di muschio. Lo sceicco, ogni qualvolta che il greco accostava la tazza alle labbra non mancava mai di dire: saa (alla salute) alla quale frase rispondeva Notis: Allàh y selmek (Dio ti salvi).

Dopo la prima portata, un altro beduino recò un gran vaso di terra, una specie di garahs, vecchio di cent'anni, nel quale trovavasi un pasticcio di riso nuotante in una salsa giallognola, pepata in modo orribile, con un miscuglio di datteri secchi pestati e di albicocche. Seguì l'hamis, composto di pezzetti di carne di pollo e di montone fatti dapprima cuocere in istufato con burro e di poi bagnati con acqua calda e conditi con pepe in gran quantità, sale, datteri e cipolle fatte bollire fino a ridurle a completo discioglimento. Il pasto finì col kus-kussu, o cibo nazionale, preparato con pallottoline di farina piccole come pallini da caccia, condite con una salsa piccante e con una sorsata di bilbel.

In quel frattempo densi nuvoloni s'erano accavallati nella profondità del cielo e un vento caldissimo s'era messo a soffiare, scuotendo fortemente le cime degli alberi e piegando le tende. L'oscurità cominciava a farsi rapidamente e prometteva di essere tanto fitta da non poterci vedere a due passi di distanza.

Notis ne fece parola allo sceicco, che finito il pasto, s'era rovesciato sui tappeti, fumando flemmaticamente.

—Tanto meglio, rispose il beduino. L'uragano favorirà la spedizione, e le tenebre proteggeranno la nostra ritirata. Credo anzi che sarà ora di metterci in cammino, e di andar a raccontare all'arabo che la sua bella ha fatto un colpo.

—Non vi è pericolo che tu, recandoti al campo, abbia a venire scoperto?

—Nessuno mi conosce, eppoi, a uno sceicco è permesso di andare dove gli pare e piace senza render conto a chicchessia. Non aver timore che io possa venire preso da quella gente vigliacca. E avutolo in nostre mani, dove lo nasconderemo questo rivale?

—A pochi passi da qui vi è un corridoio che mette capo ad una spelonca orribile, umida quanto mai. Ve lo caccieremo dentro e ve lo rinchiuderemo per bene.

Lo sceicco s'alzò, si gettò a bandoliera il suo lungo moschetto a pietra, imbracciò il suo scudo di pelle di elefante e uscì assieme al greco. I beduini s'erano raccolti di già attorno ai mahari, in completo arnese di guerra; ad un suo cenno si posero in sella.

Una parola ancora, prima di separarci, disse lo sceicco. Se il tuo rivale mi chiedesse chi m'incaricò di rapirlo, che devo rispondergli?

—Rimarrai muto come una tomba. Le vendette circuite dal mistero sono le più spaventevoli.

—Sta bene, che Allàh ti guardi!

—Che Allàh t'aiuti, rispose Notis,

Lo sceicco salì sul mahari e diede il segnale della partenza. La banda partì alla carriera in direzione d'Hossanieh.

CAPITOLO VIII.—Il prigioniero.

Dal sud soffiava un vento impetuosissimo, caldo come se uscisse da un forno acceso, il quale curvava e scuoteva fortemente le palme isolate e le piantagioni di durah e sollevava colonne di fine sabbia che s'innalzavano roteando e correndo per la pianura fino a spezzarsi contro le colline o contro i tugul di Hossanieh. Tratto tratto un lampo abbagliante livido, tremulo, rompeva la fitta tenebrosità, seguito poco dopo da un lungo e lontano stridio, paragonabile al rumore che fa un carico di lamine di latta trascinato a corsa per le vie.

I beduini, col taub tirato in sulla bocca per non avere le fauci riempite dalla sabbia, e l'jatagan e le hàrbas (lancie) in mano, per essere pronti a diffendersi, caso mai venissero assaliti, marciando nel più profondo silenzio, in capo ad un'ora giunsero a un duecento passi d'Hossanieh, dove fecero alto fra due colline abbastanza elevate per nasconderli.

Fit Debbeud fece legare i mahari in cerchio obbligandoli a inginocchiarsi, pose due uomini di guardia accanto ad essi, e col rimanente della banda si spinse fino nei dintorni del campo egiziano e precisamente dietro ad un macchione d'acacie gommifere, dove potevansi imboscare e saltare addosso ad Abd-el-Kerim appena che fosse vicino.

—Silenzio, disse lo sceicco, chiamando attorno a sè i suoi uomini, e state ad ascoltare quanto vi dico. Io mi reco al campo egiziano, poichè occorre un uomo astuto e coraggioso per tentare l'impresa e saperla condurre a buon fine senza destare sospetti. Vado a prendere l'arabo, lo conduco fuori del campo e mi dirigo da questa parte; al primo fischio che io mando, tutti adosso e poi via di trotto verso i mahari, Ricordatevi che qui si giuoca la pelle.

—Sta bene, risposero in coro i banditi.

—E gli Egiziani? chiese uno di essi. Sono distanti appena ottocento passi.

Fit Debbeud alzò le spalle e un sorriso sprezzante sfiorò le sue labbra.

—Gli Egiziani non si muoveranno, ve lo dico io, diss'egli. Urleranno come cani, ma non ardiranno inseguire Fit Debbeud e i suoi beduini.

Si sbarazzò del coftan e dell'archibuso, armò le pistole che si passò nella cintola, si assicurò se l'jatagan scorreva nella guaina e marciò dritto verso gli avamposti egiziani che bivaccavano al chiarore dei fuochi a gran pena tenuti accesi.

—Chi va là? gridò una sentinella prendendolo di mira.

—Getta abbasso il tuo fucile che mi reco dal tenente Abd-el-Kerim, rispose il bandito. Anzi conducimi alla sua tenda se non vuoi che Dhafar pascià ti faccia accarezzare le spalle col corbach (staffile di pelle d'ippopotamo).

Ad un fischio della sentinella un soldato accorse e il bandito fu fatto entrare nel campo e accompagnato verso la tenda dell'arabo.

—Se tu sai, Abd-el-Kerim, trovasi solo nella sua tenda? chiese
Debbeud al soldato che lo precedeva.

—Credo che sia col capitano Hassarn.

—Chi è questo capitano?

—L'amico del tenente Abd-el-Kerim.

Il bandito aggrottò la fronte o fece un gesto dispettoso.

La faccenda comincia a diventare imbrogliata, mormorò egli. Se questo Hassarn seguisse l'amico? B'Allai! (Perdio!) Sarà difficile rapirli tutti e due e poi, per che farne dell'altro? Se ci secca gli passeremo una scimitarra attraverso il corpo e lo manderemo diritto in paradiso a tener compagnia al Profeta.

Fermati, disse il soldato, arrestandosi dinanzi ad una tenda.

—Spicciati, rispose il bandito. Digli che io vengo da Hossanieh e che mi manda una bella donna che si chiama… alto là, amico mio.

Il soldato entrò nella tenda e poco dopo uscì.

Il tenente ti aspetta, entra, gli disse.

—È solo?

—No, col capitano Hassarn.

Lo sceicco cacciò fuori una bestemmia, ma non si smarrì. Colla testa alta e colle mani sui calci delle pistole si fece innanzi e si fermò dinanzi all'arabo che stava sdraiato su di un tappeto, vicino ad Hassarn. I tre uomini si esaminarono con curiosità e quasi con diffidenza.

—Tu hai detto di venire da Hossanieh, non è vero? chiese
Abd-el-Kerim.

—Sì, e mi mandò una donna che tu conosci, rispose Debbeud, sbirciando di traverso i due uomini.

Abd-el-Kerim si scosse e s'alzò come spinto da una molla.

—Chi è quella donna? chiese egli, avvicinandoglisi.

—Credo che si chiami Fathma.

—Ed essa ti mandò da me? È impossibile!

Fit Debbeud, quantunque fosse coraggioso, fremette, e si guardò indietro per essere pronto a prendere il largo.

—Cosa ci trovi di strano? chiese egli, esitando.

—Fathma ha degli schiavi a sua disposizione.

—Si vede che ha preferito mandar me, ecco tutto.

—E sai che vuole da me? Corre forse qualche pericolo? domandò l'arabo con ansietà.

—L'ignoro, rispose Debbeud. Credo però che farai bene a venire subito a Hossanieh. Mi pareva assai agitata.

Abd-el-Kerim guardò Hassarn che non staccava gli occhi dal volto dello sceicco.

—Che ne dici, Hassarn? gli chiese.

—Non so quale pericolo possa correre Fathma, ora che Notis è morto, tuttavia si può andare a vedere ciò che desidera. Chi sa!

Abd-el-Kerim cinse la scimitarra e si pose in capo il fez. Hassarn lo fermò nel momento che stava per seguire il bandito.

—Abd-el-Kerim, gli disse sottovoce. Sta in guardia.

—Che temi? Ho la mia scimitarra e questo sceicco mi pare che non sia un uomo capace di arrischiare la sua vita contro di me.

—Può darsi; ad ogni modo ti terrò d'occhio fino alla casupola.

Debbeud e l'arabo uscirono. Faceva sempre oscuro assai e il vento soffiava con maggior violenza facendo ondeggiare le tende degli accampati e atterrandone più d'una; in cielo correvano densi nuvoloni che s'accavallavano confusamente e il tuono rullava in lontananza.

Fit Debbeud precedette l'arabo fino agli avamposti, poi gli si collocò a fianco colla dritta sull'impugnatura dell'jatagan.

—Soffia il simum, dissegli poco dopo.

—Lo sento, rispose Abd-el-Kerim distrattamente.

—Credo che faremo bene a tenerci sotto le colline per non inghiottire una porzione di sabbia e per non diventare ciechi.

—Come vuoi.

Un lampo rischiarò la pianura e sotto la macchia dove si tenevano imboscati i beduini, brillarono delle armi. Abd-el-Kerim si fermò.

—Chi si tiene sotto quel macchione? diss'egli.

—Alcuni basci-bozuk, rispose Fit Debbeud. Gli ho veduti poco fa quando passava accanto a quel gruppo di acacie.

—Sei sicuro di non esserti ingannato? Si dice che alla notte alcuni ribelli vengono a ronzare attorno al campo.

—Ho parlato con loro e m'inviarono la buona notte. Non hai nulla a temere, tenente. Allunghiamo il passo.

Erano giunti a pochi passi dalla macchia. Fit Debbeud si mise a zuffolare un'aria dongolese; d'un tratto passò dietro all'arabo e l'afferrò per le braccia tentando con una brusca scossa di rovesciarlo.

Abd-el-Kerim, che per l'avvertimento d'Hassarn tenevasi in guardia, fu pronto, con una vigorosa strappata, a liberarsi e a fare un salto indietro.

—Ah! traditore! esclamò egli, sguainando la scimitarra.

Lo sceicco lo caricò furiosamente coll'jatagan, spiccando salti da leone, girandogli vertiginosamente attorno per colpirlo alle spalle. Vibrò tre o quattro colpi che furono ribattuti, ricevendo anzi una scalfittura in una spalla.

—A me, beduini! gridò egli, digrignando i denti come una iena.

La banda saltò fuori, correndo addosso all'arabo e circondandolo.

—Aiuto, Hassarn, urlò Abd-el-Kerim, cercando respingere gli assalitori.

Tre o quattro fucilate scoppiarono verso il campo e s'udirono le sentinelle gridare l'allarme. Una seconda scarica mandò a gambe levate due beduini.

Non vi era da perdere un solo istante; un forte drappello di Egiziani si avanzava a passo di corsa colle baionette in canna e alcuni basci-bozuk bardavano in furia i cavalli. Fit Debbeud si scagliò fra le gambe dell'arabo che gli cadde sopra lasciandosi sfuggire di mano la scimitarra.

—Afferratelo! afferratelo! esclamò il bandito trattenendolo per la cintola.

Abd-el-Kerim tentò con uno sforzo disperato di risollevarsi, ma uno dei beduini lo fece ricadere assestandogli sul capo un terribile colpo col calcio dell'archibuso. In un batter d'occhio fu legato solidamente e trascinato via, nel mentre che una terza scarica di fucili partiva dal campo gettando a terra un altro bandito.

I beduini, preceduti da Fit Debbeud attraversarono come un uragano la pianura, si gettarono in mezzo alle colline e in men che lo si narri giunsero ai loro mahari. Fit Debbeud salì in sella coll'arabo, che stordito dalla percossa non opponeva la più debole resistenza e diede subito il segnale della partenza.

I venti mahari eccitati dalla voce e dalle sferzate partirono celeramente dirigendosi verso le foreste del Bahr-el-Abiad, lontane una diecina di miglia. Alcuni basci-bozuk si diedero a inseguirli mandando alte grida e agitando freneticamente le loro lancie, ma alcune archibusate li misero in fuga.

—Bravi, ragazzi! esclamò Fit Debbeud. Sferzate! Sferzate!

Le tenebre ed il vento che continuava a sollevare cortine di sabbia, favorirono la ritirata che si effettuava colla rapidità prodigiosa. Le sferzate e gli ich! ich! pronunciati in furia mettevano le ali ai mahari che divoravano la via.

Fit Debbeud, nel mentre che galoppavano in gruppo serrato, si chinò su
Abd-el-Kerim che teneva stretto fra le braccia e lo toccò in volto
colla punta del suo jatagan, facendogli uscire una goccia di sangue.
L'arabo aprì gli occhi e lo guardò fissamente.

—Bravo arabo, disse lo sceicco sorridendo. Si vede che tu sei di buona razza, formato tutto di ferro di buona tempra. Mi conosci tu?

—Aspetto che tu mi dica chi sei, rispose Abd-el-Kerim freddamente.

—Mi chiamo Fit Debbeud, ma nel Dongola mi si conosce meglio per la
Jena del Sudan. È probabile che tu oda questi nomi per la prima volta.

—Mi vanto di non aver mai udito questi nomi che puzzano da bandito a una giornata di cammino.

—Come sai tu che io sono un bandito? Sono lo sceicco di questi beduini.

—Per venire al campo, assalirmi a tradimento e portarmi via non bisogna essere che briganti o figli di quel cane di Mahdi. Queste piastre vuoi pel mio riscatto?

—Si vede che hai dello spirito, cane di un arabo. Voglio vedere se ne avrai altrettanto quando porrò sulla tua bruna pelle certe bestioline.

—Quale scopo hai per rapirmi? chiese sprezzantemente Abd-el-Kerim.

—Fra poco lo saprai, rispose lo sceicco.

Chiuse la bocca al prigioniero con un pugno che gli fe' sanguinare i denti, poi rizzandosi sulla gobba del mahari gridò:

—Dritti alle ruine d'El-Garch, ragazzi miei.

La banda era allora giunta sul limitare delle grandi foreste del Bahr-el-Abiad, i cui alberi si curvavano con mille scricchiolii e con mille gemiti sotto i soffi del simun.

Fit Debbeud spinse il suo mahari sul sentieruzzo stretto e tortuoso e s'arrestò dinanzi a El Garch, le cui ruine si alzavano come fantasmi fra la profonda oscurità.

—Alto là! comandò egli, volgendosi verso la sua banda.

Fece inginocchiare il mahari con un semplice: khh! khh! sospirato, si gettò sulle spalle Abd-el-Kerim e dopo averlo avvolto strettamente nel suo taub lo consegnò ai suoi satelliti.

—Lo condurrete nel sotterraneo, gli disse. Se oppone resistenza torcetegli i polsi fino a snodarli.

Entrò nella sua tenda dove il greco sonnecchiava fra un monte di tappeti. Con un fischio lo fece saltare in piedi.

—Eccomi tornato, mio padrone.

—Ah! esclamò Notis, sei qui finalmente? Come andarono le cose?

—Il colpo è riuscito pienamente, rispose Fit Debbeud. Ho perduto tre uomini ma tu me li pagherai con sei cammelle.

—È in tua mano adunque? Mille tuoni!…

—Sì e senza essere stato avariato dagl'jatagan.

—Ah! cane d'un rivale! gridò il greco con gioia feroce. Se non vi fosse Elenka di mezzo, vorrei farti, sotto questa tenda e in mia presenza, uscire tutto il sangue che hai in corpo.

—Se vuoi che glielo faccia uscir io mi divertirò immensamente.

—No, non lo posso per mia disgrazia. Morrebbe, e a me interessa che non muoia.

—Si potrà fargliene uscire mezzo, incalzò lo sceicco.

—Odimi prima, disse il greco con voce collerica. Un dì, quell'uomo fu il fidanzato di mia sorella, e l'amò furiosamente e ne fu contraccambiato, poi vide Fathma, si dimenticò della prima per amare la seconda.

—Ciò vuol dire essere spergiuri e traditori, ragione di più per farlo morire lentamente e fra i più atroci tormenti.

—E mia sorella?… Elenka lo ama, e forse più di prima.

—La faccenda diventa imbarazzante. E che vuoi fare adunque?

—Fra due o tre giorni Elenka sarà qui e bisogna che prima del suo arrivo schiacci o meglio svelga dal cuore dell'arabo l'amore che ha per Fathma.

—Non trovo altro mezzo che quello di strappargli addirittura il cuore, disse tranquillamente il bandito.

—Ti ripeto che non deve morire.

—Aspetta un momento. E se io mi spacciassi per un amante di Fathma?

—Ebbene?

—Lascia pensare a me o tu vedrai che gli farò perdere ogni speranza di rivedere Fathma e gli farò comparire Elenka come una salvatrice. Il Profeta stesso non potrebbe fare di più.

—Se vi riesci compero da te Fathma a peso di talleri.

—Non chiedo di più. Ora andiamo a trovare il mio rivale e poniamo in opera i nostri progetti.

Lo sceicco s'inumidì le labbra con una tazza di merissak, accese un ramo d'albero resinoso, uscì dalla tenda e guadagnò l'entrata di un corridoio che aprivasi sotto una specie di piramide smussata e che si sprofondava tortuosamente sotto terra.

Vi entrò camminando con precauzione fra rottami d'ogni sorta e s'arrestò, pochi minuti, dopo dinanzi ad una porticina ferrata e bassa. Tese l'orecchio: al di fuori s'udiva brontolare il tuono e ruggire il vento sotto le grandi foreste e nel sotterraneo s'udivano le bestemmie e i lamenti del prigioniero. Un satanico sorriso apparve sulle labbra dello sceicco.

—Il mio prigioniero si trova a disagio nel sotterraneo, mormorò egli beffardamente. Lo faremo diventare idrofobo.

Aprì la porticina ed entrò in una specie di cantina umidissima e tanto fredda da gelare le membra. In un canto scorse subito Abd-el-Kerim, addossato alla parete, coi pugni chiusi, la faccia contratta dalla collera e dal dolore e gli occhi fuori dalle orbite che schizzavano fiamme. Fit Debbeud emise un grande scroscio di risa che l'eco ripetè più volte.

—Che fate, giovanotto mio? chiese egli, sghignazzando.

L'arabo scattò in piedi come una belva e lo guardò torvamente.

—Miserabile! urlò con voce strozzata, facendoglisi addosso colle braccia tese.

Lo sceicco trasse flemmaticamente un pistolone e puntandolo verso di lui, disse duramente:

—Se tu alzi una mano verso di me, ti faccio scoppiar la testa.

—Sei un brigante! urlò l'arabo furibondo.

—Si vede che tu conosci bene gli uomini. Non ti sei ingannato qualificandomi per un bandito.

Abd-el-Kerim lo guardò sorpreso.

—Ma che vuoi fare di me? Perchè mi hai rapito? Che ti ho fatto io per cacciarmi in quest'inferno? Chi te l'ordinò? Chiese con ira concentrata.

—Non credeva che un uomo par tuo si sentisse in vena di parlar tanto.
Meglio così; noi discorreremo come vecchi amici.

Impiantò la torcia in terra, si sedette su di un mucchio di rottami, trasse di saccoccia il suo scibouk, lo riempì e accesolo aspirò tre o quattro boccate di fumo con una flemma che avrebbe fatto invidia ad un Inglese.

—Tu mi chiedevi il perchè ti seppellii in quest'inferno, diss'egli, calcando su ogni parola. Se vuoi che te lo dica schiettamente, una donna è la causa di tutte le tue disgrazie.

Abd-el-Kerim indietreggiò fino al muro e sentì un freddo sudore imperlargli la fronte. Un timore, un presentimento sinistro l'assalì.

—Una donna!… balbettò. Una donna!

—Conosci tu un'almea che si chiama Fathma?

—Fathma! Fathma tu hai detto? Che vuol dire? Per Allàh, tu mi schianti l'anima!…

—È proprio per schiantarti l'anima che io sono sceso in quest'inferno, disse beffardamente lo sceicco.

—Ah! sciagurato! urlò il povero arabo facendo atto di saltargli addosso.

—Non muoverti, per mille saette! gli intimò lo sceicco ripigliando il pistolone con gesto minaccioso. Sta in guardia, ti ripeto.

Abd-el-Kerim si cacciò disperatamente le mani nei capelli e mugghiò come un toro.

—Ma che ti feci io, assassino? che vuoi da me? chiese.

—Odimi, ma non muoverti, se vuoi che ci lasciamo da buoni amici. Io sono lo sceicco Fit Debbeud ed amo alla follìa la donna che tu ami.

—Chi?… Fathma?…

—Sì, amo Fathma, ma l'amo, come ti dissi, alla follìa. Io seppi che tu l'amavi e che ella ti corrispondeva, e giurai in cuor mio di togliere l'ostacolo che mi sbarrava il cammino. Ebbi la fortuna di pigliarti e ti seppellii quaggiù per farti crepar di gelosia e sopratutto di fame.

—Non è possibile!… Non è possibile!… urlò Abd-el-Kerim. Fathma non ama che me, mi ha giurato che sarà mia, e mia sarà.

—È ben perchè ha giurato che sarà tua, che io ti spedisco all'altro mondo. Morto te, mi amerà voglia o non voglia.

—Ah! Cane!…

—Zitto, giovanotto mio. Se vuoi vi è un mezzo per riscattare la libertà.

—Quale? chiese l'arabo che ebbe un raggio di speranza.

—Quello di recarti da Fathma e di sputarle in volto in segno di supremo disprezzo.

—Taci, miserabile, taci!… Io ti sbrano co' miei denti!

—Addio, giovanotto, disse il beduino alzandosi. Oggi stesso partirò per Chartum con Fathma e tu rimarrai seppellito in questa tana che sarà anche la tua tomba.

L'arabo cacciò un urlo disperato e si gettò sul bandito, ma questi stava in guardia. Si trasse prontamente da un lato e gli scagliò su un fianco un sì terribile pugno che il prigioniero cadde come morto.

—Addio, giovanotto, ripetè lo sceicco sogghignando.

Lasciò cadere una manata di datteri, spense la torcia e se ne andò tranquillamente, sbarrando la porta dietro alle spalle.

Per dieci minuti lo sventurato Abd-el-Kerim non fu capace di muoversi tanto era stato forte il pugno scagliatogli dal bandito, poi con uno sforzo disperato si rizzò in piedi e si precipitò innanzi, colla speranza d'arrivare alla porta. Ma le tenebre erano profonde ed andò ad urtare contro un muro umido viscido al quale contatto rabbrividì.

—Aiuto!… Aiuto! urlò egli con voce semi-spenta.

L'eco del sotterraneo solo rispose alla disperata invocazione. Egli si mise a correre all'intorno come un pazzo, urlando e bestemmiando, chiamando Fathma che ormai credeva perduta, incespicando ad ogni istante, cadendo e risollevandosi. Trovò la porta, vi cozzò furiosamente contro cercando di scassinarla, ma non riuscì nemmeno a scuoterla. I capelli gli si rizzarono sulla fronte, la disperazione lo prese e per un istante gli balenò in mente l'idea d'infrangersi il capo contro le pareti.

—Aiuto! Aiuto, Fathma! urlò ancora lo sventurato.

Retrocesse barcollando come un ubbriaco e tese gli orecchi. Al di fuori tuoneggiava fortemente e s'udiva il vento urlare nel corridoio; un tuffo impetuoso d'aria umida giunse fino a lui.

—Dove sono? si chiese egli con una voce che più nulla aveva d'umano. Che è successo? Perchè mi han rapito? Dov'è Fathma, la mia povera fidanzata, la mia disgraziata almea? Sono in preda forse ad un terribile incubo?…

Si stropicciò gli occhi, e si persuase d'essere proprio sveglio e prigioniero in quell'orrido sotterraneo. Allora si risovvenne delle parole dettegli dallo sceicco Fit Debbeud.

—Dio!… Dio!… esclamò egli con profondo terrore. Sarebbe mai possibile che quell'uomo fosse mio rivale? Sarebbe mai possibile che egli avesse a rapirla deludendo la sorveglianza di Hassarn?… Fathma! Fathma!… che farò io abbandonato in questa spaventevole prigione, senza speranza d'aprirmi un varco, senza un'arme per tentare la fuga, solo, isolato nel mezzo delle foreste del Bahr-el-Abiad?… Ho paura, ho paura, io divento pazzo!…

Due lagrime gli solcarono le brune gote; si lasciò cadere a terra, nascose la faccia fra le mani e pianse. Le ore passarono lente, lente, ma nessun uomo scese nel sotterraneo, nè alcun rumore s'udì fuorchè gli urli della tempesta che continuava a imperversare.

Quanto tempo passò? Egli non lo seppe mai, ma probabilmente più giorni scorsero.

Aveva già perduta ogni speranza e s'era accoccolato in un angolo della prigione, fiaccato dalla fame e dalle angoscie, rassegnato a morire, quando un fischio repentino lo tolse dalla sua disperazione.

Si alzò dopo incredibili sforzi e si guardò d'attorno. Un vago chiarore trapelava da una piccola screpolatura, aperta fra le umide pareti. Vi si trascinò sotto e raccogliendo tutte le sue forze chiamò aiuto.

Udì un nuovo fischio poi una voce, quella del bandito Debbeud, gridare:

—Olà! Saltate su, che Elenka è in vista!

Abd-el-Kerim gettò un ruggito d'ira; la benda gli cadde dagli occhi, comprese tutto. Egli si slanciò come una tigre verso la fessura, ma le forze gli vennero meno e cadde a terra sfinito, coi pugni minacciosamente chiusi e la schiuma alle labbra.

Proprio in quell'istante la sorella di Notis arrivava alle ruine d'El-Garch.

CAPITOLO IX.—Elenka.

Elenka, chiamata la bella greca, era la più affascinante e nel medesimo tempo la più ardente creatura che potesse incontrare in tutta la regione dell'alto Egitto. Poteva avere diciott'anni a giudicarla dalle forme assai pronunciate; era di statura alta piuttosto che bassa, dalla vita flessuosa, dal portamento altero, superbo come era superba e altera nel gesto e nella parola. Aveva capelli nerissimi a riflessi metallici, che le cadevano come vellutato mantello sulle spalle, una fronte piccola come quella delle statue greche, due occhi scintillanti che parevano talvolta accendersi, ombreggiati da sopracciglia di un nero assoluto e di una regolarità perfetta, un naso insensibilmente aquilino le cui nari mobilissime, dilatavansi nelle collere e due labbra rosse come corallo che spesso aprivansi ad un sorriso strano, diabolico, ma sempre affascinante.

Appena era giunta a Chartum, due anni addietro, assieme a suo fratello Notis, reduce allora, dal Cairo, aveva fatto girare la testa a tutti gli Arabi, Egiziani e Turchi della città. Pascià, cadi, ufficiali e mercanti si erano subito messi a corteggiarla, ma strana e superba quale era, aveva disprezzato gli uni, deriso gli altri e scoraggiato in fin dei conti tutti. Uno solo fra tanti era rimasto al suo posto, irremovibile come una rupe, determinato a qualsiasi costo, ad aprire una breccia in quel cuore inaccessibile e questo uomo era l'arabo Abd-el-Kerim.

Una passione gigantesca era nata nel suo animo, passione che egli credeva non poterla spegnere nemmeno colla morte. La seguì ostinatamente per mesi, incrollabile fra gli sprezzi e le derisioni della bella greca e dei propri rivali, aspettando ansiosamente l'occasione per vibrare la prima freccia. Un giorno la dahabiad [1] che conduceva Elenka e Qualagla si rovesciò in causa di uno scontro con un battello a vapore; Abd-el-Kerim si gettò nel fiume e salvò la greca nel momento che annegavasi.

[1] Barca del Nilo.

Non ebbe nemmeno un ringraziamento, nemmeno un sorriso, anzi neppure uno sguardo; ognuno avrebbe perduto ogni speranza di conquistare quella superba creatura, ma l'arabo non si scoraggiò ancora, anzi il suo amore crebbe sempre fino a toccare la pazzia.

Una sera che Elenka tornava dal villaggio d'Undurmàn assieme al suo schiavo fu assalita da una banda di predoni Sennarèsi. Abd-el-Kerim, che come il solito la seguiva, accorse a difenderla, ammazzò mezzi assalitori e fugò gli altri. Riportò una ferita in mezzo al petto, ma che montava? La prima freccia aveva ormai colpito l'inaccessibile cuore della superba greca.

Essa cominciò ad ammirarlo, poi il suo cuore cominciò a battere con maggior violenza, scaturì una scintilla, la scintilla avvampò e scatenò un incendio. Amò l'arabo, ma l'amò furiosamente, tremendamente tanto che per lui si sarebbe gettata anche nel fuoco e l'unione dei due cuori fu stabilita.

Sopraggiunse la guerra e Abd-el-Kerim partì col suo battaglione sotto il comando di Dhafar pascià. Elenka voleva seguirlo, le fu proibito e si rassegnò, dopo aver a lungo pianto, ad aspettare il suo ritorno. Quando Takir le portò la terribile notizia che Abd-el-Kerim s'era gettato nelle braccia di Fathma credette impazzire dalla gelosia e dal furore. Poi una sete ardente di vendetta la prese e giurò in cuor suo di dilaniare coi propri denti il cuore dell'abborrita rivale.

Partì subito anelante, furibonda, fuori di sè, quasi delirante. Non arrestò un sol minuto, neppure alla notte, fuorchè per cambiare i mahari che dilombava nelle continue e rapidissime corse e in meno di due giorni giunse in vista delle capanne di Hossanieh. I beduini vegliavano nella pianura e la condussero innanzi a El-Garch proprio nel momento che Notis svegliato di soprassalto dalla voce di Fit Debbeud, appariva sul piazzale.

Fratello e sorella, appena si scorsero si precipitarono nelle braccia l'un dell'altra, stringendosi quasi con rabbia e si guardarono mutamente per alcuni minuti con gli occhi scintillanti di collera e di gioia. I loro volti si contrassero stranamente e un sorriso feroce agitò le loro labbra.

—Vieni, Elenka, disse d'un tratto Notis, prendendola per mano.

La condusse lontana dalle tende, vicina ad una gran sfinge e la fece sedere sopra di un gigantesco tarbusch di pietra che altre volte doveva essere stato un cippo mortuario.

—Ebbene chiese Elenka con voce che sibilava fra i denti stretti.

—Abd-el-Kerim ti ha tradita, rispose Notis.

—È proprio vero adunque, che dopo di avermi tanto amata ha infranto l'amore che ci univa?

—Vero, Elenka, ti ha lasciata per correre dietro ad un'almea.

La greca s'alzò come una iena furibonda, e le sue mani si chiusero come se avessero voluto stritolare qualche cosa. Chiuse gli occhi e li riaprì più scintillanti di prima fissando in istrana guisa Notis:

—Io soffoco dall'ira e muoio di sete, ma ho sete di sangue, diss'ella con selvaggio trasporto. Dimmi dov'è questa mia rivale, ond'io vada a strapparle il cuore colle mie unghie; dimmi dovo posso vederla. Mi sentirei capace di avvelenarla col solo mio sguardo!

—Calma, Elenka, disse Notis. In queste faccende bisogna essere freddi.

—Nelle mie ire non so dominarmi, tu lo sai, Notis. Sono quattro giorni che ho il cuore straziato da una terribile gelosia, sono quattro giorni che mi sento presa da una smania feroce di uccidere o di essere uccisa. Dammi questa rivale e tu mi vedrai diventare più crudele della iena, la più sanguinaria che sia vissuta nei deserti dell'Africa.

—E Abd-el-Kerim, l'hai dimenticato?

—Abd-el-Kerim! esclamò Elenka con aria cupa.

—Che faresti di questo traditore se lo avessi in tua mano?

—Non lo so… Dove si trova egli?

—In un posto sicuro.

Elenka lo guardò con sorpresa.

—È forse vicino? domandò con viva emozione.

—Sta sotto i nostri piedi.

—Morto forse!… esclamò ella, dando indietro, spaventata. Notis!…

—Non ancora.

—Dov'è, dimmi Notis, dov'è?

—Chiuso in un sotterraneo.

—Conducimi da lui, voglio vederlo! disse Elenka, scattando in piedi.

Notis si mise a ridere, lisciandosi tranquillamente la nera barba.

—L'ameresti ancora? domandò egli beffardamente.

—Non so se l'odio o lo ami, so solamente che voglio trovarmi dinanzi a lui per dirgli che la sua rivale la calpesterò, la farò a brani, la polverizzerò come fosse di creta.

—Non la toccherai! Io amo la tua rivale e voglio farla mia, dovesse andar di mezzo la mia e la tua vita.

—Tu! tu ami la mia rivale!

—Sì, io l'amo, io l'adoro e tanto che senza di lei non potrei vivere.

—Tu ami una spregevole almea!

—È bella come un urì del paradiso di Maometto e più superba di te.

Elenka si slanciò su di lui e l'afferrò per le braccia con tal forza da strappargli un grido di dolore.

—Ma io l'odio, l'odio, la esecro questa almea! urlò ella.

—E io l'amo, l'adoro! urlò Notis.

—Vuoi adunque che ci facciamo la guerra? Io sarò senza pietà.

Il greco le mostrò i beduini che stavano osservandoli appoggiati indolentemente ai loro moschettoni.

—Basterebbe un mio cenno per fiaccare Abd-el-Kerim, le disse. Tu sei pazza, Elenka, e io più pazzo di te per suscitare simili questioni inutili. Tu vuoi Abd-el-Kerim e io te lo cedo; io voglio Fathma e io l'avrò.

—Hai ragione, rispose Elenka, sforzandosi a sorridere, noi siamo pazzi. Che devo fare ora? Io voglio vedere Abd-el-Kerim, conducimi da lui adunque e lascia a me la cura d'affascinarlo come l'affascinai a Chartum.

—Adagio, sorella, andiamo adagio, disse Notis con un fare misterioso. Tu sai già in qual modo Abd-el-Kerim fu rapito e come egli mi creda morto da un bel pezzo. Lo sceicco Fit Debbeut lo rinchiuse nel sotterraneo fingendosi un amante di Fathma e dicendogli che l'avrebbe fatto morire di fame. È giusto quindi che tu sii capitata fra queste ruine per puro caso o dietro ad un semplice indizio e che assumi l'aria di una liberatrice anzichè di una affascinatrice. Ti pare?

—Satana stesso non sarebbe stato capace d'architettare un piano migliore.

—Grazie, sorella, rispose Notis ridendo. Tu adunque scenderai nel sotterraneo in compagnia di due dongolesi e lo libererai dopo di avergli parlato dell'antico vostro amore e d'averlo persuaso a dimenticare Fathma.

—Bene e della mia rivale che accadrà?

—Bisogna che tu estirpi dal tuo cuore ogni idea di vendetta poichè l'almea diverrà mia moglie.

—Sei pazzo, cento volte più pazzo di Abd-el-Kerim. Non so cosa darei per tuffare le mie mani nel sangue caldo della mia rivale.

—E io darei dieci anni della mia vita per vedere il mio rivale agonizzante ai miei piedi. Siamo in pari condizioni, lasciamo adunque che scampino. Vattene a trovare adunque il traditore e che Allàh ti assista.

Il greco gettò un fischio prolungato; tutti i beduini gettarono gli archibusi ad armacollo, piegarono le tende, caricarono i loro utensili sui mahari e sui cammelli e s'internarono nella foresta. Fit Debbeud li seguì dopo d'essersi assicurato che ogni traccia dell'accampamento era scomparsa e di aver comandato a due dongolesi di andare a mettersi presso la galleria.

—Quando avrai finito, manda un fischio e io apparirò, disse il greco a sua sorella, dopo di che si allontanò a rapidi passi nella direzione presa dalla banda.

Elenka se ne rimase lì, ritta, colle braccia abbandonate lungo il corpo, le ciglia aggrottate e come in preda a un profondo pensiero. Si guardò lentamente d'attorno quasi sorpresa di vedersi sola, poi si rizzò fieramente con un gesto risoluto e s'avvicinò ai due dongolesi che l'aspettavano immobili come due statue all'entrata dell'oscuro corridoio.

—Conducetemi dal prigioniero, diss'ella con una emozione che invano cercava di nascondere.

I dongolesi accesero le torcie e s'inoltrarono nel corridoio camminando con somma precauzione, per la tema di calpestare sulla coda di qualche aspide che poteva tenersi celata in fra i rottami. Elenka li seguì in silenzio, guardandosi attorno con crescente curiosità.

Man mano che procedeva sentiva il cuore battere con maggior violenza e vaghi timori l'agitavano. Si avrebbe detto che aveva paura di trovarsi di fronte al fidanzato, al traditore, là, sotto quelle cupe ed umide vôlte e in presenza di due selvaggi, e guardava con orrore il fondo del corridoio e le umide pareti sulle quali strisciavano con un ronzìo lugubre migliaia di scorpioni grigi, di vermi, di lucertole e di spaventevoli tarantole. Le pareva di essere in preda ad uno spaventevole sogno.

—Gran Dio! andava mormorando. Così terribilmente l'odiava Notis per seppellirlo in quest'orrida tomba?

D'un tratto uno dei dongolesi s'arrestò e si volse verso di lei con un crudele sorriso sulle labbra.

—Udite? chiese con una voce che l'eco rendeva sepolcrale.

Elenka rabbrividì e tese l'orecchio. Dal fondo del corridoio venivano dei gemiti interrotti, del mormorii vaghi che andavano man mano crescendo per poi morire improvvisamente come se colui che li avesse emessi fosse d'un sol colpo morto.

—Chi è? chiese ella spaventata.

—Il prigioniero che muore di fame, rispose il dongolese.

—Miserabili!…

—Il greco così ha voluto.

—Tira innanzi, disse Elenka con aria minacciosa.

I dongolesi ubbidirono e poco dopo si arrestavano dinanzi alla porticina ferrata sulla quale scorgevansi delle sculture rappresentanti degli ibis, uccelli tenuti per sacri dagli antichi Egizi e Nubi cui dedicavano spesso dei templi. Elenka tremò tutta nell'udire i lamenti e le sorde imprecazioni dello sventurato Abd-el-Kerim, che contorcevasi fra gli spasimi della fame.

La porta venne con gran fatica aperta. Ella strappò una torcia dalle mani dei dongolesi, fe' a loro cenno di aspettarla all'uscita del corridoio ed entrò risolutamente nel sotterraneo umido e freddo.

In sulle prime non fu capace di vedere che dei pipistrelli che svolazzavano mandando strida di spavento all'apparire di quella improvvisa luce, poi scorse in un angolo, sdraiato a terra, colla testa fra le mani, l'Arabo Abd-el-Kerim. Tutta la sua collera che ancora rimanevagli in fondo al cuore svanì come la nebbia al sole: una profonda compassione generata dall'immenso amore che nutriva ancora pel traditore, la prese e rimase ritta sulla porta senz'essere capace di dir verbo.

—Chi è l'assassino che viene ad assistere alla mia agonia? chiese con voce rauca l'arabo fissando due occhi stravolti su Elenka.

Quella voce ferì il cuore di Elenka.

—Abd-el-Kerim, diss'ella.

—Chi mi chiama? Chi mi cerca quaggiù in questa tomba? continuò l'arabo con trasporto feroce che la eco rendeva doppiamente cupo.

—Non mi riconosci più adunque?

Vi rispose un brontolio lungo simile a quello di una belva irritata.

—Guardami in volto, Abd-el-Kerim, guardami bene.

—Chi sei? domandò l'arabo facendo uno sforzo per alzarsi.

—Elenka, la tua fidanzata, che viene a salvarti.

—Tu!… Tu!… ruggì l'arabo con indefinibile accento d'odio.

S'aggrappò ai muri come un pazzo, si alzò, si spinse innanzi barcollando, poi retrocesse come se avesse visto una spaventevole apparizione.

—Ah! esclamò egli ironicamente. Sei tu, Elenka, la bella e buona Elenka che diceva di amarmi tanto e che mi fece cacciare in quest'orrida tomba perchè morissi di fame e di gelosia. Vattene orribile creatura, vattene!….

Elenka s'appoggiò al muro e lo guardò con occhio smarrito per qualche istante.

—Sei pazzo, Abd-el-Kerim, disse di poi con voce che tremava.

—Che vuoi da me, esecrabile donna, che vuoi? Ogni legame fu infranto, un abisso fu scavato fra noi, non sono più tuo, vattene e lasciami morire in pace giacchè fosti senza pietà nella tua abbominevole vendetta!

La greca lo guardò con ispavento e sentì mancarsi le forze dinanzi all'accusa che era mille miglia lontana dall'aspettarsi. Come mai l'arabo sapeva che era stato cacciato in quell'orrido sotterraneo per vendetta che egli attribuiva a lei? Era un semplice sospetto oppure qualche spia gli aveva comunicato qualche cosa? Elenka si chiese per la seconda volta se sognasse.

—Abd-el-Kerim, diss'ella facendo uno sforzo straordinario per dominare il suo sgomento. Tu mi accusi a torto te lo giuro. Io veniva a questa volta per recarmi al campo d'Hossanieh colla speranza di trovarti e di riannodare l'amore che in un momento di follia spezzasti. Un beduino mi narrò come passando di qui avesse udito dei gemiti e m'affrettai a discendere. Vengo a liberarti non per vendicarmi.

—Taci, Elenka, taci, disse l'arabo con impeto selvaggio.

—Abd-el-Kerim, ti prego, ritorna in te, allontana questi sospetti che per me sono altrettanti pugnali che mi straziano il cuore.

L'arabo la guardò torvamente, poi le si avvicinò e afferrandola bruscamente per le braccia la scosse con furore.

—Ero là, diss'egli, che attendeva la morte, quando udii il bandito che mi cacciò quaggiù gridare: Olà, ecco Elenka!…. Aveva una benda agli occhi, ma in quel momento mi cadde: compresi tutto, tutto!…

Elenka gettò un grido d'angoscia. L'arabo con una violenta spinta la mandò a cadere sulle ginocchia, presso la porta.

—Sciagurata! esclamò egli con profondo disprezzo.

Nel sotterraneo regnò un lungo silenzio rotto solo dall'affannoso respirar della greca e dal monotono rumore delle goccie d'acqua che battevano sulla viva roccia.

—Abd-el-Kerim, mormorò Elenka con voce rotta. Abd-el-Kerim!

L'arabo le volse le spalle e si rinchiuse in un feroce silenzio.

—Ebbene sì, continuò la greca, fui io a rinchiuderti in questa prigione, ma non ti torturai; fu il bandito Fit Debbeud. Avevo paura che tu mi fuggissi, la gelosia, mi acciecò e ti volli in mia mano prima che nel tuo cuore si spegnesse l'ultima scintilla di amore che ardeva per me. Fui colpevole, lo so, fui miserabile, fui terribile nella mia vendetta, ma tu mi avevi fatta diventare una iena assetata di sangue Abd-el-Kerim, perdonami in memoria di quell'amore che….

—Quell'amore s'è spento nel mio cuore, l'interruppe l'arabo sordamente.

—Oh! non è possibile, non lo voglio credere, tu mi ami ancora.

—No!… No!…

—Ma che ti feci mai io, perchè tu avessi a dimenticarti di me? Non ti ricordi adunque, di quelle notti serene e beate, quando io stava seduta sulle sponde del Bahr-el-Abied sotto la misteriosa ombra dei palmizi e che tu sdraiato ai miei piedi mi giuravi eterno amore, mi promettevi felicità sconfinate? Non ti rammenti più adunque di quei felici momenti, quando tu suonavi la rabâda e mi cantavi le canzoni del tuo paese frammischiandovi dolci parole d'amore? Tu allora mi ammiravi, tu allora adoravi la superba Elenka che avevi vinta e domata colla potenza dei tuoi profondi sguardi, del tuo immenso bene, del tuo coraggio. Sono adunque diventata sì orribile al tuo sguardo?

—Non parlarmi di giuramenti che io li ho infranti.

—Non ti parlo di giuramenti, ma solo di memorie.

—Le ho estirpate dal mio cuore.

—Sei proprio inesorabile con me, colla donna che tu un tempo idolatravi? Tu, che m'hai assassinato il fratello, l'unico uomo che mi proteggesse, l'unico che mi rimaneva al mondo della mia famiglia, vuoi per di più far impazzir me, vuoi far morire anche me! Ah! Abd-el-Kerim sei un miserabile!

—Taci… taci Elenka, balbettò l'arabo con voce arrangolata.

—Dimmi che tu mi ami ancora, dimmi che tu tornerai ad essere mio e io ti perdonerò l'assassinio di mio fratello. Sono sola Abd-el-Kerim, sola al mondo… m'affido a te e ti giuro che ti amerò fino alla morte.

—Non lo posso… non lo posso… ho tutto infranto… ho scavato un abisso impossibile a varcarsi. Lasciami così, fammi morire se vuoi, vendicati della morte di tuo fratello che pur uccisi in leale combattimento, ma vattene, vattene…

L'arabo si nascose il volto fra le mani, barcollò, si sedette su di una pietra poi si alzò e si mise a passeggiare pel sotterraneo. Frequenti sospiri uscivano dalle sue labbra contratte, straziate e insanguinate dai denti.

—Abd-el-Kerim, continuò Elenka con voce affascinante. Non respingermi, non lasciarmi sola al mondo, non tradirmi. Che ti feci mai io per essere trattata così crudelmente? Forse che sono colpevole di averti troppo amata? Non è vero che tu mi ami ancora? Non è vero che il tuo cuore palpita ancora per me? Dimmi di sì, dimmelo Abd-el-Kerim, oh! dimmelo, fammi ancora una volta felice.

—No, impossibile, impossibile ti dico. Ti odio, lo capisci, che ti odio ora!…

—Sei proprio inesorabile?

—Inesorabile.

—Guarda, io, un dì tanto superba, sono ai tuoi piedi supplicante. Fa di me quello che vuoi, sarò tua schiava, e subirò i tuoi più strani capricci senza un lamento, senza un sospiro.

La faccia dell'arabo s'alterò visibilmente e girò il capo verso Elenka che tendevagli le mani supplicanti. Scosse il capo come un forsennato e s'allontanò vieppiù con un gesto d'orrore.

—Vattene, le disse. Ho spezzato e dimenticato tutto.

La greca si raddrizzò come una verga di ferro fino allora piegata. I suoi occhi s'infiammarono d'ira e di vergogna.

—Per chi è che tu m'hai dimenticata? chiese ella con voce stridente.

—Per Fathma!

—Ah! traditore!

Si scagliò innanzi come una belva; aveva in mano un pugnale che alzò.

—Abd-el-Kerim; noi siamo soli e tu sei in mia mano!…

—Uccidimi se ti piace; io morrò più presto.

—No, sarebbe una morte troppo dolce. A me occorre una vendetta raffinata, una vendetta lenta, una vendetta terribile. Ah!.. continuò la greca con ira, tu credevi di tradire così la superba Elenka? Ebbene, t'inganni. Ho una rivale, questa rivale si trova al campo d'Hossanieh, io la raggiungerò e le farò uscire il sangue goccia a goccia!…

Vi era un tale accento d'odio, un tale accento selvaggio e guizzava un baleno così feroce negli occhi della greca, che l'arabo indietreggiò sino al muro inorridito, spaventato.

Comprese subito che era finita tanto per lui quanto per Fathma e che non vi era da sperare nessuna pietà da quella superba creatura divorata dalla gelosia a assetata di vendetta. I capelli gli si rizzarono sulla fronte.

—Elenka, diss'egli con voce angosciata, nella quale sentivasi la preghiera e la minaccia. Straziami il cuore se vuoi, ma non toccare l'almea. Guai se tu le torci un sol capello, guai a te!

Un riso stridulo e beffardo uscì dalle labbra contratte della greca.

—Vi schiaccerò tutti e due sotto i miei piedi!

—Taci, miserabile, taci!

La greca camminò fino alla porta, poi volgendosi verso di lui colle mani tese:

—Abd-el-Kerim, diss'ella, cupamente. Trema!… Trema!

CAPITOLO X.—Le due rivali.

Quando uscì dal sotterraneo, dopo di aver chiusa la porta, non era più la stessa donna che abbiamo veduta entrare. La sua faccia bella, fiera sì, ma niente affatto truce, era stravolta in modo da far paura; la tinta pallida era scomparsa per dar luogo a una tinta bronzina che una collera illimitata rendeva sempre più cupa fino a diventare mattone; gli occhi profondi, scintillanti, che magnetizzavano, eransi ingranditi in modo strano e vi si vedevano dentro certi guizzi feroci da credere talvolta che gettassero fiamme; le labbra di solito sorridenti, erano increspate che lasciavan vedere i candidi denti convulsivamente serrati e sulla fronte spiccava una vena azzurra che ingrossavasi a tratti.

Una sete inestinguibile di vendetta ardeva quella donna veramente terribile nelle sue sfrenate passioni, una smania feroce l'agitava, una smania di schiacciare l'arabo prima e la sua rivale dopo, che l'avevano offesa nel suo orgoglio e che le avevano straziato il cuore.

Ella percorse l'oscuro corridoio come un lampo e s'arrestò dinanzi ai due dongolesi.

—Il prigioniero? chiesero.

—Silenzio, disse Elenka, raucamente. Chiamatemi Notis.

Uno di essi si mise a urlare per tre volte imitando il lamentevole urlìo dello sciacallo; il canto melodioso dello sberegrig (merops) vi rispose subito.

Tosto i cespugli gommiferi s'aprirono e Notis apparve seguito a corta distanza dallo sceicco Fit Debbeud e da tutta la banda. Egli s'affrettò a raggiungere Elenka che spezzava nervosamente i robusti steli di alcuni ingiorò dai fiori caliciformi, di un bel colore roseo.

—Ebbene, sorella? chiese Notis ansiosamente.

—Nulla, rispose Elenka con un amaro sorriso.

—Come? Non ti capisco.

—Il traditore è irremovibile come una roccia.

—Tuoni e fulmini!…

Sì, m'ha disprezzata e rifiutata. Tutto ho tentato per affascinarlo, ho pregato, ho supplicato, ho minacciato, ma tutto fu inutile. Non so poi il come, seppe che fu cacciato nel sotterraneo per vendetta che egli attribuì a me invece che a Fit Debbeud.

—È impossibile! esclamò il greco. Da chi lo seppe?

—L'ignoro, il fatto è che m'ha udito arrivare.

—E tu che gli hai detto?

—Era impossibile negarlo e gli confessai tutto, attribuendo la colpa a me.

Il greco respirò come gli si fosse levato un gran peso che gravitavagli sul petto. L'idea di essere scoperto lo sgomentava.

—Ignora adunque che io sia vivo? chiese egli con ansietà.

—Perfettamente.

—E adunque, che fai ora?

—Che faccio? E tu me lo chiedi? Vado al campo e pugnalo la mia rivale.

—Alto là, sorella. Fathma io l'amo, è impossibile quindi che io ti dia il permesso di ammazzarmela.

—Ma io la esecro questa miserabile che mi rubò Abd-el-Kerim.

—Ed io esecro Abd-el-Kerim che mi cacciò un pollice di lama nel petto e che mi rubò Fathma, disse il greco con ira mal frenata.

—E allora?… Notis, fratello mio, io ti darò tutto ciò che vorrai purchè mi lasci spegnere questa sete di vendetta che mi brucia l'anima.

—Odimi, sorella. Perdere Fathma per me è come perdere la vita, tanto io amo quella donna. Io ti abbandono Abd-el-Kerim che conquistai colla mia astuzia, ti lascio ampia libertà di tormentarlo, se vuoi anche di farlo morire fra le più atroci torture, ma bisogna che tu m'abbandoni completamente l'almea, che mi aiuti per di più a rapirla dal campo. È un contratto quello che ti propongo e nulla più.

—Io rapirla! esclamò la greca.

—E perchè no? Tu sei forte, astuta, conosci Hassarn e Dhafar pascià, e tutto puoi. Se rifiuti io spezzo il cuore al mio rivale.

La greca lo guardò per alcuni istanti in silenzio cogli occhi accesi; una subitanea idea le balenò in mente e l'afferrò di volo.

—Accetto, diss'ella colla maggior tranquillità.

—Me la porterai proprio qui?

—Sì, qualora io riesca a rapirla. Se per te è impossibile a trarla in agguato per me sarà difficile, tu ben lo sai.

—Non ti dico di no, ma farai quello che potrai. Se non riesci allora cercherò io qualche altro mezzo più violento. Quando parti?

—Subito, se così vuoi. Mi darai per aiutarmi i due dongolesi.

Il greco fece un cenno a Fit Debbeud che stava seduto lì vicino. Subito dopo tre mahari accuratamente bardati vennero condotti vicino a Elenka che esaminava la batteria di una carabina Martini.

—Sorella, le disse Notis. Non tentare nulla contro l'almea se non vuoi che capiti sfortuna ad Abd-el-Kerim.

—Non temere di nulla: mi frenerò.

I mahari vennero fatti inginocchiare ed Elenka e i due dongolesi salirono in sella.

—Che Iddio ti protegga, sorella, disse Notis gravemente.

—E che Iddio protegga Abd-el-Kerim, rispose su egual tono la greca.
Non dimenticare che muore di fame.

L'ich! ich! venne emesso dai due dongolesi e i mahari partirono di corsa inoltrandosi su di un largo sentiero coperto di alfek spinoso e fiancheggiato da grandi ardèb (tamarindi) dai rami lunghissimi ed assai flessibili sui quali strillavano e facevano mille versacci bande di scimmie di un pelo verde-dorato bellissimo (cercopithecus fistulosa).

Elenka si volse due o tre volte verso le ruine di El-Garch, e le sue labbra s'aprirono ad un sorriso sardonico e quasi compassionevole.

—Hai torto, fratello, mormorò ella quando perdette di vista le ruine. Tu t'affidi a me e io approfitterò di questa fiducia. Quando il leone ha fame divora carne ed io gli darò da divorare la carne di Fathma!

Un lampo sinistro guizzò nei neri suoi sguardi e la sua fronte s'aggrottò. Le sue manine accarezzarono con feroce compiacenza la brunita canna della carabina, sospesa all'arcione.

La traversata della foresta del Bahr-el-Abiad si compì felicemente in poco più di tre quarti d'ora. I tre mahari sostarono un momento presso le ultime palme deleb poi ripresero la celere loro corsa attraverso le pianure, dirigendosi verso Hossanieh i cui tugul apparivano distintamente, inondati dai cocenti raggi del sole che cominciava a discendere all'occaso.

Trottavano da un'ora ed erano giunti ad un gran macchione di acacie, quando Elenka gettò improvvisamente il chrr! chrr! pronunciandolo così in furia che i mahari s'arrestarono di colpo a rischio di far balzare di sella coloro che li montavano.

—Che succede? chiesero i dongolesi, portando istintivamente lo mani alla loro harba.

—Fermi tutti, disse Elenka con un tono di voce che non ammetteva replica.

Fece inginocchiare il suo mahari, saltò a terra e si internò silenziosamente nella macchia fino a raggiungere il lembo estremo. Ella s'arrestò cogli occhi fissi su due uomini che si dirigevano a lenti passi a quella volta.

—Bene, mormorò ella con gioia. Quello là è Hassarn, lo riconosco, e l'altro è Omar, lo schiavo di Abd-el-Kerim. Dove si dirigono essi?

Si cacciò sotto ad un cespuglio aggomitolandosi su sè stessa come una serpe e attese pazientemente che le passassero vicini. Non corse molto tempo che udì i loro passi e Hassarn che diceva al compagno:

—Sei proprio sicuro che furono dei beduini a rapirlo?

—Sì, capitano, rispose Omar. Mussa che era in sentinella vicino gli ultimi tugul d'Hossanieh, li vide saltar fuori da una macchia e gettarsi su di lui come tanti leoni. Il mio povero padrone fu oppresso dal numero.

—E ti dissero che?….

—Che presero la via che conduce a Sceh-el-Mactud.

—A me parve che fuggissero verso le foreste del Bahr-el-Abiad.

—Mussa sostiene il contrario. Tirava vento e la notte era troppo oscura per vederci bene; è probabile quindi che vi siate ingannato.

—Povera Fathma! esclamò Hassarn, sospirando.

—È agitata?

—Ho paura che abbia a diventare pazza, Omar. Chi mai lo fece rapire? A quale scopo? Se fosse vivo Notis, ma è morto da un bel pezzo. Orsù, cerchiamo verso Sceh-el-Mactud, Chi sa?…

Essi s'allontanarono senza aggiungere parola, dirigendosi verso il sud a passi più rapidi. Elenka appena li perdette di vista saltò fuori e si diresse di corsa verso i mahari.

—Fathma è sola, mormorò ella. Ci troveremo l'una di fronte all'altra!

Saltò in sella, e lanciò il mahari alla carriera sempre seguita dai due dongolesi. Dopo dieci minuti giungevano dinanzi al villaggio arrestandosi presso un gruppo di arabi occupati a dissetare le loro vacche dal pelo tigrato.

—Voi rimarrete qui, disse Elenka ai dongolesi. Quando mi vedrete uscire da quella casupola che vedete laggiù, mi seguirete alla lontana, e non perderete di vista la donna che avrò meco. Al primo fischio che io emetto vi getterete su di lei e la ridurrete all'impotenza. Vi sono dieci talleri da guadagnare.

—Contate su di noi, risposero i dongolesi.

La greca s'avvolse accuratamente nel suo candido taub nascondendosi parte della faccia e s'incamminò verso la casupola di Fathma statale precedentemente descritta da Notis. Un negro armato di fucile la fermò nel momento che varcava la soglia.

—Sono la sorella del capitano Hassarn, diss'ella pacatamente.
Lasciami libero il passo; devo parlare a Fathma.

Il negro non ardì a respingerla. Elenka salì i gradini come spintavi da una molla, colla fronte aggrottata, la collera negli occhi e una mano sull'impugnatura d'ebano del suo pugnale, passato fra le pieghe della fascia.

Il cuore saltellavale nel petto, nubi di fuoco passavanle dinanzi alla vista e sentiva il sangue accendersi e turbinare nelle vene. Ebbe paura di non potersi dominare in presenza dell'odiata rivale.

Ella si slanciò come una leonessa nella prima stanzuccia che si vide dinanzi; subito si fermò lasciando sfuggire una esclamazione sorda.

Sdraiata su di un angareb tra morbidi tappeti trapunti d'oro, se ne stava Fathma coi lunghi capelli neri sciolti sulle nude spalle, colla testa appoggiata ad una mano ed il suo tamburello d'almea ai piedi. La sua faccia tanto bella e tanto fiera portava le traccie di atroci sofferenze e i suoi occhi rilucevano d'un fuoco selvaggio. Pareva in preda a una cupa disperazione che invano sforzavasi di vincere, e tratto tratto qualche cosa d'umido solcava le vellutate e abbronzate gote.

Alla vista della sconosciuta che entrava in quella furia, ella s'alzò lentamente squadrandola più con curiosità, che con collera. Elenka sostenne imperterrita quello sguardo di fuoco che gareggiava in potenza col suo.

—Chi sei? chiese l'almea con voce brusca.

Elenka si volse indietro, chiuse la porta col chiavistello e si mise in tasca la chiave. L'almea non dissimulò un gesto di sorpresa e fece due passi verso la finestra, forse per chiamare il negro che vegliava sulla via, ma la greca fa pronta a sbarrarle il passo.

—Chi sei? ripetè l'almea duramente.

—Non mandare un grido, non tentare nulla, disse Elenka risolutamente.
Voglio parlarti.

—Non ti conosco.

—Mi conoscerai fra poco. Non sei tu Fathma?

—Ebbene?

—L'amante dell'arabo Abd-el-Kerim?

Abd-el-Kerim! esclamò l'almea. Che sai tu del mio fidanzato? Dove trovasi egli? Vieni a dirmi qualche cosa? Parla, parla, che ho il cuore infranto.

Un beffardo sorriso apparve sulle labbra della vendicativa greca e il cuore le si allargò dalla gioia. La rivale soffriva; era per lei una felicità.

—Io so più di quello che tu credi, ma voglio sapere una cosa prima, diss'ella.

—Parla, parla, io sono tua, rispose l'almea con emozione. Io ti dirò tutto quello che tu vorrai, purchè mi additi ove trovasi il mio Abd-el-Kerim, il mio fidanzato.

—Dimmi da dove vieni, bisogna che io lo sappia.

—Da El-Obeid. Fui la favorita di Mohamed Ahmed il Mahdi del Sudan.

—Ah! fe' la greca sogghignando. Fosti la favorita del ribelle Ahmed!

—Che trovi tu di strano? Io vo' superba d'aver appartenuto a un tal uomo, all'inviato d'Allàh.

—Non trovo nulla di straordinario. Un'almea sarà sempre un'almea.

Fathma alzò il capo con fierezza e le lanciò una occhiata sprezzante.

—Quale scopo avevi quando salisti da me? domandò ella. Non ti conosco, sento istintivamente che tutto ho da temere da te, che tu hai degli strani progetti nel tuo capo; vattene che io non ti cerco. Abd-el-Kerim saprò trovarlo da me.

—Sai chi io sono? disse la greca senza muoversi.

—Non mi curo di saperlo.

—Voglio che tu lo sappi.

—Non abusare della pazienza di Fathma. Irritata diventa una leonessa.

—Ed io una iena assetata di sangue capace di sbranare anche la leonessa.

L'almea fremette di collera e le additò superbamente la porta.

—Fathma, disse la greca con rabbia concentrata. Hai mai saputo tu, che Abd-el-Kerim abbia lasciata a Chartum una fidanzata?

Quella domanda gettata là freddamente fece su Fathma l'effetto di un morso al cuore. Ella balzò indietro gettando un ruggito furioso, coi denti convulsivamente stretti, pallida d'ira e le sue braccia s'allungarono verso un tavolo sul quale stava un jatagan snudato.

—Chi sei?… Chi sei?… gridò con voce strozzata.

Elenka svolse lentamente il taub e lo gettò a terra. Ella apparve dinanzi all'almea vestita colla sua casacchetta a maniche strette con sottili spallini listati in oro allargantisi in punta, colla sua tunica a pieghe, stretta in vita e che non oltrepassava il ginocchio, cinta da una fascia di seta rossa e oro, bella, superba, affascinante nel suo costume greco. Ella posò una mano sul calcio di una pistola e l'altra sul pugnale passati nella cintura.

—Guardami in volto, Fathma, io sono Elenka la fidanzata dell'arabo
Abd-el-Kerim!…

—Elenka! esclamò Fathma con accento feroce.

Le due rivali si erano raccolte su se stesse come per islanciarsi l'una addosso all'altra; l'almea aveva impugnato l'jatagan e la greca aveva levata la pistola e l'aveva armata. Esse si squadrarono per alcuni istanti provocandosi collo sguardo.

—Fathma, disse d'un tratto la greca con voce stridula. Io ti odio!

—Ed io ti disprezzo e vorrei averti nelle mie mani per dilaniarti le carni.

—Odimi, abborrita rivale. Noi amiamo tutte due Abd-el-Kerim; è quindi necessario che una di noi scompaia dalla terra.

—Non chiedo altro che di misurarmi con te e di assassinarti, rispose
Fathma che fremeva tutta dall'ira.

—Se noi ci assaliamo in questa stanza qualcuno potrebbe udire le nostre grida e venire a separarci. Sei tu tanto coraggiosa da seguirmi nella foresta? Nessuno ci vedrà e potremo scannarci a nostro agio.

—Vieni, maledetta greca!

—Prendi un fucile, che noi ci batteremo a fucilate. Ti conviene?

—Sì, perchè ti spezzerò il cuore con una palla.

—Ed io ti fracasserò quel superbo capo che dopo aver affascinato il ribelle Ahmed affascinò Abd-el-Kerim. Lo deformerò così orribilmente che nessuno riconoscerà più nel tuo cadavere l'almea Fathma.

Un sorriso sprezzante e insieme incredulo sfiorò le labbra dell'araba; lanciò lungi da sè l'jatagan, si gettò sulle spalle una magnifica farda ricamata in oro e staccò da un chiodo una carabina rabescata e incrostata d'argento.

—Con quest'arma abbattei più che dieci leoni, diss'ella fissando
Elenka che s'avvolgeva nel suo taub. Oggi abbatterò te!…

—È ciò che io voglio vedere, o mia rivale. Vieni! rispose la greca.

Le due rivali abbandonarono la stanza e scesero nella via, nel mezzo della quale stavano i tre mahari guardati dai dongolesi. Bastò un cenno di Elenka perchè due degli animali venissero condotti dinanzi ad esse; vi salirono e pochi secondi dopo trottavano verso le foreste del Bahr-el-Abiad.

CAPITOLO XI.—La vendetta di Elenka.

Quando giunsero ai primi palmeti, il sole cominciava a nascondersi dietro le immense ombrelle dei colossali baobab. L'oscurità cominciava a farsi sotto le cupe volte di verzura dei tamarindi e delle palme deleb e il silenzio più assoluto si succedeva all'allegro cinguettio dei pivieri e dei pappagalli che si affrettavano a guadagnare i loro nidi e ai clamori bizzarri delle innumerevoli bande di scimmie che eseguivano le più strane giravolte sui rami.

Le due rivali, legati i mahari ai tronco di una acacia gommifera, presero le carabine e si cacciarono risolutamente nel folto della foresta. Prima però di mettersi in cammino, Elenka gettò uno sguardo nella pianura e non potè frenare un gesto di diabolica gioia, vedendo i due dongolesi che si avanzavano strisciando come serpenti, fra le erbe.

—Avanti, comandò ella seccamente.

Percorsero un seicento passi, aprendosi con gran fatica il passo fra i cespugli e gli arrampicanti che s'intrecciavano in tutte le guise immaginabili, e si arrestarono ai piedi di un grande tamarindo, il quale stendeva i suoi giganteschi rami su di una piccola radura.

Le due rivali, di comune accordo, caricarono con grande attenzione le carabine, dopo di aver fatto scoppiare tre o quattro capsule per accertarsi del buono stato della batteria.

—Senti, disse Fathma con voce ferma e così glaciale che faceva fremere. È qui, in questa foresta che una di noi lascierà le ossa a cibo dei leoni e delle formiche termiti. Se tu hai paura vattene, ma vattene a Chartum, nè ardisci comparirmi giammai dinanzi a disputarmi l'amore dell'eroico Abd-el-Kerim. Lo vedi, io sono ancor generosa come ii leone.

—Non parlarmi di questo, Fathma, rispose la greca con disprezzo. Voglio vedere il superbo tuo capo deformato dalla palla della mia carabina.

—Sta bene, ma ti giuro che fra pochi minuti te ne pentirai.

—Povera Fathma, disse Elenka ironicamente.

—Lascia la ironia e preparati invece a morire. Spicciati, maledetta greca, poichè fra poco non ci si vedrà più, e gli abitanti della foresta usciranno dai loro covi in cerca di preda. Io prendo questo sentieruzzo che va a dritta, tu prendi quel sentiero che va a sinistra e passati che sieno cinque minuti, mettiamoci ambedue in caccia.

—Addio, almea. Fra dieci minuti voglio averti nelle mie mani.

Fathma alzò le spalle con disdegno e prese il sentiero di destra allontanandosi lentamente e senza produrre il menomo rumore. Elenka la guardò a lungo sogghignando, si gettò sul sentiero di sinistra, poi, quando fu persuasa che l'almea era tanto lontana da non udirla, invece d'imboscarsi come era stato stabilito, si mise a correre come un antilope verso il limite della foresta.

Corse così per quattro minuti poi emise un fischio debole ma penetrante come quello di un serpente. S'udirono i rami muoversi impercettibilmente, i cespugli s'aprirono con somma precauzione e comparvero i due dongolesi.

—Eccoci, rispose uno di essi. Che dobbiamo fare?

—State bene attenti, disse Elenka con un filo di voce. La mia rivale trovasi imboscata a seicento passi di qui; aspettando che io apparisca per spararmi addosso. Bisogna che io l'abbia in mia mano inerme, anzi legata.

—Non sarà tanto difficile.

—Anzi difficilissimo. È armata di una carabina ed è più astuta di un serpente. Se voi non riuscite ad avvicinarvi a lei senza che abbia ad accorgersene, correrete pericolo di ricevere una scarica in pieno petto.

—Lascia pensare a noi, disse il dongolese. Press'a poco dove trovasi imboscata?

—Nel mezzo di un gruppo di acacie a quanto mi parve.

—Tu non puoi seguirci, poichè una donna è impossibile che passi dove passerà un uomo. Quando udrai il nostro fischio accorri e troverai l'almea legata.

—Venti talleri se voi riuscite a farla prigioniera.

Non ci voleva di più per incoraggiare i dongolesi, Essi si cacciarono sotto le macchie, scostando lentamente le foglie e i rami, strisciando come serpenti o inerpicandosi sugli alberi quando riusciva a loro impossibile trovare un passaggio, tirandosi su l'un l'altro e senza fare più rumore d'una formica bianca. D'un tratto il profondo silenzio che regnava sotto la foresta fu rotto dall'urlo dello sciacallo.

I due dongolesi s'arrestarono di botto guardandosi in faccia l'un l'altro.

—Hai udito, Alek? chiese sottovoce il più anziano.

—Perfettamente, Nagarch, rispose l'altro.

—Che ne dici?

—Che questo urlo non fu emesso da uno sciacallo.

—È quello che penso pur io. Scommetterei che lo mandò l'almea per ingannare la greca e tenerla lontana.

—Deve essere così. Procediamo cautamente e stiamo attenti all'urlo.

Ripresero la silenziosa marcia guidati dal lamentevole urlo che di tratto in tratto udivasi. Dopo di aver percorso un cinquecento passi, dall'alto di una palma dum scorsero qualche cosa di bianco in mezzo a un fitto gruppo di bauinie.

—Eccola là l'almea, disse Nagarch.

—La vedo, rispose Alek. Ora dividiamoci e stiamo bene attenti alla sua carabina. Io vado di qui seguendo le bauinie e tu va dietro a quelle acacie. Su spicciamoci.

Nagarch apparve fra le acacie, e Alek strisciò diritto verso la macchia, nel mezzo della quale stava sdraiata l'almea colla carabina puntata dinanzi a sè. Di quando in quando mandava il lugubre urlo dello sciacallo così bene imitato da crederlo naturale.

Già Alek era giunto a soli pochi passi di distanza, quando un ramo si spezzò sotto i suoi piedi L'almea scattò in piedi colla rapidità del lampo, vide il dongolese, puntò rapidamente l'arma e fece fuoco.

Alek girò su se stesso portando una mano al petto, poi si scagliò innanzi con impeto disperato rigando la via di sangue che sgorgavagli abbondante da un fianco.

—Arrenditi! urlò egli.

Fathma aveva impugnato la carabina per la canna e assestò un colpo sì tremendo al dongolese, che cadde al suolo colle cervella schizzanti dal cranio spaccato. Gettò un urlo, ma uno solo, un urlo straziante, supremo, poi s'aggomitolò su sè stesso e non si mosse più.

—Sono tradita, mormorò l'almea. Ah! maledetta greca.

Ella si gettò fuori della macchia con un pugnale in mano, ma non fece dieci passi che si sentì afferrare per di dietro e gettare violentemente al suolo. Nagarch, poichè era lui, le pose un ginocchio sul petto, le prese ambe le mani serrandole fra le sue come in una morsa, e dopo di averle intorpidite con una violenta torsione le legò per bene.

L'almea quantunque stordita dal colpo e sorpresa dall'improvviso attacco si dibattè furiosamente cercando di risollevarsi ma le fu impossibile. Si mise a ruggire come una leonessa prigioniera.

—Sta ferma, le disse brutalmente il dongolese percuotendola col rovescio del suo scudo. Se continui a muoverti tornerò a torcerti le braccia fino a slogartele.

—Lasciami andare, maledetto da Dio! urlò l'almea digrignando i denti. Lasciami andare, vigliacco!

Il dongolese per tutta risposta si mise a fischiare.

—Lasciami andare, orribile mostro, o io ti sbrano colle mie unghie!

—Sta in guardia, almea, disse Nagarch. Fra poco verrà una donna che ti farà pagar caro l'amore che tu nutri per quell'arabo e ti farà rimpiangere la tua bellezza.

—Chi? chi? chiese con voce strozzata Fathma.

B'allai! La bella greca, la rivale che volevi ammazzare.

L'almea fece un soprassalto così brusco che per poco il dongolese non fu rovesciato.

—Uccidimi piuttosto che darmi a lei! esclamò la sventurata. Cacciami l'jatagan nel petto, ma non gettarmi fra le braccia di quella maledetta!

—Sei pazza! La bella greca pagherà la tua cattura come una principessa.

—Se tu mi lasci libera ti darò tanti talleri quanto tu pesi, se ti rifiuti Dhafar pascià ti farà morire sotto il corbach (staffile).

—Non ho che una parola e questa parola la diedi alla greca, d'altronde ecco che viene la tua rivale.

Infatti Elenka veniva innanzi correndo come una pantera, stringendo un corbach di pelle d'ippopotamo lungo o flessibile. Un sorriso atroce, un sorriso di gioia sconfinata errava sulle sue labbra e negli occhi balenavagli un lampo feroce, un lampo spietato. Gettò un grido di trionfo alla vista dell'almea che contorcevasi come un serpente sotto i ginocchi del dongolese.

—Ah! sei in mia mano, finalmente! esclamò ella precipitandosi verso la rivale col corbach alzato.

—Miserabile! urlò l'almea ebbra d'ira, tendendo le pugna verso di lei.

—Dov'è il tuo compagno, chiese la greca a Nagarch.

—Questa furia l'ha ammazzato, rispose egli.

—Ah! Tu ammazzi la mia gente, dannata almea?

—Sì, e se potessi farei a brani anche te! gridò Fathma. Vattene di qua, vigliacca, vattene via traditora, maledetta, assassina.

—Nagarch, legala al tronco di quel tamarindo. Il dongolese afferrò fra le sue robuste braccia l'almea che esausta di forze non era più capace di opporre resistenza e la legò al tamarindo con forti corregge di pelle. La greca si mise a sogghignare.

—Che direbbe Abd-el-Kerim se ti vedesse così? diss'ella beffardamente.

—Taci, non nominarmelo almeno. Vuoi uccidermi, giacchè per tradimento sono caduta nelle tue mani, uccidimi ma non tormentarmi.

—Ah! Credi tu che una greca si vendichi d'una rivale uccidendola? No, Fathma non sperarlo da me, che ti esecro e che giurai d'essere senza pietà. Giacchè il parlare di Abd-el-Kerim ti produce l'effetto di una stretta al cuore, parliamo di lui.

—Non ti ascolterò, jena codarda.

—Non me ne importa. Sai dove trovasi il tuo amante così misteriosamente sparito?

—Non te lo chiedo. Hassarn lo troverà e guai a coloro che l'avranno rapito, guai!

—Se tu nol sai, Abd-el-Kerim trovasi in mia mano!…

L'almea provò una scossa come fosse stata tocca da una pila elettrica. Impallidì orribilmente, chiuse gli occhi e li riaprì che roteavano in un cerchio sanguigno.

—No!… tu menti!… tu menti! ripetè ella con disperazione.

—Te lo giuro Fathma. Trovasi in un sotterraneo delle rovine di
El-Garch, e lo tormento dì e notte dissanguandolo lentamente.

—Ah! feroce iena!… Ma che vuoi farne?

—Voglio farlo morire, ma farlo morire a oncia a oncia.

—Ma io lo salverò.

—Non ti lascerò il tempo. Domani sarai uno scheletro roso dal dente dei leoni e dei sciacalli.

L'almea rabbrividì e si sentì prendere dallo spavento.

—Mostro! balbettò la disgraziata.

—Orsù, vendichiamoci, disse la greca spietatamente. Tu spregevole almea hai alzato gli occhi fino al fidanzato di una greca di sangue nobile. È un'offesa che non si lava che a colpi di corbach e io strazierò le tue belle carni colla correggia del mio staffile.

L'almea fece uno sforzo supremo per ispezzare i legami e gettarsi su quel mostro in gonnella, ma le corde resistettero alla potente torsione. Ella si dimenò forsennatamente facendo crocchiare le ossa delle braccia.

—Non toccarmi! non toccarmi! rantolò.

Elenka, si avvicinò alla rivale, con un violento strappo le lacerò la ricca farda trapunta in oro e l'habbaras di seta azzurrina che la copriva, e su quelle carni bronzine e vellutate applicò un furioso colpo di corbach che tracciò una riga violacea.

L'almea cacciò fuori un urlo strozzato, furibondo, un urlo d'angoscia, di vergogna, d'ira e si piegò come fosse stata spezzata in due, cogli occhi fuor dall'orbite e con una bava sanguigna sugli angoli delle labbra contorte per lo spasimo.

—Basta, disse il dongolese. È troppo lacerarle quel seno da urì.

La greca alzò una seconda volta lo staffile, ma lo riabbassò e lo gettò lungi da sè. L'almea era svenuta e rimaneva sospesa per le corde.

—Ecco come si vendica una greca, disse Elenka con un sorriso feroce.

—Che facciamo ora di lei? chiese Nagarch. Devo staccarla.

—Mai più, la lasceremo qui sola e legata.

—Ma le tenebre cominciano a calare e fra pochi minuti sarà notte.

—E che importa a me se fa notte.

—Voglio dire che i leoni, le pantere, le jene e gli sciacalli usciranno dai loro covi e che si getteranno sull'almea.

—È quello che desidero, disse la greca

—Oh! fe' il dongolese. E voi lascerete divorare quella bella donna?
Ricordatevi che vostro fratello vi ordinò di condurgliela.

—Mio fratello non rivedrà più quest'almea. Se questa donna scampa potrebbe ancora attraversarmi la via e diventare mia rivale. Spenta che ella sia, Abd-El-Kerim perderà ogni speranza, ritornerà per forza da me e mi amerà ancora.

—Ma che dirà vostro fratello?

La greca trasse dalla cintola una borsa rigonfia e la pose nelle mani del dongolese.

—Nagarch, gli disse. Qui vi sono cento talleri e altrettanti ne avrai se tu non lascerai uscire dalle tue labbra una sola parola di quanto hai fatto e veduto. Noi diremo a Notis che ci fu impossibile fare prigioniera Fathma perchè trovasi sotto la protezione di Dhafar pascià e attendata proprio nel mezzo del campo egiziano.

—Sarò muto come un morto. Ah! voi siete ben terribile. Non ho mai incontrato in vita mia una donna simile.

—Almeno non dirai più così. Andiamo che le tenebre calano.

Il dongolese le accennò il cadavere di Alek. Si avvicinò al compagno, scavò coll'jatagan una fossa e ve lo seppellì colla faccia rivolta alla Mecca come prescrive il Corano. Quando tornò, Elenka era ferma dinanzi all'almea, colle braccia incrociate.

—Andiamo, diss'egli ponendosi in cammino

—Povera Fathma! esclamò Elenka con ironia. È atroce perdere il fidanzato e la vita in un sol colpo!

Soffocò uno scroscio di risa, raggiunse il dongolese e pochi minuti dopo scomparivano in mezzo alle palme, lasciandosi dietro la vittima.

Era trascorsa una mezz'ora: quando la povera Fathma tornò in sè. Riaprì gli occhi strambasciati e roteanti in un cerchio di sangue, si raddrizzò con impeto felino addossandosi contro il ruvido tronco del tamarindo e si guardò attorno con un misto di spavento, di ansietà e di profonda sorpresa.

Non vide nulla. Provava sulle carni un bruciore infernale, sentiva come un peso enorme che la accasciava, che le mozzava il respiro e la testa che le girava come una fionda. In sulle prime credette di essere in preda ad un terribile incubo.

Tornò a guardarsi attorno. Le parve impossibile di trovarsi sola, le parve impossibile di non vedersi dinanzi la sinistra figura della vendicativa Elenka col corbach in mano in atto di straziarle le nude carni. Credette che la rivale si tenesse celata dietro a qualche tronco d'albero, ma dovette ben presto convincersi che era affatto sola in mezzo alla foresta. Indovinò subito a quale orribile supplizio l'aveva destinata e tremò tutta d'angoscia e di spavento.

Le balenò in mente la fuga prima che la notte calasse e che le jene e i leoni venissero a divorarla. Radunò tutte le sue forze triplicate dalla disperazione e si dimenò come una pazza furiosa al punto di fare quasi scoppiare la pelle sotto la tensione dei muscoli; i polsi, contorti s'insanguinarono ma le corregge resistettero. Si mise a chiamare aiuto, e a urlare destando tutti gli echi delle foreste ma nessuno rispose alle disperate invocazioni. Uno spavento inesprimibile s'impadronì di lei; si vide perduta ed emise uno straziante gemito.

La notte calava rapida, rapida.

Il sole declinò all'occidente dopo di aver illuminato le più alte cime della foresta e succedette il crepuscolo, vago, rossastro, brevissimo, che andò subito oscurandosi lasciando il posto alle tenebre che s'addensavano già sotto la vôlta di verzura.

Gli uccelli, dopo di aver lanciato le ultime note, si tacquero; le scimmie zittirono, gl'insetti ronzanti s'addormentarono e in capo ad una mezz'ora la gran foresta divenne silenziosa e si seppellì fra l'oscurità.

Fathma, man mano che gli ultimi bagliori del crepuscolo sparivano, sentiva accrescere lo spavento. Fra poco quel silenzio sarebbe stato rotto dagli scrosci di risa delle iene, dalle urla dei sciacalli, dal possente ruggito dei leoni e dai sibili dei serpenti e lo spaventevole supplizio sarebbe cominciato. Oh! quanto avrebbe dato per arrestare quelle tenebre che s'addensavano sempre più.

Fece appello a tutto il suo coraggio e frenando i tumultuosi battiti del cuore s'irrigidì contro il tronco dell'albero, rattenendo persino il respiro onde non attirar l'attenzione delle fiere, cogli occhi fissi sotto gli alberi e gli orecchi tesi per raccogliere il menomo rumore.

Passarono dieci minuti di angosciosa aspettativa. D'improvviso, a tre o quattrocento passi di distanza ecco scoppiare una gran risata che si avrebbe potuto credere emessa da una gola umana, da un negro in delirio, Fathma rabbrividì fino alla punta dei capelli nel riconoscere il riso sgangherato della jena.

Succedette un po' di silenzio, rotto solo dal susurrìo delle grandi foglie delle palme che si accarezzavano vicendevolmente sotto i soffi del venticello notturno, poi echeggiò un altro scoppio di risa più vicino, un terzo a destra, un quarto a sinistra, poi un quinto, un sesto e in breve succedette un concerto capace di far morire di paura una donna meno coraggiosa dell'almea. Era ora un ridere spaventevole e ora un brontolìo rauco; ora erano i gemiti strazianti come di persone agonizzanti e ora un urlìo lugubre, diabolico. Fathma non ardiva fiatare e rimaneva immobile, confusa al tronco del tamarindo.

Il concerto non cessò un sol istante. Più volte un sciacallo si avvicinò all'almea e le urlò contro, ma senza ardire di assalirla; un fischio di lei bastava per fugare quegli animali eccessivamente vigliacchi.

D'un tratto udì il riso d'una jena avvicinarsi sensibilmente al tamarindo e poco dopo comparve un grosso animale dal mantello color cenere oscuro su cui risaltava una doppia fila di peli grossi ed irti che dall'occipite scendevano in linea retta sul dorso. Procedette col muso verso terra, con passo sciancato quasi da credere che fosso ferito e fissò due grandi occhi verdastri sull'almea che tremava in tutte le membra.

Era una jena mostruosa, la quale s'arrestò a pochi passi di distanza mandando atroci scrosci di risa. Fathma fe' atto di slanciarsi, ma l'animale, al contrario dei suoi congeneri, s'avanzò e si mise a girare e rigirare attorno al tamarindo, come cercasse d'assalire a tradimento l'impotente vittima.

Lo spaventevole supplizio durò un quarto d'ora, durante il quale Fathma non ardì mai muoversi annichilita dallo spavento e dall'angoscia, poi la jena arrestò i suoi cerchi. Fissò la povera prigioniera, le mosse incontro, si rizzò sulle zampe posteriori e appoggiò le anteriori sullo spalle di lei accostando l'orribile bocca irta di denti, al suo volto.

Fathma gettò un urlo straziante, terribile e s'abbandonò fra lo zampe della belva che la circondarono lacerandole il feredgé.

CAPITOLO XII.—Il salvatore.

Nel mentre la vendicativa Elenka poneva in esecuzione la mostruosa vendetta contro la rivale. Abd-el-Kerim languiva negli umidi sotterranei delle ruine di El-Garch. L'infelice, da che aveva avuto la visita dell'antica sua fidanzata, e da che aveva udito le sue minaccie e i suoi propositi di vendetta, non aveva avuto più pace.

In sulle prime, quando trovossi solo, si era avventato come un pazzo contro la ferrata-porta rompendosi le dita e le unghie, cercando di scuoterla e d'atterrarla, chiamando disperatamente la greca, supplicandola di nulla tentare contro la povera almea, poi quando s'avvide di non essere udito nè di poter uscire, fu preso da un tremendo accesso di furore che poteva chiamarsi delirio.

Si credette rinchiuso in quell'umida spelonca per morirvi di fame. Si mise a correre attorno alle gelide pareti cercando un'apertura, urlando come un dannato, bestemmiando Dio e il Profeta, si gettò per terra rotolandosi fra le pozzanghere, e tre volte precipitossi contro le pietre colla testa bassa, colla idea fissa di spaccarsi ii cranio, ma fosse un barlume di speranza, la paura di lasciar sola Fathma nelle mani della vendicativa greca o che altro, sempre s'arrestò. Quando le forze gli vennero meno, lo sciagurato si trascinò in un angolo e si rannicchiò su sè stesso, piangendo e ruggendo ad un tempo, coll'anima schiantata da paure e da angoscie inenarrabili.

Egli fu strappato da quell'abbattimento sei o sette ore dopo, da un vago chiarore che penetrava sotto la fessura della porta ed un avvicinarsi di passi che l'eco della spelonca ripercuoteva distintamente. Una subitanea idea balenò nel suo cervello quantunque scosso da tante sofferenze fisiche e morali, una idea ardita, quasi impossibile, l'idea di tentare la fuga colla speranza di salvare Fathma prima che cadesse nelle mani della sua spietata rivale.

Era allora ritornato completamente in sè e le forze, poche ore prima esauste dal delirio, gli erano se non del tutto, almeno in parte tornate. La sete della libertà, in quel momento decisivo gliele raddoppiò, più ancora, gliele triplicò.

Con un salto andò ad appostarsi dietro alla porta, colle mani tese innanzi pronto a piombare sull'individuo che scendeva e torcergli il collo prima che potesse gettare un grido e difendersi.

I passi che rapidamente s'avvicinavano, si arrestarono dinanzi alla porta; fu tirato il chiavistello e un beduino apparve con una torcia nella dritta e un paniere di logna (grano triturato sulla moràka e ridotto in pasta) nella sinistra. Era appena entrato che Abd-el-Kerim gli saltava addosso stringendolo alla gola con tal forza da strozzargli la voce e farlo cadere sulle ginocchia. Con un pugno su di una tempia lo gettò a terra mezzo morto.

—Zitto, miserabile! disse l'arabo fremente.

—Grazia, balbettò il beduino.

Abd-el-Kerim gli strappò l'jatagan dalla cintura e prima che l'altro potesse parare il colpo glielo cacciò attraverso il ventre. Con una seconda sciabolata lo irrigidì.

—E uno, mormorò l'arabo freddamente. Se Allàh e il Profeta m'aiutano,
Fathma è salva!

Tolse al morto le pistole e le munizioni, inghiottì in furia alcuni bocconi di logna per calmare la fame e si cacciò risolutamente nel corridoio coll'jatagan in mano.

Faceva oscuro assai, essendosi la torcia del beduino spenta, di più, la via era ingombra di rottami che rendevano malagevole il cammino, ma Abd-el-Kerim non si smarriva. Tastando le pareti, cadendo e rialzandosi, facendo il meno rumore che fosse possibile, giunse in brev'ora a una ventina di passi dall'uscita. S'arrestò vedendo un beduino fermo dinanzi, il quale, scorgendolo gridò:

—Olà! spicciati Sceiquek che non abbiamo tempo da perdere.

L'arabo non sapendo cosa rispondere e temendo che riconoscesse la sua voce, credette bene di tacere e di tirarsi lestamente indietro.

Il beduino fece due o tre passi nel corridoio.

—Chi è là? chiese egli. Sei tu Sceiquek?

Non ricevendo ancora risposta s'avanzò coll'hàrba in resta, Abd-el-Kerim si diede alla fuga e si nascose in una incavatura della parete coll'jatagan alzato.

—Per la barba del Profeta rispondi, gridò per la terza volta il beduino. Non fare scherzi, maledetto Sceiquek.

Abd-el-Kerim emise un gemito lugubre. Il beduino si fermò indeciso e forse spaventato, poi si fece animo e tirò avanti colla lancia sempre innanzi a sè. Egli passò rasente al muro opposto a quello dove trovavasi l'arabo e continuò a camminare chiedendo di quando in quando:

—Rispondi, Sceiquek, maledetto dal Profeta. Dove ti sei cacciato tu?

Abd-el-Kerim aspettò che si fosse allontanato, poi saltò fuori e si precipitò verso l'uscita del corridoio, ma non ebbe il tempo necessario per condurre a buon fine l'audace progetto. Dieci o dodici beduini sbarravano l'apertura e l'accolsero con urla minacciose dirigendo verso di lui le lance e gli jatagan.

Per un momento il fuggiasco ebbe l'idea d'avventarsi furiosamente contro di loro e d'aprirsi il passo colla forza, ma male armato e mal fermo com'era, non lo ardì e retrocesse di corsa. A mezza via si incontrò col beduino che era poco prima entrato, il quale gli si faceva addosso a testa bassa.

—Arrenditi, cane d'un arabo! gli urlò l'assalitore.

Abd-el-Kerim evitò un colpo di lancia tiratogli proprio in mezzo al petto, spezzò col rovescio dell'jatagan l'arma e s'internò nel corridoio scaricando una delle sue pistole. S'arrestò vicino alla porta prendendo l'altra pistola, risoluto di difendersi sino all'estremo prima di farsi ammazzare e guardò se il nemico s'avanzava.

Non distinse nulla ma udì le grida minacciose dei beduini e i loro passi. Un freddo sudore gli colò sulla fronte e un tremito di spavento e d'angoscia lo prese.

—Sono perduto, mormorò egli.

Le voci andavano avvicinandosi lentamente e a quelle univasi un cozzar di daghe. Si rannicchiò dietro a un macigno e caricò rapidamente la pistola che aveva scaricata.

—Piano, piano, gridò una voce, che riconobbe per quella dello sceicco Debbeud. Dove è andato a finire, innanzi a tutto, quel povero diavolo di Sceiquek?

—Se quel cane d'arabo era nel corridoio l'avrà ammazzato, rispose un'altra voce.

—Ma come? egli non possedeva alcuna arma che io sappia, ed era mezzo morto di fame. Hai veduto nulla tu Mussa?

—Non potei arrivare alla porta, ma nell'uomo che fuggiva riconobbi perfettamente il prigioniero ed era armato di un jatagan che mi tagliò l'hàrba.

—Olà! gridò una vociaccia imperiosa, tirate innanzi, ira di Dio!
L'arabo, vivo o morto, ma possibilmente vivo, bisogna pigliarlo.

Quella voce fece scattare in piedi Abd-el-Kerim.

—Sogno! esclamò egli con profondo terrore. Gran Dio!…

Si sporse innanzi, rattenendo il respiro, colla faccia livida, tutto in sudore, i pugni chiusi convulsivamente attorno alle armi.

—Ira di Dio! gridò la medesima voce. Avanti tutti!

Abd-el-Kerim gettò un grido strozzato e retrocedette suo malgrado.

—Notis! Notis! ripetè egli. Non l'ho dunque ucciso io?… Ah! mostro!

Varcò la porta e andò a tasteggiare il suolo fino a che trovò il cadavere del beduino. L'alzò, se lo gettò in ispalla, se lo fece scivolare sul petto in maniera che gli servisse in certo qual modo di scudo, e si spinse innanzi, cieco di collera e assetato di vendetta.

—Avanti, Notis! gridò egli con terribile accento. Io t'ho scoperto!

—Ira di Dio! urlò il greco. È lui!

Da una parte e dall'altra s'udì un rumore delle pistole che si montavano, poi la voce tonante di Fit Debbeud urlare:

—Tutti avanti!

Abd-el-Kerim s'appoggiò al muro indeciso, non sapendo se arrischiare la vita per una quasi impossibile vendetta o d'asserragliarsi nel sotterraneo e aspettare gli eventi. Stava per ritirarsi quando vide le torcie dei beduini.

Tese la dritta armata di pistola, mirò un secondo e fece fuoco. La detonazione fu seguita da un urlo straziante e uno dei beduini capitombolò al suolo cadendo sulla torcia che portava.

—Aiuto! rantolò il poveretto, dibattendosi e cercando di alzarsi.

Abd-el-Kerim con una seconda pistolettata lo fece ricadere al suolo. Tutti gli altri batterono rapidamente in ritirata scaricando le loro armi, che a causa dell'oscurità, non riuscirono a far male alcuno all'arabo.

—Ira di Dio! tuonò Notis. Arrenditi Abd-el-Kerim!

—Ah! se ti potessi cogliere, maledetto morto risuscitato, gridò l'arabo. Fatti avanti che ti veda in faccia se sei un fantasma od un uomo!

Per risposta s'ebbe due colpi di pistola e un proiettile andò a colpire il cadavere che teneva in ispalla. Al chiarore della polvere accesa, egli scorse in quel momento, di fronte a lui, presso la volta della galleria, un gran crepaccio che pareva s'internasse assai nella parete. A mala pena rattenne un grido di gioia che stava per uscirgli dalle labbra.

—Ah! mormorò egli.

Retrocesse d'alcuni passi e gettò a terra il cadavere, poi, senza por tempo di mezzo, messesi le armi alla cintura, si raccolse su sè stesso, spiccò un gran salto e introdusse le mani nell'orlo di quel foro. Issarsi a forza di braccia e guadagnarlo, fu per lui l'affare di un sol momento.

Si trovò in una specie di bassa galleria che s'addentrava nelle viscere della terra, le cui pareti erano coperte da bizzarre sculture assai sporgenti. Proprio in quell'istante i beduini tornavano alla carica a passo di corsa colle lancie in resta, animandosi l'un l'altro con selvaggie urla di guerra.

Temendo d'essere scoperto si mise a strisciare innanzi a tastoni, salendo e scendendo dei cumuli che non riusciva bene a distinguere che cosa fossero, ma che di spesso erano sì accuminati e taglienti che gli ferivano le ginocchia. L'atmosfera era calda, pesante, viziata e pareva certe volte che mancasse sicchè l'arabo esitava a procedere temendo di morire asfissiato.

Non udiva allora più le grida selvaggie dei beduini, ma per l'aria udiva certi svolazzamenti, certi stridi che facevangli supporre di trovarsi in mezzo a bande di pipistrelli; anzi provava sulla faccia il freddo contatto delle loro ali e più d'uno s'aggrappò alle sue vesti. Dieci e più volte s'arrestò, per paura di smarrirsi fra le gallerie che si succedevano le une alle altre sempre più tortuose, ma la speranza di trovare uno sbocco e la tema di ricadere nelle mani di quel mostro che chiamavasi Notis e nelle mani della vendicativa Elenka, lo spingevano suo malgrado innanzi.

D'un tratto si trovò in presenza di una parete che chiudeva il passo, ma girando per di qua e per di là trovò una apertura per la quale si cacciò e sbucò in una caverna di quindici metri di diametro richiarata da una vaga luce che scendeva dall'alto.

Si guardò attorno sorpreso. Vide dei sepolcri fregiati d'ibis religiose e di piante di loto sacro, e negli angoli dei coccodrilli mummificati, infissi nel petto come usasi fare, cogli scarabei che voglionsi conservare, e avvolti per metà in istuoie. Sul terreno vi erano monti d'ossami alcuni appartenenti ad animali ma molti altri a uomini.

L'arabo non si smarrì. Aggrappandosi alle sporgenze delle pareti, aiutandosi colle mani e coi piedi, giunse a una gran fessura dalla quale veniva quel po' di luce e si trovò all'aperto in mezzo a sei o sette sepolcri sormontati da tarbusch colossali. A cento passi da lui v'era la foresta e a duecento vi erano le tende e i cammelli dei beduini. Un dongolese solo vegliava, appoggiato alla sua hàrba, fumando flemmaticamente in un gran scibouk malandato.

—Se posso fuggire senz'essere visto da quell'uomo, sono salvo, mormorò l'arabo. La notte cala, la foresta è vicina e i beduini sono nel sotterraneo. Mi caccierò in mezzo ai cespugli e sfido i cani a trovarmi. Ah! Elenka, guai a te se riesco a sorprenderti nel tugul dell'adorata mia Fathma!

Si gettò contro terra e si avanzò a carponi tenendosi dietro ai cumuli di rottami, ma il dongolese aveva buoni occhi e vegliava attentamente.

—All'armi! gridò egli.

Gli sparò addosso una pistolettata che aveva tratta rapidamente dalla cintura.

Abd-el-Kerim evitò la palla abbassandosi bruscamente, poi si rialzò e si precipitò in mezzo alle boscaglie, nel momento istesso che Fit Debbeud e i suoi beduini saltavano fuori dalla galleria.

Non si volse nemmeno per vedere se l'inseguissero. Prese un sentiero e si die' a fuggire rapido come una saetta, ora correndo come una palla di cannone e ora deviando e saltando, lacerando i cespugli, lasciando mezze vesti fra le spine, cozzando o incespicando fra i rami e le radici che le tenebre non gli permettevano ben di distinguere.

Udì dietro di sè le voci rauche dei beduini poi tre o quattro colpi di moschetto ma non s'arrestò. Percorse così più d'un chilometro e stava per rallentare la corsa quando si trovò improvvisamente dinanzi a una donna che veniva avanti a gran passi.

—Fermati, Abd-el-Kerim! esclamò quella donna con tono minaccioso.

L'arabo dette indietro e barcollò come se fosse stato colpito da una coltellata. Dinanzi gli stava Elenka, tutta trafelata, sconvolta, colle mani tese innanzi come per arrestarlo.

—Tu! Tu! ruggì egli. Tu, Elenka!

—Sì, Abd-el-Kerim, ancora io che giungo in tempo per salvarti!

L'arabo la guardò cogli occhi strambasciati e nei quali balenava una fiamma d'ira, d'immenso furore.

—Fermati, Abd-el-Kerim! ripetè la greca. Dove vai? Dove fuggi? Chi ti liberò?…

—Sciagurata!… Che hai fatto dell'almea? chiese l'arabo con voce strozzata.

—Non chiedermi conto di quell'odiata rivale. Vieni con me, ritorna fra le braccia della tua Elenka che tanto ti ama.

Un'ondata di sangue montò alla testa dell'arabo: si scagliò sulla greca ebbro di collera e cercò di rovesciarla, urlando come una belva inferocita.

—Dov'è l'almea? Dov'è l'almea?

Tutti e due rotolarono l'un sull'altra. La greca se lo strinse contro il seno e invece di difendersi gli stampò sulle labbra un ardente bacio.

—Ti odio e ti amo immensamente! esclamò ella delirante.

Quel bacio fece sull'arabo l'effetto di un morso di serpente. Le sue mani nervose si strinsero attorno il collo di cigno della greca ed ebbe per un momento l'idea di strozzarla.

Ma s'arrestò subito senza forze e senza coraggio e cercò d'alzarsi spaventato, inorridito e fors'anche affascinato. Alcuni beduini apparvero a duecento passi di distanza agitando freneticamente le armi.

—Fermate! Fermate! urlarono essi correndo.

Abd-el-Kerim comprese il pericolo e si raddrizzò, ma la greca si era aggrappata disperatamente alle braccia di lui.

—Lasciami, mostruosa creatura! balbettò egli fuori di sè.

—Abd el-Kerim, ti amo, ti adoro, perdonami! mormorò con voce fioca
Elenka. Fa di me quello che vuoi ma rimani!

Egli la trascinò seco per dieci o dodici passi, poi con una violenta scossa l'atterrò e l'abbandonò mezza stordita fra le erbe, ripigliando la fantastica corsa sotto gli alberi.

Il sangue gli oscurava la vista, le arterie gli battevano febbrilmente e parevagli che delle lingue di fuoco gli serpeggiassero per le vene e salissero su, su fino al cervello. Gli parve di essere diventato pazzo o di essere in preda ad uno spaventevole incubo che perdurava per quanto facesse per risvegliarsi.

Corse per un'ora, smarrendosi fra i meandri della gigantesca foresta, fugando le iene e gli sciacalli che rompevano il silenzio della notte con orribili scrosci di risa e urla interminabili, poi si fermò, anelante, spossato, colla spuma alle labbra.

Tutto ad un tratto udì un grido straziante, terribile, prolungato; era un grido d'angoscia, una invocazione suprema, un appello disperato. Nell'udirlo, i capelli si rizzarono sulla fronte e il sangue poco prima infiammato gli si gelò nelle vene.

—Dio! Dio! qual voce! balbettò egli. Dove ho udito io questa voce?
Sono o non sono sveglio. Avanti! avanti!

Partì come una freccia coll'jatagan in mano, dirigendosi verso un macchione di piante di palme dal quale era partito il grido e sbucò in una piccola radura.

Là legata ad un gigantesco tamarindo, semi-nuda, stava una donna e ritta dinanzi a lei una spaventevole jena che la stringeva fra i suoi artigli. Abd-el-Kerim gettò un urlo selvaggio, furioso, strozzato.

—Fathma!… Fathma!…

Ruinò come una valanga addosso alla jena che stava per sbranare la sventurata almea e con un terribile fendente le spaccò il cranio.

—Fathma! mia adorata Fathma! esclamò l'arabo con istrazio.

Tagliò rapidamente i legami e ricevette fra le braccia quel corpo inerte e semi-gelato: gli occhi dell'arabo s'inumidirono.

—Rispondi, Fathma, rispondi, continuò egli, baciandola sulle gote.
Gran Dio! che è successo mai?… Come sei qui e in questo stato?…

Un debole sospiro uscì dalle labbra dell'almea e poco dopo aprì gli occhi e li fissò in quelli dell'amante.

—Dove sono? chiese ella con un filo di voce.

—Fra le mie braccia, al sicuro d'ogni offesa! esclamò Abd-el-Kerim che rideva e piangeva ad un tempo. Non aver paura, Fathma, sono qui io a difenderti, sono qui io a salvarti.

L'almea lo mirò per alcuni istanti con occhi smarriti, poi gli gettò le nude braccia attorno al collo e se lo strinse al seno.

—Tu, tu, mio amato Abd-el-Kerim! Allàh, fa che io non sogni! esclamò ella.

—No, non sogni mia povera Fathma, sono proprio io, il tuo Abd-el-Kerim giunto in tempo per infrangere il capo a quell'immonda jena che stava per dilaniare le tue spalle.

Fathma fece un gesto d'orrore.

—Ah sì, mi ricordo… mi ricordo… L'aveva dinanzi a me… era salita sulle mie spalle, mi guardava ferocemente… mi mostrava i denti… mi soffocava fra le sue zampe… Oh Dio! quale spavento! Oh Dio, quale angoscia!

—Ma chi fu quel mostro che t'abbandonò legata in questa selva a pasto delle bestie! Dimmi chi fu, che io vada a strappargli il cuore!

—La greca, la mia rivale, Elenka, balbettò Fathma tremando di rabbia. Mi tradì, mi flagellò, poi mi lasciò sola… Se tu sapessi quanto odio quell'orribile creatura!

—Elenka!… esclamò Abd-el-Kerim con trasporto furioso. Maledetto il momento in cui non la strozzai! Guai, guai, mostruosa donna se riesco a riafferrarti!

La sua voce fu soffocata da una scarica di fucili che risuonò in lontananza e da uno scoppio di urla feroci.

—Abd-el-Kerim! esclamò Fathma con ispavento.

Egli la sollevò e se l'appoggiò al petto come una madre fa d'un fanciullo.

—Vieni, Fathma, diss'egli sordamente. Sono inseguito dai beduini che mi rapirono. Vieni, vieni!

Egli fuggì a grandi salti e colla medesima facilità come se portasse un leggero fardello, tanta era la forza che infondevagli l'amore e la gioia d'aver ritrovata colei che egli credeva per sempre perduta.

Attraversò sempre correndo l'ultimo tratto della foresta e giunse nella pianura d'Hossanieh proprio nel momento che un plotone di basci-bozuk sbuccava alla carriera da una gola formata da due ripide colline.

—Fathma! esclamò Abd-el-Kerim, con emozione. I basci-bozuk!

L'uomo che cavalcava alla testa dei soldati, venne a loro incontro a tutta velocità e gettò un gran grido:

—Abd-el-Kerim! Abd-el-Kerim!

—Hassarn! gridò l'arabo.

Il capitano balzò di sella e li raggiunse colle braccia aperte;
Abd-el-Kerim e Fathma si precipitarono incontro a lui.

—Ah! esclamò il capitano Hassarn stringendoli ambedue in un tenero amplesso. Vi credeva per sempre perduti!

CAPITOLO XIII.—Il Delatore.

All'indomani il campo egiziano era tutto in confusione. Fanti, artiglieri e cavalieri andavano e venivano frettolosamente e lavoravano con febbrile alacrità; gli uni piegavano le tende e le arrotolavano accuratamente, altri scioglievano fasci di fucili e li consegnavano ai rispettivi proprietari, altri ancora si aiutavano reciprocamente a mettersi in ispalla gli zaini, a incinghiare le gamelle e le giberne. Si tiravano i cannoni e se li aggiogavano ai muli o agli asini, si insellavano i cavalli, si caricavano i cammelli e si conducevano in furia ai pozzi a rinnovare le provviste d'acqua e ad una estremità dell'accampamento si formavano le compagnie che tosto si muovevano quale avanguardia.

Si capiva subito che gli Egiziani levavano il campo. Alla notte erano giunti i rinforzi da Chartum, consistenti per lo più in artiglieri, e Dhafar pascià aveva dato il comando di prepararsi per mettersi in viaggio onde raggiungere l'esercito comandato dai pascià Hicks e Aladin.

Nel momento che maggiore era l'animazione, un uomo avvolto accuratamente in un gran taub alla beduina che gli lasciava scoperti solamente gli occhi, entrava nel campo, senza essere quasi visto.

Lo sconosciuto si fermò un momento dietro ad un gruppo di cammelli inginocchiati che aspettavano il carico, guardò con grande attenzione qua e là come cercasse qualche volto di sua conoscenza, poi tirò innanzi con passo quasi furtivo, oltrepassò in furia le tende degli ufficiali e dello stato maggiore coprendosi col taub persino il capo e s'arrestò dinanzi alla tenda di Dhafar pascià sulla cui cima ondeggiava la bandiera egiziana.

—Alto là! gli intimò la sentinella che vegliava dinanzi l'entrata.

Lo sconosciuto mostrò il suo volto e fece volare in aria un tallero. La sentinella si tirò prestamente da un lato presentandogli l'arma non senza un gesto di sorpresa e di terrore.

—Non aver paura che non sono uno spettro, disse lo sconosciuto, sorridendo. Quando parte il grosso della truppa?

—Fra due ore, rispose la sentinella.

—Con chi è Dhafar pascià?

—Coi suoi aiutanti di campo.

—Va a dirgli ch'io debbo parlargli immediatamente ma che desidero sia solo.

La sentinella chiamò un compagno, gli consegnò il fucile ed entrò precipitosamente nella tenda. Poco dopo uscì seguito da tre aiutanti di campo.

—Vi aspetta, diss'egli.

Lo sconosciuto entrò e trovò Dhafar pascià in piedi dinanzi ad un tavolino ingombro di carte geografiche.

Il pascià retrocesse vivamente, quando lo sconosciuto lasciò cadere a terra il taub.

—Notis! esclamò egli con terrore. Non è possibile!

—Sì, sono Notis, Dhafar pascià, rispose il greco. Quel Notis che tutti credevano morto nelle foreste del Bahr-el-Abiad.

—Ma come mai siete vivo?… M'avevano narrato che Abd-el-Kerim vi aveva cacciato la scimitarra attraverso il corpo e che eravate caduto in uno stagno profondissimo.

—È vero, disse Notis, ma i greci hanno l'anima incavigliata.

—Non capisco come siate risorto.

—È facilissimo, pascià! Quando Abd-el-Kerim mi lasciò nello stagno, non ero ancora spirato. Un beduino, passando poco dopo per la foresta, udì i miei gemiti e mi raccolse. Languii più giorni nella sua tenda ma finalmente guarii ed ora ritorno al campo.

—Per riprendere il comando della vostra compagnia?

—Niente affatto, Ecco qui una lettera firmata dal mudir di Chartum il quale mi concede il congedo di due anni; mia sorella me la recò tre giorni or sono.

—Ah! fe' Dhafar sorpreso. È qui vostra sorella Elenka?

—No, è accampata alle ruine di El-Garch.

—E allora che volete da me? chiese il pascià dopo di aver letta la lettera che Notis gli porgeva.

—Siamo perfettamente soli?

—Assolutamente soli.

—Dhafar pascià, disse Notis gravemente, nelle vostre file avete una spia di quel cane di Mahdi.

—Nelle mie file, esclamò il pascià. Chi può essere mai?

—Una donna che fu la favorita del Mahdi e che ora divenne l'amante di Abd-el-Kerim.

—Fathma!

—Sì, proprio l'almea Fathma, mandata qui dal suo signore per tradirvi tutti quanti e farvi uccidere prima che abbiate a raggiungere l'armata d'Hicks pascià.

—È forse una rivincita che tentate contro Abd-el-Kerim?

—Non mi curo più di quell'arabo. Lo disprezzo e ciò per me basta.

—Ma sapete che se è vero quello che asserite Fathma è perduta?

—Che farete di quella donna? chiese Notis la cui voce tremavagli leggermente.

—La faccio fucilare subito.

Il greco impallidì ma non fece nessun motto che tradisse la violenta emozione che agitavalo. Comprese subito che era andato troppo innanzi e che correva rischio di perdere per sempre Fathma, ma non si scoraggiò.

—Se la fate fucilare, è una grande disgrazia, disse.

—Perchè mai? I ribelli non meritano compassione, anzi nemmeno quartiere.

—Io, se fossi in voi, la manderei a Chartum e ve la terrei come ostaggio. Il Mahdi l'ama, e potrebbe servirsi per scambiarla contro qualche personaggio importante che avesse la sfortuna di cadere nelle mani dei ribelli.

—Confesso che voi ne sapete più di me, ma chi mi assicura che essa fu la favorita del Mahdi? L'accusa è gravissima.

—Lo assicurerà un dongolese che la vide più volte a El-Obeid.

—Dove si trova quest'uomo?

Il greco uscì dalla tenda e mandò un fischio stridulo, poi sparò in aria un colpo di pistola. Tosto si vide accorrere verso il campo un selvaggio seminudo, armato di una lunga lancia; in poco tempo giunse alla tenda e fu condotto alla presenza del pascià.

—Tu sei dongolese, non è vero? chiese Dhafar, guardandolo con curiosità.

—Si, padrone, rispose il negro,

—Da dove vieni?

—Da El-Obeid dove accampava il ribelle Mohamed Ahmed.

—Conosci tu Fathma?

—Sì, era la favorita del Mahdi, La vidi più volte a El-Obeid.

—Basta, così, puoi andartene

Il negro se ne andò dopo d'aver scambiato un rapido sguardo col greco.

—Che fate ora? chiese Notis dopo qualche istante di silenzio.

—Faccio arrestare Fathma e condurre sotto buona scorta a Chartum.

—Ma Abd-el-Kerim la seguirà, innamorato come è, e potrebbe corrompere la scorta e liberare la prigioniera.

—Lo so, ma Abd-el-Kerim lo terrò al campo.

—Ho anzi qui una lettera del governatore di Chartum, il quale vi impone di condurre con voi Abd-el-Kerim ricorrendo, qualora vi fosse bisogno, alla forza.

—Come mai al governatore saltò in capo di obbligarmi a fare questo? chiese Dhafar, leggendo la seconda lettera che il greco aveva levata dalla saccoccia.

—L'ignoro, ma probabilmente deve esserci il suo perchè.

Dhafar guardò fissamente Notis e scosse il capo.

—A chi affiderete il comando della scorta? incalzò il tenente.

—Ad uno dei miei aiutanti di campo.

—E perchè no a me?

Un risolino malizioso apparve sulle labbra del pascià.

—Perchè potreste fare quello che farebbe Abd-el-Kerim. Mi dissero che la causa del duello fu una donna e questa donna è precisamente la stessa che voi accusate. Basta così, ubbidisco e voi ubbidite.

Il greco a mala pena frenò un motto di dispetto Dhafar pascià battè tre volte le mani nel momento istesso che al di fuori echeggiavano le trombe e rullavano i tamburi.

Un aiutante di campo accorse.

—Prendete con voi dieci uomini, gli disse il pascià, e andate ad arrestare Fathma. Viva o morta la condurrete qui.

L'aiutante di campo s'inchinò, uscì e chiamò dieci soldati, ai quali fece caricare le armi e inastare le daghe. Stava per dare il comando di marciare quando fu raggiunto dal greco Notis.

—Kebir, diss'egli, facendogli scivolare in una saccoccia una borsa ricolma di talleri. Guai a te se torci un capello all'almea.

—Non temere di nulla, Notis, rispose l'aiutante. Ti comprendo di volo.

—Va ora, e sta attento ad Abd-el-Kerim.

L'aiutante si pose in cammino seguito dai dieci soldati e ad una certa distanza dal greco che s'era tutto coperto col taub. Attraversarono il campo nel quale si ordinavano le compagnie e giunsero alla casupola di Fathma nel momento che l'almea appariva alla porta accompagnata da Abd-el-Kerim e dal capitano Hassarn.

—Alto là! intimò Kebir, sguainando la scimitarra.

Alla vista dell'aiutante di campo di Dhafar pascià colla scimitarra in mano e dei dieci soldati colle baionette in canna, un brivido di terrore era passato per le ossa di Fathma e di Abd-el-Kerim. Essi s'arrestarono, guardandosi in viso con ansietà e con meraviglia, non sapendo spiegare il perchè di quella presenza di soldati armati.

—Che significa ciò? chiese l'arabo con stupore.

—Ho l'ordine d'arrestare uno di voi, rispose Kebir.

—Uno di noi? esclamarono tutti e tre ad un tempo.

—Fathma, disse l'aiutante ponendole una mano sulla spalla, in nome di
Dhafar pascià io ti arresto!…

Un grido d'orrore e d'angoscia sfuggì dalle labbra dell'almea.

—Io arrestata! balbettò la poveretta… Io… io!…

—È impossibile! gridò Abd-el-Kerim, dando indietro.

—Qui c'è uno sbaglio, disse Hassarn. Tu vuoi scherzare, Kebir.

—Ti dico io, Hassarn, che ebbi l'ordine d'arrestare l'almea Fathma, replicò l'aiutante di campo.

—Ma di che sono accusata?… Non ho fatto male a nessuno, io.

—Ignoro perfettamente il motivo.

—Kebir, disse Abd-el-Kerim con voce rauca. Non ischerzare, o per
Allàh io ti spacco il cranio.

—Io obbedisco e nulla di più. Dhafar pascià ti dirà il perchè fece arrestare la tua amante. Orsù, spicciamoci che si sta per partire.

—Ma io non sono colpevole! esclamò Fathma che tremava come fosse assalita da violentissima febbre. Abd-el-Kerim, oh! io ho paura, non voglio venire, non ho fatto nulla per venire arrestata, salvami.

—Coraggio, Fathma, disse l'arabo, cingendola con ambe le braccia. Non temere di nulla che siamo qui noi a difenderti, Dhafar pascià non può essersi che ingannato, vieni con noi senza tremare. Io e Hassarn siamo abbastanza potenti per disperdere un'accusa, se questa vi sarà.

I soldati li avevano circondati tutti e tre. Abd-el-Kerim passò il suo braccio sotto quello di Fathma e il drappello si mosse verso il campo.

—Fathma, disse l'arabo. Fatti coraggio.

L'almea era pallidissima e camminava a gran pena appoggiandosi o meglio abbandonandosi al braccio del fidanzato.

—Ho paura, mio povero Abd-el-Kerim, diss'ella con voce fioca.

«Ho dei sinistri presentimenti che invano cerco di scacciare, dei presentimenti che mi straziano il cuore e che me lo fanno sanguinare. Se io venissi realmente arrestata? O Dio, qual terribile pensiero!»

—Ci siamo noi e non ti abbandoneremo mai, disse Hassarn.

—Non so, continuò l'almea, ma ho paura che qualcuno ci attraversi ancora la via, che qualcuno cerchi ancora di separarci.

—Ma chi mai? chiese Abd-el-Kerim che nondimeno sentivasi agitato da vaghi timori. Nè Notis, nè Elenka ardivano mostrarsi al campo, e poi, per che fare? Di che accusarti?

—Che ne so io? Sono sì mostruosi quel fratello e quella sorella!

—Guai a loro se avessero ad accusarti dinanzi a Dhafar pascià.

Quando giunsero al campo il piccolo esercito ne usciva, fra uno squillar acuto di trombe, un rullare fragoroso di tamburi e gli evviva della popolazione d'Hossanieh, accorsa in massa a vederlo partire. I fanti marciavano in testa coi fucili in ispalla e le bandiere spiegate, i basci-bozuk caracollavano superbamente ai fianchi, colle scimitarre in pugno, che brillavano ai raggi del sole equatoriale e l'artiglieria veniva dietro spalleggiata da una moltitudine di mahari, di cammelli, d'asini e di cavalli carichi di viveri, di munizioni e persino d'armi.

Dhafar pascià appoggiato alla sua scimitarra, con una sigaretta fra le labbra, circondato dal suo stato maggiore che teneva un piede nelle staffe degli ardenti corsieri, assisteva impassibile allo sfilamento.

Abd-el-Kerim fu il primo a presentarsi dinanzi a lui.

—Dhafar pascià, gli disse, piantandoglisi dinanzi con aria tutt'altro che rispettosa. Che scherzo avete voluto farmi?

Il pascià a quella domanda direttagli bruscamente e con tono quasi di minaccia, si volse colla fronte alquanto aggrottata.

—Ah! sei tu, Abd-el-Kerim! esclamò. Credeva che tu arrivassi tardi.

—No, arrivo in tempo, ma par chiedervi che scherzo m'avete fatto. Chi vi suggerì l'idea di far arrestare Fathma? Di che la si accusa?

—Sei innamorato di quella donna!

—Tutti lo sanno.

—Credi a me, dimenticala. Essa è una spia.

—Spia! spia! esclamò Fathma, facendosi innanzi coll'ira negli occhi.
Mi accusi di essere una spia!

—Voi siete stato ingannato, Dhafar pascià, disse Abd-el-Kerim con violenza. Come accusare questa donna di essere una spia?

—Chi ve lo disse? chiese Hassarn. Io rispondo di Fathma come di me stesso, Dhafar.

—Calma, calma amici, disse il pascià. Rispondi, Fathma. Non fosti tu a El Obeid la favorita del ribelle Mohamed Ahmed?

L'almea presa alla sprovveduta tremò tutta. Comprese subito l'abisso in cui stava per cadere e fece appello a tutto il suo coraggio per non perdersi.

—No, diss'ella risolutamente. Non conobbi mai il falso profeta.

—Oh! esclamò il pascià. Tu menti, te l'assicuro, tu menti!

—No, te lo ripeto pascià, non conobbi mai il Mahdi.

—Giuralo.

L'almea impallidì e si tacque, ma vide gli sguardi penetranti di
Abd-el-Kerim fissi nei suoi come per incoraggiarla e non esitò più.

—Lo giuro sul Corano, diss'ella, alzando la destra.

Abd-el-Kerim e Hassarn respirarono. Credettero che fosse salva, ma questa speranza durò un lampo. S'udì il lamentevole urlo dello sciacallo e subito dopo un selvaggio fendè il cerchio formato dallo stato maggiore. Era il dongolese che Notis aveva presentato a Dhafar pascià. Egli camminò dritto verso l'almea e toccandole con un dito il seno le gridò:

—Spergiura!

S'udì un mormorio di sorpresa. Gli ufficiali si strinsero vieppiù attorno a quel gruppo ansiosi di vedere come la sarebbe finita.

—Spergiura! ripetè il dongolese.

Abd-el-Kerim fece un salto innanzi colla faccia alterata e le mani sulla guardia della scimitarra.

—Chi sei? gli chiese con voce arrangolata.

—Un dongolese che militò sotto le bandiere del Mahdi e che poi disertò per passare sotto quelle di Yossif pascià. Sono un superstite della strage di Kadir.

—E tu dici?…

—Che quella donna mente.

—Io! esclamò la povera almea, che perdeva il suo sangue freddo.

—Sì! tu menti, ripetè il dongolese con maggior forza. Io ti vidi a
El-Obeid quando tu eri la favorita del Mahdi!

Fathma mandò un grido terribile e tentò gettarsi sul dongolese, ma i soldati l'afferrarono pei polsi. Abd-el-Kerim mise mano alla scimitarra.

—Miserabile! urlò egli.

Gli ufficiali però lo disarmarono, trascinandolo via come pure disarmarono il capitano Hassarn che aveva puntata una pistola sul delatore.

—Arrestate quella donna, disse Dhafar pascià, e conducetela a
Chartum.

—Non fatelo! Non fatelo!… urlò Abd-el-Kerim che fuori di sè dibattevasi disperatamente fra gli ufficiali.

—Arrestate quella donna, e trascinatela via, replicò Dhafar imperiosamente.

I soldati afferrarono l'almea e la portarono via malgrado le strazianti sue grida e i suoi sforzi sovrumani.

—Aiuto, Abd-el-Kerim, aiuto, Hassarn, ripeteva la poveretta.

L'arabo cercò di correre in suo aiuto seco trascinando gli ufficiali ma si fermò dinanzi al pascià che, tratto dalla cintura un revolver, lo toglieva di mira.

—Se tu la segui io ti ammazzo, gli disse Dhafar.

—Lasciami andare che io diserto la mia bandiera, lascia che io segua colei che amo più della mia vita, urlò Abd-el-Kerim, che pareva un pazzo. Degradami se vuoi ma lascia che io vada con lei a Chartum, che io la protegga, che io la discolpi.

—Abd-el-Kerim, ho ordini formali del governatore di Chartum di condurti meco e io ti condurrò al sud.

Ad un suo cenno dodici o quindici neri s'impadronirono dello sventurato arabo, lo rovesciarono, lo legarono saldamente e lo trascinarono a viva forza. Hassarn che aveva sguainata la scimitarra, circondato da ogni lato, fu costretto ad abbandonare ogni difesa e a lasciarsi arrestare.

—A cavallo, comandò il pascià.

Lo stato maggiore salì in sella e si affrettò a raggiungere il piccolo esercito che si dirigeva verso i monti Kaid. Nel medesimo istante echeggiò un gran scroscio di risa beffarde e il greco Notis apparve.

Egli tese le mani l'una verso il sud dove veniva trascinato
Abd-el-Kerim e l'altra verso il nord dove veniva trascinata Fathma.

—Io al nord ed Elenka al sud, diss'egli. I greci hanno vinto gli arabi.

CAPITOLO XIV.—La caccia all'almea.

L'esercito egiziano era ormai scomparso dietro le colline quando il greco lasciò il campo.

Egli raggiunse il villaggio d'Hossanieh, ben avvolto nel taub, attraversò rapidamente quel laberinto di viuzze ingombre di cammelli carichi per lo più di gomma o di durah e guadagnò un'altura sulla quale il dongolese che aveva accusata l'almea, canterellava dei versetti dell'Alcorano.

—Ah! sei qui, disse il greco. Ti ringrazio innanzi a tutto del servigio che hai reso alla favorita del Mahdi.

—Ringraziate vostra sorella che mi diede l'imbeccata, rispose il dongolese. Bisogna proprio dire che è una gran furba.

—È greca e ciò basta. Hai veduto alcuno?

—Fit Debbeud e i suoi sono nascosti a cinquecento passi da qui e non attendono che il segnale per venire.

—Non perdiamo tempo allora.

Trasse una pistola e la sparò in aria; una detonazione analoga facevasi udire pochi secondi dopo.

Quasi subito una banda di mahari uscì da un macchione di palme deleb e si diresse a tutta corsa verso l'altura. In testa cavalcava Fit Debbeud, riconoscibile pel suo fez rosso e le bardature lucenti del suo cammello, e al suo fianco cavalcava, Elenka colla carabina in mano e la lunga capigliatura, cosparsa di monete d'oro, sciolta al vento.

Giunti ai piedi del colle lo sceicco e la greca discesero di sella e raggiunsero Notis che aveva acceso pacificamente il suo scibouk.

—Ebbene, fratello, chiese Elenka con voce un po' alterata e pigliandogli una mano.

—Tutto è andato bene, rispose Notis.

—Ah!.. esclamò la greca con gioia feroce. I Greci hanno battuto gli
Arabi.

—Si, sorella, i Greci hanno vinto gli Arabi.

—Fathma adunque?…

—È condotta prigioniera a Chartum.

—E lui?…

—E lui segue l'esercito.

—L'ha abbandonata forse?…

—Oibò! Abd-el-Kerim è più innamorato di prima.

Sulla nivea fronte della greca si disegnò una profonda ruga.

—Ancora, diss'ella con dispetto. Come è avvenuta la separazione?

—Furono separati colla forza e poco mancò che Dhafar pascià non uccidesse l'arabo con un colpo di revolver. Il maledetto aveva tratta la scimitarra per accorrere in aiuto di Fathma.

—E che facciamo ora?

—Io vado dietro l'almea e tu ad Abd-el-Kerim; questo è quello che ci rimane a fare.

—Ma se Abd-el-Kerim è così fortemente innamorato di Fathma, alla prima occasione diserterà per raggiungerla.

—Ecco quello che tu dovrai impedire. Dhafar pascià ti darà man forte per trattenerlo al campo.

—Ho paura di non riuscire nel mio intento, Notis. Se ama tanto l'almea giammai acconsentirà a diventare mio fidanzato dopo quel che feci.

—Bah? fe' il greco, alzando le spalle. Il tempo cicatrizza le ferite e cicatrizzerà anche quella di Abd-el-Kerim. Seguilo, mostrati premurosa e sottomessa a lui, salvalo quando puoi salvarlo e affascinalo appena che lo potrai fare senza pericolo. Hai il tuo mahari, armi e argento, unisco a tutto ciò il mio schiavo Takir onde ti protegga: va con Dio!

—E tu!

—Io vado dietro a Fathma, la raggiungo, sbaraglio la sua scorta e me la porto a Quetêna oppure in qualche altra città, forse a Chartum.

—Sicchè forse non ci rivedremo più.

—Chi sa? Se Dio lo vuole! Del resto non c'è altra scappatoia: o andare o restare, che equivale a vincere o perdere. Scegli!

—Parto pel sud.

—Ed io parto pel nord.

Il greco prese Elenka per mano e scesero la collina seguiti dallo sceicco che non apriva bocca.

—Va, sorella, che il tempo stringe e sii forte e prudente, disse
Notis, quando giunsero al piano.

—È per me doloroso separarci per sempre, fratello.

—Dio lo vuole.

Elenka salì sul suo mahari, dopo aver abbracciato il fratello; gli strinse un'ultima volta la mano e partì rapidamente accompagnata dal nubiano. Tre volte volse la testa indietro salutando col fazzoletto…. poi sparve in mezzo ai campi di durah e alle foreste di tamarindi.

—Povera sorella, mormorò Notis sospirando. Ho il presentimento di non rivederla più mai!

Egli rimase lì colle braccia incrociate sul petto e lo sguardo fisso verso il luogo ove era scomparsa Elenka. Lo sceicco lo trasse da quei tetri pensieri battendogli sulle spalle.

—Non bisogna stare qui troppo, gli disse.

—Hai ragione, Fit Debbeud, rispose il greco.

—Che via prendiamo?

—Quella di Chartum. Prima che il sole tramonti bisogna che Fathma sia in mia mano.

—E colla scorta, come si farà?

—Adopereremo le nostre armi e li uccideremo dal primo all'ultimo.

—Quando è così, siamo tutti pronti. In sella compagni!

Il drappello si mise in marcia senza troppo affrettarsi, volendo raggiungere la scorta in sulla sera, nel momento che accampava, onde impedirle che potesse salvarsi colla fuga. Notis aveva sommo interesse che nessuno sopravvivesse, onde evitare che si recassero a Chartum a denunciarlo e quindi a perderlo.

Passato Hossanieh essi s'inoltrarono nelle vaste pianure del nord adorne di cespugli, di gruppi di palme e di grandi zone di papaveri alti più di un metro e carichi di capsule grosse come uova di gallina nel cui interno, non di rado, contengono più di trentaduemila semi, e abbelliti da grandi fiori bianchi, rossi, rosei, violetti e più spesso screziati.

Notis e lo sceicco si misero alla testa, ritti in sulla gobba degli animali onde abbracciare maggior orizzonte e gli altri si misero a loro dietro in lunga fila, colle lancie gettate a bandoliera e i moschettoni e gli jatagan in mano.

—Credi che abbiamo fatto molta strada? chiese Notis dopo qualche tempo.

—Dalle traccie lasciate sul suolo arguisco che i loro mahari andavano di corsa, rispose Fit Debbeud. Credo non ingannarmi se dico che siamo lontani da loro un cinque o sei miglia.

—Dove ti sembra che si dirigano queste traccie?

—Per ora si mantengono diritte ai monti Arab Mussa, ma sono sicuro che non tarderanno a piegare verso il Bahr-el-Abiad.

—Credi tu che si rechino a Chartum pel fiume?

—Sì, vi andranno pel fiume. Tu sai che vi sono delle bande d'insorti disperse per le Gemaije che vivono di saccheggio e che trafficano in carne umana. Gli Egiziani s'imbarcheranno, se non a Mahawir, almeno a Quetêna.

—Non bisogna lasciare loro il tempo di giungere al fiume, disse
Notis.

—Non avere paura, padrone; questa notte accamperemo nella pianura.

—Bisogna che noi li circondiamo per bene se vogliamo ammazzarli tutti quanti. Fathma cadrà in mia mano e allora sfido Allàh a portarmela via.

Non bestemmiare, disse lo sceicco sorridendo. E quando l'avrai, ritornerai tu a Chartum? Non mi pare che sia cosa prudente.

—A Chartum vi andrò quando Fathma avrà dimenticato Abd-el-Kerim e che mi amerà. Se ve la conducessi prima sarebbe capace di tradirmi.

—Uhm! sarà difficile estirpare dal suo cuore l'amore che aveva pel tuo rivale. Questo arabe, quando amano, rimangono fedeli fino all'ultimo respiro.

—Ti ricordi quello che ho detto poco fa a mia sorella?

—A proposito di che?

—Le dissi che il tempo cicatrizza le ferite e che cicatrizzerà anche quella di Abd-el-Kerim. Così il tempo guarirà quella di Fathma. Non ho fretta, sono paziente e aspetterò che nel cuore di quell'almea si apra un'altra breccia.

—E se non s'aprisse?

—L'aprirò colla forza rispose Notis risolutamente. Ogni resistenza sarà vana dinanzi al mio amore che ormai è diventato gigantesco, impossibile a domarsi e più impossibile ad estinguersi.

—Sta bene; e tua sorella Elenka riescirà ad affascinare quell'arabo dell'inferno?

Il greco sospirò più volte, crollando il capo, e sul suo volto passò un'ombra malinconica.

—Ho paura che mia sorella non ritorni mai più dal Sudan, mormorò egli. Ho un brutto presentimento radicato fortemente nel cuore. Povera Elenka! Povera mia sorella!

—Nessuno può vedere tua sorella senza fremere, senza sentirsi toccare il cuore, disse lo sceicco. Se Abd-al-Kerim non l'ha dimenticata del tutto, ho la certezza che tornerà ad amarla.

—E credi tu che per questo sia salva? Il Sudan è tutto insorto e non dò un tallero di tutti gli Egiziani che hanno i pascià Hicks e Aladin. Il Mahdi è troppo possente per venire schiacciato.

Tua sorella è forte, Notis, più forte di una delle nostre donne, anzi più forte di un beduino. Eppoi, non si uccide una donna bella come lo è lei. Sono sicuro che se i ribelli vincono gli Egiziani, la risparmieranno, forse per darla al Mahdi.

—Allora sarà perduta.

—Chi sa, potrebbe diventare una favorita e tu sai quanto sono possenti le favorite.

Notis curvò il capo sul petto e si immerse in dolorose meditazioni, dimenticando persino l'almea. Lo sceicco si spinse innanzi collo sguardo fisso ora all'orizzonte e ora a terra dove vedevansi le traccie fresche della scorta, mettendosi a recitare i versetti del Corano.

Tutto il giorno la piccola carovana camminò ora al passo e ora al trotto, sempre dietro alle traccie che mantenevano una linea rigorosamente dritta in direzione di Quetêna, villaggio situato sulla riva destra del Bahr-el-Abiad.

Era quasi sera, quando lo sceicco che si alzava di frequente sulla gobba del mahari, scorse in distanza un gruppo di cammelli montati da uomini armati. Riconobbe subito la scorta che conduceva Fathma.

—Alto là! diss'egli, alzando una mano verso i suoi uomini. Gli abbiamo raggiunti, Notis.

Il greco trasalì e si alzò in piedi sul collo del mahari. Egli potè distinguere i dieci egiziani e il loro caporale, che facevano corona a due cammelli portanti una specie di angareb sul quale scorgevasi qualche cosa di bianco che il venticello della sera alzava e abbassava a capriccio.

—La vedi l'almea gli chiese lo sceicco.

—Sì, rispose Notis che tremava per l'emozione. Essa è stesa su quell'angareb, forse malata.

—Probabilmente prostrata di forze, disse Fit Debbeud. Tanto meglio per noi; la faremo prigioniera senza che opponga resistenza.

—Dobbiamo seguirli o arrestarci qui?

—Se li seguiamo così possono scoprirci e allarmarsi: ci conviene lasciare qui i mahari e seguirli a piedi. Non faremo tanta strada, lo vedrai, poichè le tenebre stanno per calare e tu sai che di notte, ora che il Sudan è sollevato a rivolta, nessuno si arrischia a viaggiare. Guarda che essi si dirigono verso quelle colline, probabilmente per accampare là presso.

Ad un suo comando i beduini smontarono e i cammelli vennero radunati in cerchio e legati gli uni cogli altri. Un uomo fu lasciato a guardia di loro e gli altri si misero in cammino rassentando i gruppi di bauinie, ora raddoppiando il passo e ora rallentandolo e nascondendosi quando qualcuno della scorta volgeva il capo indietro.

Dopo un'ora gli egiziani fecero alto su di una piccola elevazione del terreno, nelle vicinanze di un fiumicello che scaricasi nel Bahr-el-Abiad poche miglia, sotto Quetêna.

Alzarono le tende, accesero i fuochi della notte per allontanare le zanzare e le bestie feroci, condussero i cammelli a dissetarsi, poi si sedettero all'aperto aspettando il pasto. I beduini si arrestarono sdraiandosi fra le erbe.

—Che nessuno si muova finchè non lo comando, disse Notis.

Egli, in compagnia dello sceicco, strisciò fino ad una collina isolata e guardò attentamente all'ingiro.

Il paese era deserto e il luogo era propizio per tentare l'assalto dell'accampamento egiziano. Non si vedevano che gruppi di alberi e cespugli folti; non un tugul che indicasse la presenza di qualche baggàra[1] o di qualche maazi[2]; nemmeno un zeribak nel cui interno potesse celarsi qualche essere umano. Erano proprio soli, senza testimoni di sorta.

[1] Mandriano. [2] Caprajo.

—Possiamo marciare innanzi, disse Notis. Il primo colpo di fucile è destinato a quella sentinella che veglia ai piedi del rialzo e il secondo al caporale. Ucciso il comandante, gli egiziani si lascieranno scannare come montoni.

—Lascia fare a me, disse lo sceicco. Abbiamo dei mahari e delle armi da guadagnare. Spicciamoci, padrone.

Scesero di corsa il pendìo, fecero levare i beduini e diedero il segnale di avanzare colla massima prudenza. Il loro progetto era di irrompere improvvisamente sull'accampamento, di circondare gli egiziani e di sgozzarli prima che potessero riaversi dalla sorpresa e dallo spavento.

I cinquecento passi che li separavano dall'accampamento li percorsero senza venire scoperti. Essi sostarono dietro ad una macchia colle armi in mano e gli occhi sanguinosamente fissi sui fuochi del campo.

—Dov'è Fathma? chiese lo sceicco con un filo di voce.

—Sotto quella tenda là, rispose Notis. Attenzione!

Alzò il remington e mirò la sentinella che fumava col scibouh appoggiata al tronco di un ambag. Una fragorosa detonazione ruppe il silenzio della notte accompagnata da un grido disperato.

Allàh-el-gader! (Dio possente!) esclamò la sentinella e cadde a terra con una palla in fronte.

—Avanti! tuonò lo sceicco coll'jatagan in mano.

I beduini si slanciarono innanzi come una banda di lupi affamati gettando urla selvagge e irruppero nell'accampamento colle lancie in resta.

Gli egiziani sorpresi dalla rapidità dell'assalto, non avevano avuto nemmeno il tempo di accorrere ai fucili legati in fascio. Sguainarono le daghe e cercarono di tener testa, ma sin dal primo urto quattro di essi caddero a terra passati da parte a parte.

Beduini ed egiziani si mescolarono azzuffandosi ferocemente, urlando ed urtandosi, menando disperatamente le mani, afferrandosi ed atterrandosi. Notis, incontratosi col caporale gli fece saltare le cervella, poi si gettò addosso alla tenda dove sapeva trovarsi Fathma. Proprio nell'istesso istante che vi giungeva vide dalla parte opposta uscire una bianca figura e fuggire a rompicollo giù per l'erta. La riconobbe subito.

—Aiuto! esclamò egli. Fathtma mi fugge!

Lo sceicco e sei o sette beduini accorsero a lui, mentre gli altri finivano a colpi di jatagan gli egiziani.

—Fermati, Fathma, intimò il greco rabbiosamente.

L'almea non volse nemmeno il capo indietro e raddoppiò la corsa andando or qua e or là come fosse smarrita o cieca. Il greco in pochi salti le fu vicino.

—Ira di Dio, fermati Fathma! rantolò egli.

L'almea si volse, fece un rapido movimento con una mano, traballò come percossa da una folgore, gettò uno straziante singulto e cadde di peso fra le erbe.

Il greco le si precipitò sopra, ma indietreggiò vivamente cogli occhi fuor dall'orbite, la faccia sconvolta, le mani nei capelli.

—Dio!… Dio!… urlò egli. È morta!…

L'almea s'era trafitta il cuore con un colpo di pugnale!

FINE DELLA PARTE PRIMA

PARTE SECONDA

L'Insurrezione del Sudan

CAPITOLO I.—Omar

La mattina del 2 Ottobre 1883, vale a dire venti giorni dopo gli avvenimenti precedentemente narrati, una darnas scendeva a vele spiegate la maestosa corrente del Bahr-el-Abiad in quel tratto che è compreso fra Mahawir al sud e Quetêna al nord.

Questa darnas era una delle più grandi e delle più magnifiche barche che solcassero il Nilo, lungo oltre venti metri e larga otto, piatta, con due alberi, l'uno a prua e l'altro al centro, fatti di più pezzi e riuniti con rilegature di pelle di bue cucita fresca, sostenenti due vele latine altissime che si manovravano con un congegno primitivo di corde. Costrutta tutta in durissimo sund dell'alto Nilo, tagliato in grossissime tavole, ricongiunte, anziché come tutte le barche in linea perpendicolare, in linea orizzontale, aveva la prua scolpita rozzamente a guisa di coccodrillo, un timone di dimensioni veramente gigantesche colla ribolla pure foggiata a coccodrillo e a poppa una grande e solida tettoia, una specie di rekuba, sulla quale salivasi con scale laterali.

Sul ponte gironzava una quindicina di barcaiuoli sennaresi, unti di fresco con burro o con grasso, quasi interamente nudi, alcuni affaccendati a tirar le corde, altri a far bollire il caffè sul cassone di legno che serve di fornello e altri ancora a disporre in buon ordine gli attrezzi di bordo.

A prua, seduti sulle murate, colle gambe penzolanti lungo il bordo, fumavano due uomini accuratamente ammantellati in candidi taub infioccati.

Il primo di essi era un bel negro di mezzana statura, con muscoli sviluppatissimi che indicavano in lui una forza non comune, e una faccia maschia energica, con fronte alta, occhi nerissimi e grandi, naso dritto e profilato come i nubiani, una capigliatura nera e ondata anzichè crespa e la tinta della pelle cupa ma con riflessi rossigni.

Il secondo invece era alto, scarno, di colorito bruno occhi grandi ma stupidi, lineamenti insignificanti colle labbra, le palpebre e le sopracciglie tinte d'azzurro, le unghie delle mani tinte di zafferano e la pelle unta di grasso di cammello mescolato a zibetto che tramandava un profumo fortissimo.

Fumavano da un bel pezzo in silenzio, cogli occhi fissi sulle acque in mezzo alle quali nuotavano furiosamente enormi coccodrilli sollevando colle possenti loro code delle vere ondate, quando il bel negro chiese al compagno:

—Quanto ci manca ad arrivare a Quetèna?

—Una dozzina di miglia, Omar, rispose l'interrogato, nella cui pronuncia si capiva il sennarese. Ci arresteremo in quella cittadella?

—Puoi immaginartelo, Dàud. Visiteremo tutti i villaggi delle rive del
Bahr-el-Abiad fino a Chartum.

—Speri di trovarla?

—Sempre, anzi più oggi che ieri. L'una e l'altro, te lo giuro, li scoprirò.

—È adunque molto bella questa donna che ha tanti amanti?

—Tanto bella da mettere il fuoco nelle vene del Profeta se potesse vederla per cinque soli minuti.

—E si chiama?

—Fathma.

—Bel nome! esclamò Dàud, E chi fu a portarla via?

—Dhafar pascià l'aveva fatta arrestare malgrado le proteste del mio padrone Abd-el-Kerim e del capitano Hassarn, ordinando che fosse condotta a Chartum sotto buona scorta, ma io dubito che vi sia giunta. Temo che Notis siasi slanciato sulle sue traccie e che l'abbia presa dopo di aver macellato gli egiziani che l'accompagnavano.

—Chi è questo Notis?

—Un greco che amava alla follìa Fathma e la sorella che amava invece alla follìa il mio padrone.

—Sicchè questo Notis e il tuo padrone erano rivali.

—Sicuro, e rivali accaniti.

—E la sorella del greco dove trovasi?

—Segue l'armata di Dhafar pascià, rispose Omar colla speranza che
Abd-el-Kerim dimentichi Fathma e finisca coll'amare lei.

—E il tuo padrone invece?…

—La esecra, la odia, la disprezza. Non respira che per la sua Fathma.

—E tu adunque, Omar, vuoi trovare questa donna?

—Sì, bisogna che la trovi. Quando disertai giurai ad Abd-el-Kerim di ricondurla a Chartum sana e salva, corrompendo la scorta.

—Io sono sorpreso come non abbia disertato anche il tuo padrone.

—È custodito più rigorosamente di un prigioniero di guerra. Sei volte cercò di darsi alla fuga non fosse altro per non vedersi più innanzi la sorella del greco, ma fu sempre ripreso. La maledetta donna veglia dì e notte attentamente.

—Se questa donna è così terribile doveva torcerle il collo.

—Se fosse stato libero forse l'avrebbe uccisa, tanto egli la odia.

Omar si tacque e si mise a guardare le ubertose rive del Bahr-el-Abiad coperte di magnifiche camerope a ventaglio (camerope umilis) coronate alla sommità da magnifici ciuffi di trenta o quaranta foglie nel mezzo delle quali apparivano bellissimi fiori disposti a pennacchio e da foreste di sannut e di bauinie, popolate da moltitudini di scimmie-leoni e di scimmie rubra che facevano un baccano del diavolo.

Dàud stette alcuni minuti al suo fianco, guardando invece i banchi di sabbia sui quali sonnecchiavano bande di mostruosi coccodrilli, finì di fumare il suo scibouk e poi si diresse a poppa, prendendo la ribolla del timone.

Era già un'ora che la gran barca navigava lentamente, quando apparvero a un miglio di distanza sulla riva destra, un gruppo di tugul e di casuccie di mattoni cotti al sole, dominato da un minareto che slanciavasi sottile e ardito verso il cielo.

—Ecco Quetêna, disse Dàud avvicinandosi a Omar.

—Governa dritto a quel piccolo seno che vedi laggiù, rispose il negro.

—E perchè non approdiamo dinanzi al villaggio?

—Non voglio che mi vedano sbarcare. Se il greco si trova a Quetêna potrebbe venire informato del mio arrivo e prendere il largo.

—Hai ragione, Omar, Olà! drizzate la prua a quel seno, gridò Dàud.

La barca s'accostò alla riva destra passando fra numerosi bassifondi semi nascosti da piante di loto galleggianti, e andò a gettar l'ancora nel luogo designato, in una insenatura contornata da grandi tamarindi che si curvavano graziosamente sulle acque.

—Odimi bene, Dàud, disse Omar, passandosi fra le pieghe della fascia un paio di pistole e un jatagan. Tu rimarrai qui colla tua barca, nè ti muoverai senza mio ordine. Passeranno due, tre, quattro o forse più giorni senza che io mi faccia vedere, ma non dartene pensiero, Servimi bene e io pagherò da principe te e i tuoi battellieri.

—Sono due anni che noi ci conosciamo e ciò basta. Mi offrissero mille talleri per noleggiare il mio naviglio, rifiuterò sempre. Se tu, poi avrai bisogno d'aiuti, vieni da me e metterò a tua disposizione i miei uomini e la mia scimitarra.

—Grazie, Dàud, disse il negro, commosso. Abd-el-Kerim ti sarà riconoscente.

Fece gettare una tavola fra la barca e la riva e discese a terra, tirandosi sugli occhi il cappuccio Dato uno sguardo al paese circostante che appariva deserto prese un sentiero che costeggiava il fiume, ombreggiato da una parte d'alti alberi e dall'altra d'alte canne e si diresse a rapidi passi verso Quetêna.

Man mano che si avanzava, il paese cangiava aspetto e si popolava come per incanto. Alle foreste si succedevano rigogliosi campi di durah, d'orzo e di miglio, in mezzo ai quali andavano e venivano bande di schiavi occupati alla raccolta o alla mietitura e che rompevano il silenzio con bizzarre e selvagge canzoni che si ripercuotevano sulle rive opposte del fiume, sempre coperte da boscaglie. Qua e là apparivano dei tugul di paglia dalla cui sommità o dai fori laterali sfuggivano getti di fumo, e più lontano delle zeribak occupate da mandrie di vacche. Di tratto in tratto piccole carovane si mostravano fra le piantagioni, alcune in riposo coi cammelli inginocchiati che sbadigliavan sotto i torbidi raggi solari e altre in movimento, accompagnate dal dolce tintinnìo dei campanelli appesi al collo o alla fronte degli animali.

Omar si diresse verso un tugul sotto la cui rekùba (tettoia) stava indolentemente sdraiato su di un angareb un giovane sennarese che dall'aspetto pareva un barcaiuolo. Egli si sedette vicino a lui e dopo di avergli inviato, come è l'abitudine, il saluto, gli chiese:

—Sei di Quetêna?

—Sì, rispose il sennarese, senza muoversi. Omar estrasse un pugno di parà e glieli gettò nella farda. Il sennarese lo guardò sorpreso, ma senza aprir bocca e li raccolse meccanicamente.

—Parla, disse semplicemente Omar. Hai veduto arrivare in Quetêna dei soldati egiziani, che conducevano una bella donna?

—No.

—Nemmeno dei beduini guidati da un greco?

—Dei beduini sì, portavano una donna che dalle vesti mi parve un'almea.

Omar fece un soprassalto sull'angareb, sbarrando tanto d'occhi.

—Non m'inganni tu? chiese egli con veemenza.

—A che pro? rispose il sennarese alzando le spalle.

—L'hai veduta coi tuoi occhi quest'almea?

—Sì, e mi parve assai bella, una specie d'urì del paradiso del
Profeta.

—E tu dici che la portavano?

—Sì, la portavano su di un angareb sostenuto da due mahari.

—Era ammalata forse? chiese Omar, che si sentì un brivido correre per le ossa.

—Mi si disse che era pericolosamente ferita.

—Come?…. Ferita mortalmente?…. Da chi?…. Quando?….

—Che ne so io! Non conosco gli uomini che la conducevano, nè so da dove venissero.

—I beduini erano guidati da un greco d'alta statura con barba nera e ispida?

—Sì, il greco era alto e barbuto, anzi lo scorsi mezz'ora fa seduto sulla riva del Bahr-el-Abiad a quattrocento passi da qui.

Omar saltò in piedi colla dritta sull'impugnatura dell'jatagan. Sul suo nero volto brillava una gioia selvaggia, feroce.

—Egli è a quattrocento passi di qui! esclamò egli afferrando per le spalle il sennarese e ficcando i suoi occhi in quelli di lui.

—Ti assicuro che lo vidi e scommetterei che vi è ancora.

—E l'almea dove fu alloggiata?

—In una palazzina della riva sinistra ed è circondata da un palmeto.

—Grazie, giovanotto, grazie, ripetè Omar, gettandogli nella farda un nuovo pugno di para.

Uscì dalla rekùba come un lampo, si calò il cappuccio fino al mento, e si slanciò sul sentiero avanzandosi a rapidi passi.

—Il greco è un uomo morto, mormorò egli. Lo getto nel Nilo a pasto dei coccodrilli e poi salvo Fathma. Non temere mio povero padrone, che Omar ritornerà a farti felice. Era da prevedersi che avrebbero assalita e distrutta la scorta per avere in loro mani l'almea, ma Omar vi punirà tutti, tutti!

Si gettò in mezzo ai canneti, procedendo a salti, sollevando bande di pernici, di pavoncelle, di cornacchie e di superbi fenicotteri che fuggivano gridando maledettamente, e giunse a trecento passi dai primi tugul di Quetêna. Qui si arrestò di botto come fosse stato d'un colpo pietrificato.

A dieci metri di distanza, seduto su di una piccola rupe tagliata a picco sul Bahr-el-Abiad, aveva scorto un uomo avvolto in una ricca farda, colla faccia semi-coperta da una barba nera e ispida. Lo riconobbe subito; un tremito di collera agitò le sue membra e i suoi lineamenti.

—Notis! esclamò.

Lo fissò attentamente, trucemente, rattenendo il respiro. Il greco aveva gli occhi rivolti su di una bella abitazione, piantata sulla riva opposta del fiume e che specchiavasi nelle tranquille acque. Sulla cima di quella villetta ondeggiava la bandiera greca, e tutto all'intorno crescevano superbe palme e grandissimi tamarindi che deliziosamente ombreggiavano. Omar sussultò e spinse i suoi occhi verso le finestre riparate da leggiere persiane.

—Fathma è là! mormorò egli. Il cuore me lo dice e lo sguardo del greco fisso su quelle finestre mi assicura che il cuore non si inganna. Sta bene: ora a noi due, Notis.

Levò dalla cintura una pistola, l'armò silenziosamente, versò alcuni grani di polvere nello scodellino per essere più sicuro del colpo e l'alzò, mirando la testa del greco.

Gli faccio scoppiar il cranio, pensò il negro. Capitombolerà nel Nilo e i coccodrilli s'incaricheranno di far sparire il cadavere.

La canna dell'arma si era arrestata all'altezza della fronte di Notis; già stava per far partire la carica, quando udì sulla riva opposta un:

—Olà!

Abbassò la pistola, nel mentre che il greco saltava in piedi. Guardò e vide staccarsi dalla villetta una piccola barca montata da un beduino, il quale arrancando vigorosamente, fendè la corrente del Bahr-el-Abiad.

—Sei tu, Fit Debbeud? chiese Notis.

—E chi vuoi che sia? rispose lo sceicco.

—Fit Debbeud! mormorò Omar, Questo è il nome dei sceicco che rapì il mio padrone e che lo chiuse nei sotterranei di El-Gark. Che succede mai?

Si nascose meglio che potè fra le canne colla pistola sempre impugnata. Il beduino toccò la riva, si arrampicò sulla piccola rupe e baciò la mano che il greco gli porgeva.

—Finalmente! esclamò Notis, mandando un sospirone. Come vanno adunque le cose laggiù? Posso o non posso vederla e parlarle senza pericolo?

—Fathma è in piedi ed è completamente ristabilita, rispose lo sceicco sorridendo. La ferita si è cicatrizzata mercè le mie erbe miracolose e tu puoi parlarle d'amore senza che abbiamo a temere una ricaduta. Quella donna bisogna che sia di ferro per guarire da un colpo di pugnale così terribile.

Omar sentì le carni raggrinzarsi e sul volto correre grosse gocce di sudore. Guardò lo sceicco e il greco stupefatto.

—Guarita!… un colpo di pugnale!… balbettò egli. Cosa è successo mai? Che l'abbiano pugnalata per impadronirsi di lei? Ah! miserabili!…

—Sa che io sono qui? chiese Notis dopo qualche istante di silenzio.

—Non ti ha mai nominato ma deve saperlo. Non ha parlato altro che di
Abd-el-Kerim.

Il greco fece un gesto d'impazienza e digrignò i denti come una jena.

Sempre quell'uomo esclamò con rabbia. Che non l'abbia a dimenticare mai adunque?

—Chissà, forse col tempo la ferita si rimarginerà.

—Non col tempo, io ho fretta di farla mia, capisci, Fit Debbeud.
L'amo e sempre più furiosamente e voglio che lei mi ami.

—Tenta, forse vi riuscirai. E di Elenka sai nulla?

—Assolutamente nulla, Eppoi, in quale modo? Ho paura di non udir parlare più mai di lei, ora che trovasi giù nel Kordofan.

—E nemmeno del tuo rivale?

—Nemmeno.

—Vuoi recarti dall'almea?

—Sì, ma come mi accoglierà? chiese Notis incrociando le braccia.

—Probabilmente assai male, ma dinanzi alle minaccie cederà, rispose lo sceicco. Le dirai, per ispaventarla, che gl'insorti hanno ucciso Dhafar pascià e tutti gli uomini che lo seguivano.

—Ma non vorrà credermi.

—Oggi, ma domani o posdomani ti crederà, ne ho la certezza.

Il greco fissò i suoi occhi sull'abitazione, esaminando le finestre e sorrise con compiacenza.

—Vieni Fit Debbeud, disse.

Tutti e due scesero dalla rupe e guadagnarono la barca arenata fra i canneti. Omar saltò fuori e li vide prendere i remi, attraversare il fiume e sbarcare dinanzi all'abitazione. Una bestemmia gli uscì dalle labbra; le sue mani tormentarono il grilletto delle pistole.

—Che accadrà mai? si chiese egli coi denti stretti. Ho una smania furiosa di sparare loro addosso, ma quand'anche gli uccidessi poco guadagnerei. Orsù, siamo pazienti.

Guardò attentamente la riva opposta e gli alberi che circondavano l'abitazione. Un'improvvisa idea gli balenò in mente.

—La riva è deserta, mormorò egli, e nessuna barca solca il fiume. Io vado là, salgo su quel tamarindo che allunga i suoi rami fino alle finestre e udrò tutto e vedrò tutto. Se il greco alza un dito verso Fathma, accada qualunque cosa io lo ammazzo.

In un batter d'occhio si spogliò, nascose le vesti in una fitta macchia di bauinie, si legò sul capo l'jatagan e le pistole e raggiunta la riva scese risolutamente nell'acqua, nuotando vigorosamente.

CAPITOLO II.—Fathma.

Nel momento che lo schiavo di Abd-el-Kerim affrontava arditamente la corrente senza darsi pensiero alcuno dei coccodrilli, che forse erano lì vicini, Notis entrava nell'abitazione. Egli si arrestò alla vista di un vecchio reis che imbacuccato in una stracciata farda stava appoggiato al muro fumando in un orribile scibouk annerito.

—Allàh sia benedetto? esclamò il capo battelliere, movendogli incontro. Cominciava a perdere la pazienza.

—Sei tu, mio vecchio Ibrahim, disse Notis non dissimulando la sua sorpresa, Qual vento ti ha portato qui?

—Mi credevate ancora alle bocche del Bahr-el-Abiad? Gli affari sono scarsi colla insurrezione e bisogna navigare dappertutto. Dove mai siete stato che son quasi due mesi, vale a dire dal giorno che vi trasportai da Chartum a Machmudiech, che non vi ho più visto?

—In questi tempi non è facile incontrarsi. Che nuove mi porti adunque e come mai ti trovi qui?

—Sono due giorni che vi cerco in Quetêna e più di quindici che domando di voi in tutti i villaggi che tocco.

—Quindici giorni che mi cerchi! esclamò Notis. Perchè.

—Vi reco notizie di vostra sorella Elenka.

—Di Elenka! Parla, narra, di' su qualche cosa che io abbrucio dall'impazienza. Dove trovasi ella? Come l'hai trovata? Come sta?

—Sedici giorni or sono, sul far della sera, approdai al villaggio di Gez-Hagiba. Saputo che sulla riva opposta, al di là dell'isola, si trovasse accampato Dhafar pascià, mi si recai sperando di trovar voi e vostro cognato Abd el-Kerim. Seppi che si trovano al campo vostra sorella ed il suo fidanzato.

—Ah! fe' Notis ironicamente.

—Mi recai alla tenda di Elenka e la trovai. Ella mi raccontò come fra lei ed Abd-el-Kerim tutto fosse stato spezzato.

—Lascia questo e dimmi a quale punto si trovava coll'arabo.

—Mi disse che fra loro ferveva una tremenda guerra e che disperava ormai di farsi riamare.

—Ira di Dio! Tira innanzi, Ibrahim.

—Parecchie volte Abd-el-Kerim tentò di fuggire dal campo ma ella lo fece riprendere e Dhafar pascià lo fece legare, minacciandolo di farlo passare per le armi se avesse ritentata la fuga.

—Ed Abd-el-Kerim lo sa che fu mia sorella a impedirgli di fuggire.

—Sì, ed è appunto per questo che l'arabo la esecra.

—Ogni speranza adunque è perduta?

—Perduta, ella mi disse.

—E che fa ora?

—Continua a seguirlo e a sorvegliarlo. Andasse anche il capo al mondo, Elenka mi ha giurato che lo accompagnerà.

—L'ama sempre la disgraziata?

—Forse l'odia e arde dal desiderio di vendicarsi del traditore.

Il greco si prese la testa fra le mani e sospirò.

—Povera Elenka, mormorò a più riprese. Ah! Fathma! Fathma! sei stata la causa di tanti mali.

Se non ti amassi sempre alla follìa, vorrei farti soffrire indicibili torture. Dimmi Ibrahim, gli egiziani ebbero scontri con le orde dal Mahdi?

—Perdettero un terzo dei loro compagni in tre o quattro combattimenti.

—E sanno almeno dove trovasi l'armata di Hicks pascià?

—L'ignoro.

—Tutto cammina di male in peggio, adunque? Orsù, che ti disse ancora?

—Mi disse di avvisarvi che lo schiavo di Abd-el-Kerim era fuggito dal campo, forse diretto per Chartum.

—Chi!… Il negro Omar?

—Sì, Omar fuggì durante una notte oscura, nè più ricomparve al campo.

Notis rabbrividì, ma poi si mise a sorridere.

—Quel negro mi fa paura, disse. Ad ogni modo terrò gli occhi aperti onde non possa farmi qualche brutto giuoco. Olà, date da bere un vaso di birra a questo uomo, aggiunse di poi, alzando la voce.

—Un beduino armato sino ai denti e che vegliava appiè della scala accorse.

—Rimani qui, Ibrahim, e mi aspetterai disse Notis. È probabile che abbia bisogno della tua barca per trasportarmi a Chartum. Accomodati laggiù in quella stanza e bevi quanto merissak può contenere il tuo stomaco.

Fe' un legger saluto accompagnato da una strizzatina di occhi come per raccomandargli silenzio e salì a quattro a quattro i gradini d'una tortuosa scala. Sostò dinanzi a una porta coperta da un fitto tappeto e tese l'orecchio.

—Non si ode nulla, disse con voce visibilmente alterata. Forse dormirà.

Aprì pian piano la porta ed entrò in una vasta stanza, coperta da morbidi tappeti tinti a smaglianti colori, e arredata con divani alla turca e con grandi vasi di fiori ingiorò che spandevano all'intorno un olezzo delicato che aveva del gelsomino e della rosa. Là, proprio in mezzo se ne stava l'almea Fathma, avvolta in un grande feredgè di seta bianca, la faccia cupa, e i lunghi capelli, neri come l'ebano, sciolti in pittoresco disordine sulle semi-nude spalle. Aveva le braccia incrociate sul seno che sollevavasi sotto i frequenti sospiri e teneva lo sguardo malinconicamente fisso sulle ridenti sponde del Bahr-el-Abiad che disegnavansi dinanzi alle persiane delle finestre.

Il greco s'arrestò sul limitare della porta come trasognato, come rapito in estasi, cogli occhi fissi fissi su quella seducente donna che egli amava alla follia. Il suo volto era alterato, irrigato da goccioloni di sudore, e sentiva il cuore saltellare nel petto e il sangue accendersi d'ardenti brame.

La contemplò così per un minuto, due, tre, rattenendo persino il respiro, poi fece silenziosamente alcuni passi innanzi colle braccia tese e le mani aperte come volesse afferrarla, e le labbra sporgenti come cercasse un bacio su quelle palpitanti carni.

—Fathma, mormorò con un fil di voce e con un tono commosso, supplichevole.

L'almea a quella voce trasalì. Si volse lentamente verso di lui, lo mirò con sorpresa, poi con ispavento e indietreggiò vivamente con un gesto di orrore, come avesse visto una schifosa bestia.

—Oh! Fathma! esclamò lo sciagurato con una voce rotta. Non trattarmi così!

L'almea per tutta risposta girò su sé stessa e gli volse le spalle. Il greco traballò come avesse ricevuto una palla nel cuore e la vista gli si intorbidì. Qualche cosa rumoreggiò nel fondo del suo petto, come un ruggito strozzato, furioso, e le sue mani si strinsero così fortemente che le unghie gli penetrarono nelle carni.

—Non disprezzarmi!… non deridermi Fathma… non respingermi! urlò.

Si precipitò innanzi e le si gettò alle ginocchia afferrandola per le mani. L'almea con una brusca mossa si liberò da quella stretta.

—Vattene!—diss'ella con veemenza, tornando a indietreggiare. Vattene mostro, che tu mi fai paura, che mi fai ribrezzo!

Il greco la guardò con occhio truce; nondimeno qualche cosa di umido gli brillò sotto le ciglia e la sua faccia si coprì di un pallore cadaverico per l'ira. Si raddrizzò con violenza, colle braccia alzate, le mani aperte e le si avvicinò vacillando, cogli occhi stravolti, iniettati di sangue.

—Ma io ti amo, Fathma! esclamò quasi delirante, io ti amo, ti adoro e tanto che per te mi ucciderei.

—Ucciditi allora, disse l'almea con fredda ironia

—Che mi uccida!…

S'arrestò guardandosi attorno con smarrimento.

—Ah! mormorò egli coi denti convulsivamente stretti.

Parve ancora esitare, poi si scagliò come un forsennato sull'almea afferrandola così strettamente per le braccia da strapparle un grido di dolore. Egli la scosse con furore.

—Odimi. Fathma, disse con voce rauca. Che ti feci io? Quali azioni ti usai? Perchè tu provi per me una ripugnanza così insuperabile? Perchè mi disprezzi, mi deridi, mi respingi?… Dimmelo, Fathma, perchè?… perchè?…

L'almea non rispose; ella cercò di sciogliersi da quella stretta, ma senza riuscirvi. Impallidì orribilmente.

—Tu non sai adunque fino a qual punto io ti ami? ripigliò il greco con passione furiosa. Tu non sai adunque quanto io soffersi per te, da quel giorno che tu mi apparisti a Machmudiech? Quel giorno tu mi affascinasti, quel giorno tu avvelenasti il mio sangue, mi straziasti il cuore. Ho provato torture indicibili, gelosie tremende, a segno che io mi domando come possa ancora amarti invece di esecrarti. Mi sembra di essere pazzo, ma un pazzo furioso che vive solamente per te!… Mi hai udito, o Fathma?

—Ti ho udito, rispose l'almea cupamente.

—E dunque?…

—Ti disprezzo, e più oggi che quindici giorni fa!

Il greco emise un urlo di furore e la scagliò addosso a un divano.

—Sciagurata, tu mi schianti il cuore! esclamò con straziante accento.

Si mise a girare per la stanza col volto nascosto fra le mani e i capelli irti, poi ritornò verso Fathma che si era raccolta su sè stessa come una tigre, risoluta a difendersi contro gli attacchi di quel miserabile.

—È tutto finito adunque fra noi? le chiese con voce cavernosa.

—Lasciami sola, che la tua presenza mi fa male, disse Fathma. È impossibile che io ti ami, perchè sento per te un odio così profondo che non si estinguerà che colla mia morte. Comprendi, Notis?

—Ma dimmi che ti feci io, terribile donna, dimmelo?…

—Chi fu a infrangere la mia felicità? Chi fu a condurmi qui a morire lentamente, fra mille angoscie? Chi mi spinse a pugnalarmi? Chi fu quel vigliacco che mi denunciò a Dhafar pascià per una spia del Mahdi? Come posso io dimenticare tante cose!

—Si, fui io, ma ti amava e fu solo l'amore che fece di me una spia.

—Hai scavato un abisso, questo abisso è insuperabile. Vattene adunque e ridonami la libertà, lascia che io ritorni nel Sudan. Solo a questo patto potrei dimenticare quelle azioni codarde che mi usasti e forse col tempo a provare per te, se non dell'amore, almeno della compassione.

—Ridonarti la libertà?… Lasciarti ritornare nel Sudan?… E perchè?

—Per raggiungere colui che io amo sopra tutti, disse l'almea con slancio appassionato.

—Ira di Dio! esclamò il greco. Tu pensi ancora a quell'arabo adunque? Il tuo cuore batte ancora per Abd-el-Kerim? Ma io non lo permetterò mai, capisci Fathma, mai, mai, mai!…

—Sarai tu che impedirai al mio cuore di palpitare per Abd-el-Kerim?

—Si, io, perchè te lo schianterò di nuovo quel cuore. Voglio strapparti quella passione che ti uccide e insediarvi la mia!… Sei in mia mano, Fathma, proseguì Notis con accento pieno di fiele e di minaccia.

L'almea fe' un gesto come avesse intenzione di gettarsi fuori dalla stanza, ma s'avvide che la porta era chiusa e s'arrestò fremendo.

—Non sperare nella fuga, disse Notis che s'era accorto della mossa. Quand'anche tu riuscissi a oltrepassare quella soglia, ti troveresti di fronte ai beduini dello sceicco Debbeud.

—Vuoi adunque ridurmi una seconda volta alla disperata risoluzione di uccidermi? Sta in guardia, vigliacco, perchè sarei capace di ritentare la prova.

Ma oggi i pugnali sono spuntati.

—Vi sono delle pareti per spezzarsi la testa.

—Fathma! esclamò Notis. Se tu ti uccidi, uccidi nel medesimo tempo…

—Chi?… chi?…

—L'arabo Abd-el-Kerim.

—Abd-el-Kerim! esclamò l'almea portandosi le mani al seno che tumultuava angosciosamente. Allàh!… Allàh!…

Girò su sè stessa chiudendo gli occhi e piombò sul divano; due lagrime le irrigavano le abbronzate guancie.

Il greco spaventato accorse a lei, ma non giunse nemmeno a toccarla.

—Indietro! gridò ella risollevandosi. Non toccarmi.

—Fathma, disse Notis furente, non disprezzarmi oltre, o che io…

S'era gettato innanzi per afferrarla, ma si era subito arrestato, sorpreso e quasi spaventato. Il ramo gigantesco che ombreggiava le finestre aveva mandato un legger crepitìo e s'era udita una sorda bestemmia.

—Chi è là? chiese egli sguainando la scimitarra.

Nessuno rispose. S'avvicinò ad una delle finestre, ma non vide o almeno credette di non vedere alcuno.

—Chi può essere stato? si chiese egli.

Guardò Fathma che si teneva ancora ritta presso il divano in atteggiamento fiero e sprezzante.

—Fathma, disse, fa quello che tu vuoi, ma fra tre giorni tornerò a vederti. Se non avrai cangiato parere, se ricuserai di diventare mia, guai a te. Ti farò versare fiumi di lagrime e ti strazierò il cuore come giammai un carnefice fu capace di straziarlo!

L'almea non rispose. Notis la guardò trucemente, poi le volse le spalle sbarrando dietro di sè la porta.

La sventurata Fathma, rimase ritta per qualche istante poi ripiombò sul divano piegandosi su sè stessa.

—Dio!…. Dio!…. ripetè ella. Tutto è perduto, tutto è finito! Potessi almeno veder un'ultima volta colui che tanto amo, e poi morire.

Ella si nascose la faccia fra le mani e il suo volto si inondò di lagrime. Il fragore di un vaso di fiori che si infrangeva la fece saltar in piedi.

Si guardò attorno e scorse a terra un grosso ciottolo appeso al quale eravi qualche cosa di bianco. Lo prese, continuando a guardarsi attorno per la tema di venire scoperta, e s'accorse che quel bianco era un pezzetto di carta scritta. Lo spiegò e lesse in arabo:

«Ho visto e udito tutto. Ho disertato per ordine di Abd-el-Kerim e non ho altra missione che quella di salvarti. Non temere nulla: prima dei tre giorni sarai libera.

«Omar».

L'almea rattenne a malapena un grido di gioia che stava per sfuggirle e corse alla finestra. Ella vi giunse nel momento che un negro semi-nudo, uscito dalle acque del Nilo, saliva la sponda opposta.

—È lui! Omar: esclamò con voce tremante. Allàh, fa che egli mi salvi!

CAPITOLO III.—Il reis Ibrahim

Il vecchio reis Ibrahim, lasciato che fu da Notis, non aveva perduto il tempo. Sedutosi per terra, s'era fatto portare due grandi vasi di merissak e si era messo a bere sbocconcellando un enorme pezzo di ebrèk, sorta di pane fatto con maiz agro, e che mangiasi usualmente bagnato con brodo o con latte zuccherato. Lo sceicco Fit Debbeud, entrando allora allora, si era bravamente seduto di fronte a lui e lo aiutava efficacemente a vuotare i vasi di birra, intavolando una viva conversazione.

—Dunque, tu narravi al padrone, diceva lo sceicco, che hai veduta
Elenka a Gez Hagida.

—Sicuro, rispondeva il reis, vuotando l'una dietro l'altra parecchie tazze. L'ho veduta e le ho parlato più di una volta.

—E ti raccontò tutta la faccenda?

—Già, mi narrò gli amori di Abd-el-Kerim con un'almea, che, se non erro, chiamasi Fathma e tutto quello che ne seguì.

—E ti avvisò che lo schiavo dell'arabo aveva disertato?

Il reis fece col capo un cenno affermativo, tracannando la dodicesima tazza di birra.

—L'hai incontrato tu, questo schiavo?

—No, rispose Ibrahim. Eppure domandai di lui in tutti i villaggi che toccai.

—Lo conosci forse?

—Niente affatto. Quando conobbi l'arabo Abd-el-Kerim, questo schiavo non era con lui.

—Credi tu che noi dobbiam preoccuparci di questo negro?

—Se è solo non è da temerlo molto. Eppoi si fa presto a spedirlo nell'altro mondo. Una pistolettata o quattro dita di jatagan e tutto è finito.

—Parli bene come l'Alcorano, disse lo sceicco, sorridendo. D'altronde staremo in guardia e se dormiremo procureremo di chiudere un solo occhio.

La conversazione fu tagliata dalla comparsa di Notis, che scendeva dalla stanza di Fathma. Era cupo e si vedeva nei suoi occhi la tremenda ira che ardevagli in petto.

—Abbiamo perduto? chiese Debbeud, alzandosi.

—Sì, rispose il greco. Quella donna è una fortezza inespugnabile.

—Per mille saette! esclamò il beduino. Non siete stato capace di piegare quella femminuccia! Ma come è possibile?

—È una leonessa, non una femminuccia. Ella mi derise e rispose alle mie proteste d'amore coi più sanguinosi disprezzi.

—Quando una donna è così irremovibile la si tortura colla fame e col bastone.

—No, disse Notis con stizza. Quell'almea io l'amo e non mi sento l'animo di farla soffrire.

—E allora?

—Aspetterò ancora tre giorni

—E dopo?

—La farò cedere colla forza.

—Questo chiamasi un bel parlare. Comincieremo col farle assaggiare un po' di ferro rovente o le straccieremo le carni a colpi di frusta.

Il greco alzò le spalle e volgendosi al vecchio Ibrahim.

—Dove hai la tua barca? gli chiese.

—A Quetêna, proprio all'estremità settentrionale del porto.

—Consegnerai i tuoi uomini a bordo e ti terrai pronto a prendere il largo. In questo frattempo ti informerai se è giunto lo schiavo di Abd-el-Kerim a verrai a riferirmi ogni cosa. Puoi andartene ora.

Gli gettò alcune piastre e risalì la scala colle mani sui calci delle pistole.

Ibrahim vuotò l'ultima tazza di merissak, empì di tabacco il suo scibouk, l'accese e salutato lo sceicco uscì, facendo saltare le piastre nel cavo della mano.

Arenato fra i canneti aveva il suo canotto. Vi entrò, prese i remi e s'allargò, mettendo la prua a Quetêna che era lontana appena quattrocento passi. Si trovava già in mezzo al fiume quando udì chiamare,

—Olà, barcaiuolo, vieni ad approdare che ho bisogno di te.

Si volse e sulla riva destra vide un negro con un taub gettato su di un braccio. Si diresse subitamente a quella volta.

—Vuoi condurmi un miglio più in sù, nella piccola rada? chiese il negro. Ti darò cinque talleri.

—Sei pieno di danaro che paghi come un pascià? chiese Ibrahim ridendo.

—Può darsi: approda.

Il negro saltò nel canotto e si sedette a prua; il barcaiuolo si sedette nel mezzo, volgendogli le spalle e arrangando con gran vigorìa.

—Hai qualcuno che ti aspetta alla piccola rada? chiese il reis.

—Ho una carovana di cammelli carichi d'avorio, rispose il negro Omar.

—Sei del paese?

—No, sono Nubiano.

—Giunto da poco.

—Ciò non ti riguarda. Allunga la battuta che ho molta fretta.

Il canotto raddoppiò la velocità, salendo la corrente. Quindici minuti dopo giungevano in vista della darnas di Daùd.

—Sai a chi appartiene quel bel legno? chiese il reis.

Omar non rispose. Egli si era levato in piedi e gli si era avvicinato.

—Il reis stava per ripetere la domanda quando si sentì prendere per le spalle e rovesciare violentemente nel fondo del canotto. Contemporaneamente vide sopra di sè Omar che gli puntava una pistola sulla fronte.

—Se tu ti muovi, gli disse il negro, ti faccio saltare le cervella e poi divorare dai coccodrilli.

Il barcaiuolo ebbe paura di quella minaccia e non ardì fare il menomo tentativo per rialzarsi o per reagire.

—Lasciami la vita, balbettò egli. Ti dò tutto quello che possiedo.

—Non credere che sia un Abù Ròf, disse Omar. Non voglio prenderti nulla.

—E allora che esigi da me?

—Ora lo saprai; lasciati legare.

Ricollocò la pistola nella cintura, estrasse una corda e legò i polsi e le gambe al reis, poi si sedette a prua, prese i remi e spinse il canotto al largo; rimontando come prima la corrente.

—Parliamo, ora, diss'egli. Cosa sei andato a fare in quella casa?

—A trovare un mio amico.

—Il greco Notis, non è vero?

—Come sai questo? esclamò il reis. Saresti tu lo schiavo di?… possibile!

—Sì, io sono lo schiavo di Abd-el-Kerim. Come facesti a indovinarlo?

—Mi narrarono che tu navigavi verso questo villaggio.

—Eh!… fe' Omar sorpreso. E chi te lo narrò?

—Elenka, quando io approdai a Gez Hagiba.

—E il greco sa nulla?

Il reis non rispose e si mise a guardare altrove con aria imbarazzata.

—Parla, gli disse Omar, con tono minaccioso. Il silenzio potrebbe esserti funesto.

—Ebbene, sì, Notis lo sa.

—M'ha veduto forse?

—No, ma ti cerca.

—Basta così. Ora so cosa devo fare.

Egli drizzò la prua alla piccola baia in mezzo alla quale galleggiava il suo legno. Arenò il canotto fra le erbe della riva e chiamò Daùd, il quale fu pronto ad attraversare il ponte e a raggiungerlo.

—Dove hai preso quel canotto? chiese il sennarese.

—A quest'uomo che vedi legato, rispose Omar, afferrando Ibrahim e gettandolo fra le erbe nè più nè meno come fosse una balla di mercanzia.

—Un uomo! esclamò Daùd, Oh! ma quello li è il mio amico Ibrahim!

Il vecchio barcaiuolo alzò a quella voce la testa e si guardò intorno.

—Daùd! gridò egli, cercando di alzarsi. Giusto Allàh, il mio Daùd!…

—Che diavolo succede, disse Omar, Vi conoscete!

—Ma sicuro, Omar, rispose vivamente Daùd, Quest'uomo è il mio miglior amico che abbia sul Bahr-el-Abiad. Come tu me lo conduci così legato. Che può mai aver fatto a te, questo povero Ibrahim. Lascia che io lo liberi.

Così dicendo aveva estratto un coltello e s'era messo a tagliare le corde del vecchio che potè rimettersi nella sua posizione verticale. I due barcaiuoli si strinsero vicendevolmente fra le braccia.

—Spero che tu non ci sfuggirai per tornartene da quel birbante di
Notis, disse Omar. Cosa eri andato a fare da lui?

—Tu eri andato da Notis? chiese Daùd sorpreso. Che affari avevi con lui?

Il barcaiuolo li mise subito al corrente delle cose narrando a loro come avesse veduto e parlato con Elenka a Gez-Hagiba e come si fosse messo agli ordini di Notis. Narrò inoltre come il greco avesse intenzione di abbandonare Quetêna fra due o tre giorni in compagnia di Fathma.

—Ah! la è così, disse Omar, grattandosi l'orecchio. Se il maledetto sospetta la mia presenza starà in guardia e sarà difficile liberare la povera almea.

—Cercheremo di eludere la sua sorveglianza, rispose Daùd.

—Ma in qual modo?

—Ibrahim ci aiuterà.

—Io! esclamò il vecchio con sorpresa.

Ibrahim, disse gravemente Daùd, Narrami che cosa successe l'anno scorso quando c'incontrammo a Machadat-Abu-Zat.

—Io era caduto in acqua, me lo ricordo bene, e aveva un coccodrillo dinanzi che cercava di afferrarmi a mezzo corpo per tagliarmi in due. Ero perduto se tu non venivi in mio aiuto uccidendo con un colpo di scure il mostro.

—Si vede che hai buona memoria. Quando ti trasportai a riva, ti ricordi cosa mi dicesti?

—Sì, ti dissi che se un giorno tu avessi bisogno di un uomo pronto a dare tutto il suo sangue, pensassi a me.

—Questo giorno è venuto, Ibrahim. Io ho bisogno di un uomo per salvare una donna, e io ricorro a te. Mi aiuterai a liberare Fathma?

—Ma è cosa difficilissima, impossibile anzi.

—Se vi saranno degli ostacoli noi li spezzeremo. Dimmi ora, hai libero accesso nella casa dove trovasi Fathma?

—Sì, posso entrare ed uscire a mio piacimento.

—Quanti uomini ha il greco?

—Una quindicina di beduini comandati dallo sceicco Fit Debbeud.

Daùd e Omar fecero una smorfia.

—Troppa gente, disse Daùd con dispetto. Quanti barcaiuoli hai tu?

—Una mezza dozzina, ma sono ragazzi di ferro che non hanno paura nemmeno della collera del Profeta.

—Tu sei e io quindici e tre che siamo noi formiamo una forza di ventiquattro uomini. Si può ancora tentare la sorte.

—Che intendi dire? chiese Omar.

—Che possiamo assalire l'abitazione ed espugnarla

—È impossibile!

—Perchè?

—Notis al primo allarme si barricherà in casa e per espugnarla perderemo tre quarti della nostra gente. Eppoi, gli abitanti di Quetêna potrebbero venire in massa sul luogo del combattimento e mandare a male ogni cosa.

—E allora, cosa si farà? Pensa che abbiamo tre giorni soli dinanzi.

—Prima di tutto bisogna allontanare Notis e ridurlo all'impotenza.

—Ma in qual modo? il greco non si allontanerà tanto facilmente.

—A questo penso io, disse Ibrahim. Prima di domani sera Notis sarà ridotto in uno stato tale da non poter fare un solo passo per quarant'otto ore.

—Vuoi pugnalarlo forse?

—Niente affatto. Pugnalarlo sarebbe pericoloso; potrebbero sorprendermi e pigliarmi. Lasciate pensare a me e vedrete che tutto andrà bene.

—E liberatici del greco che faremo?

—Coll'aiuto d'Ibrahim entreremo tutti e due nella villa, saliremo da Fathma e ci barricheremo nella sua stanza, disse Omar. Aspetteremo la sera, poi ci caleremo, da una delle finestre, sulla riva del fiume e prenderemo la fuga.

—Bel piano! esclama Daùd. Ma potrebbe darsi che venissimo scoperti, però.

—Ci difenderemo fino all'ultimo respiro. I due equipaggi ci presteranno man forte.

—Siamo intesi. Tu Ibrahim ti rechi a Quetêna a giuocare un brutto tiro al greco. Alla sera noi assaliremo l'abitazione e libereremo Fathma. Orsù, a bordo, che ho una fame da lupo.

—Andiamo Daùd, disse allegramente Omar. Se riusciamo dò duecento talleri a ciascuno di voi. Ah! mio caro Notis, non sai ancora quanto possono fare Abd-el-Kerim ed il suo schiavo.

I due reis ed il negro, alcuni minuti dopo mettevano piede sul ponte del gran battello.

CAPITOLO IV.—Omar e Fathma.

All'indomani, due ore dopo il mezzodì, Ibrahim lasciava il gran battello di Daùd colla ferma idea di allontanare e ridurre a completa impotenza il greco Notis. Imbarcatosi sul suo canotto con pochi colpi di remo prese il largo e venti minuti dopo sbarcava su molo di Quetêna ingombro di Sennaresi e di Arabi che caricavano e scaricavano la lunga fila di barche ancorate sotto la sponda.

Girando lo sguardo all'intorno vide subito che uno dei suoi barcaiuoli lo aspettava seduto su di una balla di mercanzia. Gli si avvicinò sollecitamente:

—Che abbiamo di nuovo Saba? gli chiese, battendogli sulle spalle.

—Stavo a vedere quando tu ritornavi, rispose il battelliere. Questa mane venne a bordo un beduino chiedendo di te.

—Si trova ancora sulla dahabiad quest'uomo?

—No, ma mi disse che appena tu giungessi ti mandassi da lui.

—Non ho tempo per recarmi da quell'uomo, disse Ibrahim. Ascoltami ora, Saba.

—Sono tutt'orecchi.

—Farai armare tutti i battellieri di buoni moschetti e di jatagan e vi terrete pronti ad entrare in campagna al mio comando.

—Oh!… che c'è in aria?

—Dobbiamo assalire quella villa che tu vedi là, sulla riva sinistra, e salvare una donna che si trova rinchiusa. Hai capito, state pronti a tutto e basta. Recati a bordo ora, portami quella scatola d'oppio che trovasi nella mia cabina, e vieni a raggiungermi al caffè.

—Io corro.

—Va dunque e spicciati.

Il battelliere non se lo fece dire due volte e se ne andò di corsa. Ibrahim si stropicciò allegramente le mani ed entrò nel caffè che trovavasi pochi passi lontano. Non vi era che il wadgi (caffettiere) che faceva fuoco al fornello alzandosi e abbassandosi per soffiarvi sopra.

—Meglio così, borbottò il reis. Si addormenterà senza testimoni.

Chiamò il wadgi, si fece portare una tazza di moka fumante e due scibouk. Aveva appena cominciato a sorseggiare la deliziosa bevanda che entrava Saba.

—L'oppio? chiese brevemente Ibrahim.

—Eccolo, padrone, rispose il battelliere porgendogli una scatoletta.

Il reis l'aprì con precauzione; conteneva una dozzina di pallottoline d'oppio. Ne prese quattro e le mise in uno dei scibouk coprendolo con un fitto strato di tabacco.

—Le fumi? chiese Saba, sorpreso. Ti ubriacherai terribilmente.

—Zitto, giovanotto, disse Ibrahim con aria misteriosa. Ora ti recherai alla villa che poco fa ti additai, e chiederai del greco Notis, tieni bene in mente questo nome. Gli dirai che venga subito qui che devo parlargli su cose assai interessanti. Va!

Il battelliere uscì di corsa dirigendosi verso il molo, e Ibrahim, empito l'altro scibouk di tabacco l'accese mettendosi a fumare colla maggior calma del mondo. Mezz'ora dopo entrava in furia il greco Notis.

—Ah! Siete qui, padrone! esclamò Ibrahim con mal celata gioia.
Abbiamo delle grandi novità.

—Narra, Ibrahim, disse Notis sedendosi di fronte a lui.

—Accendete il scibouk ed ascoltatemi, disse il reis spingendo verso di lui la pipa carica d'oppio.

Il greco prese il scibouk e vedendo che era di già carico l'accese avvolgendosi fra dense nubi di fumo.

—Ditemi, innanzi tutto, come sta quella donna che voi tenete prigioniera. Essa mi interessa qualche poco.

—Non mi curerò di lei per tre giorni, rispose Notis stizzito. Ma dopo, oh la vedremo chi di noi due la vincerà. Raccontami ora, queste novità.

Il reis vuotò il fingiam (vasetto) di caffè e rovesciandosi indolentemente sull'angareb, gli disse a bruciapelo:

—Padrone, lo schiavo di Abd-el-Kerim è arrivato a Quetêna.

Il greco fece un soprassalto sul sedile emettendo un gran oh! di sorpresa.

—Da quando? chiese con ansia. L'hai veduto tu?

—Sono due giorni che è giunto e sa già che Fathma trovasi nelle vostre mani.

—È solo?

—Solo e in miseria per soprappiù.

—Non è da temersi adunque! esclamò Notis che respirò.

—Non c'è da darsene pensiero. Il povero diavolo l'ho veduto ieri sera che rosicchiava una pannocchia di durah sotto una rekuba. Mi pareva assai malandato.

—Come facesti a sapere che era Omar?

—Perchè gli ho parlato assieme.

—Tu!… Scherzi forse?

—Niente affatto.

—E… ti ha conosciuto?

—Non sa nemmeno chi sia.

—Potevi dargli un colpo di coltello e freddarlo.

—Ma parve una fatica inutile. Che ne dite?

Il greco rispose con una risata da ebete. Appoggiò la testa sulle mani e continuò a fumare con maggior furia cogli occhi vitrei fissi dinanzi a sè. Egli provava allora una voglia irresistibile di fumare, un senso di benessere strano, nuovo, una calma inesprimibile, un alleviamento di testa unico e una leggerezza tale che credeva di galleggiare in mezzo all'aria.

Il reis lo guardò attentamente e sorrise. La faccia del fumatore era smorta smorta, attorno agli occhi cominciavano a disegnarsi due cerchi azzurrognoli e muoveva le mani convulsivamente.

—L'oppio opera, pensò il barcaiuolo. Fra poco cadrà nel mondo dei sogni.

—Dunque tu dicevi?… ripigliò Notis, dopo qualche minuto di silenzio.

—Che freddarlo con una coltellata mi pareva fatica inutile.

—Chi?…

—Lo schiavo di Abd-el-Kerim.

—Abd-el-Kerim, balbettò il greco come non avesse ben compreso. Dov'è quest'uomo?

—A Gez Hagiba.

—Non mi ricordo più nulla… ho come della nebbia dinanzi agli occhi… mi pare di galleggiare… di sognare….

Ibrahim non aprì bocca. Il greco continuava a fumare rabbiosamente e tuffavasi, per così dire, fra le ondate del fumo oleoso e pesante.

Passarono cinque minuti. Notis cambiò tre o quattro volte posizione e cercò di riappiccare il discorso, ma dalle labbra tremanti non gli uscivano che frasi interrotte e senza senso. Ad un tratto si rovesciò sull'angareb, chiuse a poco a poco gli occhi e lasciò sfuggire il scibouk che cadde a terra spezzandosi. Cercò ancora di rialzarsi, agitò le braccia quasicchè cercasse d'abbracciare qualche cosa che danzavagli dinanzi, poi restò immobile.

Il reis si alzò e mirò per qualche tempo l'addormentato, il quale era così pallidissimo da scambiarlo per un cadavere. Un sorriso di viva soddisfazione e anche di commiserazione apparve sulle labbra di Ibrahim.

—Ecco un uomo terribile ridotto inoffensivo quanto un fanciullo, mormorò egli. Quando si sveglierà io avrò pagato il sacro debito con Dàud ed egli si troverà senza amante. Povero Notis!

S'avvicinò al wadgi e gli mise in mano un tallero.

—Quell'uomo là dorme profondamente, gli disse. Dormirà tutto oggi e probabilmente tutto domani. Portalo in qualche stanza senza fargli male alcuno e se dei beduini vengono a cercarlo, rispondi a loro che tu non l'hai nemmeno visto. Se tutto va bene avrai cinque talleri in regalo.

—Non temere di nulla, vecchio Ibrahim, rispose il wadgi.

Il reis uscì dal caffè nel momento che il sole precipitava dietro i monti di Semin e di Lao Lao. Respirò una boccata d'aria, poi si diresse verso il molo sul quale passeggiavano impazientemente Dàud e Omar.

—Eccomi a voi, amici miei, disse avvicinandosi.

—Il greco? chiesero al un tempo il negro e il sennarese.

—Dorme come un serpente, nè si sveglierà prima di quarantott'ore. Gli ho fatto fumare una forte dose di oppio.

—Bravo Ibrahim, disse Dàud, stringendogli energicamente la mano.
Andiamo ora alla villa a liberare quella cara amante di Abd-el-Kerim.

—E come si entrerà? interrogò Omar.

—Ci arrampicheremo su per una delle finestre, rispose Ibrahim. Le tenebre calano in furia; noi approderemo senza essere visti ed entreremo nella stanza della prigioniera. Ho qui una fune e con questa discenderemo. Avete le vostre pistole?

—Non manchiamo nemmeno degli jatagan. E i tuoi uomini sono avvisati? Potremmo aver bisogno di loro.

—Non aspettano che il comando di partire, Omar. E i tuoi Dàud?

—Sono sotto le armi.

—Quando è così andiamo e che Allàh ci aiuti.

Saltarono nel canotto, lo allontanarono e si misero a vogar verso la riva opposta dandosi l'aria di pescatori. Salirono per un buon tratto il fiume, poi, quando fu notte oscura, ridiscesero cautamente e approdarono dinanzi alla villa di Notis.

—Vedi nessuno Ibrahim? chiese Dàud.

—Assolutamente nessuno.

—Zitto, mormorò improvvisamente Omar. Abbassatevi tutti.

Alcuni uomini che furono riconosciuti per dei beduini, uscivano allora dalla porta che metteva sul Nilo. Essi presero posto in una barchetta che era lì ormeggiata.

—Cercatelo dappertutto, disse una voce che si capì essere quella dello sceicco Debbeud. Vi sono dei pericoli nell'aria e non è prudente rimaner fuori di notte.

—Sta bene, risposero i beduini.

La barca si allontanò scomparendo fra le tenebre e la porta della villa tornò a chiudersi.

—Hai compreso? domandò Omar a Daùd.

—Perfettamente; vanno a cercare il greco.

—Spicciamoci, amici cari. Ecco là quel tamarindo che mi aiutò ieri a salire fino alla finestra di Fathma. Io mi arrampico, entro nella stanza e getto la corda. Voi rimarrete qui a difendermi nel caso che venga scoperto.

—Siamo intesi, non ti perderemo di vista.

Il negro armò le pistole, onde essere pronto a servirsene qualora ve ne fosse stato bisogno e si avanzò fino ai piedi del tamarindo. Tese l'orecchio per udire se vi fosse qualcuno che girasse nei dintorni, lanciò uno sguardo a dritta e a manca, poi abbracciò il tronco e si mise a salire coll'agilità di una scimmia, fino ai rami. Sostò ancora un momento per ripigliare fiato, indi si mise a strisciare sul ramo, che protendevasi fino ad una delle finestre, con mille precauzioni onde il fogliame non susurrasse o il legno gemesse.

—Ci sei? chiese sottovoce Daùd, dopo qualche istante.

—Ci sono, rispose egli. Attenti.

Guadagnò il davanzale della finestra e guardò entro. Una lampada illuminava fiocamente la stanza e seduta su di un divano vide Fathma: respirò.

Allungò una mano e aprì le imposte. Al cigolìo che mandarono girando sui cardini, l'almea si levò in piedi non dissimulando un gesto di terrore. Omar si slanciò entro cadendo ai suoi piedi.

—Zitto, Fathma, mormorò egli, vedendo che apriva le labbra per mandare un grido. Zitto, che sono io, Omar, il fedele schiavo di Abd-el-Kerim.

L'almea fu ancora in tempo di arrestare il grido che stava per uscirle. Ella prese la testa del negro fra le mani e l'alzò guardandola con occhi umidi.

—Tu, Omar, tu, balbettò con un filo di voce che la gioia e l'emozione rendevano tremula. Gran Dio! Che vieni a far qui, in questa stanza, dove sono prigioniera?

—Vengo a salvarti, Fathma, vengo a strapparti dalle mani di Notis.

—Ma, disgraziato, non sai dunque che vi sono quindici beduini che vegliano e che potrebbero da un momento all'altro entrare ed ucciderti?

—Che importa a me? Del resto sono armato e ho abbasso degli amici che vegliano.

—Degli amici?

—Sì, Fathma, dei cuori generosi che s'interessarono della tua disgrazia. Non temere di nulla; io ti libererò per ridarti al prode Abd-el-Kerim.

L'almea emise un gemito e portò ambe le mani al cuore.

—Narrami, Omar, dove trovasi colui che tanto amo. Non so più nulla di lui e non lo rividi più da quel funesto dì in cui fummo separati. È vivo ancora?… Pensa egli alla sventurata Fathma? Parla!… Parla!…

—Sì, è vivo, e trovasi a Gez-Hagida ed è sempre innamorato di te. Fu lui che mi comandò di venire qui e che mi procacciò i mezzi necessari per disertare; mi capisci, fu lui. Ah! se tu sapessi quanto ti ama il mio povero padrone e quanto egli è infelice!

—E perchè non disertò?… Perchè, Omar.

—Ha una donna, una furia che veglia su di lui, che lo segue dì e notte in ogni suo passo e che gli impedisce di fuggire.

—Una donna! mormorò Fathma che si sentì mordere il cuore dalla gelosia. Chi è questa donna? Io voglio saperlo. Omar, lo voglio!

—È sempre Elenka.

—Ah! maledetta!

—Ma non aver paura che abbia a vincerlo. Abd-el-Kerim l'odia talmente che se potesse ucciderla la ucciderebbe.

—Ah! quanto bene mi fanno queste parole, Omar. Sono venti giorni che ho il cuore straziato dalla più terribile gelosia, venti giorni che soffro atrocemente!.. Povero Abd-el-Kerim, potessi farti felice.

—Ma che ti ha fatto quel miserabile Notis?… Ho udito parlare di pugnalate, di…

—Zitto disse Fathma. Quello che fu fu, eppoi sono ormai guarita. Dove sono questi tuoi amici?

Omar la prese per una mano e la condusse alla finestra.

—Guarda, le disse.

—Vedo due uomini.

—Sono i miei amici. Hai paura di discendere da questa finestra attaccata ad una corda?

—Discenderei appesa a un filo di seta.

—Quando è così non perdiamo un sol secondo.

Il negro svolse una lunga corda a nodi che teneva arrotolata attorno al corpo, fissò un capo a una sbarra di ferro della finestra e gettò l'altra nel vuoto. Tosto si videro Daùd e Ibrahim accorrere a prenderlo.

—Andiamo, Fathma, coraggio. Fra cinque minuti saremo lontani da qui.

L'almea salì arditamente sul davanzale e si appese alla corda: Omar vi si mise allato sostenendola con una mano e la pericolosa discesa cominciò nel più profondo silenzio.

Erano giunti già a mezza fune, quando si udì Daùd intimare:

—Ferma!…

Omar e Fathma si arrestarono tendendo l'orecchio. Non si udiva rumore alcuno, eccettuato il gorgoglìo del Nilo che rompevasi sulle sabbie degli isolotti e il lieve susurrìo delle frondi agitate dal venticello notturno.

—Possiamo discendere? chiese Omar che sentiva Fathma tremare.

Risposero un colpo di carabina e un grido straziante. Ibrahim che si teneva ritto sulla riva barcollò e precipitò nel fiume. I coccodrilli che dormivano lì presso furono pronti a saltargli addosso e a farlo a pezzi.

—All'erta!—-gridò una vociaccia.

—Sali, sali, Omar! urlo Daùd. I beduini!

Sei o sette beduini si slanciarono fuori della villa. Daùd scaricò le sue pistole poi saltò nel canotto e s'allontanò arrancando disperatamente.

—Sali, sali, gridò egli un'ultima volta.

Omar e Fathma, quantunque si trovassero in una posizione terribile non si perdettero d'animo. Aiutandosi vicendevolmente, adoperando le mani, ed i piedi e persino i denti, in meno che lo si dica raggiunsero il davanzale e si slanciarono nella stanza ritirando in furia la corda.

Erano appena entrati che si udì picchiare furiosamente alla porta.

—Aprite! comandò una voce imperiosa. Aprite per tutti i fulmini del cielo!

Omar si scagliò contro di essa colle pistole in pugno, ma non ebbe il tempo necessario per giungervi, poichè violentemente s'aprì e due beduini irruppero nella stanza colle scimitarre alzate.

Fathma gettò un grido.

—Non aver paura Fathma, gridò Omar. Uno, due…

S'udirono due detonazioni. I due beduini colpiti dalle palle delle sue pistole caddero l'un sull'altro colle cervella bruciate.

CAPITOLO V.—La Fuga.

Respinti i primi assalitori, Omar e Fathma comprendendo il gran pericolo che correvano se si lasciavano prendere, si gettarono contro la porta della stanza rimasta semi-aperta. Chiuderla, sbarrarla e ammonticchiarvi dietro tutte le mobilie della stanza, fu per loro due l'affare di cinque minuti.

Avevano appena finito che udirono i beduini salire le scale e arrestarsi sul pianerottolo facendo un fracasso orribile. Un colpo violento fu dato alla porta che tenne duro.

—Aprite, razza di cani idrofobi! gridò Fit Debbeud. Ibrahim, è così che tu tradisci il padrone? Se riesco a pigliarti ti tenaglio le carni in modo da non lasciartene un pezzo attorno le ossa. Apri, per Allàh, apri, animale schifoso.

Omar e Fathma invece di aprire si addossarono tutti e due contro la barricata. Il primo passò una pistola alla seconda.

—Sta attenta, padrona, le disse rapidamente. Nel primo foro che si apre introduci l'arma e spara.

—Apri, animalaccio ripigliò Fit Debbeud con voce arrangolata. Sei morto forse con quella donna da trivio? Ah! se fosse qui Notis!

S'udì un secondo colpo ancor più terribile del primo; l'uscio scricchiolò sinistramente.

—Gettatemi giù la porta, comandò lo sceicco. Voglio ben vedere dove si sono nascosti questi due birbanti. Vivi o morti noi li avremo in mano.

—Omar, mormorò Fathma.

—Non tremare padrona, rispose il negro. Prepara la tua pistola e lascia a me la cura di fugare questo branco di beduini.

—Ma se gettano giù la porta?… Dove fuggiremo noi?

—Prima di entrare dovranno chiedere il permesso alle mie pistole e al mio jatagan. Sta attenta, Fathma!

I beduini si misero a battere furiosamente coi calci dei moschetti e colle lancie, ma la porta grossa come era, non si scosse nemmeno. Omar e Fathma già si rallegravano di questo primo successo e stavano per accorrere alle finestre onde chiudere le imposte, quando s'udì Fit Debbeud vociare:

—Andate a prendere una scure! La faremo in mille pezzi!

—Siamo perduti, mormorò involontariamente Omar che provò una stretta al cuore. Fra cinque minuti i birbanti entreranno nella stanza.

—E allora?… chiese Fathma con ispavento. Cadrò ancora nelle loro mani? Omar!

—Armiamoci di coraggio, padrona, e difendiamoci strenuamente. Chissà, forse potremo tener testa fino all'arrivo di Daùd e dei suoi battellieri.

—Credi che verrà?

—Sì, Fathma, egli verrà a liberarci. Orsù, eccoli che ricominciamo l'assalto. Sta attenta a scaricare la tua pistola e cerca, se è possibile, di farmi andare a gambe levate qualcuno di questi beduini. Forse riusciremo a fugarli.

La porta scricchiolò sotto il primo colpo di scure e s'aprì una lunga fessura. Altri quattro colpi la ingrandirono e un fucile fu introdotto.

—Indietro, Fathma! urlò Omar, spingendola bruscamente da un lato.

—Arrendetevi! intimò una voce furiosa.

Il negro invece di rispondere afferrò il fucile per la canna, lo rialzò, puntò una delle sue pistole e fece fuoco. Un urlò accompagnò la detonazione, poi seguì il rumor sordo di un corpo che cadeva a terra.

—Ah! cani! vociò Fit Debbeud. Mi assassinano la gente!

Omar scaricò l'altra pistola; s'udì un secondo urlo e un secondo corpo che cadeva, poi un allontanarsi precipitato di passi e alcune fucilate, le cui palle si incastonarono nella porta. I beduini scappavano giù per le scale gettando urla di rabbia.

—Evviva! esclamò Omar, turando la fessura con alcuni guanciali. Sta attenta Fathma!

In quell'istante s'udirono i rami del gran tamarindo che ombreggiava l'abitazione, scuotersi furiosamente.

—La finestra, Fathma, la finestra! gridò Omar.

L'almea lo comprese. Si precipitò verso la finestra e vi giunse nel momento istesso che un beduino si aggrappava al davanzale cercando di issarsi su. Egli allungò una mano, l'afferrò per un lembo del suo habbaras, con una violenta strappata le fece perdere l'equilibrio e s'avventò nella stanza come una tigre cercando di strapparsi dalla cintura l'jatagan, ma era troppo tardi.

Fathma s'era gettata a testa bassa su di lui col pugnale d'Omar in mano. Lo afferrò per la gola e gli sprofondò l'arma fino all'impugnatura nel cuore, gettandolo esanime al suolo.

Era tempo. I beduini, aiutandosi gli uni cogli altri, stavano per giungere alla finestra saltando come scimmie fra i rami dell'enorme tamarindo.

Omar abbandonò per un momento la porta ed accorse in aiuto di Fathma che, strappato l'jatagan al morto, cercava di respingere gli assalitori. Con due colpi di scimitarra gettò abbasso due beduini col cranio spaccato, poi, malgrado le fucilate che gli sparavano contro quelli che trovavansi sulla riva del fiume, chiuse e sprangò le imposte.

—Presto, Fathma, diss'egli. Va a chiudere l'altra finestra.

L'almea ubbidì, poi ritornarono tutti e due presso alla porta, dinanzi alla quale si erano radunali Fit Debbeud e mezza dozzina dei suoi, cercando di schiantarla a colpi di scure. Bastò un colpo di pistola per tornarli a fugare.

—Là, così va bene, padrona, disse Omar, ricaricando le pistole. Se a quei birboni non salta in capo di giuocarci qualche tradimento, non riusciranno a spuntarla. È già una buona mezz'ora che Daùd è fuggito, quindi fra non molto sarà qui.

—E credi tu, Omar, che riesciranno a sbaragliare gli assedianti?

—Lo spero, padrona. Daùd ha quindici barcaiuoli, quindici sennaresi di buona razza che non hanno paura di nulla. Essi prenderanno i beduini alle spalle e li costringeranno a battere la ritirata se non vorranno essere presi fra due fuochi.

—E se i beduini si barricano in casa?

—Se quel Fit Debbeud è tanto furbo, corriamo un gran pericolo. Ma ad ogni modo noi fuggiremo, te l'assicuro, e prima che si svegli Notis. È ubbriaco d'oppio e dormirà un pezzo.

—E se lo trovano?…

—Il wadgi ha promesso a Ibrahim di tenerlo nascosto e quell'uomo è incapace di tradirci. Eppoi, quand'anche si svegliasse e venisse qui a dirigere l'assedio lo dirigerebbe per pochi minuti. Il mio primo colpo di pistola è destinato a lui.

—Zitto! esclamò Fathma.

—Olà! gridò Fit Debbeud al di fuori. Guardate il fiume! Guardate il fiume per mille barbe del Profeta!

—Il fiume! mormorò Omar. È Daùd che arriva.

Il negro e l'almea s'accostarono ad una delle finestre e pian piano l'apersero guardando sulle rive del Bahr-el-Abiad.

La notte era oscura per le nubi che si accavallavano in cielo, ma si vedeva a qualche distanza. Essi scorsero due lunghi canotti navigar lentamente sul fiume, cercando di dirigersi verso la riva.

—È Daùd coi suoi uomini, disse Omar all'orecchio di Fathma. Se potesse approdare senz'essere scorto.

—È impossibile, mormorò l'almea. Non vedi i beduini imboscati fra le canne?

Omar si curvò sul davanzale della finestra e guardò fra i canneti. Vide muoversi delle ombre, alzare e abbassare delle lunghe aste che riconobbe essere dei fucili, poi sparire fra il fitto fogliame. Non potè trattenere una bestemmia.

—Ah! cane di Debbeud! esclamò. Impedirà a loro di sbarcare.

—Noi che dobbiamo fare?

—Nulla per ora, stiamo a vedere come vanno le cose. Armiamoci le pistole e teniamoci pronti a tutto, anche a tentare una sortita.

I due canotti erano giunti allora a un duecento metri dalla riva e continuavano ad avanzare senza produrre il menomo rumore. Appena si vedeva l'acqua spumeggiare sotto i remi che si tuffavano con estrema prudenza.

—Ehi! gridò in quel momento Fit Debbeud. Arranca a largo!…

I due canotti si arrestarono come indecisi, poi ripigliarono le mosse con maggior rapidità. In mezzo ai canneti s'udì uno scricchiolio come d'armi che vengono montate e uno scambiarsi di parole. Le cime delle canne qua e là si mossero, poi un lampo rossastro ruppe l'oscurità seguito da una fragorosa detonazione.

—Arranca! arranca! urlò una voce partita da uno dei canotti.

—Fuoco sui canotti! vociò Fit Debbeud.

Sei o sette fucilate tuonarono fra le canne. Al chiaror della polvere accesa furono visti i beduini tuffati fino alle anche nell'acqua e i due canotti pieni di negri armati di fucili, ritti in piedi sui banchi. In mezzo a quelli della prima barca Omar vide Daùd colla scimitarra nella dritta e un revolver nella sinistra.

—Daùd!… Daùd! gridò egli con voce tonante.

—Chi mi chiama? domandò il sennarese.

—Io, Omar!… Attento ai beduini che sono fra le canne!

—Per Allàh!… Grazie Omar, tieni saldo che arrivo. Olà, ragazzi, fuoco fra i canneti, tirate!

I due canotti s'infiammarono empiendosi di fumo e una tremenda scarica tempestò il luogo ove tenevasi nascosto il nemico. S'udirono grida, bestemmie, lamenti, poi si videro delle ombre salire in furia la riva e appiattarsi dietro ai tamarindi e alle palme.

Omar impugnò le sue pistole.

—Fathma, disse rapidamente. Pigliamoli alle spalle. Li vedi?

—Li vedo tutti, rispose l'almea tendendo la dritta armata di pistola e mirando il beduino più vicino, Fuoco. Omar!

Quattro colpi di pistola tennero dietro al comando; due degli imboscati batterono l'aria colle mani e caddero pesantemente a terra. I beduini, fuggirono a rompicollo verso l'abitazione e vi entrarono nel momento istesso che i canotti approdavano.

—Avanti, Daùd, avanti! urlò Omar.

I barcaiuoli posto piede a terra si slanciarono di corsa sulla riva coi fucili in mano, ma vennero arrestati da un fuoco infernale che usciva dalle finestre del primo piano. I beduini, barricatisi e nascostisi dietro le imposte, sparavano a colpo sicuro coi moschetti e colle pistole, urlando come anime dannate.

Due barcaiuoli caddero senza aver avuto nemmeno il tempo di scaricare i loro fucili, ma gli altri si dispersero dietro ai tronchi degli alberi e dietro i rialzi del terreno tirando contro le finestre, crivellando le imposte e le pareti.

Daùd alla testa di tre coraggiosi, sfidando il fuoco degli assediati che andava acquistando una terribile precisione, si spinse fino sotto alla finestra di Omar riparandosi dietro al gran tamarindo. I suoi uomini si gettarono a terra scaricando le loro pistole sulle finestre più vicine.

—Getta una fune! gridò il sennarese.

Lo schiavo di Abd-el-Kerim gettò quella che aveva portato con sè, ma fu troncata da una palla di moschetto.

—Tuoni di Dio! esclamò Daùd. Tutto è contro di noi adunque? Puoi scendere afferrandoti ai rami del tamarindo?

—E Fathma? gridò Omar.

—Sei barricato?

—Sì e posso resistere coll'aiuto di Allàh e del Profeta.

—Sii pronto a tutto. Ora mi vedrai all'opera.

Egli ritornò di corsa verso la riva coi tre uomini che l'avevano accompagnato. I barcaiuoli ad un suo fischio si radunarono dietro a una macchia di bauinie, poi uscirono di corsa avventandosi furiosamente contro la porta.

—Avanti! avanti! aveva comandato Daùd.

La porta assalita colle scuri, coi calci degli archibusi, coi remi, fu scassinata non ostante le scariche tremende e incessanti degli assediati.

I barcaiuoli impugnati gl'jatagan irruppero nella abitazione andando a cozzare contro una barricata dietro alla quale si erano riuniti in fretta ed in furia i beduini con Fit Debbeud. Malgrado lo slancio irresistibile furono ributtati e costretti ad uscire dalla stanza per non cadere sotto il fuoco degli assaliti.

Altre due volte Daùd diede il comando dell'attacco e ben altre due volte furono respinti, ma al quarto la barricata fu sfondata. Beduini e barcaiuoli, incontratisi fra i rottami si azzuffarono ferocemente adoperando i coltelli, le pistole, i fucili e persino i denti, assordandosi con urla tremende.

I beduini più numerosi non cedevano però d'un passo e già la peggio volgeva pei barcaiuoli, quando sul pianerottolo della casa apparvero Omar e Fathma colle pistole in pugno. Fit Debbeud e tre dei suoi caddero sotto le loro palle. La morte dello sceicco decise la pugna.

Spaventati, presi dinanzi e alle spalle, i beduini perdettero la testa e si diedero alla fuga per le stanze e precipitandosi dalle finestre si salvarono nelle foreste del Bahr-el-Abiad.

Dieci minuti dopo Fathma, Omar, Daùd e i suoi barcaiuoli abbandonavano la villa e s'imbarcavano sui canotti, salendo la corrente del Nilo Bianco.

CAPITOLO VI.—La Dahabiad di Notis.

Era la mezzanotte, quando i superstiti della spedizione e i liberati mettevano piede sul ponte della darnas ancorata nella piccola baia. Daùd dopo di aver fatto trasportare i feriti sotto il capannone di poppa e adagiare sugli angareb, e d'aver invano pregato Fathma perchè si riposasse, comandò di ultimare il più presto possibile i preparativi di partenza.

Pel momento non vi era pericolo, essendo certi che Notis, ubbriaco d'oppio, dormiva ancora e che i beduini si erano smarriti nelle foreste del Bahr-el-Abiad, ma poteva darsi che al mattino venisse preparata in Quetêna la caccia. Prima che questa si organizzasse, premeva di essere assai lontani per potersi liberamente difendere qualora assaliti.

I barcaiuoli al comando del loro reis si misero febbrilmente al lavoro. I canotti in un lampo furono issati sul ponte, le grandi vele latine furono sciolte e orizzontate e l'àncora fu strappata dal fondo. La darnas abbandonò la baia, guadagnò il largo e salì rapidamente e in silenzio la corrente del Nilo, sotto un vento fresco del nord-est.

Dàud si mise in persona alla ribolla del timone per dirigere la nave attraverso i numerosi banchi di sabbia e ai bassifondi di cui è ingombro in quasi tutto il suo corso il Bahr-el-Abiad. Omar e Fathma, fatte portare in coperta tutte le armi trovate nella stiva, trascinare a poppa e caricare il piccolo cannone e mandati alcuni uomini sulle cime degli alberi si affrettarono a raggiungerlo.

—Vedi nulla di sospetto? gli chiese Omar, guardando attentamente le boscose rive del fiume e il villaggio di Quetêna che cominciava a sfumare fra le tenebre.

—Assolutamente nulla, rispose Dàud. Mi pare che nessun pericolo ci minacci, almeno per ora.

—Credi che verremo inseguiti, domandò Fathma, ma senza manifestare emozione alcuna.

Il sennarese parve indeciso.

—Non ho paura di Notis, gli disse Fathma sorridendo. Puoi parlare liberamente.

—Temo che ci si dia la caccia, sorellina cara, rispose il reis.

—Ma abbiamo ucciso più che mezzi beduini, e anche lo sceicco.

—Che monta? Quando si possiede del danaro nel Sudan si trovano sempre dei soldati. Ti sembra che Notis ti amasse molto?

—Alla pazzia.

—Allora ci inseguirà, ne son sicurissimo. Il maledetto si recherà dal mudir (governatore) di Quetêna, gli farà brillare dinanzi agli occhi un bel gruzzolo di talleri e gli porterà via i dieci o dodici soldati egiziani che formano la guarnigione del villaggio. Delle darnas o delle dahabiad ve ne saranno sempre per imbarcarli.

—Corriamo un serio pericolo, adunque?

—Non quanto tu credi, Fathma. La mia darnas è una delle più veloci che solchino il Bahr-el-Abiad, e prima di domani avremo passato anche il villaggio di Mahawir.

—E se ci raggiungono? chiese Omar.

—Finchè avremo polvere e palle a bordo ci batteremo, poi sbarcheremo sull'una o sull'altra riva e ci salveremo nelle boscaglie. Però, sono persuaso che gli Egiziani non azzarderanno darci l'abbordaggio se noi ci difendiamo gagliardamente. Quegli uomini del nord non hanno fama di essere coraggiosi quanto noi sennaresi, disse con un certo orgoglio il reis.

—Credi tu, Daùd, che troveremo ancora Dhafar pascià accampato a
Gez-Hagiba?

—Non lo credo, Omar. Quando noi lasciammo l'isola, mi dissero che fra qualche giorno sarebbe partito per Om-Qenênak.

—E allora, dove ritroveremo Abd-el-Kerim? chiese Fathma con viva emozione. Gran Dio! Se noi non lo ritrovassimo più?

—Non metterti in capo simili idee, Fathma, rispose il reis. A Gez-Hagiba io ho alcuni amici pescatori ed essi mi sapranno dire quale via avrà preso Dhafar pascià. Se si sarà diretto al sud, noi saliremo il Bahr-el-Abiad fino a Duêm o meglio ancora fino a Hellet-ed-Danàqla e là noi troveremo i cammelli necessari per dirigerci a El-Obeid. Se vuoi, io ti fornirò di una scorta di uomini fidati che ti faranno raggiungere Hicks pascià. Fra dieci o dodici giorni, ti assicuro che vedrai l'arabo ed Elenka.

L'almea, nell'udire il nome della greca, fremette il volto le si infiammò e strinse convulsamente le pugna.

—Ah! esclamò ella con impeto selvaggio. Potessi alla fine trovarmi di fronte a quella iena.

—Che le faresti?

—L'annienterei, la farei a brani, in modo da non lasciarle un pezzo di carne attorno alle ossa.

—La odii immensamente adunque?

—Come un'araba può odiare la sua rivale; come un'araba che fu sferzata dalla sua rivale; come un'araba che fu resa infelice dalla sua rivale. Puoi indovinare ora fino a qual punto io odio Elenka.

—Olà! gridò in quel mentre un barcaiuolo. Guarda a prua!

Daùd alzò gli occhi e vide una gran barca che scendeva silenziosamente la corrente, tenendovi vicina alla riva destra. Gli parve di conoscerla.

—Se non m'inganno, diss'egli ai suoi compagni, quella darnas appartiene al reis Abu Scioqah mio amico. Sarebbe una bella occasione per avere qualche notizia sugli avvenimenti che accadono nell'alto Nilo.

—Che venga da Gez-Hagiba? chiese Omar.

—Potrebbe darsi.

—Interrogalo, disse Fathma. Potremo avere notizie di Dhafar pascià.

—Olà, Abu Scioqah! gridò Daùd facendo portavoce delle mani.

A prua della darnas apparve un'ombra biancastra.

—Chi chiama? domandò raucamente.

—Daùd. Da dove venite?

—Ah! sei tu, amico! esclamò quell'uomo con un tono di voce meno brusco. Dove ti rechi? Se oltrepassi Woad-Scelai e l'isola di Gez apri bene gli occhi.

—Perchè? Vi sono degli egiziani?

—Altro che egiziani! La riva sinistra è occupata da una banda di maledetti Abù-Rof. Ti bombarderanno per tre o quattro miglia.

—Hai veduto Dhafar pascià e la sua armata a Gez-Hagiba?

—Sono partiti da una settimana pei monti d'Arax-Kol, Buona fortuna,
Daùd, e guardati dagli Abù Rof.

—Grazie, Abu Scioqah, sarò prudente.

La darnas di Abu scomparve poco dopo nelle tenebre.

Daùd per ogni precauzione, spinse la sua sotto la riva destra.

—Avete capito, amici miei? chiese egli, dopo qualche istante di silenzio.

—Ho udito, rispose Omar, ma noi passeremo anche sotto il naso degli
Abù-Rof. Per raggiungere Dhafar pascià bisogna che noi approdiamo a
Hellet-ed-Danàqla. È là che noi sapremo qualche cosa di giusto.

—È quello che penso pur io. Orsù, silenzio adesso e teniamo gli occhi bene aperti e gli orecchi ben tesi. Non dimentichiamo che abbiamo Notis a Quetêna. Tu, Fathma, puoi andare a dormire che ne hai bisogno.

—Ho sempre paura che accada qualche disgrazia.

—Non succederà nulla, sorellina, eppoi, se veniamo inseguiti, ti chiameremo. Va a coricarti nel casotto.

L'almea ubbidì e si sdrajò su di un angareb sotto la tettoia; Daùd e Omar si arrampicarono invece sugli alberi cogli occhi volti verso il nord per vedere se le barche di Quetêna li inseguivano.

La darnas, grazie al vento che si manteneva assai fresco, continuò a salire la corrente del Nilo cosparsa d'una moltitudine d'isole, isolotti e bassifondi formanti una rete inestricabile di canali e canaletti, fugando i coccodrilli e gli ippopotami che guazzavano rumorosamente fra le acque.

Le rive del fiume erano sempre deserte. Da una parte e dall'altra non si scorgevano che gigantesche e fitte foreste che venivano a curvarsi nelle acque, qualche pezzo di terreno coltivato a durah in mezzo al quale andavano e venivano allegramente bande d'ippopotami affaccendati a saccheggiarlo, e assai di rado qualche capanna, e quasi sempre crollata o sfondata.

Alle due di notte sulla riva destra apparve il villaggio di Mahawir, attruppamento di capanne coniche e sede di una popolazione di barcaiuoli e pescatori la maggior parte dei quali si alleano agli arabi Abù-Ròf per esercitare la tratta degli schiavi a rubare ragazzi in questa o quella borgata. Daùd avrebbe voluto arrestarsi e confondere la sua darnas in mezzo a molte altre ancorate dinanzi al molo, ma la paura di venire scoperto e forse preso fra due fuochi lo decise a continuare il cammino.

Alle quattro, nel momento che l'alba cominciava a spuntare all'orizzonte, giunsero all'estremità settentrionale di Gez-Hagiba, isola assai allungata che divide il Bahr-el-Abiad in due grandi canali navigabili.

Possiamo arrestarci, disse Daùd a Omar. Abbiamo percorso già un bel tratto di via e sono persuaso che nessuno ci annoierà pel rimanente della notte. Domani, se sarà possibile, chiederò informazioni più precise sulla via presa da Dhafar pascià.

—Non temi adunque che il greco c'insegua?

—No, per ora. Del resto abbiamo su di lui un vantaggio di oltre quarantacinque miglia.

In quel momento si udì in lontananza una scarica di fucili seguita da un grand'urlìo. Omar prese le mani di Daùd stringendogliele fortemente.

—Hai udito? gli chiese con vivacità.

—Sì, rispose il reis.

—Chi credi che siano?

—Non lo so.

—Che sia il greco?

—Non lo credo. Siamo distanti non troppe miglia da Mahawir e potrebbe darsi che questa scarica sia stata sparata nel villaggio.

—Ma queste grida?…

—Hai ragione, mi parvero vicine. Forse saranno state emesse da qualche banda di Abù-Ròf. Adesso che ci penso, potrebbe trattarsi dell'attacco di qualche carovana che costeggia il fiume. Tu sai già che siamo in un paese di ladroni.

Omar crollò la testa. Una seconda scarica di fucili s'udì accompagnata da grida selvagge. Fathma uscì dalla tettoia correndo verso i due negri.

—Che succede? chiese ella con voce visibilmente alterata. Siamo inseguiti?…

—Non ispaventarti, sorellina, disse Daùd colla maggior calma del mondo. Tirano delle fucilate e nulla di più.

—Non ho mai avuto paura, Daùd, disse con fierezza l'almea. Se corriamo un pericolo puoi parlare liberamente; non farò altro che prendere il fucile e battermi a fianco dei tuoi uomini.

—Lo so che le arabe sono intrepide.

—E dunque?

—Per ora non sappiamo nulla.

—Non ti pare prudente riprendere la navigazione?

—Se ci inseguono ci raggiungeranno lo stesso. È meglio rimanere qui anzichè correre: il rischio di venire assaliti nelle vicinanze di Woad-Scelai. Gli abitanti del villaggio potrebbero moschettarci.

—Ohe! gridò un sennarese dall'alto dell'albero di maestra.

—Guarda una dahabiad che corre su noi!

—Per la barba di mio padre! esclamò Daùd, saltando verso poppa. Che sia proprio il greco?

Si slanciò sul cassero, seguito da Fathma, da Omar e da mezzo equipaggio. A seicento passi da poppa essi scorsero una dahabiad grandissima che saliva il fiume a vele e a remi. Sul ponte vi erano parecchi uomini vestiti di bianco e armati di fucili colla baionetta inastata.

Daùd impallidì leggermente e la sua destra corse all'impugnatura dell'jatagan.

—Per Allàh! mormorò egli con ispavento. Chi sono essi?….

—Il greco! esclamò Fathma.

—Lo vedi? chiese Omar.

—Sì, eccolo là a prua… È lui, Omar, è lui.

—Tuoni di Dio! Come si è svegliato?…

—Chi va là? gridò una voce partita dalla dahabiad.

—Che nessuno risponda, comandò Daùd. Prendete i fucili e stendetevi sul cassero. Tre uomini al cannone!

I barcaiuoli in men che si dica s'impadronirono dei fucili e si sparpagliarono pel ponte e pel cassero nascondendosi dietro a tuttociò che poteva offrire un riparo contro le palle del nemico. Tre di loro, i più abili e i più coraggiosi si gettarono sul cannoncino che fu puntato sulla dahabiad; la miccia venne accesa.

—Calma e coraggio, disse Daùd. Tu, Omar, rimarrai al mio fianco pronto a comandare l'abbordaggio se il nemico arriva fino a noi, e tu, Fathma, ritirati sotto la tettoia. Per prenderti bisogna che passino sui nostri corpi.

L'almea si rizzò fieramente con gli occhi accesi.

—Io qui rimango, diss'ella. Voi vi battete per me e io mi batterò per voi.

—Ma la pugna sarà forse tremenda. Vi saranno dei cadaveri e del sangue.

—E credi tu che la Favorita del Mahdi abbia paura del sangue? Ho assistito senza tremare al massacro degli 8000 egiziani di Yussif a Kadir e meno tremerò oggi che abbiamo a massacrare un pugno d'uomini.

Strappò un fucile dalle mani di un barcaiuolo e andò ad appostarsi dietro a una cassa, gridando:

—Tutti a posto di combattimento. Attenti al comando!

—Brava, Fathma! gridò Daùd entusiasmato. Noi ci batteremo al tuo fianco.

—Chi va là! chiese la voce di poco prima.

—Fathma! rispose l'almea senza esitare. Chi mi vuole si faccia avanti!

S'udì un urlo di gioia feroce alzarsi sulla dahabiad. Daùd e Omar si inginocchiarono ai fianchi dell'almea armando rapidamente i moschetti.

—Attenzione! gridò il reis.

La dahabiad di Notis era giunta allora a cinquecento passi di distanza e continuava ad avanzare a vela e a remi con gran furia. Una ventina di soldati egiziani invasero il ponte affollandosi sulla murata di prua e puntando i loro remington.

—Vedete quell'uomo che è ritto a prua? chiese Fathma alzando il moschetto verso di lui.

—Sì, dissero Omar e Daùd. È Notis.

—Ebbene, il primo colpo è destinato a lui. Che il Profeta mi punisca se io non l'abbatto.

—Fuoco! gridò in quell'istante una voce.

Si videro i soldati egiziani abbassare un dopo l'altro i remington in direzione della darnas. Un gran lampo ruppe le tenebre seguito da numerose detonazioni e dal crepitìo di legno che fendevasi sotto la tempesta di palle. Un barcaiuolo che trovavasi a cavalcioni della murata di poppa occupato a caricar il suo moschetto, precipitò nel fiume.

—Fermi tutti! urlò Daùd, vedendo che alcuni uomini correvano alle murate per cercar di pescare il compagno. È uomo morto. A te, Fathma!

L'almea balzò in piedi come una tigre, colla carabina in mano, slanciandosi a poppa.

S'udì una bestemmia alzarsi sulla dahabiad egiziana e fu visto un uomo aggrapparsi a una corda e sollevarsi sulla prua.

—Ira di Dio, è lei! esclamò quell'uomo.

—Sono io, Notis! gli gridò Fathma con inesprimibile accento d'odio.
Guardati che ti ammazzo!

Ella puntò verso di lui la carabina. Il greco cercò di scendere, ma s'avvide che non era più in tempo.

—Uccidetela! Uccidetela! urlò egli con voce spaventata.

Alcuni egiziani tirarono su Fathma, ma senza colpirla.

Ella premette il grilletto e Notis capitombolò sul ponte del suo legno, bestemmiando Dio e gli uomini e dibattendosi disperatamente in un lago di sangue.

—Sono vendicata! gridò Fathma. Fuoco sulla dahabiad. Daùd! Fuoco!

La darnas s'empì di fumo. I sennaresi s'alzavano dietro ai ripari scaricando le loro carabine. Gli egiziani che si erano radunati attorno al caduto, andarono sotto sopra, salvandosi dietro alle casse e ai barili, sparando a casaccio le loro pistole. Il cannone cominciò a tuonare schiantando l'albero di maestra che cadde con un gran fracasso sul ponte coprendolo per intero coll'immensa sua vela.

—Bravi, così, fuoco sull'altro albero! urlò Daùd. Ammazzatemi quelle canaglie spaventate, fracassatemi il timone, che vadano a sfasciarsi su qualche isolotto. Fuoco, perdio, fuoco nutrito! Evviva Fathma!

L'albero di trinchetto precipitò come l'albero maestro, rompendosi in due pezzi. Una confusione indescrivibile non tardò a succedere sul ponte della dahabiad che incominciava a indietreggiare, minacciando di arenarsi sulle isole sabbiose. Si comandava, si gridava, si bestemmiava, si sparava e gli uomini cadevano a due a tre alla volta. Parecchi feriti urlavano di già sul ponte, contorcendosi fra i rivi di sangue, sepolti fra i rottami dell'attrezzatura e sotto le vele.

I sennaresi, visto che i nemici non erano più in grado di rispondere, erano saltati fuori dai nascondigli e bersagliavano con una precisione terribile tutti quelli che commettevano l'imprudenza di mostrarsi. Tre o quattro di loro si erano messi al cannone e avventavano tremende scariche di mitraglia che spazzavano da un capo all'altro la barca nemica aprendo larghe fessure nei madieri e schiantando le murate.

Per dieci minuti gli egiziani si lasciarono moschettare perdendo parecchi di loro, ma a poco a poco la calma si ristabilì a bordo della dahabiad. Improvvisata a prua una barricata coi rottami degli alberi e colle casse e le botti, cominciarono ad avanzare a forza di remi rispondendo gagliardamente al fuoco dei sennaresi, mostrando l'idea di venire ad un abbordaggio e quindi ad un combattimento a corpo a corpo.

—Ah! razza di cani! esclamò Daùd, afferrando una scure. Avete del sangue nelle vene! Olà, attenti ad ammazzare il primo che dà l'abbordaggio. Se arrivano sul ponte noi siamo perduti.

—Tutti a poppa! gridò Fathma che caricava e scaricava la sua carabina tenendosi ritta in mezzo al cassero. Attenti all'urto! Al cannone, al cannone!

Fra i due legni s'impegnò una terribile pugna. I sennaresi, che avevano tutto da temere dall'abbordaggio degli egiziani, superiori assai di numero, si precipitarono come un sol uomo a poppa aprendo un foco infernale coi fucili e colle pistole. Il cannone manovrato da Omar ricominciò a tuonare a mitraglia, sconquassando la barricata degli egiziani.

Con tutto ciò la dahabiad procedeva sempre a balzelloni, urtando spesso contro le isole sabbiose. Spinta innanzi con tutta velocità, andò finalmente a cozzare furiosamente colla prua contro la poppa della darnas.

S'udì uno scriscio formidabile che fu subito coperto dalle detonazioni delle armi da fuoco e dalle grida dei combattenti. Gli egiziani incoraggiati dalla voce del loro reis, cercarono di salire sul ponte della darnas, ma si trovarono dinanzi i sennaresi con a capo Omar, Daùd e Fathma. I primi che salirono caddero sotto le loro scuri e i loro jatagan; gli altri dopo di aver tentato di resistere a colpi di baionetta, si ripiegarono in massa a poppa, dove più di un terzo caddero sotto una scarica di mitraglia sparata a bruciapelo.

Il ponte si coprì di cadaveri e di feriti. La dahabiad abbandonata a sè stessa, senza alberi, senza remi, col timone fracassato e la prua tutta sconquassata e sdruscita, si sbandò sul tribordo crepitando e si allontanò rasentando gl'isolotti e solcando i bassi fondi ingombri di piante acquatiche.

Per qualche tratto fu visto arrestarsi or qua e or là vibrando di bordo, poi sparve da una svolta del fiume. S'udirono ancora in lontananza grida, comandi, bestemmie, gemiti, detonazioni, poi il silenzio tornò, rotto appena appena dal gorgoglìo della corrente che si rompeva sulle sabbie dei banchi.

CAPITOLO VII.—Gl'insorti.

Respinti gli egiziani, medicati in furia i feriti che fortunatamente non oltrepassavano la mezza decina e riparati alla meglio i danni sofferti dalla darnas, Daùd radunò attorno a sè i suoi uomini per consigliarsi su quello che dovevasi fare. Quantunque avessero la sicurezza che Notis era morto o almeno gravemente ferito e che la dahabiad fosse stata ridotta in uno stato deplorevole, avevano paura che i superstiti riuscissero a guadagnare il villaggio di Mahawir e che lì organizzassero una seconda e assai più forte spedizione. Questa supposizione decise i sennaresi a sciogliere le vele e rimmettersi prestamente in viaggio prima che capitassero altri malanni anzi alcuni proposero di cacciarsi nel braccio sinistro del fiume onde evitare di passare dinanzi al villaggio di Woad-Scelai che trovasi sulla riva del braccio destro, proposta che fu dal reis accettata.

Alle quattro del mattino la darnas lasciava l'ancoraggio, inoltrandosi nel canale formato dall'isola di Gez-Hagiba, qua e là cosparso di banchi sabbiosi e di isolette boscose sulle quali russavano fragorosamente bande d'enormi ippopotami e sonnecchiavano mostruosi coccodrilli. I barcaiuoli per meglio dirigere la navicella, diedero mano ai remi, misurando la battuta con un canto monotono che il reis di quando in quando intonava.

Erano pochi minuti che navigavano, quando in lontananza si udirono fragorose scariche di fucili e urla indescrivibili che andavano man mano crescendo d'intensità. Daùd, Omar e Fathma che si trovavano a prua segnalando i bassi fondi, furono presti ad accorrer a poppa per vedere di che si trattava. In sulle prime non distinsero nulla, ma poco dopo, ad un miglio di distanza, videro alzarsi al disopra degli alberi una grossa nube di fumo biancastro.

—Oh! fe' Daùd, crollando la testa. Quello là è fumo di fucilate. Cosa mai succede laggiù? Che accada un combattimento?

—Pare di sì, disse Fathma. Odi queste grida? Se non m'inganno sono grida di guerra.

—Forse sono due tribù che si scannano, osservò Omar. La guerra dura eterna in questi luoghi.

—Per Allàh! esclamò Daùd battendosi la fronte. Attaccano la dahabiad degli egiziani. Deve essersi arenata su qualche isolotto a un miglia di qui, ne sono sicurissimo, poichè non potevano più dirigerla.

Amici miei, la fortuna c'è ancora una volta propizia.

—Ma chi vuoi che attacchi dei soldati egiziani?

—Gl'insorti, Omar, i guerrieri di Mohamed Ahmed. Non hai udito un'ora fa, prima che venissero assaliti, una scarica di fucili? Erano i ribelli che pigliavano a moschettate la dahabiad.

—Vuoi che gl'insorti si sieno spinti di già fino al Bahr-el-Abiad?

—E perchè no? Da El-Obeid al Nilo non vi corre una grande distanza. Eppoi, tutto il paese è insorto e le popolazioni si mettono in campagna da un'ora all'altra.

—Non vi sono inglesi adunque da queste parti? chiese Fathma.

—Sì, ho udito dire che il colonnello Coetlegan, con un corpo ragguardevole di egiziani, si aggira sulle rive del Nilo, passando or qua e or là per tenere lontani i ribelli, ma non può essere dappertutto. Vi dico io che i guerrieri del Mahdi attaccano la dahabiad.

—Allora corriamo pericolo anche noi di essere assaliti.

—Sì, se non ci spicciamo a salire il fiume. Per fortuna la darnas è abbastanza solida per affrontare delle fucilate e siamo ancora in buon numero per rispondere all'attacco.

—Zitto, state a udire, disse Fathma.

Ognuno zittì e tese gli orecchi. Le scariche di fucili cessarono tutto d'un tratto e così pure le grida di guerra degli insorti, ma un momento dopo nuove urla echeggiarono per l'aria, ed erano disperate, strazianti, come di persone che vengono assassinate. Daùd involontariamente rabbrividì.

—Gli hanno scannati! mormorò egli con ispavento.

Un sorriso sinistro increspò le labbra di Fathma.

—La vendetta è completa, diss'ella freddamente. Se Notis non era morto, ora lo è. Il Profeta ha esaudito i miei voti.

—L'odiavi ben terribilmente, Fathma.

—L'odiavo a morte, Daùd. Or che lui è morto non mi resta che Elenka da combattere, e per quanto sia feroce e forte, io la infrangerò. Si tratta di sapere ora dove Dhafar pascià l'avrà condotta.

—Noi lo capiremo, padrona, disse Omar, e fra non molto. Il campo egiziano, quando io disertai, era situato a sei o sette miglia da qui. È probabile che noi abbiamo a trovare qualche arabo che ne sappia qualche cosa.

—E se non lo trovassimo?

—Scenderemo fino all'isola di Tura-el-Chadra, giacchè abbiamo preso questo braccio del fiume, e andremo a Keranek dove mi si disse che si aveva accampato Hicks pascià. Andiamo, Daùd, di' ai tuoi uomini di allungare la battuta, prima che gl'insorti abbiano a raggiungerci. In questi luoghi spira vento poco buono per noi.

—Hai ragione, Omar, rispose il reis.

Emise un grido gutturale e intonò a mezza voce la seguente strofa:

«Quando la donna bianca cammina, la terra toccata da' suoi piedi mette odor di muschio».

I barcaiuoli subito dopo allungarono la battuta dei remi, raddoppiando la forza e rispondendo festevolmente:

Elissa!

La darnas sotto quei vigorosi colpi accelerò la corsa, fendendo rumorosamente l'acqua coll'affilata prua e lacerando le grandi distese di piante di loto che formavano inestricabili reti fra i banchi subacquei.

Cominciava allora ad albeggiare all'oriente e permetteva ai naviganti di osservare le due rive della gran fiumana, magnifiche sì, ma affatto deserte. Non un villaggio, non un tugul, non una zeribak, ma invece grandi e pittoresche foreste che si curvavano sulla corrente e ai loro piedi, immerse in parte nell'acqua, grandi piantagioni di papiri, i famosi papyrus degli antichi, piante alte dai due ai tre metri, grosse come un braccio d'uomo, ristrette superiormente e terminate da un ombrello amplissimo, elegante, formato da otto larghe foglie spadiformi ornate di bellissimi fiori bianchi. Gli egiziani, cui danno il nome di berb, se ne servivano anticamente per fabbricare la carta da scrivere colle lamine della corteccia, intrecciando il fusto in forma di tessuto, facevano vasi superbi colle lunghe e striscianti radici, costruivano barche che incatramavano e, secondo Plinio, ricavavano persino vestimenta e vele colla corteccia interna tessuta.

Di quando in quando dalle foreste uscivano svolazzando rapidamente bellissime ibis religiose, uccelli grossi come polli, colle penne bianchissime ma orlate di nero alle estremità delle ali ed al collo, muniti di lunghissimi becchi ricurvi di cui se ne servono per pescare i molluschi o i vermi delle rive del Nilo. Talvolta invece uscivano bande di pellicani grossissimi, con brevi gambe, forti ali, coda rotonda becco enorme la cui mandibola inferiore ha la figura di due branche e che sostiene una specie di sacco formato da una membrana sottile, nuda, che serve a loro di deposito per collocarvi il pesce pigliato. Ve n'erano delle centinaia sui banchi, di questi uccelli, occupati a spennacchiarsi e facendo un baccano del diavolo.

Per tutto il dì la darnas continuò a navigare costeggiando ora le due grandi isole che dividono il fiume in due bracci distinti, il vero Bahr-el-Abiad e il Ch-el-Ale, sperando sempre di scorgere qualche posto di egiziani dell'esercito di Dhafar pascià, ma senza nulla trovare.

Verso le sei della sera, con buon vento giunse nelle vicinanze della costa meridionale dell'isola Tura-el-Chadra, all'est della quale sorge il villaggio di Duêm. Fathma avrebbe voluto scendere a terra per vedere se potevasi trovare qualche barcaiuolo o qualche contadino e interrogarlo sulla direzione presa da Dhafar, ma Omar, che temeva e non a torto, che nelle vicinanze accampasse qualche banda d'insorti, credette bene di opporsi e di tirare innanzi.

La notte non tardò a scendere con quella rapidità che è propria nelle regioni equatoriali, avvolgendo in un nero manto le boscose rive dalla fiumana. Daùd, che non si sentiva del tutto tranquillo, fece spiegare tutta la tela che era a bordo per non essere raggiunto da qualche canotto di insorti che poteva tenersi celato fra i papiri o le canne e si mise in persona alla ribolla del timone dopo di aver fatto caricare il cannone e portare armi e munizioni in coperta.

Erano le dieci di sera. La luna si alzava scialba scialba dietro le montagne di Arax-Kol, i cui picchi aguzzi apparivano al disopra delle foreste e un venticello fresco fresco corrugava la placida superficie delle acque e piegava con lieve mormorìo le canne e le grandi foglie dei papiri.

Sulle rive del fiume ruggivano, ridevano o urlavano leoni, jene e sciacalli che si dissetavano e in mezzo alla corrente scherzavano giganteschi coccodrilli spruzzando la darnas colle possenti loro code. D'improvviso in distanza echeggiò un gran grido rauco, selvaggio, ma umano. Si avrebbe detto un segnale, un richiamo, un grido d'allarme.

Daùd e i barcaiuoli appena uditolo si erano tutti alzati scrutando attentamente le rive del fiume. Presentivano istintivamente che qualche pericolo li minacciava.

Passarono sei o sette minuti, poi quel grido tornò a ripetersi, più vicino, più forte, più vibrante facendo cessare d'un subito il concerto orribile delle belve attruppate sulla riva. Il reis si affrettò a portarsi a prua dove s'incontrò con Omar che stava armando la sua carabina.

—Hai udito? chiese il sennarese a bassa voce.

—Perfettamente. Daùd, rispose il negro.

—Che ne dici?

—Che quel grido fu un segnale.

—Degli insorti?

—Ho tutte le ragioni per crederlo mandato da qualche sentinella degli insorti. Stiamo attenti, Daùd che possiamo venire attaccati.

—Se ritornassimo?

—Gl'insorti ci attaccheranno egualmente, ne sono sicuro. Tiriamo invece innanzi più rapidamente che ci è possibile, Se possiamo giungere all'estremità sud dell'isola potremo salvarci a Keranek che non dista che poche miglia dalla riva sinistra del fiume e una volta…

—Taci! disse improvvisamente il reis. Odi?

Omar tese l'orecchio. Sulla riva sinistra si udiva il cigolìo monotono ed insieme lamentevole che fanno le ruote dei mulini girando sui consunti perni ed un muggito di buoi. Quasi subito, ad una svolta del fiume, apparvero tre o quattro ruote gigantesche in movimento.

—Vi sono delle zacchie, disse Omar. Allora vi sono dei guardiani.

Infatti erano quattro zacchie che inaffiavano dei campi di durah. Queste zacchie, che sono numerosissime sulle rive del Nilo, consistono in una ruota perpendicolare alla quale sono attaccati con corde moltissimi vasi di terra. Ogni ruota comunica con un'altra orizzontale fornita di un grosso perno mosso dalla forza di due tori che girano scambievolmente dì e notte su di un impalcato di legno cosparso di terra. Gli Egiziani e i Sennaresi amano molto il cigolìo di queste ruote, prodotto artificiosamente con un miscuglio di grasso e di carbone pesto e apprezzano le zacchie che cigolano forte poichè tengono sveglio il ragazzo che vigila sui tori, quindi queste non si fermano, e allontanano gl'ippopotami che potrebbero ucciderli. Hanno anche premura che il cigolìo continui sempre poichè credono che se cessasse, cesserebbe pure la vita del proprietario.

La presenza di quelle zacchie che continuavano a girare cominciava a rianimare i barcaiuoli, i quali supponevano che il grido udito fosse stato mandato da uno dei guardiani. Omar già stava per chiamare uno di quegli uomini per chiedere che significasse quel segnale, quando un urlo prolungato, straziante, ruppe il silenzio che regnava sul fiume. Qualche cosa di grande e di nero cadde nell'acqua sollevandola a grande altezza. Quasi subito si videro i coccodrilli nuotare in furia verso la riva sinistra e li udirono chiudere le grandi mascelle con un rumore analogo a quello che fa un cassone chiudendosi.

—Oh! fe' Omar che cadeva di sorpresa in sorpresa. Che diavolo succede?

Un altro grido scoppiò poco dopo seguito da un altro tonfo. Altri coccodrilli che sonnecchiavano sui banchi di sabbia, si slanciarono in acqua nuotando verso le zacchie. Tutti i barcaiuoli, ansiosi e un po' sgomentati, si precipitarono a tribordo coi fucili in mano, cercando di indovinare ciò che succedeva sulla riva sinistra.

—Che succede? chiese una voce calma dietro a Omar.

—Ah! sei tu padrona? disse lo schiavo riconoscendo Fathma.

—Sì, che significano queste grida e questi tonfi?

Omar in poche parole la mise al corrente dell'accaduto, esponendo i suoi timori sulla probabile vicinanza degli insorti.

—Credi tu che queste grida provengano dai guardiani delle zacchie? domandò l'almea quando egli ebbe finito.

—Sì e temo che quei corpi gettati nel fiume e che i coccodrilli stanno disputandosi, non siano altro che quelli dei poveri diavoli assassinati.

—Allora corriamo un serio pericolo.

—Sicuro, padrona, ed è per questo che non sappiamo se avanzare o dare indietro, disse Daùd. Che faresti tu?

—Andrei innanzi, rispose Fathma senza esitare. Non ho paura dei ribelli.

—E così sia; sforzeremo il passo.

Non aveva ancora finito l'ultima parola che un baccano spaventevole scoppiò sulla riva sinistra. Era un misto di urla, di fischi, di abbaiamenti, la più spaventevole cacofonia insomma, che mai abbia ferito l'orecchio umano. Sei o sette fuochi s'accesero comunicandosi alle zacchie che in un batter d'occhio furono in preda alle fiamme e al chiarore rossastro di quegli incendi furono visti grossi attruppamenti di negri imboscati fra le piante di durah e fra i papiri.

—Attenzione! gridò Daùd, balzando indietro.

Una scarica formidabile partì dalla riva seguita da urla ancora più formidabili; una grandine di palle cadde sibilando sulla darnas forando le vele, recidendo le corde, colpendo coloro che non avevano avuto il tempo di ripararsi dietro la bordatura.

—Fuoco! tuonò la voce di Fathma.

La darnas s'infiammò come un cratere. Al crepitar della fucilata si unisce il rimbombo del cannone che tira a mitraglia contro le ardenti zacchie e contro gl'insorti che le circondano. S'odono urla di dolore, bestemmie, comandi precipitati, tonfi di uomini che colpiti a morte cadono nel fiume. I coccodrilli si gettano confusamente verso la riva presso la quale galleggiano numerosi torsi d'ebano già resi immobili od ancora in preda a spaventevoli convulsioni.

—Ai remi, ai remi, grida Daùd.

Alcuni barcaiuoli, sfidando il fuoco degli insorti che cresceva terribilmente, si slanciarono ai remi, ma caddero a mezzo ponte. La darnas, abbandonata a sè stessa per la morte del timoniere, girò di bordo e andò ad arenarsi colla prua contro un isolotto. L'urto che accadde fu così violento che gli alberi si spezzarono cadendo colle immense loro vele. Due barcaiuoli rotolarono sul ponte colle teste sfracellate.

Sulla darnas regnò in breve la confusione. I barcaiuoli, perduto il loro sangue freddo, si slanciarono a poppa coll'intenzione forse di abbandonare la barca e salvarsi sulla riva opposta, ma il fiume era pieno di coccodrilli venuti da tutte le parti per prendere parte a quell'orgia di carne umana, di più la fucilata dei ribelli continuava terribile, lacerando l'aria per ogni dove.

—Mille saette, tutti a prua! urlò Daùd. Tutti a prua, cani di barcaiuoli!

—A prua! a prua! ripetè Fathma, che rispondeva bravamente al fuoco del nemico.

I barcaiuoli compresero il pericolo e ritornarono dietro la bordatura di prua, riparandosi meglio che era possibile. Era tempo.

Gl'insorti, vista la darnas arenata, si erano gettati tutti in acqua fugando i coccodrilli a colpi di lancia e si arrampicavano a dozzine sui banchi sabbiosi portando seco enormi travi colle quali speravano di sfondarla. La fucilata, interrotta, ricominciò ancora più furiosamente, serrata, implacabile, mortale.

La mitraglia fischiava sollevando le acque, scarnando orrendamente coloro che venivano tocchi dai proiettili; il sangue correva a torrenti e arrossava le onde del Nilo. Le canne dei fucili scottavano: erano ardenti.

I ribelli arrivano a decine, a dozzine, a ventine, a trentine, agitando freneticamente le scimitarre, le lance, le mazze, i fucili, sfidando imperterriti il fuoco infernale della darnas e cercando di arrampicarsi sul bordo urlando a chi più può. I barcaiuoli, ai quali l'imminenza del pericolo infondeva un disperato coraggio, si difendevano strenuamente coi fucili, colle pistole, cogl'jatagan, colle scimitarre, colle scuri e persino coi remi, martellando, puntando, forando, schiacciando, tagliando in piena carne. Daùd, Omar e l'intrepida Fathma colle scimitarre in pugno troncavano tutte le mani che cercavano di aggrapparsi al bordo della darnas e spaccavano orribilmente le teste che s'alzavano verso di essi.

Era una carneficina, uno spaventevole massacro che la luce rossastra delle zacchie in fiamme rendeva ancor più orribile. I barcaiuoli, anneriti dalla polvere, madidi di sudore e di sangue che colava dalle ferite, non potevano più far fronte a quell'onda di ribelli che ingrossava ad ogni istante e che si precipitava ciecamente all'assalto mugolando come una banda di tigri. Già più che mezzi sfiniti, esangui, avevano abbandonato il posto ed erano caduti sul ponte rantolando, quando un cozzo formidabile avvenne a prua.

La darnas, spinta all'indietro da una forza irresistibile, lasciò il banco e tornò a galleggiare, indietreggiando. Una trave avventata da quindici o venti uomini uniti, l'aveva percossa sotto la ruota di prua schiantando due o tre madieri; tutti i barcaiuoli, perduto l'equilibrio, caddero sul ponte fra le urla indescrivibili dei negri che non ardivano gettarsi in acqua ove nuotavano sempre numerosissimi coccodrilli occupati a rimpinzarsi della carne dei cadaveri.

Quando si rialzarono per accorrere ai remi un gridò d'angoscia sfuggì da tutti i petti. La darnas, spezzata a prua dalla spaventevole botta, imbarcava enormi getti d'acqua, affondando rapidamente!

CAPITOLO VIII.—La zattera.

La situazione era disperata, spaventevole: s'avvicinava una tremenda catastrofe. La darnas, colla prua sfondata, il timone schiantato, senz'alberi, senza vele, andava disordinatamente alla deriva virando da babordo a tribordo sotto il fuoco infernale degli insorti, che vista la preda sfuggire, urlavano furiosamente. L'acqua entrava a gran flotti dalla falla, fischiando fortemente e invadeva a poco a poco il ponte sul quale cercavano di issarsi a colpi di coda mostruosi coccodrilli colle mascelle spalancate.

Per alcuni momenti a bordo della darnas regnò una confusione indescrivibile. I barcaiuoli, ridotti a soli sette, più o meno feriti, pazzi dal terrore, si erano rifugiati a poppa invocando disperatamente Allàh e Mohamed, aggrappandosi ai rottami delle antenne e degli alberi, sordi alle minacce e alle preghiere di Fathma, di Omar e di Daùd che avevano conservato il loro sangue freddo anche in terribile frangente. La paura però di cadere nelle mani degli insorti che seguivano la darnas saltando d'isolotto in isolotto; la paura di trovarsi nell'acqua fra la banda dei coccodrilli che non avrebbe mancato di gettarsi su di loro e le percosse e le minaccie dei loro capi, li decisero di ritornare a prua per cercare di arrestar l'acqua che non ristavasi dall'entrare.

Ognuno si munì del primo mastello che trovò sotto mano e si mise a vuotare il liquido elemento che erasi alzato di già d'un mezzo piede. Daùd, a rischio di ricevere una dozzina di palle, salì sul tetto della rekuba che formava il cassero della darnas vi prese un barile e lo incastrò fortemente nella spaccatura della prua. L'affondamento si arrestò.

—Bene! esclamò il bravo reis. Ai remi, Omar ai remi colla tua padrona! Bisogna guadagnare a qualsiasi costo la riva opposta. Su, voi altri, vuotate per la barba di mio padre! Vuotate tutti, vuotate!

Omar e Fathma si slanciarono ai remi, l'uno a babordo e l'altra a tribordo e si misero ad arrancare con tutte le loro forze allontanandosi lentamente dalle isole e isolette sulle quali vociferavano e sparavano gl'insorti, ingrossati di numero.

Mezzo fiume era stato di già attraversato quando avvenne un urto. La poppa si drizzò su di un banco subaqueo incagliandosi profondamente nelle sabbie o nel fango, e la prua, abbassatasi per l'inclinazione affondò. S'udì un urlo terribile emesso da sei o sette voci. I barcaiuoli, perduto l'equilibrio, capitombolavano con Daùd nella corrente, andando a ridosso della banda dei coccodrilli.

Fathma e Omar, abbandonati i remi, si slanciarono verso prua in soccorso dei loro disgraziati compagni, ma era troppo tardi. I coccodrilli, spalancate le enormi mascelle, si erano di già gettati sulla preda insperata e cominciavano il banchetto. Per tre o quattro minuti si videro i sennaresi lottare disperatamente gettando urla strazianti, poi scomparvero fra le onde insanguinate. Alla superficie dell'acqua non risalirono che pochi brandelli di carne ancora palpitante, qualche membro smozzato e qualche testa frantumata che la corrente portava attraverso le scogliere e le galleggianti foglio del loto sacro.

Fathma e Omar, inorriditi dallo spaventevole dramma svoltosi lì per lì sotto i loro occhi, si erano arrestati a mezzo ponte, tenendosi fortemente per la mano, girando gli sguardi smarriti sul fiume rosso di sangue in mezzo al quale nuotavano ancora i coccodrilli disputandosi furiosamente gli ultimi avanzi degli sventurati.

Un rauco singhiozzo lacerò la gola del povero negro.

—Daùd!… Daùd!… esclamò egli con voce rotta.

Vi risposero le urla dei ribelli e le detonazioni delle loro armi da fuoco. Alcune palle fischiarono ai suoi orecchi conficcandosi profondamente sul ponte inclinato della darnas che continuava affondare.

—Daùd!… Daùd!… ripetè il negro.

Egli cercò di liberarsi dalla mano di Fathma per spingersi sulla prua.

L'almea invece lo trasse violentemente a sè.

—A poppa! a poppa! gridò ella. Affondiamo!

Infatti la prua si tuffava. La darnas s'inclinò con uno scricchiolìo sinistro, fremette, ondeggiò, poi spezzossi a metà con gran fracasso. La poppa si rialzò piegandosi su di un fianco e disarticolando la rekuba il cui tetto in gran parte si sfondò.

I due superstiti non pensarono più che alla propria salvezza, Aggrappandosi ai tronchi delle antenne e alle gomene che ancora pendevano dalle murate, aiutandosi l'un l'altro, sotto il fuoco dei ribelli che non cessava un sol minuto, guadagnarono il rottame fortemente incagliato, cacciandosi lentamente sotto la rekuba semi-sventrata.

I ribelli, che non lasciavano le isole, salutarono la loro scomparsa con una grandinata di lance affatto innocua.

—Coraggio Omar, disse Fathma che tremava malgrado il suo straordinario sangue freddo. Abbiamo assoluto bisogno di essere forti per lottare contro l'avversità che ci perseguita. Si direbbe che il Profeta congiura contro di noi e che protegge la rivale. Dimmi, che faremo ora, che non abbiamo più i mezzi per tirare innanzi e che i ribelli ci assediano?

—L'ignoro, padrona, balbettò il negro. Temo che per noi la sia finita.

—No, finita! esclamò Fathma con veemenza. Sono ancora troppo forte per arrendermi.

—Ma che volete fare? Non sappiamo più su di chi contare ora che tutti sono stati divorati. Ho dei terribili presentimenti che mi fanno perdere quel po' di coraggio che ancora mi resta.

—Se tu hai dei presentimenti devi scacciarli, Omar. Qui abbiamo bisogno di risolutezza, forza e coraggio per uscire da questa pericolosa situazione. Orsù, fatti animo, tutto ancora non è perduto.

—Che si deve fare? Se colla mia vita potessi salvarvi, potessi conservarvi viva al mio padrone, sarei pronto a perderla, ma pur troppo non gioverà a nulla. Maledetto Mahdi!

—Taci, non imprecare contro quell'uomo, disse Fathma, con voce alterata.

—Perdono, padrona, non mi ricordava più che…

—Basta così, parliamo invece di qualche cosa di meglio. Credi tu che tutti i Sennaresi siano stati divorati?

—Non ho veduto alcuno ritornare a galla, nè ho udito alcun grido d'aiuto dopo il primo assalto dei coccodrilli. Non bisogna contare più su di loro.

—Sta bene, disse freddamente l'almea. Non conteremo che sulle nostre forze. Dimmi, ora, credi che gl'insorti tenteranno di abbordare il rottame?

—Non lo credo. Il fiume è ingombro di coccodrilli e mi pare che anche gl'insorti abbiano paura. Potrebbe darsi però che costruissero delle zattere o che facessero venire dei canotti.

L'almea provò un brivido e impallidì leggermente.

—Che non si possa lasciare questa carcassa? si chiese ella con rabbia.

—In qual modo? Siamo proprio in mezzo al fiume. Il primo che ardisce tuffarsi cadrà inevitabilmente sotto le palle del nemico o sotto i denti degli anfibi.

—E se si costruisse una zattera?… E perchè no?

—Una zattera!… ah! la bella idea! esclamò Omar, picchiandosi fortemente la fronte. Abbiamo tanto legname quanto ci abbisogna e di più armi da tagliarlo e corde a nostro piacimento. Per Allàh! Se si potesse farla bella a quei cani d'insorti!

—Credi tu che affidandoci alla corrente verremo scoperti?

—Questo lo sapremo dopo. Il fatto è che bisogna allontanarsi prima che spunti l'alba e senza destare l'attenzione dei ribelli. Se ci vedono faranno cadere su di noi una tale pioggia di palle da fare dei nostri corpi un crivello.

—E i coccodrilli ci attaccheranno?

—Forse, ma ci difenderemo senza far troppo rumore. Dispenseremo colpi di scimitarra sui loro occhi o nelle loro gole. Andiamo a vedere come stanno le cose al di fuori, Fathma, e se l'oscurità è tanto fitta da impedire che quelli della riva ci scorgano.

Presi i fucili, Fathma e Omar tenendosi per mano guadagnarono la parete sfondata che guardava verso la riva sinistra, nascondendosi dietro un mucchio di rottami. Le zacchie ardevano ancora spandendo all'intorno una luce rossastra che illuminava sempre però più debolmente la corrente e i campi di durah. Dense nubi di fumo, miste a scintille, s'alzavano vorticosamente al di sopra dei crepitanti legni, ondeggiando capricciosamente qua e là a seconda che il vento soffiava.

Sulle isolette del fiume vociferavano più di due centinaia di ribelli cogli occhi fissi sul rottame. Alcuni erano immersi nell'acqua fino alle gambe e scagliavano di quando in quando qualche lancia che si fissava fortemente sul ponte inclinato del legno, altri invece si studiavano di guadagnare degli isolotti per avvicinarsi vieppiù, ed altri ancora si affaccendavano a costruire dei piccoli tugul di rami e foglie.

—Mi pare che quei birbanti abbiano intenzione di fissare la loro dimora su questi isolotti, bisbigliò Omar all'orecchio della compagna.

—Lo credi?

—Non vedi che stanno costruendo persino dei tugul. Essi calcolano di pigliarci colla fame, ne sono sicuro.

—E allora?

—Allora bisogna abbandonare il rottame più presto che sia possibile. La luna sta per nascondersi dietro a quella fascia di nubi, l'incendio sta per scemare e le stelle sono offuscate dalla nebbia della notte. Fra una mezz'ora vi sarà oscurità perfetta e potremo prendere il largo senza essere scorti.

—Quando è così fabbrichiamo la zattera. Allàh e il Profeta ci aiuteranno.

Essi ritornarono a poppa. Omar, salito sul capo di banda si lasciò discendere adagio adagio nel fiume tenendosi aggrappato ad una fune. Ben presto si trovò sul banco subacqueo coll'acqua fino alle ginocchia.

—Ci sei? chiese Fathma con un filo di voce.

—Sì, rispose il negro che tastava coi piedi la sabbia. Non vi è che mezzo metro d'acqua e il terreno mi pare sodo. Calami abbasso quanto legname puoi e quante fune trovi. Non fare rumore, sopratutto e non perdere di vista i ribelli.

—E i coccodrilli?

—Non ne vedo attorno al banco, eppoi ho la scimitarra. Il primo che vedo uscire dall'acqua e avvicinarsi a me gli rompo la testa. Orsù, affrettiamoci prima che l'oscurità sia perfetta.

I rottami non mancavano. Il tetto della rekùba costruito in legno, come già dicemmo, al momento dell'urto era in gran parte caduto e questo era sufficiente per costruire una zattera capace di sostenere due persone. Di più il ponte era ingombro di pezzi d'albero e di antenne fornite ancora di numerose corde.

Fathma data un'occhiata ai ribelli che bivaccavano parte sulla riva e parte sulle isole senza più darsi pensiero della darnas, si mise alacremente all'opera. Afferrò un pezzo di tetto e radunando tutte le sue forze lo trascinò a poppa e lo gettò sul basso fondo. Omar fu lesto ad afferrarlo e a montarvi sopra.

—Là, così va bene, mormorò il negro stropicciandosi allegramente le mani. Animo, Fathma, getta giù dei pezzi d'albero o d'antenna che formi lo scheletro della nostra imbarcazione. Giù, giù!

La speranza di scampare all'immenso pericolo che la minacciava, triplicava le forze dell'almea. Ella gettò a Omar sei o sette tronconi d'albero, tavoli, pezzi di murata, pezzi di rekùba e cordami in grande quantità. Il negro valendosi delle zacchie che ancora ardevano, tenendosi sempre riparato dietro poppa della darnas per non essere scoperto dai ribelli, in capo a mezz'ora costruì la zattera, lunga quattro o cinque metri e larga appena due, ma solidissima. Egli vi imbarcò due remi, due fucili, munizioni, due scimitarre, alcuni vasi di merissak del kèsra, (sorta di pane di durah cotto su di una lastra di pietra) e parecchie libbre di carne fritto nel burro che si conserva lungamente.

Aveva appena terminato che sulla riva opposta, si udirono degli schianti seguiti da fischi sonori. L'oscurità diventò profonda.

—Bene, mormorò il negro. Le zacchie hanno finito di ardere e i rottami sono capitombolati nel fiume. Presto, padrona, discendi.

Fathma non se lo fece dire due volte. Salì sul bordo, si aggrappò ad una fune e si calò lentamente sulla zattera che minacciava di rompere l'ormeggio sotto la spinta della corrente. I due fuggiaschi si sdraiarono sul ponte colla scimitarra dinanzi e i remi in mano.

—Coraggio, Fathma, disse Omar. Giuochiamo la nostra vita.

—Passeremo inosservati?

—Lo spero.

—Quale via terremo?

—Scenderemo il fiume fino a domani mattina. Sta attenta a respingere i coccodrilli che non mancheranno di assalirci.

—E perchè non approdiamo all'isola di Turà-el-Chadra? Siamo lontani appena duecento metri e si potrebbe, in dieci o dodici ore, giungere a Duên.

—Temo che i ribelli siano accampati nelle foreste e forse il borgo di Duên è caduto in loro mani. Lascia fare a me e vedrai che noi giungeremo più presto che lo credi nelle vicinanze di El-Obeid. Hicks e Dhafar devono accampare a poche miglia dalla capitale del Mahdi. Attenzione, padrona.

Il negro tagliò d'un colpo solo l'ormeggio. La zattera girò per alcuni istanti su se stessa, poi discese silenziosamente la corrente sfiorando a tribordo una larga zona di piante di loto.

L'oscurità era diventata allora profonda. Appena appena si scorgevano le due rive coperte di tenebrosi boschi ai cui piedi urlavano e ridevano atrocemente sciacalli e iene occupate a dissetarsi. I ribelli si distinguevano assai vagamente sdraiati sulle isole, quantunque qua e là ardessero dei fuochi a gran pena tenuti accesi sulle umide sabbie.

I due naviganti si misero a remigare nel più profondo silenzio guardandosi attentamente attorno; i loro cuori battevano di speranza e di timore, e non ardivano quasi quasi di respirare per paura di attirare l'attenzione dei loro nemici.

Avevano di già percorso quasi duecento passi quando la zattera urtò contro qualche cosa arrestandosi bruscamente. Nè l'uno nè l'altra ardirono muoversi.

—Che c'è, chiese sottovoce Fathma dopo qualche minuto d'angosciosa aspettativa. Ci siamo arenati?

—Zitto, disse Omar. Ora andrò a vedere. Tu non muoverti qualunque cosa accada.

Egli strisciò silenziosamente a prua e immerse un braccio nell'acqua. Egli sentì sotto mano un agglomeramento fitto fitto di piante acquatiche che impediva il passaggio.

—Bene, siamo dinanzi ad una barra, mormorò il negro.

Queste barre altro non sono che vaste distese di piante palustri che si formano sui fiumi africani e segnatamente sul Nilo cagionando lo stagnamento delle acque e quindi miasmi mortali. Non di rado queste barre si estendono per tre quattro e anche cinque chilometri, impedendo il transito persino ai battelli a vapore che solcano il Bahr-el-Abiad e il fiume delle Gazzelle.

Omar, appena si fu assicurato che non vi era mezzo di passare sopra quella barra, ritornò presso Fathma che non si era mossa.

—Padrona, diss'egli, bisogna deviare verso la riva sinistra. Abbiamo una barra che fiancheggia la riva destra.

—Deviare sulla riva sinistra! esclamò Fathma, Ma allora ci avviciniamo agli insorti e verremo scoperti.

—Potrebbe darsi, ma non vi è altra via da prendere. Chissà forse passeremo ancora inosservati; la notte è sempre oscura.

—Tutto congiura contro di noi; maledetta sorte!

—Allàh così vuole. Orsù, deviamo e cerchiamo di non far rumore. È carico il tuo fucile?

—Sì.

—Quando è così, andiamo avanti e che il Profeta ci protegga.

La zattera sotto la spinta dei due remi comincia a deviare lentamente radendo la barra, sulla quale alzavasi una nebbiolina carica di esalazioni pestifere. I due naviganti, curvi, taciti, in dieci minuti raggiunsero l'estremità di quel colossale agglomeramento di piante. Già stavano per virare di bordo ed entrare nella libera corrente quando sei o sette coccodrilli uscirono dalle piante avvicinandosi alla zattera. Il più ardito allungò le mascelle spalancate verso di loro cercando, con un formidabile colpo di coda, di issarsi sul ponte.

—Omar! mormorò Fathma che sentiva la zattera inclinarsi spaventosamente a tribordo.

—Sta zitta. Ci sono.

Il negro aveva afferrata la scimitarra. Egli scagliò una tremenda botta fra i due occhi del mostro che si inabissò rumorosamente sollevando una nube di spuma. Quasi subito una voce partì dall'isolotto più vicino, sul quale bivaccavano alcuni insorti.

—Ehi! gridò un arabo. Guarda laggiù in mezzo alla corrente!

—Che vedi? chiese un'altra voce.

—Che Allàh e il Mahdi mi puniscano se quella là non è una zattera.

—Ne sei sicuro? mi pare un rottame.

—Ho veduto qualcuno alzarsi, anzi mi parve di aver visto una scimitarra in aria. Non hai udito una botta e un tonfo?

—Infatti ho udito. Che siano gli uomini della darnas?

—È quello che noi vedremo; prendi il moschetto..

Fathma e Omar avevano distintamente udita la conversazione dei due ribelli. Spaventati avevano abbandonati i remi e si erano sdraiati sul ponte colle mani convulsivamente strette attorno ai fucili.

—Non muoverti, padrona, bisbigliò con voce tremante Omar.

—Non mi muoverò nemmeno se vengo ferita, rispose Fathma con voce ferma. Attento alle palle.

Non avevano ancora terminato che due detonazioni echeggiarono sull'isolotto. I due naviganti udirono le palle penetrare nel legname a pochi pollici dalle loro teste. Rimasero immobili, irrigiditi.

—Ah! esclamò uno dei tiratori. Sono due cadaveri gettati sopra di un rottame.

—Che stupidi a sprecare polvere e palle, rispose l'altro. Buon viaggio razza di cani! Che il diavolo vostro patrono vi conduca a salvamento.

I due ribelli ruppero in uno scroscio di risa e tornarono a sdraiarsi sulle sabbie. La zattera, mercè la corrente che era alquanto forte, in dieci minuti soli oltrepassò tutte le isole occupate dai nemici. I due naviganti, persuasi ormai di non correre più pericolo alcuno, afferrarono i remi e si misero ad arrancare disperatamente, percuotendo a destra e a sinistra, senza riserbo, i coccodrilli che li minacciavano.

Alle tre di notte giungevano sani e salvi alla foce di un largo corso d'acqua, affluente di sinistra del Bahr-el-Abiad, e che ha le sue sorgenti nelle vicinanze di Sciula. Essi vi entrarono salendolo per cinque o seicento metri.

—Alt! comandò Omar. Qui non corriamo più il pericolo di venire raggiunti. Abbiamo percorso più di quindici miglia e questa distanza mi pare sufficiente per essere sicuri di passare tranquilli il resto della notte.

—Che facciamo adunque? chiese Fathma. Approdiamo?

—Mai più. Abbiamo dei leoni e delle jene sulle rive. Questa notte ci ancoreremo qui e domani vedremo cosa potremo fare. Sdraiati, padrona, e cerca di dormire.

Egli impiantò profondamente il remo su di un bassofondo, vi legò saldamente la zattera, accese il scibouk e si sedette a prua col fucile sulle ginocchia. Fathma, affranta, si sdraiò sul ponte e non tardò ad addormentarsi, malgrado i ruggiti e gli scrosci di risa dei leoni e delle jene che vagolavano sulle boscose rive del fiume.

CAPITOLO IX.—Lo scièk Abù-el-Nèmr.

Erano le quattro del mattino quando Fathma si svegliò. Il sole alzavasi allora sull'orizzonte, rapidamente, versando torrenti di luce incandescente sul paese circostante che presentava un magnifico colpo d'occhio, tutto affatto speciale delle regioni dell'alto Nilo.

Il fiume scendeva tranquillo tranquillo descrivendo una gran curva, fra due magnifiche rive, coperte di superbi alberi, che si specchiavano quasi con civetteria nelle trasparenti acque, prolungando capricciosamente i loro rami sui quali andavano, venivano e saltellavano con sorprendente agilità numerose schiere di scimmie-leoni dal pelame cenerino azzurro, con una folta criniera affatto simile alla giubba dei leoni e il muso e le natiche d'un bel colore carneo.

Sugli isolotti sabbiosi sonnecchiavano pacificamente colossali ippopotami, grossi più dei rinoceronti, con testa enorme, muso assai rigonfio, nari larghe e sporgenti, gambe brevissime ma grossissime e la pelle cosparsa di rade setole e così grossa da sfidare le palle di fucile.

Alcuni di quei mostri talvolta si tuffavano con un fragore formidabile, portando sulla schiena i loro piccini grandi quasi quanto un bue e ricomparendo poco dopo nitrendo come cavalli.

Per l'aria volteggiavano invece stormi di fenicotteri, di pellicani, di ibis bianche e nere, di tantali, di anastomi, di pivieri e di falchi, che si incrociavano in mille differenti guise con un gridio incessante, precipitandosi di tratto in tratto nel fiume per uscirne quasi subito con un pesciolino nel becco.

Fathma e Omar, dopo di essersi rinforzati con una sorsata di merissak, visto che le rive erano deserte, s'affrettarono a spingere la zattera verso quella di destra e sbarcarono caricandosi delle armi, delle munizioni e di quanti viveri potevano portare.

—Dove andiamo? chiese l'almea, indecisa sulla via da prendere.

—Questo è il bello a sapersi, rispose Omar, imbarazzatissimo. A mio parere bisognerebbe guadagnare il villaggio più vicino per procurarsi dei cavalli o dei cammelli, senza i quali non riusciremo a raggiungere El-Obeid, Se ben mi ricordo a una quindicina di miglia da qui trovasi Sciula.

—Vi potremo entrare? Temo che i ribelli l'abbiano occupata.

—Lo so bene io, ma non c'è altra via da scegliere. Chissà forse i ribelli non l'hanno ancora assalita. Ad ogni modo ci avvicineremo con precauzione.

—La via sarà libera poi?

—È difficile saperlo. Sono certo che prima di giungervi incontreremo dei ribelli.

—La situazione nostra non mi sembra brillante.

—È quello che penso pur io, mormorò Omar sospirando. Mettiamoci nelle mani di Allàh che tutto può; è quanto ci resta da fare.

—Quando è così mettiamoci in cammino, disse Fathma risolutamente.
Arma il fucile e apri per bene gli occhi. Che Allàh ci protegga.

Essi salirono la sponda e s'inoltrarono coraggiosamente sotto le foreste, aprendosi a gran pena il passo fra quegli immensi vegetali, dai tronchi colossali i cui rami s'intrecciavano a perdita d'occhio come gli archi gotici di una cattedrale sconfinata. Regnava là sotto un caldo soffocante, una temperatura da stufa che toglieva il respiro e che faceva zampillare addirittura il sudore dalla fronte degli intrepidi viaggiatori. Un silenzio lugubre rendeva la marcia più penosa, più monotona.

Dopo di aver percorso più di un miglio, essi si trovarono dinanzi ad una foresta di baobab. Nulla di più meraviglioso della vista di questi giganti delle boscaglie africane, ai quali non si esita a dare una longevità di seimila anni, dal tronco sproporzionato che supera spesso i venticinque metri di circonferenza dai rami bassissimi ma immensi che formano da soli un boschetto picchiettato da capsule legnose che sembrano zucche, lunghe venticinque o trenta centimetri, di tinta verdognola, coperte di bianca peluria, e delle quali sono ghiottissime le scimmie.

Fathma e Omar si erano arrestati ai piedi di uno di quei colossi per prendere un po' di riposo, quando a sei o settecento metri lontano echeggiò improvvisamente una detonazione seguita poco dopo da un formidabile ruggito e da un grido straziante.

Scattarono simultaneamente in piedi coi fucili in mano, gettando un rapido sguardo all'intorno paventando di veder sbucare dai cespugli qualche banda di ribelli.

—Che è successo? chiese ansiosamente Fathma, riparandosi prudentemente dietro una fitta macchia.

—I ribelli forse! esclamò Omar che tremava, suo malgrado, verga a verga.

—No, ho udito il ruggito del leone.

—Ma la detonazione? E quel grido?

—Che sia stato qualche cacciatore?

—Non credo, disse Omar. Quale cacciatore può avventurarsi in queste foreste battute dalle orde del Mahdi? Fathma ripieghiamoci sul fiume prima che capitino malanni.

—Ripieghiamoci, ma sta bene attento. Vi sono dei pericoli in aria.

Stavano per ritornare nella foresta di palme e di tamarindi, quando udirono una voce lamentevole gridare ripetutamente:

—Aiuto! aiuto!…

—Fathma si fermò bruscamente stringendo forte forte il braccio dello schiavo.

—Vi è qualcuno in pericolo, diss'ella…

—Lascialo che muoia, rispose il negro. Che dobbiamo farci noi?…

—Forse quell'uomo non è un ribelle.

—Peggio per lui. Non possiamo esporre le nostre vite per soccorrere uno sconosciuto. Vieni con me Fathma, spicciamoci a guadagnare il fiume.

L'almea scosse il capo.

—Aiuto!… Aiuto!… ripetè la voce lamentevole.

—Non è possibile abbandonare così un povero uomo, Omar, disse Fathma. Accada ciò che vuole, io vado a soccorrerlo. Forse quell'uomo può esserci ancora di qualche utilità, forse… Vieni, io lo voglio!

Vi era tanta autorità in quel comando che Omar non ardì opporsi altro. Uscirono dalla macchia e si slanciarono di corsa verso il luogo ove erasi udita l'invocazione disperata.

Cinque minuti dopo giungevano in una piccola radura circondata da bauinie. Là in mezzo eravi un leone che si dibatteva nelle ultime convulsioni della morte, colla testa bruttata di sangue a pochi passi da lui stava sdraiato per terra un bel negro, di statura alta colle braccia e le gambe ornate di anelli d'oro, un ricco turbante ricamato d'argento sul capo e una farda rossa avvolta intorno al corpo. Gemeva lugubremente e colle mani stringevasi fortemente la gamba destra scarnata fino all'osso. Un torrente di sangue nero e spumoso sfuggiva a rapide pulsazioni dall'enorme ferita.

Appena egli scorse Fathma e Omar si rovesciò all'indietro raccogliendo un pistolone che puntò rapidamente verso di essi.

B'Allai! (perdio!) bestemmiò egli facendo fuoco.

La palla andò a forare il fez di Omar, un pollice appena sopra la testa. Fathma puntò il fucile verso il ferito.

—Se ti muovi ti ammazzo come un cane! diss'ella con un tono di voce da non mettere in dubbio la minaccia.

A quella voce il volto del ferito s'alterò. S'alzò bruscamente a sedere fissando l'almea con due occhi che fiammeggiavano.

—Fathma! esclamò egli con profondo terrore.

Il fucile sfuggì di mano all'almea.

—Fathma! mormorò ella sorpresa.

—Fathma! ripetè Omar, che cadeva dalle nuvole. Cosa vuol dir ciò?…

L'almea e il ferito si guardarono per alcuni istanti fissamente senza dir parola. La prima era sorpresa di udirsi chiamare per nome da quell'uomo che non aveva mai veduto; il secondo invece pareva sorpreso di non essere riconosciuto da quella donna che aveva veduta più di cento volte.

—Chi sei? chiese alfine Fathma. Come sai il mio nome?

Un sorriso apparve sulle labbra del ferito.

—Non mi conosci?

—Non mi ricordo d'averti veduto.

—Non sei tu Fathma l'almea?

—Non lo nego.

—Non sei stata tu a El-Obeid?

—Sì, disse sordamente l'almea. Vi fui.

—Non sei stata un tempo una donna potente? continuò il ferito che pareva avesse dimenticata completamente la sua gamba scarnata.

Il volto dell'almea s'alterò spaventosamente, burrascosamente. La sua fronte si aggrottò e i suoi occhi parvero incendiarsi.

—Lo fui, diss'ella dopo qualche istante di silenzio.

—Allora non m'inganno più. Tu fosti la favorita di Mohammed-Ahmed.

—Come tu sai questo? Chi te lo disse?

—Lo so perchè ti vidi cento e più volte quando io era guardiano dell'harem di Mohammed-Ahmed.

L'almea gettò un grido di spavento e di sorpresa e retrocesse vivamente.

—Chi sei?… Chi sei?… chiese ella tremando.

—Sono lo scièk Abù-el-Nèmr luogotenente del Mahdi, comandante gli insorti del Bahr-el-Abiad.

Omar aveva rapidamente puntato il fucile verso di lui.

—Ah! cane d'un ribelle! esclamò il negro.

L'almea con un brusco gesto abbassò l'arma, poi traendo una pistola e posando la fredda canna sulla fronte del ferito gli disse con calma glaciale:

—Abù-el-Nèmr, tu sei in nostra mano. Se tu giuri di farci uscire sani e salvi da questa foresta io ti guarisco, se tu invece rifiuti ti faccio saltare le cervella. Scegli!

—Perchè vuoi che io alzi la mano su chi fu un tempo la mia signora? disse dolcemente il ferito. Avrei paura che Allàh mi fulminasse. Comanda e io farò per l'antica favorita del Mahdi, tutto quello che ella vorrà.

—Grazie Abù-el-Nèmr, mormorò Fathma con voce commossa. Non credeva d'avere ancora degli amici fra i ribelli. Distendi la tua gamba ferita; io ti guarirò.

Lo scièk ubbidì. L'almea esaminò accuratamente la ferita che continuava a sanguinare. Era orribile: il leone con un potente colpo d'artiglio aveva lacerato la carne fino all'osso della coscia. Comprese subito che un ritardo di pochi minuti poteva riuscire funesto.

—Vammi a prender dell'argilla in quel fossatello, diss'ella a Omar, e raccogli un po' d'acqua fresca.

Il negro partì come un lampo e ritornò poco dopo con una grossa palla d'argilla grigiastra e morbida e una fiasca d'acqua. Fathma ravvicinò delicatamente le labbra della ferita, vi sovrappose un pezzo di tela bagnata, e coprì il tutto con un grosso strato di creta che impediva al sangue di trasudare. Tre o quattro foglie e alcune braccia di corda terminarono l'operazione. La gamba del ferito si trovò chiusa in una specie di manicotto ben legato.

Ora, diss'ella, bisogna lasciare il più presto possibile questa foresta e raggiungere qualche luogo abitato. Dove possiamo trovar gente?

—L'ignoro, rispose il ferito con voce debole, tergendo il sudore che colavagli abbondante dalla fronte. Ho lasciato da due giorni il campo e mi sono smarrito in questa foresta.

—Quale distanza corre dal fiume a Sciula?

—Meno di una giornata di cammino. Se tu mi conduci là troverò i miei guerrieri.

—Ma… e noi?

—Oh! non temere! esclamò vivamente lo scièk. Io sono il loro capo e sventura a colui che ardirà alzare una mano sopra di voi.

—Sta bene, ma come ti trasporteremo? Bisognerà costruire una barella.

—Ho il mio cavallo che deve pascolare nei dintorni, se non fu divorato da qualche leone.

—Chiamalo. Non bisogna perdere tempo; la febbre e forse il delirio fra poche ore ti assaliranno.

Abù-el-Nèmr accostò le mani alla bocca e mandò un lungo fischio. Quasi subito si udì un calpestìo precipitato e un cavallo comparve movendo sollecitamente verso il padrone.

Era questo un superbo corsiero, Abù-Ròf puro sangue, piuttosto piccolo, dalla fronte larga e un po' schiacciata, l'occhio vivo e intelligente, le nari molto aperte, orecchie piccole, corte, sottili, le ossa zigomatiche molto sporgenti, muso elegante, gambe secche e vigorose, petto sviluppatissimo e ventre assai ristretto che annunciava quella grande sobrietà che è propria degli animali dei deserti sudanesi.

Omar e Fathma sollevarono con molte precauzioni il ferito che non lagnavasi malgrado soffrisse atroci dolori e lo misero in sella. L'almea vi salì dietro sostenendolo fra le vigorose braccia e il negro prese l'animale per le briglie.

—Avanti, disse Fathma.

Essi si misero in viaggio percorrendo un largo sentiero che un tempo doveva essere stato una via per le carovane. Il ferito si lasciò sfuggire suo malgrado un gemito soffocato.

—Soffri molto? gli chiese l'almea.

—Un po' lo confesso, rispose titubando lo scièk. Il moto del cavallo mi fa orribilmente male.

—Appoggiati bene sul mio petto.

—Ah! esclamò il ferito. Quanto sei buona Fathma eppure sono un ribelle.

—Questo ribelle un tempo fu mio suddito, disse con voce commossa l'almea.

Il ferito si volse verso di lei e la guardò con tenerezza.

—Fathma, perchè hai abbandonato il mio signore che tanto ti amava e che ti avrebbe resa tanto potente?

—Non chiedermelo se non lo sai, disse con aria tetra l'almea.

—Fu la fatalità forse?

—Forse.

—Sai che quel giorno che tu sparisti io l'ho veduto piangere il mio
Signore?

La faccia dell'almea diventò ancor più cupa.

—Che fece egli quando io scomparii? chiese ella.

—Ti cercò per una settimana intera mandando guerrieri in tutte le borgate del Kordofan. Ti amava alla follia, e quando ritornarono senza che sapessero dire ciò che era accaduto di te lo vidi piangere come un bambino, lui, Mohamed Ahmed, l'inviato di Dio!

—Povero Ahmed, mormorò Fathma con un rauco sospiro. Fu il destino che mi spinse ad abbandonarlo.

—Ma che ti aveva fatto?

—Nulla.

—E allora?

—Non parliamo di ciò. Dimmi, mi si crede morta?

—No, Ahmed ha saputo che tu sei viva.

L'almea trasalì

—Chi glielo disse?

—L'ignoro, ma bada a me, Fathma, non farti più mai vedere in
El-Obeid. L'amore di Mohamed Ahmed si è cangiato in terribile odio.

—Mi guarderò da lui; d'altronde sarà difficile che mi si veda nella capitale del Kordofan.

—Dove vai adunque che scendi al sud?

—A unirmi all'armata egiziana.

—Tu!… tu cogli egiziani!… esclamò lo scièk con dolorosa sorpresa. Vedremo adunque noi la favorita del nostro signore, militare nelle file nemiche e volger il ferro contro i suoi antichi sudditi?

—No, non volgerò mai le mie armi contro gl'insorti, a meno che non mi costringano loro. Appena avrò raggiunto l'uomo che cerco e che avrò compiuta una vendetta che da due mesi aspetto, ritornerò per sempre al nord.

—Ah! tu hai delle vendette da compiere?

—Sono araba.

—Ma sai almeno dove puoi trovare Hicks pascià?

—No, ma lo troverò dovessi percorrere cento volte il Kordofan. Ah! se io potessi saperlo!…

—Lo vuoi proprio?

—Tu lo sai? Ah!…

—Sì Fathma, lo so, giacchè a noi nulla può sfuggire. Il 10 ottobre era giunto a Sange-Hamferid; ora si troverà nei dintorni di Kaseght. Il maledetto marcia rapidamente sulla capitale, ma Ahmed lo romperà e farà uno spaventevole massacro delle sue truppe, te l'assicuro.

—Grazie, Abù-el-Nèmr.

—Non ringraziarmi, Fathma. Forse questa indicazione ti riuscirà fatale.

—Perchè?

Lo scièk non rispose. Egli si curvò verso terra portando una mano all'orecchio e ascoltò attentamente.

—Alto! diss'egli raddrizzandosi.

Aveva appena terminato il comando che da ambo i lati del sentiero scoppiava un clamore spaventevole. Il cavallo, colpito da una lancia nella testa, cadde sulle ginocchia gettando a terra coloro che lo montavano. Una cinquantina di guerreri armati di lance, di sciabole e di mazze saltò fuori dalle macchie empiendo l'aria di urla feroci.

Omar e Fathma furono pronti a levarsi afferrando le pistole e la scimitarra, ma lo scièk, invece non si mosse. La caduta, la perdita del sangue e lo sfinimento l'avevano fatto svenire.

—Fermi tutti! gridò l'almea. Abbiamo con noi lo scièk
Abù-el-Nèmr!

Gl'insorti nell'udire il nome del loro capo si erano arrestati colpiti da stupore: ma questo stupore durò un istante. Essi circondarono Fathma e Omar e in meno che lo si dica li atterrarono strappando a loro le armi. Sei o sette si precipitarono sullo scièk; vedendolo a terra pallido come un morto ed immobile lo credettero assassinato.

Lo scièk è stato ucciso! gridò una voce. Ah! cani di arabi!

Tutti i ribelli si erano affollati attorno ad Abù-el-Nèmr urlando furiosamente. Un guerriero d'alta statura colle braccia armate di numerosi braccialetti d'oro e un ricco turbante sulla testa, s'inginocchiò accanto allo svenuto e lo esaminò attentamente per alcuni istanti.

—Chi ha ferito il mio capo? chiese egli, lanciando un'occhiata torva sui due prigionieri.

—Un leone, risposo Fathma senza perdersi d'animo.

—Tu menti, lingua di vipera, gridarono in coro gl'insorti digrignando i denti.

—Lo giuro su Allàh e sull'Alcorano. Noi l'abbiamo trovato ferito e lo medicammo, rispose l'almea!

—Non è vero disse il guerriero d'alta statura. Dove lo conducevi ora?

—Al vostro campo.

—Non è vero; tu volevi condurlo nel folto del bosco per assassinarlo a tuo comodo. Olà! miei prodi accendete un bel fuoco e abbruciamo questi arabi.

Omar e Fathma nell'udire quell'atroce comando, sentirono raggrinzarsi le carni e gelare il sangue nelle vene dallo spavento. Compresero di essere irremissibilmente perduti se lo scièk non tornava più che presto in sè.

—Prodi guerrieri! gridò l'almea con uno slancio disperato. Frenatevi, aspettate che Abù-el-Nèmr rinvenga, aspettate che egli parli, che egli solo ci giudichi. Noi siamo suoi amici, ve lo giuro, ed egli punirà orribilmente colui che avrà alzato la mano su di noi.

La sua voce invece di calmare gl'insorti parve che li eccitasse maggiormente. S'udì un solo grido tremendo, formidabile:

—Al fuoco gli arabi! A morte gli assassini dello scièk.

Ad un cenno del guerriero d'alta statura, che pareva fosse il sotto-capo, gl'insorti sollevarono con infinite precauzioni lo scièk che era sempre svenuto.

—Portatelo al tugul che trovasi in capo a questo sentiero, diss'egli, e voialtri accendete un bel fuoco e quando Abù-el-Nèmr ritornerà in sè gli mostreremo le ossa carbonizzate dei suoi feritori.

Il comando venne immediatamente eseguito. Lo scièk Abù-el-Nèmr fu collocato su di una specie di barella formata con lancie incrociate e gli altri si misero a schiantare alberi o raccogliere legne morte, formando una catasta colossale attorno ad una palma isolata.

Il supplizio spaventevole s'avvicinava. Omar e Fathma, vedendo che ormai ogni speranza era perduta, tentarono salvarsi colla fuga. Gettati a terra con una repentina scossa coloro che li trattenevano, si scagliarono a testa bassa sul cerchio dei ribelli impegnando una disperata pugna colle mani, coi denti e persino coi piedi.

Per cinque minuti riuscirono a tener testa al nemico, poi scomparvero sotto una montagna di corpi. Atterrati, legati, percossi a sangue, colle vesti a brandelli, i due disgraziati, malgrado le disperate loro grida e i loro contorcimenti furono trascinati sul rogo e legati saldamente al tronco della palma.

Fathma gettò un grido d'angoscia.

—Aiuto Abù-el-Nèmr! Aiuto! urlò ella.

Le grida selvaggie dei ribelli e il fragore della daràbuka[1] soffocarono la sua voce e le imprecazioni di Omar che si dibatteva furiosamente insanguinandosi i polsi. Erano perduti.

[1] Sorta di tamburone.

Già un uomo si avvicinava con un tizzone per mettere fuoco alla pira, già i ribelli alzavano le lancie per saettare i corpi dei due prigionieri, quando si udì una voce tonante, imperiosa, gridare:

—Fermi tutti! voi abbruciate la favorita di Mohamed Ahmed!

Lo scièk Abù-el-Nèmr era improvvisamente apparso sul sentiero, portato a braccia da quattro guerrieri, I ribelli, nello scorgerlo col volto contraffatto dall'ira, e nell'udire quelle parole, si erano arrestati come pietrificati, guardando con occhi smarriti ora il loro capo e ora i due prigionieri che tendevano le braccia verso il salvatore.

Abù-el Nèmr con un gesto imperioso li fece cadere tutti in ginocchio col volto nella polvere.

—Sciagurati! esclamò egli. Liberate la favorita del vostro signore e ringraziate Allàh che m'abbia fatto giungere in tempo per salvarvi dalla vendetta dell'inviato di Dio!

Il guerriero d'alta statura che aveva ordinato il supplizio si avvicinò umilmente ai due prigionieri e tagliò i loro legami. Egli s'inginocchiò quindi dinanzi a Fathma baciandole i piedi.

—Perdono! perdono! balbettò con voce tremante.

L'almea, lo rialzò con un gesto da regina.

—Ti perdono, diss'ella. Vattene.

—Ma non io! gridò Abù-el-Nèmr baciando impetuosamente la mano di Fathma. Chi alza un dito sulla favorita dell'inviato di Allàh merita la morte e non una volta, ma cento, ma mille. E'l-Maktud, tu non puoi sopravvivere, io non lo voglio.

—Ti obbedisco scièk, disse il guerriero puntandosi una pistola sulla fronte. Che Allàh mi perdoni.

Fathma e Omar si slanciarono verso di lui per disarmarlo ma non ne ebbero il tempo, il guerriero, obbediente al comando del suo capo, premette il grilletto, facendosi saltare le cervella. Cadde su di un banco col volto inondato di sangue.

—È orribile! esclamò Fathma con ribrezzo.

—No, è giustizia, disse lo scièk freddamente.

—Quell'uomo non mi conosceva, Abù-el-Nèmr.

—Peggio per lui. Fathma, perdonami se io non giunsi in tempo per impedire che questi cani di Baggàra avessero a maltrattarti. La caduta mi cagionò un dolore sì atroce che svenni. Orsù ritorniamo alla capanna che mi sento estremamente debole. Tu rimarrai qualche giorno con me?

—Non è possibile, Abù; ho fretta di raggiungere Hicks pascià, ora che so dove trovasi.

—Ti preme molto, adunque, quella vendetta?

—Molto, rispose Fathma.

—Con chi partirai?

—Col mio schiavo Omar.

—Non arriverai a Sciula che cadrai in mano degli insorti. Quasi tutti i villaggi che conducono a El Obeid sono occupati dalle bando di Mohamed Ahmed.

—Allàh mi proteggerà.

Abù-el-Nèmr stette alcuni istanti pensieroso.

—Vuoi proprio lasciarmi? chiese alfine.

—Sì, e subito, se è possibile.

—Sta bene, Fathma. Olà Mustafah!

Un guerriero lungo e magro, ma dai muscoli di ferro dalla figura ardita e feroce, semi-nudo, spalmato tutto di grasso di cammello, e con un pugnale legato al braccio destro si fece innanzi.

—Mustafah, disse lo scièk, barderai tre dei migliori cavalli, li caricherai di provvigioni e partirai colla favorita del nostro signore. Tu le obbedirai come a me stesso, e le farai strada fra le orde dei ribelli.

Il guerriero partì come una freccia e cinque minuti dopo ritornava conducendo tre magnifici cavalli Abù-Rof puro sangue, bardati e carichi di provviste e con parecchie otri piene di fresca acqua, appese ai fianchi. I tre viaggiatori balzarono in arcione.

—Abù-el-Nèmr, disse Fathma, con voce commossa stendendo la mano allo scièk. Non mi scorderò mai di quello che tu hai fatto per me.

—Fathma, rispose gravemente lo scièk senza di te io sarei a quest'ora probabilmente morto. Serberò a te eterna riconoscenza e se mai un giorno tu avessi bisogno di un uomo per proteggerti pensa ad Abù-el-Nèmr. Va ora, e che Allàh ti salvi.

Baciò un'ultima volta la mano all'almea e chiuse gli occhi sospirando. I tre cavalieri subito dopo lasciavano gl'insorti galoppando verso l'occidente.

CAPITOLO X.—La pianura dei Leoni.

Calava la notte quando i tre cavalieri lasciavano gli ultimi alberi della foresta del Bahr-el-Abiad inoltrandosi arditamente nel deserto.

La luna, che alzavasi allora allora, rossa come un disco incandescente, illuminava vagamente quelle sterminate pianure del Kordofan, aride, sabbiose calcinate dagli ardente raggi del sole equatoriale. La vista che esse presentavano in quell'ora non poteva essere più sinistra, più bizzarra, più desolante.

Colline di sabbia formate dallo spirar furioso del simoum, si succedevano le une alle altre, in mille differenti guise, fino agli estremi limiti dell'orizzonte. Era molto se si scorgeva qualche palmizio intristito, ingiallito, morente di sete; era molto se vedevasi qualche gruppetto di cespugli uscire fra le sabbie accumulate. Non un tugul non un zeribak, nemmeno il più piccolo recinto che indicasse la dimora di qualche essere umano.

Lunghe file di ossa biancheggiavano lugubremente su quei polverosi terreni; ossa di cammelli, ossa di buoi e di cavalli ma non di rado anche ossa umane che torme di schifose jene e di sciacalli rosicchiavano avidamente manifestando la loro soddisfazione o la loro delusione con atroci scrosci di risa e con urla lamentevoli che si ripercuotevano di collina in collina.

Il guerriero di Abù-el Nèmr, dopo aver esaminato attentamente la pianura e di aver dato uno sguardo alla stella del nord per non smarrire la via, spronò il cavallo dirigendosi verso l'occidente. Fathma e Omar, dopo aver calato il cappuccio del taub sugli occhi per difendersi dalle sabbie e di aver collocato il fucile dinanzi alla sella, si misero dietro alla guida nel più profondo silenzio.

Faceva un caldo veramente terribile, quantunque la notte fosse di già assai inoltrata. Nessun soffio di vento spirava al disopra di quelle sconfinate e deserte pianure arse e riarse dal sole. Talvolta pareva che uscissero dal suolo vampe di fuoco.

I cavalli, uniti, a capo basso, grondanti di sudore, avanzavano con grande fatica e alzavano nubi di polvere impalpabile che penetrava negli occhi per quanto ben chiusi fossero, che penetrava nel naso nella bocca e nei polmoni rendendo la respirazione difficile e penosa. I cavalieri, presi da violenti colpi di tosse, ogni qual tratto erano costretti ad accostare alle labbra la fiaschetta dell'acqua, per inumidire la gola secca, arsa.

Per dieci ore marciarono senza interruzione, scendendo e salendo le colline, facendo spesso fuoco contro le bande di jene che rese audaci dal numero si avvicinavano minacciosamente con risa sgangherate, poi fecero alto. L'orizzonte allora s'infiammava e il sole alzavasi rapido rapido inondando la pianura di luce e di fuoco; sfidare quel calore sarebbe stata follìa.

La tenda che portava il guerriero fu rizzata e ognuno si affrettò a ripararvisi sotto aspettando con impazienza la notte per ripigliare la faticosa marcia.

Appena infatti il sole sparve all'occidente si rimisero in sella mantenendo una via rigorosamente diritta a El-Obeid, guidandosi sempre colla stella nord che per gli arabi vale quanto la bussola e forse meglio.

Così, per sette lunghe notti galopparono attraverso a quelle immense pianure, evitando con gran cura le borgate per non incorrere in imbarazzi, quantunque un ribelle li guidasse. All'ottavo giorno essi fecero alto a una trentina di miglia dal villaggio di Rakai, in una pianura cosparsa di monticelli pietrosi e di piccole oasi ricche di palmizi e di acacie gommifere.

Erano le sei di sera. La tenda era stata di già rizzata e si preparavano a cuocere alcuni grani di durah, gli ultimi che possedevano, quando Omar si accorse che le otri non contenevano nemmeno una goccia d'acqua. Questa scoperta, trovandosi in mezzo a quel deserto, lo sgomentò.

—Dove possiamo trovarne? chiese egli al guerriero che fumava beatamente sul limitare della tenda.

—L'ignoro, ma in qualche luogo la troveremo rispose l'interpellato.
Il paese che attraverseremo domani manca totalmente di pozzi.

—Ti ricordi di aver visto qualche fonte, questa notte?

—No, ma adesso che ci penso, quattro o cinque miglia verso il sud deve trovarsi un pozzo, quello di Gelba, mi pare.

—Bisogna andarci, disse Fathma. Tanto noi che i cavalli siamo morenti di sete. Hai paura tu a recarti a quel pozzo?

—È ancora giorno e le bestie feroci sono rifugiate nelle loro tane; non posso incontrare che dei ribelli e questi non faranno male alcuno ad un loro fratello d'armi, rispose il guerriero. Fra due ore sarò di ritorno.

Fe' alzare il suo cavallo dilombato da tante corse, vi appese ai fianchi una dozzina di otri, salì in sella e dopo di aver cangiata la polvere al suo moschettone partì alla carriera. Dieci minuti dopo scompariva dietro le colline di sabbia.

Era trascorsa appena un'ora quando una rumorosa detonazione d'arma da fuoco fece saltare in piedi Omar e Fathma. In sulle prime credettero che fosse stato il guerriero che avesse tirato su qualche capo di selvaggina, ma alcune grida lontano e un rumore sordo sordo come di parecchi cavalli lanciati alla carriera e che andava rapidamente avvicinandosi, fecero a loro supporre che fosse invece accaduta qualche disgrazia.

—Resta qui e prepara i cavalli, disse Omar pigliando il fucile. Io vado a vedere cosa è successo.

Si diresse verso la collina più vicina che alzavasi una sessantina di metri sul suolo e la scalò. La scena che vide dall'alto della vetta gli agghiacciò il sangue nelle vene.

A soli ottocento passi di distanza trottava furiosamente il cavallo Abù-Rof, trascinandosi dietro il guerriero insanguinato, un piede del quale era rimasto impigliato nella staffa. A mille passi e forse meno, galoppavano venti cavalieri colle lancie in aria e urlando come ossessi.

Il negro non volle saperne di più. Scese a precipizio la collina e corse verso la tenda giungendovi nel momento in cui Fathma terminava di bardare i cavalli.

—I ribelli! esclamò egli. A cavallo, padrona, presto che fra poco ci saranno alle spalle!…

—Come? E il guerriero? chiese l'almea arrestandolo violentemente.

—L'hanno ammazzato. A cavallo! a cavallo!

Le grida andavano avvicinandosi sempre più. Omar e Fathma, senza aggiungere parola balzarono in arcione spronando furiosamente i cavalli.

Avevano appena percorso cinquecento passi che la banda nemica compariva. Vedendo i due fuggiaschi lasciarono il cavallo del guerriero per dare la caccia a loro.

—Dove andiamo? chiese Fathma, senza volgersi indietro.

—Dritti a quella gola che vedi laggiù, rispose Omar. Sferza o siamo perduti.

La pianura fu attraversata alla carriera coi ribelli alle calcagna che percuotevano colle aste delle lancie gli affranti loro corsieri. I due fuggiaschi stavano per cacciarsi nella gola designata che metteva capo ad una foresta, quando una banda di quindici negri armati di fucili, sbarrò la via.

—Maledizione! esclamò Fathma, rattenendo violentemente il corsiero.

—Siamo perduti! urlò Omar, strappando la carabina e armandola.

—Olà! gridò in quella uno dei negri, fatevi da un lato che malmeneremo noi quei cani di ribelli. Su i fucili! Fuoco!

Una scarica formidabile seguì il comando. Cinque ribelli vuotarono sconciamente l'arcione insanguinando le sabbie. Gli altri, dopo di aver un momento esitato volsero le briglie dandosi a precipitosa fuga fra una densa nube di polvere.

—Là, così va bene, ripigliò con accento allegro la medesima voce di prima. Ohe! fatevi innanzi senza paura, che non siamo Abù-Ròf, noi.

Fathma e Omar, ancora sorpresi da quell'inaspettato soccorso, si affrettarono a raggiungere i loro salvatori. Erano quindici uomini semi-nudi, d'alta statura, magri e ossuti. Riconobbero subito in quelli dei giallàba, trafficanti dongolesi che viaggiano tutto il tempo dell'anno pel Kordofan portando durah e maiz, infaticabili camminatori dotati di una frugalità eccessiva. Basta un pugno di grano ogni ventiquattr'ore per accontentare quei negri, che sanno però, quando si presenti loro l'occasione, divorarsi un montone intero in due o tre persone.

Il loro capo aiutò galantemente Fathma a discendere da cavallo baciandole la mano.

—Posso chiamarmi fortunato di aver salvato una così bella araba, diss'egli, sorridendo. M'immaginai subito che quei cani di ribelli ti dessero la caccia. Sei ferita?

—Niente affatto, mio bravo giallàba, rispose Fathma. Lascia che io ti ringrazi d'avermi salvata.

—Non corriamo troppo, tu non puoi chiamarti ancora salva.

—Cosa intendi di dire? esclamò l'almea sorpresa.

—Credi tu che i ribelli non tornino alla carica? Non sarei sorpreso se fra un paio d'ore ci vedessimo capitare addosso un due o trecento di loro.

—E non ti fanno paura?

—Altro che paura, io rabbrividisco al sol pensarlo.

—E che intendi di fare?

—Faccio montare i miei uomini e me la batto. Se vuoi venire con noi?

—Dove vai?

—Al campo di Hicks pascià per arruolarmi sotto la sua bandiera.

—Ma anch'io vado al campo di Hicks! esclamò l'almea.

—Meglio così; allora verrai con noi.

—Credi che la via sia libera?

—Uhm! fe' il giallàba crollando il capo. Ne dubito.

—Credi che quei selvaggi abbiano tanto coraggio da ronzare attorno al campo Egiziano? Hicks pascià, se non erro, deve avere con sè un esercito di dieci od undicimila uomini.

—E il Mahdi duecentomila. Sai che ho una paura maledetta che un dì o l'altro Hicks o Aladin pascià vengano sconfitti? Quel diavolo di Mohamed-Ahmed è un uomo di ferro e di gran coraggio che dirige le sue bande come noi dirigiamo i nostri mahari e fors'anche meglio. I suoi guerrieri non hanno paura della morte, perchè il furbo ha dato ad intendere che chi morrà combattendo per la santa causa andrà dritto in paradiso a trovare le urì. Con simile promessa anche i più vigliacchi diventano leoni.

—Sai tu quali idee abbia Hicks pascià?

—Di muovere su El-Obeid, a quanto potei udire. Pare che voglia dare il colpo di grazia al Mahdi privandolo della sua capitale che è anche il suo quartier generale. Bisogna raggiungerlo prima che dia battaglia. Orsù tutti in sella e avanti, prima che arrivino quei cani di Abù-Rof.

I diciasette uomini ubbidirono e si cacciarono nella gola, sbucando in una seconda pianura sabbiosa ondulata, perfettamente deserta, limitata all'est e all'ovest da rocce colossali, dirupate, di una aridità spaventosa. I cavalli vennero spronati e si diressero al galoppo verso l'occidente sollevando ondate di finissima polvere bianca.

Per quattro ore consecutive viaggiarono con celerità sorprendente, poi, essendo i cavalli stanchi, si arrestarono nelle vicinanze di un largo pozzo colmo di acqua sulle cui rive s'alzavano due grandi palmizi. Fathma additò al capo giallàba una gran zeribak che mostrava qua e là dei varchi.

—Possiamo accamparci là dentro, diss'ella. Siamo abbastanza lontani dal luogo dello scontro. Gli insorti non ci raggiungeranno più.

—Veramente il luogo non mi pare adatto, rispose il giallàba. Siamo troppo vicini a questo pozzo.

—E che vuol dir ciò?

—Che tutte le bestie feroci, essendo la pianura arida, verranno dissetarsi qui. Corriamo il rischio di passare il rimanente della notte assai malamente.

—Abbiamo i nostri fucili, rispose Fathma.

I giallàba si affrettarono a raggiungere la zeribak nella quale trovavasi abbondante raccolta di fieno, di sterpi e di sterco di cammello, usato dagli arabi per accendere il fuoco. I cavalli furono legati, i fuochi accesi e la magra cena di durah in un batter d'occhio fu preparata e divorata.

Dopo di aver a lungo discusso sulla via da tenersi all'indomani, ciascuno s'accomodò alla meglio coi piedi rivolti al fuoco, acceso nel mezzo della zeribak. Erano le due quando Omar fu svegliato dal nitrire e dallo scalpitare disordinato dei cavalli.

Si levò, prese la carabina e si spinse fuori della zeribak. La luna faceva capolino fra uno squarcio delle nubi e illuminava vagamente la pianura fino agli estremi limiti dell'orizzonte. Il negro s'arrestò sorpreso e spaventato alla vista di sei o sette leoni che s'avanzavano silenziosamente verso il recinto tenendosi dietro le collinette sabbiose. Alzò l'arma e tolse di mira uno di essi ma poi l'abbassò e andò a svegliare Fathma.

—In piedi, padrona, diss'egli, con un tono di voce che non ammetteva replica.

—Gli Abù-Ròf sono vicini forse? chiese l'almea alzandosi subito.

—No, ma s'avvicinano dei nemici ancor più pericolosi di quei ladroni.
Vi sono dei leoni che vengono a questa volta.

Fathma non disse verbo. Armò la sua carabina e seguì il negro fuori della zeribak.

Non erano più sei o sette leoni, ma una ventina. Alcuni strisciavano e altri saltellavano fra le sabbie colla criniera al vento emettendo bassi ruggiti.

—Che facciamo? chiese Omar spaventato.

—Or ti farò vedere, rispose tranquillamente l'almea.

Appoggiò la carabina sulla biforcazione di una magra acacia che cresceva stentatamente fra le sabbie mirò attentamente il leone più vicino.

—Fuoco! mormorò ella.

La detonazione non era ancora cessata che il felino faceva un salto di quindici piedi ricadendo poi su un fianco. I giallàba al rumoroso scoppio saltarono in piedi colle armi in pugno, credendo d'aver a che fare cogli Abù-Ròf.

—All'erta! gridò Fathma caricando prontamente l'arma.

—Che accadde? chiesero i giallàba accorrendo presso di lei.

—Tutti nella zeribak! comandò Omar.

I cavalli nitrivano di spavento, scalpitavano e saltellavano cercando spezzare i legami e al di fuori i leoni ruggivano con furore e minacciavano di varcare le cadenti barriere del recinto.

I giallàba, perduto il loro sangue freddo, si precipitarono confusamente nella zeribak cercando di salire sui cavalli per darsi alla fuga. Fathma si gettò in mezzo a loro colla carabina spianata.

—Fermi tutti! gridò ella. Chi si muove è uomo morto!

Nuovi leoni erano comparsi dietro alla zeribak e tagliavano la ritirata. La pianura s'empì di ruggiti formidabili, che crescevano ad ogni istante d'intensità e ai quali facevano eco le smodate e lugubri urla dei sciacalli.

—Attenzione! gridò ad un tratto Omar, dominando colla tonante sua voce quello spaventevole baccano.

Due leoni, i più grossi e forse i più affamati della banda, s'avanzavano verso la zeribak con salti giganteschi. I giallàba, dopo di aver esitato, si fecero animo e scaricarono le loro armi, mirando alla meno peggio. Uno degli assalitori cadde, ma l'altro continuò la corsa, varcò la palizzata e si precipitò proprio nel mezzo della zeribak rovesciando il capo dei negri e addentandolo furiosamente alla nuca.

S'udì un grido straziante, terribile, supremo. I giallàba si gettarono verso i cavalli urlando disperatamente ma Fathma si slanciò addosso al felino che ruggiva spaventosamente dilaniando orrendamente la vittima e gli spaccò la testa con un colpo di jatagan.

Non ebbe nemmeno il tempo di curvarsi sul povero negro ormai morto, perchè altri leoni assalivano il recinto. Omar alla testa dei più coraggiosi li accolse con un fuoco nutrito di carabine; tre o quattro furono fulminati, due ammazzati a colpi di scimitarra e gli altri s'allontanarono in furia, prendendo diverse direzioni.

Non vi era un momento da perdere se volevano salvarsi. Omar si avvicinò a Fathma che caricava tranquillamente la carabina.

—Padrona, le disse. Se non approfittiamo di questo momento di tregua per fuggire, prima di domani saremo tutti morti.

—E dove dirigersi? chiese l'almea.

—O al nord o al sud o verso qualunque altro punto, purchè si fugga.

—Ma la pianura formicola di leoni.

—Ce li lascieremo indietro. I cavalli sono spaventati e andranno più rapidi del simoum.

—Ma corriamo il pericolo di venire raggiunti.

—Non aver paura. I nostri cavalli galopperanno più dei leoni, te l'assicuro. Orsù, non vi è da esitare; tutti sono pronti a fuggire. Approfittiamo.

Fathma gettò uno sguardo all'intorno. I leoni continuavano a saltellare nella pianura, a meno di quattrocento passi dalla zeribak e i giallàba s'affannavano a bardare i cavalli.

—In sella! comandò ella risolutamente.

I giallàba si slanciarono sul dorso dei cavalli che s'impennavano sferrando calci per ogni dove, nitrendo di spavento e con gli occhi in fiamma. Ognuno raccolse le briglie, strinse fortemente le ginocchia e impugnò l'jatagan e le pistole.

—Attenti! gridò Fathma allentando le briglie. Via tutti.

I cavalli spronati a sangue s'affollarono confusamente all'apertura della zeribak e si slanciarono con rapidità fulminea attraverso l'arida pianura. I leoni, vista la preda fuggire, si gettarono sulle loro traccie facendo salti giganteschi.

—Mano alle pistole! comandò l'almea che aggrappata alla criniera dell'impaurito corsiero, cavalcava in testa a tutti.

Fra cavalli e leoni s'impegnò una gara furiosa. I giallàba, curvi in sella, tempestavano di sferzate i destrieri e laceravano loro le carni cogli jatagan, procurando di mantenersi in gruppo serrato. Tratto tratto si volgevano indietro per vedere se i leoni guadagnavano via e scaricavano le pistole, ma le palle si perdevano altrove.

In capo a dieci minuti i cavalli, spossati dalle precedenti corse, cominciarono a rantolare e a dare segni di stanchezza. Uno di essi intoppò in una pietra e cadde balzando d'arcione il cavaliere; tre leoni si gettarono sul disgraziato e lo fecero a brani ancora prima che si potesse alzarsi per difendersi.

—Avanti! avanti! coraggio! gridò Fathma che non si smarriva d'animo. Tenetevi riuniti e spronate a sangue. Se teniamo duro i leoni ci lasceranno. Attenti agli ultimi: sferzate! sferzate!

Un grido terribile, straziante seguì la sua ultima parola. Un altro cavallo cadde trascinando nella sua caduta colui che lo montava. Altri quattro s'accasciarono e altri quattro uomini furono sbranati; un quinto precipitava di sella, un momento dopo fracassandosi la testa contro un macigno.

Fathma e Omar che possedevano i migliori cavalli, visto che era impossibile salvarsi, allentarono le briglie e si lasciarono indietro gli altri che, pazzi di terrore, cominciavano a sbandarsi prendendo diverse direzioni. L'almea e il negro si diressero verso alcune colline inseguiti da una dozzina di quei terribili carnivori, scaricando di quando in quando le pistole sul più vicino di essi.

In lontananza s'udivano le grida disperate degli sbandati che venivano ad uno ad uno raggiunti e scoppi d'armi da fuoco.

—Sprona, Omar, sprona! gridò ancora una volta l'almea tempestando il cavallo coll'impugnatura dell'jatagan.

Erano giunti allora ad un trecento passi dalle colline e già credevano ormai di essere salvi, quando il cavallo di Omar rotolò a terra. Il negro si drizzò coll'jatagan in mano.

—Aiuto! aiuto! gridò egli.

Due leoni gli correvano sopra colle bocche spalancate, Fathma ritornò indietro alla carriera per accorrere in suo soccorso.

—Aiuto! aiuto! ripetè il negro.

—All'armi! gridò una voce tonante.

Due drappelli di egiziani uscirono di corsa da una gola formata da due colline e scaricarono i loro fucili sui leoni che batterono rapidamente in ritirata. Fathma si precipitò di sella correndo accanto a Omar.

—Gli egiziani? esclamò ella.

—Allàh sia ringraziato, Fathma, disse il negro stringendole fortemente le mani. Noi siamo salvi.

—E i giallàba?…

—Non pensiamo più ad essi. I disgraziati sono caduti dal primo all'ultimo. Vieni, Fathma, andiamo incontro ai salvatori che non abbiamo più nulla da temere.

Gli egiziani si avanzavano a passo di corsa. Un ufficiale inglese camminava alla loro testa. Appena egli giunse dinanzi all'almea portò rispettosamente la mano al berretto.

—Sono felice di essere giunto in tempo di salvarvi, diss'egli gaiamente.

—Grazie, comandante, disse Fathma. Senza di voi e dei vostri valorosi compagni a quest'ora sarei morta.

—Lo credo bene. Da dove venite? come mai vi trovate qui?

—Vengo dalle rive del Bahr-el-Abiad e cerco Hicks pascià.

—Il mio generale! esclamò sorpreso l'inglese.

—Sicuro. Accampa lontano? Devo recarmi subito da lui.

Il campo dista una mezza dozzina di chilometri. Mi dispiace di non potervi accompagnare.

—Vi accompagnerò io, miss, disse un uomo vestito di bianco, con un cappello a cupola ornato di un velo verde.

—Perdio, avete ragione! esclamò l'ufficiale. Miss, permettetemi che vi presenti sir O'Donovan, corrispondente del giornale il Daily News di Londra.

O'Donovan stese la mano all'almea che gliela strinse amichevolmente, sorridendo.

Miss, disse il reporter del giornale londinese inchinandosi dinanzi a lei. Sono a vostra disposizione.

CAPITOLO XI.—O'Donovan

O'Donovan era un uomo sui cinquant'anni, alto di statura, di membra vigorose, con un volto simpatico, alquanto abbronzato dal sole dei paesi tropicali, con barba e due occhi intelligenti e penetranti.

La vita di quest'uomo, che è veramente straordinaria e romanzesca, merita qualche cenno.

Nato in Irlanda, irrequieto di temperamento, coraggioso, fu dapprima feniano e si compromise nelle congiure a segno che dovette rifugiarsi in Germania per non cadere nelle mani della polizia inglese.

Scoppiata la guerra franco-prussiana del 1870, corse ad arruolarsi nell'esercito della Loira e cadde gravemente ferito sul campo di battaglia. Appena guarito si mise ai servigi del giornale londinese Daily News, il cui direttore gli assegnò il dipartimento dell'Asia.

Il reporter viaggiò tutta l'India, poi trovandola piccina, passò i monti e visitò l'Afganistan. Ritornò più volte in Inghilterra ma non vi rimaneva che il tempo necessario per abbracciare i suoi e per rinnovare i patti col Daily News e cogli editori che si contendevano le relazioni dei suoi viaggi.

Stanco di visitare gli Afgani e i Ghirghisi, un giorno s'incamminò con qualche servo verso la Persia, ma i persiani lo presero per una spia russa e lo imprigionarono, O'Donovan dovette sudare per salvarsi dal supplizio del palo e quando i persiani si persuasero che era un giornalista, non solo lo liberarono, ma lo colmarono di favori, di cortesie, gli conferirono dignità eccezionali e gli diedero delle guide per ritornare in Europa per la via della Russia.

In Inghilterra pubblicò allora il suo viaggio sotto il titolo di Viaggio a Merw che gli fruttò una sostanza, poi, vero ebreo errante, andò in Armenia con Muktar pascià per assistere alla guerra russo-turca del 1877. Ma a Batum attaccò lite con un Francese per una bella Armena; Dervisch pascià gli ordinò di andarsene, e visto che il testardo irlandese faceva il sordo, una bella notte lo fece rapire e ignudo come si trovava lo fece trasportare a viva forza, ravvolto in una coperta, su di un battello che salpava per Trebisonda.

O'Donovan che si era fisso di viaggiare in Oriente, vi ritornò, fece delle esplorazioni importanti, poi, nel suo ultimo viaggio si fermò a Costantinopoli, dove lo attendeva una nuova disgrazia.

Essendo in un caffè si mise a parlare come fosse a casa sua del Sultano e del governo criticandoli. La Sublime Porta lo fece arrestare e lo tenne lungamente in prigione. Non lo lasciò libero che dietro ingiunzione dell'ambasciatore inglese proibendogli però di non porre più piede in Turchia. O'Donovan, ricco assai, credette giunta l'ora di riposarsi alcuni anni, ma non fu così. I direttori del Daily News vollero ampliare il «dipartimento» del loro reporter e all'Asia aggiunsero l'Africa incaricandolo di attraversare il misterioso continente dall'Est all'Ovest quando il generale Hicks avesse sottomesso i ribelli del Sudan. Vi erano cinquantamila franchi all'anno di stipendio da guadagnare, gli si faceva un credito illimitato per le spese e un editore gli pagava in anticipazione centomila lire la relazione sulla campagna.

Il reporter, quantunque molto inquieto, quantunque avesse funesti presentimenti, fatto per ogni precauzione testamento, pigliò la via dell'Egitto e raggiunse l'armata di Hicks pascià ed ecco come il reporter del Daily News lo troviamo in fondo al Sudan.

L'ufficiale inglese, compiuta la presentazione, fece subito avanzare tre cavalli bardati che vennero montati da Fathma, Omar e dall'Irlandese. Egli credette di far bene aggiungervi degli eccellenti remington ed abbondanti cartuccie.

—Non si sa mai quello che può accadere, diss'egli, facendo cenno alla sua compagnia di fare largo ai cavalli. Quei maledetti insorti si nascondono persino dietro ad un sasso. O'Donovan, affido questa bella ragazza a te.

—Non aver timore di nulla, Harry, rispose il reporter. Giungeremo al campo senza malanni.

—Guardati bene attorno, O'Donovan. Questa mane ho veduto dei cavalieri correre per la pianura.

—Ho buoni occhi e sopratutto buone braccia per difendermi. Addio,
Harry.

—Una parola, disse Fathma, porgendo la mano all'inglese. Noi ci siamo lasciati indietro dei giallàba. Forse sono stati divorati dai leoni, ma forse qualcuno si è salvato e potreste giungere in tempo di raccoglierlo.

—Vi comprendo, miss. Manderò i miei uomini a cercarli. Che la fortuna sia con voi.

I tre cavalli partirono alla carriera dirigendosi verso il sud e tenendosi tutti uniti. O'Donovan staccò dall'arcione il remington e l'armò, invitando i suoi compagni a fare altrettanto.

Per dieci minuti galopparono in silenzio, guardandosi attorno per non cadere in qualche imboscata d'insorti, poi O'Donovan che da qualche tempo osservava attentamente Fathma, le chiese bruscamente:

—Ditemi la verità, per quale caso vi trovate in questo paese? Sapete che noi tutti corriamo un grave pericolo e che vi sono molte probabilità di lasciare le ossa in questi deserti?

—Voi correte un grave pericolo? disse Fathma con qualche sorpresa.

—Sì e vi compiango di essere giunta in questi luoghi. Dovete avere un forte motivo per arrischiarvi a raggiungere Hicks pascià.

—Molto forte, mormorò l'almea con un profondo sospiro.

—Cercate qualcuno forse?

—Come lo sapete voi?

—Lo suppongo.

—Ditemi, O'Donovan, è giunto al campo Dhafar pascià?

—Quello che conduceva i rinforzi speditici dal governatore di
Chartum?

—Sì, proprio quello.

—Giunse dodici giorni or sono, ma è stato ucciso l'altro ieri.

—È morto! esclamarono Omar e Fathma ad una voce.

—L'ho veduto cadere coi miei propri occhi, assieme ad un centinaio di egiziani. Erano usciti per fare una ricognizione, i ribelli li circondarono e li massacrarono tutti. Quando noi giungemmo sul luogo del combattimento, Dhafar pascià, colpito da una lancia in petto, spirava.

—Allàh lo punì, disse sordamente Fathma. I colpevoli cadono uno ad uno.

O'Donovan la guardò con sorpresa.

—Che dite mai? chiese egli. Era forse un vostro nemico Dhafar?

—Mi schiantò l'anima, involontariamente forse, ma me la schiantò. Uditemi, O'Donovan, avete mai inteso parlare di un ufficiale arabo che si chiama Abd-el-Kherim?

Il reporter si passò la mano sulla fronte parecchie volte come cercasse nella sua memoria.

—Non l'ho mai udito nominare rispose dipoi.

—Proprio mai! esclamò l'almea con un accento di dolore sconfinato.
È impossibile!… Cercate, cercate bene nella vostra mente!…

—Ma sì, voi dovete averlo veduto, aggiunse Omar. È giunto con Dhafar pascià, ve lo assicuro.

—Ma io vi dico che non l'ho mai udito quel nome.

—Gran Dio! Che gli sia toccata una qualche disgrazia!… Che me l'abbiano ucciso!

—Non correte troppo, disse O'Donovan. Capirete bene che siamo in undicimila al campo e che degli ufficiali ve ne sono moltissimi. Forse l'avrò veduto, forse avrò anche parlato assieme, ma non me lo rammento. Avete torto di disperarvi.

—Avete ragione, O'Donovan, balbettò l'almea. Ditemi ora, avete mai visto nella tenda di Hicks pascià…

—Chi?

—Una donna?

—Una donna!… Ah! sì, mi ricordo di averla veduta parecchie volte.
Era una…

—Greca! esclamò l'almea coi denti stretti.

—Sì, proprio una greca che si chiamava Elenka.

Fathma fremette e fece uno sforzo violento per frenare l'ira che bolliva nel petto.

—Ditemi, è ancora al campo?

—Quando lasciai la tenda Hicks pascià, tre giorni or sono, essa vi entrava.

—Ah!

O'Donovan si volse verso Fathma e vedendola col volto sconvolto, gli occhi accesi, fece un gesto di sorpresa.

—Ma sapete, diss'egli, che voi mi mettete in curiosità.

—Lo credo, rispose Fathma sforzandosi, ma invano, di sorridere.

Avvicinò il suo cavallo a quello del reporter e disse a bruciapelo:

—Guardatemi bene il volto, O'Donovan.

—Vi guardo e vi trovo sublimemente bella. Chi siete?

—Fui la favorita di Mohammed Ahmed, il Profeta del Sudan.

—Che!…

—Statemi ad udire. Un dì abbandonai il mio signore e capitai a Hossanieh. Un prode mi salvò da un leone che stava per divorarmi e questo prode l'amai come sanno amare la arabe, cioè alla follìa.

—Comprendo.

—Egli era ufficiale del corpo di Dhafar pascià. Un tenente greco s'innamorò di me e giurò che io sarei stata sua. Lo disprezzai ed egli, furente, mi denunziò a Dhafar pascià per la favorita del Mahdi, per una spia.

—Ah! il vigliacco!

—Mi separarono a forza dal mio amante e mi trascinarono a Quetêna dove caddi nelle mani del greco. Alcuni giorni dopo però riuscii a fuggire e mi misi subito in viaggio per cercare Abd-el-Kerim, il prode che amavo, l'eroe che mi salvò la vita.

—È per questo adunque che venite al campo?

—Sì, per questo.

—Ma se venite scoperta?

—Come?

—Potrebbe darsi che qualcuno riconoscesse in voi l'ex favorita di Mohammed Ahmed che Dhafar pascià fece arrestare. Badate a me, andate cauta e non mostratevi nella tenda di Hicks pascià.

—È impossibile. Bisogna che io sappia a qualsiasi costo che è accaduto di Abd-el-Kerim. Per quell'uomo arrischierei mille volte la vita.

O'Donovan le prese una mano e stringendola teneramente:

—Voi siete forte e coraggiosa ed io amo i forti e i coraggiosi, le disse. Volete che io vi aiuti nell'impresa, che io pure cerchi di Abd-el-Kerim?

La faccia dell'almea, poco prima trucemente sconvolta, si rasserenò. Nei suoi grandi occhi fiammeggianti, balenò un fugace lampo di tenerezza; parve anzi commossa.

—Voi avete un nobil cuore, mormorò ella. Mi affido interamente a voi, amico mio. Che devo fare?

—Rinunciare di recarvi da Hicks pascià. Verrete nella mia tenda, vi alloggierete e vi darò un vestito da soldato onde non abbiano a riconoscere in voi la Favorita del Mahdi. Al resto penserò io.

—Troverete voi Abd-el-Kerim, adunque?

—Lo troverò, vi dò la mia parola.

Erano allora giunti in una gola formata da due colline tagliate a picco, tutta cosparsa di fitti cespugli. O'Donovan arrestò il suo cavallo.

—Stiamo in guardia, diss'egli. In questo luogo si nascondono dei ribelli. Guardate bene i cespugli.

—Siamo lontani molto dal campo? chiese Omar.

—Un miglio e mezzo e forse meno. Udite?

In distanza echeggiarono alcuni squilli di tromba e s'udirono a rullare dei tamburi. Qualche detonazione fu pure notata.

—Avanti, comandò O'Donovan.

I tre cavalieri s'inoltrarono nella gola tenendosi lontani dai cespugli. Avevano percorso un centinaio di metri, quando dalle macchie si videro uscire sei o sette uomini semi-nudi, armati di lancie e di scudi di pelle di elefante. Essi si misero a urlare come bestie feroci, agitando minacciosamente le armi.

O'Donovan scaricò il suo remington sul più vicino che cadde a terra, dimenando disperatamente le braccia. Gli altri si diedero a precipitosa fuga attraverso la gola, urlando con quanto fiato avevano in corpo e saltando a destra e a sinistra per non offrire facile bersaglio alle palle.

—Alla carriera! gridò il reporter, spronando vivamente il cavallo. Se non usciamo in fretta, corriamo rischio di venire rinchiusi qui da un migliaio di quei furfanti. Attenti alle imboscate!

I tre cavalli si slanciarono nella gola che andava restringendosi a mo' d'imbuto, seminata qua e là da cadaveri di soldati egiziani o d'insorti, imputriditi, spesso mezzo divorati dalle fiere e che mandavano un odore nauseante. In meno di cinque minuti giunsero a duecento passi dall'uscita. Qui i tre cavalieri arrestarono di colpo i loro cavalli.

By-good! bestemmiò O'Donovan. Hanno chiusa la via!

Infatti gli insorti si erano aggruppati dinanzi all'uscita riparandosi dietro i macigni e le macchie. Essi accolsero la comparsa dei cavalieri con indescrivibili urla, alzando le lancie e le scimitarre di ferro.

—Torniamo indietro, disse Fathma. Forse non ci hanno ancora tagliata la ritirata.

—È impossibile, rispose il reporter. Dietro a quei ladroni vi è il campo e se ritorniamo verremmo facilmente uccisi.

—Che facciamo adunque? chiese Fathma.

—Non trovo altro mezzo che quello di forzare il passo. Sono sei o sette ladroni e non mi sembrano molto coraggiosi. Tirate l'jatagan e prendete le pistole; piomberemo loro addosso come una valanga.

I cavalli spronati a sangue ripartirono alla carriera. I ribelli, vedendoli venire addosso, saltarono in piedi colle lancie in aria. O'Donovan, che aveva tratto la scimitarra, ruinò in mezzo a loro spaccando nettamente la testa al primo che gli si parò dinanzi. Fathma e Omar scaricarono le loro pistole sugli altri, i quali, vista la mala parata, si affrettarono a lasciare il posto.

I cavalieri uscirono in furia dalla gola dirigendosi verso una boscaglia di palme e di mimose che nascondeva il campo egiziano.

—Avanti! avanti! gridò O'Donovan.

Un urlo tremendo e alcune moschettate tennero dietro al suo comando. Dai burroni e dalle gole uscirono varii drappelli di arabi Abù-Rof e di Baggàra slanciandosi dietro ai fuggiaschi, agitando freneticamente le lancie, le scimitarre e gli scudi.

—A briglia sciolta, Fathma, urlò il reporter. Sprona, perdio!
Sprona che siamo vicini al campo!

Dietro a loro s'udì lo scalpitìo precipitato di un cavallo. Omar volgendosi vide uno sceicco che si avvicinava rapidamente colla scimitarra alzata nella dritta e la bandiera del Mahdi nella sinistra.

—Guardati, Omar! disse rapidamente Fathma, scaricando la sua pistola.

Il negro si voltò e sparò il remington sullo sceicco, il quale lasciossi sfuggire di mano la bandiera. Cercò di rizzarsi sulle staffe e di brandire la scimitarra, ma le forze gli vennero meno e cadde pesantemente a terra colla testa inondata di sangue.

I ribelli visto il loro capo a cadere, si arrestarono titubanti. Alcuni di essi s'avanzarono però, cercando di tagliare fuori Omar che era rimasto indietro, ma una scarica di remington che abbattè il più vicino e i sei colpi di revolver del reporter, li decisero a volgere le spalle e a rifugiatisi nella gola.

—Avanti, Omar, che siamo vicini al campo! urlò O'Donovan caricando il revolver.

I tre cavalli con un ultimo slancio guadagnarono il palmeto prendendo un largo sentiero sul quale scorgevansi, profondamente impresse, le traccie lasciate dalle ruote dei cannoni, e si arrestarono poco dopo dinanzi ad un gruppo di capanne attorno alle quali bivaccavano alcune compagnie di negri d'Etiopia.

—Alto! comandò O'Donovan. Siamo giunti a Kassegh.

I tre viaggiatori balzarono a terra.

CAPITOLO XII.—L'esercito egiziano.

Kassegh è un piccolo villaggio distante una sola giornata di cammino da El-Obeid, la capitale del Kordofan.

Questo villaggio si compone di un gruppetto di miserabili tugul conici, circondati da pochi pozzi e abitati un tempo da un pugno di arabi. Hicks pascià, appena giuntovi, l'aveva fatto occupare da alcune compagnie di negri per tenere in rispetto i ribelli che scorazzavano i dintorni e farne, all'uopo, la base delle sue operazioni contro El-Obeid.

O'Donovan, affidati i cavalli ad alcuni soldati si affrettò a condurre Fathma e Omar in una capanna, che fu subito sgombrata da coloro che l'occupavano e fece portare della birra merissak e una terrina di durah bollite.

—Voi rimarrete qui, diss'egli, e mentre vuoterete questo fiasco di birra andrò a dire due parole al comandante della guarnigione, che è mio amico.

—E al campo, quando ci andremo? chiese Fathma, che non dissimulava la sua impazienza.

—Fra mezz'ora noi vi entreremo, e forse potrete vedere Hicks pascià senza correre rischio di essere riconosciuta.

Il reporter se ne andò lestamente cacciandosi in mezzo alle tende degli Egiziani. Omar e Fathma, rimasti soli, si scambiarono uno sguardo.

—Che ne dici di quell'uomo, Omar? chiese l'almea.

—Dico che possiamo fidarci di lui, rispose il negro.

—Credi tu che troveremo Abd-el-Kerim?

—Lo spero.

—Eppure O'Donovan non l'ha mai veduto e non ha mai udito pronunciare il suo nome. Non so, ma ho un funesto presentimento.

—Io trovo naturalissimo che O'Donovan non lo abbia mai veduto.
Undicimila uomini non sono già un centinaio.

—Ma la greca l'ha pure veduta, disse Fathma con collera.

—Una donna si fa presto a notarla, tanto più che Elenka si mostrava spesso nella tenda di Hicks pascià.

—Ma non si mostrerà più, te lo giuro Omar. Appena sarò entrata nel campo mi metterò in cerca di lei e la pugnalerò in qualsiasi luogo la trovi.

—Non lo farai, Fathma, disse il negro fermamente.

—Perchè?… Chi me lo impedirà? chiese con impeto selvaggio l'almea.

—Perchè correrai il rischio di farti prendere.

—E che importa a me quando l'avrò uccisa?

—Ma verrai scoperta, riconosciuta per la favorita del Mahdi e forse fucilata lì per lì. Questi inglesi non ischerzano, Fathma.

—Sarò prudente, Omar.

—Me lo prometti?

—Te lo prometto.

—Lascia fare a me. La prenderò, la trascinerò lungi dal campo e te la darò in mano legata.

—Ah! esclamò l'almea con feroce accento. Quando penso che la vedrò ai miei piedi gelata dalla morte, sento il cuore balzarmi in petto e provo una gioia sino ad oggi mai provata. Ah! quanto è bella la vendetta.

—Zitto, Fathma; ecco O'Donovan, disse Omar. O'Donovan entrò seguito da un negro che portava in ispalla un gran rotolo di vesti.

—Che ci portate? chiese Fathma affettando una certa noncuranza.

—L'occorrente per entrare nel campo senza destare sospetti, rispose
O'Donovan congedando il negro.

—Forse con quelle vesti sulle spalle?

—Sedete e ascoltatemi.

O'Donovan empì una tazza di birra e la tracannò in un sol fiato, poi sedendosi dinanzi a loro due:

—Amici miei, diss'egli, in tempo di guerra, fare entrare in un campo degli sconosciuti, è sempre pericoloso.

—È giusto, disse Fathma.

—Ho fatto portare qui delle vesti di basci-bozuk, e mi pare che camuffati da soldati sia facile entrare ed uscire dal campo.

—Ah! fe' Omar ridendo. Voi volete vestirci da basci-bozuk?

—Sicuramente.

—Anch'io? chiese Fathma.

—Voi più del vostro compagno.

—È ridicola.

—Niente affatto, io la trovo una precauzione saggia.

—Mi si conoscerà facilmente per una donna.

—Non così facilmente come credete. Avete un bel portamento e una faccia ardita. Orsù, spicciamoci.

O'Donovan sciolse il rotolo e levò sei o sette vestiti di ufficiali basci-bozuk coi turbanti e le scimitarre. Fathma non esitò a scegliere quello che meglio adattavasi al suo taglio.

Si ritirò in una stanza attigua e cominciò a vestirsi, calzò le uose di pelle di capra, infilò i larghi calzoni rossi e la casacca ricamata d'argento, cinse la larga fascia nella quale passò un jatagan e le pistole e raccolse i capelli a chignon, nascondendoli interamente sotto un gran turbante verde. Appesasi la scimitarra, ritornò dai compagni, colla dritta posata fieramente sulla guardia dell'arma e la testa alta.

—Ah! il bell'ufficiale! esclamò O'Donovan By-good! Non mi ricordo d'aver visto in Oriente un basci-bozuk così ammirabile.

—Siete certo? disse l'almea sorridendo.

—Ve lo giuro. Se io fossi Hicks pascià vi darei subito da comandare uno squadrone di cavalleria.

—Burlone.

—E sono sicuro che lo comanderebbe meglio di qualche ufficiale, aggiunse Omar, che terminava di abbigliarsi.

—Siete certo che non riconosceranno in me una donna? chiese l'almea.

—Certissimo.

—Allora affrettiamoci a recarsi al campo. Mi preme d'interrogare
Hicks pascià.

—Volete proprio venire dal generale?

—Certamente e voi mi presenterete per un vostro aiutante di campo o per qualche cosa di simile.

—Mi mettete in un bell'impiccio.

—Che c'è di nuovo? Avete paura che vi tradisca?

—Non è questo, ma…

—Che cosa allora? Dite su, voglio saperlo.

—Se Hicks pascià… se vi dasse qualche notizia su Abd-el-Kerim…
Chissà, potrebbe darsi che questa notizia non fosse troppo buona…

—Sapete forse qualche cosa voi?…

—No, non so niente, ve lo giuro.

La faccia dell'almea si alterò orribilmente; stette per alcuni istanti muta colle mani strette sul cuore.

—Sono forte, disse poi rizzandosi fieramente, e sono preparata a tutto. Conducetemi da Hicks pascià.

—Quando mi dite di essere preparata a tutto possiamo andare.

Si gettarono ad armacollo i remington e uscirono dal tugul inoltrandosi fra le tende delle compagnie accampate. Gli egiziani, vedendo uscire due ufficiali basci-bozuk invece di un uomo e di una donna si guardavan l'un l'altro sorpresi, non potendo credere ai loro occhi, ma O'Donovan non lasciò a loro tempo di osservare troppo.

—Prendiamo questo sentiero, diss'egli. Questi soldati si sono accorti del travestimento.

—Forse non ho il portamento d'un soldato, mormorò Fathma.

—Non è questo. Si sono accorti perchè vi avevano visto entrare e sapevano che il tugul non alloggiava basci-bozuk. Del resto poco importa.

Presero un sentieruzzo che scendeva, serpeggiando, il declivio di un colle ed in poco tempo giunsero sul limite estremo del bosco. Fathma e Omar s'arrestarono sorpresi dal grandioso spettacolo che si presentava dinanzi ai loro occhi.

A duecento metri da loro, in una immensa pianura ondulata, cosparsa da gruppetti di palme, accampava l'esercito egiziano comandato da Hicks e da Aladin pascià, forte di undicimila e più uomini.

Immaginatevi tre o quattro mila tende, disposte nel massimo disordine, secondo il capriccio di coloro che le abitavano, ritte o atterrate, lacerate o rattoppate, bianche o dipinte, alcune aggruppate strettamente, altre separate da centinaia e centinaia di piedi, arrampicantesi sulle colline sabbiose o sui pendii di aridissime rupi. Nel mezzo s'alzavano, e queste con un po' d'ordine, le tende più elevate degli ufficiali, dello stato maggiore e quelle dei generali sulle quali ondeggiavano lacere bandiere egiziane.

Dappertutto si vedevano soldati, chi sdraiati per terra o aggomitolati come gatti al sole, chi seduti attorno ai fuochi a preparare il rancio, chi occupati a manovrare, chi a esercitarsi al tiro; vi erano egiziani, negri, turchi, basci-bozuk, europei, tutti in differenti costumi. Dappertutto vi erano fasci di fucili che rifulgevano ai torridi raggi del sole, cannoni, tamburi, barili di munizioni, e in mezzo a tuttociò cavalli, muli e cammelli che nitrivano, che ragliavano, che muggivano, formando colla voce degli uomini un baccano assordante, continuo, paragonabile al fragore del mare in tempesta.

—Quanti uomini! esclamò Omar. Che baccano, che confusione, quante armi, quante tende, quanti animali!…

—Tanti ma sempre pochi, disse O'Donovan con un sospiro.

—Non vi pare che bastino tutti questi?

—Pel Mahdi no, sono ancora pochi.

—Lo credete? disse Fathma.

—Sì mia cara, questi uomini non sono sufficienti per vincere il leone del Sudan. Orsù, andiamo da Hicks pascià.

—Qual'è la sua tenda?

—Quella che vedete là in mezzo.

—E quella…

—Di chi?…

—Tiriamo innanzi, mormorò Fathma mordendosi le labbra.

Entrarono nel campo, attraversando quel labirinto di tende, d'uomini e di animali e mezz'ora dopo si arrestavano presso la tenda d'Hicks pascià, dinanzi la quale vigilavano due sentinelle.

—Vammi ad annunciare al generale, disse O'Donovan ad una di esse.

—Ci accoglierà? chiese Fathma con voce visibilmente alterata.

—Certamente, rispose il reporter. Siate forte.

—Lo sono.

—Rammentatevi che un sol gesto può tradirvi e forse perdervi. Il generale non tollererebbe nel suo campo una favorita del Mahdi.

—Vi dissi già che sono pronta a tutto. Non abbiate paura.

Due ufficiali uscirono in quell'istante dalla tenda, e salutarono rispettosamente il reporter che restituì a loro il saluto.

—Chi sono? chiese Fathma.

—Il capitano di stato maggiore Farquar e il barone Cettendorfs. Due uomini di ferro, specialmente il primo.

La sentinella ritornò annunciando che erano aspettati. O'Donovan strinse fortemente le braccia de' suoi compagni, come per raccomandare a loro prudenza, e li condusse dentro.

In mezzo alla tenda, seduto su di un tamburo, se ne stava il generale
Hicks con alcune carte topografiche spiegate sulle ginocchia.

Era questi un uomo di bell'aspetto, alto, robustissimo, non ostante che gli pesassero sulle spalle più che cinquant'anni, con una faccia alquanto dura, abbronzata dai raggi solari delle torride regioni e rugosa per le fatiche, ombreggiata da una barba piuttosto lunga, liscia e brizzolata da parecchi fili bianchi.

Hicks pascià era un soldato nel vero senso della parola, che sorto dal nulla, mercè la sua rara intrepidezza, la sua energia e il suo talento, era riuscito, passo a passo, a guadagnarsi il grado di generale.

Era entrato nell'esercito indiano l'anno 1848. Dopo aver combattuto in quasi tutte le battaglie della grande insurrezione indiana era corso in Abissinia a prendere parte alla guerra contro Re Teodoro, anzi entrava fra i primi in Magdala.

Ritiratosi in Inghilterra col grado di maggiore e nominato più tardi colonnello, ripartiva i primi del 1883 per Suakim onde prendere parte alla spedizione del Sudan.

Il 13 febbraio, nominato comandante supremo della spedizione, lasciava Suakim con uno stato maggiore composto di dodici ufficiali europei, dieci inglesi e due tedeschi.

Giunto a Chartum organizzava l'esercito incorporandovi Arabi, Egiziani, Etiopi e Basci-Bozuk e il 9 settembre mettevasi in campagna con 6000 fantaccini, 4000 basci-bozuk, ventidue cannoni, alcune mitragliatrici, 590 cavalli e 5500 cammelli.

Doveva avanzarsi lungo il fiume Bianco costruendo sei forti onde mantenere le relazioni e nell'ottobre o novembre dare battaglia alle orde del Mahdi.

Al forte di Kawa batteva i ribelli e poche settimane dopo tornava a vincerli, ma a nulla erano giovate queste vittorie.

Assalito continuamente, male organizzato, senza commissariato, senza mezzi di trasporto sufficienti, senza fondo di cassa, l'esercito s'era ben presto demoralizzato.

Hicks pascià aveva però tenuto fermo, e sfidando imperterrito le lancie dei mahdisti, la fame, la sete e il caldo, era finalmente riuscito a raggiungere El-Dhuem.

Riorganizzato alla meglio l'esercito erasi subito rimesso in campagna risoluto ad espugnare El-Obeid, la capitale del Mahdi, affrontando nuovamente altri ostacoli e altri pericoli senza nome. I soldati cadevano per la stanchezza, i pozzi erano pieni di cadaveri putrefatti appositamente gettativi dai ribelli, i cammelli insufficienti, i nemici sempre più accaniti.

Nella prima sola giornata di marcia aveva perduto sette ufficiali, cinquanta soldati e altrettanti cammelli per l'insoffribile caldo!

Il 10 ottobre, dopo un continuo scaramucciare, giungeva a Sange-Hamferid e agli ultimi di ottobre faceva accampare l'esercito sfinito, demoralizzato, a Kassegh, aspettando il momento opportuno per gettarsi su El-Obeid ed espugnarla.

CAPITOLO XIII.—Lo schiavo di Elenka.

Hicks pascià, appena vide entrare O'Donovan e i suoi compagni, mosse sollecitamente a loro incontro con un sorriso bonario sulle labbra. Salutati militarmente i due ufficiali basci-bozuk che gli restituirono spigliatamente il saluto, strinse vigorosamente la mano che il reporter gli porgeva.

—Dove diavolo siete stato fino ad ora? chiese gaiamente il generale. Sono sei giorni che non vi fate vedere nella mia tenda, amico caro, e cominciavo a temere che vi fosse accaduta qualche disgrazia.

—Non ancora, generale, disse O'Donovan, sorridendo. Ho fatto una escursione agli avamposti per vedere come vanno le faccende.

—E che avete veduto?

—Ho trovato innanzi a tutto questi due ufficiali che conobbi a Chartum e che venivano appositamente in cerca del vostro esercito per arruolarsi. Vogliono combattere contro le orde del Mahdi.

—Ah! fe' il generale, fissando attentamente i due falsi ufficiali.
Voi siete venuti appositamente per combattere contro i ribelli?

—Sì, generale, disse Fathma

—Da dove venite?

—Dal Bahr-el-Abiad.

—Avete incontrato dei ribelli dietro via?

—Ci hanno inseguiti dieci o dodici volte.

—Avete avuto un bel coraggio, amici miei, e una bella costanza per raggiungere il mio esercito attraversando un paese sollevato a rivolta. Ah! voi volete battervi? Vi batterete e presto.

—Si fa partenza forse? chiese O'Donovan.

—Fra qualche giorno, rispose il generale, diventando d'un tratto pensieroso. Sapete, O'Donovan, che noi ci troviamo in una posizione che può chiamarsi disperata? Se noi non entriamo più che in fretta in El-Obeid, corriamo il pericolo di terminare la campagna con una catastrofe.

—Cosa c'è di nuovo?

—Che l'esercito muore di stenti e di sete. Non vuole più obbedire ai miei comandi, si lamenta che manca di tutto, che così non la può durare, che ne ha abbastanza della campagna e che vuole ritornare a casa.

—Quando è così si ricorre a mezzi estremi per ridurlo all'obbedienza.

—Allora si ribella.

—Si fucilano i ribelli.

—Con Aladin pascià è impossibile fucilare. Anche ieri l'altro un circasso sparò una fucilata contro un ufficiale dei basci-bozuk e fu un vero miracolo se non l'uccise. Io voleva far passare per le armi il circasso, ma Aladin s'interpose e dovetti cedere. Come è possibile farsi ubbidire con questi esempi?

—Ma non siete voi il comandante supremo dell'esercito?

—Sì, sono io, ma solo di nome, disse con amarezza il generale.

—Qui mi si odia, qui si mormora che io conduco l'esercito a completa ruina, che non so comandare, che mi curo degli Egiziani come fossero i miei cani. Sono inglese, e voi sapete guanto gli Egiziani odiano noi. Vi sono dei giorni che mi pento di essermi messo alla testa di questi miserabili, ve lo giuro.

—Quando marcieremo su El-Obeid?

—Appena che avrò appianate le questioni con Aladin pascià. Io voglio marciare seguendo la pianura, lui vuole prendere la via dei monti, e intanto si perde tempo e il pericolo cresce.

—Dove trovasi l'esercito del Mahdi?

—Chi lo sa? Le guide ci tradiscono, le spie si contraddicono; non sappiamo affatto nulla. Per maggior disgrazia un tedesco la scorsa notte disertò e si dice che siasi recato al campo del Mahdi.

—Chi è questo traditore? chiese con indignazione O'Donovan.

—Il vostro servo.

—Che?… Gustavo Klootz…[1] Tuoni e fulmini!… È impossibile.

[1] Il 20 agosto 1885 mi abboccai coll'illustre missionario D. Luigi Bonomi, reduce dal Sudan dopo essere stato per tre lunghi anni prigioniero del Mahdi. Interrogatolo su Gustavo Klootz mi disse: «È vero che scomparve dal campo ma non credo che abbia informato il Mahdi dell'indisciplina che regnava nel campo degli Egiziani.

«Gustavo Klootz, divenuto poi mio amico, era un buon giovane, incapace di un tradimento. Il Mahdi l'aveva fatto suo consigliere e lo stimava molto.

      «Più volte il Klootz aiutò noi prigionieri e s'adoperò per
      calmare il suo terribile padrone che ci minacciava di morte.»
      (E. S.)

—Ve lo dico io, O'Donovan.

Il reporter vibrò un pugno spaventevole ad una scranna che non resse all'urto e andò in pezzi.

—Miserabile Klootz! tuonò. Chi avrebbe detto che quel giovanotto sarebbe diventato un traditore! io non lo credo ancora.

—Eppure è vero. È scomparso la scorsa notte.

—Forse fu ucciso.

—No, delle spie l'hanno visto entrare nel campo di Ahmed.

—Allora siamo perduti. Il miserabile narrerà al Mahdi che l'indisciplina regna nelle nostre truppe e che manchiamo di tutto.

—È cosa certa, disse il generale.

—Spingerà il Mahdi a piombarci addosso.

Il generale crollò il capo.

—Forse è meglio, disse, dopo qualche istante di meditazione. Una battaglia la desidero poichè la sola vittoria può salvarci.

—E se invece di vincere si perde?

—Dio nol permetta; neppur uno di noi scamperà all'eccidio!

La fronte del generale s'aggrottò. Chinò il capo sul petto, incrociò macchinalmente le braccia e si mise a passeggiare in preda a brutti pensieri.

Il più profondo silenzio regnò per qualche minuto nella tenda.

Ad un tratto O'Donovan sentì urtarsi il gomito. Si volse e vide Fathma che lo guardava con occhi supplichevoli; comprese subito ciò che voleva.

—Generale, disse.

Hicks pascià rialzò la testa interrompendo la passeggiata.

—Avete qualche cosa da dirmi, chiese distrattamente.

—Conoscete voi gli ufficiali che condusse Dhafar pascià?

—Tutti.

—Fathma s'avvicinò vieppiù a O'Donovan, Non respirò più e strinse le mani sul petto quasi volesse imporre silenzio ai precipitosi battiti del suo cuore.

—Generale, continuò il reporter, avete conosciuto un tenente che si chiama Abd-el-Kerim?

Hicks pascià lo guardò in silenzio passandosi la mano manca sulla fronte come cercasse nella memoria.

—Un arabo? disse poi.

—Sì, un arabo esclamò Fathma con veemenza.

—Era alto, dal nobile portamento, capelli e baffi neri.

—Sì, proprio così, proprio così, balbettò l'almea.

—L'avete conosciuto anche voi?

—Era… Era un mio amico.

—Ah! fe' il generale. Lo conobbi a Duhem assieme al capitano Hassarn.

Un rauco sospiro sortì dalle labbra contratte di Fathma e la sua fronte si coprì di stille di sudore. I suoi occhi si aprirono smisuratamente fissandosi in quelli del generale, come volesse leggere ciò che passavagli per la mente.

—L'avete conosciuto, mormorò ella con un filo di voce. Ed ora… si trova qui?

—No, nè lui ne Hassarn.

L'almea indietreggiò tre o quattro passi barcollando come se fosse stata percossa dalla folgore. O'Donovan l'afferrò per un braccio stringendoglielo come in una morsa. Ella s'arrestò di botto; comprese il pericolo che correva, l'abisso in cui stava forse per precipitare.

—Che è successo di loro? chiese O'Donovan stornando l'attenzione del generale. Sono stati forse uccisi?

—Sono caduti in una imboscata appena usciti da Duhem. Il capitano
Hassarn fu ucciso da tre colpi di lancia, l'altro…

—L'altro?… chiese Fathma con voce strozzata.

—Fu fatto prigioniero dagl'insorti!…

—Dio!… rantolò ella.

Cacciò fuori un urlo disperato, straziante, portò le mani alla testa e cadde fra le braccia di Omar. O'Donovan impallidì come un morto; credette che tutto fosse perduto.

—Che è successo? chiese il generale correndo verso Fathma.

—Non è nulla generale, disse O'Donovan, sbarrandogli il passo.
Abd-el-Kerim era suo… era suo fratello.

—Ah! disgraziato!… slacciategli le vesti, lasciatemi vedere:

—Non è nulla, vi ripeto, non è nulla.

—Chiamatemi il capitano medico, replicò il generale cercando di avvicinarsi all'almea svenuta. Lasciatemi vedere se posso fare qualche cosa io.

—Lo chiamerò più tardi, generale, non datevi pensiero di nulla, lasciate che lo trasporti nella mia tenda. Portalo via Omar.

Il negro vedendo il generale avvicinarsi e comprendendo il gran pericolo che correva l'almea se veniva scoperta, s'affrettò a gettarle sul volto il turbante, poi, presala fra le braccia, uscì di corsa dalla tenda.

—Permettetemi di seguirlo, generale, disse O'Donovan che sentì il cuore allargarsi. Quel povero ufficiale ha avuto un terribile colpo.

—Fate pure O'Donovan, ma potevate lasciarlo qui.

Il reporter finse di non aver udito e raggiunse il negro.

—Ah! che disgrazia!… esclamò il povero Omar colle lagrime agli occhi. Povero mio padrone!…

—Pensiamo a Fathma ora, poi penseremo a lui. Omar, disse il reporter. Portiamola nella mia tenda.

In pochi minuti entrarono nella tenda elevata a cinquecento passi da quella del generale. O'Donovan adagiò Fathma su di una coperta, le slacciò le vesti e l'esaminò attentamente per qualche istante.

—Ebbene? chiese il negro, con voce rotta.

—Non sarà nulla, Omar. È svenuta, ma fra poco si riavrà. Questa donna è troppo forte per rimanere a lungo così.

Si fece dare la sua fiaschetta e spruzzò il volto della svenuta. Un sospiro non tardò ad uscire dalle labbra di lei, seguito da un singhiozzo straziante, rauco, soffocato.

O'Donovan le versò in bocca alcune gocce di merissak; l'almea sbarrò spaventosamente gli occhi e si rizzò a sedere guardando all'intorno con smarrimento.

—Abd-el-Kerim! Abd-el-Kerim! balbettò ella con disperato accento.
Dov'è Abd-el-Kerim? Oh! Dio!

—Coraggio Fathma, disse O'Donovan commosso. Siate forte.

—Padrona non disperarti così, singhiozzò Omar. Cerca di essere forte.

—Amici miei… ho il cuore spezzato… ho l'anima infranta… Abd-el-Kerim, mio adorato Abd-el-Kerim! Tutto è perduto, tutto è crollato… non v'è più speranza… Ah! sorte crudele!

Un singhiozzo le soffocò la voce e scoppiò in lacrime nascondendosi la faccia fra le mani. Un eccesso di delirio spaventevole la prese quasi subito.

Si strappò i capelli, si lacerò le carni colle unghie, si rotolò per terra forsennatamente. O'Donovan e Omar penarono molto a tenerla ferma e a riadagiarla sulla coperta.

—Abd-el-Kerim urlava la sventurata cogli occhi stravolti, schizzanti fuori dalle orbite, Abd-el-Kerim dove sei?… lascia che ti veda, lascia che ti abbracci, lascia che ti contempli! Dove sei, vieni da me, dalla tua Fathma che tanto ti amò, vieni fra le mie braccia… Prigioniero!… M'hanno detto che tu sei caduto prigioniero!… No, non è possibile, non è vero… mi hanno ingannato… ma perchè non vieni, ah! è adunque vero, i ribelli ti hanno preso, ti hanno condotto via… Maledetto sia il Mahdi!…

Si dimenò per qualche tempo urlando e ruggendo come una belva, straziandosi le labbra coi denti, stringendo freneticamente le braccia di O'Donovan e di Omar che si sforzavano di tenerla ferma, poi con un improvviso scatto si alzò a sedere colle mani tese innanzi a sè.

—Ah! ripigliò ella con uno scoppio di risa convulse. Sei tu… ancora tu, che mi vieni dinanzi… sempre tu, maledetta donna, mostruosa creatura, spaventevole apparizione!… Che vuoi da me? che vuoi dalla tua vittima? Non ti basta avermelo rubato, non ti basta avermelo perduto, non ti basta di avermi dilaniato il cuore… vieni a deridermi, vieni ancora a sogghignare dinanzi alla vittima… Ti odio! ti odio… ho sete del tuo sangue! Ah! potessi fulminarla!…

Gli occhi della delirante si chiusero e le mani si raggrinzarono. Poco dopo si calmò e cadde in un profondo torpore che potevasi chiamare un semi-svenimento.

—Ma con chi l'ha? chiese O'Donovan. Chi è questa orribile creatura che tanto odia e che tanto la sgomenta?

—Delira, rispose Omar. Non so chi sia, Potrà riaversi da questo terribile colpo?

—Non sarà nulla, ti ripeto, rispose O'Donovan Quando si sveglierà starà molto meglio.

—E del mio povero padrone, che ne sarà? Ah quante disgrazie. Se fosse morto? Se non lo rivedessimo più mai?

—Ho paura che tutto sia finito per lui, mormorò O'Donovan con un sospiro. Sventurata ragazza!

—Non c'è alcuna speranza? Nemmeno la più piccola probabilità di poterlo un giorno rivedere?

—Forse, Omar. Se noi siamo tanto fortunati da rompere le orde del Mahdi e di entrare in El-Obeid, chissà si potrebbe ritrovarlo fra i prigionieri.

—Voi dunque credete che sia ancor vivo.

—So che parecchi ufficiali egiziani che caddero nelle mani degl'insorti, invece di essere decapitati o fucilati furono nominati capi-tribù.

—È vero quello che mi raccontate?

—Verissimo, amico mio. Il Mahdi ha bisogno di buoni ufficiali per istruire le sue orde che sono affatto disorganizzate.

—Quanto bene mi fanno queste parole.

—Non illuderti amico mio.

—Non mi illudo ma spero.

—Sta zitto ora. Alza un po' un lembo della tenda che qui sotto si soffoca.

Omar ubbidì, ma aveva appena alzata la tela che gettava un urlo feroce. Dette indietro traballando come un ubbriaco cogli occhi stralunati.

—Ah!… esclamò egli con voce strozzata.

—Che hai? chiese O'Donovan, sorpreso. Chi hai veduto?

Il negro non rispose. Curvo, guardava innanzi a sè col più profondo terrore scolpito in volto e colle mani convulsivamente strette sui calci delle pistole. Pareva che fosse lì lì per slanciarsi fuori della tenda.

—In nome di Dio, ma chi hai visto? chiese O'Donovan che non capiva il perchè di quella viva emozione. Cosa ti è accaduto? Perchè tanto spavento? Viene forse Hicks pascià?

—Silenzio, balbettò il negro. Rimanete qui, io devo uscire.

—Ma perchè? dove vuoi andare?

—Ho visto una persona che non credeva di vedere in questi luoghi, ecco tutto. Fra venti minuti sono di ritorno.

—E tanta paura ti cagiona quella persona?

—No, mi ha sorpreso.

Il negro raccolse un mantello, s'avvolse da capo a piedi avendo cura di nascondersi parte della faccia e uscì in furia.

La notte era di già scesa sull'immensa pianura sabbiosa. In cielo scintillavano le stelle e sull'orizzonte alzavasi l'astro delle notti serene, il quale illuminava fantasticamente quel caos di tende, di cavalli, di cammelli, d'uomini, di fucili, di cannoni, di bandiere.

Per ogni dove s'accendevano i fuochi pel rancio della sera, per ogni dove s'aggruppavano Arabi, Negri, Egiziani, Turchi e Circassi a narrarsi vicendevolmente le avventure della giornata, fumando il narghiléch o il sibouk; per ogni dove s'aggiravano cavalli e muli condotti a dissetarsi ai pozzi.

Dappertutto s'udiva un brusìo, un mormorìo, un chiacchierìo, un muggire, un nitrire, che venivano coperti talvolta dalle preghiere dei devoti, o dai canti e dai tamburelli degli Arabi, o da un fragoroso rullar di tamburi, o da uno squillar improvviso di trombe e non di rado da una scarica di fucili delle compagnie accampate agli avamposti che venivano assalite dai bersaglieri insorti.

Omar, dopo aver girato rapidamente lo sguardo attorno e di aver esitato qualche istante si cacciò fra una doppia fila di tende, saltando via i soldati che sonnecchiavano per terra. Un minuto dopo si arrestava soffocando a gran pena un grido di furore.

Davanti a lui, avvolto in un lungo taub, camminava un negro di statura colossale con un remington ad armacollo. Quantunque fosse notte e il mantello coprisse una buona parte del volto a quell'uomo, Omar lo riconobbe subito.

—Takir! esclamò egli con voce sorda. Che fa qui lo schiavo di Notis? Ti trovo sul mio cammino, il Profeta l'ha voluto: tu sei un uomo morto.

Un feroce sorriso, un sorriso da tigre sfiorò le labbra dello schiavo di Abd-el-Kerim. Le sue mani corsero all'impugnatura della scimitarra, la accarezzò con compiacenza e si mise dietro al nubiano, dandosi l'aria di un ufficiale in ispezione.

Takir in breve tempo oltrepassò le tende e giunse agli avamposti, dove arrestossi qualche istante a scambiare alcune parole colle sentinelle. Omar lo udì chiedere notizie sulle posizioni occupate dai ribelli e se questi ronzavano attorno al campo da quel lato. Ricevuta una risposta negativa, il nubiano, passatosi il remington sotto al braccio, uscì dall'accampamento inoltrandosi in un palmeto.

—Dove va? mormorò Omar. Seguiamolo.

Aspettò che il nubiano fosse lontano un centocinquanta passi, poi si gettò a terra e si mise a strisciare fra i cespugli e le roccie con sveltezza straordinaria e senza produrre rumore. Giunto nel bosco si rialzò e s'avvicinò al nubiano che camminava con precauzione girando gli sguardi ora a destra ed ora a sinistra. Stava per puntare il fucile quando Takir si arrestò mandando un debole fischio.

—Chi aspetta? mormorò Omar aggrottando la fronte.

Si gettò in mezzo ad una fitta macchia di acacie gommifere e attese colle pistole in pugno.

Passarono cinque minuti, poi un uomo, un negro quasi nudo armato di una corta lancia e difeso da un grande scudo di pelle d'elefante, sbucò dai cespugli. Con pochi salti egli raggiunse il nubiano che si era addossato al tronco di una palma col fucile montato.

—Sei tu Tepele? chiese il nubiano.

—In persona, Takir, rispose il negro che Omar riconobbe per un guerriero del Mahdi.

—Che hai saputo?

—Nulla fino ad ora. So però che fu fatto prigioniero dallo scièk
Tell-Afab.

—È vivo adunque?

—Non te lo posso assicurare ancora. Domani parlerò con un arabo che si trovò presente al combattimento e che accompagnò lo scièk verso il sud.

—Abbiamo almeno qualche speranza?

—Non bisogna nè sperare ne disperare, disse Tepele. Io credo però che Abd-el-Kerim non sia stato ucciso. Abbiamo bisogno di ufficiali per organizzare le nostre tribù ed insegnare a esse a combattere contro gli Egiziani.

—Quando potrò sapere se è vivo o morto?

—Vedi tu quel tugul che s'arrampica su quella collina che sta a noi di faccia?

—Lo vedo.

—Domani, a sera, alla mezzanotte, trovati là e saprai ogni cosa.

—E i ribelli?

—Domani mattina abbandoniamo questi dintorni e ci portiamo in coda all'armata Egiziana. Questo luogo sarà deserto. Dammi ora i talleri, se gli hai portati.

Il nubiano gli porse un sacchetto.

—Qui vi sono cento talleri, disse Takir. Domani a sera verrò colla mia padrona al tugul e ne avrai altrettanti.

—Che Allàh ti conservi, Takir.

—Che il Profeta ti guardi.

Il ribelle s'allontanò correndo come un'antilope. Takir, dopo esser rimasto qualche minuto immobile, pensieroso, volse i suoi passi verso il campo mettendosi il fucile in ispalla.

Non aveva percorso ancora dieci metri che un colpo di pistola partiva dalla macchia di acacie. Il nubiano fece un salto gigantesco gettando un ruggito di dolore e cadde a terra con una gamba spezzata da una palla. Prima che potesse risollevarsi o porsi sulla difensiva, Omar gli ruinava addosso coll'jatagan in pugno.

—Guardami in volto, Takir! gli urlò agli orecchi lo schiavo di
Abd-el-Kerim.

—Omar! esclamò con profondo terrore il nubiano.

—Sì, proprio Omar, venuto al campo per vendicare l'infelice Fathma!

—Grazia!… balbettò Takir che si sentì agghiacciare il sangue.
Grazia, Omar.

Il negro lo guardò con profondo disprezzo.

—Ah! Tu hai paura della morte, gli disse sogghignando.

—Sono giovane per morire. Lasciami la vita e io sarò tuo schiavo.

—Vigliacco!… Odimi, Takir: tu puoi riscattare la vita rispondendo alle domande che ti farò ed eseguendo quello che ti ordinerò.

—Sono pronto a ubbidirti, ma lasciami la vita. La morte mi fa paura.

—Sta bene. Dimmi innanzi a tutto come Abd-el-Kerim cadde prigioniero.

—Fu preso mentre eseguiva una ricognizione nei dintorni di El-Duêm.

—Che ne fu del capitano Hassarn?

—I ribelli gli tagliarono il capo.

—Cosa sei venuto a fare qui? Ti ho veduto parlare con un ribelle.

—Voleva sapere se Abd-el-Kerim era vivo o morto.

—Tanto interessa a te il saperlo? chiese ironicamente Omar.

—Non a me, ma alla mia padrona.

—A Elenka? Dove trovasi questa donna? Dove ha la sua tenda?

Il nubiano non rispose e lo guardò con smarrimento.

—Takir, gli disse cupamente Omar. La tua vita è in mia mano; se taci io la spengo.

—Che vuoi fare della mia padrona? Oh! non toccarla, Omar!

—Ne farò quello che meglio mi piacerà. Dov'è la tenda?

—Si trova a quattrocento passi da quella di Hicks pascià.

—Takir, disse gravemente Omar, sta in guardia, perchè se mi inganni io ti spezzo il cranio.

—Lo so, ed è per questo che non ardisco ingannarti. Anzi ti dirò che sulla tenda ondeggia una piccola bandiera greca.

—Chi ha con sè Elenka?

—Nessuno. I due dongolesi che l'accompagnavano sono stati uccisi.

—Conosce il tugul che ti additò Tepele?

—Come conosci Tepele?

—Ti ho veduto parlare assieme e ho udito il suo nome. Rispondi, conosce quel tugul?

—Sì, ci siamo recati assieme un'altra volta.

Omar estrasse da una saccoccia un pezzo di carta e una matita.

—Scrivi quanto ti detterò, disse al nubiano.

—Tu vuoi rovinarmi, Omar.

—Se rifiuti ti rovinerò io e per sempre, disse Omar.

Il nubiano comprese la minaccia e scrisse, sotto dettatura di Omar, il seguente biglietto:

«Padrona,

«Non posso venire al campo perchè sono prigioniero degli insorti. Domani a mezzanotte recatevi al tugul che già voi conoscete. Tepele vi darà informazioni precise sulla sorte di Abd-el-Kerim.

TAKIR

Omar prese la carta, la lesse e la nascose con cura in petto.

—Takir, gli disse, recita una preghiera.

Il nubiano guardò con terrore Omar che teneva alzato l'jatagan.

—Perchè vuoi che reciti una preghiera? gli disse con voce tremante.

—Perchè fra un minuto ti presenterai al Profeta.

—Grazia!… grazia!… M'avevi promesso di non uccidermi!… Grazia, abbi pietà di me, Omar!

—Se io ti lascio in vita tu puoi tradirmi e mandare in fumo tutti i miei progetti. Recita una preghiera, Takir, che ho fretta.

—Allàh, aiutami, non uccidermi, sono giovane…. pietà, Omar, balbettò il nubiano che non aveva più sangue nelle vene.

—Recita una preghiera, urlò ferocemente Omar.

Il nubiano cacciò fuori un ruggito di disperazione e cercò, con un'improvvisa scossa, di rovesciare Omar, ma le forze lo tradirono e ricadde al suolo cogli occhi stravolti.

—Aiuto! aiuto!… urlò egli dibattendosi sotto il ginocchio dello schiavo. Aiu…

L'jatagan di Omar scese rapido come un lampo fendendogli il cranio fino al mento; dall'enorme ferita sfuggì un torrente di sangue misto a brani di cervella. Il nubiano sollevò la terra colle unghie per due o tre volte poi s'irrigidì.

—E uno, disse Omar, asciugando la lama dell'jatagan. Domani Fathma scannerà l'altra.

Gettò uno sguardo sul colossale cadavere del negro, stette alcuni istanti in ascolto, poi, assicurato dal funebre silenzio che regnava nel palmeto, ripresa la scimitarra e le vesti, si allontanò a rapidi passi dirigendosi verso il campo.

CAPITOLO XIV.—L'appuntamento

Il campo si era già addormentato da un bel pezzo, quando Omar, tutto trafelato per la lunga corsa, giungeva alla tenda.

Fathma, sdraiata sulla coperta, col capo appoggiato su di uno zaino, dormiva tranquillamente e O'Donovan vegliava accoccolato presso di lei, fumando una sigaretta e leggendo alcune note del suo libriccino al vacillante chiarore di una torcia resinosa infissa nel suolo.

Al rumore che fece il negro entrando, il reporter alzò il capo.

—Finalmente, diss'egli. Dove sei andato?

—A dire due parole ad un soldato mio amico, disse Omar con aria imbarazzata. Come sta Fathma? Ebbe ancora il delirio?

—No, e spero non delirerà più.

La conversazione cadde lì, il negro e il reporter si sdraiarono a terra, l'uno accendendo il suo scibouk e l'altro ripigliando la lettura del suo notes.

La notte, sotto la tenda passò abbastanza tranquilla. Fathma si svegliò due o tre volte in preda al delirio, ma fu cosa da poco. Nell'accampamento invece vi furono parecchi allarmi, molti colpi di fucile ed anche un attacco da parte degli insorti che fu respinto dalla carica di uno squadrone di basci-bozuk e dal fuoco delle mitragliatrici.

Appena il sole spuntò, O'Donovan saltò in piedi.

—Omar, diss'egli. Oggi non tornerò nella tenda avendo da fare una escursione nei dintorni del campo con lo Stato Maggiore. Questa sera, però, prima che il sole tramonti, sarò qui. Veglia sulla malata.

Il negro lo seguì fuori della tenda, poi, quando vide che era un bel tratto lontano, s'affrettò a rientrare chiamando ripetutamente la sua padrona.

La povera almea, alla voce del fedele schiavo, non tardò a svegliarsi. Ella si rizzò a sedere, girando attorno sguardi smarriti. Era pallida, abbattuta, aveva la disperazione scolpita in volto e tremava come avesse una potentissima febbre. Afferrò convulsivamente le mani che le tendeva Omar e le strinse con frenesia.

—Omar!… Omar!… esclamò essa con voce cavernosa.

—Come state mia disgraziata padrona? chiese il negro che frenava a gran pena le lagrime tremolantegli sotto le ciglia.

—Ah! Omar, sono stata alfine colpita proprio al cuore, sono stata alfine curvata dal potente soffio della fatalità! Povere mie speranze infrante, povero Abd-el-Kerim.

Un singhiozzo le montò alla gola e soffocò la sua voce. Gli occhi le si appannarono e l'abbronzato suo volto si rigò di pianto.

—Tutto a me d'intorno è ruinato, ripigliò ella con disperato accento, tutto è finito, tutto è perduto. Oh! l'orribil sogno!… Aver tanto sperato, aver tanto sofferto, tanto lottato e poi non rivederlo… è spaventevole, è mostruoso!… Aveva sperato di rivedere ancora quegli occhi che mi avevano vinto, che mi avevano domato, di riudire ancora quella voce che mi aveva giurato eterno amore nelle foreste del Bahr-el-Abiad, quella voce che mi faceva saltare il cuore in petto, che mi rapiva in estasi; aveva sperato di rivederlo ai miei piedi ebbro d'amore, di essere alla fine felice dopo tanti strazi… e non lo rivedrò invece più mai… Allàh, dammi la forza di resistere che io muoio!… Oh Dio! quanto sono infelice!

Ella nascose il volto fra le mani, si rovesciò all'indietro e pianse.
Omar, che non riusciva a frenare egli pure le lagrime, la risollevò.

—Padrona, non disperarti così, non piangere. Tutto non è terminato ancora, diss'egli. Lo ritroveremo, te lo giuro, e più presto di quello che tu credi.

—Perchè illudermi, Omar? Non spero più; tutto è irremissibilmente perduto, tutto! tutto!

—Ma no, non è perduto, tutto padrona. Anzi potei raccogliere, ieri sera, alcune notizie su Abd-el Kerim, e posso assicurarti che non è morto.

Fathma scattò in piedi come una leonessa. Ella afferrò Omar per le braccia scuotendolo quasi con furore.

—Notizie di lui! di Abd-el-Kerim! esclamò ella con una voce che l'emozione strozzava. Omar!…. Omar!… non farmi morire dalla gioia, non farmi balenare una speranza che forse non esiste.

—Te lo giuro, padrona, io ho avuto notizie di lui.

—Dov'è? Dove l'hanno condotto?…. Dimmelo, Omar, dimmelo!

—È prigioniero dello sceicco Tell-Afab.

—Ah!… dove si trova questo sceicco?… Io voglio vederlo.

—È impossibile, padrona. Si è recato al sud a combattere contro alcune tribù che si sono ribellate al Mahdi; dopo ritornerà certamente a El Obeid.

—Ed è sano il mio Abd-el-Kerim?

—Questo lo sapremo questa sera a mezzanotte

L'almea lo guardò cogli occhi stravolti.

—A mezzanotte! esclamo ella con sorpresa. Da chi? Come?

—Da un ribelle che si chiama Tepele.

—E tu conosci questo ribelle? Oh! vorrei abbracciarlo quest'uomo.

—Sarebbe pericoloso, padrona, si correrebbe il rischio di buscarsi qualche colpo di lancia. Ascolta quanto m'è toccato questa notte.

L'almea tornò a sedersi, tutta inondata di gelido sudore e tremante per la violenta emozione. Omar, accoccolatosi a lei accanto, le narrò per filo e per segno l'incontro di Takir, la gita di questi fuori del l'accampamento, il colloquio che aveva tenuto col ribelle Tepele, l'appuntamento per la mezzanotte con Elenka e infine il dramma sanguinoso che seguì la scrittura del biglietto.

Fathma l'ascoltò in silenzio, senza dare il più piccolo segno di collera o di gioia, ma quand'ebbe finito si alzò colle pistole in pugno, dirigendosi verso l'uscita della tenda.

—Dove vai? gli chiese Omar, spaventato, mettendosi risolutamente dinanzi.

—Vado alla tenda della greca, rispose Fathma con voce sorda. Fra mezz'ora le avrò fatto saltare le cervella.

—Ma tu vuoi perderci tutti e due! No, padrona, non lo farai.

—Ma sai Omar che ho il sangue che mi bolle? Sai che per ucciderla darei volentieri la mia vita?

—E se io ti fornissi il mezzo di ucciderla egualmente, senza che tu abbi a correre pericolo alcuno?

—Come? Parla, Omar, parla.

—Aspettiamo questa notte innanzi tutto. Appena il campo si sarà addormentato noi raggiungeremo il tugul e ci nasconderemo nell'interno o lì vicini. Elenka verrà, noi assisteremo al suo colloquio col ribelle Tepele, poi, quando sarà rimasta sola, o nel tugul o nella foresta noi l'assaliremo e la scanneremo come io ho scannato Takir. Ti pare? Nessuno ci vedrà, nessuno saprà nulla, non rimarrà nemmeno la più piccola traccia dell'assassinio, poichè i leoni e le iene s'incaricheranno di far sparire il cadavere.

—E O'Donovan? Egli vorrà venire con noi e ci sarà d'ostacolo.

—Niente affatto, egli non verrà. Lascia fare a me, e vedrai che tutto andrà bene.

—Ma sei certo che Elenka si recherà all'appuntamento?

—Più che certo. Io vado a farle recapitare il biglietto scritto da Takir. Quando leggerà che trattasi di sapere ove trovasi Abd-el-Kerim non esiterà un solo istante a partire.

—Se così fosse!… Oh!… quale ebbrezza, nel vederla morta ai miei piedi in un lago di sangue.

—La vedrai morta, padrona. Rimani adunque, pazienta ancora alcune ore.

—E sia, aspetterò la mezzanotte, L'ora sarà più propizia per la vendetta.

—Allora io mi reco alla tenda di Elenka.

—E se ti conosce?

—Non mi riconoscerà perchè non sarò già io che le consegnerò il biglietto.

Il negro sturò una bottiglia di caffè, l'ultima che possedeva O'Donovan, vi aggiunse alcune goccie di wiscky che trovò in una fiaschetta e ne fece trangugiare buona parte all'almea. Ne sorseggiò qualche poco, poi uscì per compiere la difficile missione.

L'almea, in preda ad un'ansia indescrivibile, si sdraiò sul limitare della tenda colla testa fra le mani e il volto cupo. Venne il mezzodì; il rancio composto di pochi grani di durah, d'una piccola porzione di carne di cammello morto di fatica e di alcune goccie di acqua putrida e calda, fu dispensato, ma Omar non comparve.

Passarono altre otto lunghe ore. Già Fathma cominciava a temere che gli fosse accaduto qualche disgrazia, che fosse stato scoperto e preso, quando comparvero dinanzi alla tenda il negro e il reporter del Daily-News.

By-good! esclamò allegramente O'Donovan, entrando. Di già in piedi, mia buona amica! Come state?

—Molto bene, rispose Fathma guardando Omar che le fece un rapido cenno.

—Non posso fare a meno di ammirarvi, riprese il reporter. Siete d'acciaio.

—Sono araba, ecco tutto.

—Che avete pensato di fare? Rimarrete al campo?

—Per ora sì. In seguito vedrò.

—Sapete che siamo lì lì per levare le tende e marciare su El-Obeid?

—Ah! di già?

—Sicuro. Oggi Aladin e Hicks pascià si sono riuniti collo Stato
Maggiore e hanno deciso di partire.

—E quando?

—Probabilmente domani. Ma ho paura che succeda dei guai.

—Perchè?

—I due pascià non s'intendono sulla via da scegliersi per marciare su
El-Obeid. Hicks vuole andarvi per la pianura che è la via più corta,
Aladin invece vuole andarvi pei monti e fare alto a Melbass prima di
dare battaglia.

—E cosa hanno concluso? chiese Fathma.

—Che l'esercito si separerà in due corpi. L'uno marcerà su El-Obeid e l'altro su Melbass.

—Che ne dite di questa separazione?

—Io dico che ci condurrà ad una catastrofe, disse tristemente
O'Donovan. Lo vedrete, Fathma, saremo schiacciati dal Mahdi.

Nella tenda regnò per alcuni istanti un penoso silenzio. D'improvviso Fathma s'avvicinò al reporter che era diventato pensieroso, e posando le mani sulle spalle di lui, gli disse:

—O'Donovan, ho un piacere da chiedervi.

—Parlate amica mia, rispose l'irlandese con voce affettuosa. Sono ai vostri ordini.

—A mezzanotte devo trovarmi fuori dell'accampamento per parlare con un ribelle. Mi darà importanti notizie su Abd-el-Kerim.

—Oh! fe' il reporter sorpreso. Vi recate ad un appuntamento!

—Sì, questo ribelle, al quale io salvai, due anni addietro, la vita, parlò oggi con Omar. Egli disse che a mezzanotte potrebbe darci notizie esatte sul luogo ove fu tratto il mio fidanzato. Non bisogna che io manchi.

—Ebbene, ci andremo tutti e tre.

—No, voi non potete venire. Il piacere che vi chiedo è che voi rimaniate nella tenda.

—Che io rimanga qui!… E perchè?

—Perchè la presenza di un bianco, di un infedele, potrebbe irritare quel selvaggio.

—Ma, se quel ribelle vi tendesse invece un agguato? La mia compagnia è un remington di più che parlerebbe, ve l'assicuro, con una precisione terribile.

—Non abbiate timore che ci si giuochi un brutto tiro, O'Donovan. Quel selvaggio Baggàra è un uomo di parola e mi ha giurato sul Corano che nessuno ci torcerà un capello.

—Quando è così, rimarrò nella tenda.

—Giuratelo.

—Lo giuro.

—Grazie, O'Donovan, disse Fathma con voce commossa. Prima che l'alba spunti noi saremo di ritorno e sapremo che sarà successo del mio infelice Abd-el-Kerim.

La sua faccia s'alterò fortemente e la voce le si spense in un singhiozzo.

—Andiamo, padrona, disse Omar porgendole il remington.

L'almea che aveva chinato il capo sul seno, lo rialzò con un gesto d'indomita fierezza. I suoi occhi si accesero d'una cupa fiamma e le nari si dilatarono straordinariamente.

—Vieni, Omar! esclamò ella. Là ci aspettano.

Strinse la mano al reporter e uscì a rapidi passi col negro, inoltrandosi silenziosamente fra la moltitudine di tende. Erano quasi le undici di notte quando oltrepassati gli avamposti, entravano nel palmeto.

—La via? chiese Fathma. La conosci tu?

—A menadito, rispose Omar. Cammina dietro di me e sta bene attenta. Il ribelle assicurò Takir che non correrebbe alcun pericolo ma non bisogna fidarsi.

—Verrà la mia rivale?

—Sicuramente, Fathma.

—Come hai fatto a consegnarle il biglietto di Takir?

—Lo diedi ad un soldato che per un pugno di parà lo portò. Egli mi disse che la greca, nel leggerlo, mandò un grido di gioia immensa.

—Ah! esclamò Fathma coi denti stretti e accarezzando l'impugnatura dell'jatagan. Allunghiamo il passo; sono impaziente di vedere il luogo dove cadrà per sempre la mia odiata rivale!

Al disotto di quella foresta v'era oscurità perfetta; era molto se qualche raggio lunare, azzurrognolo, d'infinita dolcezza, penetrava fra il fitto fogliame delle palme, dei tamarindi e dei colossali baobab, a formare una chiazza biancastra sul suolo erboso o coperto di immani radici che uscivano da terra come serpenti. Mille urla, mille ruggiti, mille scrosci di risa s'udivano a destra e a manca, emessi dagli sciacalli, dei leoni e dalle iene che si disputavano i cadaveri degli Egiziani o dei ribelli rimasti sul terreno nella scaramuccia della notte precedente. Di quando in quando, verso le lontane pianure o verso il campo, echeggiavano scoppi rumorosi di remington o di moschettoni seguiti poco dopo dagli allarmi degli avamposti.

Omar e Fathma, procedendo silenziosi come ombre e colla massima circospezione, in capo a mezz'ora ebbero attraversato il palmeto senza aver incontrato alcun insorto. Essi si trovarono dinanzi ad una serie di scoscese colline, in cima ad una delle quali alzavasi un tugul conico.

—Quello là, disse Omar, è il luogo dell'appuntamento. Saliamo con precauzione, Fathma. Potrebbe darsi che Tepele si trovasse di già sul posto.

Aggrappandosi ai cespugli, aiutandosi l'un l'altro e sempre nel più profondo silenzio, essi guadagnarono la cima della collina, piana, sparsa di macigni e di cespugli, con un profondo burrone nel mezzo, dalle pareti tagliate a picco e nel cui fondo urlavano bande numerose di sciacalli.

Omar si spinse fino al tugul ma era oscuro e deserto.

—Benone, mormorò egli ritornando presso Fathma. Non sono ancora giunti ma non staranno molto a venire. Ti senti forte padrona?

—Più forte e più risoluta che mai, rispose Fathma. Lascia che venga la mia rivale e io ti farò vedere di quanto sia capace un'araba.

Ella mostrò al negro un fitto cespuglio distante appena venti passi dal tugul e vi si nascosero nel mezzo, cogli occhi fissi sulla sottostante pianura.

Erano passati appena dieci minuti che dal nord fu visto venire innanzi un uomo semi-nudo armato di una lunga lancia. Omar conobbe in lui Tepele, l'amico di Takir.

—Sta attenta Fathma, mormorò il negro all'orecchio della compagna.

Tepele era giunto ai piedi del colle. Lo salì con una agilità da scimmia, passò a pochi passi dal cespuglio, entrò nel tugul e accese un po' di fuoco.

D'improvviso Fathma afferrò fortemente il braccio d'Omar e lasciò uscire dalle labbra contratte una sorda esclamazione.

—Guardala! diss'ella con voce arrangolata. Guardala!

Una donna armata di fucile e affatto sola, era apparsa sul limitare del palmeto. La luna che batteva su di lei, rendeva perfettamente visibili i suoi lineamenti e il costume greco che indossava.

—Erano passati due mesi, quando una notte ebbi la brutta idea di invitarlo a cacciare il leone. Io camminavo dinnanzi e lui camminava dietro a me.

—Elenka! balbettò Omar che provò involontariamente un brivido.

—Appena che mi capita a tiro di fucile io l'abbatto! Ho il sangue che mi bolle e nubi di fuoco dinanzi agli occhi. Oh! la vendetta!… la vendetta!…

—Non ti muovere, padrona! Se tu l'ammazzi prima che abbia a parlare con Tepele non sapremo più mai dove potremo trovare Abd-el-Kerim. Frenati per mezz'ora.

L'almea che si era rizzata sulle ginocchia col remington in mano, tornò a sdraiarsi.

—Aspetterò, mormorò.

La greca dopo aver esitato, si era messa a salire la dirupata china saltando di sasso in sasso, di scheggione in scheggione come un'antilope. Si fermò tre o quattro volte, girò e rigirò attorno al tugul dalle cui fessure uscivano raggi di luce, poi entrò. Fathma e Omar balzarono fuori dal cespuglio, e si appostarono ai lati della porta, spingendo gli sguardi nell'interno della capanna.

—Frenati, mormorò un'ultima volta Omar.

—Non aver paura di nulla, rispose Fathma. Ora Elenka è mia!

CAPITOLO XV.—Due tigri

Tepele, che si era accoccolato accanto al fuoco, nello scorgere la greca si era subito alzato andandole incontro. Egli le baciò la mano, la fece sedere su di un angareb malandato e gettò una nuova bracciata di legne secche sul fuoco.

—Ebbene Tepele, disse la greca, con un leggiero tremito nella voce.
Sai alfine qualche cosa?

—Sì, ma dov'è Takir?

—Non ha potuto venire. Su, narra, fa presto che ho l'inferno nel cuore. Dove si trova? È vivo?… È morto?…

—Posso assicurarvi che Abd-el-Kerim è vivo.

Elenka scattò in piedi come una pazza.

—È vivo!… Vivo!… ripetè ella con un'esplosione di gioia che pareva delirio. Sei proprio sicuro?…. L'hai veduto proprio coi tuoi occhi?… Dimmelo, Tepele, dimmelo!

—Io non l'ho veduto, rispose il guerriero, ma ho parlato quest'oggi con un arabo che veniva dal sud. Egli l'ha non solo visto, ma gli ha anche parlato.

—Posso fidarmi delle parole di quell'arabo?

—Danàqla è incapace di mentire.

—Dove si trova il mio povero Abd-el-Kerim?

—È nelle mani dello sceicco Tell-Afab il quale sta ora guerreggiando sulle rive del lago Tsherkela contro una tribù di Bàggara[1] che si è ribellata al nostro signore.

[1] Bàggara, da Bàgar (bove) sono mandriani arditissimi che abitano il sud del Kordofan.

—È prigioniero adunque? chiese con trepidazione la greca.

—È prigioniero.

—Lo si maltratta forse?

—Non abbiamo questa abitudine verso gli uomini che potrebbero esserci di grande utilità.

—Che vuoi dire?

—Abd-el-Kerim è ufficiale che se ne intende di cose di guerra e potrà servire sotto le nostre bandiere con un bel grado.

—Credi tu che accetterà?

—E perchè no? Egli è arabo e gli arabi non amano gli Egiziani.

—Ma se egli rifiutasse?

—In tal caso gli si taglierà la testa, disse tranquillamente Tepele.

—Tu mi fai paura. Rifiuterà, ne son certa.

—Non aver timore, che egli anzi accetterà. Appena lo scièk
Tell-Afab avrà soggiogato quei miserabili Bàggara, tornerà a
El-Obeid, presenterà l'arabo a Mohammed-Ahmed e questi lo convertirà.
Non sarei sorpreso se gli affidasse qualche buona tribù di guerrieri.

—Ed io, dove potrei vederlo? Cosa potrei fare per raggiungerlo? Oh! io voglio rivederlo, dovessi arrischiare la mia vita mille e mille volte, dovessi passare in mezzo a centomila ribelli.

—Sarà difficile che tu possa raggiungerlo.

—Anche se Hicks pascià rompesse le orde di Mohammed-Ahmed e s'impadronisse di El-Obeid?

Un sorriso ironico apparve sulle labbra del ribelle.

—Non illuderti, diss'egli. Non si vince l'inviato di Allàh. Ad un suo cenno i vostri cannoni invece di vomitare fuoco e bombe vomiteranno acqua.

—Ma non sai che siamo in undicimila e armati sino ai denti?

—Sicuro che lo so.

—Faremo di voi tutti un massacro.

—E che importa a noi il morire? Mohammed-Ahmed ci aprirà le porte del paradiso e tutti si batteranno come leoni per guadagnare questo premio. Lo vedrai, Ahmed disperderà il tuo esercito come il simoum disperde le sabbie, poi conquisterà l'Egitto sgozzando egiziani, turchi e cristiani, passerà alla Mecca a rovesciare dal trono il Sultano dei turchi, conquisterà l'India e diverrà il padrone del mondo per farvi regnare la sua fede.

—Ti lascio nelle tue credenze. Ma non potrei in qualche modo raggiungere Abd-el-Kerim? Se passassi sotto la bandiera del Mahdi?

—Sei una donna e non si saprebbe cosa fare di te.

—Valgo più di un uomo. Sono una jena.

—Si potrebbe tentare.

—Quando?

—Questa istessa notte, disse Tepele. Domani forse sarebbe troppo tardi.

—Mettiamoci in cammino allora.

—Andiamo adagio Tu mi aspetterai qui. A un miglio da queste colline accampano i miei compagni; io andrò a chiedere a loro se ti accettano sotto la loro bandiera.

—Sta bene, ti aspetterò disse Elenka.

Tepele gettò una nuova bracciata di legne secche sulle due pietre che formavano il focolare, prese la sua lancia e uscì.

Non erano ancora trascorsi due secondi che al di fuori s'udiva una detonazione accompagnata da un grido straziante. Elenka si precipitò verso la porta, ma retrocesse quasi subito fino all'estremità della capanna coi capelli irti sul capo. Il sangue le si gelò nelle vene; impallidì spaventosamente.

Dinanzi a lei, sul limitare della capanna, era improvvisamente apparsa l'almea Fathma con due pistole in pugno. La greca gettò un urlo.

—Fathma!… Fathma!… balbettò poi con un filo di voce.

L'almea col volto animato da una collera senza limiti e un crudele sorriso sulle labbra, le si avvicinò togliendola freddamente di mira colle pistole.

—Elenka! diss'ella con accento grave e cupo. Mi riconosci tu?

La greca, smarrita, senza forze, non rispose. Ella guardava fissamente la rivale, chiedendosi se era in preda ad uno spaventevole sogno. Un pallore cadaverico era diffuso sul suo volto orribilmente alterato.

—Mi riconosci tu, o mia odiata rivale? ripetè Fathma dopo qualche minuto di silenzio. Ah! Tu sei sorpresa di vedermi qui, in questa capanna? Tu mi credevi nelle mani di tuo fratello, laggiù, a Chartum non è vero? Elenka, sai che vengo a fare io qui?

La greca per un istante annichilita dallo spavento, ritrovò ben presto tutto il suo coraggio e la sua straordinaria energia. Ella si rizzò superbamente dinanzi all'almea, coi denti stretti, gli occhi animati dall'ira e additandole la porta:

—Esci, spregevole almea! le disse

Fathma ruppe in uno scroscio di risa

—Elenka, sai tu, cosa vengo a fare qui?

—Non m'importa di saperlo.

—Te lo dirò lo stesso. Io, Fathma, la Favorita del Mahdi, che tu tradisti e sferzasti nelle foreste del Bahr-el-Abiad, vengo a chiedere la tua vita!…. Ho sete del tuo sangue, sai, ma una terribile sete, nè uscirò di qui senza essermi dissetata. Sono due mesi che io anelo l'istante di trovarmi di fronte a te, sono due mesi che cerco la mia rivale, che mi rapì Abd-el-Kerim! Ora ti ho incontrata e non mi sfuggirai mai più!

—Ah! tu vuoi assassinarmi, adunque? Sta in guardia, perchè se mi ammazzi, col medesimo colpo ammazzi Abd-el-Kerim.

—Ho udito tutto e so tutto, Elenka; non riescirai no con degli inganni ad arrestare la morte che pende sul tuo capo. So dove trovasi Abd-el-Kerim, perchè udii ciò che ti narrò Tepele. Se conti poi sul ribelle, t'inganni; Omar l'ha ucciso.

Un tremito agitò le membra della greca. Comprese ormai che era irremissibilmente perduta ed ebbe paura.

—Fathma, diss'ella dopo alcuni istanti di esitanza. Se io partissi subito per Chartum, se io ti abbandonassi per sempre Abd-el-Kerim, mi lasceresti libera?

—No!

—Se io ti chiedessi perdono di quello che ti feci e se io, la nobil greca, mi inginocchiassi dinanzi all'almea?

—No, rispose l'implacabile araba. Bisogna che una di noi muoia. Guarda, potrei assassinarti scaricandoti addosso queste pistole e gettarti di poi in un burrone a pasto delle iene e degli sciacalli, ma non sono io, l'almea Fathma, vigliacca a tal segno. Ti propongo un duello coll'jatagan, ma un duello a morte, mi capisci? Se ti rifiuti chiamo Omar e ti faccio saltare le cervella!

Un lampo di feroce gioia guizzò nei neri occhi di Elenka.

—Ah! tu sei generosa adunque! esclamò ella con ironia.

—Sì, generosa come un'araba, generosa come il leone del deserto.

—Accetto il duello che mi proponi. Quando ci batteremo?

—Subito; la notte è abbastanza chiara per colpirci al cuore.

—Vieni adunque, ma ti pentirai di essere stata troppo generosa con me. Io non ti risparmierò.

Fathma si strinse le spalla. Rimise le pistole nella cintura, prese i remington della rivale onde non le saltasse il ticchio di servirsene e uscì dicendo:

—Seguimi?

—Sei sola? chiese Elenka arrestandosi.

—Ho meco Omar che ti darà il suo jatagan.

—Se io avessi la fortuna di ucciderti mi lascierà libera egli?

—Non ti toccherà, te lo prometto.

—Quand'è così, sono con te.

Le due rivali uscirono. La notte era chiarissima; la luna brillava in un cielo senza nubi rischiarando come in pieno giorno le dirupato colline e la sottostante pianura. Un leggier venticello fresco fresco spirava, facendo stormire lievemente le cime dei cespugli.

Omar andò incontro a Fathma.

—Dà il tuo jatagan a quella donna, disse l'almea.

—Per che farne? chiese il negro con ansietà.

—Ci battiamo.

—Non farlo padrona. Diffida da quella donna che è più vile d'una iena.

—Lascia fare a me. Odimi ora: qualunque cosa accada, tu non prenderai parte al combattimento. Se io cado lascierai andare la mia rivale senza torcerle un sol capello. Io, la fidanzata del tuo padrone lo voglio!

Omar la guardò con occhi supplichevoli.

—Padrona! balbettò egli.

—Lo voglio! ripetè l'almea quasi con ira.

—Sia fatta la tua volontà.

Trasse l'jatagan e lo porse a Elenka che ne provò il filo e la punta.

—In guardia disse l'almea con tono glaciale. Fra dieci minuti bisogna che tutto sia terminato.

Elenka alzò il gonnellino per essere più libera e andò a mettersi a venti passi dal burrone volgendogli le spalle. Fathma le si mise di fronte, raccolta su sè stessa come una tigre, colla punta dell'arma diretta al seno della rivale.

—Fathma, disse la greca. Una di noi due morrà, e probabilmente sarai tu quella che non vedrai il sole di questa mane. Vuoi dirmi che è successo di mio fratello Notis?

—L'ho ucciso.

—Ah! miserabile! urlò la greca furibonda. In guardia! In guardia che io t'ammazzo.

Le due rivali si scagliarono a testa bassa l'una contro l'altra e il duello cominciò. Era qualche cosa di strano, di fantastico, di terribile, il vedere quelle due donne assetate di vendetta, cieche pel furore, illuminate dai pallidi raggi lunari, avanzare con salti da felino, stringersi vicendevolmente e cercare tutte la astuzie, tutti i mezzi possibili per iscannarsi. Parevano proprio due tigri che volessero divorarsi.

I ferri si cozzavano rumorosamente mandando scintille, fischiavano nell'aria, si abbassavano e si alzavano con rapidità fulminea e si torcevano al punto da temere che si spezzassero tanto erano impugnati fortemente da quelle due donne che parevano deliranti.

Cinque minuti dopo la greca mandava un urlo. L'jatagan di Fathma apparve bagnato di sangue.

—Toccata! esclamò l'almea, saltando innanzi come una pantera.

—Ma non sono ancora morta, rantolò la greca portando una mano al seno. Avanti, avanti!

L'almea attaccò con uno slancio disperato, a corpo perduto, mirando il cuore della rivale e stringendola così davvicino che questa fu costretta a indietreggiare. Per la seconda volta il ferro dell'araba bevette sangue.

—Toccata, ripetè ella.

—Avanti! avanti! gridò la greca che balzava indietro avvicinandosi, senza accorgersene, al burrone.

Il terribile duello continuò per altri cinque minuti in capo ai quali la greca, che non riesciva a tener testa all'araba che era assai più agile e assai più forte, trovossi spossata, col giubettino insanguinato, sull'orlo del burrone.

—Guardati, le disse l'almea. Sei morta.

La greca volse il capo dietro di sè, vide l'abisso in cui stava per precipitare e gettò un grido di spavento.

—Grazia, balbettò ella che sentivasi mancare le forze.

—Una di noi deve morire! Urlò l'implacabile Fathma facendo fischiare l'jatagan. Guardati!

Non aveva ancora terminata l'ultima parola che il suo jatagan sprofondavasi più che mezzo nella gola della greca, facendo uscire uno sprazzo di sangue spumoso.

Elenka, colpita a morte, emise un rantolo. Traballò, cercò di rimettersi in equilibrio, ma le forze le vennero meno; lasciossi sfuggire di mano l'arma, dilatò spaventosamente le pupille nelle quali brillava un ultimo lampo di minaccia e precipitò, roteando, nel fondo del baratro. S'udì un tonfo sordo sordo come d'un corpo che si fracassa, poi successe un silenzio di morte.

L'almea, pallida per l'emozione, coll'jatagan insanguinato in mano, s'avanzò fino all'orlo del burrone e guardò giù. Nel fondo fra le roccie aguzze, scorse il deformato e straziato corpo della bella Elenka illuminato vagamente dai freddi e melanconici raggi dell'astro della notte.

Rabbrividì e dette indietro.

—È morta! è morta!… mormorò ella con voce cupa. Allàh mi perdonerà.

Si volse per fuggire da quell'orribile luogo e si trovò dinanzi a
Omar.

—È proprio morta? chiese il negro.

—Sì, Omar.

—Siamo adunque vendicati. Fratello e sorella sono entrambi spenti.

—Taci, fuggiamo di qui. Questo luogo mi fa paura.

—Dove andiamo?

—A salvare il mio fidanzato.

—Vuoi recarti sulle rive del lago?

—Zitto, disse Fathma. Odi?

Il negro tese l'orecchio. In lontananza, verso il campo egiziano, s'udivano squillare le trombe e rullare fragorosamente i tamburi.

—Che succede? chiese egli. Una battaglia forse?

—No, è l'esercito egiziano che marcia sulla capitale del Mahdi.

—E noi andiamo?

—A El-Obeid.

L'almea si gettò ad armacollo il remington e discese di corsa la collina seguita dal negro. Ella si arrestò alcuni istanti nella pianura cogli occhi fissi su due punti neri che scendevano dal cielo, ingrandendo a vista d'occhio.

—Guarda, Omar, diss'ella rabbrividendo.

—Vedo, rispose il negro. Sono aquile che calano nel burrone.

—Povera Elenka! Questa sera non rimarranno di lei che le spolpate ossa a pasto delle belve feroci.

Soffocò un sospiro e riprese la corsa internandosi nel palmeto. Man mano che si avanzavano gli squilli di tromba e il rullo dei tamburi diventavano più sonori. Talvolta s'udivano nitriti di cavalli, voci confuse di uomini e muggiti di buoi, che il vento portava.

Cominciava ad albeggiare quando essi giungevano agli avamposti. Il campo era in piena rivoluzione ed interamente mutato. Le tende erano state levate, i fasci di fucili sciolti, i cannoni attaccati ai cavalli, i cammelli e i muli aggruppati alla rinfusa e carichi di viveri, munizioni e bagagli.

Gli ufficiali correvano dappertutto dando ordini, formando le compagnie, i battaglioni e i reggimenti che si spiegavano formando un immenso quadrato ai cui lati galoppavano disordinatamente i basci-bozuk colle scimitarre sguainate e le pistole in pugno.

—Si parte? chiese Fathma arrestando un basci-bozuk che le passava vicino.

—Sì, rispose il turco.

—Tutti assieme?

—Tutti assieme.

—E Aladin pascià?

—Viene con noi.

—Dov'è Hicks?

—In mezzo al campo col suo Stato Maggiore.

—E O'Donovan?

—Sarà presso il pascià.

—Accorriamo, Omar, disse Fathma, congedando con un gesto il basci-bozuk.

Entrarono nel campo facendosi largo fra tutti quei soldati affaccendati ad arrotolare le tende, a caricarsi degli zaini, a bardare i cavalli, a trascinare i cannoni, a dispensare armi munizioni e raggiunsero lo Stato Maggiore in mezzo al quale stavano Hicks pascià discutendo vivamente col colonnello Farquhard. O'Donovan, che era nel gruppo, s'affrettò a correre a loro incontro conducendo tre cavalli bardati.

By-good! esclamò egli. Credeva che vi fosse toccata qualche disgrazia e stavo per radunare alcuni basci-bozuk per venirvi a cercare… Sapete qualche cosa di Abd-el-Kerim?

—Sì, mio nobile amico, rispose Fathma. Sappiamo più di quello che speravamo.

—E dunque?

—È prigioniero dello scièk Tell-Afab che sta ora guerreggiando sul lago Tscherkela.

—Vivo allora?

—Sì, vivo, ma non per questo salvo.

—Che avete intenzione di fare?

—Dove va l'esercito?

—A dare battaglia alle orde del Mahdi sotto El-Obeid, rispose il reporter.

—Vengo con voi.

—Fate bene. Quando avremo espugnata la città pregherò Hicks pascià che ci dia un centinaio di uomini per andar a liberare Abd-el-Kerim. Presto, amici miei, in sella, e che Iddio ci aiuti a vincere!

CAPITOLO XVI.—Il massacro di Kasghill.

Erano le sei del mattino del 1° gennaio, quando l'esercito egiziano comandato da Hicks pascià si mise in marcia dirigendosi verso El-Obeid, la capitale del Kordofan, la città forte, o meglio, il quartier generale del Mahdi Ahmed Mohammed.

Si componeva di oltre diecimila uomini fra egiziani e basci-bozuk, nubiani e sennaresi, bene armati, ma affatto demoralizzati, affranti dalle fatiche, dalle sofferenze, dalle malattie, dai torridi calori; di diecimila uomini infine risoluti bensì a espugnare El-Obeid, poichè la presa di questa città era l'unica risorsa che a loro rimanesse per mettere fine a quella interminabile campagna e per evitare un probabile disastro, ma impotenti di sostenere un vigoroso urto delle orde del Mahdi.

L'esercito procedeva diviso in sei quadrati, ma assai lentamente, fiancheggiato sulle ali dei basci-bozuk i quali galoppavano nel massimo disordine colle scimitarre in pugno.

Ogni soldato aveva la baionetta inastata per essere pronto a respingere i primi assalti degli insorti che non dovevano molto tardare.

Faceva un caldo terribile. Il sole versava proprio a piombo, raggi infuocati che rendevano le sabbie così ardenti che il camminare a piedi scalzi, era affatto impossibile. Per di più, un'immensa nuvola di polvere si alzava sotto quelle migliaia e migliaia di piedi o ricadeva qua e là acciecando e soffocando quei disgraziati soldati.

Per due ore l'esercito fiancheggiò il palmeto di Kasegh cercando di tenersi all'ombra, poi entrò in una vastissima pianura sabbiosa, calcinata dal sole, sparsa di arditissime rupi e di magri cespugli.

—Che brutto luogo, disse O'Donovan, che cavalcava a fianco di Fathma.

—Temete qualche cosa? chiese l'almea.

—Non scordatevi Fathma, che oggi è il 1° gennaio.

—Che vuol dire ciò?

—Ho udito dire che il 1° gennaio il Mahdi ci darebbe battaglia.

—Ubbie, amico mio.

—Non correte tanto, Fathma. È un bel pezzo che io sento dire che la luna del 1° gennaio è incaricata di vendicare l'Islam.

—E ci credete?

—Un po'.

—Ma io non vedo i ribelli, O'Donovan.

—Non è ancora sera, Fathma.

La conversazione finì lì.

L'esercito intanto continuava ad avanzarsi, ma non più coll'ordine di prima, i soldati spossati, trafelanti, arsi vivi, andavano a capriccio, a branchi a drappelli, coi fucili ad armacollo, tentennando come ubbriachi. Uno cadeva qui colpito da una insolazione, e rimaneva boccheggiante sulle sabbie ardenti; un altro cadeva là impotente di fare un passo, un terzo si arrestava più lontano, un quarto, si sbandava cercando invano una goccia d'acqua.

I cavalli, i cammelli ed i muli, abbandonati a sè stessi dai cammellieri, accrescevano ad ogni istante la confusione, rimanendo indietro, avanzando od andando a traverso a urtare le ali dell'esercito.

Invano Hicks pascià sagrava, invano gli ufficiali si spolmonavano, invano lo Stato Maggiore galoppava a dritta, a sinistra, dinanzi e di dietro radunando le disperse compagnie.

Verso mezzogiorno l'esercito entrava nei boschi di Kasghill colla speranza di trovare delle sorgenti ed estinguere l'ardente sete. Era appena entrato che urla terribili scoppiarono in coda al quadrato del colonnello Farquhard. Migliaia e migliaia d'insorti, difesi da grandi scudi e armati di coltellacci, di fucili, di lancie, di scimitarre e baionette, erano improvvisamente usciti dai circostanti boschi caricando furiosamente gli egiziani.

L'urto fu sanguinosissimo. Gl'insorti, niente atterriti dal fuoco del quadrato, si avventavano sulle punte delle baionette emettendo urla acute, tentando di sfondare quella muraglia umana. Ma fulminati dinanzi e sciabolati a tergo dai basci-bozuk, si ritirarono confusamente gettandosi in mezzo alle fitte boscaglie dove l'inseguimento diventava impossibile.

Hicks pascià fece suonare il segnale della fermata e si fece porre in batteria le mitragliatrici e i cannoni. Era tempo.

Nuove torme di insorti sbucavano dai boschi con impeto disperato sfidando impavidi il vivissimo fuoco della moschetteria e l'uragano di piombo delle mitragliatrici. Alla loro testa marciavano i dervis[1] incoraggiandoli colla voce e coll'esempio e recitando le terribili parole dei Khuatsar che suonano così:

[1] Dervis, uomini che hanno una fama di santoni. Il Mahdi, ne aveva molti.

—Colpisci senza tema, giacchè colui che tu odi ha meritato la morte.

I sei quadrati avevano un gran da fare a tenere testa a quei furibondi che sprezzavano la morte e non chiedevano altro che di colpire. Ne uccidevano cento e ne sorgevano duecento, ne ammazzavano di più e ne sorgevano mille, duemila, cinquemila, ventimila.

La strage durò tre ore senza interruzione poi vi fu un po' di sosta. Gli insorti, respinti su tutta la linea, sventrati e mutilati dal fuoco delle mitragliatrici, si ritirarono ma senza abbandonare i boschi di Kasghill.

Hicks pascià, premuroso di giungere a El-Obeid, fece riordinare i quadrati e diede il segnale di rimettersi in marcia. Non aveva, l'esercito, percorso duecento passi, che nuovi insorti apparvero dinanzi e di dietro, a destra e a sinistra, saettando colle loro lunghe lancie i basci-bozuk e massacrando orribilmente i disgraziati che feriti o affranti o colpiti dalle insolazioni rimanevano indietro.

Ogni mezz'ora Hicks pascià era costretto a far suonare l'alt, far mettere in batteria le mitragliatrici e comandare il fuoco.

Alle sette di sera fu giocoforza accampare. L'esercito, sfinito, assetato, arrostito dal sole, acciecato dalla polvere, non era capace di fare due passi innanzi.

I cammelli e i cavalli dei convogli vennero legati gli uni agli altri in modo da formare un'ampio cerchio e attorno a essi i sei quadrati si accamparono.

La notte era oscurissima. Dense nubi, nerissime come se fossero di pece, si erano accavallate in cielo e correvano come cavalli sbrigliati. Colpi di vento umido, di quando in quando scendevano facendo curvare gli alberi della foresta. Al sud lampeggiava e il tuono brontolava.

O'Donovan, Fathma e Omar, divorato in furia il magro pasto, si diressero verso gli avamposti per vedere coi loro occhi come stavano le cose.

I soldati erano tutti in piedi e i cannonieri erano ritti accanto ai loro pezzi. Tutti aspettavano il nemico che aveva silenziosamente circondata la boscaglia e che aspettava il momento propizio per gettarsi sopra i quadrati.

—Che brutta notte che si prepara, disse O'Donovan.

—Verremo attaccati? chiese l'almea.

—Senza dubbio.

—Con questa oscurità?

—Gl'insorti s'accosteranno più facilmente.

—Vinceremo?

—Non credo, Fathma. I nostri soldati hanno paura e non possono tenersi in piedi tanto sono stanchi.

In quel momento la luna apparve sull'orizzonte facendo capolino fra due gigantesche nubi. O'Donovan impallidì.

—Ecco la luna che vendicherà l'Islam! esclamò. Non aveva ancora finito che alcuni spari rimbombavano agli avamposti.

—All'armi! s'udirono gridare le sentinelle.

—Il nemico! gridò Omar.

La sua voce fu coperta da urla feroci, da urla di guerra e di morte.

—Colpisci senza tema, gridavano quelle voci. Colpisci senza tema giacchè colui che tu odi ha meritato la morte.

I dervis s'avanzavano colla scimitarra in pugno rovesciando sull'esercito egiziano migliaia e migliaia di fanatici. Una terribile grandinata di palle cadde sugli egiziani, molti dei quali stramazzarono a terra mandando urla dolorose. I sei quadrati vacillarono da un capo all'altro e le linee si ruppero in varii luoghi. Alcune compagnie, côlte da invincibile panico, presero la fuga gettando armi e zaini.

—Si salvi chi può! urlarono alcuni vigliacchi.

—Fuoco! s'udì tuonare Hicks pascià.

—Fuoco! ripeterono i comandanti.

Le trombe diedero il segnale di cominciare il fuoco e il combattimento accanito, terribile, sanguinosissimo, cominciò.

Il fracasso diventò ben presto spaventevole. Gli egiziani, assaliti da tutte le parti da migliaia e migliaia di guerrieri, tiravano furiosamente, all'impazzata e assaltavano colla baionetta; i cannoni tuonavano, ruggivano, vomitando veri torrenti di ferro e le mitragliatrici stridevano sui fianchi dei reggimenti tempestando i cespugli, fracassando i tronchi degli alberi, sollevando per ogni dove il terreno, sventrando i cavalli, i cammelli e gli uomini.

Dalle negre boscaglie, avvolte da giganteschi vortici di fumo che il vento sbatteva e lacerava, uscivano senza posa correndo e urlando, drappelli di nudi guerrieri i quali si precipitavano contro le baionette a corpo perduto, sfondando i battaglioni e diradando con ispaventevole rapidità le file.

Gli uomini cadevano a dozzine, a cinquantine, a centinaia, dinanzi, a destra, a sinistra, senza quasi sapere da qual lato venivano colpiti, chi colle braccia tronche, chi colle gambe fracassate, chi colla testa nettamente portata via, chi forato da cento colpi.

Era una carneficina, un mostruoso massacro. Fathma, Omar e O'Donovan, riparati dietro i loro cavalli sventrati dalla mitraglia, guardavano con angoscia l'assottigliarsi di quelle schiere. Mai avevano assistito ad un macello simile; mai avevano visto tanti morti e tanti feriti; mai avevano udito tuonare assieme tanti fucili e tanti cannoni; mai avevano visto tanta rabbia e tanta ostinazione.

Alle undici, quando maggiore era la mischia, l'uragano che da alcune ore minacciava di scoppiare, venne ad accrescere l'orrore di quella notte di sangue.

Le cateratte del cielo improvvisamente s'aprirono e una pioggia furiosa si rovesciò sui combattenti mescolandosi ai torrenti di sangue che correvano pei boschi. Il vento cominciò a ruggire, la folgore a scrosciare, i lampi guizzarono illuminando d'una luce livida, infernale, l'orribile macello. Anche il cielo era contro i disgraziati che Hicks pascià conduceva contro il profeta del Sudan.

A mezzanotte urla strazianti s'udirono a destra del quadrato di Hicks e poco dopo un'onda di soldati sfondava uno dei reggimenti precipitandosi all'impazzata verso i muli, i cammelli e cavalli.

O'Donovan arrestò uno di quegli uomini.

—Che succede? gli chiese.

—Il quadrato del colonnello Farquhard è stato distrutto.

—Maledizione! ruggì il reporter.

La situazione diventava spaventevole. I mahdisti, ebbri di sangue e di carneficina, raddoppiavano gli assalti, sfondando una dopo l'altra le linee di battaglia. Di quando in quando si udivano, mescolati agli scrosci delle folgori, al rombo dei cannoni e alle fucilate, le urla strazianti degli egiziani che venivano spietatamente macellati.

Alla una del mattino un altro quadrato veniva sfondato e poco dopo venivano respinti, aperti, spezzati, tagliuzzati gli altri tre.

Più non restava che il quadrato di Hicks pascià ma in quale stato! Non vi erano più ufficiali che si erano fatti ammazzare alla testa dei loro battaglioni; non vi erano più basci-bozuk, distrutti totalmente in due cariche tentate contro quel formidabile nemico; non vi erano più artiglieri, morti accanto ai loro pezzi smontati o scoppiati.

V'erano invece enormi ammassi d'uomini, di cavalli e di cammelli orrendamente scannati, dietro ai quali tiravano ancora i superstiti anneriti dal fumo, ubbriachi di polvere colle dita abbrustolite dalle canne di remington diventate ardenti.

Alle quattro e pochi minuti, Fathma che distesa a terra sparava dove appariva confusamente il nemico, vide Hicks pascià che trovavasi solo, cinquanta passi più innanzi, portare le mani al volto, vacillare, abbandonare la sciabola e precipitare da cavallo.

—O'Donovan! gridò ella. Il pascià e caduto.

Il reporter e Omar, che si trovavano alcuni passi indietro riparati da un cannone smontato, a quel terribile grido si slanciarono verso l'almea malgrado le palle che continuavano a fioccare.

—Perdio! esclamò l'irlandese. Siamo tutti perduti. Dov'è caduto?

—Là in mezzo a quel gruppo di cadaveri.

—Accorriamo, amici, e non una sillaba. Se gli egiziani lo sanno siamo tutti morti.

O'Donovan e i suoi compagni, scalarono intrepidamente i cumuli dei cadaveri dal disotto dei quali sfuggivano torrenti di nero sangue, e giunsero là, ove era caduto il pascià.

In sulle prime, fra i vortici di fumo non iscorsero che un cavallo riccamente bardato che s'impennava nitrendo, ma poi in mezzo ai cadaveri dello Stato Maggiore, steso sul dorso, colle braccia incrociate sotto la testa scopersero l'infelice pascià.

O'Donovan, coi capelli irti, tremante, pallido, inondato di freddo sudore, si curvò su di lui e l'alzò. Il pascià aveva la faccia marmorea e alterata, la barba irrigata dal sangue che eragli uscito dalla bocca e la tunica forata da due palle.

—Gran Dio! balbettò il reporter. È morto.

Balzò in piedi, afferrò Fathma per una mano e disse:

—Fuggiamo o siamo perduti.

—Ma dove? chiese l'almea pallida di terrore.

—Ho visto una rupe laggiù. La scaleremo.

—Ma il nemico circonda il quadrato.

—Non importa, venite o sarà troppo tardi. Vieni, Omar.

Il reporter, l'almea e lo schiavo attraversarono il quadrato ingombro di morti e di moribondi, di armi, di cannoni, di cavalli e di cammelli e giunsero ai piedi di una gigantesca rupe che difendeva, verso oriente, le linee egiziane.

—Omar, vedi dei nemici sulla cima? chiese il reporter.

—No, rispose il negro.

—Hai una fune?

—Sì, l'ho.

—Sei capace di raggiungere quella sporgenza che scorgesi a mezza altezza della rupe?

—Sarà cosa difficile, ma lo tenterò.

—Sali adunque, ma fa presto. I ribelli stanno per rompere il quadrato e scannare tutti i soldati.

Il negro si liberò dalla casacca, dei calzoni e del turbante, si arrotolò attorno alle reni la fune e cominciò la pericolosa scalata mentre la mitraglia continuava a grandinare e i mahdisti macellavano le schiere egiziane che ancora resistevano ai loro furiosi assalti.

Aggrappandosi agli arrampicanti, appoggiandosi ai cespugli, cacciando le dita nei crepacci della rupe cominciò a elevarsi malgrado la pioggia che lo acciecava e le palle che fischiavano ai suoi orecchi.

Ogni qual tratto una scheggia staccavasi dalla rupe e rotolava al basso facendo guizzare Fathma e il reporter che seguivano con viva trepidazione e col cuore sospeso l'ardita manovra del negro. Qualche volta era invece un ramo che spezzavasi e si vedeva Omar dondolarsi sopra l'abisso, sospeso ad un ramoscello o ad una semplice radice.

Dopo cinque minuti di sforzi incredibili, lo schiavo riuscì a raggiungere la prima piattaforma che trovavasi a mezza altezza della rupe.

Legò la fune ad un grosso macigno e gettò l'altro capo ai compagni che se ne impadronirono vivamente.

—A voi Fathma, disse il reporter, dominando colla sua voce il rombo dei cannoni, lo scrosciare delle folgori, le urla dei ribelli e le grida strazianti dei moribondi. Presto, presto o sarà troppo tardi.

Fathma non se lo fece dire due volte. Afferrò la fune e si issò nell'aria raggiungendo Omar.

—O'Donovan! gridò poi.

La sua voce fu coperta da urla terribili. I ribelli avevano sfondato il quadrato e macellavano spietatamente gli egiziani che si erano addossati ai cavalli ed ai cammelli.

—O'Donovan! ripetè Fathma.

Il reporter s'avvinghiò alla fune e si issò malgrado le palle che grandinavano fitte fitte. Era giunto a mezza altezza quando fu colpito alla testa da una scheggia di mitraglia. Mandò un grido disperato.

—Sono morto!

Fu visto arrestarsi e cercare un appoggio nei crepacci della rupe, ma una nuova scheggia lo colpì al petto. Aprì le mani e precipitò roteando nell'abisso spaccandosi il cranio sulle roccie sottostanti.

Fathma e Omar, agghiacciati dal terrore, si curvarono sull'orlo della rupe cercando di scorgere lo sventurato reporter del Daily-News, ma invano.

—O'Donovan! O'Donovan! gridò Fathma con disperato accento.

La sua voce si perdè fra gli urli feroci dei mahdisti.

—Scendiamo! gridò ella.

S'aggrapparono agli arbusti per discendere, ma il tempo mancò. Dall'alto della rupe venivano giù precipitosamente dei nudi guerrieri agitando le loro lancie e le loro scimitarre.

—Siamo perduti! gridò Omar.

—Indietro cani! urlò Fathma, strappandosi dalla cintura l'jatagan.

Gl'insorti anzichè arrestarsi s'avventarono a testa bassa contro l'almea e il suo schiavo, li circondarono, li disarmarono e li curvarono sull'abisso. Già stavano per precipitarli nel vuoto, quando una voce tonante, imperiosa, urlò:

—Fermi tutti! Chi li tocca è uomo morto!

Un guerriero riccamente vestito discendeva dall'alto della rupe con rapidità vertiginosa. Giunto sulla piattaforma egli si precipitò ai piedi di Fathma.

—Ah! mia povera padrona! esclamò egli baciandole le mani.

Fathma e Omar lo riconobbero subito.

—Abù-el-Nèmr! gridarono con gioia.

—Sì, amici miei, disse lo scièk. L'Abù-el-Nèmr che voi salvaste dalla morte quando il leone lo ferì nelle foreste del Bahr-el-Abiad e che ora viene a pagare il sacro debito. Amici, voi siete salvi e sotto la mia possente protezione!

Nel medesimo istante che il generoso scièk pronunciava quelle parole, l'ultimo egiziano dell'infelice Hicks pascià cadeva morto sotto le lancie dei terribili guerrieri di Ahmed Mohammed profeta del Sudan[1].

[1] L'illustre missionario D. Luigi Bonomi, che quando accadde la battaglia si trovava a breve distanza da Kasghill, mi assicurò che il Mahdi perdette solamente 4 o 500 uomini. E.S.

FINE DELLA PARTE SECONDA.

PARTE TERZA

Il Mahdi

CAPITOLO I.—I prigionieri.

La mattina del 15 maggio 1883, una straordinaria agitazione regnava fra le innumerevoli orde dal Mahdi Mohammed Ahmed, accampate in una immensa e sabbiosa pianura, a corta distanza da El-Obeid la capitale del Kordofan.

Dal tugul, dalle tende, dalle zeribak, dalle tettoie e dalle hose[1] uscivano, vociferando a tutta gola, guerrieri vestiti con stoffe variopinte o semi-nudi, o nudi affatto, slanciandosi all'impazzata fra i cannoni, fra i fucili stretti in fasci, fra i cammelli e i cavalli che ingombravano il campo.

[1] Cortili chiusi fra capanna e capanna.

Ora passavan turbe di Baggàra Salem, guerrieri d'alta statura, di forme massiccie, dalle fisonomie feroci, coi cappelli intrecciati e ornati di pezzetti di ambra e di conterie di Venezia; ora di Baggàra Hamran montati su buoi e coi corpi spalmati di grasso di cammello e riparati dietro grandi scudi convessi e coperti di pelle d'antilope; ora di Abù-Rof, bella gente dalla tinta bronzina, lineamenti fieri, il petto racchiuso da scintillanti cotte di acciaio e il capo difeso da un elmetto nasale; ora di guerrieri del Beni-Gerar, terribili predoni propri del Darfur, colle membra cariche di anella d'avorio o di rame; poi attruppamenti di beduini Kababich in uniforme bianca, di negri Megianin, di Aulad-el-Behr, di Hababin; ondate di Sennaresi, di Nubiani, di Arabi, di Scilucchi, di Basci-bozuk rinnegati, tutti armati chi di remington tolti agli egiziani nella sanguinosa battaglia di Kasghill, chi di moschettoni a pietra o a miccia, chi di lunghe spade dritte a due tagli, chi di scimitarre di tutte le lunghezze e larghezze, o di lancie, o di mazze, o di scuri, o di coltellacci, o di randelli ferrati.

Tutti quei guerrieri che parevano impazziti, si dirigevano di corsa verso le trincee che difendevano il campo dal lato meridionale e vi si affollavano confusamente sopra, urtandosi, atterrandosi, bisticciandosi per arrivare primi. Mille e mille domande s'incrociavano per l'aria formando un baccano assordante che veniva smisuratamente ingrossato da un furioso strepitare di noggàra[1] e di darabùke, da un rullare di tamburi egiziani e da uno squillare acuto di mille bizzarri istrumenti musicali.

[1] Noggàra e darabùke, sorta di tamburoni di legno scavato che vengono percossi con delle mazze.

—Ma siete sicuri che verranno? chiedevano gli uni.

—Ma sicurissimi, rispondevano gli altri.

—Avete veduto il cavaliere che recò la notizia?

—Coi nostri propri occhi e l'abbiamo udito colle nostre orecchie.

—Hanno dunque vinto?

—Ma sì, sono vincitori.

—Ci sono prigionieri?

—Altro che! E prigionieri egiziani. Una cinquantina.

—Un centinaio.

—Un migliaio.

—Che marmellata che faremo. Li massacreremo tutti.

—E pianteremo le loro teste dinanzi le porte di El-Obeid a tener compagnia a quella di Hicks pascià.

—Benissimo! Bravi! Morte agli infedeli! Guerra ed esterminio.

—Morte agli infedeli!

—Eccoli! gridò una voce tonante.

—Eccoli! ripeterono cinquantamila voci.

—Viva lo scièk Tell-Afab! urlarono tutti.

In lontananza scoppiò una scarica di fucili e si udirono strepitare i noggàra e le darabùke. Il più profondo silenzio regnò come per incanto fra quella moltitudine di guerrieri accavallati sulle trincee: tutti gli occhi si fissarono attentamente verso il sud.

Una nube di polvere alzavasi verso quella direzione ed in mezzo ad essa, percosse dai raggi del sole, brillavano lancie, scimitarre e baionette. Un grosso attruppamento di guerrieri si avanzava a passo di corsa verso il campo.

In testa cavalcava un bel negro col petto racchiuso in una cotta d'acciaio, un gran turbante verde sul capo e una magnifica farda d'egual colore pendentegli dalle spalle. Nella mano dritta impugnava una larga scimitarra, una sekkin, e nella sinistra teneva la bandiera del Mahdi che faceva vivamente ondeggiare al disopra della sua testa.

Dietro a lui si trascinavano con grandi stenti ventisei prigionieri egiziani, scalzi, laceri, insanguinati, tutti piagati e solidamente legati.

Venticinque erano poveri fantaccini sulle cui spalle grandinavano ad ogni istante colpi di corbach che strappavan a loro urla di dolore. Il ventiseiesimo era invece un tenente arabo di alta statura, di forme eleganti ed insieme vigorose.

Era più triste e in più deplorevole stato degli altri; camminava facendo sforzi sovrumani e teneva il capo inclinato sul petto. Ogni qual tratto però lo rialzava con violenza e allora mostrava una faccia abbronzata, maschia, ardita, ma sulla quale, un attento osservatore, avrebbe scorto le traccie di crudeli dolori, di sofferenze indicibili. Sulla piega delle palpebre si vedevano ancora le umide traccie di recenti lagrime.

All'intorno dei prigionieri si accalcavano confusamente guerrieri Baggàra, Denka e Bongo, che agitavano freneticamente le loro armi, scaricando in aria colpi di fucile e acclamando a piena gola lo sceicco Tell-Afab e Ahmed loro profeta.

Quando la truppa giunse all'accampamento, una oscillazione violenta, burrascosa, si fece sentire da un capo all'altro delle orde stipate addosso alle trincee. Un immenso e terribile grido lacerò l'aria e salì fino alle nubi.

—A morte i prigionieri! A morte gli infedeli! Viva Tell-Afab!

I guerrieri del Mahdi si rovesciarono come una fiumana giù per le trincee e andarono a cozzare furiosamente contro i guerrieri dello sceicco Tell-Afab dividendoli in mille differenti gruppi. Ogni arma si tese minacciosamente verso gli egiziani che si erano arrestati tremanti di spavento.

—A morte gli infedeli! gridavano gli uni.

—Al fuoco gli egiziani! urlavano gli altri.

—Tagliate a loro la testa!

—Ammazzate col corbach quei cani!

—A morte!… a morte!…

Lo sceicco Tell-Afab, scorgendo il pericolo che correvano quei poveri diavoli, volse in furia il cavallo e urtando quelli che gli si stringevano d'attorno e calpestando quelli che gli si paravano dinanzi, corse in loro aiuto.

—Largo! largo! tuonò lo sceicco.

—Morte agli egiziani! vociarono i guerrieri del Mahdi, agitando freneticamente le armi.

—Fate largo! ripetè Tell-Afab. Fate largo!

I suoi guerrieri percuotendo a dritta e a manca colle impugnature delle scimitarre, coi calci degli archibusi, colle aste delle lancie, riuscirono a ributtare l'onda dei fanatici e si spinsero innanzi trascinando con loro gli egiziani che non avevano più sangue nelle vene.

Venti volte i guerrieri di Ahmed tentarono di sfondare il cerchio formato dai Baggàra, dai Denka e dai Bongo e venti volte furono ributtati lasciando sul terreno più di uno di loro malconcio. Ciò non impedì però che una lancia spaccasse la testa ad uno dei prigionieri, il quale, lasciato a terra moribondo, dopo essere stato spietatamente calpestato dai Bongo, dai Baggàra e dai Denka, cadde nelle mani dei guerrieri di Ahmed.

Il disgraziato, quantunque ancora respirasse, fu sollevato sulle punte delle lancie e sbranato: la sua testa, infissa in uno spiedo, andò ad ornare la capanna d'un potente sceicco.

Questo incidente diede tempo ai guerrieri di Tell-Afab di giungere in mezzo al campo dove rizzavasi una vastissima zeribak con solide palizzate. I prigionieri furono in fretta e a suon di legnate cacciati là dentro e cinquecento uomini li circondarono colle armi in pugno sia per impedire a loro la fuga, sia per arrestare i guerrieri di Ahmed che già tornavano alla carica vociferando spaventosamente.

Gli egiziani, pallidi, disfatti, tremanti di spavento, si lasciarono cadere a terra girando all'intorno sguardi inebetiti. In piedi non rimasero che il tenente arabo e un vecchio soldato sulla cui giacca stracciata e scolorita scorgevansi ancora dei gradi in gran parte strappati.

—Tenente, ripetè, toccandogli una spalla.

L'arabo che pareva assorto in tetri pensieri, non rispose.

—Tenente, ripetè, toccandogli una spalla.

—Che vuoi? chiese l'arabo volgendosi verso di lui.

—Che succederà di noi?

—Fra qualche ora le nostre teste andranno ad abbellire le capanne degli sceicchi.

—Giusto Allah!

—Hai paura della morte tu? gli chiese con accento quasi ironico l'arabo. Per me la morte è un sollievo. Benedirò la scimitarra che mi spiccherà la testa dal busto.

Il vecchio soldato lo guardò con ispavento.

—Oh! non dite così! esclamò.

—Perchè? Quale speranza, ormai mi rimane? A che vivere quando la vita è un continuo tormento, un continuo strazio? Soffro troppo… ho il cuore spezzato…. bisogna che muoia!

—Ma forse non è morta… chissà…

Sulle labbra dell'arabo spuntò un sorriso pieno di amarezza.

—Perchè illudermi?… Son tre mesi che io interrogo quanti uomini mi passano dinanzi, e non udii mai parlare di lei. È morta!… è morta… oh! io lo sento! esclamò egli.

—Ma chi lo afferma?

—Il mio cuore, il suo silenzio, tutto!… Povera Fathma!… povera donna!

Egli si prese la testa fra le mani con un gesto di disperazione e un singhiozzo lacerò il suo petto.

—Non parliamone più, mormorò egli con voce cavernosa. Il dolore è troppo atroce. Forse nella tomba troverò la felicità che mi fu negata quassù!…

La sua voce fu coperta da uno spaventevole baccano, da un urlo indescrivibile, da un cozzar fragoroso d'armi e da un rullar furioso di noggàra e di darabùke. Alzò la testa che aveva chinata sul petto. Lo spettacolo che si presentò dinanzi ai suoi occhi lo fece vivamente retrocedere, urtando il sergente.

—Siamo perduti! mormorò egli. Ecco la morte.

I guerrieri del Mahdi, che a poco a poco si erano addensati attorno alla zeribak scagliando tremende occhiate sui prigionieri, si erano improvvisamente gettati sui cinquecento Diuka di Tell-Afab, impegnando una sanguinosissima battaglia.

Gli egiziani, che avevano subito compreso il motivo dell'attacco, erano balzati in piedi gettando urla disperate, stringendosi l'un contro l'altro, facendo sforzi sovrumani per ispezzare i legami e vendere almeno cara la vita.

—Coraggio! gridò il tenente arabo. Tutti attorno a me!

Sette od otto lancie, scagliate dagli insorti, caddero nel mezzo della zeribak. Alcuni egiziani, spezzati i legami, raccolsero quelle armi e le impugnarono disponendosi in cerchio intorno ai compagni inermi.

Era tempo. I guerrieri di Tell-Afab, dopo una debole resistenza, oppressi dal numero strabocchevole degli assalitori, avevano gettato le armi dandosi a precipitosa fuga. I guerrieri del Mahdi, scalata la palizzata, si riversarono giù nella zeribak mandando urla feroci.

L'urto che successe fra questi e i prigionieri fu tremendo. Più di venti uomini caddero al suolo, chi colla testa spaccata fino al mento, chi passato da parte a parte dalle lancie, chi orribilmente mutilato, senza gambe o senza braccia. Il suolo s'inzuppò di sangue per trenta passi all'ingiro.

Assaliti e assalitori, spumanti d'ira, mugulando come belve, si mescolarono confusamente menando all'impazzata le armi, adoperando i pugni, le unghie, i denti, strangolandosi, straziandosi le carni, atterrandosi e calpestandosi rabbiosamente. In un momento non si scorse più che un attruppamento di persone che ondeggiavano per di qua e per di là, che avanzavano o che indietreggiavano, che cadevano o che si rialzavano empiendo l'aria di spaventevoli clamori, di urla, di lamenti, di rantoli.

Ogni qual tratto da quel gruppo di combattenti uscivan dei guerrieri tutti coperti di sangue, che dopo di aver barcollato rotolavano al suolo per non rialzarsi più. Talvolta era invece un egiziano, livido, esangue, colle vesti a brani, che veniva quasi subito raggiunto, sbranato a colpi di scimitarra o inchiodato a colpi di lancia contro le palizzate.

Da cinque minuti la sanguinosa pugna durava, rianimata dall'arrivo di nuovi guerrieri ohe volevano «bere sangue egiziano», quando in lontananza si udì improvvisamente una voce metallica, imperiosa gridare:

—Fermi tutti! Ahmed, nostro profeta, lo comanda.

A quel comando dell'inviato di Dio, la pugna tutta d'un colpo cessò. Le armi si arrestarono in aria o caddero a terra, poi il gruppo di guerrieri si sciolse colla rapidità del lampo. Ognuno volse le spalle fuggendo a rompicollo, scalando le palizzate e confondendosi fra le orde che si pigiavano attorno alla zeribak.

Sul campo insanguinato non rimasero che quattro uomini colle vesti a brani e imbrattate di sangue: il tenente arabo che stringeva convulsivamente in mano una scimitarra e tre egiziani che non si reggevano più sulle gambe.

Attorno ad essi c'erano quaranta o cinquanta moribondi che si dimenavano urlando e altrettanti morti, fra i quali uno scièk di colossale statura colla testa quasi staccata dal busto.

—Fermi tutti!… Ahmed nostro profeta lo comanda! ripetè la voce metallica e imperiosa di prima.

All'entrata della zeribak comparve lo scièk Tell-Afab seguito da dodici Abù-Rof della guardia del Mahdi, montati su bianchi cavalli.

Egli si diresse verso i prigionieri che lo aspettavano a piè fermo, risoluti ancora a vendere cara la loro vita. Scorgendo lo scièk disteso ai piedi del tenente arabo, un lampo di collera balenò ne' suoi occhi e le sue labbra si contrassero mostrando i denti candidi come l'avorio.

—Chi ha ucciso questo scièk? gridò.

—Io! rispose il tenente arabo senza sgomentarsi.

—Sei uomo morto!

—Poco mi cale.

—Abbassate le armi.

Il tenente invece di ubbidire, impugnò saldamente la scimitarra, dirigendo l'insanguinata punta verso di lui.

Lo scièk parve più sorpreso che spaventato di quella minaccia.

—Abbassate le armi! ripetè con un tono di voce da non ammettere replica.

—Io l'abbasserò quando tu avrai promesso salva la vita a me e ai miei compagni, rispose il tenente.

—Non sono l'inviato di Dio, io.

—In tal caso ci difenderemo fino a che avremo la forza di alzare le braccia. Morremo tutti e quattro, lo so, ma assieme a noi morrà anche un buon numero de' tuoi scherani.

Tell-Afab divenne cinereo per l'ira, ma si contenne. Alzò la mano dritta e indicando l'immensa pianura nella quale ondeggiavano e brontolavano minacciosamente le terribili orde del Mahdi, gli disse con voce tetra:

—Guarda! Basta un mio cenno, uno solo, capisci, perchè tutti quegli uomini si gettino su te e sui tuoi. Se ti arrendi, il Profeta forse ti salverà, se ti rifiuti morrai: scegli!

L'arabo esitava. Era evidente che se non deponeva le armi, i guerrieri del Mahdi non avrebbero tardato a scannarlo assieme ai compagni per quanta resistenza avesse ad opporre. Non vi eran molte probabilità di uscire salvi dalle mani del Mahdi, tuttavia qualche speranza c'era.

—Mi arrendo, diss'egli, scagliando lungi da sè la scimitarra.
Compagni, abbasso le armi.

Non aveva ancor terminato l'ultima parola, che dieci Abù-Rof si gettarono su di lui e sui suoi compagni afferrandoli strettamente pei polsi e trascinandoli via.

I tre egiziani furono condotti in una capanna lì vicina, dinanzi alla quale si affollarono urlando parecchie centinaia di guerrieri; il tenente invece fu condotto dinanzi a un gran tugul sul quale ondeggiava la bandiera del Mahdi.

Tell-Afab con un pugno gli fe' volar dalla testa lo sdruscito e scolorito fez, poi lo introdusse nella capanna, lasciandolo solo.

—Dove sono? si chiese l'arabo che sentivasi agitato da sinistri timori.

Girò gli occhi all'intorno con un misto di curiosità e di diffidenza. Vide che la capanna era divisa da un tramezzo di pelle e che era assai miseramente ammobiliata.

Stava per cercare l'uscita, quando un lembo del tramezzo s'aprì e dinanzi gli comparve un uomo che fissò su di lui due occhi vivi, brillanti, a riflessi di due colori.

Quell'uomo era alto di statura, magro, esile, colla carnagione di un color caffè al latte, capelli bruno chiari e barba nerissima. Sulle suo gote scorgevansi tre cicatrici parallele e una verruca. Strana cosa, aveva un braccio più lungo dell'altro.

Il suo vestito era di una estrema semplicità. Componevasi di una camicia e di un paio di calzoni alla turca di damour (grossa tela di cotone); aveva sandali ai piedi e un piccolo turbante verde sul capo.

Il tenente arabo nello scorgere quell'uomo rabbrividì e cadde, senza volerlo, in ginocchio.

—Il Mahdi!… esclamò con voce soffocata.

Infatti quell'uomo era Mohammed Ahmed, il profeta del Sudan.

CAPITOLO II.—Il Mahdi.

Mohammed Ahmed nacque nel 1843 a Dongola nella Nubia; Amina chiamavasi sua madre e Adullah suo padre, il quale esercitava la professione di falegname.

Fino dall'età di 7 anni questo strano personaggio destinato a diventare così grande, così potente, frequentò la scuola mussulmana e con tanta passione che a 12 anni aveva completati gli studi dell'Alcorano.

Grazie all'affezione dei suoi due fratelli stabiliti come calafati a
Shindi e di un suo zio costruttore di barche sul Nilo Bianco, potè
proseguire i suoi studî a Chartum[1] sotto i due celebri maestri
El-Gouradchi e Abd-el-Ayim, figli dello sceicco El-Tayeh.

Non tardò a diventare un fanatico missionario dell'islamismo e credette essere il suo compito quello di paralizzare e distruggere il potere degli europei che impedivano il commercio degli schiavi e comandavano al vicerè d'Egitto, di ricostruire l'antico impero arabo, di raggruppare attorno a sè tutti i credenti del profeta e di fondare una religione universale colla comunità dei beni.

Il 1868 lasciava Chartum, e si affigliava alla confraternita dei Sid-abd-el-Kader-el-Gilani, alleata alla famosa setta dei Senusi. Più tardi si recava a Tormamat, cinquanta miglia al settentrione di Chartum e vi fondava una scuola per propugnare le sue idee, ma ricevuto nel 1870 il titolo di fakir, l'abbandonava per ritirarsi nella rocciosa isola di Abat, che sotto il 13° grado divide il corso del Nilo.

Scavatasi una grotta, sul luogo stesso ove dicevasi che esisteva un tesoro, si metteva a praticare strane cerimonie, standosene per ore intere colle braccia tese in aria, i piedi nell'acqua e la faccia rivolta alla Mecca e piangendo continuamente sulla corruzione universale.

Colla sua pietà, colle sue penitenze, Ahmed non tardò a formare numerose schiere di proseliti fra i baggàra che abitavano lo sponde del Nilo.

Erano passati così dieci anni, quando un bel giorno l'anacoreta vide una barca attraversare il fiume e approdare alla sua isola. Era montata da una deputazione di baggàra.

Ahmed stava snocciolando la sua corona e con matematica regolarità, fingendo di nulla aver veduto. I baggàra aspettarono che avesse terminato poi gli offrirono le loro braccia e le loro armi per iscacciare dal Kordofan e dal Dar-Fur gli egiziani che essi consideravano come infedeli, dacchè si erano alleati agli inglesi.

L'anacoreta in sulle prime resistette, ma ad un tratto afferrò la scimitarra che i baggàra gli presentavano e alzando gli occhi al cielo, gridò:

Humdu-Hah! Io sarò il braccio dell'Onnipotente! La sua benedizione sarà per noi!

Le antiche profezie annunciavano la comparsa di un Mahdi nel nuovo secolo che cominciava appunto nel 1881, il quale doveva avere per distintivo il braccio destro più lungo del sinistro e una verruca sulla gota destra. La comparsa di questo Mahdi, aggiungevano le profezie, verrebbe annunciata da sette imani di nome Ahmed o Mohammed i quali avrebbero in diverse epoche e in diverse parti del mondo fatta propaganda religiosa e preparato così il terreno.

Ahmed Mohammed concepì l'ardito disegno di farsi credere il Mahdi aspettato invece di uno degli imani. Si allungò, non si sa come, il braccio destro, si fece nascere la verruca[1] sulla guancia destra e poco prima dell'agosto 1881, dichiarava di essere il Mahdi vale a dire «colui che Dio guida sulla via retta».

[1] Questa verruca si dice che gli sia stata fornita da un certo Scandorper, nativo di Meklemburgo, ex lavoratore di capelli e clown. Questo tedesco, tempo addietro, era stato ai suoi servigi e suo confidente.

Egli scrisse allora ai fakir che era l'uomo scelto da Dio per riformare l'islamismo. Malimed Saleh, un fakir dotto e influente, lo consigliò di mettersi alla testa dei baggàra che lo avean gridato loro capo e di fare la guerra ai nemici della religione.

Mohammed Ahmed non indugiò ad accrescere vieppiù la schiera dei proseliti; la maggioranza delle popolazioni vedeva in lui un eletto del Signore e credeva di peccare verso Allàh a non prestare orecchio all'appello del Mahdi.

Baggàra, Denka, Bongo, Scianghiè, Barabrà, Abù-Rof, Foriani e Arabi tutti accorsero sotto le sue bandiere e quando egli li ebbe assicurati che i cannoni dei nemici avrebbero vomitato acqua invece di fuoco e ferro, e che coloro che cadrebbero sul campo di battaglia salirebbero in paradiso, cominciò arditamente la ribellione.

Il terreno era mirabilmente adatto per una generale sommossa.

I governatori egiziani colle loro angherie e colle loro crudeltà avevano ridotto le popolazioni alla disperazione; tutte attendevano fremendo un'occasione qualsiasi per impugnare le armi e scuotere l'odioso giogo; tutte attendevano fremendo il dì della vendetta che doveva essere ben terribile.

L'Egitto, venuto a conoscenza dei primi movimenti insurezionali, intimò al Mahdi di recarsi a Chartum. Non avendo Mohammed risposto, Reuf pascià, governatore del Sudan, gli spedì contro un battaglione di scilluk.

Il profeta era preparato. I scilluk furono distrutti dalle sue orde. Reuf, sgomentato, affrettossi a spedire nel Sudan una forte colonna di truppa sotto gli ordini di Rescid-Bey, ma ebbe ugual sorte; caddero sul campo dal primo all'ultimo.

Il pericolo s'avvicinava. Reuf in persona, con 3000 uomini, si mise in campagna e riuscì a sconfiggere le orde dei ribelli.

Ma Mohammed non era uomo da scoraggiarsi nè da cedere così facilmente il campo.

Riparò al sud del Sennar, levò nuove tribù, risalì il Bahr-el-Abiad e la primavera del 1882, scontratosi a Kadir con Reuf pascià e i suoi 8000 uomini, li sconfiggeva. Appena 27 egiziani scamparono al massacro.

Tale vittoria ebbe un'eco grandissima nei deserti africani. Tutte le popolazioni si entusiasmarono per questo fatto che aveva profondamente impressionato la loro vivace fantasia. L'esercito del Mahdi si accrebbe colla rapidità del lampo come si accrebbe smisuratamente il suo prestigio. Tutti volevano prender parte a questa guerra santa, tutti volevano combattere sotto gli ordini di un inviato di Dio.

Mohammed Ahmed proseguì la sua marcia vittoriosa nel Sudan preceduto da un'avanguardia di dervisci che usavano tutte le loro arti per rendere infedeli le truppe del vicerè d'Egitto.

Il novembre 1882 le sue orde entravano nella cittadella di Bara dopo di aver massacrato 850 basci-bozuk che si recavano a El-Obeid, e 1000 egiziani che si recavano nella città da lui presa.

Il 15 gennaio, dopo un assedio di parecchi mesi, entrava in El-Obeid, la capitale del Kordofan; 3500 egiziani furono trucidati e gli altri passarono sotto le sue bandiere.

L'Egitto, occupato a guerreggiare contro Arabi-pascià, non pensava più al Sudan e la rivoluzione ingigantiva facendo scomparire tutte le guarnigioni egiziane abbandonate nelle città. Ma la fortuna del Mahdi s'oscurò e la sua potenza per qualche tempo vacillò e corse pericolo di sfasciarsi.

Il governo egiziano, uscito salvo dalla rivoluzione d'Arabi-pascià e datosi in braccio all'Inghilterra, non tardò a spedire nuovi eserciti nei paesi sollevati a rivolta. Il Mahdi il 23 febbraio del 1883 veniva rotto da Abd-el-Kerim a Mikrai-el-Datkel; il 12 marzo subiva la seconda sconfitta da Soliman pascià, e il 29 aprile la terza da Hicks e Aladin pascià presso la fortezza di Kava sul Nilo.

Il Mahdi fu obbligato a ritirarsi nel Kordofan, ma la sua stella, per un momento offuscata, ritornò a brillare più splendida che mai. Spediti Osman Digma e Mohammed Taher nel Sudan orientale, l'uno come emiro e l'altro come ulema principale, a sollevare i beduini, riprese la marcia interrotta dalle precedenti sconfitte. Saputo che Aladin e Hicks pascià con 11,000 egiziani si avanzavano verso la sua capitale, il 2 novembre, alla testa di oltre duecentomila guerrieri movevasi ad incontrarli e li massacrava tutti a Kasghill.

Liberato il paese da tutti quei prepotenti che il 1876 l'avevano invaso o rovinato, il povero fakir, diventato terribile guerriero, si ritirava sotto El-Obeid dove lo troviamo attualmente nell'umile sua capanna.

. . . . . . . . . . . . . . . . . .

Ahmed Mohammed tenente arabo, si era arrestato colla fronte aggrottata, accarezzandosi nervosamente la nera e folta barba. I suoi occhi che mandavano lampi di viva luce con riflessi a due colori, si fissarono in quelli dell'arabo che si sentì affascinato nell'egual guisa che gli uccelli si sentono affascinati dallo sguardo dei serpenti.

—Chi sei? chiese Ahmed, dopo alcuni istanti di muta contemplazione.

L'arabo a quella interrogazione si scosse; un fremito passò sul suo volto che divenne livido.

—Abd-el-Kerim, articolò egli.

—Sei arabo, se non m'inganno.

—Sì, sono arabo, nativo di Berber.

—Sai chi io sono?

—Mohammed Ahmed.

—No, disse il profeta, Sono il Mahdi!

—Come vuoi.

—Non lo credi?

Abd-el-Kerim non rispose, ma sostenne impavido lo sguardo di fuoco che gli slanciò Ahmed.

—A quale esercito appartenevi? chiese il Profeta cangiando tono.

—A quello di Dhafar pascià.

—Sicchè tu sei partito da Chartum?

—Non lo nego.

—Dove ti hanno fatto prigioniero?

—Presso El-Dhuem.

—Sai cosa è accaduto dell'armata di Hicks pascià?

—L'ignoro.

Il Mahdi battè tre volte le mani. Un iman entrò quasi subito portando un sacco legato.

—Sai cosa contiene questo sacco? chiese Ahmed all'arabo.

—No.

Ahmed aprì il sacco e tirò fuori una testa umana bruttata di sangue, priva degli occhi e seccata dall'ardente sole equatoriale.

Egli la mostrò ad Abd-el-Kerim che indietreggiò inorridito.

—La conosci questa testa? chiese Ahmed con accento feroce.

—No, balbettò l'arabo.

—È la testa di Hicks pascià[1]. Io ho distrutto nella foresta di Kasghill tutto l'esercito egiziano, mi capisci, arabo rinnegato, e ben pochi sono sfuggiti alla catastrofe e nessuno portò la terribile novella a Chartum. Io, l'inviato d'Allàh, Mohammed Ahmed, ho fulminato tutti i nemici che con incredibile audacia marciavano sulla città santa. Tutti andranno all'inferno: è la punizione di coloro che rimangono sordi alla voce del Signore.

[1] L'illustre missionario D. Luigi Bonomi mi assicurò che quella testa non apparteneva a Hicks pascià, ma al barone di Cettendorge, capitano di Stato Maggiore.

—Ah! quanto sei terribile! mormorò Abd-el-Kerim che tremava ancora per l'emozione.

—È giustizia, rispose Ahmed ricollocando la testa nel sacco.

Poi volgendosi verso l'iman inginocchiato:

—Abù-Mogara, gli disse. Farai collocare tutte le teste dei visi bianchi sulle porte di El-Obeid, onde tutta la popolazione possa vederle.

L'iman uscì coll'orribile sacco sulle spalle. Nella capanna regnò per parecchi minuti un lugubre silenzio, poi il Mahdi, accennando all'arabo un angareb, gli disse:

—Siedi e narrami cosa si dice di me a Chartum, Si crede che io sia l'inviato di Dio che ha la santa missione di ricostituire l'antico impero arabo, di raggruppare attorno a me tutti i credenti del profeta, di porre un argine all'invasione degli infedeli, di fondare una religione universale colla comunità dei beni?

—No, nessuno lo crede.

Un lampo di collera brillò negli occhi del Mahdi e i suoi denti stridettero.

—Lo so, che il vice-re Tewfik mi accusa di essere un falso profeta, sperando di allontanare da me gli arabi che io vorrei salvare dalle mani degli inglesi, ma non credeva che le popolazioni dividessero l'opinione di quel miserabile, di quel vigliacco che vendette il suo regno pur di rimanere sul trono.

Sta bene: non avrò pietà per nessuno. Gli empi cadranno sotto la mia scimitarra nell'egual guisa che caddero Hicks pascià e i suoi soldati a Kasghill.

—Ma che pretenderesti di fare colle tue orde?

—Lo vedrai appena saranno terminati i raccolti e organizzate le mio truppe. Ho sotto di me diciotto tribù che formano un esercito di duecentomila uomini che non temono nè il ferro, nè il fuoco. Scenderò in Egitto, e quando sarò entrato nel Cairo e che avrò rovesciato Tewfik, passerò alla Mecca, per far cadere il sultano dei turchi.

—Ma sai, Ahmed, che abbiamo gl'inglesi in Egitto?

—E credi tu che io abbia paura dell'Egitto?

—Ma ti manderà contro inglesi e abissini. Ahmed alzò le spalle.

—Non li temo, disse. Passerò a fil di spada gli uni e gli altri.

—Sono molti, Ahmed.

—E anche i miei sono molti.

—E se riuscissero a vincerti?

—Non mi avranno vivo. Quando vedrò che ogni lotta sarà vana, mi farò uccidere alla testa delle mie tribù.

Per alcuni istanti rimase silenzioso colla fronte aggrottata, lo sguardo cupo, le braccia incrociato sul petto, poi rialzando bruscamente la testa:

—Sai quale morte ti attende? chiese ad Abd-el-Kerim.

L'arabo, quantunque si aspettasse questa domanda, trasalì e fissò sul
Mahdi due occhi atterriti.

—No, disse poi. Del resto, non la temo.

—Eppure tu sei giovane, bello e mi dissero anche che tu sei prode.

—Eppur desidero la morte, disse l'arabo con profonda tristezza.

—Perchè? che ti è accaduto per desiderare la morte? chiese Ahmed con sorpresa.

Abd-el-Kerim mandò un sospiro e portò ambe le mani al cuore.

—Ahmed, disse con voce cupa. Se tu avessi posseduto e amato una donna bella, divina, che ti idolatrava, e poi te l'avessero rapita e forse uccisa, ti rincrescerebbe il morire? Sai, Ahmed, ho perduto una donna che io adorava, una donna per la quale io avrei commesso dei delitti e compiuto dei miracoli. Che importa a me se mi uccidono; quando il vivere è un continuo tormento, un continuo martirio, un continuo delirio?

Ahmed indietreggiò emettendo un sospiro che parve un ruggito. Le vene del collo gli si gonfiarono prodigiosamente, quasicchè volessero scoppiare e la sua faccia, poc'anzi tranquilla, diventò burrascosa. Grosse goccie di sudore colavano dalla sua fronte rigandogli le sfregiate gote.

—Ah! Tu amavi una donna che di poi scomparve! esclamò egli con voce arrangolata. Sei anche tu infelice; ti compiango! Anch'io rimpiansi per lungo tempo una donna che io amai con tutte le forze dell'anima mia e che poi non rividi più.

S'arrestò anelante, commosso e nel medesimo tempo irritato, e si mise a passeggiare per la capanna colle braccia incrociate e la testa china sul petto.

—Come si chiamava quella donna? chiese l'arabo nella cui mente gli balenò un terribile sospetto.

Ahmed si strinse nelle spalle e diventò più cupo.

—Forse si chiamava….

—Chi? domandò Ahmed arrestandosi di colpo.

Abd-el-Kerim stava per pronunciare il nome di Fathma, ma lo assalì una inquietudine tale, sentì uno stringimento di cuore tale, che non lo pronunciò.

Ebbe paura che quella donna che aveva tanto amata e che era stata un tempo la favorita dell'uomo che gli stava dinanzi, fosse la medesima che il Mahdi rimpiangeva. Vide subito l'abisso in cui stava per precipitarvi e si arrestò.

—Ebbene? chiese Ahmed. Si chiamava?…

—Non mi rammento più il nome, balbettò l'arabo confuso.

—Te lo dirò io, allora. Era una donna superba, bella come una urì del paradiso di Mohammed, dagli occhi grandi e fulgidi come diamanti neri, e dai capelli più fini della seta. Il suo nome era… Fathma!

Abd-el-Kerim si morse furiosamente le labbra per trattenere il grido che stavagli per sfuggire e tradirlo. Diventò spaventosamente pallido, vacillò come colpito da una mazzolata sul capo e le braccia gli caddero senza forze lungo i fianchi.

Il Mahdi amava Fathma! Il Mahdi rimpiangeva la donna che Abd-el-Kerim aveva tanto amata! L'arabo, pietrificato, credeva di essere lo zimbello di un sogno.

—Si chiamava Fathma! esclamò con voce soffocata…..

—Sì, rispose il Mahdi che tutto assorto nella sua cupa disperazione non s'era accorto della commozione dell'arabo. Hai udito parlare, a Chartum, di questa donna che mi straziò l'anima? Si diceva che era fuggita in quella città.

—No!… No!… mormorò Abd-el-Kerim che tremava verga a verga.

—Si diceva che era diventata l'amante di un ufficiale arabo. Se potessi averlo nelle mani quest'uomo… Guai! guai il giorno che la sua cattiva stella lo condurrà al mio campo…

Abd-el-Kerim coi capelli irti, gli occhi sbarrati, non respirava più.
Egli si chiedeva se quel terribile rivale sapesse che l'amante di
Fathma era il prigioniero che gli stava dinanzi.

—Maledetta donna, proseguì Ahmed. L'amavo, aveva da me tutto quello che desiderava, aveva a sua disposizione duecentomila guerrieri pronti a farsi uccidere per lei, era più di una sultana, e mi obliò, mi abbandonò. Ma verrà forse un dì che la riavrò nelle mie mani e le farò scontare a caro prezzo il tradimento. Oh! quel dì si pentirà di aver burlato l'inviato di Allàh!

—Ma è viva, adunque? chiese Abd-el-Kerim che non si teneva più.

—Si dice che è viva, ma nessuno lo assicura.

—Ah!

—Che hai?

—Nulla, mormorò l'arabo prestamente. Ho la punta di una freccia in un braccio e mi fa soffrire.

—Soffrirai ancora per poco, disse Ahmed con un sorriso crudele.

—Perchè?

—Perchè domani, a meno che non sii protetto da Allàh, morrai.

—Ma io non voglio morire! esclamò l'arabo.

—Come, pochi minuti fa non t'importava di morire ed ora mi dici che non vuoi morire. Quale cangiamento è mai avvenuto nel tuo animo?

—È entrata una speranza.

—Quale?

—Che la donna che io amai e che credo perduta sia viva come la tua.

Lo sguardo acceso del Mahdi si annebbiò diventando malinconico, quasi tenero.

—Sai che tu mi piaci? gli disse, posandogli le mani sulle spalle.

—Io!

—Sì, tu mi piaci e vorrei vederti ufficiale nel mio esercito. Disgraziatamente mi hai ucciso un potente scièk e bisogna che io lo vendichi.

—Sicchè anch'io morrò?

—No, io ti darò il mezzo di salvarti.

Abd-el-Kerim si gettò ai piedi di Ahmed mandando un grido di gioia.

—Odimi, disse Ahmed, rialzandolo. I miei guerrieri hanno la barbara abitudine di far sventrare i prigionieri condannati a morte, dai bufali o dai leoni. È bensì vero che armano il condannato d'una scimitarra, ma, come puoi immaginarti, difficilmente scampano alla morte. Se però ammazzano l'animale sono proclamati guerrieri e quindi posti in libertà.

—E così combatterò contro i bufali?

—No ti metterò di fronte un leone al quale avrò dato prima una bevanda che lo priverà della sua forza, che lo ubbriacherà. Ti sarà facile ucciderlo con un colpo di scimitarra.

—Ah! grazie! Ahmed!

—Come vedi, io ti salvo dalla morte, ma bisogna che tu diventi mio seguace, che mi adori e rispetti come adoravi e rispettavi Mohammed il primo profeta.

—Farò tutto quello che vorrai. E i mei compagni li salverai?

—È impossibile. Non ardirei tentarlo. Va, ora, ritorna fra i prigionieri e arrivederci a domani alla zeribak.

Battè le mani: due guerrieri entrarono inginocchiandosi dinanzi a lui.

—Conducete quest'uomo nella capanna dei prigionieri, disse a loro il Mahdi. Badate che se qualcuno lo tocca, lo insulta o lo percuote è uomo morto.

Un istante dopo Abd-el-Kerim e i guerrieri uscivano dal tugul di Mohammed ed entravano in quello dei prigionieri, sotto il quale, distesi per terra, strettamente legati, tremanti di spavento e d'angoscia stavano i tre egiziani.

Vedendo Abd-el-Kerim, uno di essi, il meno maltrattato, si alzò penosamente sulle ginocchia interrogandolo con uno sguardo lagrimoso.

—Siamo perduti, rispose l'arabo.

—Non c'è più speranza adunque? balbettò l'egiziano.

—Nessuna.

—È una iena adunque questo Mahdi?

—Taci, se vuoi vivere fino a domani.

L'egiziano emise un sordo gemito e ricadde col volto nascosto fra le mani.

CAPITOLO III.—Il supplizio dei prigionieri.

All'indomani i dintorni della grande zeribak formicolavano di guerrieri accorsi da tutto le parti del campo.

Alcuni si arrampicavano sulle spalle dei compagni più alti, altri sulle gobbe dei cammelli o sui dorsi dei cavalli, degli asini, dei buoi, che sparivano totalmente sotto la folla, e altri ancora sugli alberi che ombreggiavan il recinto, accomodandosi alla meglio fra i rami.

S'udiva per ogni dove un gridìo, un rullare di tamburi e di tamburoni, uno squillare di trombe e un salmodiare dei versetti dell'Alcorano, fragori che spesso venivano coperti da urla disperate. Zuffe accanite succedevano qua e là in mezzo alla folla, che finivano con una coltellata o con una sciabolata, e dai rami capitombolavano uomini che venivano gettati giù dai forti, senza badare se si rompevano la testa o si fiaccavano il collo.

Tutti volevano passare innanzi, tutti volevano guadagnare le palizzate della zeribak nel cui interno dovevano venire giustiziati i prigionieri egiziani.

Soli due uomini non partecipavano a quella forte curiosità e si tenevano in disparte, seduti tranquillamente sulla cima di una collinetta sabbiosa, chiaccherando colla maggior calma del mondo, senza quasi degnarsi di volgere uno sguardo al recinto.

Uno era un uomo di alta statura vestito da beduino, col coftan calato sul volto in modo da non vedere che una barba nera e ispida.

L'altro era uno scièk negro, tozzo, robusto, dal volto feroce, senza barba, con due occhi grandi e brillanti, naso assai schiacciato e labbra sporgenti. Portava un gran turbante sul capo, una rahâd (cintura) riboccante d'armi alle reni e ornata di spessi cordoncini, un paio di larghi calzoni alla turca e alle braccia numerose anella d'avorio e file di châraz (perline di vetro).

—Dunque tu mi raccontavi? diceva lo scièk.

—Che egli è qui, rispose il beduino con accento straniero.

—Sei proprio sicuro?

—Sicurissimo, El-Mactud.

—Quando l'hai veduto?

—La decorsa notte passando dinanzi ad un tugul guardato da venticinque guerrieri. Al chiarore dei fuochi lo vidi sdraiato a terra col volto fra le mani.

—Puoi esserti ingannato, disse lo scièk.

—Ma no, non mi sono ingannato, te l'assicuro. Lo conosco troppo bene.

—Ma non militava sotto Hicks pascià?

—Quando lo lasciai era con Dhafar pascià, non posso quindi sapere se egli abbia raggiunto il generale inglese.

—A ogni modo non so capacitarmi come abbia abbandonata la sua bandiera per passare sotto quella di Ahmed.

—Ti narrai che egli amava una donna e che questa gli fu rapita.

—Ebbene?

—Forse spera di ritrovarla qui.

—Quale grado occupa? chiese lo scièk.

—L'ignoro come te. Sulla soglia della sua capanna ho veduto venticinque guerrieri, e so che ieri sera ebbe un colloquio con Ahmed Mohammed, poichè lo videro uscire dal tugul.

—Bisogna sapere qual grado gli fu conferito e se è amico di Ahmed.

—Lo sapremo, e per quanto potente egli qui sia, lo annienterò, lo farò cadere nella polvere! Basta che pronunci il nome della donna, che egli amò perchè Ahmed lo condanni a morte.

—Ma che cosa ti fece che lo odii tanto?

—Disonorò mia sorella e poi l'uccise, disse il beduino cercando di dare alla sua voce un tono cupo.

—Allora bisogna vendicarsi.

—Mi vendicherò.

—Fa come noi baggàra Salem che ci atteniamo alla legge del taglione insegnataci dalla Bibbia, dal Minu e dal Corano. Aèn be aèn (occhio per occhio); uèden be uèden (orecchio per orecchio); ed-dân b'ed dân (sangue per sangue).

—Aspetta che io lo abbia in mano e poi ne vedrai di belle.

—Così va bene, io sarò sempre pronto ad aiutarti.

—Zitto, ecco Ahmed Mohammed, disse il beduino alzandosi.

In lontananza, appariva Ahmed, col turbante verde dei discendenti del profeta ed in completo assetto da guerra. Montava un superbo cavallo bianco condotto a mano da due dervis e dietro a lui caracollavano gli scièk di tutte le tribù ed una banda di Abù-Rof colle scimitarre sguainate e gli stendardi spiegati.

Quando fu vicino alla zeribak un gran grido emesso da duecentomila persone echeggiò:

—Viva Ahmed Mohammed! Salute all'inviato di Dio!

Ahmed con un cenno della mano fece tacere tutti quei clamori. Scese d'arcione, s'inginocchiò a terra, borbottò alcune preghiere, poi andò a sedersi su di un palco che dominava la zeribak. Gli sceicchi e i dervis più rinomati presero posto dietro a lui.

—Dove sono i prigionieri? chiese il beduino allo sceicco.

—Eccoli là, circondati da una compagnia di baggàra.

—Non ne abbiamo molti da assassinare. Non ne vedo che quattro.

—Ma in mezzo ad essi vedo anche un ufficiale.

—Un ufficiale!… Ira di Dio! chi può essere mai?

—Qualche ufficiale preso a Kasghill.

—Eh!… esclamò d'improvviso il beduino saltando indietro. Non è possibile!… Io m'inganno!…

—Che hai?

—Quell'ufficiale che è fra i prigionieri… Ira di Dio! È lui!…

—Ma chi?

—Abd-el-Kerim?

—È impossibile.

—Te lo dico io; È proprio lui!

—Ma se hai veduto questa notte una guardia di onore dinanzi al suo tugul.

—Mi sono ingannato. Erano guerrieri che vegliavano perchè non fuggisse. Vieni El-Mactud: la vendetta di Ahmed Mohammed ha preceduta la mia.

Il beduino e lo scièk si precipitarono giù dalla collina, raggiunsero la folla che stringevasi attorno alla zeribak e facendosi largo a furia di gomiti, si confusero nel mezzo.

Proprio in quel momento Abd-el-Kerim e i tre egiziani venivano condotti in una loggia circondata da guerrieri armati fino ai denti. Il primo era calmo, sorridente, noncurante, gli altri invece penavano a stare in piedi; erano pallidi, disfatti, in preda ad un terrore indescrivibile.

La loro comparsa fu accolta dalle diciotto tribù con urla selvaggie, con maledizioni, con insulti, con un agitar minaccioso di braccia; più di un'arma fu diretta contro di essi e più di un fucile li tolse di mira. Però, ad una parola di Ahmed Mohammed, il silenzio tornò a farsi e le armi vennero abbassate.

S'udì un fragoroso rullar di noggàra e di darabùke. e un bufalo fu fatto entrare nella zeribak fra frenetici battimani.

Era un bell'animale, d'alta taglia, tigrato, colle corna lunghe e aguzze. Appena entrato e liberato dai legami, si mise a saltellare all'impazzata pel recinto, mugghiando furiosamente e cozzando contro le palizzate. Faceva paura a vederlo colla bocca piena di bava e quegli occhi grandi, accesi, che roteavano in un cerchio sanguigno; si capiva che prima di farlo entrare, i baggàra lo avevano irritato, lo avevano reso furioso.

Un egiziano fu incitato a discender nell'arena dopo di averlo armato di una scimitarra, ma il disgraziato, ebbro di paura, non ardì muoversi e si mise a strillare come se lo uccidessero. Quattro guerrieri però lo afferrarono, lo sollevarono e lo scaraventarono nel recinto.

Kuâies! Kuâies-ktir! (bello! bello assai!) urlarono gli spettatori.

Il povero uomo, quantunque stordito dal capitombolo fatto, si rialzò gettando attorno gli sguardi smarriti, supplicando a mani giunte gli astanti di salvargli la vita. I negri gli risero in faccia, gli sputarono addosso e aizzando il bufalo con spaventevoli vociferazioni e con sassi.

—A morte a morte l'infedele! urlavano gli uni.

—Prendi la scimitarra, vigliacco! urlarono gli altri.

Il bufalo aveva subito scorto la vittima. Emise un muggito da far agghiacciare il sangue, si battè i fianchi colla coda, abbassò la testa e si precipitò innanzi colla rapidità del lampo.

Tutti credettero di vedere l'egiziano sventrato, ma ciò non accadde. Vistoselo capitare addosso il disgraziato prigioniero si era messo a correre disperatamente attorno al recinto cercando, ma invano, di arrampicarsi sulle palizzate. Per dieci minuti riuscì a tenersi lontano dal terribile animale che sollevava nubi di polvere galoppando furiosamente per tutti i versi, poi si arrestò cercando di tenergli testa.

Uomo e animale si scontrarono in mezzo al recinto. L'egiziano che aveva raccolto la scimitarra, tirò un colpo alla cieca che cadde nel vuoto. Non ebbe il tempo di rialzare l'arma; l'animale furibondo, sprofondò le aguzze sue corna nel petto di lui, poi, sollevatolo non ostante gli spaventevoli contorcimenti, lo sbattè furiosamente contro la palizzata. La vittima orribilmente schiacciata, precipitò inerte al suolo insanguinando le sabbie.

Kuâie! Kuâies-ktir! strepitarono i guerrieri.

Il bufalo fu tosto preso al laccio dai baggàra che si tenevano a cavalcioni della palizzata. Il cadavere dell'egiziano, deformato, sventrato, fu trascinato via per essere dato a pasto delle belve delle foreste e vennero precipitati giù gli altri due egiziani, uno dei quali, spezzatosi una gamba, rimase disteso a terra strillando e invocando Allàh e il Profeta.

Altri due bufali furono fatti entrare e il sanguinoso spettacolo ricominciò. Fu breve: il primo egiziano venne sventrato al primo urto, e il secondo arrampicatosi sulla palizzata, venne ucciso da una lancia scagliatagli da un Abù-Ròf.

Non restava che Abd-el-Kerim, il quale aveva assistito impassibile alla sventurata fine dei suoi compagni d'armi. Egli discese nell'arena colla scimitarra in pugno, lo sguardo sfavillante d'ardire, attendendo con calma straordinaria la comparsa del leone che doveva attaccarlo.

Uno dei dervis, per ordine di Ahmed intimò alla tumultuante folla il più profondo silenzio, dopo di che venne fatto entrare il re delle foreste africane. Era un vecchio leone, lungo due metri, alto più di uno dalla maestosa figura, dal portamento ancora fiero, che ruggiva orribilmente scuotendo la villosa giubba.

Un fremito di spavento corse per le membra dei guerrieri del Mahdi alla vista di quell'animale che gode un terribile fama appo tutte le popolazioni africane. Ognuno ammutolì e guardò quasi con terrore l'arabo che non si era nemmeno mosso dall'apparire di quel formidabile campione.

Per alcuni istanti il leone si accontentò di far udire la sua voce, battendosi i fianchi colla coda, un colpo della quale è bastante per rompere le gambe ad un uomo, poi si mise a ronzare attorno all'arabo che presentavagli la fronte riparandosi dietro la scimitarra come dietro ad uno scudo.

D'improvviso si arrestò e si raccolse su sè stesso guardando con occhi di fuoco l'arabo. Spiccò un salto innanzi, ma le forze per una causa sconosciuta, gli vennero meno e ricadde tre passi lontano.

Un grido di sorpresa sfuggì da tutti i petti. La cosa era così strana che tutti credettero che quella improvvisa mancanza di forza dovesse attribuirsi ad un miracolo di Allàh.

—Miracolo! miracolo! gridarono alcuni dervis, alzando le braccia verso il cielo.

—Si aizzi il leone! tuonò una voce.

—Silenzio! gridò Ahmed Mohamed.

Per la seconda volta il leone si raccolse su sè stesso ruggendo e si slanciò innanzi, e per la seconda volta ricadde senza forze. Un sorriso spuntò sulle labbra di Ahmed che guardava fisso Abd-el-Kerim sempre impassibile.

—Miracolo! Miracolo! ripeterono i dervis.

—Fuori un altro leone! tuonò la medesima voce che aveva comandato di aizzarlo.

Nell'istesso momento Abd-el-Kerim si slanciava contro al leone che era incapace di muoversi e che ruggiva spaventosamente e con un colpo di scimitarra gli apriva la testa rovesciandolo agonizzante al suolo.

Da un capo all'altro della pianura rimbombò un solo grido:

—È salvo! Viva l'arabo!

—A morte l'arabo! gridò per la terza volta la voce sconosciuta.

—Bravo! Bravo!

—Fuori un altro leone!

—Ahmed Mohammed scattò in piedi colle braccia alzate, gli occhi volti al cielo, e con voce d'ispirato gridò:

—Popoli del Kordofan! Quell'uomo è stato toccato dalla grazia di
Allàh e io lo nomino mio guerriero. Tutti a terra!

I guerrieri caddero col volto nella polvere. Solo un uomo rimase in piedi colle pugna tese verso Abd-el-Kerim. Quest'uomo era il beduino.

—A morte l'infedele! tuonò egli con voce furente.

—A terra! ripetè il Mahdi. A terra!

Il beduino fu atterrato dalla mano nervosa dello sceicco El-Mactud.

—Taci se non vuoi perderti, gli sussurrò all'orecchio lo sceicco.

—Popoli del Kordofan, fedeli seguaci della vera religione, ripigliò
Ahmed Mohammed. Io dichiaro quell'uomo libero, non solo, ma gli
conferisco il grado di sceicco. Allàh mo lo comanda. Che i voleri di
Allàh siano esauditi.

CAPITOLO IV.—Il delatore.

Erano le dieci di sera.

Le innumerevoli orde del Mahdi si erano ritirate nel campo e dormivano profondamente, alcune sdraiate sotto i tugul di foglie, altre, sotto le tende prese agli egiziani nelle ultime battaglie, o a ciel sereno ma tutte colle armi accanto, sempre pronte al primo rullar dei noggàra a rimettersi in marcia.

Qua e là ardevano dei fuochi attorno ai quali vegliavano le sentinelle appoggiate alle lancie o ai fucili, borbottando sottovoce preghiere.

Silenzio profondo per ogni dove, ma che di tratto in tratto veniva rotto degli ululi lamentevoli degli sciacalli o dagli scrosci di riso delle iene, che rese audaci dalla oscurità si arrischiavano a metter piede nel campo cercando gli avanzi delle cene. Proprio in quell'ora due uomini accuratamente ammantellati sfilavano come ombre fra le tende, fra i tugul, fra i fasci di fucili e fra i cannoni, arrestandosi di quando in quando per girare intorno uno sguardo indagatore.

—Ci siamo? chiese ad un tratto il più alto di essi, nel cui accento si riconosceva il beduino che si era mostrato tanto accanito contro Abd-el-Kerim.

—Non ancora, rispose l'altro, che era lo scièk El-Mactud. Ma arriveremo presto.

—Per che ora ti diede l'appuntamento?

—Per la mezzanotte.

—Io ho sempre creduto che Ahmed alla notte dormisse.

—Io l'ho messo in curiosità.

—Credi che mi accoglierà bene?

—Ti accoglierà come deve essere accolto uno che ha pugnato come un leone per la santa causa, rispose lo sceicco.

—E la rivelazione?

—Lo farà andare in bestia. Io lo conosco bene quell'uomo e so che ama ancora quella donna.

—Che farà di Abd-el-Kerim?

—Lo farà sbranare dai leoni.

—Ma io devo salvarlo a qualsiasi costo.

Sul volto dello sceicco si dipinse una vivissima sorpresa.

—Ma come! esclamò. Questa mane lo volevi morto e ora vuoi salvarlo.

—Ho cambiato idea. A proposito, sai nulla della donna che io cerco?

—Assolutamente nulla. Parlai con tutti i guerrieri che combatterono a Kasghill e sul Bahr-el-Abiad, ma senza frutto. Dalla descrizione che feci ed essi alcuni supposero che la donna che tu cerchi fosse la favorita del Mahdi. Il medesimo sospetto è venuto anche a me.

—V'ingannate tutti, s'affrettò a dire il beduino che impallidì. Somiglia assai all'ex-favorita ma non è lei. Adunque non se ne sa nulla?

—Proprio nulla. Sarà caduta a Kasghill.

—No, non è morta a Kasghill, poichè ho esaminato ad uno ad uno tutti i cadaveri. Può essere caduta nelle mani degli sceicchi che combattono i baggàra del lago Tscherkela.

—Può essere.

—Aprirò bene gli occhi, quando gli sceicchi torneranno al campo, disse il beduino.

—Ma che vuoi fare di questa donna?

—Te lo dirò al momento opportuno.

—Alto! esclamò lo scièk. Siamo giunti.

Dinanzi a loro stava il tugul di Ahmed Mohammed, sulla cui cima maestosamente ondeggiava la verde bandiera dell'insurrezione.

Sul dinanzi ardeva un gran fuoco che gettava sinistri bagliori sulle scabrose pareti, sui cannoni e sulle mitragliatrici che erano sparse all'intorno.

Venticinque guerrieri di un provato coraggio, vegliavano, immobili come statue, spiccanti vivamente sulla splendida cortina in fiamme.

El-Mactud si avvicinò al capo di quegli uomini che gli aveva prontamente puntato contro il remington, e gli disse:

—Va a dire all'inviato di Allàh che sono giunte le persone che egli attende.

—Chi sei? chiese il guerriero.

—Lo scièk El-Mactud.

—E quello che conduci?

—Un fedele seguace di Ahmed.

Il guerriero entrò nel tugul, e pochi istanti dopo usciva avvisandoli che l'inviato del Signore era pronto a riceverli.

—Coraggio, disse all'orecchio del beduino lo sceicco.

Entrarono nel misero tugurio.

Seduto su di un angareb, se ne stava il Mahdi con una corona di vetro giallo in mano e i piedi nudi vicini ad un focolare formato da due assi e da una bracciata di legna.

Nello scorgere il beduino e lo scièk, si alzò lentamente in piedi.

—Ah, esclamò egli. Sei qui El-Mactud.

—Sì, Ahmed, rispose lo scièk, baciandogli rispettosamente le mani.

—E quello che conduci è…?

—L'uomo di cui ti parlai.

Ahmed squadrò da capo a piedi il beduino che sostenne quell'esame colla testa alta e le braccia incrociate sul bianco taub.

—Lasciaci soli, El-Mactud, disse poi.

Lo scièk si affrettò ad ubbidire, dopo di avere scambiato col beduino un rapido sguardo.

Ahmed fece due o tre giri attorno alla stanzuccia, poi fermandosi improvvisamente dinanzi al beduino sempre impassibile:

—Chi sei? gli chiese.

—Siamo soli? domandò invece l'interpellato.

—Perchè? chiese Ahmed con sorpresa.

—Perchè quello che ho da dirti nessuno deve udirlo.

—Quando è così puoi parlare. Nessuno ardirà udire quello che narrerai.

—Sai già che io non sono un beduino.

—El-Mactud mi disse che tu sei un bianco.

—Sai che ho rinnegato la mia religione per seguire la tua?

—Lo so e ringrazio Allàh che ti fece ravvedere.

—Una volta ero cogli egiziani, poi disertai; sul Bar-el-Abiad caddi prigioniero di El-Mactud e voltai le mie armi contro gli antichi miei compagni, contro gli stessi soldati che io guidavo.

—Mi dissero che tu eri coraggioso come un leone e che a Kasghill fosti il primo a entrare nel quadrato di Hicks pascià. Veniamo al fatto ora: che hai da dirmi?

—Andiamo adagio: Ahmed. Prima di parlare devo proporti un patto.

—Un patto!

—Sicuro.

—E quale sarebbe?

—Sai che io vengo a denunciare un uomo che tu esecri, un uomo che ucciderai appena ti avrò detto chi sia esso e che cosa fece.

—Ebbene?

—Bisogna che tu giuri di abbandonarmi quell'uomo onde io lo faccia morire come meglio mi piacerà.

—E se io non acconsentissi?

—Non saprai nulla.

Ahmed lo guardò con maggior sorpresa. Nei suoi occhi balenò un lampo di collera e le sue labbra si contrassero mostrando i denti.

—Sai che tu sei ben ardito per parlare così, diss'egli sforzandosi di sembrare calmo.

—Non dico di no.

—E se io t'imponessi di parlare?

—Mi mozzerei la lingua onde non abbia ad emettere suono alcuno.

—E se io ti minacciassi?

—Morrei! disse fermamente il beduino.

Ahmed portò le mani alla cintura cavando l'jatangan, ma lo ricollocò a posto e battè tre volte le mani.

La tenda di pelle che separava in due stanze il tugul si alzò e comparve un negro di statura colossale, con una testa orribile ed enorme piantata su di un collo grosso come quello di un toro. Aveva su di una spalla una pelle di leone e teneva in mano una scimitarra dalla larga lama.

—Vedi quest'uomo? disse Ahmed al beduino.

—Lo vedo.

—È il carnefice. Basta un mio cenno perchè ti faccia saltare la testa; basta un mio cenno perchè ti tagli in mille pezzetti, perchè ti strappa la pelle a brano a brano, perchè ti abbruci le carni coi ferri roventi. Parlerai ora?

—No, Ahmed no. Mi occorre l'uomo che io tradisco.

—Vòkara, impadronisciti di quell'uomo. Se si ostina a rimanere muto gli farai cadere la testa.

Il beduino indietreggiò di qualche passo e un tremito agitò le sue membra, ma ricuperò subito la sua impassibilità, anzi un sorriso sdegnoso, quasi di sfida, sfiorò le sue labbra.

Il carnefice gli si avvicinò e lo fece inginocchiare. Provò il taglio della sua scimitarra e attese.

—Persisti ancora a tacere? chiese Ahmed che sentivasi preso da una viva ammirazione per quell'uomo che sfidava così imperterrito la morte.

—Persisto, rispose il beduino.

Ahmed battè le mani. Il carnefice alzò la scimitarra che balenò alla luce del fuoco.

—La morte ti sfiora, disse Ahmed.

—La sfido.

Ad un tratto la scimitarra si abbassò non già sul collo del beduino, ma per terra.

—Tu sei irremovibile come una rupe e io ti ammiro! esclamò il Mahdi.
Alzati, parla e io ti giuro che ti darò vivo l'uomo che mi chiedi.

—Grazie, Ahmed.

Il carnefice sparve dietro la tenda. Ahmed si sedette sull'angareb invitando il beduino a fare altrettanto.

—Parla che ti ascolto, disse.

—Ahmed Mohammed, disse il beduino dopo aver meditato alcuni istanti.
Ti ricordi di Fathma, la tua favorita.

Il Mahdi fece un soprassalto sull'angareb e la sua fronte si aggrottò.

—Perchè richiamarmi alla memoria quella donna? chiese egli con ira.

—Lo saprai dopo. Sai tu, con chi fuggì?

—Se l'avessi saputo quell'uomo non vivrebbe più.

—Te lo dirò io. Fuggì con uno sceicco che era ai tuoi servigi.

—Eh!… dov'è questo sceicco?

—Morì nella battaglia di Kadir.

—Maledizione.

—Fathma, rimasta sola, discese al Sud, giunse a Hossanieh dove accampava l'armata di Dhafar pascià e qui si innamorò di un altro uomo che non ebbe paura di amare l'ex favorita dell'inviato di Dio.

Ahmed cacciò fuori un urlo strozzato; gli occhi gli schizzarono dalle orbite e portò ambo le mani al petto cacciandosi le unghie nelle carni.

—Dov'è questo secondo amante che io lo fulmini! ruggì egli.

—In questo campo.

—In questo campo!…

—Sì, Ahmed e tu lo hai salvato, capisci, tu lo hai salvato dalla morte.

—Io!…

—Sì, l'hai salvato questa mane facendogli combattere un leone a cui avevi dato da bere un filtro.

—Perdio! tuonò Ahmed, balzando in piedi. È lui quest'uomo? È lui questo amante della mia favorita?

—Sì, è proprio lui, l'arabo Abd-el-Kerim.

Ahmed si morse le dita rabbiosamente, poi si avvicinò al beduino che sogghignava e lo scrollò furiosamente.

—Non ingannarmi.

—Perchè ingannarti?

—Ma sai che non ti credo? Tu odi quell'uomo e vuoi perderlo.

—Sicuro che l'odio, ma ti giuro che dico la verità.

—Lo giureresti sull'Alcorano!

—Lo giurerei.

Ahmed si slanciò verso la tenda e tornò subito con un libro dalle pagine d'oro sulle quali vi erano incisi dei versetti. Era il libro sacro dei maomettani, il Corano.

Questo Corano chiamato più comunemente Alcorano, oppure Al Torkan, Al Dhikr o anche Al Kitab è il codice fondamentale delle leggi sì civili come criminali dei maomettani. Esso è una collezione di tutti i frammenti che Maometto, durante il tempo della sua supposta missione, promulgò successivamente come tante rivelazioni del cielo, ciascuna parte delle quali, secondo i Mussulmani, fu scritta dinanzi al trono di Dio con una penna di luce, sulla tavola dei suoi eterni decreti e di cui una copia fu recata in terra e rivelata a Maometto dall'angelo Gabriele.

È diviso in 114 capitoli che portano la data della Mecca e di Medina, e sono chiamati questi capitoli sura. Furono raccolti da Said-ben-Thabet schiavo di Maometto e uniti in libro da Abù Bekr due anni dopo la morte del profeta avvenuta il XIII secolo dell'egira (652 anni avanti Cristo).

Sette sono i principali testi del Corano: due di Medina, uno della
Mecca, uno di Cufa, uno di Bassora, uno di Siria e l'Alcorano volgare.

Uno contiene 6000 versetti, gli altri 6200 e anche 6236, ma tutti contano 77,639 parole e 323,015 lettere.

Ahmed lo aprì dinanzi al beduino e gli disse:

—Giura su l'Alcorano che hai detto la verità.

—Giuro! gridò il beduino senza esitare.

—Sta bene; ora so cosa devo fare dell'uomo che osò amare la favorita dell'inviato di Dio.

—Ahmed! Quell'uomo è mio! me l'hai promesso.

—Non temere che io manchi alla parola data. Ho promesso che te lo darò vivo, ma prima gli strazierò le carni e farò scorrere ai suoi piedi rivi di sangue. Va, e che Allàh ti guardi!…

CAPITOLO V.—La tortura.

I noggàra battevano la sveglia, quando venticinque guerrieri della guardia di Ahmed Mohamed, armati sino ai denti, circondavano il tugul occupato da Abd-el-Kerim. Una folla considerevole di Abù-Rof, di baggàra, di beduini e di foriani, si era radunata all'intorno chiedendosi cosa volessero fare quei venticinque guerrieri al nuovo sceicco, salvato il giorno innanzi dall'inviato del Signore.

Il capo dei guerrieri, dopo di avere appostati i suoi uomini all'ingiro, in modo da impedire ogni scampo, entrò nel tugul colla scimitarra in pugno e con una cert'aria che pareva tutt'altro che rispettosa e pacifica.

Abd-el-Kerim stava appunto alzandosi allora dal l'angareb sul quale aveva dormito. Vedendo quell'uomo piantarglisi minacciosamente dinanzi, squadrandolo con occhio torvo, non potè dissimulare un gesto di sorpresa.

—Che vuoi? gli chiese, sforzandosi di mostrarsi tranquillo.

Seguimi, rispose il capo bruscamente.

—Chi mi vuole?

—L'inviato del Signore.

Abd-el-Kerim trasalì. Nel suo cervello balenò un terribile sospetto, il sospetto che qualcuno lo avesse tradito, che lo avesse denunciato per l'amante di Fathma. Sentì il sangue gelarsi nelle vene e mancare lo forze.

—Che vuole da me Ahmed? chiese egli con ispavento.

—L'ignoro. Mi disse di condurti da lui vivo o morto e io ti condurrò.

—Ma cosa è accaduto per trattarmi peggio di un nemico?

—Non ne so nulla. Ahmed deve avere le sue buone ragioni.

—Si è ingannato.

—È impossibile! esclamò il guerriero con profonda convinzione. Ahmed è infallibile.

—Una parola ancora. Hai veduto qualche straniero entrare nel tugul del profeta?

—Sì, questa notte sono entrati due uomini e uno di essi non l'aveva mai visto al campo.

—Ah!…

—Seguimi. Ahmed non è uomo da aspettare molto.

Abd-el-Kerim, pallidissimo, voleva cingere la scimitarra regalatagli la sera innanzi dal Mahdi, ma il guerriero gliela strappò di mano spezzandola.

—Sei prigioniero, e i prigionieri non devono essere armati, gli disse.

Lo afferrò bruscamente per un braccio e lo trasse a forza fuori dal tugul. I suoi uomini lo circondarono colle pistole e gli jatagan in mano; facendogli capire che al primo tentativo di fuga gli avrebbero fatto saltare le cervella.

—Sono perduto! pensò lo sventurato arabo. Qualcuno mi ha tradito. Chi?… Che farò mai io se mi si gettasse in faccia la tremenda accusa che io fui l'amante di Fathma?

«Che farà di me Ahmed che si mostrò così feroce così implacabile parlando di quella donna!… Allàh! Allàh! quando la finirai tu di perseguitarmi? Non ti basta adunque di avermi privato di colei che tanto amavo, di avermi infranto il cuore?… Vuoi adunque anche la mia morte?

Un sordo gemito gli uscì dalle labbra; gettò uno sguardo disperato all'intorno, forse meditando una fuga che era assolutamente impossibile. Non vide che una turba di guerrieri che lo serrava strettamente, guardandolo con occhi torvi e minacciosi. Sulle labbra di alcuni errava un atroce sogghigno, un sogghigno di soddisfazione. Tutti, lo si vedeva, comprendevano che il nuovo sceicco era caduto in disgrazia e si compiacevano di tale avvenimento.

Maledetti! mormorò l'arabo.

Chinò il capo sul petto e si rinchiuse in cupi pensieri. Non lo rialzò che quando si trovò dinanzi al tugul di Ahmed, attorno al quale si era radunata una intera tribù di baggàra. In mezzo ad essa egli scorse un beduino ammantellato che si coprì il volto con un lembo del taub. Abd-el-Kerim, senza sapere proprio il perchè, tremò tutto e fissò involontariamente gli occhi su quell'uomo che affrettossi a confondersi fra i negri.

Fu fatto entrare nel tugul e lasciato solo. Le prime cose che colpirono il suo sguardo furono un palo che era rizzato in mezzo alla stanzuccia, un rotolo di strisce di pelle e un braciere ardente sul quale arrossavano alcuni jatagan d'una forma speciale.

—Oh! esclamò l'infelice che sentì corrersi per le ossa un brivido.

Volle dare indietro ed uscire, ma non ne ebbe il tempo. Ahmed entrò colla fronte abbuiata, gli occhi accesi da una cupa fiamma, le braccia incrociate convulsivamente sul petto.

Abd-el-Kerim fece involontariamente un passo indietro. Si sa che era coraggioso, ma nel vedersi dinanzi quel possente uomo, che con un cenno poteva far rotolare ai suoi piedi mille teste, così cupo, così minaccioso, ebbe paura.

Per alcuni istanti nella capanna regnò un profondo silenzio, rotto solamente dagli scoppiettii del braciere che arrossava gli istrumenti di tortura.

Pareva che Ahmed provasse una feroce compiacenza delle tremende angoscie della vittima.

—Siedi! disse ad un tratto, accennandogli l'angareb.

L'uomo ubbidì macchinalmente senza aprire bocca.

—Abd-el-Kerim, continuò Ahmed, con un tono di voce che tradiva la collera che ruggivagli in petto, frenata solamente da uno sforzo straordinario. Sai perchè ti feci arrestare e tradurre qui come un prigioniero?

—Come vuoi che io lo sappia, disse l'arabo che comprese subito l'immenso pericolo che correva e che la sua vita era appesa ad un semplice filo.

Un sogghigno beffardo, simile a quello di una iena che si dispone a divorare la preda, contorse le labbra del terribile Profeta.

—Sei certo di non saperlo? chiese.

—Ma perchè tale domanda? Spiegati, Ahmed.

—Perchè sei così agitato? La tua coscienza non è tranquilla,
Abd-el-Kerim.

—Non è vero! T'inganni!

Ahmed scattò in piedi colla vivacità di una tigre. Gli si avvicinò, gli posò le mani sulle spalle e gli disse con aria tetra:

—Tu tremi!…. perchè tremi? Perchè la tua coscienza non è tranquilla? Perchè il tuo cuore non batte quasi più?… Perchè il tuo sguardo è smarrito?… Non negarlo a me che leggo nel più profondo dei cuori, non negarlo a me che leggo i tuoi pensieri, Tu sai la terribile accusa che gravita sul tuo capo e tremi, tremi.

Abd-el-Kerim, cinereo, tremante, alterato, spaventato, non rispose. Non si sentiva capace di allontanare la terribile accusa che doveva perderlo. Egli si chiedeva solamente chi era il miserabile che lo aveva tradito.

—Ebbene? chiese l'implacabile Ahmed, scrollando lo sventurato.

—Che cosa vuoi che ti dica? balbettò Abd-el-Kerim, smarrito. Non so…. non capisco…. ignoro ciò che tu vuoi dire….

—Ah! fe' Ahmed con sottile ironia. Non comprendi adunque dove io miri?

—No…

—Te lo dirò io.

Tornò a sedersi ancor più cupo e più minaccioso di prima, saettando d'uno sguardo terribile l'infelice arabo terrorizzato. Stette alcuni istanti raccolto in sè stesso, come se meditasse, poi, con voce calma, marcando ogni parola, disse:

—Ti ricordi di Dhafar pascià?

—Perchè tale domanda?

—Ti ricordi di Hossanieh?

—Hossanieh! esclamò l'arabo diventando ancor più cinereo.

—Mi si disse che un giorno arrivò in quel campo…

—Chi?…

—Una donna!

—Non è vero! urlò Abd-el-Kerim.

Ahmed lo guardò in maniera strana.

—Sai di che donna intendo parlare? chiese egli divorando l'arabo con gli occhi.

—Io!… no!…

—Perchè allora ti sei affrettato a negare che una donna comparve a
Hossanieh?

Abd-el-Kerim non rispose. Lo sventurato conobbe di essere perduto.

—Te lo dirò io, allora. Fu per allontanare l'accusa che gravita sul tuo capo.

—Ma quale, quale accusa? gridò il prigioniero.

—Di aver amato una donna che si chiama Fathma!

Abd-el-Kerim cacciò fuori un urlo d'angoscia e indietreggiò fino alla parete della capanna, coi capelli irti, gli occhi stravolti.

—Perchè quel grido? chiese Ahmed, il cui volto assunse una terribile espressione di ferocia e d'odio.

—Grazia, Ahmed, balbettò lo sventurato.

—Ah! Tu mi chiedi grazia? Tu sei colpevole adunque? Tu hai amato quella donna adunque! Rispondi, sciagurato, rispondi!

—Ebbene…. sì, ho amato quella donna!

—E non tremi a dirlo?

—Grazia… Ahmed! Grazia…

—Ma non sapevi tu che quella donna era stata mia?….

—Sì, ma lo seppi quando l'amore era diventato così gigantesco da non essere io più capace di soffocarlo, di spegnerlo, di distruggerlo. Che colpa ho io se l'amai ed essa mi amò? Quella donna d'altronde non era più tua.

—Ma non sai adunque, miserabile, che io l'amo ancora?

—Tu l'ami!…, Tu l'ami!….

—Sì, l'amo quella donna bella e fatale, e l'amo a segno che per essa marcerei sull'Egitto, a segno che per essa rinnegherei la mia religione. Comprendi ora quanto Ahmed-Mohammed ama Fathma? Lo comprendi ora?

—Sì…. lo comprendo! esclamò l'arabo con ira.

—Abd-el-Kerim, disse Ahmed con furore, se tu fossi Ahmed-Mohammed ed io Abd-el-Kerim, cosa faresti?

—Perchè tale domanda?

—Fra poco lo saprai. Dimmi, cosa faresti tu?

—Io mi mostrerei generoso.

—Ed io mi mostrerei implacabile. Preparati a soffrire i più atroci tormenti.

—Grazia, Ahmed!… supplicò lo sventurato, cadendo in ginocchio dinanzi a lui.

—Ahmed non perdona.

—Miserabile! urlò l'arabo saltando in piedi, fuori di sè.

Il Mahdi, vedendo che il prigioniero stava per avventarglisi addosso, indietreggiò sguainando la scimitarra e gettò un acuto fischio.

Yokara, il gigantesco carnefice, balzò nella stanza abbrancando a mezzo corpo l'arabo. Gli bastò un pugno solo per atterrarlo e ridurlo all'impotenza.

—Lega quest'uomo al palo, disse Ahmed sdraiandosi indolentemente sull'angareb.

Il carnefice sollevò l'arabo che non dava quasi più segno di vita e lo legò solidamente al palo con forti correggie di cuoio.

—Fallo ritornare in sè, poi gli straccerai le carni a colpi di corbach.

—Sta bene!

Il miserabile si avvicinò al braciere, levò uno degli jatagan, prese i pollici dell'arabo e li serrò attorno al ferro incandescente.

La carne scoppiettò a quel contatto e per l'aria si sparse un nauseante odore di bruciaticcio. Abd-el-Kerim giuzzò come fosse stato toccato da una scarica elettrica; un rantolo soffocato gli rumoreggiò in fondo alla gola. Riaprì gli occhi girandoli all'intorno.

—Eccolo svegliato, ripigliò il carnefice deponendo il ferro.

—Devo mettere in opera il corbach?

—Non ancora, disse Ahmed. Lascialo che rinvenga del tutto.

Infatti Abd-el-Kerim rinveniva. Suo primo moto fu quello di torcere i polsi tentanto di rompere i legami, poi si abbandonò addosso al palo gemendo lugubremente. Le dita calcinate al contatto del ferro rovente dovevano farlo soffrire atrocemente.

—Fathma!… mormorò lo sventurato con voce semispenta. Fathma!…

Ahmed digrignò i denti e la sua ira accrebbe smisuratamente a quell'invocazione disperata.

—Ah! maledetto! brontolò egli. Ancora la chiami? Ma non la vedrai più, te lo giuro. Quando uscirai dalle mie mani per passare in quelle del tuo nemico, sarai un uomo rovinato per sempre.

S'avvicinò alla sua vittima e toccandola in mezzo al petto:

—Mi riconosci? gli chiese.

—Che mi hai fatto? rantolò Abd-el-Kerim. Io soffro… soffro atrocemente… mi hanno arso le mani…

—Mi riconosci? ripetè Ahmed, avvicinandosi vieppiù.

—Sì, ti conosco… vendicativo uomo.

—Rispondi alla interrogazioni che ti farò, se vuoi salvare la vita.
Che hai fatto di Fathma? Dove si trova?

—Lasciami in pace…

—Abd-el-Kerim! gridò Ahmed gravemente. La morte ti sfiora colle sue nere ali. Rispondi: dove si trova Fathma?

—Ma non capisci che io l'ho perduta, che fui separato da lei a
Hossanieh, che mi fu rapita?

—Da chi?

—Da un uomo che era mio rivale.

—Chi è quest'uomo?

—Un soldato un'anima dannata, un… S'arrestò agitando le dita calcinate e gemendo ancor più lugubremente. Un copioso sudore irrigavagli il volto e il petto gli si sollevava affannosamente.

—Dimmi, dov'è quest'uomo? gli chiese Ahmed in preda ad una esaltazione indicibile.

—Non lo so… credo che sia morto…

—Tu vuoi ingannarmi. Olà, carnefice, fa il tuo dovere.

Yokara a quel comando impugnò un grosso staffile, un corbach di pelle d'ippopotamo, flessibile e insanguinato. Lo fece girare e fischiare attorno al capo, poi applicò un terribile colpo sul petto di Abd-el-Kerim, tracciando un segno violaceo.

L'infelice gettò un urlo strozzato, un urlo di dolore e si rovesciò contro il palo.

—E uno, contò Ahmed, Percuoti, percuoti, duro fino a che le carni siano lacerate. Allora vi introdurrai la morte.

Il carnefice, cieco istrumento del terribile profeta, si mise a sferrare rabbiosamente l'arabo che era di già svenuto. La pelle si coprì di solchi azzurrognoli, violacei, rossi, poi si lacerò.

Il sangue incominciò a scorrere abbondantemente giù per quell'inanimato corpo, formando in terra una larga pozza.

—Percuoti! percuoti! ripeteva ferocemente Ahmed.

E il carnefice percuoteva senza posa e senza pietà, facendo volare per l'aria goccie di sangue che macchiavano le pareti e il soffitto del tugul e staccando lembi di pelle.

Ad un tratto si fermò.

—Padrone, diss'egli esitando, se continuo così lo uccido.

—Lo credi? chiese Ahmed ironicamente.

—Te lo assicuro. È mezzo morto di già.

—Questi arabi sono di ferro, tuttavia basterà così Ora, introduci nelle ferite la morte.

Yokara slegò Abd-el-Kerim che non respirava quasi più tutto scorticato, tutto rosso di sangue, colla faccia spaventosamente alterata e gli occhi stravolti, schizzanti dalle orbite. Lo depose a terra, vi gettò sopra un mastello di acqua poi mandò un fischio.

La tenda si alzò ed apparve uno spaventevole negro, un essere mostruoso, ributtante; orribile a vedersi.

Era alto, scarno, col volto smunto, ossuto, gli occhi infossati e accesi e sul suo corpo dinanzi e di dietro vedevansi dei tumori più o meno grossi di un pugno e di una forma strana. La pelle dell'addome e del petto era screpolata, ulcerata e lasciava qua e là vedere la viva carne.

Ahmed fe' un gesto di ribrezzo.

—Sei pronto a subire l'operazione? chiese tranquillamente il carnefice.

—Quando l'inviato di Dio me lo comanderà, mi farò tagliare in diecimila pezzi, rispose il mostro.

—Distenditi a terra. Mi accontenterò di un solo verme.

L'altro ubbidì. Il carnefice impugnò un coltello dalla lama sottile e ben arrotata, tastò un tumore dei più grossi e si pose a tagliarlo lentamente, a strati, senza che il paziente desse segno di provare il menomo dolore.

Il sangue colava, ma l'operatore continuava a tagliare imperturbabilmente.

Due minuti dopo s'arrestava. Depose il coltello aprì colle dita il tumore e trasse, con grande precauzione, un verme bianco, rotondo, grosso tutt'al più come uno spago forzino e non più lungo di sessanta centimetri.

—Cos'è? chiese Ahmed che seguiva attentamente quella strana operazione.

—Un filare di Medina, rispose il carnefice.

Ruppe in due lo schifoso animaletto che contorcevasi disperatamente, facendo uscire un liquido biancastro, spesso, granuloso, attaccaticcio. Egli lo raccolse in un guscio d'uovo di struzzo.

—Vedi, disse volgendosi verso Ahmed, questo liquido è formato da piccolissimi vermicelli, i quali non chiedono altro che di essere introdotti nel corpo di un uomo per ingrandire.

—Ebbene?

—Io verso questo liquido sulle ferite del prigioniero. I piccini troveranno alimento nel sangue, ingrandiranno e si costruiranno una specie di nicchia fra la pelle e la carne. Fra qualche mese quel povero diavolo diverrà spaventevole come il negro che tu hai dinanzi.

—E guarirà?

—No, deperirà lentamente, lentamente, a meno che non trovi un uomo tanto abile che gli estragga questi terribili succhiatori di sangue, il che non è probabile. Sarai ampiamente vendicato.

—È orribile.

—Dici spaventevole.

—Non monta, termina.

Il gigante si avvicinò ad Abd-el-Kerim, gli sollevò la pelle lacerata in diversi luoghi, e lasciò cadere goccia a goccia il liquido fatale che doveva ucciderlo.

—Ora, diss'egli, puoi darlo all'uomo che lo aspetta.

Ahmed con un gesto gli intimò di ritirarsi insieme al negro, poi tornò a battere le mani. La porta d'entrata si aprì e apparve il beduino ammantellato fino agli occhi.

Scorgendo Abd-el-Kerim a terra e in quello stato, la sua faccia si illuminò e un sorriso diabolico, un sorriso di feroce gioia, apparve sulle sue labbra.

—Mi sono vendicato, gli disse Ahmed con voce cupa. Ti abbandono il prigioniero e ricordati che se lo ammazzi te ne sarò grato.

—Grazie, Ahmed, rispose il beduino. So cosa devo fare di quest'uomo che odio con tutte le forze dell'anima mia.

Quattro guerrieri entrarono nel tugul, gettarono una tela sul corpo dell'infelice arabo e lo portarono via.

CAPITOLO VI.—Lo scièk Abù-el-Nèmr.

Era il dopo pranzo dell'ultimo giorno di luglio. Pel cielo correvano disordinatamente densi nuvoloni di una tinta lattea, spinti da un vento impetuosissimo e caldissimo. Alcuni goccioloni di pioggia tiepida cadevano pesantemente sulle tende e sui tugul del campo sudanese, e in lontananza lampeggiava e brontolava di tratto in tratto il tuono.

Le innumerevoli orde del Mahdi, secondo il solito, erano tutte in movimento, occupate ad esercitarsi coi cannoni, colle mitragliatrici e coi remington, tolti agli egiziani a Kasghill, od a destreggiarsi con finte scaramuccie, o a marciare per colonne o in quadrato o a operare ritirate e tentare assalti, o a costruire fortini, trincee, terrapieni o bastioni sotto la condotta dei loro sceicchi.

In mezzo al campo, sulla cima di una collinetta, se ne stava tutto solo un individuo che pareva non si occupasse affatto di quanto succedeva a lui d'intorno. Questo individuo era un beduino, quello stesso che aveva tradito Abd-el-Kerim.

Ammantellato accuratamente, egli passeggiava innanzi e indietro, colla testa china sul petto, la fronte aggrottata e gli occhi accesi da una cupa fiamma.

Di tratto in tratto arrestavasi, volgeva uno sguardo di fuoco verso le tempestose nubi e colla faccia alterata si chiedeva:

—Verrà?…

Aveva di già compiuto più di cento volte il giro della collina ripetendo altrettante volte quella interrogazione che facevalo diventare sempre più cupo, quando un fischio stridulo, vibrato, bizzarro, pervenne al suo orecchio. Alzò vivamente le braccia e girò intorno un rapido sguardo; le rughe della sua fronte si spianarono e le sue labbra si contrassero ad un sorriso.

Un negro, lo sceicco El-Mactud, era sbucato improvvisamente da una macchia e saliva rapidamente la collina. Il beduino s'affrettò a muovergli incontro.

—Ebbene? gli domandò con ansietà che invano cercava di nascondere.

—La va male, rispose lo sceicco asciuttamente.

—Ira di Dio!… È morto?

—Tutt'altro, è vivo. Le ferite si sono rinchiuse.

—E allora?….

—Siedi ed ascoltami attentamente.

Il beduino e lo sceicco si sdraiarono per terra.

—L'ho visitato or ora assieme ad un mio amico che se ne intende di medicina, ripigliò El-Mactud, il povero diavolo è fuori di pericolo, ma abbiamo scorto sul suo corpo lo traccie di un terribile male che lo condurrà alla tomba.

Un trasalimento nervoso scompose per alcuni secondi il viso del beduino.

—Qual male? chiese egli con maggior ansietà.

—Il corpo dell'arabo è tutto coperto di tumori grossi quanto i tuoi pugni e che sembrano lì per lì per iscoppiare. Io ho paura che sotto quei tumori vi sieno dei vermi, dei filari di Medina.

—Dei vermi?….

—Sì, dei vermi che a poco a poco ridurranno in uno stato compassionevole Abd-el-Kerim. Lo faranno diventare uno scheletro.

—Ma chi mai introdusse questi terribili filari nel suo corpo?

—Probabilmente un uomo.

—Chi?

—Il vendicativo Ahmed.

Un ruggito irruppe dal petto del beduino.

—Ah! cane! esclamò egli con trasporto furioso.

—Non offendere l'inviato di Dio, disse gravemente El-Mactud.

—Ma questo inviato di Dio ha mancato alla sua parola, mi capisci
El-Mactud. Mi aveva giurato di darmi nelle mani quell'uomo vivo.

—E non te lo ha dato vivo?

—Ma colla morte nel sangue.

—Ahmed è più furbo di noi, ecco tutto.

—È più birbante.

—Zitto, non offendere.

—Sia pure, giacché lo vuoi. Dimmi non vi è alcuna medicina che possa guarire l'arabo? Mi narrarono che parecchi uomini colpiti dall'identico male furono salvati.

—Lo narrarono anche a me, ma ci vuole un medico esperto per far uscire i filari, e nel campo non ve n'è che uno.

—Chi è?

—Ahmed, credo.

—Ma non vorrà mai fare una tale operazione.

—Certamente, poichè fu lui ad introdurre i filari nel corpo dell'arabo.

—E allora?

—Potresti parlargli. Non perderai nulla a tentarlo.

—Quanto potrà vivere Abd-el-Kerim?

—Non saprei dirtelo, ma probabilmente parecchi mesi, forse anche qualche anno.

—Andrò subito a parlare ad Ahmed. Bisogna che lo salvi.

Lo sceicco lo guardò con stupore.

—Non capisco più nulla, disse. Lo tormenti e vuoi salvarlo.

—Ho le mie buone ragioni per agire così, rispose il beduino.

—Così deve essere.

—Dov'è Ahmed?

—L'ho visto or ora entrare nella capanna dei missionari.

—Se va a trovare i prigionieri dev'essere di buon umore. Andrò alla capanna.

—Ed io, che cosa devo fare?

—Ritornerai al baobab. Questa sera ti raggiungerò e probabilmente parlerò col prigioniero.

—Ti riconoscerà?

—Non dubitarne.

—Il beduino tornò ad ammantellarsi e discese la collina inoltrandosi fra le tende.

Cinque minuti dopo giungeva in mezzo all'accampamento e precisamente dinanzi ad una capanna semi-cadente, costruita con rami e coperta di foglie. Attorno v'erano numerosi guerrieri e parecchi dervis.

—Dov'è Ahmed-Mohammed? chiese il beduino, facendosi largo.

—Nella capanna, rispose un guerriero d'atletica statura. Là dentro si muore.

—Chi è che muore?

—Una delle prigioniere.

—Brigante di Ahmed, borbottò il beduino.

Si avvicinò alla porta e guardò nell'interno con viva curiosità.

Là, nel mezzo, sulla nuda terra, giaceva una donna orribilmente pallida smunta, ischeletrita, in preda agli ultimi aneliti. Attorno ad essa v'erano undici persone dalla tinta bianca, ischeletrite dalla fame, dalle sofferenze, dall'angoscia, dai terribili calori del sole equatoriale, coi capelli arruffati e le scarne membra appena coperte da cenciose camicie pullulanti di schifosi insetti.

Quei miseri, condannati a soffocare là entro, colla scimitarra sempre sospesa sopra la loro testa, erano i missionari veronesi don Luigi Bonomi, il laico Regnotto, suora Gregolini, suor Caprini, suor Chincarini e suor Venturini, la negra Coassè, allieva dell'istituto veronese don Mazza, il chierico Locatelli di Bergamo, don Rossignoli di Frascati, don Ohrwalder Trento e suor Corsi di Barletta[1].

[1] I missionari erano stati fatti prigionieri, assieme alle suore parte a Gebel-Nuba e parte a El-Obeid. Il Mahdi aveva ordinato alle sue orde di tormentarli qualora uscissero della loro capanna.

L'illustre missionario don Luigi Bonomi, mi narrò che un giorno, il Mahdi, esasperato perchè non abbracciavano la sua religione, in pieno mezzogiorno, alla presenza di tutto l'esercito, li fece scendere in campo minacciandoli di morte. Visto che il terrore non faceva effetto, li lasciò languire quattro lunghi mesi nella loro capanna, quasi ignudi e senza mezzi di sussistenza.

Da quel giorno i guerrieri furono lasciati liberi di maltrattare i poveri missionari e si può immaginare in qual modo ne abusassero.

Due suore e un laico morirono.

La misera che stava per spirare, uccisa dalle febbri e dagli spaventi, era suor Pesavento di Montorio Veronese.

Il beduino, vedendo il Mahdi ritto in mezzo alla capanna cogli occhi fissi sulla moribonda, cercò di entrare ma fu respinto dalla guardia baggàra.

—Lo aspetterò, diss'egli sedendosi a poca distanza dalla capanna.

Mezz'ora trascorse prima che Ahmed uscisse. Era assai preoccupato, ma a quanto pareva, non di umore nero.

Il beduino lo seguì fino alla cima di una collina che dominava il campo e arditamente gli si presentò.

—Ah! sei tu amico! esclamò Ahmed, con un sorriso ironico. Come sta l'uomo che ti donai?

—Molto male. Ahmed, rispose il beduino. Ha la morte nel sangue.

Sulle labbra del Profeta spuntò un secondo sorriso ironico non meno beffardo del primo.

—È avvelenato forse? chiese con sottile ironia.

—Peggio che avvelenato. Ha il corpo zeppo di filari di Medina.

—Me ne duole per te, del resto lo sapevo.

—Allora devi anche sapere chi lo ridusse in tal modo, disse il beduino acremente.

—Che vuoi dire? chiese Ahmed, corrugando le sopraciglia.

—Voglio dire che tu conosci la mano colpevole che rovinò il mio uomo.

—Tu sei pazzo. Chi vuoi che sia stato?

—Un uomo che aveva interesse perchè l'arabo crepasse.

—E quest'uomo si chiamerebbe?

—Ahmed Mohammed, disse il beduino audacemente.

—E tu hai coraggio di dirmelo in faccia?

—E perchè dovrei tacere?

—Sai che ti trovo ben ardito?

—A un beduino è permesso di essere ardito.

—Se un altro avesse detto tanto non avrebbe più la sua testa sulle spalle. Vattene!

—E il mio uomo?

—Che muora.

—Tu manchi ai tuoi giuramenti, Ahmed! esclamò il beduino furibondo.

—Vattene temerario.

—Oh mai! Io voglio che si liberi Abd-el-Kerim dai filari che lo rodono o che…

—Olà gridò Ahmed. Impadronitevi di quest'uomo e consegnatelo al carnefice.

Già i dervis, tratte le scimitarre, s'avanzavano e già il beduino aveva impugnato le pistole, quando in lontananza scoppiarono formidabili detonazioni e acutissime grida.

Ahmed e i dervis udendo quel baccano scesero in fretta la collina. Il Profeta s'era strappata dal fianco la scimitarra e l'impugnava come un vero guerriero che si prepara a scagliarsi nella mischia.

—Il nemico!… si urlava da tutte le parti.

Il beduino, rimasto solo, approffittò di quell'incidente capitato così a buon punto per salvarlo. Si raccomandò alle proprie gambe e andò a intanarsi in mezzo ad una folta macchia.

—Ira di Dio! mormorò egli. Che succede?

Girò gli occhi all'intorno: tutto il campo era in movimento. I guerrieri si radunavano in furia disponendosi confusamente in linea di battaglia, cogli scudi in mano e le lance in resta. La cavalleria si ordinava alla meglio empiendo l'aria di urla selvaggie.

Si trascinavano i cannoni e le mitragliatrici, si caricavano i moschetti e i remington, si abbattevano le tende e si occupavano le capanne le trincee, i terrapieni, i ridotti di terra. Gli sceicchi galoppavano per ogni dove cercando i propri battaglioni, comandando, strepitando.

—Il nemico! il nemico! si vociava dappertutto.

—Ira di Dio! ripetè il beduino. Cosa succede? Che sia il colonello
Coetlegan che attacca queste canaglie? Non ci mancherebbe che questo.
Oh!…

L'esclamazione gli fu strappata da un formidabile rullare di noggàra e di darabùke e da un grido immenso che echeggiò in lontananza:

—Viva lo scièk Abu-el-Nemr!

Le file degli insorti si ruppero come per incanto. Lasciarono i cannoni, le trincee e persino le armi per riversarsi verso il sud ripetendo il grido.

—Viva lo scièk Abù-el-Nemr!

Fra una grande nuvola di polvere, il beduino scorse una grossa tribù di guerrieri che moveva rapidamente verso il campo colle bandiere del Mahdi spiegate. Respirò rumorosamente, liberamente, come se gli si fosse levato di dosso un gran peso.

I creduti nemici erano i guerrieri dello scièk Abù-el-Nèmr che ritornavano dalla guerra. Alla loro testa comminava un bel nero dal nobile portamento, colle braccia e le gambe cariche di anelli di rame, un turbante verde ricamato d'argento, sul capo, e avvolta attorno al corpo una gran farda azzurrina trapunta in oro.

Le genti del Mahdi si affolavano attorno a lui urlando sempre con crescente forza:

—Salute ad Abù-el-Nèmr!

Il cavaliere diresse il bianco destriero verso Ahmed che si era fermato ai piedi della collina circondato dai suoi dervis e dalla sua scorta di Baggàra, saltò a terra e gli baciò la mano.

Fra lo scièk e l'inviato di Dio vennero scambiate alcune parole, poi quest'ultimo prese per la mano il primo e lo condusse sulla collina, facendo segno a tutti gli altri di non seguirlo.

Essi si arrestarono a pochi passi dalla macchia, in mezzo alla quale tenevasi prudentemente celato il beduino.

—Ebbene, Abù-el-Nèmr, disse Ahmed dopo di aver gettato uno sguardo all'ingiro come per assicurarsi che nessuno poteva udirlo. Come andò la spedizione?

—I Scilluk che si erano ribellati li abbiamo interamente distrutti, rispose lo sceicco. Trionfiamo su tutta la linea.

—Non abbiamo più nemici, adunque, dinanzi a noi?

—Non abbiamo più nessuno. La battaglia di Kasghill ci ha aperto la via che mena a Chartum.

—Dov'è il colonello Coetlegan? Mi si disse che accampava sulla rive del Bahr-el Abiad.

—Appena ebbe sentore della strage di Kasghill si è affrettato a guadagnare Chartum ed ora sta organizzando la difesa di questa città.

—Credi che opporranno resistenza gli abitanti di Chartum?

—No, anzi ci aiuteranno a massacrare le truppe egiziane. Ho mandato dei dervis in quella città e fanno attiva propaganda. Quasi tutti gli arabi e i sennaresi abbracciano con entusiasmo la nuova religione.

—Sicchè fra qualche mese noi potremo rimetterci in marcia.

—Anche domani se tu lo volessi; la strada è libera.

—E di Osman Digma, ne sai nulla tu?

—Si trova sulle rive del mar Rosso, rispose lo sceicco, e tira a sè tutte le tribù beduine che trova sul suo cammino. Tra non molto tenterà un attacco contro Suakim.

—È questa città che mi occorre sopratutto.

—Perchè?

—Per passare il mare e sbarcare alla Mecca

—Ah! Tu hai questo progetto!

—Sì, lo ho, e ti giuro su Allàh, Abù-el-Nèmr, che io lo compierò: è la missione impostami da Dio. Sarà là che io abbatterò il Sultano dei turchi; sarà là che lancieremo la scintilla destinata a sollevare a ribellione tutti i popoli maomettani; sarà là che noi sfideremo la potente Europa che deride, che perseguita, che cerca di schiacciare, noi, arabi. Coll'aiuto di Allàh e col nostro valore, noi assorbiremo ed Europa, ed Africa e Asia.

—Il progetto è bello, superbo. Ma riusciremo noi?

—Si riuscirà. Lo sento.

Ad un tratto la fronte di Ahmed s'oscurò e un profondo sospiro gli uscì dalle labbra. Lo sceicco lo guardò con sorpresa.

—Che hai, Ahmed? gli chiese. Forse che qualche presentimento ti ha morso il cuore?

—No, mormorò il Mahdi.

—E allora?…

Ahmed lo guardò in silenzio per alcuni istanti, poi gli si avvicinò e prendendogli strettamente le mani gli disse con impeto selvaggio:

—Ne hai udito parlare tu?

—Di che? chiese lo sceicco.

—Di quella donna che io ho tanto cercato, di Fathma infine.

Lo sceicco trasalì. Parve sorpreso e insieme sgomentato. Non seppe cosa rispondere a quella brusca interrogazione che forse era mille miglia lontano dal aspettarsi.

—Mi hai compreso? gli chiese Ahmed.

—Sì, ti ho compreso, balbettò Abù-el-Nèmr

—Ebbene, hai saputo nulla di lei?

—No, no, nulla… assolutamente nulla!

—Maledizione!

—Hai forse saputo… dove sia?

—Se l'avessi saputo a quest'ora sarebbe nelle mie mani. L'ho cercata per ogni dove, ho interrogato mille persone e senza frutto. Speravo che tu mi recassi qualche notizia.

—Ma che vorresti fare di Fathma? Non l'hai, adunque ancora dimenticata?

—Non ancora. Oh! se potessi trovarla!

—Ebbene?

—Non sai nulla adunque, cosa è accaduto nel campo?

—No, mormorò lo sceicco che tornò a trasalire.

—Ho trovato l'uomo che fu l'amante di Fathma.

—Oh!…

Abù-el-Nemr aveva fatto due passi indietro e guardava Ahmed con ispavento. Era diventato cinereo e tremava in tutte le membra come se fosse stato assalito da una tremenda febbre. Sembrava istupidito, pietrificato.

—Lui, nelle tue mani! balbettò alfine. Lui prigioniero!… Oh!…

—Ma che hai? gli chiese Ahmed con stupore. Sono dieci minuti che ti osservo e che vedo i tuoi lineamenti scomporsi in istrana guisa.

—Aspetta gli disse Abù-el-Nemr con voce sorda, A quale razza appartiene quell'uomo?

—È arabo.

—Arabo!… E si chiama?

—Abd-el-Kerim!

Una bestemmia uscì dalle labbra dello sceicco.

—È lui!… esclamò.

—Lui!… ma lo conosci tu? Spiegati, Abù, che io non capisco assolutamente nulla.

—Odimi. Ahmed. Un giorno mi trovavo nelle foreste del Fiume Bianco, quando m'imbattei in un ufficiale egiziano ferito. Ebbi compassione di lui, lo posi sulle mie braccia, lo trasportai nel mio campo e lo medicai coll'amore di un fratello… Guarì, mi giurò che avrebbe abbracciato la nostra religione e io gli credetti.

—Ah! fe' Ahmed, con un sorriso ironico.

—Erano passati due mesi, quando una notte ebbi la brutta idea di invitarlo a cacciare il leone. Io camminavo innanzi e lui camminava dietro a me. Avevamo percorso parecchie miglia, quando quel miserabile scagliossi a tradimento su di me cacciandomi la sua scimitarra in una coscia.

—Caddi a terra. Lui mi calpestò, mi sferzò il volto con un corbach poi, non contento, mi sputò in fronte. Mi capisci, Ahmed, egli sputò in fronte ad uno sceicco del Kordofan, ad un sceicco che gli aveva salvata la vita anzichè tagliargli la gola.

—Ah! la è così! esclamò Ahmed.

—Sì, proprio così. Io lo cercai questo miserabile, e non fui capace di trovarlo in luogo alcuno. Ora che so che è nelle tue mani, gli farò pagar caro l'insulto e il tradimento.

—Temo che tu sii arrivato troppo tardi, Abù.

—Perchè?

—Abd-el-Kerim è nelle mani di un beduino e credo che sia di già morto.

—Di un beduino?… E chi è costui?

—Un uomo che nella battaglia di Kasghill si distinse assai. Mi narrarono che si battè come un leone facendo strage di egiziani, anzi, fu lui che aggiustò una palla di fucile al petto di Hicks pascià.

—E dove trovasi questo beduino?

L'ignoro. Pochi minuti fa era qui, ora chi sa dove è andato a cacciarsi.

—Sicchè non posso aver Abd-el-Kerim nelle mie mani. Darei mezzo del mio sangue per averlo.

—Se l'arabo è ancora vivo, ti prometto che lo avrai. Domani mattina manderò un drappello d'uomini a cercare il beduino.

—E se non volesse cedertelo?

—È l'inviato di Dio che lo vuole, e nessuno ardirà resistere ai miei ordini. Orsù, la notte cala, vieni nella mia capanna che abbiamo ancora da discorrere. Ceneremo assieme.

—Sono a tua disposizione fino a mezzanotte.

Ahmed e lo sceicco pochi momenti dopo scendevano la collina dirigendosi a lenti passi verso il tugul.

CAPITOLO VII.—Un morto che risuscita.

Non erano ancora n'entrati nella capanna che il beduino, che tutto aveva udito, slanciavasi fuori dai cespugli.

Era pallido, anzi livido; aveva le ciglia aggrottate, lo sguardo acceso, le labbra contratte e i denti bianchi e aguzzi come quelli di uno sciacallo, collericamente stretti. Sul suo volto leggevasi l'ira appena frenata.

Egli guardò più volte d'attorno con circospezione, con le mani chiuse nervosamente attorno ai calci delle pistole che uscivano dalla larga fascia rossa, poi si spinse fino sul pendìo della collina volgendo gli occhi verso il tugul di Ahmed.

Ira di Dio! esclamò egli con rabbia. Chi è questo cane che si intromette nelle mie faccende? Chi è questo Abù-el-Nèmr che ci tiene tanto per avere in mano sua Abd-el-Kerim? Io scommetterei che la storiella che ha narrato l'ha inventata di sana pianta. Quello stupido di Ahmed, quantunque si spacci per un profeta, se l'ha bevuta, ma io non la bevo, per Maometto!

«Ah! si vuoi portarmi via Abd-el-Kerim? La vedremo, signori miei, se voi sarete capaci di farla ad un uomo del mio stampo. Orsù bisogna prendere una seria decisione prima che l'uragano scoppi. Qui corro rischio di perdere non solo l'arabo, ma di cadere anche nelle unghie di Ahmed che parmi non mi voglia troppo bene. Andiamo prima al baobab e poi di trotto a El-Obeid.

Diede uno sguardo al cielo coperto da densi nuvoloni che i lampi illuminavano bizzarramente, un altro al campo che cominciava a diventare deserto, cangiò la carica alle pistole onde, al momento opportuno, non mancassero al colpo, e discese con infinite precauzioni la collina. Arrestossi alcuni minuti al basso, guardò a destra, a sinistra, dinanzi e di dietro per assicurarsi che nessuno lo spiava o lo seguiva, poi cacciossi in mezzo al tugul e alle tende procedendo rapidamente e silenziosamente.

Venti volte si fermò, credendo sempre di avere qualcuno alle calcagna, ed altre venti volte ritornò sui propri passi per assicurarsi che si era ingannato. Alle undici di notte varcava le trincee gettandosi in mezzo alle sabbiose pianure del sud.

Soffiava un vento impetuoso che alzava nembi di impalpabile sabbia e grosse goccie di pioggia cominciavano a cadere. Fra le nubi toneggiava fragorosamente e lampi abbaglianti rompevano di tratto in tratto le fitte tenebre.

—Tutto va a gonfie vele, mormorò il beduino, sorridendo diabolicamente. Con simile notte a nessuno salterà il ticchio di uscire dal campo per venire in cerca di me, nemmeno a quell'animale di Abù-el-Nèmr. Mille saette! Ma chi può essere questo scièk che ha tanta influenza su Ahmed? Uhm! Non so, ma ho il presentimento che lì sotto gatta ci covi! Per Maometto! Abd-el-Kerim me lo dirà e se si rifiuta…. avrà da fare con me!

Si tirò il taub sugli occhi e riprese il cammino salendo e discendendo le colline di sabbia, curvandosi di quando in quando per resistere ai soffi del vento che talvolta minacciavano di rovesciarlo, tanto erano formidabili. Per mezz'ora avanzò acciecato dai lampi, inzuppato dall'acqua che veniva giù a catinelle, assordato dagli scrosci delle folgori che cadevano a tre, a quattro alla volta, poi fece alto.

Dinanzi a lui, a un duecento passi, alzavasi un albero gigantesco che da solo formava un bosco. Il tronco aveva più di trenta metri di circonferenza, e a tre o quattro metri dal suolo spartivasi in molti rami, alcuni dei quali, più grossi dei più grossi alberi delle nostre foreste, ricadevano verso terra dopo di aver raggiunto un'altezza di dieci o dodici metri.

Il beduino, al di sotto di quell'ammasso immenso di rami e di foglie che il vento scuoteva furiosamente con mille gemiti e mille scricchiolii, scorse tre uomini, distesi per terra, uno dei quali alzossi gridando:

—Chi vive?

—Sta cheto, El-Mactud, rispose il beduino. Sono io.

In pochi salti raggiunse lo scièk che aveva di già armato il suo moschettone. Con un cenno della mano lo invitò a deporre l'arma.

—Che nuove? gli chiese.

—Nessuna, rispose lo scièk. Abd-el-Kerim dorme pacificamente.

—Lo sveglierò.

El-Mactud fece un gesto di stupore.

—Oh! esclamò.

—Bisogna che io gli parli.

—C'è qualche cosa in aria?

—Altro che! vogliono portarmi via l'arabo.

—Chi?…. Ahmed forse?

—No, s'affrettò a dire il beduino che non si fidava di quel guerriero ancora devoto al Profeta. È un sceicco che tu devi conoscere.

—E si chiama?

—Abù-el-Nèmr.

Lo sceicco digrignò i denti come una iena.

—Ah! maledetto nubiano! esclamò egli con rabbia. Vorrebbe forse immischiarsi nelle nostre faccende? Che non ci si provi nemmeno. Ho dei conti da saldare e potrei saldarli con un buon colpo di scimitarra.

Sulle labbra del beduino spuntò un sorriso diabolico; non potè frenare un moto di contentezza. Guardò attentamente lo scièk e nei suoi occhi lesse l'espressione di un terribile odio.

—Che ti ha fatto quell'uomo? chiese egli.

—Te lo dirò un'altra volta. Basta che tu sappi che io lo esecro.

—È potente Abù-el-Nemr?

—Molto potente, amico mio. Se egli ci scopre Abd-el-Kerim è perduto.

—Faremo il possibile perchè non ci scopra.

—Ma che cosa vuol fare di Abd-el-Kerim quel cane di Abù?

—L'ignoro, ma temo che lì sotto ci sia un mistero

—Che intendi di fare?

—Di battermela a El-Obeid.

—E porteremo con noi l'arabo?

—S'intende.

—Quando partiremo?

—Appena avrò veduto l'arabo e gli avrò parlato ci metteremo in cammino.

—Allora spicciamoci. Domani mattina Abu-el-Nèmr si metterà in caccia; bisogna trovarsi al sicuro in città prima che spunti l'alba.

—Vado subito. Intanto preparerai una barella e chiamerai qualche altro uomo perchè ci aiuti a trasportare l'arabo.

—Siamo d'accordo, concluse El-Mactud.

Il beduino s'avvicinò al colossale tronco del baobab ai piedi del quale, sulla corteccia, scorgevasi quattro profonde incisioni che venivano a formare un quadrato. Con un pugno sfondò quella corteccia incisa e dinanzi a lui apparve un'apertura che metteva in un antro scavato nell'interno dell'albero.

Stette alcuni istanti in ascolto, poi s'inoltrò sulla punta dei piedi e arrestossi in mezzo a quella bizzarra caverna. Era buio perfetto e faceva un freddo da intirizzire le membra. Un silenzio lugubre, misterioso, regnava là entro, rotto di quando in quando da un respiro affannoso e da un brulichio che doveva indubbiamente provenire da migliaia e migliaia d'insetti che s'aggiravano fra quelle diacciate tenebre.

—Dorme, mormorò il beduino. Lo sveglierò.

Battè l'acciarino, accese l'esca e diè fuoco ad una torcia resinosa impiantata nel suolo, la quale illuminò d'una luce azzurognola l'umida caverna che era poco alta e assai ristretta.

Là, proprio nel mezzo, sdraiato per terra, sonnecchiava Abd-el-Kerim.

L'infelice non era più riconoscibile; incuteva ribrezzo al solo guardarlo.

I suoi lineamenti sparivano, si confondevano sotto una gonfiezza livida. Le sue palpebre erano chiuse e intorno agli occhi si disegnavano due larghi cerchi rossastri che parevano due ammaccature. Una bava sanguigna era radunata agli angoli delle labbra, tumide, semi aperte, contratte per lo spasimo ed un abbondante sudore viscoso irrigavagli il volto contrafatto.

Tutto il suo corpo era avviluppato da pezzi di tela inumiditi, trattenuti da sottili striscie di cuoio e su di essi strisciavano battaglioni di vermiciattoli, di formiche, di insetti d'ogni specie che si cacciavan in mezzo alle fascie con un brulichìo che incuteva terrore e ribrezzo. Qua e là, sul petto, apparivano dei tumori grossi come un pugno, alcuni dei quali, screpolati, lasciavano vedere la viva carne. Il beduino, nel vedere in quale misero stato era ridotta la sua vittima, erasi arrestato. Una forte commozione si dipinse sui suoi lineamenti, ma durò un sol secondo.

Il sarcastico sorriso che mai abbandonava le sue labbra ricomparve e lo sguardo gli diventò assai più cupo. Ebbe persino il coraggio di far risuonare là entro, in quella tomba, uno scroscio di risa che l'eco sinistramente ripetè.

Non dimentichiamo che quest'uomo è mio rivale! mormorò egli con un accento dal quale trapelava un implacabile odio. Del resto non morirà. I vermi che serpeggiano sul suo corpo succhiandogli il sangue, un giorno, se ritroverò la mia povera sorella, glieli farò strappar tutti, dovessi misurarmi coll'inviato di Dio!…

Si passò tre o quattro volte una mano sulla fronte come per iscacciare un doloroso pensiero e sospirò. Qualche cosa di umido, che affrettossi a tergere, brillò nei suoi occhi.

—Povera sorella, bisbigliò.

S'avvicinò ad Abd-el-Kerim che dormiva profondamente, lo esaminò per qualche tempo con molta attenzione poi lo punse leggermente in fronte col suo jatagan.

Abd-el-Kerim a quella dolorosa sensazione trasalì e svegliossi. Con una mossa improvvisa, nervosa, che gli strappò un lugubre gemito, alzossi a sedere guardando, ma con uno sguardo da ebete, il beduino che gli stava presso.

—Chi sei? chiese egli, con voce appena distinta.

Il beduino invece di rispondere lasciò cadere all'indietro il cappuccio mettendo allo scoperto il suo volto dalla pelle bianca e coperto inferiormente da una barba nera e inspida.

Abd-el-Kerim non fece alcun moto che dinotasse sorpresa o terrore alla vista di quella faccia; senza dubbio non vedeva bene ancora.

—Chi sei? tornò a chiedere con voce più fioca

—Non mi riconosci adunque? disse lentamente il beduino, facendoglisi ancor più da vicino. Guardami bene in volto, Abd-el-Kerim!

Quella voce fece sul prigioniero un gran effetto. Sobbalzò come stato toccato da una palla e le sue unghie sollevarono l'umido terreno.

Qual voce!…. esclamò egli con profondo terrore. Qual voce!….

—La riconosci?

Abd-el-Kerim non rispose. Con uno sforzo disperato si sollevò sulle ginocchia e avvicinò il suo volto a quello del beduino. Un urlo lacerò il suo petto.

—Notis!….

Una commozione terribile lo scosse dalla testa ai piedi. Anelante, convulso, cieco di rabbia, allungò le mani verso il greco, ma le forze gli vennero meno e cadde pesantemente a terra, ripetendo con voce strozzata, indistinta:

—Notis!… Notis!…

Il greco, poichè era proprio lui truccato da beduino; che caduto nelle mani dello scièk El-Mactud, era passato sotto le bandiere del Mahdi, lo guardò per qualche minuto quasi con compassione.

—Sei sorpreso Abd-el-Kerim di rivedermi? chiese dipoi egli, con ironia. Infatti, è abbastanza strano che io sia ancor vivo dopo di essere stato, per la seconda volta, ferito a morte. Si vede proprio che qualche genio, Dio o il diavolo, veglia su di me. È un peccato, non è vero Abd-el-Kerim?

L'arabo con gli occhi sbarrati lo guardava fisso fisso non sapendo se era vittima di uno spaventevole incubo o se aveva realmente dinanzi a sè il fratello della terribile Elenka.

Ad un tratto le sue labbra s'agitarono come volessero articolare una parola. Il greco che lo osservava attentamente notò quel movimento, anzi indovinò la domanda che pendeva dalle labbra dell'infelice prigioniero poichè la sua faccia assunse un'espressione di diabolica gioia.

—Ti comprendo, disse. Tu vuoi interrogarmi in qual modo io sia qui e che avvenne della donna che ti portò disgrazia. Sta zitto che io te lo dirò.

Guardò intorno, e visto in un angolo un garah, sorta di vaso di terra cotta che fabbricano le donne del Kordofan, lo rovesciò e si sedette sopra incrociando le gambe alla moda dei turchi.

—Abd-el-Kerim, diss'egli, sforzandosi di parere tranquillo, È la seconda volta che noi ci troviamo l'uno di fronte all'altro io libero e tu prigioniero; è la seconda volta che io tengo in mia mano la tua vita ed è la seconda volta che ti risparmio. Sai il perchè?

—Non mi curo di saperlo, balbettò l'arabo ancora in preda ad una terribile commozione. Uomo o fantasma, vattene che mi fai ribrezzo, mi fai paura! Non sei adunque ancora contento di aver spezzata la felicità che io avevo raggiunto? Non sei adunque contento di avermi lacerato l'anima, di avere fatto di me l'uomo più sventurato della terra, di avermi fatto straziare le carni, di avere innestato nel mio sangue la morte!… Guarda, mostro, in quale orribile stato mi hai ridotto, guarda questi tumori sotto i quali nascondonsi orribili vermi che succhiano il mio sangue, che rodono lentamente le mie carni, che mi stremano, che mi ischeletriscono?… Ah! Notis! Notis! ti sei ben vendicato!

Un singhiozzo sollevò il deturpato petto dell'infelice. Tentennò a destra e a manca, stringendosi fortemente il capo fra le mani, poi, esausto di forze, ricadde a terra.

Notis s'alzò e si mise a passeggiare per l'umido antro colla testa china sul petto e le braccia incrociate. La sua fronte era assai aggrottata e il sorriso ironico che poco prima errava sulle sue labbra era scomparso. Forse quell'uomo di ferro era commosso.

—Notis, ripigliò Abd-el-Kerim, abbi pietà di me, abbi pietà di un infelice che è agli estremi, che sta per morire giacchè ho la morte nelle vene. Dimmi che è avvenuto di colei che noi abbiamo tanto amata, dell'infelice Fathma.

La fronte di Notis s'aggrottò maggiormente. S'arrestò di botto, le sue labbra si agitarono come volessero parlare, ma non disse verbo.

—Notis!… Notis!… gridò con accento straziante Abd-el-Kerim.

—Taci! ruggì il greco. Taci… Abd-el-Kerim!

Un secondo singhiozzo uscì dalle labbra dell'arabo. Una grossa lagrima, una di quelle lagrime amare che erompono da un cuore straziato, a quel modo che il sangue zampilla da una profonda ferita, si sospese alle sue ciglia e rotolò silenziosamente giù per le incavate gote.

Notis gli si avvicinò cogli occhi accesi, ma umidi; non era più lo stesso uomo di prima, nei cui lineamenti leggevasi solo odio o rabbia. Era commosso molto commosso; si vedeva che quell'anima inaccessibile, in quel momento, atrocemente soffriva.

Tu piangi adunque! esclamò egli con una voce che non aveva nulla di umano. E io, credi tu che non soffra, credi tu che non sanguini il mio cuore credi che non pianga?

Si arrestò di colpo. Parve sorpreso, spaventato di quella confessione che gli era uscita, forse senza volerlo, dalla bocca. La violenta emozione che alterava i suoi lineamenti scomparve come per incanto. La faccia ritornò fredda, dura e il sarcastico e crudele sorriso riapparve sulle sue labbra.

—Sono pazzo, mormorò.

Tornò a sedersi sul garah mandando tuttavia un profondo sospiro.

Abd-el-Kerim disse, con voce grave. Un giorno noi fummo amici, fummo come fratelli, poi fra noi sorse una donna fatale per entrambi, che scavò un abisso immensurabile… Non ti domando di chiudere questo abisso poichè so che sarebbe impossibile, ma ti prego di colmarlo per dieci soli minuti… e ti giuro che non ti pentirai di aver fatto ciò. Acconsenti tu? Te lo chiedo in nome dell'antica nostra amicizia.

L'arabo scosse la testa e non rispose.

—Ti parlerò di Fathma… della donna fatale!

—Ah!… Fathma!… Fathma!… che ne sai tu di lei?… È viva?.. È morta?… Notis, parla e ti abbandono la mia vita.

—Parlerò dopo che tu mi avrai risposto.

—Interrogami che ho colmato l'abisso

—Abd-el-Kerim, ti scongiuro, dimmi che è avvenuto della mia povera sorella, dimmelo.

—Elenka! balbettò cupamente. Tu vuoi che io parli di Elenka! No, mai!

—È il fratello di Elenka che ti prega

—Non parlerò

—Abd-el-Kerim!…

—Mi vendico, Notis!

Il greco scattò in piedi con le gote vermiglie, gli occhi infiammati, le labbra frementi. Le sue mani si aprirono e si chiusero convulsivamente come volessero stritolare qualche cosa.

—Sta bene, disse, con accento minaccioso. Ti pentirai!

Girò tre o quattro volte su sè stesso, si spinse fino all'uscita dell'antro, poi ritornò bruscamente indietro tenendo in una mano una piccola ampolla di vetro.

—Abd-el-Kerim, disse con voce alterata, potrei farti morire lentamente fra le più atroci torture, potrei farti uscire il sangue dalle vene goccia a goccia, eppure non lo faccio perchè ho ancora la speranza che noi un dì ritorneremo amici, anzi…

—Taci! esclamò l'arabo, che lesse il suo pensiero. Non sarà mai e poi mai.

—Tu la odi ancora adunque?

—Sì, e più oggi che due mesi fa.

—Non hai pietà adunque per la povera Elenka.

—Non nominarla; quel nome mi fa atrocemente male.

—Ah! maledetto!

Il greco era diventato violaceo per l'ira. Scagliossi come una pantera sull'arabo, l'afferrò per la gola, poi introducendogli fra le labbra la fiala gli versò in bocca tutto il contenuto. L'effetto di quel liquore fu istantaneo.

Abd-el-Kerim piombò giù come se il sangue gli fosse improvvisamente cessato di circolare. Il capo gli cadde all'indietro battendo in terra con sordo rumore. Un sospiro che rassomigliava a un rantolo di chi agonizza gli uscì dalle labbra e rimase immobile, irrigidito come un morto.

Notis lo contemplò per alcuni istanti con uno sguardo nel quale leggevasi un terribile odio, poi si chinò su di lui, lo afferrò fra le braccia e gettandoselo in ispalla uscì dall'antro.

El-Mactud lo aspettava con quattro baggàra e con una barella improvvisata con rami e resa soffice da un alto strato di foglie di baobab.

Ebbene? chiese lo scièk, prendendo l'arabo e deponendolo, con precauzione, nella barella. Ha bevuto il narcotico?

—Gliel'ho fatto bere tutto, rispose Notis.

—Hai saputo nulla?

—Assolutamente nulla, ma lo farò parlare. Andiamo ora a Obeid, che la mezzanotte è passata.

Ad un cenno dello scièk due baggàra alzarono la barella e la comitiva si mise in viaggio dirigendosi verso la città che disegnavasi confusamente sul fosco orizzonte.

Aveva già percorso più che mezza via, quando le orecchie dello scièk furono ferite dallo scalpitìo precipitato di un cavallo.

—Oh! esclamò egli, tirando, per ogni precauzione la scimitarra.

Si volse indietro ed al chiaror di un lampo scorse un cavaliere avvolto in un gran mantello bianco, curvo sul collo del suo corsiero, che andava avvicinandosi rapidamente.

—Notis! mormorò egli, coi denti stretti. Guarda!

—Chi è quell'uomo? chiese il greco, aggrottando le ciglia.

—Non lo conosci? È lo scièk Abù-el-Nèmr.

—Ira di Dio!… Dove va?

—A El-Obeid, non lo vedi?

Notis fece un salto innanzi e diresse la canna del moschetto verso il cavaliere che gli passava dinanzi a duecento passi di distanza.

—No, disse di poi, quell'uomo può esserci utile. El-Mactud, conduci Abd-el-Kerim nella capanna che tu bene conosci; io seguo lo scièk con Medinek.

—Sta bene, forse hai ragione di seguirlo. Parti se non vuoi perderlo di vista.

Il greco non se lo fece dire due volte e slanciossi dietro al cavaliere seguito dal negro Medinek. Dopo dieci minuti di corsa, Abù-el-Nèmr e quelli che lo seguivano giungevano dinanzi a El-Obeid, sulla cui porta faceva orribile mostra la testa diseccata del barone di Cettendorfs.

CAPITOLO VIII.—Notis in trappola.

El-Obeid, quartiere generale del Mahdi, è la città più bella, più popolosa e più fortificata del Kordofan, di cui è pure la capitale.

Essa sorge nel mezzo di una immensa pianura ondulata, ed è difesa da bastioni di terra e di mattoni cotti al sole, ma in gran parte ruinati in seguito ai ripetuti assalti che dovettero sostenere nell'ultimo assedio.

È divisa in cinque differenti quartieri abitati da una popolazione che supera le 35,000 anime; uno è abitato dai dongolesi, l'altro dai mercanti esteri, il terzo dai coloni di Barnou, il quarto dei nativi di Darfur e così via.

Il principale quartiere chiamato El-Orfa, contiene gli edifizi governativi, delle piccole moschee, una casa ad un piano abitata prima dal governatore egiziano, una caserma, un magazzino di polvere ed una filiale dello missioni cattoliche di Chartum, tutta ruinata dai guerrieri del Mahdi che la saccheggiarono dopo la presa della città.

Tutte le altre case sono misere capanne circolari di venti piedi di diametro, con mura in argilla alte quattro o cinque piedi e sormontate da un tetto conico di paglia disposto in istrati regolari e impenetrabili alla pioggia. Ogni famiglia ne possiede di queste capanne, chiamate tokles, quel numero che è sufficiente ai suoi bisogni ed il gruppo è quasi sempre circondato da una siepe di spine e ombreggiato da palmizi che danno alla città un pittoresco aspetto.

Il Mahdi se ne era impossessato il 15 gennaio 1883 e ne aveva fatto il suo quartier generale, fortificandola alla meglio che aveva potuto e facendola occupare da una parte delle sue orde che bivaccavano nelle vie e nelle piazze sotto tugul improvvisati e sotto tende.[1].

[1] Il Mahdi l'aveva presa con la fame dopo quattro mesi e mezzo di eroica resistenza, e scacciati gli abitanti dopo averli denudati, l'aveva fatta occupare delle sue orde.

Quando Abù-el-Nèmr e quelli che lo seguivano scambiate alcune parole coi guerrieri che vegliavano dinanzi alla porta, entrarono, la città era ancora addormentata.

Nè per le vie, nè per le piazze scorgevasi anima viva; nè da alcuna capanna trapelava un raggio di luce che desse indizio che entro si vegliava.

Persino i guerrieri del Mahdi che accampavano all'aperto, russavano sotto i tugul di paglia o sotto le tende curvate per la pioggia che cadeva a torrenti allagando le polverose strade.

Il silenzio funebre che regnava nella città, era rotto di quando in quando da un colpo di tuono secco secco che faceva tremare i tugul e dal lugubre scricchiolar delle palme violentemente scosse dal vento del sud-est.

Abù-el-Nèmr, dopo di aver esitato alcuni istanti, prese la via che menava al quartiere di El-Orfa, spingendo il cavallo al piccolo trotto. Notis e il suo compagno, tirato il fiato, gli si misero bravamente dietro, determinati a sapere dove andasse a finire e sicuri di scoprire qualche cosa di nuovo che li riguardava.

Venti minuti dopo lo scièk si arrestava dinanzi a una capanna piuttosto malandata, situata all'estremità del quartiere e circondata da un orticello nel quale crescevano superbi tamarindi. Dalle fessure delle pareti trapelavano dei raggi di luce.

—Oh! fe' Notis, arrestandosi di botto e aprendo bene bene gli occhi. Il birbante ha delle persone che lo aspettano. Ira di Dio! Qui sotto gatta ci cova.

Abù-el-Nèmr spostò un lembo di siepe che racchiudeva l'orticello, condusse il cavallo sotto una piccola tettoia poi battè tre volte le mani.

La porta della capanna si aprì lasciando vedere un gran fascio di luce, poi si rinchiuse dietro lo scièk.

—Medinek, disse Notis, volgendosi al compagno. Chi abita in quel tugurio?

—Non lo so, rispose il guerriero. Una volta quella capanna era deserta.

—Bisogna sapere a qualsiasi costo chi la abita.

—Uhm! Non è cosa tanto facile. Non trovo altro mezzo che quello di salire sul tetto e di appoggiare gli occhi alle canne.

—Andiamo sul tetto, Medinek.

—Noi corriamo il rischio di venire scoperti.

—Hai il tuo jatagan?—

—Sì.

—Hai paura?

—Non lo credo.

—Allora andiamo concluse il greco.

In pochi minuti raggiunsero l'orticello e vi entrarono. Medinek appoggiò un orecchio alla parete per udire se giungeva fino a lui qualche parola, ma non udì che un mormorio indistinto.

—Saliamo, mormorò egli.

—Sta saldo, rispose il greco.

S'arrampicò sulle spalle del guerriero, si aggrappò ai travicelli che formavano l'ossatura del tetto e con un salto giunse in cima.

Stendere le mani al compagno e tirarlo su, fu l'affare di un istante.

—Là, così, borbottò il greco soddisfatto. Ora apriremo un pertugio che ci permetterà di vedere senza essere veduti. Ci bagneremo fino alle ossa, ma ciò che udremo compenserà largamente il bagno.

Trasse l'jatagan, lo cacciò senza far rumore tra le canne inzuppate d'acqua, e lentamente, con infinite precauzioni, praticò un forellino appena capace di lasciar passare due dita. Ciò fatto si distese sul ventre, accostò l'orecchio al pertugio e guardò attentamente, nell'interno della capanna, senza occuparsi della pioggia che lo innondava.

Due uomini erano seduti presso un braciere che spandeva all'intorno una vivissima luce. In uno di essi, Notis conobbe lo scièk Abù-el-Nèmr, ma l'altro non fu capace di vederlo in volto pel motivo che volgevagli le spalle, ma si accorse che era un negro.

—Non monta, bisbigliò il birbante. Lo saprò più tardi chi esso sia.
Zitto ora, e non perdiamo una parola.

La conversazione fra lo scièk e il padrone della capanna era di già cominciata.

—Come ti dissi, diceva Abù-el-Nèmr, mi sono presentato questa sera istessa a Mohammed Ahmed. Egli mi ha accolto con molta gioia e mi ha subito parlato dell'uomo che noi cerchiamo.

—Oh! esclamò il suo compagno, facendo un balzo sull'angareb. È proprio vero quello che tu dici?

—Te lo giuro. Egli mi parlò di Abd-el-Kerim.

—E dunque?

—Mi narrò che lo aveva dato in mano ad un uomo che aveva molto insistito per averlo.

—In mano ad un uomo?

-Sì.

—Era un bianco quell'uomo? chiese il negro con viva emozione.

—No, un beduino.

—Respiro, Abù-el-Nèmr. Avevo paura che fosse.

—Chi mai? Forse il rivale di Abd-el-Kerim?

—Appunto credevo che fosse il greco Notis. Ma quale interesse poteva avere quel beduino per averlo in sua mano? Qui sotto ci deve essere qualche raggiro, qualche mistero che bisogna svelare.

—È quello che penso pur io, tanto più che quel beduino scomparve dal campo, nè fu possibile scoprirlo.

—Che sia il greco dipinto? Non so ma il cuore mi batte forte forte e mi sento assalire da forti sospetti.

Notis, che non avea perduto sillaba di quel colloquio, involontariamente rabbrividì.

—Ira di Dio! borbottò. Che mi abbiano scoperto? Chi può essere mai quel negro d'inferno che indovina le cose tanto bene? Ragazzo mio, se posso averti sotto le unghie non ti risparmierò. Udiamo la fine.

—Ad ogni modo, ripigliò il negro, staremo in guardia. Non credo che quel birbante sia ancora vivo nè abbia avuto tanto fegato da spingersi fino a El-Obeid. E che ti disse Ahmed?

—Egli mi promise di cercare attivamente quel beduino. Per ogni precauzione, sarà bene che avvisiamo Fathma di stare in guardia.

—Non mancherò di farla avvisare.

—L'hai condotta dove ti dissi?

—Sì, rispose il negro. All'estremità della zeribak dei prigionieri le ho costruito una bella capanna.

Notis si rizzò sulle ginocchia così in furia che il tetto gemette. Fu con grande fatica che rattenne il grido di sorpresa e di gioa che stava per isfuggirgli dalle labbra.

—Nella zeribak dei prigionieri! esclamò, tremando per l'emozione.
Fathma fra i prigionieri!… Per Dio!…

—Che hai? chiese Medinek.

—Scappiamo!

—Siamo stati scoperti?

—No, ho saputo ove si trova la donna che cerco.

—Ah!… E dov'è?

—Nella zeribak dei prigionieri.

—I furbi!

—Andiamocene Medinek. Non bisogna perder tempo.

Il guerriero si alzò in furia. Quella brusca mossa tornò a far gemere il tetto.

—Ira di Dio! brontolò il greco. Fa piano, animale.

—Chi va là? chiese in quell'istante Abù-el-Nemr.

Notis, quantunque fosse coraggioso, provò un brivido e rimase immobile. Medinek invece saltò giù dal tetto cadendo sopra una tavola di legno che si spezzò con fracasso.

La porta della capanna si aprì e lo scièk e il suo compagno comparvero con dei tizzoni accesi.

—Alto là! gridò lo scièk, vedendo il guerriero che scalava rapidamente il recinto dell'orticello.

Medinek invece di arrestarsi precipitossi nella via allontanandosi a tutte gambe.

—Ah! razza di un cane! gridò lo scièk, sparandogli dietro un colpo di pistola.

—Che abbia udito i nostri discorsi? chiese il suo compagno. Se lo inseguissimo?

—A quest'ora deve essere assai lontano poichè correva come un cervo. Chi può essere e quale scopo lo spinse a salire sul tetto della capanna? amico mio, non vedo chiaro in questa faccenda.

—E neppur io se vuoi che te lo dica francamente. Era almeno solo?

—Non ne ho visto che uno, ma faremo bene a dare un'occhiata sul tetto. Chissà, potrebbe darsi che lassù, si tenesse celato qualche altro curioso. Fammi la scala che io salga.

—Prendi l'altra pistola e armala. Non si sa mai quello che può accadere.

—Hai ragione, amico mio. Orsù, sta fermo che salgo sulle tue spalle.

In quella sul tetto s'udì una voce che bestemmiava. Lo scièk e il suo compagno si guardarono in faccia tirando nel medesimo tempo le scimitarre.

—Oh! oh! esclamò Abù-el-Nèmr. Lassù c'è qualcuno. Aspetta un po' canaglia che ti acconcierò io come si deve.

—Afferralo pei piedi e gettalo giù. Bisogna che cada a qualunque costo nelle nostre mani per vedere con che razza di gente abbiamo da fare, disse il suo compagno, appoggiandosi alla parete della capanna, Per Allàh! Anche questa è bella!

Uno, due….

Abù-el-Nèmr saltò sulle spalle del negro a si aggrappò alla sporgenza del tetto non ostante i torrenti d'acqua che gli cadevano addosso. Prima cosa che vide fu una pistola che lo toglieva di mira a un passo di distanza. Afferrò lestamente la mano che la stringeva e l'attirò violentemente a sè. Un corpo umano scivolò giù dal tetto e cadde pesantemente a terra rimanendo immobile.

Il negro si precipitò sul greco e lo trascinò in fretta nella capanna lasciandolo cadere presso il fuoco.

—L'abbiamo ucciso? chiese lo scièk. Mi dispiacerebbe.

—Perdio! esclamò il negro che si era curvato su quel corpo inanimato.
Che vedo?… Sogno forse?… È impossibile!

—Che hai? disse Abù. Conosci, forse, questo mariuolo?

Il negro non rispose. Curvo innanzi, colle pugna strette, gli occhi sbarrati, contemplava il greco. Pareva sorpreso e spaventato.

—Di' su, lo conosci? ripetè lo scièk.

—Ma sicuro, balbettò il negro. Non mi inganno no, è lui, proprio lui, il birbante, il rapitore, l'assassino… eh! mio caro non mi fuggirai più, te lo dico io. Perdio! Quale incontro! Non me lo aspettavo così presto!

—Lui! Ma chi lui?

—Il nostro mortale nemico, il rivale di Abd-el-Kerim, il greco Notis infine.

—Eh! Sei sicuro di non prendere un granchio? Guardalo bene, amico mio, fissalo ancora.

—Lo guardo, lo fisso, e più che lo guardo più mi assicuro che è lui. Abù, bisogna farlo rinvenire e farlo parlare. Abd-el-Kerim non può essere che in sua mano.

—Ma… e parlerà?

—Vedrai che canterà e molto alto.

Abù-el-Nèmr staccò dal suo turbante una penna d'airone l'abbrustolò al fuoco poi la mise sotto il naso allo svenuto. Un trasalimento nervoso scosse il corpo del greco; distese le braccia, aprì le mani convulsivamente chiuse, emise un sospirone e sbarrò gli occhi arrestandoli sul volto del negro. Un «oh!» di sorpresa e di terrore gli uscì tosto dalle labbra.

Si stropicciò gli occhi più volte, poi gli riaprì tornando a fissare il negro che era sempre curvo su di lui. Divenne pallido come uno spettro e portò le mani alla cintura come se cercasse qualche arma.

—Omar! Omar! esclamò egli a più riprese.

Lo schiavo di Abd-el-Kerim, poichè era proprio lui, proruppe in uno scroscio di risa.

—Si vede, padron Notis, che avete buon occhio, diss'egli. Vi sorprende di trovarmi ancor vivo? Anch'io sono sorpreso di trovarvi qui. Eppure, sul Bar-el-Abiad Fathma vi aveva mandata una palla nelle reni… Perdio! Si vede che avete l'anima incavigliata, padron mio!

Il greco si morse le labbra, e cercò, con un moto repentino, di levarsi in piedi, forse per gettarsi sui due uomini, ma la fredda canna di una pistola che lo scièk gli appoggiò alla fronte lo fece ricadere per terra.

—Sono perduto, pensò il greco.

—Padron mio, ripigliò Omar, col medesimo tono beffardo. Non tentate di fare resistenza se non volete che il mio amico Abù vi scarichi la sua pistola in faccia. State cheto e rispondete alle nostre domande.

—Se speri che io parli, t'inganni di molto, Omar, rispose Notis col tono calmo d'un uomo che nulla teme.

—In tal caso ricorreremo agli estremi espedienti. Che direste se il mio buon amico Abù vi pigliasse i piedi e ve li arrostisse sui carboni accesi.

—Miserabile!

—Potete fare a meno di dispensare dei titoli che non ci fanno nè caldo nè freddo. Orsù, padron Notis, carte in tavola: che avete fatto di Abd-el-Kerim?

—Ah! tu vuoi sapere che feci del tuo padrone? Ebbene ti dirò che egli è morto. Le sue ossa spolpate dai denti delle jene e degli sciacalli, giacciono sulle ardenti sabbie di Kasseg.

—Tu menti! urlò Omar.

—Se non vuoi credermi fa di meno.

—Notis, disse Abù-el-Nèmr. Giochi una partita pericolosissima. Ieri sera parlai con Ahmed, ed egli mi disse che Abd-el-Kerim era in mano tua ed ancor vivo. Come vedi, sappiamo qualche cosa.

Il greco strinse i denti.

—Maledetto Ahmed! esclamò egli.

—Non insultare l'inviato di Dio, se ti è cara la vita. Parla: dove hai nascosto Abd-el-Kerim?

—Non lo saprete nè oggi, nè domani, nè mai!

—Sta bene, disse lo scièk.

Afferrò il prigioniero per le braccia, e lo trascinò accanto al fuoco non ostante la sua disperata resistenza. Omar gli prese i piedi e li accostò alla fiamma.

Notis cacciò fuori un urlo di dolore. La pelle delle piante, al contatto dei carboni accesi s'annerì e si screpolò mostrando la viva carne.

—Basta!….. basta!….. ruggì il greco pazzo di dolore.

—Parlerai? gli chiese le scièk.

—Sì….. basta ira di Dio! Mille tuoni! Volete bruciarmi vivo?

—Vi brucieremo se non sciogliete la lingua, disse Omar, tirandolo indietro.

Il greco, col volto contraffatto per lo spasimo, rotolò al suolo bestemmiando, gemendo e contorcendosi come un serpente.

—Parlate, padron Notis, riprese lo schiavo.

—No, cane maledetto, rettile schifoso. No, e poi no!

—Come vi piace. Abù, rimettiamolo sul fuoco. Gli consumeremo i piedi fino all'osso.

A quell'atroce minaccia, il greco si sentì mancarsi le forze per resistere oltre. Con un gesto della mano arrestò i due tormentatori che si disponevano ad accostarlo al braciere.

—Parlerò… parlerò, balbettò egli. Ma… ad una condizione… Ira di Dio! Mi avete rovinati i piedi! Sentite, ho una sorella… la mia povera Elenka… voi sapete ciò che è avvenuto di lei… non potete negarlo… Ah! cani di negri!

—Avanti, disse Omar.

—Se voi mi direte dove trovasi… Elenka, vi giuro che parlerò… che vi darò in mano… quel maledetto Abd-el-Kerim.

—Ve lo dirò.

—Giuralo.

—Lo giuro sulla barba di mio padre, lo giuro su Allàh, lo giuro sull'Alcorano.

—Parlate, ma non cercate d'ingannarci. Rimarrete qui prigioniero, e se ci avrete ingannati ve ne pentirete.

Il greco per alcuni istanti rimase muto e pensieroso. Perdere Abd-el-Kerim che tanta fatica gli era costato, che tanti pericoli aveva sfidato per averlo in sua mano, e perderlo proprio nel momento in cui credeva di avere in mano anche Fathma, era per lui un terribilissimo colpo. Si vedeva completamente rovinato, vedeva sfasciarsi il progetto, con tanta arditezza e con tanta pazienza condotto quasi a termine. Nondimeno, vedendo che non vi era più scampo di sorta, che non era più possibile giuocare d'astuzia, e smanioso di sapere qualche cosa sulla sorte di sua sorella Elenka, che infine tanto e tanto amava, prese l'eroica risoluzione—se così può dirsi—di confessare ogni cosa, riservandosi a tempi più propizi di riparare al mal fatto e di vendicarsi.

—Uditemi, diss'egli, facendo uno sforzo supremo, Abd-el-Kerim, da parecchi giorni si trova in mia mano. Lo tradii e Ahmed pagò il tradimento cedendomelo. Ieri sera, sospettando qualche cosa d'insolito, lasciai il campo e lo feci trasportare in una capanna che trovasi all'estremità meridionale del Mercato. Quattro uomini lo guardano e non ve lo cederanno che dopo essersi fatti uccidere…. e ora parlatemi di Elenka che più nulla ho da dirvi su Abd-El-Kerim.

—Posso prestar fede alle vostre parole, disse Omar, che fremeva di gioia e d'impazienza.

—A che pro ingannarvi? Non sono in vostra mano?

—Avete ragione. Voi volete sapere che accadde a Elenka, adunque. Mi dispiace sinceramente, ma devo darvi una brutta notizia.

Il greco si levò sulle ginocchia; una viva ansietà era dipinta sul suo volto. Egli guardò Omar con occhi supplichevoli e portò le mani al cuore che battevagli forte forte. Un terribile dubbio gli balenò in mente.

—Oh! Dio… balbettò.

—Devo parlare?

—Sì… lo voglio.

Omar esitò. Pareva che fosse commosso, e chissà, forse lo era veramente.

—Ma parla, ma parla, ripetè con impeto quasi feroce Notis.

—Ebbene, Elenka è morta. Fu uccisa dai ribelli a Kassegh!

Il greco divenne spaventosamente pallido; un urlo gli lacerò il petto.

—Morta! Morta!… ripetè egli con voce rotta, e quell'uomo dall'animo così fiero, così forte, nascose il volto fra le mani e pianse come un fanciullo.

CAPITOLO IX.—La zeribak dei prigionieri.

Mentre il greco, messo colle spalle al muro e torturato, confessava tutto ciò che i suoi nemici volevano sapere, Medinek, sfuggito miracolosamente alla pistolettata dello scièk Abù-el-Nèmr, trottava come un cavallo per le oscure e fangose vie della città, cercando la capanna dello scièk El-Mactud.

La paura di venir inseguito, preso e forse fucilato, e la paura di giungere troppo tardi dal suo capo gli mettevano le ali ai piedi. Ogni qual tratto però si arrestava colla dritta sull'impugnatura dell'jatagan, e rattenendo il respiro tendeva ansiosamente l'orecchio, parendogli sempre di udire fra gli urli della burrasca che scatenavasi ognor più violentemente, la voce dello scièk Abù-el-Nèmr e i passi di lui, indi ripigliava la sfrenata corsa, tuffandosi fino alle ginocchia nelle pozze d'acqua e sollevando sprazzi fangosi.

Per sua disgrazia faceva tanto oscuro che non gli riusciva di mantenersi sulla retta via. Ora infilava una stradicciuola che non aveva sbocco, ora andava a dare il naso contro una zeribak o contro il recinto d'un giardino e ora batteva vie che non aveva mai percorse.

Non fu che dopo una buona ora di continua corsa che giunse nella gran piazza del Mercato, tutta cinta di capanne e di capannuccie e di piccoli recinti destinati a ricevere i cammelli delle carovane.

Al livido chiaror di un lampo scorse il tugul che cercava, dalle cui fessure trapelavano dei raggi di luce. In pochi salti lo raggiunse, applicando, alla porta semi-sgangherata, un formidabile pugno.

—Chi va là? chiese una voce, appena distinta fra i ruggiti della tempesta.

—Aprite! urlò. Sono Medinek.

La porta si spalancò e apparve sulla soglia lo scièk El-Mactud con una scimitarra in pugno. Scorgendo Medinek egli indietreggiò mandando un grido di sorpresa e di terrore. Aveva indovinato subito che qualche cosa di grave era accaduto.

—Che hai?… perchè sei qui solo? Che è accaduto? chiese egli tutto d'un fiato, trascinandolo accanto al fuoco che ardeva in un angolo del tugul.

—Una disgrazia, El-Mactud. Notis è caduto nelle mani di Abù-el-Nèmr!

Lo scièk tirò un tremendo pugno contro la parete della capanna.

—Tu vuoi burlarti di me! esclamò egli con collera. È impossibile, non lo posso credere. Come! lui, un uomo come lui, forte e coraggioso come un leone, astuto come un serpente, cadere prigioniero! Tu sei pazzo! Tu vuoi spaventarmi.

—Ti giuro sull'Alcorano, scièk, che ho detto la verità.

La collera di El-Mactud cangiossi in profonda costernazione. Il suo volto divenne cenerognolo e la sua fronte si corrugò.

—Tu giuri, mormorò egli con voce tremante. Ma come si lasciò prendere? Di' su, narra, che sono sui carboni ardenti. B'Allai! Sono tutto scombussolato!

Medinek non si fece pregare. Egli gli raccontò per filo e per segno ogni cosa. La conversazione tenuta fra Abù-el-Nèmr ed il suo compagno, il luogo ove essi avevano nascosta la donna tanto cercata da Notis e infine la presa di quest'ultimo.

—Ma allora è perduto! esclamò lo scièk quando ebbe tutto udito.

—Lo credo anch'io.

—Che hanno fatto del mio povero amico?

—L'ignoro. Ho avuto paura e sono fuggito

—La faccenda è seria, e grave.

—Lo so bene. Che facciamo? Fra pochi minuti lo scièk sarà qui, ne sono sicuro. Egli avrà tormentato il greco per fargli confessare dove ha nascosto Abd-el-Kerim.

—Certamente.

—Se si resistesse colle armi?

—Sarebbe una pazzia. Basta che Abù alzi la voce perchè tutta la guarnigione di El-Obeid accorra a prestargli man forte. Una sua parola sarà sufficiente perchè io lasci la testa in mano al carnefice.

—E dunque? Bisogna prendere una seria decisione.

El-Mactud non rispose. Immobile, curvo, colla fronte stretta fra le mani, pareva annichilito dallo sforzo eccessivo del pensiero. Ad un tratto si raddrizzò. Nei suoi sguardi lampeggiava allora l'imperturbabile audacia di un generale che si risolve ad un cambiamento di fronte sotto la grandine del fuoco nemico.

—Partiamo, diss'egli risolutamente.

—Dove si va?

—Intanto andremo al baobab a nascondervi Abd-el-Kerim, dopo ci recheremo alla zeribak a rapire la donna. Al greco penseremo più tardi, poichè ora è assolutamente impossibile il salvarlo. Andiamo!

Essi passarono nella stanza attigua. Colà, disteso su di un angareb, stava Abd-el-Kerim, ancora in preda al potente narcotico fattogli bere da Notis. Quattro guerrieri armati fino ai denti vegliavano presso di lui.

Ad un cenno di El-Mactud essi alzarono l'angareb con suvvi l'arabo ed uscirono silenziosamente dalla capanna. Medinek si mise dinanzi colla scimitarra sguainata e lo sceicco di dietro col remington sotto il braccio.

All'oriente cominciava ad apparire, fra le tempestose nubi, un po' di chiaro.

La pioggia andava a poco a poco decrescendo, ma il vento continuava a soffiare con estrema violenza, ingolfandosi con mille gemiti attraverso le fessure dei tugul e contorcendo i rami degli alberi e le grandi foglie delle palme e dei banani. Le vie erano ancora deserte, ma non dovevano tardare a popolarsi. Già alle strette finestre delle capanne cominciava apparire qualche volto color dell'ebano, interrogando, con occhi ancora assonnati, lo stato del cielo.

La comitiva aveva già attraversata la piazza e stava per cacciarsi in una oscura e puzzolente viuzza, quando agli orecchi dello sceicco pervenne un lontano rumore che lo fece trasalire.

Era un brusìo di voci, un calpestìo precipitato, al quale univasi talvolta un tintinnar di scimitarre che battevano la via.

—Alto! comandò egli imbracciando il remington.

—Che succede? chiese ansiosamente Medinek.

—Siamo inseguiti.

Un istante dopo sbucava nella piazza un drappello di guerrieri armati di moschettoni e di lancie. Alla sua testa trottava lo sceicco Abù-el-Nèmr colla scimitarra nella dritta e una pistola nella sinistra.

Tre colpi di fuoco echeggiarono. Un guerriero di El-Mactud gettò un acutissimo grido e precipitò a terra colla testa attraversata da una palla. L'angareb cadde rovesciando Abd-el-Kerim in mezzo al fango della viuzza.

—Fuggite! fuggite! gridò El-Mactud, dandone lo esempio.

Altre tre fucilate rintronarono seguite da un secondo urlo di dolore. Un altro guerriero cadde fulminato. Gli altri, vista la mala parata, si slanciarono dietro El-Mactud che trottava furiosamente.

Abù-el-Nèmr e i suoi guerrieri non si diedero la cura d'inseguirli, e si fermarono presso Abd-el-Kerim; i fuggiaschi invece proseguirono la vertiginosa loro fuga, battendo l'una dietro l'altra sei o sette strade. Non si arrestarono che sotto le mura della città.

El-Mactud, fuori di sè, aveva la spuma alle labbra. Egli sfogava la sua ira con torrenti d'ingiurie all'indirizzo di Abù-el-Nèmr e con una interminabile sfilza di bestemmie, senza pensare che se il Mahdi avesse udito o saputo, non avrebbe esitato un sol momento a fargli saltare la testa con un colpo di scimitarra.

Calmatosi un momento, si diede seriamente a pensare sul da farsi. Egli si trovava in un grande imbarazzo. Perduto Abd-el-Kerim, preso Notis, non rimaneva che battersela al campo e lasciare che le acque corressero pel loro verso. La smania però di vendicarsi dello scacco subìto, gli suggerì una eccellente idea.

—Vi è la donna, pensò egli. Questa donna deve interessare vivamente Abù-el-Nèmr e Abd-el-Kerim. Colpiamoli ambedue in mezzo al cuore facendola sparire. Saprò ben io dopo trovare i mezzi per salvare Notis e riavere l'arabo.

Questo ardito piano calmò la sua ira. Si sdraiò sotto ad un tamarindo, si coprì la faccia col mantello, e attese pazientemente che arrivasse l'ora di operare. I suoi compagni credettero bene di accocolarsi ai suoi fianchi.

Il sole alzavasi allora sull'orizzonte, illuminando vivamente i minareti, sui quali strillavano i muezzin o medin, invitando i fedeli all'es-sobh o preghiera del mattino.

Le piazze, le vie, le viuzze rapidamente si popolavano. Per di qua e per di là sfilavan drappelli di negri appartenenti a tutte le tribù dell'Africa centrale, chi nudi e chi vestiti con svolazzanti mantelli dalle vivaci tinte; turbe di guerrieri colle darabùke in testa che rullavano furiosamente, turbe di cammellieri che si tiravano dietro i lenti animali, raccogliendo la bava che usciva dalle bocche di essi e fregandosi la barba esclamando: «hadgi baba! hadgi baba!»[1]; ondate di allegre ragazze cariche di giarre piene di merissak, o di canestri impilati sulle loro teste mantenuti in equilibrio con quello strano talento di equilibrista che posseggono le donne africane; attruppamenti di beduini, di mercanti, di ricchi contadini montati su asinelli o su buoi e accompagnati da piccoli negri affatto nudi, che servono a loro di paggi, facendosi largo fra la folla a colpi di bastone somministrati senza riguardi di sorta.

[1] O padre pellegrino! O padre pellegrino!

Dalle porte della città entravano carovane di cammelli carichi di durah, di gomma, di datteri, di avorio, che si recavano nella piazza del mercato dove i venditori avevano di già rizzato le loro baracche, dove le almee davano i loro spettacoli, dove gli incantatori di serpenti e gl'indovini chiamavano i curiosi suonando certi pifferi dal suono acuto e di una forma tutta affatto speciale. E dietro a loro si affollavano cacciatori di elefanti, feroce gente ai servigi di questo o di quel mercante, che approfittano delle loro scorrerie per rubare fanciulli e donne, per saccheggiare, per abbruciare, scannando chi a loro si oppone; poi giallàba conducenti lunghe file di asini carichi di viveri, e infine bande di schiavi, ignudi, affamati, insanguinati, solidamente legati, spinti innanzi dai loro guardiani a colpi di staffile, a pugni, a calci e che venivano accumulati in orribili tuguri, veri immondezzai, veri focolari di epidemie.

El-Mactud attese che il sole fosse ben alto, le vie affollate, poi si mise in cammino coi suoi tre compagni. Percorse quattro o cinque viuzze, ingombre di cammelli, di asini e di mercanti, e sbucò sulla piazza del Mercato, in un angolo della quale rizzavasi una grande baracca coperta di stuoie, guardata da una diecina di baggàra armati di lance e difesi da scudi di pelle di rinoceronte.

Lì presso era aggruppata moltissima gente ad assistere al supplizio della sferza applicato ad un greco perchè sorpreso a fumare una spagnoletta. In un canto vi era un gruppo di pellegrini venuti chissà mai da qual paese dell'Africa centrale; alcuni pregavano con tale raccoglimento che nulla valeva a distrarli, colla faccia volta alla Mecca, senza fare il minimo gesto onde non correre il rischio che entrasse nel loro corpo il diavolo[1]; altri invece si purificavano ad una fonte lavandosi le mani, le braccia fino al gomito, il viso, gli orecchi, i piedi, risciaquandosi la bocca e assorbendo l'acqua per le nari.

[1] Tale è la credenza dei Maomettani.

El-Mactud s'aggirò per qualche po' intorno alla zeribak spingendo lo sguardo al disopra delle stuoie che formavano il recinto, poi, date alcune istruzioni a Medinek, presentossi al capo della guardia baggàra.

Bastò che pronunciasse il proprio nome perchè gli venisse fatto largo. Si calò il taub in modo da nascondere gran parte della faccia e, dopo aver un po' esitato, entrò.

Là, dispersi pel recinto, sotto un sole torrido che li arrostiva c'erano quaranta o cinquanta egiziani seminudi, spaventosamente sparuti, coperti di ferite non ancora cicatrizzate e di larghe macchie di sangue. Quei poveri soldati erano i prigionieri di Kasghill, appartenenti all'esercito di Hicks.

El-Mactud, girato lo sguardo attorno, si diresse verso un gruppo formato da alcuni vecchi sergenti che sembravano agli estremi.

—Chi di voi sa indicarmi ove nascondesi una donna? chiese egli, urtandoli colla punta del piede.

—Lasciaci dormire, disse uno di quei sciagurati.

—Cane di un egiziano! esclamò lo sceicco, assestandogli un potente calcio. Se non ti affretti a parlare ti taglio ambe le orecchie.

—Lasciaci in pace, brutto negro, urlò l'egiziano.

Lo sceicco, furibondo, aveva tratto l'jatagan e stava per scagliarsi su quel gruppo di persone inermi, quando improvvisamente si arrestò cogli occhi sbarrati, le braccia tese all'indietro, istupidito, trasognato.

Da una piccola capanna era uscita una donna di bellezza superba, dalla tinta bruna, ma di un bruno caldo, alta, robusta, dalle forme tondeggianti e stupendamente sviluppate. Un piccolo tarbusch coprivale il capo, lasciando sfuggire una nerissima chioma, cosparsa di monetuccie d'oro; un giubbettino azzurro di seta chiudevale armonicamente il turgido seno, e una gonnella a frange d'oro scendevale fino alle ginocchia cariche di aurei cerchietti che graziosamente tintinnavano.

El-Mactud fece sei o sette passi indietro fissando quell'ammirabile creatura. Il suo volto impallidì e i suoi occhi si sbarrarono smisuratamente.

—Gran Allàh! esclamò egli. Fathma!…

CAPITOLO X.—Il Mahdi e la sua favorita.

El-Mactud era addirittura pietrificato, tanta era la sua sorpresa di vedere colà Fathma, l'ex favorita, quella superba donna che Ahmed aveva avuto la debolezza di lungamente piangere.

Egli si stropicciò dieci, venti volte gli occhi per accertarsi che era sveglio, che non stravisava e dieci e venti volte si convinse che la donna che aveva dinanzi era proprio l'almea Fathma. I suoi occhi neri e fulgidi come diamanti, la tinta della sua pelle, i capelli fluttuanti che scendevanle sulle spalle come un vellutato mantello, le ammirabili sue braccia, la sua taglia, il suo portamento nobile e altero, tutto infine indicava che quella donna era realmente la favorita dell'inviato di Dio.

—Non m'inganno, balbettò lo sceicco. Nessuna altra donna può essere così bella, nè è possibile che ve ne sia una che tanto somigli a Fathma. Ma chi l'ha condotta qui? Con quale scopo? Perchè? Lo sanno i guerrieri della zeribak che custodiscono l'ex favorita del loro Signore?… Mille fulmini! Noi abbiamo seguite le traccie di Fathma credendo di seguire quelle della fidanzata di Abd-el-Kerim. È curiosa, strana, ridicola. Non è possibile supporre che il greco si sia innamorato di Fathma. Sarebbe un delitto. E Ahmed lo sa che qui si cela la sua favorita. Dieci giorni fa la piangeva ancora come morta, dieci giorni fa la cercava ancora, interrogava i guerrieri che venivano dal Bahr-el-Abiad, giurava di vendicarsi terribilmente di questa donna che lo aveva indegnamente tradito, ed invece è qui e ancor viva. Non capisco più nulla, Lasciamo che se la sbrighino gli altri e cerchiamo di salvar Notis. Forse lui spiegherà questo mistero. To' e se Notis… Ma no, è impossibile, Notis non può aver amato Fathma; sarebbe un delitto.

El-Mactud rimase ancora lì alcuni minuti cogli occhi sempre fissi su
Fathma, poi volse bruscamente lo spalle e si diresse verso l'uscita.
Stava per varcare la soglia della zeribak quando un'improvvisa idea
lo arrestò di botto.

—E se Ahmed non lo sapesse? mormorò egli. Con quella donna potrei salvare Notis.

Chiamò il capo dei dieci guerrieri che prontamente accorse.

—Chi ha condotto qui quella donna? gli domandò indicandogli Fathma.

—Un negro, rispose il capo.

—Lo conosci?

—Solamente di vista.

—Cosa ti disse consegnandotela?

—Che vegliassi attentamente su lei e che avessi ogni riguardo. Mi disse che tale era l'ordine del Mahdi.

—Ahmed venne mai a trovarla?

—Mai, il negro invece più volte.

—Sai chi è quella donna?

—L'ignoro.

—Bisogna che tu me la ceda. La condurrò da Ahmed.

—Se tale è l'ordine dell'inviato da Dio, la cedo.

El-Mactud lo congedò con un gesto e prosentossi risolutamente all'almea.

—Fathma, le disse, devo parlarti. Vieni con me.

L'almea, udendosi chiamare per nome da quello sconosciuto trasalì e fissò i suoi grandi e neri occhi su di lui con sorpresa e diffidenza. Pareva che le balenasse un sospetto, nondimeno lo seguì con passo abbastanza fermo.

El-Mactud la condusse nell'angolo più remoto della zeribak, ma stette parecchi minuti senza aprir bocca. Era imbarazzatissimo e non sapeva in qual modo cominciare. Comprendeva che una parola sospetta, forse un semplice cenno, poteva tradirlo ed allarmare l'almea.

—Fathma, disse finalmente, facendosi animo. Non sei tu la favorita del Mahdi?

L'almea tremò dal capo alle piante e si guardò d'attorno con viva ansietà.

—Imprudente, diss'ella con un filo di voce.

—Perdono, mi dimenticavo che…

—Zitto, non nominarmi più. Dimmi come tu sai ciò, chi sei e chi ti mandò da me.

—Mi chiamo Dullak e sono amico di un uomo che si chiama…

—Chi?… Chi?…

—Abd-el-Kerim, le soffiò all'orecchio lo sceicco.

Fathma si portò una mano alle labbra per soffocare un grido che stava per uscirle. Indietreggiò, poi si slanciò verso lo sceicco e stringendogli le braccia in modo da stritolargli quasi le ossa, gli disse con voce soffocata:

—Ripetimi quel nome, ripetilo! Ho paura di aver compreso male.

—Sono l'amico di Abd-el-Kerim, rispose lo sceicco senza esitare.

—È impossibile, io sogno!

—No, sei sveglia, Fathma.

—Non m'inganni tu?

—No, ti dico la verità. Non aver paura, povera donna.

Un profondo sospiro uscì dalle labbra dell'almea, un sospiro che pareva un grido di gioia soffocato.

—Dov'è, dov'è Abd-el-Kerim? chiese ella. Io voglio vederlo, bisogna che io lo veda a qualsiasi costo. Ti prego, ti supplico, mio buon amico, accompagnami da lui.

—Calmati, andremo subito da lui.

—Dimmi, dove trovasi? Come sta? È vivo, è ammalato, è libero, è prigioniero?

—Si trova in una capanna, a due miglia da qui, vivo e libero.

—Che posso fare per te? chiese ella estremamente commossa.

—Nulla, rispose lo sceicco.

—Ma perchè arrischiarti a venire da me? Tu corri un gran pericolo.

—Le disgrazie di Abd-el-Kerim mi toccarono il cuore e giurai di aiutarlo a riguadagnare la perduta felicità. Ecco perché sfidai, senza tremare e senza esitare, il pericolo.

—Ah! quanto sei buono, mio nobile amico! esclamò Fathma, mettendo le sue mani in quelle callose del traditore. Se un giorno tu avrai bisogno d'un aiuto, pensa a me e ad Abd-el-Kerim. Faremo per te quanto tu avrai fatto per noi.

—Me ne ricorderò, disse lo sceicco con ironia. Usciamo, Fathma.

Attraversarono la zeribak ed uscirono. Medinek li attendeva con un vigoroso cammello sostenente sulle gobbe una specie di baldacchino circolare chiuso da tende bianche.

El-Mactud aiutò Fathma a salire, poi si volse verso Medinek e gli disse rapidamente:

—Corri subito dal Mahdi. Gli dirai che gli porto la sua ex-favorita, ma che in cambio mi conceda una grazia.

Pregò poi un guerriero di guidare l'animale alla capanna del Profeta ed entrò sotto il baldacchino dando il segnale della partenza col solito «ich! ich!» aspirato.

L'intelligente animale si mise in cammino con un dondolamento di lupo di mare. Uscito da El-Obeid prese la via che menava al campo di Mohammed Ahmed.

—Fathma, disse ad un tratto El-Mactud, traendo di tasca una pezzuola.
Lasciati bendare gli occhi.

L'almea non potè trattenere un gesto di sorpresa a quello strano comando.

—Perchè? chiese ella.

—Dispensami dal rispondere alla tua domanda.

—E se rifiutassi di ubbidire?

—In tal caso ti ricondurrò alla zeribak. Corro dei grandissimi pericoli; è giusto che io prenda delle precauzioni.

Fathma esitava. Quell'ordine le sembrava tanto strano, che non sapeva decidersi. Nondimeno la paura di dover ritornare senza vedere colui che tanto amava, fece sì che si arrese.

Ella presentò la testa ad El-Mactud che gliela bendò strettamente togliendole la vista. Quasi subito in lontananza s'udirono rullare le darabùke e squillare le trombe.

—Dove andiamo? chiese l'almea con ispavento. Ho paura che tu mi perda.

—Non temere Fathma, rispose lo sceicco cercando di raddolcire il suo aspro accento. Attraversiamo il campo per abbreviare la via.

Fathma portò le mani alla benda. Ella si sentiva assalire da sinistre inquietudini e cercava di vedere quanto succedeva a lei d'intorno. Lo sceicco, che non istaccava mai gli occhi da lei, fu pronto ad afferrarla pei polsi.

—Non muoverti, le disse minacciosamente. Se mi perdi, ti dò nelle mani di Ahmed.

Quella terribile minaccia irrigidì Fathma; non osò più muoversi, tanta paura aveva di cadere nelle ugne dell'antico suo signore.

Il cammello s'avanzò per altri quindici minuti, aprendosi a gran pena il passo fra i guerrieri del Mahdi che ingombravano il campo, poi si arrestò. El-Mactud aprì la tenda e balzò lestamente a terra.

A pochi passi da lui vi era la capanna del Mahdi, sulla cui porta chiacchieravano i tre vizir dell'esercito, Ibrahim, Juban e Ahmed, il primo comandante delle truppe regolari, il secondo le irregolari ed il terzo l'artiglieria. Presso di loro era seduto Medinek, il quale, appena scorto le sceicco, affrettossi a corrergli incontro dicendogli:

—Ahmed aspetta Fathma. Egli accorda a te qualsiasi grazia. Non avrai che d'aprire la bocca per salvare il greco.

El-Mactud non potè frenare un moto di gioia. Allungò le braccia verso Fathma, la sollevò in aria, e prima che ella potesse opporre la menoma resistenza la trasse nella capanna di Ahmed, lasciandola sola per terra. Fathma, atterrita, in preda a maggiori inquietudini, balzò in piedi strappandosi la benda. Un terribile grido le uscì dalle labbra.

Barcollò, le forze le vennero meno, e cadde in ginocchio nascondendosi il volto fra le mani.

—Perdono!… Perdono!… balbettò ella con voce strozzata.

Dinanzi a lei, pallido, fremente, stava Mohammed Ahmed, l'antico suo signore.

Nella capanna regnò per qualche tempo un cupo silenzio.

Ahmed, inchiodato al suolo, non era capace di muoversi. Il suo volto era spaventevolmente contraffatto, cinereo, anzi nero, rigato da grosse goccie di sudore e il suo petto sollevavasi straordinariamente. Dalle labbra increspate, strette, uscivagli un rauco ruggito che incuteva spavento.

Una terribile burrasca imperversava nel cuore di lui e riflettevasi chiaramente sul suo viso. Si leggeva ne' suoi occhi una smania feroce di vendetta temprata, anzi frenata dalla passione che ancor nutriva per quella donna e che in quel momento scatenavasi più ardente che mai.

Egli rimase uno, due, forse tre minuti immobile irrigidito, quasi direi, istupidito. D'un tratto precipitossi verso Fathma prostrata ai suoi piedi, la sollevò e se la strinse furiosamente al petto.

—Ti amo e ti odio!… le ruggì agli orecchi.

Le rovesciò all'indietro il capo, appoggiò le sue labbra sulla fronte di lei e vi stampò un ardente bacio ripetendo con una voce che i singhiozzi soffocavano:

—Ti amo e ti odio!… Fathma, che ti aveva fatto io per tradirmi, per rendermi infelice, per piombarmi nella disperazione? Mai tu avesti a lagnarti di me, in quei tempi in cui tu eri la mia favorita? Io ti trassi dal fango dove tu ti avvoltolavi, ti strappai dagli amplessi dei soldati, dagli amplessi della canaglia, dagli amplessi di vili schiavi per innalzarti sino a me, per innalzarti fino all'inviato di Dio; e tu, mentre io ti aveva colmata di favori e di onori, mi ingannasti, mi lacerasti il cuore per ritornare nelle braccia di un vile soldato, di un traditore, di un maledetto da Dio! E tu, spregevole donna, invochi ancora il perdono. No, Fathma, non v'è perdono.

Un singulto lacerò il petto di Ahmed. Egli portò le mani agli occhi e quell'uomo fu visto a piangere.

Nella capanna, per parecchi minuti tornò a regnare un penoso silenzio, rotto solo dai singhiozzi che sollevavano il petto del Mahdi e dal respirare affannoso di Fathma.

Tre o quattro volte, Ahmed, attirato da una forza irresistibile, dominato dalla immensa passione che pur odiando ancora provava per quella donna, le si avvicinò, per tre o quattro volte retrocesse: alla quinta non seppe più trattenersi. Egli precipitossi come un forsennato, come un delirante, su Fathma, se la strinse furiosamente al petto togliendole il respiro, tanta era la violenza di quell'amplesso e tempestandola di ardenti baci.

—Sei bella!… Sei bella!… urlò con un tono di voce che più nulla aveva d'umano. Io ti odio, capisci Fathma, mi sento indosso una smania terribile di vendicarmi di tutte le torture che mi hai fatto soffrire, una smania terribile di straziare a colpi di frusta queste tue belle carni che mi avevan fatto fremere di voluttà, una smania terribile di vederti morta ai miei piedi: eppure non mi sento capace di farlo. Nello stringerti fra le mie braccia, nel baciarti, sento ancora che io ti amo, o donna infedele, sento ancora accendermisi il sangue nelle vene, sento ancora palpitare il mio cuore di amore, mi sento trascinato mio malgrado a commettere delle pazzie… Fathma! Fathma!… Dimmi che non mi odii, dimmi che sei fuggita in un momento di aberrazione, dimmi che gli uomini che furono tuoi amanti li odii, dimmi infine che tu mi ami! Dimmi che ritornerai a diventare la favorita del Profeta del Sudan! Io ti innalzerò ancor di più, io ti farò non solo felice, ma assai grande, tanto grande che tutte le donne della terra ti invidieranno. Sono potente oggi, sono invincibile, dinanzi a me non ho più nemici capaci di contendermi il passo, non ho più nemici che scuotere possano la mia potenza. Duecentomila guerrieri, duecentomila fanatici, anzi duecentomila leoni mi obbediscono ed obbediranno pure a te. Io ti trarrò alla città santa, alla Mecca e di là li lancerò contro le nazioni dei due mondi che dovranno cadere una ad una dinanzi al fanatismo degli arabi. Io diverrò il padrone del globo e tu capisci, Fathma, sarai la gran sultana. Egli, completamente fuori di sè, tornò ad arrestarsi avviticchiato ancor più strettamente a Fathma, coprendola di baci.

D'improvviso si staccò da lei e le cacciò gli occhi dentro il viso; tremò tutto; un ruggito gli irruppe dal fremente petto.

Fathma era tutta ad un tratto cangiata. Lo smarrimento, il terrore l'angoscia, poco prima scolpiti sul volto di lei erano completamente scomparsi. Era diventata cupa e nei suoi occhi scintillava una fiamma sinistra. Ridiventava l'araba fiera, selvaggia, indomabile.

—Fathma! disse egli. Rispondi in nome di Dio! Tornerai tu a diventare la mia favorita? Tornerai a farmi felice? Io ti farò grande, io ti farò potente!

—No! diss'ella risolutamente, svincolandosi da lui.

Ahmed retrocesse barcollando. Credette di avere male compreso.

—Ripetilo! ripetilo! gridò egli.

—Odimi, Ahmed! esclamò Fathma con sorda voce. Tu sei potente, tutti i popoli del Kordofan chinan la fronte nella polvere dinanzi a te, tutte le donne delle tribù che tu comandi sono tue. Fra esse ve ne son mille e mille più belle, più nobili, più forti di me, ve ne son mille e mille che andrebbero orgogliose dei tuoi baci, dei tuoi abbracci. Prendine una e lascia che io segua la stella che mi allontanò da te. Scava un abisso fra me e te, imponi silenzio al tuo amore: dimenticami.

—Dimenticarti?… Amare un'altra!… Perderti!… balbettò Ahmed.
Perchè?… Non mi ami più adunque?… Fathma!…

L'almea si prese la testa fra le mani con gesto disperato. Chiuse gli occhi, poi li riaprì umidi di pianto.

—Ahmed, diss'ella con voce ancora più alterata, quasi commossa. Non tentarmi, che fra noi due tutto è finito. Un tempo ti ho amato, un tempo per te avrei dato tutto il mio sangue, avrei commesso persino dei delitti. Un giorno si operò in me un improvviso cangiamento. Sentii che il mio amore sfumava lentamente, sentii infine che non ti amava più. Lottai, te lo giuro, lottai strenuamente contro la nuova passione che s'era scatenata tremenda nel mio cuore. Piuttosto che contaminare la tua capanna, fuggii.

—Perchè? Con chi?

—Con un uomo che era tuo soldato e che mi aveva, mio malgrado, affascinata. Sei mesi dopo il mio amante moriva nella battaglia di Kadir. Mi mancò il coraggio di ritornare ai tuoi piedi e ripresi la mia errante carriera, trascinandomi di città in città, di villaggio in villaggio, allontanandomi sempre più da te. Io temeva la tua vendetta.

—Continua, sciagurata.

—Una notte, un prode arabo…

—No, un prode, di' un vigliacco! interruppe Ahmed furibondo.

Fathma si raddrizzò quanto era alta, pallida, fremente, vibrandogli uno sguardo feroce.

—Taci, Ahmed, taci! diss'ella con voce strozzata. Non insultare gli eroi!…

—Continua!

—Una notte, come ti dissi, un prode arabo mi salvò la vita. Quell'arabo era bello, era forte e mi impressionò. Ci trovammo a Hossanieh ed egli mi amò. Ero sola, senza difesa, in un paese sollevato a rivolta; fra me e te ormai esisteva un abisso e lo amai. Ho commesso forse un delitto amando quell'arabo che espose la sua vita per salvare la mia? Ho commesso forse un delitto appoggiandomi a lui? Parla, Ahmed: se tu ti fossi trovato nella mia situazione, non avresti fatto altrettanto?

—No! No! Fathma! Tuo dovere era quello di scavare un abisso tra te e quel miserabile, di colmare quello che avevi scavato fra me e te e ritornare fra le mie braccia. Chissà… forse ti avrei perdonato.

—Non ne ebbi il coraggio. Mi facevi paura.

—E oggi?

—Oggi…

—Ebbene?

—Mi fai ribrezzo!

Ahmed emise un ruggito, un ruggito simile a quello che emette il leone quando è colpito a morte. Egli si avventò come un pazzo contro Fathma, se la serrò contro il petto facendole scricchiolar le ossa, la baciò, le morse furiosamente i neri e lunghi capelli ripetendo:

—Ti odio e ti amo immensamente.

Fathma, spaventata, cercò di sciogliersi da quella stretta e di sottrarsi a quei baci che le facevano l'effetto di tanti colpi di pugnale.

—No, no, gridò Ahmed delirante. Non mi fuggirai più, io ti amerò anche se tu non vorrai, io ti farò mia dovessi impiegare la forza.

Egli l'aveva abbrancata ancor più strettamente e la trascinava verso l'angareb. Fathma gettò un grido.

—Lasciami, Ahmed! Lasciami! gridò ella dibattendosi disperatamente.

Il Mahdi la guardò con occhi di fuoco.

—Sei mia! sei mia! le fischiò agli orecchi.

—Lasciami, lasciami! rispose Fathma mordendolo in un braccio. Non appartengo più a te. Sono di Abd-el-Kerim.

—Ti amo, Fathma! Ti amo!

—Ti odio, ti maledico, ti disprezzo!

Ahmed cercò di rovesciarla sull'angareb. Fathma balzò in piedi come una leonessa, poi alzando il pugno lo lasciò cadere sul volto del Mahdi che si coprì di sangue.

Ahmed digrignò i denti. La sollevò, la scosse come una piuma, e la scagliò a rompersi il capo contro la parete.

—Fathma! diss'egli con terribile calma. Sei perduta!…

CAPITOLO XI.—Il perdono.

El-Mactud era verde per l'ira e si rodeva d'impazienza. Cinque interminabili giornate erano trascorse da che aveva dato nelle mani di Ahmed, Fathma, e non ancora gli era pervenuta la tanto desiderata grazia di Notis.

Venti volte, lo sceicco, che aveva una paura fortissima che Ahmed lo avesse corbellato, aveva chiesto di entrare nel tugul e venti volte gli avevan risposto che Ahmed non riceveva nessuno. Stava per uscir dai gangheri e ricorrere a qualche mezzo estremo a rischio di farsi tagliare la testa, quando il mattino del sesto giorno vide i tre vizir del campo Ibrahim, Juban e Ahmed e Gustavo Klootz[1] entrare in furia nel tugul del Mahdi.

[1] Gustavo Klootz era stato servo del Barone di Cettendorfs, poi di O'Donovan, reporter del Daily-News. Due o tre giorni prima della battaglia di Kasghill era scomparso dal campo e alcuni dissero che aveva informato il Mahdi delle forze che conducevano Hicks e Aladin pascià. L'illustre missionario D. Luigi Bonomi mi disse che Klootz era incapace di tradire così slealmente gli egiziani.

Presso le orde passava per un confidente del Mahdi; D. Bonomi mi disse che lo era solamente in apparenza. È certo però, che consigliava talvolta il Profeta.

Gustavo Klootz cercò spesso di migliorare la triste sorte dei missionari prigionieri.

Con un salto lo sceicco fu alla porta della capanna. Aveva compreso che qualche cosa di grave era accaduto e che forse lo riguardava. Dopo di aver insistito, ma invano, per entrare, si rassegnò ad aspettare che i vizir uscissero per interrogarli.

Non corse molto tempo che uno di essi, Juban, comandante delle truppe irregolari, comparve. Egli mosse incontro allo sceicco che brontolava a pochi passi dalla capanna.

—Cercava appunto te, gli disse il vizir.

—Ne era ben tempo, rispose El-Mactud.

Juban si trasse dalla cintola una pergamena arrotolata e la porse allo sceicco che la prese con vivacità.

—Questa è la grazia che tu hai chiesto. Vattene, ma non dimenticare che questa grazia l'hai ottenuta condannando a morte la più bella donna del Kordofan.

—Che intendi di dire? chiese lo sceicco tremando. Spiegati, vizir.

—Han condannato a morte la povera Fathma.

—Giusto Allàh!

—Fra un'ora Yokara l'annegherà nel lago Tscherkela. Vattene, traditore, nè osa comparirmi più dinanzi. Io ti disprezzo.

Il vizir gli volse sdegnosamente le spalle e rientrò nel tugul. El-Mactud, trasecolato, rimase lì, colla testa china sul petto e le labbra strette, strette.

—Han condannato a morte l'almea! mormorò egli con isgomento. E sono stato io a darla nelle loro mani. Povera donna!… Orsù, cacciamo le emozioni in fondo al cuore e tiriamo avanti. È l'inviato di Dio che l'ha condannata. D'altronde non vi era altro mezzo per salvare il greco.

Si passò a più riprese la mano sulla fronte e terminò col crollare le spalle. Si avvicinò a Medinek, il quale teneva per le briglie un magnifico cavallo nero, di razza abù-rof, che scalpitava impazientemente e rodeva il freno macchiandosi il lucente petto di candida bava.

—Tu rimarrai qui, gli disse lo sceicco. Qualunque cosa accada, non ti allontanerai dal tugul di Ahmed.

Balzò agilmente in arcione, cacciò un paio di pistoloni nelle fonde della sella, raccolse le briglie e lanciò l'ardente corsiero sulla via di El-Obeid.

I muezzin dall'alto degli esili minareti invitavano i credenti all'ed-dòkr (preghiera del mezzodì) quando lo sceicco giungeva alla capanna dove era custodito il prigioniero.

Alcuni guerrieri erano accocolati dinanzi alla porta, pranzando con fegato di cammello condito con pepe rosso, fiele e orina di mucca[1]. Vedendo lo sceicco arrestarsi e scendere da cavallo, s'alzarono come un sol uomo brandendo le lancie e i loro moschettoni.

[1] I sudanesi usano condire tale cibo con orina quando non hanno sale.

—Chiamatemi il vostro capo, disse El-Mactud. Ordine dell'inviato di
Dio!

Un istante dopo sulla soglia della capanna appariva un negro riccamente vestito e armato fino ai denti. Quest'uomo era Omar.

—Sei tu il capo di questa gente? gli chiese El-Mactud.

—Sì.

—Leggi, disse lo sceicco, consegnandogli la pergamena del Mahdi.

Omar l'aperse e vi gettò sopra gli occhi. Tosto trasalì come un condannato che vede la mannaia del carnefice levarsi improvvisamente sulla sua testa e fece un gesto di disperazione.

—Graziato!… Notis graziato!… balbettò egli. Questa pergamena è falsa! Non può essere… non può essere!

—Bada ai casi tuoi, disse El-Mactud minacciosamente. Porre in dubbio una pergamena dell'inviato di Dio è pericoloso per la testa di un uomo.

Omar lo comprese e non osò continuare. Tuttavia non voleva cedere quel greco che tanto odiava, senza parlare prima con Abù-el-Nèmr.

—Odimi, disse allo scièk. Io credo alla pergamena, ma lasciami due ore di tempo onde io parli collo sceicco Abù-el-Nèmr; poi ti cederò il prigioniero.

—Non ti accordo nemmeno cinque minuti. Ad Ahmed occorre sull'istante il greco.

—E se io mi opponessi colla forza?

—In tal caso mi recherò dal mudir (governatore della città), farò assalire il tuo tugul dalla guarnigione e uccidere tutti i tuoi guerrieri.

A quella minaccia, Omar si sentì mancare la forza di resistere oltre. Egli si trasse da un lato appoggiandosi alla parete per non cadere. Un sordo gemito gli uscì dalle labbra.

El-Mactud attraversò con un salto la soglia e si precipitò come bomba nella capanna. Là, su di un angareb disteso supino, col volto fra le mani, se ne stava il greco Notis. Al fracasso che fece lo sceicco entrando, scattò in piedi. Due grida rimbombarono.

—Notis!…

—El-Mactud!…

Bianco e negro si abbracciarono con effusione.

—Tu qui! esclamò il greco che stentava a credere di aver proprio dinanzi a sè lo sceicco. Ma come mai? Chi ti condusse? Sei forse prigioniero?

El-Mactud invece di rispondere, prese il suo jatagan e lo passò nella cintura dell'amico.

—Ma che vuol dire ciò? chiese Notis che non capiva assolutamente nulla.

—Ciò significa, amico mio, che tu sei libero.

—Libero!… Io libero!… Ma come!… Hai sbaragliato i guerrieri che mi custodivano, forse?

—Niente affatto; è Ahmed che ti ha graziato.

—Ah! l'eccellente uomo!

—Non dire così, Notis, disse gravemente lo scièk.

—Perchè?

—La tua grazia è costata la vita di una superba donna; Ahmed l'ha condannata all'annegamento nel lago Tscherkela.

—Una donna!… Una superba donna annegata!… Spiegati, El-Mactud, chi è questa donna?

—Indovina.

—Non saprei.

—È una donna che io trovai nella zeribak dei prigionieri e che diedi nelle mani di Ahmed per ottenere la tua grazia.

Notis impallidì orribilmente. Un sospetto, ma un sospetto terribile gli attraversò il cervello.

—Chi è!… Chi è!… balbettò egli. Il nome… Voglio il nome di quella donna!

—La donna che ho tradito per salvarti si chiama Fathma!

Un grido selvaggio soffocò l'ultima sua parola. Il greco fuori di sè, pallido di rabbia, di dolore, di disperazione, colla spuma alle labbra, gli occhi schizzanti fuor dalle orbite, era piombato addosso alla parete come fosse stato fulminato.

—Perduta!… perduta! ruggì egli.

El-Mactud, spaventato, si precipitò verso di lui per sostenerlo. Non ne ebbe il tempo. Notis si era raddrizzato in preda ad una tremenda collera.

Egli si scagliò come una tigre addosso allo sceicco, scaraventandolo contro la parete opposta con violenza tale da fargli scricchiolar tutte le ossa del corpo.

—Aiuto!… Aiuto!… urlò il povero diavolo.

—Miserabile! tuonò il greco.

Tornò a gettarglisi addosso colpendolo in mezzo al petto con un furioso colpo di testa. Bianco e negro, afferratisi a mezzo corpo, rotolarono a terra urlando come belve, tempestandosi di pugni e dilaniandosi le carni coi denti.

Ad un tratto Notis violentemente si separò dall'avversario, balzando in piedi; nella mano dritta stringeva l'jatagan bagnato di sangue fino all'impugnatura.

L'assassino mirò con occhi stravolti El-Mactud che contorcevasi disperatamente colla testa fessa fino al mento, poi fuggì come un forsennato.

Al di fuori della capanna scalpitava il cavallo dello sceicco. Notis con un salto fu in sella e lo spinse a sfrenata corsa per le vie di El-Obeid, senza nemmeno accorgersi che un drappello di cavalieri guidati da Omar si era slanciato dietro di lui.

La gente, vedendo quell'uomo tempestare il cavallo coll'impugnatura dell'insanguinato jatagan, si riparava dietro ai muri o dentro le capanne, credendolo pazzo.

Ed infatti l'assassino aveva l'aspetto di un demente.

Schiacciato da quella catastrofe inaspettata, che dalle cime raggianti della speranza, lo aveva precipitato nell'abisso della disperazione, era addirittura irriconoscibile. Aveva i capelli irti, la spuma alle labbra, il volto spaventosamente scomposto, chiazzato di rosso e gli occhi roteanti in un cerchio sanguigno. Il petto, a mala pena coperto dalle vesti lacerate ed imbrattate di sangue, gli si sollevava violentemente quasichè volesse scoppiare e dalle labbra gli uscivan parole sconnesse, bestemmie, urla disperate, ruggiti.

Egli attraversò, sempre di gran carriera, la città, rovesciando e storpiando più di dieci persone, passò come un uragano sotto la porta che dava nella campagna fugando la sentinella che aveva tentato di fermarlo e in quindici minuti giunse dinanzi alla capanna di Ahmed. Con una violenta strappata arrestò lo sbuffante corsiero che stava per passare sul corpo di Medinek.

—Dov'è Fathma? chiese rabbiosamente al guerriero.

—Il carnefice l'ha portata via, rispose l'interpellato.

—Maledizione!… Dove?

—Al lago.

—Quando?

—Venti minuti fa.

Notis s'allontanò, lanciando il cavallo ventre a terra.

—Padrone! gli gridò dietro Medinek. State in guardia! Avete
Abù-el-Nèmr dinanzi!

—Ira di Dio! tuonò il greco. È uomo morto!…

L'animale, col petto spruzzato di spuma, il ventre insanguinato dai colpi d'jatagan del furente cavaliere, andava rapido come una freccia, colla criniera al vento, le nari fumanti, gli occhi dilatati, gettando di quando in quando un sordo nitrito. Vi era da temere che soffocasse.

In venti minuti l'immenso campo del Mahdi fu attraversato, poi il cavallo slanciossi attraverso le pianure del sud-est sollevando nembi d'impalpabile sabbia.

—Vola! vola! gli urlava incessantemente il greco, tempestandolo di pugni. Bisogna che giunga in tempo di salvarla!

La via era diventata deserta. Qua e là si scorgevano qualche solitario palmizio e dei tumuli ornati di lapilli a svariati colori che formavano bellissimi disegni, e di armi, come lancie, archi, vecchi moschetti irruginiti e scudi. Il greco trasalì nel riconoscere delle tombe.

Erano le sette circa quando udì in distanza lo scalpitìo di parecchi cavalli.

—Eccoli! mormorò egli con intraducibile accento.

Il cavallo eccitato colla briglia e colla punta dell'jatagan raddoppiò la velocità ansimando furiosamente e raggiunse i piedi di una catena di colline che piegava verso il sud-est, dividendo per metà la deserta e sabbiosa pianura.

Il greco cacciò fuori una spaventevole bestemmia ed arrestò di colpo l'animale.

—Ira di Dio! Eccoli!

Dinanzi a lui, a un seicento metri di distanza, galoppavano dei guerrieri guidati da uno sceicco. In quest'ultimo Notis aveva riconosciuto Abù-el-Nèmr.

—Ah! cane! ruggì egli allungando le mani verso le fonde della sella dalle quali uscivano i calci di due pistole.

Per un istante ebbe la pazza idea di inseguire quei guerrieri e d'impegnare con essi una disperata pugna, ma la paura di avere la peggio lo trattenne. Gettò all'intorno uno sguardo crucciato e l'arrestò su di un negro che erasi levato dietro una montagnola di sabbia.

—Dove mena questa via? gli chiese.

—Al lago Tscherkela.

—E quella delle colline?

—Egualmente.

—Quale è la più corta?

—Quella delle colline.

—Fathma è salva!

Tornò rapidamente indietro e si cacciò in una stretta gola rinserrata da colline tagliate a picco.

Il cavallo la percorse tutta d'un fiato, poi entrò in una valle ingombra di cespugli gommiferi e di tamarindi colossali. Il lago, se lo sentiva, era ormai vicinissimo. L'aria era più fresca e volavano per l'aria stormi di pellicani e di fenicotteri, volatili che mai si allontanano dalle acque.

Ad un tratto il cavallo si arrestò. Tremava, rantolava, e aveva chinata la testa sul petto. Notis comprese che era agli estremi.

Lo percosse coll'impugnatura dell'jatagan, ma l'animale non si mosse.

—Ira di Dio! bestemmiò egli furibondo. Bisogna che tu cammini!

Accese un po' d'esca e lasciò cadere una bricciola in un orecchio della povera bestia. A quel contatto si diede subito a precipitosa fuga scuotendo disperatamente la testa.

Era giunto quasi all'uscita della valle quando tornò ad arrestarsi. Cacciò fuori un ultimo nitrito, poi rotolò pesantemente al suolo; uno sprazzo di sangue gli uscì dalle nari e rimase immobile, irrigidito dalla morte.

Il greco non si perdette ancora d'animo. Strappò dalle fonde della sella le pistole e si mise a correre come un pazzo.

Appena uscito dalla valle il lago Tscherkela gli si svolse dinanzi tutto d'un tratto, racchiuso fra ridenti rive. Un mahari era legato al tronco di un palmizio, e sulla cima di una piccola roccia che cadeva a picco sulle acque, stava un negro di colossale statura, tenendo alzato al disopra della sua testa un gran sacco di pelle che pareva racchiudesse un corpo umano.

—Ferma! Ferma!… gridò il greco con accento disperato.

Il muggito delle onde, che sollevate da una fresca brezza, si frangevano contro le roccie, impedì al carnefice di udirlo. Il momento era terribile. Fathma stava per essere precipitata nel lago. Un momento ancora e tutto sarebbe finito.

Un'improvvisa idea balenò nella mente del greco. Puntò una delle due pistole; s'udì una strepitosa detonazione seguita da un urlo di dolore e da un tonfo. Yokara e la sua vittima erano capitombolati nel lago.

Il greco, fuori di sè, si precipitò verso la costa e scagliate via le pistole balzò nelle onde. Passò un minuto lungo quanto un secolo, poi riapparve. Con una mano nuotava e coll'altra sosteneva il sacco contenente la povera Fathma.

Nuotò vigorosamente verso la riva, scalò agilmente le roccie, depose l'almea sulla sabbia e con un rapido colpo di jatagan squarciò il grosso tessuto.

Si chinò ansiosamente su quel bel corpo che non dava più segno di vita e appoggiò una mano sul cuore. Sentì che batteva leggermente.

—Viva! Viva!… tuonò egli. Ah! sei alfine mia!

Le sue labbra sfiorarono dieci volte di seguito quelle scolorite dell'almea; egli rideva e piangeva dalla gioia.

Il galoppo di parecchi cavalli, che rapidamente si avvicinava, gli richiamò alla mente Abù-el-Nèmr. Gettò uno sguardo verso il lago, nel quale dibattevasi ancora il carnefice Yokara colla testa fracassata dalla palla della pistola, afferrò strettamente fra le braccia Fathma, scattò in piedi e si diede a precipitosa fuga senza sapere dove andasse nè che cosa avesse in mente di fare.

Aveva percorso duecento passi, quando udì una voce gridare:

—Ehi, alt! Se non t'arresti sei morto!

Il greco a quell'intimazione si volse digrignando i denti. A cinquanta passi da lui stava Abù-el-Nèmr col fucile spianato, circondato dai suoi guerrieri.

—Maledizione! gridò il greco che comprese d'essere irremissibilmente perduto.

Con un rapido gesto sguainò l'jatagan e lo puntò sul seno dell'almea gridando ad Abù:

—Se non ti fermi la uccido!

Nell'istesso istante Omar sbucava da una macchia di bauinie slanciandosi verso il miserabile. Cinque negri lo seguivano armati fino ai denti.

—Ah! cane! gridò lo schiavo tendendo la dritta armata di revolver.

Quattro detonazioni scoppiarono l'una dietro l'altra. Il greco girò due volte su sè stesso, stravolse gli occhi, un getto di sangue gli sgorgò dalle labbra e piombò a terra bestemmiando.

—È morto! esclamarono i guerrieri accorrendo.

Omar in pochi salti lo raggiunse. Il morente si agitava ancora stringendosi furiosamente al petto Fathma e macchiandola di sangue.

—Mi riconosci? gli chiese il negro.

—Sii… maledet…to! mormorò Notis.

Il negro gli appoggiò la canna del revolver alla fronte e con un quinto colpo gli fece saltare le cervella.

—Ora sono vendicato! esclamò.

Gli strappò dalle braccia la sua padrona, l'adagiò sulla fine sabbia, e le si inginocchiò accanto esaminandola attentamente.

—Vive? chiese Abù-el-Nèmr con profonda emozione.

—È viva, rispose Omar. Fra pochi minuti ritornerà in sè.

Abù-el-Nèmr respirò e si terse un freddo sudore che grondavagli dalla fronte.

—Povera donna, mormorò egli. Che tu possa essere alfine felice.

Una nube oscurò la sua fronte e i suoi sguardi s'intenerirono. Quell'abbronzato volto, di solito così aperto e fiero divenne triste, cupo.

—Che hai? gli chiese Omar che s'era accorto di quell'improvviso cambiamento.

—Nulla, Omar, nulla, balbettò con voce soffocata lo sceicco. Dov'è
Abd-el-Kerim?

—Eccolo, disse un guerriero.

Infatti l'arabo era improvvisamente apparso all'uscita della gola e s'avvicinava a spron battuto. Ma non era più lo spaventevole agonizzante di dieci giorni prima, privo di forze, ischeletrito, orrendamente deturpato e che incuteva ribrezzo.

Era ancora pallido, scarno, ma aveva ricuperato nel lasso di pochi giorni e la salute e le forze. Abù-el-Nèmr, avutolo in sua mano, gli aveva tagliati uno ad uno i tumori e strappati gli schifosi vermi che lo stremavano succhiandogli il sangue.

Egli giunse come una bomba fra i suoi amici, nel mentre che due guerrieri gettavano nel lago il cadavere di Notis con una pietra appesa al collo.

Tese le mani a Omar ed allo sceicco, poi si precipitò sul corpo dell'almea.

—Fathma! mia adorata Fathma! esclamò egli delirante.

Non seppe dire di più. La gioia di rivedere alfine l'infelice sua fidanzata, lo soffocava. Afferrò quel corpo ancora inanimato e lo coprì di baci e di lagrime.

Abù-el-Nèmr si nascose il volto fra le mani e un rauco singhiozzo gli rumoreggiò in fondo al petto. Una tremenda disperazione aveva improvvisamente scomposto i suoi lineamenti.

In quell'istante Fathma emise un profondo sospiro e si scosse.
Abd-el-Kerim se la strinse teneramente al petto.

—Fathma! Fathma! ripetè egli.

L'almea aprì gli occhi, li chiuse, poi tornò a riaprirli. Un grido inesprimibile le uscì dalle labbra.

—Abd-el-Kerim!…

Si raddrizzò, gettò le braccia attorno al collo del fidanzato e scoppiò in singhiozzi.

—Dio!… Dio!… balbettò ella, fa che io non sogni!

—No, povera donna, tu non sogni, sono io, proprio io, il tuo amato
Abd-el-Kerim che non si separerà più mai da te.

Ad un tratto Fathma impallidì terribilmente.

—E Ahmed, esclamò ella con profondo terrore. Ho paura, Abd-el-Kerim, ho paura.

Abù-el-Nèmr si fece innanzi.

—Ahmed vi ha perdonato, diss'egli con voce appena distinta. Voi siete liberi, interamente liberi. Che Allàh vi faccia felici!

Retrocesse di alcuni passi coi lineamenti alterati da una tremenda disperazione, le braccia incrociate convulsivamente sul petto, la testa china.

Gli ultimi raggi di sole che ancor indoravano le sponde del lago, si rifletterono su due grosse lagrime che scendevano silenziosamente sulle abbronzate gote del guerriero.

CONCLUSIONE.

Sono trascorsi due mesi. Una sera, mentre la luna s'alzava sull'orizzonte illuminando vagamente gli esili minareti di El-Obeid e le tende dell'accampamento degli insorti e le stelle fiorivano in cielo scintillando vivamente, due uomini avvolti in candidi taub se ne andavano a lenti passi verso la strada che conduceva al lago Tscherkela.

Uno era Ahmed Mohammed, l'altro era lo sceicco Abù-el-Nèmr. Il primo era lo stesso uomo come abbiamo veduto due mesi innanzi, il secondo invece era interamente cambiato.

Precoci rughe solcavano la sua fronte e sul suo volto vedevasi scolpita ancora una viva disperazione. Gli occhi avevano perduto l'usuale loro splendore, ed erano diventati melanconici, cupi e l'altra sua persona erasi curvata come sotto il peso dell'età. Quell'uomo in poche settimane era invecchiato di dieci anni.

S'erano allontanati già più d'un miglio dall'accampamento, quando
Ahmed bruscamente arrestossi.

—Guarda, Abù, diss'egli.

Il guerriero rialzò il capo, chino sino allora sul petto, e guardò. Un cavaliere era apparso sulla bruna linea dell'orizzonte e si avvicinava di carriera.

—Chi sia? chiese Ahmed, dopo qualche istante.

—Fosse un messaggiero, rispose con voce cavernosa Abù.

—Se portasse notizie di…

—Taci, Ahmed, taci! esclamò lo sceicco.

Ahmed lo guardò con compassione e scosse il capo.

Il cavaliere era allora giunto a cento metri da loro. Rattenne il cavallo, come indeciso sulla via da prendere, poi riprese la corsa dirigendosi verso il Mahdi.

—All'inviato di Dio, diss'egli, balzando a terra e consegnandogli una pergamena arrotolata.

Ahmed s'impadronì vivamente di quella carta e vi gettò sopra gli occhi. La sua faccia s'annuvolò e un profondo sospiro gli uscì dalle labbra.

—Che hai? chiese Abù-el-Nèmr, guardandolo cogli occhi accesi.

—Notizie di loro, rispose Ahmed.

—Chi loro?

—Fathma e Abd-el-Kerim.

—Leggi!… leggi, Ahmed!… balbettò lo sceicco con un filo di voce.

Il Mahdi si passò più volte una mano sugli occhi che erano diventati umidi, poi lesse questa laconica lettera:

«Da Shendy.

«Ad Ahmed Mohammed Mahdi.

«Salute a te, all'amico Abù-el-Nèmr e al tuo esercito. Le tue guide ci hanno condotti felicemente a Shendy, dove fummo bene accolti dai tuoi nemici gli egiziani. Oggi abbiamo celebrata la nostra unione. Dio ti protegga.

«ABD-EL-KERIM E FATHMA».

Aveva appena terminato di leggere, che al suo fianco scoppiava una fragorosa detonazione. Si volse precipitosamente e mandò un acutissimo grido. Abù-el-Nèmr giaceva per terra colla testa sfracellata, stringendo ancora nella dritta la fumante pistola colla quale si era suicidato.

—Abù-el-Nèmr! gridò egli singhiozzando e inginocchiandoglisi accanto.

Il guerriero aprì gli occhi; un amaro sorriso increspò le sue labbra insanguinate. Cercò di sollevarsi, ma non vi riuscì; allungò le braccia e strinse convulsivamente le mani dell'amico.

—Muoio… felice!… rantolò egli. Perdonami… Ho amato… Fathma…
Tutto… tutto è… finito… Ad…dio… amico!…

Uno sbocco di sangue gli soffocò l'ultima parola. Un fremito agitò il suo corpo, poi s'irrigidì. Abù-el-Nèmr aveva cessato di vivere[1].

[1] Quando Shendy fu espugnata dai ribelli, il Mahdi rivide Fathma ed Abd-el-Kerim, ma aveva ormai a loro perdonato e non fece male alcuno. Anzi innalzò Abd-el-Kerim al grado di sceicco, lasciandogli la libertà di ritirarsi in quella città che meglio gli convenisse.

FINE.

INDICE

PARTE PRIMA.

Greci e Arabi.

  CAPITOLO I. Il fidanzamento di Elenka Pag. 5
      » II. L'almea » 16
      » III. I due rivali » 27
      » IV. Nel mezzo di un bosco » 36
      » V. Il rapitore » 43
      » VI. Il duello » 54
      » VII. Fit-Debbeud » 65
      » VIII. Il prigioniero » 76
      » IX. Elenka » 88
      » X. Le due rivali » 100
      » XI. La vendetta di Elenka » 109
      » XII. Il salvatore » 119
      » XIII. Il delatore » 130
      » XIV. La caccia all'almea » 140

PARTE SECONDA.

L'insurrezione del Sudan.

  CAPITOLO I. Omar Pag. 149
      » II. Fathma » 158
      » III. Il reis Ibrahim » 165
      » IV. Omar e Fathma » 172
      » V. La fuga » 181
      » VI. La Dahabiad di Notis » 187
      » VII. Gl'insorti » 198
      » VIII. La zattera » 207
      » IX. Lo scièk Abù-El-Nèmr » 217
      » X. La pianura dei Leoni » 230
      » XI. O'Donovan » 242
      » XII. L'esercito egiziano » 250
      » XIII. Lo schiavo di Elenka » 258
      » XIV. L'appuntamento » 271
      » XV. Due tigri » 280
      » XVI. Il massacro di Kasghill » 290

PARTE TERZA.

Il Mahdi.

  CAPITOLO I. I prigionieri Pag. 301
      » II. Il Mahdi » 310
      » III. Il supplizio dei prigionieri » 322
      » IV. Il delatore » 329
      » V. La tortura » 336
      » VI. Lo scièk Abù-El-Nèmr » 346
      » VII. Un morto che risuscita » 357
      » VIII. Notis in trappola » 367
      » IX. La zeribak dei prigionieri » 378
      » X. Il Mahdi e la sua Favorita » 385
      » XI. Il perdono » 395

Conclusione » 406

Milano—CASA EDITRICE BIETTI—Milano

Dello stesso Autore

DUEMILA LEGHE SOTTO L'AMERICA

Ricco volume in 16^o di circa 250 pagine con elegante copertina a colori.

NOTA DEL TRASCRITTORE: L'edizione è zeppa di refusi, sgrammaticature, varianti ortografiche. Abbiamo effettuate le seguenti correzioni (oltre ad alcune correzioni di ovvii errori di punteggiatura). che no apparivano poter essere (pur discutibili) scelte dell'autore. L'originale è in [parentesi].

stravolti. Mai[Ma] aveva udito parlare Abd-el-Kerim con che continuava a cantare frammischiando alla sua[tua] Abd-el[Ahd-el]-Kerim esitò, poi raccolse la carabina che lo schiavo e il cammello, perciò[ciò] la feci salire sul mio. —Tu ti perdi, Abd-el-Kerim[Kenim], gli disse con dolce raccolse nella[nelle] pianura dopo aver ucciso il leone che non ti risparmierò[rispiarmerò]! —All'inferno, interruppe, Notis ironicamente[irronicamente]. —Ah! esclamò[eslamò] con indefinibile accento d'odio. Sei servì Notis[Nosti], che le assalì vigorosamente inaffiandole e si guardò[guandò] indietro per essere pronto a prendere —Bravo arabo, disse lo sceicco[sciecco] sorridendo. Si Lo sceicco s'inumidì le labbra con una tazza[tassa] di come una tigre verso la fessura, ma le forze gli[le] vennero si rovesciò in causa di uno scontro con un battello[batello] —Per Fathma[Fatma]! divora carne ed io gli[li] darò da divorare la carne di fissi su due uomini[unmini] che si dirigevano a lenti passi cadde al suolo colle[collo] cervella schizzanti dal cranio colpo di corbach[corback] che tracciò una riga violacea. e ora un brontolìo[bontrolìo] rauco; ora erano i gemiti risa. Fathma[Fatma] fe' atto di slanciarsi, ma l'animale, al durante il quale Fathma[Fatma] non ardì mai muoversi Fathma[Fatma] gettò un urlo straziante, terribile e s'abbandonò D'un tratto si trovò[trovo] in presenza di una parete dal quale era partito il grido e sbucò[sbuccò] in una piccola Lo sconosciuto entrò e trovò Dhafar[Dahfar] pascià in —Ma chi mai? chiese Abd-el-Kerim[Herim] che nondimeno —Credi a me, dimenticala[dimentichela]. Essa è una spia. sparve in mezzo ai campi di durah[durak] e alle foreste gli jatagan[jatang] in mano. enormi coccodrilli sollevando colle possenti[sollevando possenti] —Un greco che amava alla follìa Fathma[Fatma] e la galleggianti, e andò a gettar l'ancora[acora] nel luogo principe te e i tuoi battellieri[battelieri]. Man mano che si avanzava[avvanzava], il paese cangiava Guardò attentamente[attentameate] la riva opposta e gli alberi —E sanno almeno dove trovasi l'armata di Hicks[Kicks] —Si, io, perchè te lo schianterò[scianterò] di nuovo quel Il vecchio reis Ibrahim[Ibraim], lasciato che fu da Notis, Bahr-el-Abiad[Barh-el-Abiad]. Come tu me lo conduci così legato. —Si trova ancora sulla dahabiad[dahabiah] quest'uomo? strato[r'to] di tabacco. —Eccomi a voi, amici miei[mei], disse avvicinandosi. entro. Una lampada illuminava fiocamente[fioccamente] la stanza capo di giuocarci qualche tradimento, non riusciranno[riusciremo] Era la mezzanotte[mezzantte], quando i superstiti della spedizione fatte portare in coperta tutte le armi trovate[tovate] nella Daùd[Daud] alzò gli occhi e vide una gran barca che —Olà, Abu Scioqah! gridò Daùd[Daud] facendo portavoce — Daùd[Daud]. Da dove venite? di Gez-Hagiba[Gez-Agiba], isola assai allungata che e bersagliavano con una precisione[precisone] terribile e che lì organizzassero una[uno] seconda e assai e di isolette boscose[bascose] sulle quali russavano fragorosamente bande d'enormi ippopotami e sonnecchiavano[sonnecchievano] —Noi lo capiremo[capremo], padrona, disse Omar, e fra non che formavano inestricabili reti fra i banchi subacquei[subaquiei]. grossissimi [grosssissimi], con brevi gambe, forti ali, coda rotonda di Duêm [H- Duêm]. Fathma avrebbe voluto scendere a I[Il] ribelli arrivano a decine, a dozzine, a ventine, con Daùd[Daud] nella corrente, andando a ridosso uno scricchiolìo[scricciolìo] sinistro, fremette, ondeggiò, poi scimitarre, alcuni vasi di merissak[merissak] del kèsra, (sorta più ardito allungò le mascelle spalancate[spalancata] verso di Mahdi? Fathma ripieghiamoci sul fiume prima che capitino[capitano] —Povero Ahmed [Amed], mormorò Fathma con un rauco Omar e Fathma [Fatma] nell'udire quell'atroce comando, —Aiuto Abù-el-Nèmr[Nemr]! Aiuto! urlò ella. Obeid sono occupati dalle bando di Mohamed Ahmed[Amed]. —Sta bene, Fathma. Olà Mustafah! [Mustanfah] subito che quei cani di ribelli ti dessero [dassero] la caccia. —E il Mahdi duecentomila[duecentomile]. Sai che ho una paura che chi morrà combattendo[combattento] per la santa causa andrà Fathma additò al capo giallàba una gran zeribak[zeribk] Dopo di aver a lungo discusso sulla [lungo sulla] via da tenersi all'indomani, —Mi schiantò l'anima, involontariamente[involontariamante] forse, —Gran[Gra] Dio! Che gli sia toccata una qualche disgrazia!… slanciandosi dietro ai fuggiaschi[fugigaschi], agitando freneticamente miserabili tugul conici[comici], circondati da pochi pozzi e —Che ci portate? chiese Fathma affettando[effettando] una guardavan l'un l'altro sorpresi, non potendo [poteao] credere ufficiali, dello stato maggiore e quelle dei generali [genenerali] —Tanti ma sempre pochi, disse O'Donovan[O'Donnovan] con —Si fa partenza forse? chiese O'Donovan [O'Donavan]. —È[E] cosa certa, disse il generale. —E sia, aspetterò[apetterò] la mezzanotte, L'ora sarà più wiscky che trovò in una fiaschetta e ne fece trangugiare [tranguggiare] —I due pascià non s'intendono sulla via da scegliersi[sciegliersi] marcerà [marcierà] su El-Obeid e l'altro su Melbass. disse tristemente [tristmente] O'Donovan. Lo vedrete, Fathma, —Dove si trova il mio [me] povero Abd-el-Kerim? lo scièk[sciek] Tell-Afab avrà soggiogato quei miserabili abbandonassi per sempre Abd-el-Kerim, mi lasceresti [lascieresti] —Sì[Si], generosa come un'araba, generosa come il La greca volse il capo dietro di sè, vide l'abisso[abbisso] di tromba e il rullo [rulla] dei tamburi diventavano più —E O'Donovan [D'Onovan]? generale del Mahdi Ahmed[Ahmel] Mohammed. —Non è [No nè] ancora sera, Fathma. I cammelli e i cavalli dei convogli vennero[vennere] legati contro i disgraziati che [del] Hicks pascià conduceva A mezzanotte urla strazianti s'udirono a destra[destrai] all'impazzata verso i muli, i cammelli [camelli] e —Il quadrato del colonnello [colonello] Farquhard è stato distrutto. quadrato ingombro[imgombro] di morti e di moribondi, di armi, un furioso strepitare di noggàra[1] e di darabùke[darabuke], una vastissima zeribak [seribak] con solide palizzate. I prigionieri —Chi ha ucciso questo scièk[sciek]? gridò. un tramezzo [tramesso] di pelle e che era assai miseramente e poco prima dell'agosto 1881, dichiarava[dichiaravo] di essere all'appello del Mahdi[Mhadi]. insurezionali [insurezzionali], intimò al Mahdi di recarsi a Chartum. Ahmed Mohammed [Mohadmmed], nel vedersi innanzi i] tenente si sentono affascinati [afascinati] dallo sguardo dei serpenti. —È la testa di Hicks [Hisks] pascià[1]. Io ho distrutto all'inferno: è la punizione [punizioni] di coloro che rimangono Poi volgendosi verso l'iman [imau] inginocchiato: L'iman [imau] uscì coll'orribile sacco sulle spalle. Nella morte? chiese Ahmed con sorpresa[sopresa]. scièk [sciek] e bisogna che io lo vendichi. —Farò tutto [tutti] quello che vorrai. E i mei compagni —Nessuna. [Nessuno] spesso venivano coperti [coperte] da urla disperate. Zuffe accanite —Qualche ufficiale preso a Kasghill[Kahghill]. —Eh!… esclamò d'improvviso il beduino[debuino] saltando addosso e aizzando il bufalo [buffalo] con spaventevoli —A morte l'arabo! gridò [grido] per la terza volta la I guerrieri caddero [caddere] col volto nella polvere. Solo sceicco[sciecco] El-Mactud, sfilavano come ombre fra le tende, fra i tugul[tubul], fra che combatterono a Kasghill[Kasghil] e sul Bahr-el-Abiad, —E[A] quello che conduci? I noggàra[noggara] battevano la sveglia, quando venticinque Non lo rialzò [rialzo] che quando si trovò dinanzi al Yokara [Yòkara], il gigantesco carnefice, balzò nella stanza da lei a Hossanieh[Hossienieh], che mi fu rapita? agitando le dita calcinate e gemendo [gemente] ancor più lugubremente. Yokara [Yòkara] a quel comando impugnò un grosso staffile, Yokara [Yòkara] slegò Abd-el-Kerim che non respirava quasi riversarsi verso [perso] il sud ripetendo il grido. che si era fermato ai piedi della collina circondato [corcondato] posi sulle mie braccia, lo trasportai [strasportai] nel mio campo poi cacciossi in mezzo al [ai] tugul e alle tende sinistramente ripetè [la ripetè]. questo abisso [abbisso] poichè so che sarebbe impossibile, ma gli cadde all'indietro [all'indiero] battendo in terra con sordo rumore. tu bene conosci; io seguo lo scièk [scièh] con Medinek. filiale [figliale] dello missioni cattoliche di Chartum, tutta Persino i guerrieri [guerieri] del Mahdi che accampavano Abù-el-Nèmr spostò un lembo di siepe che racchiudeva[racciudeva] le canne inzuppate [insuppate] d'acqua, e lentamente, con infinite —Respiro, Abù-el-Nèmr. Avevo paura che[paurache] fosse. dietro [diero] un colpo di pistola. dai denti delle jene e degli sciacalli, giacciono [giaciono] Omar gli prese i piedi e li accostò [accosto] alla dei tugul e contorcendo i rami degli alberi[aberi] e le sviluppate. Un piccolo tarbusch [tarbüsch] coprivale Un singulto lacerò il petto di Ahmed[Amed]. Egli portò di Kasghill[Kaghgill] era scomparso dal campo e alcuni dissero che aveva afferratisi a mezzo corpo, rotolarono[rotolorono] a terra urlando —Fathma[Fatma] è salva! petto, e guardò[guardo]. Un cavaliere era apparso sulla