The Project Gutenberg eBook of L'indomani

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Title: L'indomani

Author: Neera

Release date: July 9, 2007 [eBook #22020]
Most recently updated: January 2, 2021

Language: Italian

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK L'INDOMANI ***

Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the

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Neera

L'INDOMANI
PRIMA EDIZIONE

  MILANO
  LIBRERIA EDITRICE GALLI
  DI
  CHIESA & GUINDANI
  =Lipsia= e =Vienna=, F. A. Brockhaus—=Berlino= A. Asher e C.
  =Parigi=, Veuve Boyveau—=Napoli= Ernesto Alfossi.

1889

L'INDOMANI

DELLA MEDESIMA AUTRICE

  =Vecchie catene= L. 2—
  =Novelle gaie= » 3—
  =Il castigo= » 3—
  =Un nido= (terza edizione) » 2—
  =Iride= (nuove novelle) » 4—
  =La freccia del parto= » 2 50
  =Un romanzo= » 3—
  =La Regaldina= » 2—
  =Addio= (quarta edizione) » 2—
  =Teresa= (quarta edizione) » 2—
  =Lydia= (secondo migliaio) » 4—
  =Il marito dell'amica= (seconda ediz.) » 3—

(Diritti di traduzione riservati).

Neera

L'INDOMANI

PRIMA EDIZIONE

    MILANO
    LIBRERIA EDITRICE GALLI
    DI
    CHIESA & GUINDANI
    =Lipsia= e =Vienna=, F.A. Brockhaus—=Berlino=, A. Asher e C.
    =Parigi=, Veuve Boyveau—=Napoli=, Ernesto Anfossi

1889

Proprietà letteraria.

Milano. Tip. Lombardi.

Ho pensato che qualche persona potrebbe arricciare il naso davanti a questo indomani, vocabolo non accettato da tutti; e qualche critico, come succede a volte, concentrare tutto il suo acume sul frontispizio, defraudando l'opera di quell'esame intelligente che è il miglior premio cui aspiri lo scrittore.

Cambiare l'indomani con il domani non era cosa difficile, se a quel primo vocabolo, sortomi spontaneamente nel cervello col concetto stesso dell'opera, io non ci avessi tenuto con una specie di simpatia superstiziosa; oltre che mi sembra più snello, più vivo, più efficace, più preciso.

Decisi però di chiedere un consiglio, anzi ne chiesi parecchi, col risultato di allargare la cerchia dei dubbi; perchè i partigiani del domani _e dell'_indomani si moltiplicarono senza fondersi.

Avevo, è vero, Manzoni dalla mia, per il fatto che nei Promessi sposi si trova l'indomani, e con tale alleato mi potevo mettere in guerra; ma volli ancora sentire il parere di un dotto giovane, valente e noto poeta, che da Roma manda in giro tratto tratto versi squisiti di pensieri e di forma; ed ecco la risposta:

«L'indomani ha avuto molti accusatori tra i quali Fanfani, e molti difensori tra i quali Nannucci e Gherardini. Ne fece uso anche qualche scrittore autorevole. Io penso che, mentre il domani esprime meglio un giorno determinato, l'indomani esprime meglio un tempo continuato; non è più il preciso avverbio, ma un vero sostantivo. La preposizione in gli dà questo senso, nè so vedere, essendone l'etimologia puramente classica, perchè lo si dovrebbe bandire, costringendo la parola domani a significare un concetto che invece ha la sua propria espressione nella parola l'indomani.»

* * *

Nello schiudersi delle palpebre gli occhi di Marta, per abitudine, cercarono la nota cameretta; ma prima ancora che le pareti, i mobili e l'ampio letto la facessero avvertita del cambiamento, il cuore le sussultò. Ella era sposa.

Guardò subito suo marito. Alberto dormiva, coi lineamenti calmi, le guancie soffuse di un roseo colorito, così infantilmente placido e sereno che la barba sembrava uno scherzo intorno al suo volto. Marta lo guardò a lungo, intensamente, vedendo sfuggire in quel sonno ostinato una delle sue più antiche fantasie d'amore, ma pur lieta di vegliare e quasi di proteggere quel sonno, presa da una tenerezza materna nella quale fondevasi la malinconia di un pensiero occulto.

Certo ella non poteva rimproverare a suo marito di non essersi svegliato prima di lei; fors'anche era meglio così; sì, sì meglio. Un altro ordine di idee la incalzò vivamente, facendola scivolare giù dal letto con una sollecitudine che somigliava ad una fuga.

E intanto che si vestiva, adagio, nella penombra della camera, prendeva intiero possesso della sua posizione di donna maritata, guardando l'anello d'oro che le scintillava alla mano sinistra, avendo paura di perderlo nell'infilare le maniche e studiando il problema se dovesse toglierselo o no prima di lavarsi. Perchè ella voleva poi continuare tutta la vita quello che avrebbe fatto il primo giorno; era amica dell'ordine e del sistema; voleva essere una buona donnina come la sua mamma e come tanti modelli di spose letti nei romanzi inglesi.

Il sogno della sua ardente giovinezza si era avverato a puntino; un uomo giovane, simpatico, onesto, l'aveva chiesta in moglie, le aveva dato il suo nome, la conduceva con sè; l'amava dunque. Era l'amore ideale, vero, indistruttibile—forte come la morte.—La grandiosità del paragone biblico la commosse; sentì uno slancio di profonda riconoscenza per Alberto, che le dava tutto ciò e chinatasi lieve lieve depose un bacio tenerissimo sulla mano che suo marito teneva allungata fuori della rimboccatura.

Era però strano ch'ella si trovasse chiusa nella stessa camera con un uomo che due mesi prima non conosceva neppure; che fino alla settimana scorsa non le aveva dato del tu; ch'ella aveva sempre visto in circolo con la mamma, coi parenti; del quale non sapeva il passato, e ne ignorava i gusti, le abitudini, gli affetti, le ripugnanze. Ella che era stata allevata nell'idea intangibile del pudore femminino, che non avrebbe mostrato le spalle ad un fratello, ad un zio, aveva pur dormito con quest'uomo!

Era giusto, legale, approvato dal codice e dalla religione; approvato da lei stessa poichè aveva detto di sì, poichè Alberto le piaceva, poichè aspettava da lui l'amore.

Aspettava! ma intanto si sentiva stordita, come uno che va a tentoni con gli occhi bendati, urtando contro oggetti nuovi e indefiniti, udendo la voce dei compagni che gli gridano: avanti, niente paura!

Quando le avevano presentato Alberto, Marta che aveva ventitrè anni, che era intelligente e seria, comprese subito alle ansie della mamma, allo sguardo scrutatore di lui, che si stava per compiere il grande atto della sua vita.

Quello che non sapeva è che il suo destino veniva messo a partito da parecchi mesi fra cinque o sei candidati scelti e vagliati dalle amiche della mamma, per cui fu successivamente sul punto di diventare la signora De-Martini, con un vedovo, capitano, nobile, uomo d'ordine, discretamente provveduto; oppure la signora Valdranchi, sposando Valdranchi, lo scultore di grido, che non aveva un soldo, ma guadagnava assai, simpatico giovinotto a cui fioccavano le avventure galanti. Si era contemporaneamente preso in considerazione Anselmo Bianchi, negoziante di grani, un po' alla buona, piacente tuttavia e ricco. Tre individualità assolutamente opposte, ma che, presentandosi in forma di marito, offrivano le stesse garanzie di felicità per la sposina, a detta delle amiche.

De-Martini, alto, sottile, biondo, un po' calvo, pieno di distinzione, tranquillo, educatissimo, doveva piacere a Marta. Valdranchi, piccolo, vivo, abituato alle compagnie equivoche, ma col fuoco del genio negli occhi, irrequieto, simpatico, doveva pur piacere a Marta; e non vi era nessuna ragione perchè non potesse piacerle Anselmo Bianchi quantunque non più sul fiore degli anni, sano tuttavia, con una villa quasi principesca, provveduta di una serra immensa, dove Marta avrebbe potuto soddisfare la sua passione per i fiori. Di questo paragrafo fu preso nota con molto interesse nel crocchio delle amiche.

Intanto che si discutevano le probabilità di tali matrimoni, che si era già invitato a pranzo De-Martini, e che si era fatto parlare al signor Bianchi della somma ventura per lui riposta in una brava moglie; quando si stava persuadendo Marta che i capi scarichi sul genere del Valdranchi diventano, alla lunga, i migliori mariti, capitò Alberto Oriani. Guarda—osservò una cugina—che bella combinazione, Oriani! E Marta è Oldofredi; non cambierebbe nemmeno le iniziali. Su questa felice scoperta si incominciarono le trattative.

Alberto Oriani non era nuovo del tutto per la famiglia Oldofredi; la mamma lo aveva conosciuto dieci anni prima; e poi a scuola, una Oriani faceva lo stesso corso con lei, oh! si rammentava benissimo; una morettina dagli occhi fulminei.

Alberto viveva in campagna, sorvegliando un suo podere; solo, agiato, galantuomo, trentasette anni, la stanchezza del celibato, il desiderio chiaramente espresso di prender moglie per finirla con la vitaccia di scapolo. La mamma, i parenti, le amiche si guardarono in faccia e gridarono: È lui!

Come poi Marta lo vide, parve il caso. Dopo aver passato tutta una sera a teatro, avente al proprio fianco un giovanotto bruno, amabile, con una vaniglia all'occhiello che odorava deliziosamente; dopo essersi accordati sul merito della commedia e sugli abiti della prima attrice, creando così una specie di simpatica intesa, di accordo morale, Marta non ebbe nessuna ripugnanza a rivederlo, due giorni dopo, uscendo dalla messa, e altri due giorni ancora accolto in casa, da amico.

Quando fu il momento di decidersi, ognuno le fece osservare, ed osservò ella stessa per quel po' d'esperienza che aveva, la singolare fortuna sua nella media generale delle fanciulle; molte fra le quali si maritano tardi, spoetizzate e già avvizzite; altre non si maritano affatto; chi deve accontentarsi di un vecchio, chi di un vedovo, chi di uno un po' corto a cervello, chi di uno spiantato o di un balbuziente o di un mezzo tisico perchè—dicono le persone assennate—tutto non si può avere.

Alberto aveva tutto o quasi, Marta dovette pur convenirne; e si rallegrò seco stessa dalla buona ventura ed accettò con entusiasmo; entusiasmo che non era precisamente per Alberto, ma per l'avvenire che Alberto le avrebbe dato. Lo sapeva anche lei che così, subito, non potevano amarsi; l'oggi non era che una preparazione; il domani solo le avrebbe aperte le porte misteriose dell'amore.

A questo bene futuro Marta tendeva avidamente il cuore e le braccia, in mezzo ai preparativi febbrili delle nozze; indifferente alla gioia dei doni, toccando con mano distratta i ricami e le trine del corredo, sorridendo lievemente agli auguri, non gustando, non afferrando quei lembi, quelle particelle di felicità che le roteavano intorno, con gli occhi fissi alla meta. Nè le gentilezze di Alberto, nè il bacio che, presente la mamma, le imprimeva sulla mano e gli ultimi giorni sulla guancia, la toccavano molto. Dopo—ella pensava—quando ci ameremo davvero, quando saremo soli!

A quindici anni Marta aveva avuta la prima preoccupazione d'amore; null'altro che un fremito, una lunga stretta di mano, uno sguardo che la fece trasalire; e poi molte notti d'insonnia, molte ore di tristezza, molte lagrime sparse in segreto; nessuna ebbrezza amorosa, ma l'intuizione di tutte le ebbrezze. Ed era finito così.

Più tardi, in società, le era occorso di fissare a preferenza gli occhi in certi dati occhi, di ballare volentieri con un giovane piuttosto che con un altro; ma siccome ella non poteva andare incontro a questi sprazzi d'amore, nè sollecitarli, nè abbandonarvisi, erano passati otto anni, vuoti in apparenza e freddi.

Qualunque fossero stati i sogni, i desideri, le speranze, l'attesa degli otto anni trascorsi, tutto doveva ora avere compimento. Nella pienezza del suo sviluppo di donna, l'anima, i sensi, il pensiero chiedevano la loro parte a Marta, che ripeteva trepidando: dopo! dopo!

L'altare, il municipio, la mamma che piangeva, la partenza dalla casa paterna, ella vide tutto ciò ravvolto in una nube; una delle tante nubi che avvicendandosi, sciogliendosi, riunendosi di nuovo sotto forme ed aspetti differenti, le toglievano la percezione del vero, di quell'unico punto essenziale dove ella figgeva gli occhi e che le veniva sempre conteso. Non era mai stata sola con Alberto; quando si trovavano insieme avevano una quantità di discorsi già preparati; il tappezziere, la sarta, l'orefice, gli inviti, l'orario del viaggio.

Alberto correva avanti e indietro, affaccendato, con un fascio di carte da controllare, da firmare; sempre sereno ed ilare.

È un angelo di bontà! esclamava la mamma. Marta lo guardava intensamente, fino in fondo agli occhi, sì ch'egli diceva ridendo: Eh! mi vuoi magnetizzare!

Finiranno questi trambusti, pensava Marta; egli sarà mio, tutto mio; ancora due giorni, un giorno, un'ora….

Marta si vestiva adagio, in piedi nel corsello; allacciando a malincuore il nastrino rosa della sua bella camicia da sposa, fermandosi a guardare il fogliame dei trafori che spiccava in rilievo sopra un fondo di piccole stelle.

Una delle sue preoccupazioni, prima di maritarsi, era stata quella di dover mostrare le braccia ad Alberto, i suoi braccini esili di bimba cresciuta presto. Fortuna, pensò, che non li ha nemmeno visti!

Strinse il busto, nuovo fiammante, punteggiato di seta bianca; allacciò sui fianchi un amore di gonnellino tutto a balze ricamate sopra un trasparente di flanella rosea—una gonnella pericolosa—aveva detto la mamma. Perchè? Infilò le calze, gli stivaletti, l'abito; era vestita.

Tornò a guardare Alberto e la riprese la commozione; una strana commozione fatta di desiderio e di rimpianto, di tenerezza ardentissima e di un freddo pauroso.—Oh! Alberto—mormorò con le mani giunte—se io mi fossi sbagliata, se non dovessi comprenderti…

La serietà della sua educazione e del suo temperamento sorgeva rigorosa in lei, inalberando il fantasma del dovere. Le pastoie dell'immaginazione dovevano scomparire davanti al compito austero della vita; assumeva ora una sacra missione, aveva in pugno la felicità e l'onore di quell'uomo, gli doveva tutto l'affetto, tutta l'ubbidienza, tutti i sacrifici. Si era sposata, era cosa sua.

Come avrebbe voluto fare qualche cosa di grande, di eroico, per mostrare la sua forza di amore! Fuggire dal mondo, seppellirsi viva in un deserto, rinunciare a tutto, ma coll'amore di Alberto, di quel bel giovane che ella si struggeva d'amare, al quale chiedeva ancora con un pauroso sgomento il responso della sua felicità.

Muta accanto al letto, sognava ebbrezze sconosciute, rapimenti lontani, indefiniti, pur temendo di risvegliare Alberto, guatandolo furtiva. Egli aveva un volto regolarissimo, il profilo nobile e puro; una fossetta nel mento, la barba morbida e fluente, divisa alla nazarena. I capelli vaporosi prendevano con la pressione del guanciale cento forme, improvvisando riccioli fanciulleschi, circondando capricciosamente l'orecchio di una delicatezza femminea.

Ma egli a che cosa pensava? Quali visioni gli attraversavano il sonno? Aveva sempre dormito così su un fianco, con un braccio sotto la testa, l'altro allungato? Così roseo, così calmo? Che cosa chiudeva la sfinge di quel bel volto e quando mai ella potrebbe, penetrandogli nell'anima, chiamarlo veramente suo?

Ella avrebbe tanto volontieri squarciata la sua mente e il suo cuore davanti a lui, per mostrargli che ne era compresa; per un bisogno irresistibile di fusione, che l'avvicinamento materiale aveva irritato senza soddisfare. No, non poteva essere sempre così e niente altro che così! Marta si sentiva ancora delle bende sugli occhi, dei lacci alle mani; andava ancora tentoni, non possedeva ancora l'amore, non aveva ancora afferrato il vero.

Un movimento di Alberto la scosse, e con naturale senso di pudore non volle essere scoperta a rimirarlo. Mosse verso la finestra da cui penetrava il gaio sole di marzo; alzò le tendine che coprivano i vetri e dette uno sguardo alla via; l'ignota via di quella città. Era un vicolo che metteva direttamente al porto, affollato in quell'ora da carretti, da facchini e da pescivendoli, i quali tutti vociferavano in un dialetto che Marta non capiva. Dette uno sguardo alle finestre dirimpetto, basse, prive di persiane, tutte munite di funi, sulle quali svolazzavano, asciugando, le biancherie.

Questo aspetto di città, così differente dalla sua città nativa, la interessò senza piacerle; sollevò gli occhi, e, attraverso una fuga grigia e malinconica di tetti d'ardesia, lontano, nello splendore del mattino, scorse la linea azzurra del mare, grandioso e fantastico nella sua calma, con qualche cosa di sognato, di immateriale, di al di là….

* * *

La carrozzella, dopo di avere accolti i due viaggiatori, il baule, le ombrelle e la piccola borsa di cuoio che Marta collocò con precauzione accanto a sè, mosse per il viale verde.

Finalmente!—pensava Marta—tocco il porto entro nel mio nido.

Era pur stanca di città, di alberghi, di monumenti, di musei, di pinacoteche. Le Veneri che aveva viste, trionfanti nella loro nudità superba; le Lede voluttuose, le Diane innamorate, uno sciame di ninfe, un Olimpo di dee, tutte parlanti al senso della donna, proclamando per la via dell'arte l'impero della bellezza, le avevano lasciato uno sconforto e insieme un desiderio, una grande disillusione ed una curiosità più grande ancora.

—Dimmi—disse, stringendosi ad Alberto, poichè in quella carrozza che le apparteneva, le sembrava già d'essere a casa loro—la prima volta che mi hai vista, quella sera, in teatro, ti piacqui subito?

—Subito—rispose Alberto, levando un virginia dal suo elegante portasigari.

—Ti piacque il mio volto?

—Sì.

—E la mia figura?

—Sì.

—E la voce?

—Tutto. Io dissi fra me: Ecco una brava mogliettina.

Marta rimase sopra pensiero.—Egli le chiese se stesse comoda, se volesse uno scialle sui ginocchi, ed avendo ella accennato negativamente col capo, accese il virginia sorridendo, preso dal benessere di quella trottata.

—E dopo, tornando a casa, ci hai pensato?—mormorò Marta, col viso sulla spalla di lui.

—A che cosa?

—Nulla, nulla, una sciocchezza.

Il paesaggio si allargava ad ogni svolto della strada, ampio, sereno, intersecato da viottoli bianchi che si perdevano indefinitamente da lungi, sotto l'ombrello delle robinie. Il terreno leggermente ondulato univa la pianura ai monti, i quali si ripiegavano su di essa, al confine, a guisa di una legatura che stringe la perla. In giro, fin dove l'occhio scorreva, una pace di campi ubertosi, di radi e lindi casolari, di mulini giranti sopra ruscelli dalle acque cristalline. Un asinello sul bianco dei sentieri, una mucca nel verde dei prati e al di sopra il cielo soleggiato.

Quante cose voleva chiedere Marta, guardando l'interno della carrozza rimessa a nuovo in onor suo, con una bella stoffa di color turchino, i sedili imbottiti di fresco, il tappeto a rose! I suoi occhi, girando sul cocchiere campagnuolo che, a casa, doveva disimpegnare altre funzioni, si arrestarono sul cavallo.

—Come si chiama? È bello nevvero? Io non ho mai posseduto cavalli e non me ne intendo affatto.

—Anzitutto è una cavalla—rispose Alberto allegramente—si chiama Bigetta, non vanta grandi bellezze, ma mi appartiene da quattro anni e mi serve bene. Non è vero, Gerolamo?

Gerolamo, dal suo posto, schioccò la frusta, assentendo.

Marta pensò che lei, la moglie, era la straniera fra il padrone, il servitore e la cavalla. Suo marito e Gerolamo potevano intendersi con una occhiata sopra una quantità di avvenimenti a lei sconosciuti; e la cavalla stessa, quante carezze non aveva avute da Alberto prima, assai prima che ella lo conoscesse! Tutto un passato li divideva dunque, mentre ella avrebbe voluto fondersi con lui, immedesimarsi, formare una cosa sola. Che altro se non ciò doveva essere l'amore?

—C'è molto prima di arrivare?—chiese mortificata quasi di non saperlo.

—Tre chilometri circa li abbiamo fatti, ne restano cinque. Fra mezz'ora saremo a casa. L'Appollonia ci aspetterà.

Almeno ella sapeva che Appollonia era la serva. Ne avevano già parlato; suo marito gliel'aveva dipinta come una buona campagnuola affezionata e fedele. Ma in quel momento volle sapere se l'Appollonia era bella e lo domandò a voce alta; al che Alberto rispose con uno scroscio di risa, a cui fece eco una specie di singhiozzo giulivo da parte di Gerolamo, così che Marta stessa si pose a ridere infantilmente, con molto piacere di suo marito, il quale amava le persone di buon umore.

—Vedrai—soggiunse Alberto a sua moglie, toccandole la spalla da buon camerata—anderai subito d'accordo con tutti, brava gente, ottima gente. Il dottorone già, curioso, vorrà vederti per il primo.

—C'è un dottore curioso?

—Curioso proprio no, ma in questo caso sarà curioso, perchè mi conosce da bambino e mi ha già avvertito che vuoi farti la corte. Te ne intendi tu di poesia? E di cucina? Se hai sulle dita questi due argomenti, il dottore è tuo.

—E con gli ammalati parla di poesia?

—Egli non fa visite a nessun ammalato; non s'intende nemmeno del polso. Deve aver studiato medicina trent'anni fa, e per questo lo chiamano dottore; ma poi ha fatto un po' di tutto, il signore, il poeta, il cospiratore, il gaudente, il soldato, tutto fuorchè il medico. È un originale, un essere squilibrato. A volte parla troppo, a volte tace dei giorni intieri. Ma se hai da insegnargli qualche piatto ghiotto, parlerà.

Intanto che Alberto schizzava il profilo del suo amico, Marta, che in venti o venticinque giorni di matrimonio non si era ancora saziata di guardarlo, seguiva i movimenti della sua bocca, de' suoi occhi, la pozzetta graziosissima che il sorriso scavava nella sua guancia sinistra. Mirava ad uno ad uno i peli dei suoi baffi e l'arricciatura morbida della barba nella quale egli faceva spesso passare la mano, seguendo quella mano, attaccandosi a lui per tutti i sensi, sentendosi sempre troppo lontana. A poco a poco gli si era accostata, muta, ansando lievemente col petto. Alberto allora si ritirò nell'angolo della carrozza, gentilmente, per farle posto.

—Passa il signor Merelli—disse Gerolamo senza voltarsi, con la sua voce da ventriloquo.

Ma Alberto l'udì. Si sporse vivamente fuori della carrozza sbracciandosi verso due individui che costeggiavano la strada maestra. I due si levarono il cappello.

—Salite?

—No, grazie. Ben arrivato.

Nuovo saluto alla signora.

—Nessuna novità?

—Nessuna.

—A rivederci.

Terzo saluto.

—Ah! cari—esclamò Alberto abbandonandosi sui cuscini della vettura—quel capo ameno di Merelli, quel simpaticone di un farmacista!

Tanto per dire qualche cosa, per interessarsi anche lei a quello che interessava suo marito, Marta chiese:

—Sono tuoi amici?

—Merelli sì, Merelli fin dal ginnasio; abbiamo fatto la quarta e la quinta insieme. Fu lui che il giorno onomastico del professore… Ah! ma tu non sai, non sai, che bel matto!

—E l'altro?

—L'altro è il farmacista, Toniolo: quello che mi diceva sempre: prendi moglie, alla nostra età è ancora il meglio che si possa fare.

Il piacere di aver riveduto i suoi amici, di riprendere le antiche abitudini, coloriva il volto di Alberto e faceva luccicare i suoi occhi piccoli e buoni. Egli si fregava i ginocchi colle mani, guardando la coda della cavalla.

Marta si rimproverava di non partecipare a quella gioia, di provare invece una impressione di tristezza, quasi d'invidia. Le venne in mente sua madre, sua madre ch'ella aveva un poco dimenticata durante il viaggio, e che da piccina le diceva e da grande le ripeteva: «Marta sei troppo impressionabile, troppo esclusiva, senti troppo, pensi troppo. Ciò non conduce alla felicità.» Parole che ella aveva ritenute come un'aria da organetto e che ora le tornavano alla mente, ma più chiare, della chiarezza improvvisa di un lume che s'accende. Volendo vincersi, volendo uscire da quell'esclusivismo che, a detta di sua madre, non l'avrebbe resa felice, guardò intorno la bella campagna, gli alberi, le siepi entro cui svolazzavano le farfalle.

—Ti piacciono questi luoghi? domandò Alberto.

—Sì, molto.

—Io non posso vedermi altrove. In città sto bene otto giorni, poi sento la nostalgia de' miei campi.

—A me pare che starei bene dovunque con te.

—Cara!

Egli disse: cara. Non era una dolce parola? Perchè Marta non esultò? Perchè rimase fredda in apparenza e muta? Ella ascoltava ancora, ripercosso nell'aria e nel suo orecchio, il suono uguale, identico a quello di un momento prima, quando aveva detto: cari! E le pareva una stonatura, una nota falsa che alterasse il valore della parola. Si chinò verso di lui, con la bocca contro il suo collo, mormorandogli nel folto dei capelli: Caro! caro! caro!

Egli la respinse vivamente, indicando Gerolamo. Marta alzò le spalle.

Sarebbe stato così bello baciarsi, lì, sotto il cielo fulgido, intanto che la carrozzella correva! Chi li avrebbe visti? E quand'anche! Tornò a guardare la strada che fuggiva, guardò gli alberi; dal cortile di un cascinale saliva acuto nell'aria il chiocciare di alcune galline. I mandorli fioriti allargavano le braccia, i boccioli dei peschi punteggiavano, nella freschezza rosea di labbra dischiuse, i loro ramoscelli privi ancora di foglie; e delle goccie sparse, rugiada, gomma, lacrime misteriose della natura, luccicavano sopra il verde tenero, frammiste ai fili d'argento che gli aracnidi sospendevano da ramo a ramo.

Il cuore di Marta si gonfiava, pieno di tenerezza, con un bisogno di espandersi, di abbracciare, col segreto desiderio di quelle ferite per cui l'animo trabocca e dilaga in passione, deliri, abbandoni, singhiozzi, tutta la forza rinchiusa, l'intima essenza del sentimento femminile.

Assetata d'amore ella disse a se stessa, stringendosi nel mantello per sentire la carezza del proprio calore. «Egli mi ama, ne sono sicura. Perchè mi avrebbe presa? Mi ama sopra tutte le donne; è mio, tutto mio!» E, sollevata, sorrise a suo marito.

Alberto, che per parte sua non pensava a nulla, fu molto soddisfatto nel vedere che la sua sposina aveva un buon temperamento; questo lo persuase sempre più di aver avuto la mano felice nella scelta.

La cavalla intanto, sentendo prossima la stalla, prese un trotterello giulivo. Già si vedevano da lungi i tetti del paese dominati dal campanile, e, man mano che la carrozza progrediva, qualche cascinale sparso, qualche cane che abbaiava, una fanciulla che conduceva le oche.

—Sono le oche di Gavazzini—disse Gerolamo, indirizzando la sua osservazione alla signora.

—Chi e Gavazzini?

—È il più ricco proprietario del paese—rispose Alberto.

—Tuo amico?

—Non dei più intimi, ma qui si è tutti amici. Del resto egli fa vita ritirata, e sua moglie non si vede mai. Oh! un romanzo! Lei era una istitutrice, fuggirono insieme, andarono in cima di un monte a passare la luna di miele, scrissero i loro amori sulle corteccie degli alberi. Figurati, una volta si punsero apposta un dito per bere il sangue l'uno dell'altro…. quando ti dico romanzi!

Marta si interessava, avrebbe voluto chiedere di più, ma la faccia di Gerolamo, che sembrava quella di un filosofo stoico in mezzo alle follie del mondo, le dava un po' di soggezione.

Incominciarono le prime case allineate, coi portoni aperti, da cui si intravedevano cortili verdeggianti, gruppi di vasi, lunghi anditi freschi, riparati da tendoni a righe; una gonnella svolazzava tra due usci, un visetto curioso spuntava da una finestra, i gatti scodinzolavano sulle sedie di paglia, sbadigliando, socchiudendo gli occhi. Più innanzi, nel centro del paese, si aprivano le poche botteghe; il fornaio, il pizzicagnolo, il mercante, il tabaccaio, il calzolaio, il barbiere.

—Ecco la farmacia—disse Alberto.

Marta guardò. Non c'era nessuno sulla soglia; una cortina verde, strofinata e attorcigliata come una fune, lasciava scorgere nell'interno un pezzo di scansia coi barattoli di terraglia bianca e azzurra.

—Ha moglie il farmacista?

—È vedovo; ma la riprenderà. Che cosa deve fare?

—Sicuro—disse Marta, ripetendo macchinalmente tra sè: che cosa deve fare!

—Guarda la casa di Merelli; sul canto di piazza, dipinta in giallo; l'hai vista?

—No, non l'ho vista.

—C'era la serva davanti alla porta.

—No, non l'ho vista. Ha moglie Merelli?

—Sì, ha moglie.

—E la casa di…. di quel signore…. quello che ha bevuto il sangue….

—Gavazzini? Ah! non è qui; è fuori di paese, isolata; più isolata ancora della nostra.

—La nostra è l'ultima, nevvero? È forse questa?

La cavalla rallentò, Gerolamo fece una voltata da cocchiere esperto, e, passando da un cancello spalancato, fermò di botto nel bel mezzo di un cortile vellutato d'erba minuta, con alte muraglie imbrunite dal tempo, su cui si sbizzarriva a rabeschi una lussureggiante glicina, carica di fiori.

L'aspetto generale del fabbricato e del cortile era quello di una vecchia casa borghese, comoda, dove un seguito di generazioni agiate e tranquille si erano succedute senza scosse, senza cambiamenti.

Appollonia corse fuori, tutta traballante nella sua rotondità di pan buffetto, con la facciona lucida raggiante di semplicità, la bocca aperta, le mani sporche di farina.

Marta, nel guardarla, non potè a meno di sorridere, e balzando lesta dalla carrozza gridò:

—Buon giorno, Appollonia.

Furono le prime parole che la nuova padrona pronunciò entrando ne' suoi dominî. Gerolamo ammiccò segretamente Appollonia, con uno stringimento di palpebre che voleva dire: Va bene, va bene! E la grossa serva, sgangherando la bocca fino alle orecchie, mostrò di aver inteso il senso di questa affermazione.

Marta non doveva dimenticare più quel momento del suo arrivo, in un ridente giorno di aprile; i grappoli lilla che fiorivano sui muri, l'erba del cortile, una pace, una serenità diffusa nell'aria, un benessere sicuro che sembrava uscire dalle muraglie della vecchia casa; perfino il volto bonario di Appollonia e il nitrito della cavalla che scuoteva il muso fine sotto le carezze di Gerolamo.

Alberto, senza aspettare ch'ella si levasse il cappello, passò il braccio sotto il braccio di sua moglie e la condusse subito a visitare la casa.

Niente di ricercato nè di pomposo. Una grande comodità in tutto, nella disposizione delle camere, nei mobili, negli ampi seggioloni, nei divani sparsi con abbondanza; una certa ricchezza tradizionale ma tranquilla; buoni quadri, stipi intarsiati, biancheria accuratissima, delle vecchie maioliche di famiglie.

—Queste sedie le ha ricamate mia madre—disse Alberto.

Erano otto sedie di legno chiaro con profili dorati, coperte di ricami a mezzo punto, bellissimi, tutti l'uno differente dall'altro.

Marta le ammirò religiosamente, commossa.

—Questo è il mio ritratto di quando ero bambino.

Marta vi si precipitò sopra, coprendolo di baci e di esclamazioni, portandolo sotto alla finestra per esaminarlo meglio.

—Come è bellino! Care queste spalluccie nude! E che occhietti! E le manine, Dio, che manine… ma avevi le mani così piccole allora?

—Caspita, i bambini!…

Risero entrambi, stringendosi il braccio, felici. Salirono così lo scalone che conduceva al piano superiore.

—Ma è tutto bello qui, sai?

—Sì, non c'è male. È comodo.

Entrarono nella camera da letto. Tre finestroni la illuminavano, facendo penetrare i raggi del sole attraverso un ricco cortinaggio di stoffa a fiori sopra un fondo cilestrino. Della medesima stoffa era il panno del letto, altissimo, ampio, per metà ricoperto di un piumino di seta celeste, sull'orlo del quale ricadeva, accuratamente stirata, la trina del lenzuolo. Sulla pettiniera un'altra trina, nel festone della quale serpeggiava un nastro celeste, faceva da sopporto a un servizio di cristallo, lucentissimo. Sugli specchi, sulle cornici non si scorgeva un atomo di polvere.

—È stata l'Appollonia a preparare queste belle cose?

—Lei, certamente. Vi avrà impiegato tutto il tempo che ci volle a noi per percorrere l'Italia; ma infine, ognuno fa quello che può.

Marta, levandosi il cappello e la spolverina, sedette sul divano che era ai piedi del letto, sentendosi finalmente in casa propria.

—Oh come si sta bene qui!

Tese le mani a suo marito, invitandolo a sedersi anche lui sul divano.
Ora non dubitava più di essere la signora Oriani.

La sua felicità doveva incominciare da quel momento; prima era stata una corsa vertiginosa, contraria all'amore. L'amore ha bisogno di un nido.

Marta sollevò gli occhi, girandoli torno torno come per prendere possesso d'ogni cosa; e quando ebbe ben riguardata la camera, il letto, le cortine a fiori, fissò Alberto con un'estasi tale di riconoscenza, di tenerezza timida e ardente, che egli, un po' sorpreso, la baciò, non sapendo che dire. Ella trasalì tutta, colla speranza di una rivelazione.

—O mio Alberto, mi amerai sempre, sempre?

—Che domanda!

—Dillo!

—Ne dubiti dunque!

—Dillo…—ripetè Marta, stringendosi, avviticchiandosi a lui tutta tremante, con la bocca socchiusa.

Un'ondata di sangue colorì la fronte di Alberto, che rispose per la durata di un attimo alla stretta di sua moglie. Poi si sciolse, dolcemente, ravviandosi i capelli.

—Andiamo—disse—non facciamo ragazzate.

* * *

La prima visita fu per i Merelli; lui, il marito, se l'era fatta promettere solennemente da Alberto, quando questi era ancora fidanzato.

Appena Marta pose il piede nella casa gialla, sul canto di piazza, urtò un cestino dove un bimbo muoveva i primi passi; mentre curvavasi ad accarezzare il bimbo, uscì come un razzo, da una porta laterale, una ragazzotta sui venticinque anni, bruna, ardita, con due occhietti che sembravano granelli di pepe, e senza aspettare che Marta od Alberto parlassero, con facile loquela li invitò ad entrare, dicendo che la padrona li aspettava, che li avrebbe visti tanto volentieri.

Sì dicendo, aperse loro la via attraverso una barricata di seggiole capovolte, di balocchi, di pannilini ammonticchiati, ripetendo ad ogni oggetto rimosso:—Scusino, sono i ragazzi, non si può mai tenere un po' d'ordine, scusino.

Merelli apparve, alto, complesso, coi baffi rigogliosi, la pelle lucida e piena, lo sguardo lucente; una certa eleganza campagnuola negli abiti, che le sue membra riempivano fino a tenderne le cuciture; tutt'insieme, un aspetto di uomo sano e senza fastidi; una voce da toro.

—Giulietta! Giulietta!—si pose a gridare, intanto che aiutava la serva a sgomberare il cammino, sorridendo in pari tempo ai visitatori.

Una faccina da monello, leggermente imbrattata d'inchiostro, uscì curiosa da un paravento.

—Va a chiamare tua madre—tornò a gridare Merelli—sporcaccione!

La servetta era riuscita, in questo frattempo, ad aprire prima l'uscio e poi le finestre del salotto, passando accortamente una mano sulle sedie più in vista, e con atto cerimonioso invitò Marta a prender posto sul divano.

—Ecco mia moglie—disse Merelli andando incontro a una donnina nè bella, nè brutta, col petto liscio, e il ventre sporgente, un profilo da madonna invecchiata troppo presto.

La signora Merelli salutò, un po' impacciata, inesperta, tenendosi per mano una marmocchietta che rosicchiava una crosta di pane.

—La famiglia è tutta qui?—chiese Alberto girando gli occhi.

—Questa e l'Adelina: smetti di mangiare, via! Battistino era là quando sei entrato, dietro il paravento, a farne delle sue; il piccino lo hai visto, nevvero? e tre. La Pina è a letto, un po' indisposta, il quinto è in viaggio…

Dopo questa enumerazione il silenzio gravò, penoso, per cinque minuti.

—Si annoierà in campagna—disse la signora Merelli, con una voce stanca—se è abituata alla città…

—No, no, la vita di noi donne non è nella famiglia?

La signora Merelli assentì, facendo un lieve tentativo per togliere di bocca il pezzo di pane alla piccola Adelina.

—Questo paese poi è simpatico, la posizione è bella… Lei ci è nata?

—Non qui, ma vicino. Mi trovo in questa casa da dieci anni.

—Già dieci anni?

—Molti nevvero? e—soggiunse la signora Merelli con un sorriso rassegnato—in dieci anni cinque figli e quattro aborti…

Marta arrossì. Non era ancora avvezza a queste confidenze di donna maritata. Involontariamente guardò il signor Merelli, poi la piccina, poi si pose ad abbottonarsi un guanto.

Si udivano i respiri delle quattro persone e della personcina.

—Mi pare che non tieni allegri la signora sposa!—tuonò Merelli—e dov'è andata Ninetta? Ninetta!

Con la prontezza di un baleno la serva apparve.

—Prepara il caffè.

Alberto volle protestare, Marta anche.

—Che? disse Ninetta. È subito fatto.

—Non prendo mai caffè—soggiunse Alberto—e mia moglie…

Ninetta intervenne lestamente:

—Un bicchiere di vin bianco allora?

—Brava!—fece Merelli.—Ben pensato; va' a prendere il vin bianco.

Durante la piccola discussione la signora Merelli non s'era mossa, con le mani incrociate sul grembo, dolcemente. La bambina, accanto a lei, rosicchiava il suo pane con un grazioso rumore di topolino sotto un uscio.

Ninetta tornò, sorreggendo con una mano il vassoio carico di bicchieri, coll'altra tenendo la bottiglia.

—Conduci via l'Adelina—le disse piano il signor Merelli—non vuole ubbidire.

La serva rispose con un'occhiata d'intelligenza, ma prima stappò la bottiglia, versò il vin bianco e lo servì, e siccome Marta esitava, ella la incoraggiò, assicurandola che era vino schietto, fatto in casa.

Indi prese per un braccio l'Adelina, scuotendola un poco, mormorandole all'orecchio che era una cattivaccia, e se la trascinò dietro in cucina.

Marta, che pure aveva una certa pratica di società, non trovava una parola. Guardava quella famiglia singolare, cercando inutilmente lo sguardo di suo marito, che sembrava sotto il fascino di Merelli.

—Ha la mamma, nevvero?—chiese ad un tratto la voce fioca della signora Merelli.

—Sì, ho la mamma.

—Il padre no?

—No, sgraziatamente.

—È proprio una disgrazia quando muore il capo di casa!

La signora Merelli, che era rimasta coll'occhio vagante, quasi seguendo nell'aria lo svanire delle proprie parole, riprese, rassegnata sotto il peso dei suoi doveri di padrona:

—E fratelli?

—Nessuno. Ero io sola con la mamma; ora sono sola con Alberto.

—Ma non starà a lungo sola!—soggiunse con una grossa risata il signor Merelli.

Marta tornò ad arrossire.

—Vorrei andare un momento a vedere la Pina—mormorò la signora
Merelli, che aveva esauriti tutti i suoi argomenti di conversazione.

—Va e conduci la signora.

—Oh!… non è un divertimento…

Marta protestò che le avrebbe fatto piacere conoscere anche l'altra bambina.

S'avviarono su per una scala modesta, cogli scalini di mattonelle, ed entrarono in uno stanzone che serviva di guardaroba, di dormitorio e di ripostiglio per gli stivali del capo di casa: stivali rossi di cuoio, stivaloni lunghi a gambiera, uose, tiranti, il tutto allineato lungo una parete, colla canna di un fucile che luccicava in un angolo e la casacca di fustagno dai bottoni di rame, gettata sullo schienale di una sedia, tesa ancora e quasi calda della plasticità vigorosa di chi la aveva rivestita. Davanti al letto della piccina, intanto che Marta ne lodava il volto intelligente, la madre sospirò:

—Lei è adesso nella sua luna di miele… le auguro che duri a lungo.

—Oh! sempre—esclamò Marta con vivacità.

Un'espressione di meraviglia passò negli occhi della signora Merelli, che poco dopo soggiunse:

—Almeno non avesse troppi figli… perchè qualcuno ci vuole, ma troppi! Io non ho aspettato neanche un giorno; nove mesi giusti dal dì del mio matrimonio nacque Battistino.

—Davvero?—fece Marta—È egli possibile?

—Come le dico. E ho sofferto tanto quella volta!

Si allontanò dal letto voltando le spalle alla bimba;

—Tre giorni interi coi dolori e poi un male, un male…

Marta ascoltava, terrorizzata, sentendosi un brivido alla superficie della pelle.

Dopo un po' di silenzio si arrischiò a domandare:

—E gli altri?

—Meno; tuttavia è una gran brutta parte che il Signore ha dato a noi donne. Gli uomini hanno tutto di buono, essi!

Quante domande sulle labbra di Marta! Quella donna maritata da dieci anni avrebbe potuto scioglierle una quantità di problemi, ma non osò. Diede timidamente un'occhiata all'esercito degli stivali e a quella casacca baldanzosa, meditando le parole: hanno tutto di buono essi! E le parve di sentire l'eco di risate rumorose, di passi pesanti, di parole alte e brutali, tutto un egoismo scettico di padroni e di conquistatori.

Di ritorno nel salotto provò un'impressione di sollievo vedendo
Alberto.

—Partiamo?—gli disse.

Egli rispose gentilmente:—Come vuoi.

Nell'andito sbucò fuori la Ninetta, complimentosa, aggiungendo i
propri saluti a quelli che i suoi padroni andavano facendo agli sposi.
Le due signore si abbracciarono, promettendo di vedersi spesso.
Ninetta soggiunse:

—Ma sì, venga!

Quando la porta della casa gialla fu chiusa, Marta si strinse al braccio di suo marito.

—Ti sei annoiata un pochino?—chiese egli ridendo.

—No, ma desideravo trovarmi sola con te. Mi pare che tutti gli altri abbiano a portarmi via qualcosa del mio Alberto, perchè tu sei mio, non è vero?

—Oramai, se anche non volessi, è cosa fatta.

—E quel signor Merelli è lui pure tutto di sua moglie?—chiese Marta insidiosamente.

—Oh! capirai, non posso saperlo…

—Non mi piacerebbe per marito.

—Ne sono ben lieto.

—È grossolano.

—Un pochino.

—E troppo pingue.

—Converrai che di questo non ne ha colpa. Sua moglie, che te ne pare?

—Una buona donna, con poco spirito se vuoi, oh! ma ha sofferto tanto.

—Ti ha raccontato?…

—Sì, il suo primo parto…

—Ah! solamente ciò?

—Sicuro—fece Marta, dandosi l'importanza di una matrona iniziata a segreti misteri.

Tacquero fino a casa. Sulla soglia trovarono il dottorone, impettito. Egli, che era già stato presentato a Marta, la salutò chiedendole che cosa l'era parso dei coniugi Merelli.

—Ma… gentili.

—E la servetta?

Il dottorone lanciò questa domanda con tale malizia negli occhi, che
Marta stupì.

—Andiamo—fece Alberto prendendo il dottore sotto braccio—vieni a desinare con noi.

—Non posso. Ho a casa una galantina di lepre con certi tartufi che sono una meraviglia. La mia serva non ha l'abilità della Ninetta… ma per la galantina!

Si baciò la punta delle dita, sempre con gli occhi birichini, e fatta una scappellata alla signora, e detto che s'era fermato apposta per augurarle il buon pranzo, se ne andò, lento lento, col corpaccione male assettato nell'abito nero, coi calzoni color lumaca troppo corti, il cappello a tuba posto in bilico sopra l'orecchio.

Marta si spogliò in fretta; doveva preparare una salsa di cui ella sola conosceva la ricetta e che, nel suo ardore di neofita, giudicava più accetta ad Alberto, se fatta da lei.

Comparve a tavola tutta rossa, impaziente di conoscere l'esito. Quando Alberto ebbe dichiarato che la salsa era gustosa, allora si calmò; mangiò e bevve di buonissimo umore; fece l'enumerazione dei piatti che preferiva, combinandoli con quelli preferiti da Alberto, vedendo con soddisfazione che si incontravano nel gusto.

—E, dimmi—esclamò improvvisamente—che cosa intendeva il dottore con le sue allusioni alla serva dei Merelli?

Alberto era l'uomo meno adatto del mondo a nascondere checchessia; rispose, un po' imbarazzato, che il dottore scherzava volentieri.

—Non è ciò—interruppe Marta a cui si schiarivano le idee meravigliosamente—se non ci fosse nulla di positivo, lo scherzo non avrebbe avuto ragione d'essere.

—Ebbene, disse Alberto, pensando che, in fin dei conti, la cosa non lo riguardava affatto e che Marta l'avrebbe saputa egualmente—Merelli fa all'amore colla Ninetta.

—Così?—esclamò Marta sgranando gli occhi.

—Come, così?

—In presenza della moglie…

—Ma!…

—Con tanti bambini?

—I bambini non c'entrano.

—Ma è un orrore!

—Certo non lo approvo.

—Tu non avresti questo coraggio, eh?

—Non mi sono mai piaciute le serve.

—Ah!—tornò a fare Marta con un sospiro di sollievo, mentre l'onesto faccione dell'Appollonia le attraversava il pensiero.

E dopo un po' di tempo mormorava ancora:

—È un'infamia, è un'infamia. Ma perchè sei amico di quell'uomo?

—Oh! bella, dovrei levargli il saluto in causa del suo gusto per le serve? È una debolezza in lui, non può correggersi. Ninetta non è la prima.

—Ma sua moglie? Poverina, voglio avvertirla…

—Non ci mancherebbe altro!

—Almeno consigliarla a tener serve vecchie…

—Non ci stanno in quella casa, con tutti quei bambini, rifletti.

—Oh! povera donna, povera donna!

—-Senti—continuò Alberto prendendo le mani di sua moglie per calmarla—secondo ogni probabilità, la signora Merelli non sospetta niente; e se lo sospetta, forse non ci pensa; può anche darsi che lo sospetti, che ci pensi, ma che non gliene importi un cavolo. In tal caso tocca a noi farci cattivo sangue?

Marta stette zitta un momento.

—È impossibile—scattò poi—che ella resti indifferente!

—E perchè impossibile?—dopo dieci anni di matrimonio…

—Alberto, che cosa dici? L'amore fra marito e moglie non deve essere eterno?

—Cara mia, se tutte le cose che dovrebbero essere, fossero!

—Tu dunque fra dieci anni non mi amerai più? E amoreggerai?…

L'Appollonia tornò a passare nella mente di Marta portandovi un raggio così giulivo che, nel bel mezzo della sua indignazione, dovette sorridere; di che accorgendosi Alberto, disse:

—Ma sì, farò all'amore coll'Appollonia.

Ella rideva, adesso; avendo posata la fronte sulla spalla di suo marito, eccitata da un ordine nuovo di idee che le si erano parate dinanzi.

—Però, senti, non capisco come una persona educata, un uomo che ha studiato, infine che non è un villano del tutto, possa perdersi con le serve.

—Anche un uomo educato non trova sempre delle duchesse, mia cara Marta, e poi, se ti dico che è il suo debole! Vuoi uscire a fare due passi in giardino?

—No.

Ella tornava al suo argomento, appassionandovisi con una voluttà rabbiosa e crudele.

—Ma non pensa alle conseguenze, al disonore della ragazza, a…

—Che cosa vuoi che pensi!… Finiamola, se non ti dispiace, coi
Merelli.

Alberto si era levato in piedi, non dissimulando una certa seccatura, e passeggiava innanzi e indietro fermandosi ogni tanto a guardar fuori dalla finestra.

Marta sentì una stretta al cuore. Non cambiò positura, non si mosse. Aveva ancora davanti il piatto sul quale stavano alla rinfusa dei picciuoli di ciliegia; li prendeva a due a due, allacciandoli insieme per vedere quale si rompeva; a conti fatti, i picciuoli rotti erano in gran maggioranza. Li riunì con cura in un monticello.

—Hai detto all'Appollonia che non faccia più tanto rumore, alla mattina, co' suoi zoccoli?

—Sì, gliel'ho detto.

—E tu sarai così buona da cucirmi, domani, quei bottoni alla mia casacca di velluto?

—Sono già cuciti.

—Oh! che tesoro di donnina.

Ella sperava ancora che l'avrebbe guardata in faccia; ma Alberto si fermò dietro la sedia di sua moglie, accarezzandole il collo colla punta dell'indice.

—Addio, vado fuori un po'.

Chinossi, baciandola sulle guancie, sonoramente.

Marta rispose: addio—e si strinse nelle spalle, sembrandole che la stanza diventasse fredda.

* * *

Gli amici di Alberto Oriani non capivano perchè la sposina non fiorisse di quel rigoglio pieno ed espansivo che accompagna generalmente il passaggio dalla fanciulla alla donna.

Eppure Marta era felice; lo diceva a tutti, lo scriveva alla madre, ne era ella stessa convintissima. Se la malinconia l'assaliva qualche volta, era una malinconia vaga, uno scoraggiamento del quale non accusava Alberto, ma sè stessa.

Ella faceva continui confronti tra suo marito e gli altri mariti, trovando che Alberto li superava tutti in bontà, in gentilezza; certo non era molto espansivo, ma è forse necessario? Egli diceva spesso che l'amore, come lo descrivono i poeti, è un sogno da matti; e Marta ripeteva questa frase nelle lunghe ore della sera, le ore che Alberto passava in farmacia con gli amici. L'amore vero era quello che Alberto aveva offerto a lei: il suo nome, la sua casa, i suoi servi; i pasti presi insieme, le notti dormite insieme nella bella camera col parato a fiori; e poi, il bacio che egli le dava tutte le mattine, regolarmente, nello stesso tempo in cui allungava il braccio fuori dalla coltre per prendere il bicchier d'acqua sul comodino.

Prima ella si chiamava Oldofredi, adesso era Oriani; dalla città era passata in un borgo; poteva mettere piume sul cappello e diamanti alle orecchie; in casa della mamma mangiava a un tavolinetto rotondo, con un servizio di terraglia bianca di Germania; nella nuova casa la tavola era quadrata e il servizio antico con dei fiori rossi e blù. Per ventitrè anni si era sentita chiamare signorina, ora la chiamavano signora e qualcuno anche madama. Tutto ciò costituiva una grande differenza e il repentino cambiamento la stordiva; molto più che anche tutti i visi erano cambiati attorno a lei, cambiati i nomi, per cui le accadeva ancora tratto tratto di pronunciare Matilde invece di Appollonia.

Forse Marta aveva sognato un cambiamento di un altro genere. Secondo lei era il suo proprio essere che doveva sorgere a nuova vita, tocco da una forza misteriosa e potente. Il suo cuore, l'animo suo, i suoi sensi che cosa avevano immaginato, che cosa aspettavano? Ella non si sentiva cambiata per nulla, si meravigliava e quasi si accusava di non aver scoperto nessuna ebbrezza nuova, e niente, ma niente, di quel trasporto che, giovinetta, le suscitava la sola parola—Amore.

Quando si gettava nelle braccia di Alberto, chiedendogli affannosamente se l'amava, e che egli sorridendo la assicurava di sì, una sensazione di freddo le correva dalla testa ai piedi, l'angoscia dolorosa di uno sforzo senza riuscita, l'abbattimento di un carcerato che si slancia contro l'uscio della prigione e la trova chiusa.

In quei momenti Marta diventava pallida.

Se questo era l'amore, qualche cosa altro ci doveva essere, più sublime o più triste, virtù o colpa, ma altra cosa, altra ebbrezza, altro trasporto; visione di cielo o vertigine di abisso, la sensazione a lei ignota del rapimento per cui Francesca si era dannata eternamente, per cui le anime grandi di tutto il mondo piansero, crearono, morirono.

Rammentava una sera lontana, quando aveva quindici anni e che il suo cuore per la prima volta si era aperto all'amore, attratto irresistibilmente verso un giovane che conosceva appena, ma per cui passava le notti insonni.

S'erano trovati finalmente soli, per pochi istanti, nella libertà della campagna, e nessuno aveva parlato, ma egli le aveva presa la mano e gliel'aveva stretta così dolcemente che a pensarvi, dopo tanti anni, si sentiva invadere da una ignota voluttà.

Che cos'era dunque quello? Amore? E perchè la mano di Alberto non le dava la stessa sensazione? Era possibile ch'ella amasse Alberto meno di uno sconosciuto? O era forse Alberto che non l'amava? Ma sì, l'amava, glielo aveva detto e l'aveva sposata. Se no, perchè l'avrebbe sposata?

Sempre Marta tornava a questo dilemma, e voleva sapere degli altri matrimoni con un interesse, con una curiosità morbosa. Dalla signora Merelli, che era venuta a restituirle la visita, ella aspettava trepidante e confusa uno sfogo di infelicità coniugale; ma la signora Merelli non si lagnava che delle sue frequenti gravidanze, parlando del marito con un feticismo da odalisca, esaltandone la bellezza e la forza.

—Nei primi tempi del nostro matrimonio—aveva soggiunto, ravvivando momentaneamente i suoi occhi spenti—non mi lasciava mai salire le scale, mi portava sulle braccia. Ed ero pesante, allora, ero grassa.

Marta ebbe invidia della signora Merelli. Lei era più sottile, Alberto non avrebbe fatta gran fatica a portarla sulle braccia…

—Adesso non la porta più?—domandò.

—Oh! Le follie della luna di miele non possono continuare sempre.

Per tutto quel giorno Marta ebbe in mente le follie della luna di miele. A pranzo, improvvisamente, come faceva per solito le sue domande, frutto di lunghi pensieri solitari, chiese ad Alberto:

—Tu non hai mai fatto follie per nessuna donna?

Alberto che incominciava ad abituarsi alle domande di sua moglie, pur trovandole bizzarre, rispose serenamente:

—Follie mai; son cose da manicomio, te l'ho già detto.

—E non hai mai amata nessuna donna più di me?

Alberto guardò il soffitto dondolandosi sulla sedia, con le mani appoggiate contro la tavola.

—Non mi pare… no, no, ne sono sicuro.

—E… però…

Marta, sospinta dalle sue terribili curiosità, voleva sapere di più; ma titubava davanti a quell'uomo che conosceva da pochi mesi, col quale sentiva di non essere ancora una cosa medesima, che non le apparteneva ancora intero. Tuttavia osò mormorare adagio, cogli occhi bassi:

—Donne ne hai conosciute molte?

—Come no? il mondo ne è pieno.

—Voglio dire… sai… quelle donne che avvicinate voi altri uomini quando non avete moglie.

—Sei amena con le tue domande; ma perchè ti interessi a queste cose?

—Perchè non le conosco, e perchè mi pare che il tuo passato, così differente dal mio, ci tenga lontani. Forse è quello che io ignoro che mi impedisce di essere per te la donna ideale…

—Non divaghiamo—interruppe Alberto.—Tu sei per me la donna che cercavo, ti voglio bene, mi vuoi bene e basta.

Marta crollava il capo, sospirando, poco convinta.

—Abbi pazienza—disse ancora, tornando all'attacco con una tenacità tranquilla, ma decisa—vi sono proprio alcune cose che io non arrivo a capire. Dimmi almeno questo. Quelle donne, le amavi?

—Ma che! È un assurdo solamente il pensarlo.

—E allora…

Si fermò cercando la parola inutilmente e ripetè arrossendo:

—Allora… come potevi?

—Che diavolo!—esclamò Alberto gettando via il tovagliuolo.—Fa bisogno di amare per questo?

Marta rimase impietrita, nè per quel giorno disse altro, ingolfandosi sempre più nelle sue astrazioni, concentrando tutta sè stessa verso quell'ignoto che sempre le sfuggiva, chiedendosi angosciosamente: Ma che cos'è dunque l'amore?

Dopo suo marito e la signora Merelli, il dottorone era quegli che offriva maggior pascolo alla sua smania di sapere.

Egli veniva quasi tutti i giorni a trovarla, ora montato sul trespolo della poesia, ora diguazzando nella prosa grossolana, ma originale sempre nelle sue opinioni; misto curioso del suo carattere che trovava un perfetto riscontro nella faccia dai lineamenti volgari, sensuali, tagliata a mezzo da un naso carnoso, sul quale gli occhiali avevano lasciato il solco, e illuminata in alto da una fronte larga, dove gli occhi brillavano con tutto il fuoco dell'intelligenza.

—Per le donne oneste—egli aveva detto una volta, prendendo vivamente il braccio di Marta sotto il suo—l'amore non può essere che un dovere o un peccato; un contratto stipulato, firmato, reso sacramento, reso dovere civile, eguagliato all'estrema unzione ed alla vendita di un podere; oppure uno strappo alle convenienze, alle leggi, alla religione, all'onore… Nel primo caso l'uomo furbo lo idealizza. Egli dice alle sue vittime: «Siete la gioia del focolare domestico, le depositarie del nome e dell'avvenire nostro, le regine della nostra casa; siete la pace, siete la sicurezza.» Potrebbe soggiungere: Siete il minor male che noi scegliamo dopo d'aver conosciuti tutti gli altri, siete la panacea delle nostre infermità, il letto di riposo dopo il letto di campo, la sinecura dei nostri vecchi giorni. Per cambio della vostra gioventù, del vostro candore, dell'ideale di tutta la vostra vita, noi che non abbiamo più nè giovinezza, nè candore, nè ideali, vi offriamo una cosa così comune, così facile, una cosa che trovereste sul canto d'ogni via, se noi non ce ne fossimo fatto un esclusivo monopolio, crescendola di valore col negarvene la libertà, sostituendo il decoro, il pudore, la virtù umana alle divine leggi della natura. E fin da bambine, all'età degli zuccherini, vi si fa balenare davanti agli occhi quest'altro zuccherino, ammonendovi «se ve lo meriterete con la docilità, la modestia, la pazienza, l'abnegazione…»

Marta rideva, ma quando il dottore era partito meditava le di lui sfuriate filosofiche e una lieve tristezza, che non era ancora scetticismo, ma che gli scalzava la fede, si deponeva nell'animo suo.

Tutta sbigottita udiva una voce interna che diceva: Costui l'hai tu scelto in mezzo alla folla, od è piuttosto quello che ti presentarono, il solo che hanno potuto pigliare e che tu, perchè buona e docile, perchè aspettavi da tanto tempo, ti persuadi essere veracemente colui che deve formare la tua felicità?

Si disperava allora, correndo inquieta per la casa, urtando sempre nella freddezza dolce di Alberto che non comprendeva nulla di queste agitazioni, che le compativa però, suscitando così mille rimorsi nella coscienza di Marta; per cui ella si gettava di nuovo fra le braccia di suo marito singhiozzando.

Un desiderio, nato fin dal primo giorno del suo arrivo, le ero rimasto insodisfatto e cresceva ogni giorno più. Ella avrebbe voluto vedere quei due sposi modello, quei Gavazzali che si erano feriti per bere il sangue l'un dall'altro. Non uscivano mai in paese; qualche sera, sul tardi, nei viali deserti della campagna, due ombre apparivano da lontano e si perdevano nel folto degli alberi.

La signora Merelli, che nemmeno lei aveva mai visto la coppia singolare, propose a Marta di andare assieme a fare una questua per gli asili infantili. Si posero subito d'accordo, e sui primi di giugno, durante un caldo pomeriggio che metteva nell'aria una gaiezza festosa, bussarono alla porta dei signori Gavazzini.

Una domestica dall'aspetto e dall'accento forestiero, dopo qualche minuto di esitazione introdusse le visitatrici in un salotto molto elegante. E aspettarono.

Aspettarono un buon quarto d'ora, avendo così tutto il tempo di osservare l'arredamento nuovo e corretto, le poltrone che non sembravano tocche, le piramidi di album lucenti nei loro fregi e nei tagli dorati. Non un fiore, non un ricamo o un libro dimenticato, non uno sgabello fuori di posto; niente del benessere comodo e lieto che Marta aveva a casa sua; niente pure del disordine pieno di vita che, in casa Merelli, quattro bambini pieni di salute si incaricavano di mantenere costante.

Un fanciulletto di quattro anni, biondo, esile, con una faccina anemica, fu il primo a mostrarsi. La signora Merelli volle accarezzarlo, ma egli si ritrasse in silenzio contro lo stipite dell'uscio.

E passarono altri dieci minuti.

Venne poi il signor Gavazzini, nascondendo, sotto un fare cerimonioso, l'alterazione dei lineamenti, eccitati come dopo un alterco.

—Prego queste signore di scusarmi, e di scusare mia moglie; è un po' indisposta…

Nello stesso momento una signora alta, molto esile, con la stessa faccia anemica del bimbo, irruppe nel salotto; aveva un abito celeste e i capelli sciolti per metà sulle spalle in una acconciatura melodrammatica. Senza nemmeno guardare le due visitatrici, si rivolse bruscamente a Gavazzini.

—Sapete bene che ho proibito a mio figlio di entrare nel salotto.

La confusione di Gavazzini divenne contagiosa; anche Marta e la signora Merelli ne furono sorprese. Egli, con accento breve ed imperioso, usando parimenti il pronome della seconda persona, rispose che il bimbo era venuto in salotto da sè; poi, volgendosi alle signore, balbettò:

—Mia moglie… scusino… era… è indisposta. Ha voluto presentarsi egualmente.

La signora Gavazzini, in piedi, gualciva nervosamente i nastri del suo abito, mentre il bambino guardava ora lei, ora il padre, con due occhi malinconici.

Quando la signora Merelli espose timidamente lo scopo della visita, Gavazzini mise mano al portafogli e con perfetta cortesia le consegnò venti lire, guardando Marta con insistenza, tanto che ella sentì il suo facile rossore di sposina salirle subito alle guance.

—Mia cara—disse poi volgendosi alla moglie con ricuperato sangue freddo—ecco due buone e cortesi signore a cui potreste rendere sì bella visita. Che ne dite?

—Non si fanno visite, quando si vive in un chiostro come vivo io da cinque anni.

La voce aspra della signora Gavazzini echeggiava ancora nel salotto, che già le visitatrici avevano preso commiato, seguite da Gavazzini, il quale le volle accompagnare fin sulla porta, giustificando il contegno della moglie con la scusa di crisi nervosa. Sì dicendo faceva gli occhi teneri a Marta, tastandole il palmo della mano.

Marta uscì di là scandalizzata, incapace di parlare.

La signora Merelli, calma, domandò come le era parso quel nido di tortorelle, e, nella sua rassegnata conoscenza degli uomini, aggiunse che non vi era punto da stupire, che succede così spesso, spesso, assai più di quanto si creda.

—Che cosa le dissi una volta? Follie della luna di miele! Non durano.

—E quando—chiese Marta con la voce che le tremava un po'—la luna di miele non ha follie?

La signora Merelli riflettè un istante, crollò il capo e rispose con lentezza:

—Chi sa! Forse è meglio.

* * *

Toniolo prendeva il fresco sulla soglia della sua farmacia, coi pollici nei taschini del panciotto, seguendo con occhiate lunghe e profonde tutte le donne che passavano; occhiate che non gli costavano nessuno sforzo, che erano naturali ai suoi occhi ben tagliati, dal colorito intenso, che facevano supporre tutto un fondo di pensieri ed avevano procurato alle sue attrattive di borghese sentimentale, un discreto numero di simpatie femminili.

Stando così sulla soglia del negozio, assolutamente freddo, non pensando a nulla, mostrando solo la faccia pallida illuminata dallo sguardo, Toniolo aveva fatto fantasticare molte fanciulle del paese che, da quando egli rimase vedovo, avevano sentito più che mai il bisogno di prendere frequentemente della magnesia o del bicarbonato di soda; egli, enigmatico come un cofano vuoto chiuso a chiave, non aveva scoraggiata nessuna, vendendo a tutte la sua merce con la stessa fisionomia romantica ed incompresa, mostrando, nell'accartocciare gl'involti, le sue mani morbide, famigliari alle pomate, fini, lunghette, ornate al dito mignolo da un piccolo brillante, ed il sorriso vago di un uomo che insegue dei sogni.

Quando si era saputo che prendeva in moglie una ragazza del paese vicino, la magnesia e il bicarbonato di soda divennero veramente necessari a molte gastriti ed a languori di stomaco prodotti da cruccio respresso; nè egli mostrò di accorgersene, manovrando con la stessa dolcezza i barattoli e le spatole, prendendo il fresco ogni sera sulla soglia della farmacia, guardando alternativamente le donne e le stelle.

Alberto Oriani passò tenendosi a braccio sua moglie.

—Che miracolo!—disse Toniolo.

Si fermarono. Erano andati a vedere dei vasi di fiori che il dottorone voleva regalare a Marta, Si parlò un momento di fiori, tutti e tre in piedi sulla soglia; poi del tempo che voleva rannuvolarsi, infine:

—Vuol entrare?—chiese Tomolo a Marta, con molta gentilezza, e soggiunse per incoraggiarla:—Le mostrerò la camera che sto allestendo per la sposa; mi darà dei consigli.

Marta vide sulla faccia di suo marito la stessa gioia di quando, in carrozzella, aveva scorti i suoi amici. Decisamente, pensò, egli li ama molto. Un'altra idea stava per svolgersi nella sua mente, questa: e si trova in loro compagnia meglio che… ma non volle terminarla. Salì svelta il gradino della farmacia, seguita dai due uomini.

—Manca molto a questo matrimonio?—domandò Alberto intanto che attraversavano il tinello.

—Sarà verso la fine d'autunno.

—Fa' vedere a Marta la fotografia della tua fidanzata.

Toniolo pose la mano nella tasca interna dell'abito, poi in quella esterna, mormorando:

—È singolare, dove diavolo l'avrò cacciata?

—L'avrai lasciata sotto il guanciale, stanotte—disse Alberto ridendo.

Marta guardò con interesse gli occhi di velluto di Toniolo, accogliendo la supposizione che egli dormisse coll'immagine della donna amata: ma Toniolo indicò subito con la mano la fotografia, appoggiata sul caminetto, contro la pendola.

—Le assomiglia?—chiese Marta.

—Mi pare di sì.

Era una giovanotta rubizza, dalle forme pronunciate e dalla faccia ingenua. Marta voleva domandare ancora: L'ama molto? ma non osò.

—E che dirà Giuditta?—esclamò Alberto, battendo sulla spalla dell'amico.

—Oh quella si consolerà di me, come si è consolata di te…

Marta fremette, intanto che i due uomini scambiavano un'occhiata di intelligenza. Toniolo soggiunse:

—Il successore c'è già; fa il suo tirocinio in questi ultimi mesi, sai, io non sono geloso, e Giuditta trova che due valgon meglio che uno, ma io l'ho già avvertita che il mio abbonamento scade alla fine d'autunno e che non lo rinnoverò più. Non voglio impicci.

—Fai bene—disse Alberto con convinzione.

Entrarono nella camera dov'era già il letto di noce, i comodini e i cassettoni.

—Sono quelli che avevo, li ho fatti rilustrare e mettere a nuovo; ma le sedie e le tappezzerie le voglio rifare di pianta. Che ne direbbe di un bel giallo?

La domanda era rivolta a Marta.

—È forse un po' fuori di moda e facile a macchiarsi…

—Avevo pensato all'azzurro, ma scolorisce col sole, coll'aria, con la polvere, scolorisce anche al buio.

—Se prendesse una stoffa mista, a righe od a fiori?

Toniolo rifletteva, coi begli occhi abbassati, fissi sulla commessura di due mattoni.

Marta intanto guardava il letto, dove aveva dormito la prima moglie, dove la seconda avrebbe raccolto i baci ancora tiepidi avanzati a Giuditta, e le danzavano davanti le parole «come si è consolata di te.» Anche Alberto dunque? Anche lui?

I due amici si erano affacciati alla finestra; le loro teste, nella luce crepuscolare, apparivano giovani, quasi somiglianti. Alberto più colorito, più florido, ma egualmente dolce e simpatico all'aspetto. Ridevano. Su quelle bocche i baci di Giuditta erano volati, senza rivalità, stringendo anzi i loro vincoli, mettendo fra loro una cosa comune, imparentandoli. Potevano pensare entrambi, nello stesso tempo, allo stesso oggetto: le spalle o le braccia di Giuditta; intendersi senza parlare, a gesti.

Il suo Alberto! Perchè suo? suo e di tutti. Quelle mani lì non avevano abbracciata, stretta, accarezzata Giuditta? e quante altre! Ora lo sapeva; e questa Giuditta era in paese. Quando lei passava al braccio di suo marito, Giuditta poteva vederla, scrutarne il volto e sorprendere i segreti della loro intimità. Avrebbe detto fra se stessa: Ecco Alberto, ha la faccia de' suoi giorni buoni: oppure: non ha la faccia de' suoi giorni buoni.

—Me le danno, sai, le trentamila lire?—diceva Toniolo affacciato alla finestra.—Se non me le davano, lasciavo a loro anche la ragazza; non ch'io sia interessato, ma quello che ci vuole ci vuole, e poichè faccio questo sacrificio di mettermi la catena al collo per la seconda volta, qualche compenso è giusto.

Si voltò, dando le spalle alla luce, così interessante nel suo pallore di giovanotto linfatico, che Marta non riuscì a mettere insieme quelle parole con quel volto, e stavolta la domanda, repressa prima, le sfuggì:

—È molto innamorato della sua sposa?

—Oh! innamorato…—fece Toniolo, sul cui volto passarono repentinamente la stanchezza e la vanità delle numerose conquiste—non è poi necessario.

—Per lei, forse—interruppe Marta, meravigliandosi ella stessa del suo ardire.

—Vedi—disse Alberto in tono conciliante—mia moglie si immagina che quando un uomo sta per ricevere il settimo sacramento debba prepararsi con mortificazioni, estasi, preghiere, ritiro dal mondo, astinenze…

—Già, già—-esclamò il farmacista ridendo—sono tutte eguali. Non per offenderla, sa? Le chiedo scusa, non per offenderla, ma anche la mia fidanzata mi domanda sempre se l'amo, se amo lei sola, se l'amerò sempre…

—E non è naturale?—disse Marta con fuoco.

Rispose Alberto:

—Tanto naturale che non occorre domandarlo.

Marta conosceva oramai quell'accento reciso, quella specie di muraglia che suo marito innalzava quando il discorso non era di suo genio. Sentì pure la sua debolezza, la sua solitudine in mezzo a quei due alleati naturali, e allora più che mai vide la intimità di Alberto co' suoi amici, quella grande porzione di vita da cui era esclusa, lei, che aveva creduto, sposandolo, di fondere due vile. Un abisso la separava dall'uomo a cui s'era data, che le era straniero, che non aveva lo stesso sangue, nè gli stessi pensieri, nè la stessa anima, che aveva vissuto trent'anni senza di lei, ch'ella non aveva mai visto piangere, che trovava inutile dirle: ti amo… e un bisogno irresistibile l'assalse, il bisogno di gettarsi nelle braccia di sua madre.

I due amici erano usciti dalla camera, avviandosi giù per la scaletta nel tinello.

—Badi che c'è un chiodo accanto all'uscio disse Toniolo—gentilmente —l'avverto per l'abito.

Sul tavolino, nel tinello, giaceva ancora il ritratto della sposa.
Marta lo guardò a lungo, con una malinconica simpatia, e non riuscendo
a vincere la tenerezza di cui il suo cuore traboccava, si accostò ad
Alberto e gli strinse furtivamente la mano.

—Sì, sì—fece egli col tono di chi vuole acchetare un bambino riottoso.

In quella entrarono Merelli e il dottorone.

—Che bell'incontro!

Il volto di Alberto raggiò:

—Nido di tortore!—esclamò il dottore.—Fortunato mortale cui è dato abbellire la propria casa con la presenza di una donna! oh la donna!

    Tu che con ali d'angelo
    Scendi alla nostra vita
    E dentro gli occhi hai lacrime
    E rose infra le dita…

Marta osservò, meravigliatissima, che gli occhi del dottore avevano i lucciconi.

Il farmacista accese la lucerna e fece sedere i suoi ospiti intorno al tavolino.

—Bel tempo—disse Merelli—il grano turco cresce a vista, l'uva è una meraviglia.

Soggiunse il dottore:

—Ho comperato oggi una razza di tacchini stiriani, i più belli che si possano vedere, di quelli che appaiono sulle tavole dei principi con la denominazione: dinde truffée. Le femmine però io le preferisco lessate, con guarnizione di maccheroni al sugo.

—Che sigari cattivi!—disse Alberto tentando di accendere un
Sella—non si può più fumare.

Toniolo si alzò, andò a prendere una cassettina, e, dopo averne chiesto il permesso alla signora, offerse dei virginia.

—Non ti annoi troppo, nevvero?

Così chiese sotto voce Alberto a sua moglie; ella che sapeva con quanto piacere Alberto stesse con gli amici, rispose:

—Niente affatto.

Ma fra sè pensava: Casa nostra è molto più comoda, più elegante, non ci manca nulla; io lo adorerei, vorrei spiegare per lui solo la mia bellezza, il mio ingegno; so parlare anch'io, non sono una sciocca, ma, a quanto pare, Toniolo, Merelli e gli altri valgono più di me. Io però ho lasciato per lui mia madre, le mie amiche, tutto; e mi basterebbe lui!…

—La signora è pensierosa?—chiese il dottorone chinandosi sulla sedia di Marta, presentandole la sua faccia larga e sensuale, dove la parte psichica si era tutta rifugiata nelle pupille.

Marta scosse il capo, e dopo una pausa chiese a sua volta:

—Perchè non ha preso moglie lei?

—Per umiltà, non credendomi degno.

—La ragione è speciosa.

—Dica vera. Come faccio ad essere sicuro che la donna che scelgo sarà felice con me?

—Ma se è buona, se è virtuosa, se ha dei principii…

—Ecco tante belle cose che non hanno nulla a vedere con la felicità.

—Se si amano…

—Altra incognita. Le ho già detto, mi pare, che per le donne oneste l'amore non può essere che un dovere o una colpa. Allevate nell'idea fissa del matrimonio, il quale, con la morale odierna è la sola porta d'uscita che esse hanno, non conoscendo l'amore nè l'uomo, ognuna accetta quel marito che il caso, gl'interessi, la mamma o gli amici le pongono davanti; è un lotto, una roulette, bazza a chi tocca, e chi le piglia se le tiene.

—Oh!—fece Marta.

—La donna non è sempre vittima,—continuò il dottorone animandosi—ella si vendica, come può, quando può. Ella risponde alla mostruosa ingiustizia dell'amore civile coi suoi milioni di isteriche, coi suoi miliardi di adultere. Colpita, colpisce; ingannata, inganna; niente di più logico, Lei vede, cara signora, che rendo piena giustizia al suo sesso, ma siccome non mi riconosco la forza di legislatore, nè di apostolo…

Alberto, dall'altro lato del tavolino, gridò a sua moglie:

—Se dai ascolto a quel chiacchierone, ne esci intontita.

—Permetti, Alberto, io difendevo la causa della donna.

—Causa sballata—vociò Merelli facendo scricchiolare la sedia su cui stava seduto.—Le donne sono tutte furbone, che pelano la gallina senza farla gridare.

—Ciò è tanto più meraviglioso—aggiunse Toniolo—che nel loro caso la gallina è un gallo.

—La donna—riprese il dottorone, con lo stesso accento ispirato col quale aveva, un momento prima, recitato i versi di Prati—è la poesia della vita, è la bellezza…

—Sì, parlatemi della bellezza delle donne!—interruppe Merelli.—Ci vogliono dei babbuini come noi per lasciarci gabellare nei teatri, nei balli, nella penombra delle alcove chiuse, tutta la quantità di ovatta, di gomma elastica, di bianco di bismuto e di kool, che forma la nostra beatitudine, citrulli che siamo!

Piano, all'orecchio di Toniolo, Alberto mormorò:

—È per garantirsi contro il kool e contro il bismuto che egli si attacca alle serve…

—Che cosa dite voialtri?

—Eh! nulla. Si approvava.

—La donna—continuò il dottorone come se nulla fosse—creatura delicata, gentile, anima sensibile messa a contatto della nostra brutalità…..

—Oh! per anima sensibile—rincrudì Merelli—non ho niente in contrario. Quando ero all'università conobbi la moglie di un professore, una deliziosa donnina, una sfumatura, un ideale, proprio di quelle che hanno le ali e le rose. Un mio amico le faceva la corte… infine la dolce creatura lo pregò di regalarle un divano, perchè sullo stesso divano dove essi filavano il perfetto amore, il marito fumava tutti i giorni la sua pipa, e ciò non le pareva delicato…

Tumultuarono tutti. Il dottorone rinunciò all'elogio della donna, sopraffatto dalla voce taurina del suo competitore; ma Alberto, approfittando della prima pausa, domandò:

—Puoi essere così pessimista? Non esistono forse donne che non si dipingono e che si accontentano di un solo divano come di un solo marito?

—Caro Oriani, una volta, in un Museo di Storia Naturale, ho visto un passero con quattro gambe. L'ho visto, ti dico! Ciò è la pura verità. Io persisto tuttavia a credere che i passeri sono bipedi.

A momenti gli facevano un'ovazione. Merelli trionfava, come sempre, rizzandosi sull'alta persona, dominando il crocchio degli amici, rosso e lucente in viso, sentendosi ammirato.

Alberto ebbe il delicato pensiero di avvicinarsi un momento a sua moglie per chiederle sottovoce:

—Stai bene?

—Sì, grazie.

Era però buono Alberto! Ella lo segui con gli occhi mentre tornava al suo posto, attratta da quel viso simpatico, intenerita per il suo atto gentile, e intanto che il discorso si metteva alla politica ella restò muta, alquanto illanguidita sulla sedia di cuoio della farmacia, col desiderio della sua poltroncina e dell'uncinetto che almeno le avrebbe fatto passare il tempo.

Nella politica si riscaldarono, qual più qual meno, secondo i temperamenti. Il pletorico Merelli gridava come un ossesso; gli veniva dietro il dottorone nervoso ed entusiasta; più calmo Alberto, quantunque allegrissimo, e Toniolo quasi indifferente, approvando col capo ciò che dicevano gli altri, i pollici nei taschini, l'occhio vagante. Ma tutti insieme riempivano la stanza, con le loro persone massicce, la voce alta, gli scarponi che si agitavano sotto il tavolino, il fumo dei sigari che s'innalzava, addensandosi sempre più.

Il volto di Alberto, sul quale Marta teneva sempre gli sguardi, scompariva tra le spalle poderose di Merelli e il torace ampio, squilibrato del dottorone; ella lo scorgeva come un punto luminoso, velato leggermente dal fumo, e ne raccoglieva ogni parola, ne seguiva ogni gesto, pascendosi di un'occhiata che cadesse dalla sua parte, raccogliendo le briciole dello spirito e della cordialità che Alberto distribuiva agli amici.

Erano suonate le undici da un pezzo ed ella, nella muta contemplazione, si sfibrava, presa dalla noia e da un principio di sonno, con la visione lontana del suo letto, della sua dolce casa.

Ma si erano messi a discorrere delle colonie d'Africa e venne la mezzanotte. Merelli sbraitava nella esuberanza del suo temperamento sanguigno, per cui Toniolo mormorò piano, sorridendo:

—Ce ne vorrebbero due al giorno delle Ninette per quello lì!

Marta si sentì sollevata quando Alberto, levandosi in piedi, annunciò che si partiva.

Non volle il braccio di nessuno; appena uscita si avvinse a suo marito, carezzevole, amorosa, con certi scatti da bambino freddoloso, tenendo voltata la faccia per sfiorare con le labbra la manica di Alberto.

Merelli e il dottore lasciarono che i due sposi andassero a casa soli.

A mezzo d'una via, una donna, uscendo frettolosa da una porticina, attraversò loro la strada, passando così presso ad Alberto da urtarlo. Marta sentì il contraccolpo di quell'urto, vide la donna che si era fermata mezzo minuto, audacemente, accanto a loro, ed Alberto che aveva fatto un movimento indietro, ed ancora la donna che era scomparsa rapida, rompendo l'oscurità della notte con la striscia chiara del suo abito.

Tutto il sangue di Marta le affluì al cuore.

—È Giuditta!—esclamò stringendo con violenza il braccio di suo marito.

Alberto non rispose subito.

—Dimmi la verità, è lei?

—Ma che!

—Pure la conosci…

—No, ti dico. Non l'ho nemmeno guardata.

—Ma potrebbe esser lei?

—Non so…

A che insistere? Tacque.

Ma ricalcando le orme della donna, sembrava a Marta che la sconosciuta avesse lasciato qualche cosa dietro a sè, nell'aria rotta dalla sua persona, sui sassi battuti dal suo piede; un miasma che saliva, nauseante, che l'avvolgeva tutta, la prendeva alla gola con un'ondata di impurità, soffocandola, strozzandola; e nella acutezza della sensazione le sembrava di udire laggiù, fra le tenebre della notte, il ghigno beffardo di colei che aveva posseduto suo marito, perchè era lei, lo sentiva!

* * *

Le lettere che Marta inviava a sua madre, parlavano tutte di felicità. Si esaltava scrivendo dell'amore che Alberto aveva per lei, e si diceva il suo tesoro, la sua vita; parole che Alberto da sua parte non aveva mai pronunciate, ma di cui ella inebbriavasi al punto che quando aveva scritto, versando sulla carta l'amore di cui era compresa, rimaneva sollevata, immaginando che Alberto provasse tutto ciò che ella stessa sentiva. Scriveva: «i suoi baci appassionati, le sue tenere carezze,» e rileggeva poi quegli aggettivi che le davano una dolce commozione, una specie dei piaceri immaginari che gustano i bevitori d'oppio.

E come l'oppio, questa eccitazione del cervello la prostrava veramente e indeboliva i suoi nervi.

Molte volte dopo d'aver scritto a sua madre che «si adoravano,» Alberto entrava e non si scambiavano neppure un bacio; lui serenamente freddo, lei distratta, paralizzata nella realtà dalle false sensazioni subite prima.

Tutto il fisico di Marta si risentiva di questo stato patologico. Era magra, coll'occhio spento; soffriva lunghe malinconie; già più volte, senza una ragione apparente, era corsa a nascondersi nella sua camera per piangere. Che cosa avrebbe detto Alberto vedendola piangere?

La bontà inalterabile e gentile di suo marito, il lieto umore, la fiducia illimitata, il suo contegno riservato colle donne, la convincevano che egli era il modello dei mariti, e quel malcontento intimo, quella tristezza che l'assaliva, ella riversava su sè stessa, sul cattivo suo temperamento. Che poteva essere se non ciò?

Per alcune settimane era stata divorata dalla gelosia e non aveva fatto altro che osservare ogni atto, ogni passo di Alberto; era ritornata parecchie volte nella via dove le era apparsa la donna sconosciuta, aveva interrogato, cercato, spiato; allargando i confini del suo sospetto geloso, si era messa a sorvegliare tutte le donne che Alberto vedeva, compresa la signora Merelli. Ma da queste ricerche l'innocenza d'Alberto era uscita così trionfante, che lo stesso giorno ella scrisse a sua madre: «Sono felice, felice, felice.»

I giorni peraltro le sembravano più lunghi e più vuoti. Suo marito si alzava presto per andare a visitare le campagne; ella, pigra, con le ossa indolenzite, rimaneva ancora sotto le coltri finchè Appollonia non le portava il caffè. Lo sorbiva lentamente guardandosi le mani, le braccia, toccando i piccoli ricami della camicia, lavoro suo, de' suoi giorni di fanciulla.

Una specialmente, una bella camicia fina con lo scollo tondo arricciato, le faceva ricordare una incisione che l'aveva colpita tanto quand'era ragazza, che ella guardava di nascosto della mamma, dentro una vecchia strenna, e rappresentava Diana di Poitiers, semivestita, con uno scollo così tondo, arricciato e irresistibile, allacciando le braccia intorno al capo del regale amante prostrato a' suoi piedi. Forse—pensava allora—bisogna essere molto molto bella per ispirare l'amore.

Ma non è vero—soggiungeva un momento dopo—no, non dev'essere questa la ragione.

Dalla recente esperienza, dall'osservazione degli uomini i quali non si mostravano più davanti a lei così ritenuti come fanno con le ragazze, dalle confidenze della signora Merelli, era venuta ad una conclusione, ancora confusa, ma che distruggeva completamente l'edifizio delle sue credenze in fatto d'amore. La conclusione era questa: Gli uomini si danno a qualunque donna, bella o brutta, con affetto o senza, con simpatia o con indifferenza. Una cosa mostruosa ma vera!

Dalla bocca stessa di suo marito, dietro insistenti richieste, ella apprese che, a sedici anni, Alberto aveva avuta la rivelazione dell'amore per parte di una donna vecchia e brutta, che andava in casa a fare il bucato.

Alberto le disse questa cosa naturalmente, soggiungendo che a quasi tutti gli uomini succede così, non sospettando neppure la profonda impressione che tali parole avrebbero fatto su Marta. Ella ne pianse di dolore e di vergogna.

Ragionando poi nella sua mente, le parve di dover attribuire a quella remota causa la differenza di sentire che esisteva fra lei e suo marito.

Misurando per la prima volta le esigenze di un uomo che aveva data la sua fiorente giovinezza ad una ignobile femmina, nella stessa età in cui ella credeva ancora agli angeli e cercava l'amore in cielo, fu assalita da una ben più tremenda gelosia, la gelosia impotente del passato, quella che non si può distruggere, che si urta contro la sentenza inappellabile del fatto compiuto.

Con uno sforzo doloroso dell'immaginazione sognava il suo Alberto bello, puro; ne vedeva la persona elastica, l'occhio lucente, la bocca fresca come fiore che si schiude; e l'anima nobile, il cuore fidente, affettuoso, tutti gli impulsi generosi della giovinezza… Oh averlo conosciuto allora, essere stati entrambi così puri, l'uno dell'altro, per sempre, quello doveva essere l'amore!

E non poteva più averlo così! La vecchia femmina, Giuditta, tutte le altre, chi sa quante, chi sa quali, gli avevano portato via la spontaneità dell'entusiasmo. Ella era giunta ultima, inesperta, non preparata alla lotta contro tutto un passato.

Perchè quella veramente era la sua angoscia: il passato di Alberto, indistruttibile.

Rifaceva a sè stessa, con una raffinatezza crudele, il ritratto di tutte quelle donne; le immaginava belle, provocanti, piene di seduzioni ignote, di occulti filtri amorosi.

Brancolava fra supposizioni assurde, fra ipotesi strane, con l'ansia di chi ha smarrita la via e le tenta tutte per orizzontarsi.

Metteva insieme le sue memorie più lontane, ricordandosi certe malizie della scuola, volendo spiegarsele.

Non aveva dimenticata una ragazza, Collini, in terza; una faccia scialba, dagli occhi neri e dalle labbra rosse, con la carnagione picchiettata di lenti, la quale aveva sempre delle storie misteriose da raccontare in segretezza; storie che non si sentivano mai per intero, di cui le parole strane, svisate, spostate, volavano di bocca in bocca, eccitando la curiosità senza soddisfarla.

Erano discorsi proibiti e per questo solo interessavano, chè del rimanente non ci si capiva nulla, almeno Marta che non era punto maliziosa.

Una volta la Collini aveva recata una parola nuova, bizzarra, che nessuna delle bimbe aveva mai udito pronunciare. Cercata la parola nel dizionario, si trovò che rispondeva a «femmina di mal affare;» per cui tutte si guardarono in faccia meravigliate di comprendere anche meno; finchè un altro giorno la Collini spiegò loro che quella parola voleva dire: «donna che si vende:» onde nuova confusione, che le giovani menti sciolsero ognuna a suo modo, restando nel pensiero di Marta l'idea di una donna sucida e puzzolente.

Nè da tale concetto potè liberarsi più tardi, quando incominciando a squarciare i veli della vita, seppe che vi sono nel mondo donne che si danno a tutti gli uomini; ed anche non sapendo precisamente ciò che implicava, in tal caso, il verbo darsi, queste donne rimasero per lei un mito, qualche cosa di fenomenale come le sirene, e se le immaginò sempre sucide e puzzolenti; tanto lontane da lei, così fuori dalla sua orbita, che non le destavano nemmeno la curiosità.

Vivendo con la madre in un ambiente onesto, nessuna circostanza rimoveva intorno a lei il lezzo della società, per cui la sua anima nobilmente femminile si era alzata a poco a poco, senza urti, senza ostacoli, all'idea vaga dell'amore; idea che poggia fra l'ignoranza e il desiderio, descrivendo la curva iridescente dell'arco baleno, dove tutti i colori sono riuniti per l'occhio che li guarda da lontano, dove la mano non stringe nulla.

La sua verginale ignoranza faceva sì ch'ella non ammettesse altri strati all'infuori delle nuvole o degli abissi, ed ecco che la terra le mancava sotto ai piedi, e alla nuova rivelazione della vita arrestavasi sbigottita, incerta.

Quanti amori vi sono dunque? Quello che la Collini spiegava in segretezza, ignobile, vergognoso e che per una mostruosa catena si riallacciava al primo amore di Alberto? o l'amore etereo celebrato dai poeti, sognato nell'ebbrezza di una notte di luna, cantato sulle note del cembalo? o l'amore voluttuoso e ardente di Diana di Poitiers, stringentesi al seno la testa adorata?

Ma perchè nessuno, nè la Collini, nè i poeti, i pittori, le amiche, e nemmeno la madre, le avevano parlato dell'amore come ella lo aveva trovato? Perchè non le avevano detto: Tu entrerai, ignota, nel letto di un ignoto; il vostro contatto sarà senza delirio e i vostri cuori si avvicineranno senza fondersi?

L'inutilità de' suoi slanci amorosi di fronte alla freddezza di Alberto, le fecero germogliare un dubbio. Si era dunque ingannata in tutto! Per piacere agli uomini, per cattivarseli, non occorreva nè il sentimento, nè la devozione, nè la grazia; che cosa ci voleva dunque?

Abbandonata a sè stessa la sua immaginazione si smarriva. Decisa a tutto per vedere suo marito innamorato, avrebbe voluto conoscere quelle che nei libri si chiamano: le arti delle cortigiane. Anche nella storia, anche ne' suoi libri di istruzione aveva trovato esempi di quelle donne maliarde che affascinano. La morte di Oloferne, la disfatta di Cesare, non erano forse l'opera d'una donna?

Recentemente aveva letto di un sultano che si innamorò di una ignobile negra addetta ai più bassi servizi del palazzo, la sposò e la fece sultana Validé, preferendola a tutte le odalische dell'harem.

Non era dunque la gracilità della sue membra e il suo profilo scorretto che vietavano ad Alberto i deliri dell'amore. No certo, perchè Alberto le aveva detto tante volte, col suo accento gentile, che gli piaceva così come era, gli piaceva tutta e la trovava immensamente simpatica, co' suoi capelli castagni ondulati, la sua fronte bianca, gli occhi ridenti e la bocca seria, ciò che formava un grazioso contrasto.

Ma non era ancor tutto. Il punto per lei più oscuro, più incomprensibile era che ella stessa non trovava nelle braccia di suo marito, amandolo come lo amava, la più lieve ebbrezza. E questo la persuadeva di essere una creatura imperfetta, incapace a dare ed a ricevere l'amore.

I suoi scoraggiamenti avrebbero fatto pietà se Alberto li avesse osservati, se avesse potuto comprenderli, se, nella sua bontà superficiale, non si fosse appagato del malinconico sorriso di Marta e de' suoi occhi dolci che lo guardavano amorosamente.

Dimagrava, è vero, e su questo fatto visibile i commenti degli amici e degli indifferenti si sbizzarrivano con le supposizioni più disparate, spesso maligne. Egli sospettava che fosse incinta, e senza cercare più in là raddoppiava i modi cortesi, sorridendo al futuro.

Insieme non stavano molto; a colazione e a desinare, raramente nelle ore intermedie. Alberto tutte le volte che usciva per i suoi affari, baciava la moglie sull'una e sull'altra guancia. Ella lo seguiva, attraverso il cortile, fino alla porta di strada; quando egli era in fondo alla via, si voltava indietro.

Marta rientrava in casa momentaneamente lieta, sentendo la sua dignità di moglie e di padrona, decisa a occuparsi dei suoi doveri di massaia.

Si era provveduta di un cuciniere moderno e su questo spiegava all'Appollonia una quantità di manicaretti; occupandosi ella stessa di una faccenda che interessava moltissimo Alberto, riempì la credenza di conserve, di frutta nello spirito; discese in cantina, e, aiutata da Gerolamo, vi pose un ordine nuovo; salì in soffitta, arieggiando mobili accatastati da anni ed anni, rimettendo fuori stoviglie disusate.

Nell'ampio guardaroba, che la madre di Alberto aveva arricchito di ogni ben di Dio, passò giornate intere, rovistando, spiegando, ripiegando, mettendo in fila dozzine di lenzuola.

Il suo istinto di donna trovava un pascolo nella casa agiata, nella vecchia casa dove le stanze erano così liete, dove tutto sorrideva nel benessere, nella pace, dove perfino la voce da ventriloquo di Gerolamo aveva intonazioni festose, ed il faccione rubicondo dell'Appollonia spiccava sulla soglia della cucina, nella sua onestà ingenua, come lo stemma della casa patriarcale.

A tavola, Marta narrava tutto quello che aveva fatto nella giornata, con vivacità, con una mobilità nervosa, domandando l'approvazione di suo marito, che le veniva sempre concessa per intero.

Dopo, Alberto, che era ottimo mangiatore, faceva il chilo, discorrendo dei suoi interessi, fumando in una lunga pipa che aveva appartenuto a suo padre. Erano i momenti belli di Marta, la quale stava ascoltandolo e guardandolo, tutto per sè, con una adorazione muta, sentendo il principio di quella calda intimità che aveva sempre vagheggiata, sentendo che qualche cosa di insolito si svegliava in lei, un ardore nuovo desideroso di espandersi, una attrazione che partendo da tutta la persona di Alberto la avvolgeva in un'onda dolcemente sensuale.

Ma Alberto si alzava reprimendo, per convenienza, un lieve stiramento delle braccia.

—Ho bisogno di muovermi—diceva.

Prendeva il cappello, la canna, la baciava e andava in farmacia a raggiungere gli amici.

Con le braccia inerti, svogliata, Marta passava la sera sulla stessa sedia dove aveva pranzato, prendendo spesso una tazza di camomilla che Appollonia le portava a forza, vedendola pallida, assicurandola che le avrebbe fatto bene.

Dava qualche punto, leggicchiava il giornale, sbadigliava. Le ore erano lunghe, eterne. Finalmente Appollonia, dopo d'averle chiesto se le occorreva nulla, veniva a darle la buona notte. Ella udiva il rumore che facevano sul mattonato gli zoccoli della brava donna che si allontanava, ultimo frastuono della giornata; e la casa ripiombava nel silenzio.

Marta aveva sonno, ma aspettava Alberto. Quando credeva prossima l'ora del ritorno, si affacciava alla finestra, tendendo l'orecchio. La luna d'agosto, rossa, brillava, sul cielo senza nubi, in un aere molle, grasso di vapori, e l'afa, che mitigata dalla frescura notturna, prendeva un sembiante di carezza, le passava sul volto con l'effluvio dei prati, delle vicine campagne dormenti.

Che cosa faceva Alberto laggiù? Perchè tardava tanto?

L'attesa, dapprima calma e rassegnata, volgeva, col volgere delle ore, ad una inquietudine generale. Non poteva più star ferma; la finestra, la sedia, il divano, l'uscio e poi da capo la finestra, e poi più nulla. Ritta nel mezzo della stanza pareva una statua; le sue sensazioni si concentravano in un immenso, in uno sfrenato desiderio di vedere Alberto.

Il tempo passava, e dall'immobilità angosciosa Marta entrava in uno stato di allucinazione sensuale. Con mano inconscia slacciava i ganci dell'abito, allentava i nastri, cedendo a una sensazione misteriosa di abbandono, con dei brividi a fior di pelle, la bocca assetata, arida, le braccia aperte disperatamente.

Incapace a reggersi, piegava il capo sopra un guanciale, su una spalliera di poltrona, su tutto ciò che poteva darle l'illusione di una carezza. Perduta nelle immagini d'amore scioglieva i capelli, e, attorcigliandoseli sul volto, ne aspirava l'aroma giovanile, gemendo il proprio nome «Marta, Marta!», che la notte raccoglieva e agli echi deserti della campagna ripeteva «Marta, Marta!»

Il tempo passava ancora, finchè l'eccitazione passando, la lasciava sfinita, con le membra rotte, gli occhi pesti e vacillanti. Tuttavia non andava a letto. Aspettava.

Alberto la trovava quasi sempre distesa sul divano, pallida come cera, inerte. E la rimproverava; le diceva: «Dovevi coricarti, dovevi dormire.»

Ella non rispondeva nulla. Barcollante terminava di svestirsi, con dei brividi nelle ossa, e si cacciava sotto le lenzuola. Ma quando suo marito avvicinandosele mormorava: «Andiamo, via….» tutto il suo corpo si irrigidiva, si gettava indietro.

—Le donne—concludeva Alberto, voltandosi dall'altra parte—non si arriva mai a comprenderle.

E Marta, sotto le coltri, piangeva.

* * *

Appollonia frugava dentro un mucchio di ferravecchi, con la larga schiena curvata a terra, e il faccione, per quella posizione scomoda, più rosso del solito.

—Che cosa cerchi, Appollonia?

—Cerco quella chiave, sa bene, la chiave della cassa vecchia lassù in soffitta; m'è venuto in mente che possa trovarsi qui.

Marta, dalla soglia della cucina a cui s'era affacciata, entrò e sedette sovra una seggioletta bassa di paglia.

Veniva sovente, ora, a trovare l'Appollonia; seduta su quella seggioletta, seguiva per ore intere i movimenti della buona donna, acchetando il suo spirito nella contemplazione di quella placidezza non alterata mai, domandandosi spesso come facesse l'Appollonia per conservarsi così grassa, così rossa, così fresca e serena.

A lei invece chiedeva notizie sulla casa, sulla madre di Alberto, su Alberto stesso. Era venuta a servizio quando Alberto aveva già passati i vent'anni, ma sapeva tante cose. Sapeva che da piccino aveva corso il rischio di morire per aver ingoiato il nocciolo d'una susina; che faceva le bizze nell'andare a scuola, al punto che Gerolamo se lo doveva prendere nelle braccia a viva forza e trascinarlo davanti al maestro. Gerolamo, interrogato in proposito, confermava l'asserto, rifacendo il vocione che usava per incutere rispetto al signorino.

Tutto ciò che aveva relazione con suo marito interessava Marta moltissimo; le sembrava di attaccarsi maggiormente a lui, di entrare nella sua vita non solo col presente e col futuro, ma ben anco coi ricordi del passato.

Una volta che Alberto si era lagnato di un dolore al ginocchio, Marta gli aveva detto: Sarà la ferita che ti facesti cadendo dall'albero, sul quale eri salito per guardare nel giardino dei vicini.

—Come sai ciò?—aveva chiesto Alberto meravigliato; e Marta si sentì tutta felice per questa presa di possesso nella esistenza anteriore di suo marito.

Certi abitini di Alberto fanciullo, i suoi scartafacci, i libri di testo, sciupati, con scritto in alto Alberto Oriani, erano altrettante reliquie che Marta conservava, interrogandole, quasi avesse potuto assorbirne ciò che Alberto vi aveva lasciato di sè stesso, de' suoi giuochi infantili, della sua lieta adolescenza di figlio unico.

Scoprì che a dodici anni egli aveva ricevuto la prima comunione; conto fatto sulle immagini conservate con la data di quel giorno; e che era stato ghiotto, imprudente, disubbidiente; bugiardo mai.

Aveva tentato di avere, per parte d'Appollonia, la descrizione esatta della lavandaia che veniva in casa quando Alberto aveva sedici anni; ma questo desiderio le andò fallito, perchè al tempo in cui Appollonia era entrata in servizio, la signora Oriani si era già decisa da un pezzo a far lavare fuori di casa. Seppe però che donne ne bazzicavano poche, essendo la signora Oriani severissima in fatto di costumi, e che se il signor Alberto aveva qualche pasticcetto doveva pensare a cucinarselo altrove.

Appunto—riflettè Marta intanto che Appollonia cercava la chiave—come mai mia suocera, che era tanto accorta e previdente, si acconciò a prendere una serva giovane quale doveva essere costei allora?

—Appollonia, quanti anni avevi il giorno che venisti in questa casa?

—Ventiquattro, venticinque o ventisei, non lo so neppur io.

—Eri però giovane.

—Oh sì, signora, ero giovane.

Marta non voleva esprimere tutto quanto il suo pensiero, scrutando la fisionomia della serva, sembrandole al disopra di ogni sospetto; e tuttavia dubbiosa, per quell'eccesso di zelo che in ogni cosa dimostrano i novellini.

—E non hai mai pensato a prendere marito?

Tale domanda fu lanciata così a bruciapelo, che Appollonia sollevò gli occhi e trasse le mani dal mucchio di ferravecchi, restando a bocca aperta, tra il vergognoso e il meravigliato: finchè calma, calma, scuotendo il capo e rimettendosi carponi, rispose:

—Chi vuol mai che mi prendesse!

Non v'era in queste parole neppur l'ombra del rammarico, dell'ira o dell'invidia; nessun lampo di desideri assopiti, nessuna puntura di vanità, niente altro che la semplice, serena accettazione del fatto compiuto.

Marta l'ammirò questa volta, non da padrona a serva, ma da donna a donna.

—Prima di tutto—disse, dolcemente, sentendo il bisogno di questa carezza spirituale—non sei nè gobba, nè zoppa, e nemmeno brutta; avresti potuto maritarti tu come qualunque altra…

—Ah! è vero, zoppa no, gobba no; ma pure…

—E quand'anche nessuno ti avesse cercata, potevi ben tu avere il desiderio di collocarti.

Appollonia crollava la testa, sempre curva, ma dalle gote sporgenti sugli zigomi appariva chiaro ch'ella rideva in pelle in pelle.

—Di', Appollonia?

—Nossignora, nossignora, questo desiderio bisogna essere in due per averlo.

—Si può tuttavia avere, da sola, il desiderio di trovare il secondo.

—Ma sarebbe un desiderio inutile.

Marta rimase colpita da una manifestazione di criterio così solido in sì umile creatura.

—Sei una testa forte—disse ridendo.

—Forte, forte—confermò Appollonia dandosi un pugno sul capo, per avvalorare le parole.

—Sicchè ti trovi felice?

—Io sì.

—Ma felice di che?

Parve che Appollonia non comprendesse subito, perchè esitò qualche istante; disse poi risoluta:

—Felice di essere sana e di poter lavorare.

Marta la guardò con stupore.

—Infine questa chiave non si trova—esclamò la serva levandosi in piedi.—Credo che se lei vuol guardare nel cassone, dovrà farlo aprire dal fabbro. Vado a chiamarlo?

—Non preme. Siedi un momento, riposati. Che cosa facevi prima di venir qui? Hai servito in altre famiglie?

Appollonia si passò la mano sulla fronte, quasi per raccogliere idee sparse e molto lontane. Fu ancora Marta che riprese:

—Già, mia suocera doveva conoscerti molto bene, altrimenti non ti avrebbe presa.

—Sicuro che mi conosceva ed aveva conosciuto anche mia madre. Io no.

—Non hai conosciuto tua madre?

—Nossignora.

—E con chi vivevi?

—Con mio padre.

—Voi due soli?

—Noi due soli.

—Che mestiere faceva tuo padre?

—Era contadino.

—Anche tu hai lavorato la campagna?

—E come! Quando ero proprio piccina andavo a scuola, ma ci andai solamente due inverni perchè una vicina mi mandava insieme alle sue figlie, e quando venivo a casa mi dava un po' della sua minestra ed io rifacevo il letto alla meglio.

—Dov'era tuo padre?

—Faceva il giornaliero, un po' qui, un po' là. Alle volte veniva a dormire a casa, ma non sempre; d'estate stava fuori le intere settimane, non lo vedevo che al sabato.

—E alla domenica.

—Alla domenica poco; si sa, egli preferiva andare all'osteria.

—Tu dunque rimanevi sola? Non ti annoiavi?

—Non ne avevo il tempo. L'anno che la mia vicina cambiò casa e che io dovetti rinunciare alla scuola, mi rimasero le faccende da disbrigare, il letto, la minestra; poi, tanto per guadagnare qualche cosa, andavo anch'io a giornata per servizi leggeri. Alla sera cucivo quel po' di roba nostra, rattoppavo i calzoni di mio padre; nei giorni festivi leggevo.

—In complesso facevi una vita tranquilla.

—-Oh! sì, per un po' di tempo.

Marta non avvertì queste ultime parole, intenta ad immaginarsi l'Appollonia piccina, tonda, tonda, ruzzolare come una palla dal letto al focolare, dal focolare al lavatoio, pacifica, col suo bel faccione da luna piena.

—E quando tuo padre stava fuori alla notte, dormivi sola?

—Sola.

—Senza aver paura?

—Di che? Eravamo così poveri che la nostra casa non poteva tentare i ladri; andavo a letto già mezz'addormentata e qualche volta non mi ricordavo nemmeno di chiuder la porta. Una notte scoppiò un temporale fortissimo che mi spalancò tutto quanto l'uscio; l'acqua entrava a torrentelli ed alla luce dei lampi io la vedevo che saliva, saliva, portando in giro per la stanza le scarpe nuove di mio padre, tanto inzuppate alla fine che non si poterono più muovere e ci volle poi una settimana per farle asciugare. Fu la sola volta che ebbi paura.

—Avesti paura allora?

—Madonna santa, pareva il finimondo! Mi cacciavo sotto le lenzuola per non vedere e non sentire, ma vedevo e sentivo sempre; e credevo che le anime dei morti venissero a portarmi via in mezzo alle saette. Mio padre, il giorno dopo, mi battè ben bene perchè non ero scesa a chiudere l'uscio. Aveva ragione.

—Ragione di batterti?

—Ma sì.

—E di lasciare in casa una bimba sola?

—Questa non era colpa sua. Doveva pur andare a lavorare. I signori sono i signori e i poveri sono i poveri.

Marta si sentiva la voglia di abbracciarla, e lo avrebbe fatto se il movente di quella sensazione fosse stato solamente la bontà; ma si accorse che in una leggera sfumatura di bontà, il suo cuore tripudiava, sollevato dai propri mali, ed ebbe vergogna di mostrare una sensibilità che in fondo non era altro che egoismo. Ripromettendosi di compensare altrimenti le modeste virtù di Appollonia, si abbandonò per il momento al piacere che le dava quella specie di autobiografia, dove la sua anima sitibonda di ideale, trovava un pascolo inaspettato.

—E hai continuato in tal modo fino…

—Sempre, fin che visse mio padre.

—Lo amavi molto tuo padre?

—Sì; è dovere.

—Ma non si ama solamente ciò che è dovere—insinuò Marta.

—Si ama ciò che si deve amare—rispose Appollonia, candidamente.

—Era buono almeno tuo padre?

—Sì, come uomo.

Queste parole sintetiche fecero ridere Marta. Appollonia soggiunse:

—Nei primi anni le cose andavano discretamente. Mio padre, si sa, ogni uomo ha il suo vizio, beveva; ma beveva soltanto alla domenica. Tornava dall'osteria che sembrava un bambino, rideva, rideva e diceva delle parole senza senso. Io lo chiamavo: «babbino, caro babbino.» Egli mi abbracciava e poi cadeva sul letto. Non c'era niente di male, nevvero? Ma quando il lavoro divenne scarso e che egli non potè andare tutti i giorni a lavorare, me lo vedevo confitto in casa da mattina a sera brontolando, prendendosela con tutti, anche con me, che ero una bocca inutile e che se fossi stata un uomo avrei almeno potuto aiutarlo. Io, naturalmente, non rispondevo nulla, e, sul tardi, se egli usciva per «cacciare i dispiaceri,» come diceva lui, non potevo impedirglielo. Così incominciò a bere tutti i giorni, proprio allora che mancavano i denari!

—Mi pare che non fosse un padre modello! esclamò Marta.

—Bisogna compatirlo. Gli uomini, quando non hanno lavoro, fanno tutti così. Prima non era cattivo; andandogli male i suoi affari gli si guastò il sangue. Gli dicevo bene qualche volta: «Babbino non bere, che sprechi i denari e la salute.» Ma egli mi rispondeva che le donne devono tenere la lingua a casa. Anche questo è giusto. Dunque, più mio padre beveva e meno i padroni volevano prenderlo a giornata; meno egli andava a giornata e più beveva. Le lascio considerare! Dovetti allora lavorare per due; fortuna che la salute c'era. Andavo durante il giorno a falciare, a sarchiare, a battere il grano, a cardare il lino, e molte ore della notte le passavo cucendo abiti per le donne e per i ragazzi, che in questo ci riuscivo benino, ed anche mi piaceva. In complesso non mi lagnavo; tolto di alcune feste in cui vedevo le mie compagne andare alla sagra tutte vestite in ghingheri, ed io non potevo accompagnarle; prima perchè non avevo abito, nè scarpe, nulla; poi chi avrebbe avuto cura della casa e di mio padre? Il mio destino era questo.

—E non ti capitò allora di prendere marito?

—Com'era mai possibile? Avevo due camicie in tutto!

—Nessuno ti fece mai la corte?

—Se non uscivo nemmeno!

—Dovevano sapere che eri una brava ragazza e che saresti stata un'ottima moglie.

—Ma non avevo nulla. E mio padre chi lo avrebbe preso? Si sposa una persona, non se ne sposano due. Del resto le giuro che non avevo affatto voglia di prendere marito; mi bastava mio padre.

—Oh!—fece Marta—non è la stessa cosa.

Appollonia si strinse nelle spalle; la differenza, secondo lei, non valeva la pena di essere discussa.

—Per finire, a che punto arrivò tuo padre?

—Mio padre arrivò al punto che non si moveva più dall'osteria. Standosene là tutto il giorno gli capitava a volte di fare una commissione, di scaricare roba, di tenere un cavallo, tanto per buscare qualche soldo.

—E allora te li portava?

—Oh! nossignora, li beveva per farsi passare il dispiacere di non poter guadagnare di più. Per parte mia ero contenta che trovasse modo di farsi passare i dispiaceri; ma quando mi veniva a casa barcollante che non gli si poteva far intendere una ragione, e mi toccava prenderlo, svestirlo, metterlo a letto senza cavarne un costrutto al mondo, proprio come un bambino appena nato, le confesso che mi sentivo nel cuore uno stringimento e un desiderio di essere al suo posto; al suo posto per fare diversamente, capisce?

—Sì, sì, capisco.

—Ma ognuno ha la sua parte e nessuno può cambiarla. Negli ultimi tempi non andavo più nemmeno a messa; egli veniva a casa a qualunque ora, in quello stato, e se non c'ero io rompeva ogni cosa, bestemmiando, che se ne andava tutto il frutto della messa. Il signor curato lo sapeva e diceva che facevo bene. Finalmente, quando fu la sua ora, si sentì male davvero. L'oste e i vicini dicevano: È ubbriaco! Io capivo che non era ubbriaco questa volta. Lo avevo chiamato «Babbino, babbino» e non rispondeva più. Allora corsi, era di notte, a chiamare il dottore. C'era la neve tanto alta! Il dottore brontolò che non era tempo da disturbare i cristiani. Poveretto! ma anche noi, come si doveva fare? Un po' per uno. E si tornò insieme, nella neve, con un freddo che non si sentiva nemmeno. Quando arrivammo a casa, mio padre rendeva l'ultimo respiro!

Dopo una pausa, Marta disse:

—Fu in quell'occasione che ti decidesti di andare al servizio?

—Io veramente non ci pensavo. La signora Oriani venne a trovarmi il
giorno del funerale e mi disse: «Che vuoi fare qui sola? Vieni da me.»
Non avevo nessuna ragione per rifiutare. Poi mi sono trovata contenta.
La signora Oriani è morta presto: anche questo era destino. E così va!

—Quanti anni hai adesso?—chiese Marta.

Appollonia rispose filosoficamente:

—Trentotto, trentanove o quaranta, chi lo sa!

* * *

Finalmente la vecchia cassa era stata aperta. Da molto tempo Marta chiedeva a suo marito che cosa contenesse, ma egli non sapeva dirglielo.

Ora, rovesciato il coperchio, apparvero alla rinfusa oggetti disparati: lembi di cortine, pezzi di frangia, un sacchetto di chiodi, due o tre libri, lettere, guanti usati e due spalline della guardia nazionale.

Si capiva che tutta quella roba era stata gettata là a casaccio, per disfarsene, abbandonata ai topi, alle tignuole ed alla muffa.

I libri erano: due volumi scompagnati di Walter Scott, una grammatica francese e una strenna, di quelle che usavano una volta, rilegate in cartoncino filettato d'oro, con la prefazione alla gentile lettrice e le vignette riparate dalla carta velina. Marta amava queste vecchie strenne; le aveva guardate da piccina, nelle sere invernali, aprendole prima adagio adagio, con precauzione, soffiando sulla carta velina per poterla voltare senza sciuparla e gettando dei piccoli gridi ammirativi ad ogni pagina illustrata. Più tardi vi aveva cercato le forme dell'amore nei sonetti romantici, nelle leggende delle castellane e dei paggi biondi, in certe frasi appassionate ed oscure. Diana di Poitiers le era comparsa innanzi così bella e poetica come Giulietta, come Desdemona, come Margherita. Al solo vedere una strenna le tornavano a memoria i versi che ella aveva imparati più volentieri di tutti gli altri, che l'avevano fatta piangere di tenerezza, quando aveva diciotto anni.

    Oh! fanciulla, qual mesto contento
    Mi discenda nell'alma non sai.
    Se dischiudi l'angelico accento,
    Se mi fissi o mi stringi la man…
    Ah! se m'ami tu pur sentirai
    Quel che sento d'esprimerti invan!

    Quando a notte l'impero del cielo
    Si distende su tutto il creato,
    E palliata di candido velo
    La tua cara sembianza m'appar,
    E il mio nome con giubilo ascolta,
    E la bocca mi sento baciar…

    Sorge allora più ardito il desìo,
    Più gagliardo nell'alma romita;
    E sul labbro, bell'angelo mio,
    Questa voce dal core mi vien:
    Ah! se tutta trascorrer la vita,
    Me beato, potessi al tuo sen!

Le sembrava ancora la più bella poesia del mondo, l'aveva recitata un giorno al dottorone, sperando di commoverlo, ma egli aveva risposto: Non creda ai poeti; essi cantano d'amore nello stesso modo che i becchini seppelliscono i morti, per professione.

Nelle pagine della strenna c'era un foglietto, staccato, come si vedeva, da una lunga lettera. La carta era sottile, rasata; la calligrafia femminile, diceva; «mai, mai lo dimenticherò, mai! Esso è qui sulle mie labbra, più ancora che non sia nel mio cuore; perchè sulle labbra me lo hai messo tu e ribaciandole lo risento.» Il rimanente era stracciato.

Quel brano di lettera bruciava nelle mani di Marta. Quantunque non vi fosse un dato positivo, ella sapeva già a chi era stata diretta, e i pochi o molti anni trascorsi, non modificavano l'impressione violenta ch'ella provava leggendo le parole d'amore scritte da un'altra a suo marito. Un'altra!

La stessa calligrafia minuta, ineguale, la stessa carta sottile leggermente azzurra, traversata da lineette dalle quali le parole saltellavano or sotto or sopra, quasi nervose e indomite, riappariva man mano che Marta toglieva gli oggetti dalla cassa; foglietti spiegazzati, strappati, tra le cui pieghe si annidavano gli insetti minuscoli che vivono di carta, su cui erano cadute delle macchie ignote dilatando l'inchiostro, gonfiando le parole; foglietti che avevano l'apparenza di lebbrosi, esalanti un odore stantìo di rose secche e di muffa.

Qui—pensava Marta—qui è la giovinezza d'Alberto, i suoi entusiasmi, i suoi palpiti, i suoi ardori, i baci che io aspetto invano.

Afferrava le lettere febbrilmente, volendo leggere subito, stentando a mettere insieme le pagine, impazientandosi per le frequenti lacune. Non pensò neppure un istante a portarle a suo marito; al contrario, chiuse l'uscio per non essere disturbata, e sedendosi sopra un mucchio di panni incominciò a fare lo spoglio per ordine, un ordine relativo perchè mancavano quasi tutte le date. La firma invece c'era intera: Elvira. Non fu più possibile neppure il dubbio sulla persona a cui erano indirizzate: fin dalla seconda lettera il nome d'Alberto era scritto e ripetuto con una compiacenza raffinata, con una calligrafia migliore, quasi che su quel nome la mano inquieta si fosse arrestata per prolungare la dolcezza di scriverlo.

Un'altra lettera, più fresca, chiusa ancora nella sua busta, col suggello rotto, ma intelligibile negli arabeschi di un piccolo stemma; la carta sostenuta, perlacea, sparsa di stelline; la calligrafia di una eguaglianza perfetta: «Se tutto quello che mi avete detto è vero, se io sono ancora per voi la più adorabile delle donne, venite oggi alle cinque. Sarò sola.»

Nessuna firma.

Dopo un movimento di dispetto, gettò questa lettera in un canto. Il suo interesse era per le prime, per quella Elvira appassionata che non nascondeva il suo nome, che lo ostentava invece nella franchezza prepotente del vero amore.

Adagino, con pazienza, riusciva a metterle insieme, le mani frattanto le tremavano e la sua testa era in fiamme.

Fu distratta un'altra volta da un bigliettaccio mal piegato, male scritto, con qualche errore di ortografia: «Ti ho aspettato in piazza e non sei venuto. Non vengo più.»

Questo le fece male. Il fatto di una donnaccia che dava del tu al suo Alberto, e che da lui era stata guardata, preferita, amata forse—e senza forse amata nel modo che amano gli uomini—questo fatto, che pure in genere conosceva, la ripiombava nelle sue amare riflessioni, nei suoi eterni dubbi. Come potrebbe egli intenderla, se ella non riusciva a intender lui?

Messe l'una sopra l'altra, le lettere d'Elvira formavano un piccolo pacco.

La prima, l'unica che avesse una mezza data, era questa:

I.

22 febbraio.

Gentile signore o amico mio? Amico mio è più dolce, il mio cuore lo suggerisce subito e la mia penna lo scrive ben volontieri. Ma è poi vero? Siete, sarete voi il mio amico per sempre? Sono così turbata, così commossa che non oso dirvi tutto quello che sento. Forse faccio male ad amarvi, ma Dio mi è testimonio che sono sincera e credo voi pure animato dagli stessi miei sentimenti. Ditemelo, ditemelo!

=Elvira=.

II.

Amico mio,

Sì, io vi chiamo amico mio; oramai non potrei più riprendermi questo cuore che è vostro, ma voi rispondete al mio affetto? La vostra lettera era fredda, e di uomo distratto… scusatemi, Alberto; caro Alberto, non vorrei recarvi dispiacere colle mie esigenze. Egli è che mi rende tanto felice il pensiero di essere amata da voi!

La famiglia che mi tiene in pensione non fa altro che lodarvi; se sapeste come ne sono orgogliosa! Non potreste entrare in relazione con questi miei ospiti? Ci vedremmo allora più spesso…

Lo so che non sono degna di voi, che meritate ben più dell'amore di una povera maestra, ma vi dò tutto quello che ho, tutto, tutto, o mio sogno!

Mancava il secondo foglio di questa lettera.

III.

Diletto Alberto,

Perchè non mi scrivete? Ho passato una notte agitatissima, senza chiuder occhio. Alle undici e mezzo vi ho sentito passare sotto le mie finestre insieme ai vostri amici; ridevate forte e, non so perchè, quelle risa mi scendevano sul cuore come colpi di martello.

Pensate a me almeno? Scrivetemi subito una riga, una parola.

=Elvira.=

Ve ne scongiuro, subito, subito.

IV.

Mercoledì.

Impazzisco, Alberto! Non una parola durante otto giorni interi. So che siete in paese; vi ho visto ieri andando a messa; eravate lontano, vi ho riconosciuto egualmente, e voi non mi avete sentita?

Ho passato questi otto giorni correndo dalla porta alla finestra, sempre nell'aspettativa di una vostra lettera, non vivendo d'altro!

Forse siete in collera perchè non vi ho ancora dato l'appuntamento che mi chiedeste? Ma come fare? Se ci trovassimo per istrada lo saprebbero tutti e nei paesi sono così maldicenti! Perchè non venite a casa? Tuttavia ci penserò, ci penserò tanto che pure troverò il modo di poter stare insieme con voi almeno un istante.

Anche di questa lettera mancava la fine.

V.

Mio Alberto,

Che gioia insperata! Vedervi, stringervi la mano, udirvi parlare, respirare l'aria stessa respirata da voi… oh! che bel giorno ieri! Lo ripenso continuamente, senza posa, intanto che lavoro, intanto che faccio scuola, intanto che mangio o che parlo o che taccio, che passeggio o che dormo, sopratutto quando dormo perchè il mio sonno non è che un lungo colloquio con voi.

Non chiamatemi più esagerata perchè mi fa dispiacere. Vi amo come sento, ma vi amo sinceramente, con slancio, senza restrizioni. Voi non mi avete promesso nulla ed io nulla attendo e nulla vi chiedo se non questo: lasciate che vi ami! Ho fede che il mio amore scuoterà la freddezza dell'animo vostro. Io per voi mi sento il coraggio di affrontare qualunque ostacolo; mostratemi una meta e mi divida pure da essa tempo, persone o destino, io moverò a quella contro tutto e contro tutti, per voi!

Alberto, prendete queste due piccole violette che ho legate insieme con uno de' miei capelli, che ho baciate, che ho tenute sul mio cuore e che vi mando perchè le mettiate sul vostro; così come vorrebbe esserci la vostra, tutta vostra

=Elvira=.

Le due violette si trovavano ancora in mezzo al foglio, fermate con un piccolo taglio nella carta. Il capello non c'era più.

Non sapendo precisamente dove collocare il frammento che incominciava con le parole «mai, non lo dimenticherò mai!», Marta lo pose subito dopo questa lettera, argomentando per il tono più intimo delle seguenti che gli amanti dovevano essersi avvicinati.

VI.

Mia vita,

Non ho che te! Non penso ad altro, non voglio niente altro. Tu dici che non puoi ammogliarti ora, che m'importa? Sfido le ipocrisie del mondo, voglio il tuo amore, non il tuo nome, non la tua casa, non i tuoi beni, non la pace e la salvaguardia che mi verrebbero da te, ma te solo, te, te, te!

Aspetto tue lettere con la sete di Agar nel deserto. Mille e mille baci.

VII.

Alberto,

Credevo di non avere più lagrime, ma soltanto nello scrivere il tuo nome adorato esse mi sgorgano profondamente dal cuore, dal midollo delle ossa. Non so bene da dove vengano, ma con esse tutto il mio corpo si sfibra; e mi pare che non acqua, ma sangue cada da' miei poveri occhi.

Tu non lo credi, nevvero? Oh! se lo credessi, non potresti lasciarmi in queste angustie! Amor mio, vita mia, sei pur buono, e perchè mi fai tanto soffrire? Quando penso che sono stata nelle tue braccia, che il mio cuore ha palpitato sovra il tuo, che le nostre labbra si unirono, che per un istante l'universo e Dio non esistettero più per noi, per me… mi domando se vivo ancora, o Alberto!

Come le mie braccia sono vuote! E come fredde le mie labbra! Oh se potessi morire…

=Elvira= tua.

In margine a questa lettera, scritto a matita, c'era un conticino da trattoria.

VIII.

(Frammento).

….. eternamente tua.

Hai ricevuto la fotografia? Aspettai inutilmente un tuo bigliettino. Nel momento di mandartela non potei scrivervi altro che il nome, in fretta, fra una piega dell'abito; cercalo.

Ma non mi basta il nome; scrivo qui le parole che desideravo unire alla fotografia; ritagliale e con un po' di gomma falle aderire al cartoncino da tergo.

    Al mio unico amore Alberto Oriani
    Dò tutta me stessa in questo ritratto.

Ricordati, sai? Ci tengo.

Al tuo ritratto ho fatto un sacchettino di seta, vi ho unito il garofano rosso che mi hai dato la prima volta che ci siamo visti e porto questo con me, su di me

=Elvira=.

Marta aveva cercato, avidamente, il ritratto di Elvira. Non era insieme alle lettere, come non era unito alle ardenti parole della dedica; nè altro chiudeva la cassa che potesse avere rapporti con Elvira.

Lesse ancora e rilesse le lettere ben due o tre volte torturandosi con tutte quelle frasi d'amore, sentendo una stretta al cuore per ogni bacio che Elvira aveva dato ad Alberto, oppressa dalla disperata convinzione che per quanto ella facesse o dicesse, non avrebbe potuto cancellare dalla mente di suo marito quei ricordi. E con altri ricordi era possibile l'amore pieno, illimitato come se lo era immaginato lei? Se i suoi baci succedevano ad altri baci, se non poteva trovare nuove carezze, se le parole che ella credeva di avere per lui non erano che una ripetizione di cento e cento altre dette prima, che cosa era ella dunque se non l'ultima arrivata, la grama viaggiatrice che trova tutti i posti presi?

E accanto a queste riflessioni un'altra ne sorgeva, più profonda, che avrebbe potuto superficialmente consolarla, ma che invece aggiungeva amarezza ad amarezza. Era questa la persuasione che Alberto non aveva corrisposto all'amore di Elvira. Tutto lo diceva; i dolci lamenti di lei per la sua freddezza, le rare risposte, i fiori dimenticati, quella dedica appassionata che egli non si era menomamente curato di aggiungere al ritratto, e la taccia di esagerata, nella quale parola Marta rivedeva Alberto tutto intero. Egli non aveva amata neppure Elvira; non ricordava nulla, non aveva capito nulla.

E se l'amore delirante di Elvira non lo aveva infiammato, bisognava proprio credere che egli fosse, al pari della salamandra, insensibile a qualunque fiamma. Non era dunque per esaurimento di passione che mostravasi nemico dei trasporti amorosi; non si trattava di guarire una malattia, nè di ravvivare un sentimento; ella si trovava davanti ad un nulla assoluto.

Ma questo nulla, percettibile alla sua analisi sottile, sfuggiva nella sintesi che ogni onesta persona avrebbe potuto fare di Alberto. Egli aveva tutto ciò che gli uomini credono sufficiente per una donna, e che molte donne credono del pari; aveva di più la franchezza del suo carattere e l'onestà de' suoi principii. Egli amava Marta nel solo modo che gli era possibile di amare.

Poteva ella lagnarsene?

No, no, sarebbe stata una vile ed ingrata creatura. Piangeva, tenendo ancora fra le mani le lettere di Elvira, dilaniata dalla tristezza, sentendo il freddo di quelle ceneri morte, sentendo, insieme alla sua, l'angoscia che saliva da tutte quelle illusioni distrutte, da quell'irrimediabile passato.

Una cappa di piombo le sembrava caduta sulle spalle, fugando i sogni, le mobili fantasie della giovinezza. Si sentiva vecchia di tutti gli anni di Alberto, di tutto ciò che egli aveva visto, provato, di quegli amori che egli aveva attraversato sfiorandoli, di quelle lagrime inconsapevoli che aveva fatto spargere; e non provava ira nè invidia; solo una grande, infinita stanchezza, come di ali spezzate.

* * *

Alberto era uscito per la solita visita ai poderi e non sarebbe rientrato che all'ora del desinare, verso le cinque. Come avrebbe fatto Marta a deludere la smania che la divorava?

Decisa prima a tacere, dovette poi venire ad una transazione col proprio orgoglio; parlerebbe, ma parlerebbe per sorpresa, volendo impadronirsi degli intimi pensieri di suo marito, giocando con abilità la carta che il destino le aveva posta tra le mani.

Intanto si era ricordata di un certo panierino dove stavano ammucchiate fotografie d'ogni specie; andò a prenderlo e vuotate le fotografie sul tavolino, incominciò ad esaminarle minutamente, procedendo nella eliminazione di tutti gli uomini e di un can barbone riprodotto con solennità nel bel mezzo di una poltrona.

Scartò poi frettolosa una caterva di vecchie zie, di avole, di bisavole, di bambini ritratti nelle braccia della nutrice, di bambinette raggruppate, finchè ridusse le fotografie ad una dozzina o poco più di donne passabili.

E ancora occorreva molta immaginazione per raffigurarsi capaci di una seduzione qualsiasi quelle figure sbiadite su fondo rossiccio, vecchie come soltanto diventan vecchie le fotografie nel loro spietato realismo; capelli piatti, oppure rialzati nella forma precisa di polpette ripiene: occhi truci, terribili, o imbambolati nella preoccupazione della posa; in generale faccie musone. E gli abiti? Maniche larghe, a prosciutto, a zoccolo, a campana, alla contadina; vite angolose, falpalà arzigogolati, bottoni fuor del vero.

Che mostri!—pensava Marta—e probabilmente fra dieci o quindici anni si dirà lo stesso di me.

Cercava minutamente, guardando in ogni piega delle vesti per scoprire il nome di Elvira. Credette di averla trovata in una giovane donna, appoggiata languidamente al tronco di una colonna, con l'indice della mano destra affondato nella guancia, la mano sinistra ricadente lungo l'abito; il nome di Elvira però non c'era in nessun posto. Allora fu assalita dal dubbio che Alberto conservasse quel ritratto in qualche luogo riposto, nel suo scrigno, in un santuario gelosamente nascosto, forse sul suo cuore. Divampò. Certo, quello non era un amore dei soliti; Elvira non si poteva confondere con Giuditta; egli ancorchè più freddamente, doveva però aver amata quella fanciulla e conservato di lei una memoria indelebile.

Crucciandosi per questo sospetto, non ricordava più di essersi crucciata prima per l'impossibilità che Alberto avesse potuto corrispondere all'amore di Elvira. Maneggiava una lama a due tagli; da qualunque parte la girasse si tagliava.

Appollonia, vedendo la sua signora passeggiare smaniosamente per le stanze, le domandò se si sentisse male.

Aveva l'inferno nel cuore. Fino a qual punto si erano amati? Fino a quale? Era riuscita Elvira ad animare la statua? Si era data a lui con quello ardore che traspariva dalle sue lettere?

E poi? E dov'era adesso?

L'inazione dell'aspettativa le riesciva insopportabile.

Prese l'ombrellino e s'avviò per i campi, incontro a suo marito. Anche Elvira doveva aver percorso qualche volta quei sentieri, pensando a lui, confidando all'aria e al cielo i suoi sospiri appassionati; e che ne era rimasto? Dove va a finire l'amore, e perchè finisce? La fine è la morte, ma la peggior morte è quella che si sente.

Oh! l'orribile tristezza!

Smaniava di vedere Alberto, di toccarlo, di persuadersi che era suo, che non le sarebbe sfuggito mai; e voleva dirgli che lo amava, che lo amava come Elvira, più di Elvira.

Piangeva, facendo rotolare i sassi cacciati dalla punta dell'ombrellino, divorando la via.

A un tratto le si parò davanti il dottorone, tenendo tutto il sentiero con la persona alta e grossa, con la tuba voluminosa, l'unica tuba che si vedesse in paese. Declamava versi, ma incontrando Marta si fermò. La giovine sposa lo interessava, non aveva mai tralasciato occasione di mostrarsele amico.

—Dove va?—le chiese senza complimenti.

—Vado incontro ad Alberto.

—Da questa parte?

—Non è di qui?

—No davvero. Ci arriverebbe ugualmente poichè tutte le strade conducono a Roma, ma forse non incontrerebbe per quest'oggi suo marito. Se permette, la metto io sulla dritta via.

Marta nell'imbarazzo aperse l'ombrellino per nascondere un po' la faccia, intanto che si ricomponeva.

—Settembre è il più bel mese dell'anno—soggiunse il dottorone, seguendo il corso de' suoi pensieri—i poeti dicono l'aprile, ma non è vero. In aprile piove troppo, i campi non hanno spighe, nè gli alberi frutti, le viti sono sfrondate, il sole non scalda, nevica qualche volta! Maggio è un po' meglio; abbiamo le fragole se non altro. Giugno glielo raccomando; tutto fiorisce, tutto sorge da terra, i campi sono uno splendore, i piselli e i fagiuolini si vendono a buon mercato. Tiriamo un velo sul luglio e l'agosto, è la sola cosa che si possa fare in un tempo in cui ci si leverebbe perfino la camicia…

—Lei conosce—interruppe Marta approfittando della pausa—la maestra del paese?

—Quella gobbina? Sì.

—Sta qui da molti anni?

—Sette od otto, non saprei.

—E la maestra precedente?

—Conobbi anche quella.

—Si chiamava Elvira?

—Ma!… Elvira, come?

—La parentela la ignoro. Era giovane?

—Abbastanza.

—Bella?

—Una morettina, sa, di quelle morettine con gli occhi neri e coi denti bianchi, delle quali non si può mai dire che sieno assolutamente belle nè assolutamente brutte.

—L'ha conosciuta molto?

—Oh! dir molto sarebbe troppo. Le ho parlato una volta o due. Era simpatica.

—Perchè è andata via?

—Chi lo sa! Probabilmente le avranno cambiato destinazione.

—Non si può dunque rammentare se si chiamava Elvira?

—Proprio non lo rammento.

Marta avendo chiuso l'ombrellino, tornò a far rotolare i sassi in silenzio.

—Settembre—continuò il dottorone—ecco il trionfo dell'anno! È il mese in cui si riempiono le cantine e si provvede di selvaggina la tavola; le aie si spogliano del loro bel tappeto giallo per colmare i granai, la terra si riposa nella maestà tranquilla di una madre che contempla i suoi nati. E veda, veda che cielo limpido, senza nubi! Che splendore di vegetazione! Settembre—soggiunse dopo una pausa—è forse anche la migliore stagione della vita. Non lo crede?

Marta, distratta, rispose con una esclamazione insignificante.

—Io ne sono convinto. La giovinezza è troppo acerba, la virilità troppo burrascosa.

Rialzò con una specie d'orgoglio la testa brizzolata, da un lato della quale la tuba stava in bilico per un miracolo d'equilibrio; i suoi occhi intelligenti scintillarono e le sue narici sensuali respirarono l'aria fortemente.

—Le piante—disse Marta—sono più fortunate di noi.

Egli non sapeva a che cosa alludesse Marta; rispose a caso:

—Anche per esse c'è la grandine e l'accetta.

Tacquero poi, obbedendo entrambi alla tirannia dei propri pensieri, subendo l'influenza di quel dolce pomeriggio d'autunno.

Camminavano lesti, leggeri, aspirando il profumo dei prati, nella tranquilla ascoltazione delle cingallegre che volavano d'albero in albero; l'occhio vagante, il pensiero alato.

Egli si fermò di botto.

—Che cosa guarda?—domandò Marta dopo di aver aspettato qualche istante.

—Coraggiosa bestiola!

Questa esclamazione non essendo una risposta, Marta si pose anch'ella a guardare.

Tra due rami d'acacia un ragno aveva gettato i suoi fili dall'alto al basso, regolarmente, per accingersi poi a lavorare in tondo la tela; un bruco cadendo da un ramo superiore, gli aveva rotto uno dei fili, ed esso stava rimettendolo da capo.

—Non è coraggio questo?

Marta sorrise.

—Ma non basta. Aspetti un momento, tanto che esso abbia attaccato il filo. Benone! Or ecco un colpo della sorte.

Diede un buffetto, coll'indice e il pollice, al nuovo filo.

—Cattivo!—fece Marta.

—Guardi, guardi—esclamò il dottorone entusiasmato—esso torna a zampettare, bravo! Bravo, ti dico. E così vita natural durante, sa? Questa bestiola non si avvilisce mai; rotto un filo ne getta un altro; il secondo si spezza, viene il terzo. Avanti, sempre avanti! È il suo motto gentilizio. Osservi come è già salito; è all'apice. Paf!

—Oh! crudele—gridò Marta nel vedere che aveva strappato ancora il tenue filo—perfido uomo!

Egli la scrutò in fondo agli occhi che ella chinò subito, turbata.

—Le chiedo scusa; ho voluto mostrarle fino a qual punto si può essere coraggiosi.

Il ragno rifaceva la tela, salendo, salendo, intanto che Marta lo guardava non senza sorvegliare il suo brutale compagno.

Ma egli disse con semplicità:

—Andiamo a trovare Alberto.—Ed ella subito si mosse in silenzio.

Lo incontrarono non molto lontano. Se ne veniva lemme, lemme, con la sua bella fisionomia aperta, serena, il passo regolare d'uomo senza fastidi.

Ritornarono insieme tutti e tre fino al paese, fino alla porta dei due coniugi, dove il dottorone si accommiatò.

Marta pensava che Alberto era finalmente nelle sue mani, e se lo divorava con gli occhi, mentre egli appendeva tranquillamente il cappello.

Visto così, di dietro, la sua nuca aveva una seduzione particolare, colle orecchie morbide bene attaccate, i muscoli solidi; la guancia offriva per tre quarti una linea pastosa, appena adombrata dalla lanuggine, che attirava i baci.

—Ho appetito, e tu?—diss'egli sedendosi alla mensa apparecchiata.

—Ma si, discretamente.

—Appollonia è riuscita a trovare queste benedette quaglie?

—Oggi no, vi saranno per domani.

Marta aveva le lettere in tasca; le levò e andò a riporle nel tavolino da lavoro; poi sedette accanto al marito, calma in apparenza, ma coll'occhio fisso, la mente inquieta.

—La signora Merelli ha avuto una bambina stanotte.

—Sì?

—Potrai andare domani o dopo a farle una visita.

—Ci anderò.

—Pare che stia benissimo.

Dopo una lunga pausa, intanto che Alberto versava da bere ella chiese:

—Se io avessi una bambina come la chiameresti?

—Come vorresti tu.

—Ma però?

—Il nome di mia madre, per esempio, o della tua.

—Questo è meglio certamente; tuttavia vi sono persone che preferiscono nomi di fantasia: Ida, Olimpia, Elvira… Ti piace Elvira?

—Nè più, nè meno degli altri; dò poca importanza al nome. Non mi sono mai informato come ti chiamavi tu, lo seppi da te stessa.

Marta lo osservava attentamente, mentre un tremito l'agitava tutta, sperando che egli almeno si accorgesse della di lei inquietudine e glie ne chiedesse il motivo. Si era già preparata. Se le domandava: Ti senti male? la risposta doveva essere press'a poco così: Sì, di un male che tu solo puoi guarire, ecc., ecc. Ma nulla di tutto questo.

Alberto mangiava, e, solamente, vedendo il piatto di Marta quasi sempre vuoto, la esortò a mangiare anche lei. Sulla fine del desinare domandò:

—Tua madre non ha ancora scritto?

—No.

—Se tarderà molto a venire, sopravverrà il freddo.

Ella avrebbe potuto svelare le ragioni del ritardo, entrare nei particolari di un contratempo abbastanza buffo, ma ciò l'avrebbe portata lontana dalle sue preoccupazioni e non si sentiva la forza di fingere, nè di frenarsi. Preferì restare muta, bucherellando con lo stuzzicadenti la tovaglia.

Alberto disse ancora:

—Quando viene le puoi allestire la camera in fondo al corridoio; vi starà meglio che altrove, è bene esposta e molto allegra.

L'evocazione di sua madre commosse Marta nell'intimo dell'anima; il ricordo di tante tenerezze perdute le fece gruppo alla gola, per cui si alzò e fece due o tre giri nella stanza. Passando accanto al tavolino da lavoro aperse rapidamente il tiretto, ne tolse le lettere e buttandole davanti a suo marito:

—Vedi che cosa ho trovato oggi nella cassa, la cassa vecchia su in soffitta!

Alberto guardò le lettere, prima con indifferenza, poi con sorpresa, infine leggendone una esclamò:

—Ma da qual parte sono venute fuori?

—Te l'ho detto; erano nella cassa.

—Sole?

—Oh! con della frangia, delle cortine usate, dei chiodi…

—To, to, to!

—Non sapevi che erano là?

—Neppur per sogno.

—Ti dispiace che le abbia lette?

—Figurati! Acqua passata non macina più.

Respinse le lettere dolcemente, come dolcemente faceva tutto, disposto a parlar d'altro.

Marta ebbe un'audacia insolita; andò a sedersi sopra i suoi ginocchi e cingendogli il collo gli mormorò con la bocca contro l'orecchio:

—L'hai amata molto?

Egli ebbe un momento di imbarazzo; la situazione richiedeva uno di quegli slanci ai quali il suo temperamento era refrattario; un solo bacio, ma ardente, sarebbe bastato. Alberto invece provò un movimento di stizza verso Marta che gli faceva subire questa seccatura.

—Che c'entrano adesso tali cose?

—Sono gelosa del tuo passato, lo sai—disse Marta senza staccarsi da lui, sprofondata nel tepore del suo collo, che succhiava con piccoli baci spessi.

Alberto si sciolse adagino dalle braccia di sua moglie replicando:

—E che ci posso fare io?

Era una risposta ad uso Appollonia, una di quelle osservazioni fredde, piene di buon senso, che non lasciano nessun posto per le soavi bugie del sentimento. Eppure Marta, nel caso suo, avrebbe trovato, senza mentire, un'altra parola…

Si tolse dai ginocchi di suo marito e si pose sulla sedia, mettendosi davanti le lettere.

—È morta?—domandò a un tratto.

—Non credo, ma da quando lasciò il paese non ne seppi più nulla.

—Tu non le avevi promesso di sposarla?

—Mai.

Marta fu ripresa da uno dei suoi slanci:

—Dimmi il vero, Alberto, dimmelo! Io ci capisco così poco in questi vostri amori d'uomo…

—Che devo dirti?

Ella si accorse che formulare con una frase il suo pensiero non era tanto facile; balbettò:

—Se l'hai amata molto… molto… e che ella pure…

—Non so se m'abbia amato molto molto.

Marta interruppe:

—Come dubitarne con queste lettere?

—Oh! le lettere—esclamò Alberto ridendo—è l'amore di voi altre donne, frasi! Per parte mia mi piaceva.

—Niente di più?

—È quanto basta, credo, per fare all'amore con una ragazza. Ella poi si esaltava, immaginando una passione romanzesca, rapimenti, fughe, veleno. Sarei stato molto sfortunato sposandola.

Marta tacque un po', e poi:

—Era bella?

—Simpatica.

—Bionda o nera?

—Nera.

—Alta?

—Così così.

Altro silenzio.

—Grassa?

—Oh!… non so, non ricordo, non mi pare.

—Aveva le mani piccole?

—Ma è un passaporto quello che mi chiedi. Parola d'onore, ci pensi più tu in cinque minuti di quello che ci abbia pensato io durante un anno intero.

—Ciò vuol dire che non l'amavi come ti amava lei!

—Può darsi, e allora consolati, brucia questi scartafacci alla buon'ora. Tanto il passato non si cancella, nè si rinnuova.

Era appunto ciò che pensava Marta, ma senza trovarvi nessuna consolazione. Che Alberto avesse amato Elvira molto, poco o niente affatto, restava per lei il fatto di quella corrispondenza infuocata che parlava pure di baci dati e ricevuti. Se dati per amore, perchè dimenticati? Se dati senza, perchè dati?

Stracciava i foglietti lentamente sotto la tavola, ascoltando il piccolo rumore che facevano, divisa tra i rimorsi che le suscitava una eccessiva delicatezza e il piacere materiale, indegno di lei, di quel meschino trionfo; ma la vinceva il piacere.

Quando i pezzettini delle lettere non furono più suddivisibili, ella riunì le pieghe della gonna, tenendoveli come dentro a un sacco e si levò in piedi.

Diede uno sguardo ad Alberto, il quale aveva infilato la punta di un sigaro in uno stecchino, lo stecchino nel tappo di una bottiglia, mantenendo il sigaro trasversale, ed accostata una candela all'altra estremità del sigaro, assisteva alla combustione attentamente, con le mani in tasca. Pensò: gli farò dono di un accendisigari. E cedendo alla tenerezza egoistica del suo affetto di moglie, Marta appoggiò, passando, le labbra sul collo di Alberto.

Poi corse leggera in cucina, dove, scostando Appollonia dal camino, rovesciò sul fuoco i frammenti di carta che teneva nella gonnella.

* * *

Simpatico il volto un po' lunghetto, di un pallore bianco, che si accendeva talvolta fino all'incarnato di una fiamma velata, non più in in là. Intorno, sulla fronte quasi rettangolare, dietro le orecchie, giù molto abbasso nella nuca, una cornice di capelli castagni, bruni in massa, ma luminosi, accendentisi qua e là con striscie seriche, con picchiettature d'oro brunito, spartiti modestamente nel mezzo e appuntati con due spilloni d'argento. Gli occhi tranquilli, di un colore indeciso, francamente aperti e sereni guardavano dritto, a guisa di dardo scoccato; ed era il loro sguardo tutta una dolcezza, una dolcezza invadente che assorbiva l'attenzione e la sviava dalla irregolarità dei lineamenti. Il mento stesso, senza carattere, di un disegno sbagliato, scompariva nella luce generale di quel volto a cui la bocca, raramente sorridente ed anche nel sorriso mesta, dava una speciale espressione di bellezza concentrata. Sotto il collo elegante e fiero, le spalle non sembravano interamente sviluppate e la delicatezza del seno che segnava ma non accentuava la femminilità, le dava una vaga somiglianza colle statue classiche di Ebe giovinetta. Piccola la mano, dove le vene si gonfiavano facilmente, dove, sotto l'epidermide fina, si sentivano trasalire i muscoli.

Vestiva un abito di una mezza tinta, che ricordava un po' la peluria delle tortore, un po' quel pulviscolo dorato che copre gli alberi in autunno; e terminava ad ogni lembo, al giro del collo, all'apertura delle maniche, con una striscia di pallido rosa.

La signora Oriani si trova in uno de' suoi giorni belli—pensò il dottorone, dopo aver dato una occhiata ingiro e fermatala con compiacenza sul volto di Marta, che gli sedeva proprio dirimpetto.—Non è certamente una bella donna, ma è di quelle che hanno la possibilità di diventarlo a un dato momento; è la donna che si trasforma, la donna per eccellenza.

Marta si accorgeva forse dell'effetto prodotto, perchè un raggio più vivo brillò ne' suoi occhi, che rivolse ad Alberto, come per metterlo a parte del suo trionfo e fargliene omaggio.

Sedevano al pranzo di nozze dato da Toniolo per presentare la sua sposa. C'erano tutti; gli Oriani, i Merelli, il sindaco, il dottorone, il vero dottore che per solito non frequentava la compagnia, ma che in quella circostanza non aveva voluto mancare. Lo si era detto anche ai Gavazzini, ma inutilmente; essi non si mostravano mai in pubblico.

Erano venute da un paese vicino le sorelle di Toniolo, l'una maritata, l'altra no; due false bionde incipriate, cui era rimasta la farina sugli zigomi, goffe civettuole da villaggio; e con esse un paio di cugini incaricati di far loro il cascamorto; più il marito, uomo denso e pacifico.

Il pranzo, cui aveva presieduto il dottorone in qualità di cuoco consulente, si annunciava squisito con una specie di cappelletti fatti in casa, mescendo pane grattugiato, cacio, salsiccia e uova; cotti poi rari nantes in gurgite vasto nel socculento brodo di due capponi maritati lì per lì a un pezzo di manzo vero lombardo.

—Signori—disse il dottorone appendendosi il tovagliolo sotto il mento—vi invito al maggiore raccoglimento, ad una concentrazione religiosa davanti a questa tavola imbandita con ogni ben di Dio. Mangiate, o signori; la mensa è l'unico vero.

Toniolo, a capo tavola, sorrise, volgendo i begli occhi di velluto alla timida sposina che non osava contraccambiargli l'occhiata.

Il vocione di Merelli tuonò, attraverso i cucchiai rumoreggianti:

—Per un pranzo di nozze avresti potuto dire qualcos'altro.

—Oh!—fece il dottorone col naso nella scodella—non incominciamo troppo presto.

Le due sorelle incipriate abbozzarono un mezzo sorriso, indecise tra il fare la furba e il fare la ingenua. Avevano tutte e due un nastro celeste nei capelli e dei braccialetti di similoro; mangiavano smorfiosamente, avvicinando alla bocca la punta del coltello, lasciando sempre qualche cosa sul piatto, accomodandosi ad ogni istante il busto e la cintura.

La maggiore, quella maritata, sedeva vicino ad Alberto, che conosceva fin dall'infanzia. Quantunque non si vedessero più da parecchi anni, gli parlava con molta animazione, e non avendo nessun altro da conquistare, per il momento, sfoggiava con Alberto tutte le sue risorse, prendendosi una famigliarità di amica d'infanzia, con una certa irrequietezza nei ginocchi che faceva fremere Marta dall'altro capo dalla tavola.

Marta oramai tenevasi sicura della fedeltà di suo marito, ma ne era gelosa sempre; sarebbe stata gelosa di una vecchia, di un bambino, così come era gelosa de' suoi amici e di tutto ciò che egli amava.

Non aveva la sicurezza audace di colei che ha visto un uomo delirare a' suoi piedi, quella sicurezza che mette un raggio intorno alla fronte, per la gioia del dominio, per l'ebbrezza dei sensi soddisfatti, e quel corteggio di memorie che avvolge come in una nuvola, che solleva al di sopra dei mortali, per cui tutto in lei, incesso, parola, sguardo, rivela la donna amata, la trionfatrice. No. Marta si sentiva debole, mal sicura, diffidava di se stessa, provava l'avvilimento di un soldato che dopo essersi preparato ad una rude battaglia trova il campo libero e il nemico che dorme sotto la bandiera bianca spiegata.

In questo stato d'animo, ogni piccola cosa la irritava, le dava ombra; trovandosi malcontenta non era più nemmeno gentile; non compativa e non tollerava più nulla.

Una sorda antipatia le sorgeva in petto per la sorella di Toniolo, vedendo ch'ella osava servirsi del pane di Alberto, toccarlo sul braccio, parlargli così vicino col volto che i loro capelli quasi si confondevano; e chiamarlo ad ogni momento: «Oriani! Dica Oriani! Non è vero Oriani?»

Aveva una vocetta stridula e volgare, voce da pettegola, a cui ella dava certe inflessioni pretenziose, false come l'oro de' suoi braccialetti e come il biondo della sua zazzera.

Evocarono dei ricordi d'infanzia: «Rammenta quella sera della luminaria? E quando si improvvisò un ballo in farmacia? E quando ella gli aveva cucito l'abito, per ischerzo?» Alberto rideva, eccitato, di buon umore; nella pienezza della sua salute inalterabile, nella felicità del suo cervello tutto al momento presente, senza dubbi, senza curiosità ne per il passato, nè per l'avvenire.

Invece la mente inquieta di Marta continuava a struggersi. Prima di uscir di casa ella aveva baciato Alberto al suo posto prediletto, dietro l'orecchio, facendogli promettere che a tavola, quando ella lo avrebbe guardato, ricorderebbe quel bacio e sarebbe come se ne ricevesse un altro. Ma Alberto la guardava smemorato, si capiva, attratto dalle ciarle della sua vicina, messo in vena allegra dall'ottimo vino, dal pranzo squisito. E di mano in mano che a suo marito cresceva il buon umore, cresceva a lei la tristezza.

Si domandava se quelle erano le gioie della vita; mangiare, bere, discorrere con degli indifferenti, sorridere a delle sciocchezze, divertirsi a delle puerilità.

Già le allusioni più o meno velate correvano or all'uno or all'altro dei due sposi, facendo arrossire la novizia e piombando Toniolo in una vanitosa beatitudine. Merelli sfondava una parete ad ogni parola che gli usciva di bocca. Il dottorone, intento ai piatti, andava dicendo inutilmente: «È troppo presto, è troppo presto.» Il diapason scottante continuava a salire con un crescendo meraviglioso.

Una specie di nebbia avvolgeva la mensa, evaporazione delle vivande, dei doppieri accesi, fiato, sudore, odor di vino e di pasticcio caldo, con una sottile venatura di muschio che partiva dalle due sorelle di Toniolo. Le faccie dei commensali, rubiconde, si confondevano colle piramidi di mele, tagliate a mezzo dalle bottiglie, spostate dall'animazione crescente che faceva muovere i più giovani dalle loro sedie, ritornarvi, ripartirne ancora. La sorella nubile di Toniolo aveva sbucciata una melagrana e girava attorno, offrendola sulla mano, con attitudine civettuola e provocatrice.

Marta vedeva tutto ciò nella impassibilità letargica di un sogno, trovandosi sempre più isolata e più triste. Le venivano in mente cose tragiche: la morte di suo padre, un fanciullo ch'ella aveva visto cadere da una finestra, le crociere degli ospedali, i manicomi; e poi un dolore al cuore ch'ella aveva provato, da giovinetta, e che avrebbe potuto essere vizio cardiaco incurabile. Guardava Alberto con una passione, con uno struggimento di tutto il suo essere che le affilava il volto, che le toglieva qualsiasi altra sensazione. Ad un tratto, in mezzo al vociare generale, colse a volo questa parola «Elvira» che la vicina di suo marito aveva pronunciata con malizia, nascondendosi dietro il ventaglio.

Per cinque minuti buoni, l'incrociarsi dei piatti e dei bicchieri, gli evviva tumultuosi, le impedirono di vedere Alberto; ma quando il di lui viso apparve accanto a quello della bionda incipriata, l'argomento doveva essere cambiato, ed era evidente che si facevano dei complimenti reciproci sulla precedenza nell'assaggiare dell'uva di Corinto.

Marta pensava che sul cavalletto di tortura si può almeno gridare. Al contrario ella doveva stare composta, con un certo qual sorriso di partecipazione alla gioia degli altri e rispondere, tratto tratto, alle parole che per cortesia le rivolgeva il suo cavaliere di destra, e mettere pure in bocca qualche cosa e fingere di bere.

Dal suo cuore gonfio si sprigionavano delle lagrime che ella sentiva affacciarsi alle palpebre. Era così persuasa di essere brutta, sciocca, incapace di farsi amare, che avrebbe in quel momento desiderato di morire; senonchè un amaro rimpianto, il desiderio insoddisfatto delle ebbrezze terrene, la trascinava violentemente verso suo marito, il solo a cui poteva, a cui voleva chiederle; e in questa tenzone odiava tutto il mondo e se stessa.

Pare impossibile—pensò il dottorone riposando le mascelle e le mani, coll'occhio lucido, il torace prominente—come quella donna cambia ad un tratto. Non si direbbe più lei.

Un momento dopo mettendosele vicino, ancora col tovagliolo al mento ma con un raggio diverso nelle pupille, quasi il suo cervello staccandosi improvvisamente dal corpo volasse in regioni eteree, le disse:

—Che follia festeggiare le nozze con inviti e brindisi! È la stessa follia che fa dipingere l'amore rubicondo, paffuto, intento a ridere e a trastullarsi, mentre si dovrebbe cercare l'amore nello scheletro più distrutto della danza macabra; uno che non abbia più nemmeno le occhiaie per tenervi le lagrime, e il petto squarciato da cima a fondo. Così vorrei dipingere l'amore!

—Sì, sì—fece Marta senza comprendere, solo perchè quelle parole tristi rispondevano alla sua tristezza.

Al caffè si ruppero le file. Alberto, sempre gentile, venne a chiedere a sua moglie se avesse pranzato bene.

—È fortunata—disse la signora Merelli mettendosi al fianco di Marta.—Io, nel suo stato, mi sentirei orribilmente; tolta quest'ultima gravidanza, che è andata un po' meglio, tutte male, tutte male!

—Mia moglie non vuol sentir parlare del suo stato,—soggiunse Alberto sorridendo—non ci è ancora avvezza. Lei porrebbe darle qualche lezione, signora Merelli!

—Buon Dio!—esclamò la prolifica signora giungendo le mani.—Sono uscita ieri di puerperio. Ma lei sta proprio bene, carina, nevvero che sta bene? Nausee, al mattino, non ne ha?

—Un poco, quasi nulla,—rispose Marta, seguendo collo sguardo suo marito che si allontanava.

—Sarà un maschio allora. E bruciori di stomaco?

—No.

—Segno che non avrà capelli.

—Non avrà capelli?

—Nascendo, s'intende. De' miei figli, solo la Pina e l'Adelina erano calve; gli altri vennero al mondo pelosi come Esaù. Ma che bruciori di stomaco, le dico!… Del resto è fortunata in tutto; non si accorge nemmeno… parola d'onore; sembra una bimba.

Alberto si era appoggiato al caminetto insieme a' suoi amici. Avevano accesi gli sigari e nel benessere sensuale della digestione la loro affettività d'uomo esplodeva con gesti vivaci, con romorosi scoppi di voce e colpi di mano. Lucide le facce, gli occhi scintillanti, essi discorrevano fra loro in un gergo speciale, a sottintesi, urtandosi coi gomiti. Alberto, il più educato, si poneva davanti a Merelli quando parlava, per impedire che le di lui parole giungessero all'orecchio delle signore; Toniolo invece vi si crogiolava, nella voluttà egoistica di un gattino che fa le fusa.

—Sibarita!—mormorò il dottorone—si prepara lo stomaco cogli stimolanti.

La sposina intanto, circondata dalle donne, si lasciava ammirare ed invidiare, facendo girare gli anelli sulle dita, più stordita che contenta, rispondendo a monosillabi.

—Che bel matrimonio nevvero?

Marta si voltò. La bionda incipriata le stava alle spalle, col suo fare lezioso, di protezione.

—Bellissimo—rispose Marta.

—Anche lei è sposa da poco tempo nevvero?

—Sei mesi.

—Io conosco molto suo marito; siamo cresciuti insieme. È un simpatico giovane!

Obbedendo alle leggi naturali, Marta le avrebbe dato uno schiaffo; ma frenandosi e dominandosi, riuscì ad abbozzare un sorriso.

La buona signora Merelli intervenne, chiedendo alla sorella di Toniolo se fosse guarita da una nevralgia che aveva sofferto.

—Sì, sì, sono guarita perfettamente. Ma nevvero che molte ragazze sarebbero state felici di sposare Alberto Oriani?

—Senza dubbio; eppure egli ha preferito questa sposina, nè io so dargli torto—tornò a dire dolcissimamente la signora Merelli.

—Già, le ragazze del paese non hanno i vezzi delle cittadine,—esclamò con enfasi la sorella di Toniolo.—A proposito, non si è saputo più nulla dell'Elvira, la maestra?

A questa improvvisa e inopportuna domanda, la signora Merelli stette per perdere le staffe, osservando che Marta impallidiva. Tossì, tuttavia, si spianò le gale dell'abito, e disse col suo bel candore:

—E chi ci pensa più? Manca da tanti anni!

—Oh! questo non serve—rimbeccò l'altra malignamente,—quando si sono lasciati certi ricordi dietro a sè… Non dicevano che avesse avuto un figlio?

—Quante calunnie!

La signora Merelli, indignata, tese la mano quasi per attestare l'innocenza dell'assente, Marta afferrò quella mano, e alzandosi, e trascinando con sè l'ottima creatura, uscì dalla stanza, soffocata dai singhiozzi.

Alberto che l'aveva vista uscire, le tenne dietro subito.

—Non si spaventi—disse la signora Merelli—fa un po' caldo in sala, e poi tutti quegli sigari! Per quanto si stia bene, lo creda a me, qualche cosa si soffre sempre…

—Ti senti male?—chiese Alberto con premura.

Marta gli si appese al braccio, negando col capo; e quando la signora Merelli, vedendola al sicuro ritornò nella sala da pranzo, ella mosse verso il cortile, proprio come se provasse un senso di soffocazione.

Il cortile della farmacia era messo a giardino, con delle scalinate di fiori e degli arrampicanti piantati dentro a botti vuote. La luna lo batteva in pieno, rischiarando ogni angolo colla sua luce fredda ed eguale di doccia.

Marta si gettò nelle braccia di suo marito scoppiando in lagrime.

—Ma Dio, Marta, che hai?

—Dimmi che mi ami, dimmi che mi ami…

Alberto pensava che se lo avessero sorpreso nel cortile, abbracciato con sua moglie, sarebbe diventato lo zimbello degli amici.

—Via—disse con un leggero accento di rimprovero—-sono scene da bambina, torna in te, sii ragionevole. Siamo qui per divertirci e non per piangere.

Ella raddoppiava le lagrime, avviticchiata al suo collo, tremando, spasimando.

—Marta… insomma!

Pensò poi che fossero fenomeni nervosi inerenti alla prima fase della gestazione, e per il rispetto che professano gli uomini a questo misterioso travaglio femminile, replicò con dolcezza annoiata:

—Lo sai bene che ti amo.

—Dimmelo ancora!

—Ti amo.

Ma ella non si staccava, sospirando sempre, aspettando che un guizzo, un fremito passasse dal corpo di lui al suo, dandole la sensazione di un'anima sola, rispondendo a ciò che ella stessa provava, la vita, la rivelazione attesa… ed egli se ne stava ritto, rassegnato, e la luna li illuminava entrambi freddamente serena.

—Camminiamo, ti passerà.

Marta non disse più nulla. Docilmente si lasciò infilare la mano nel braccio di suo marito e fecero due o tre giri intorno alle botti degli arrampicanti.

Egli non sapeva che cosa dirle. L'umidità della sera, forse, le avrebbe dato noia? Ma doveva sentirla anche lei. Non era un gusto, davvero, aver lasciata una stanza calda, un crocchia di amici, un buon bicchiere e delle ciarle e degli scherzi, per passeggiare tondo tondo in un cortile.

—Ti senti meglio?—domandò infine.

Marta fece un movimento impercettibile colle spalle, schiuse le labbra senza poter parlare ed appoggiò il cuore, che le batteva violentemente, contro il braccio di lui.

Egli stette ancora un momento incerto, guardò l'uscio della sala da cui usciva uno sprazzo di luce allegra, guardò sua moglie, le botti, il cortile deserto, e:

—Se rientrassimo?…

* * *

Le avevano ordinato delle lunghe passeggiate. Accompagnava qualche volta Alberto al podere, qualche altra gli andava incontro, prima del desinare, ma senza entusiasmo.

Era diventata indifferente, pressochè apata; ella stessa non si riconosceva più. Non aveva nessun desiderio, le dava noia il vestirsi, l'adornarsi; si guardava raramente nello specchio.

Le sue belle camicie da sposa, le vite scollate guarnite di trine, le calze a ricami giacevano nel cassettone, legate ancora coi nastrini color di rosa, come gliele aveva accomodate la mamma. Portava la biancheria liscia, semplice, quella che si stira più in fretta, che non avrebbe data a lei o all'Appollonia una briga inutile.

Le sembrava che la sua giovinezza fosse finita e sentendo parlare delle amarezze, dei disinganni dell'esistenza si riconosceva saggia, si infervorava sempre più nel concetto serio che la felicità è un'illusione.

Accudiva alle sue domestiche faccende, lavorava, era premurosa, gentile con Alberto. Seguiva le variazioni del tempo per far asciugare le frutta, per riporre le uova; andava spesso in cucina a trovare l'Appollonia, le faceva raccontare qualche episodio dimenticato della sua infanzia e l'ascoltava con interesse.

La casa non doveva essere il suo regno, il suo orizzonte, il suo tutto? Ella procurava di animare i mobili e le stoviglie, si metteva a cucinare qualche intingolo per vedere di soddisfarsi alla fine, di trovare un appoggio al suo continuo bisogno di un perchè. Era stata fantastica, ideale, ed aveva avuto torto; ora cercava la felicità terra terra, non doveva essere così? Non l'avevano tutti così?

Alberto raggiava. Le faceva dei complimenti sinceri, la chiamava il modello delle mogli, e il vedere lui contento non doveva essere la sua parte di felicità per lei stessa? Era dunque felice appieno.

Ma perchè non aveva mai voglia di ridere? Perchè non le veniva sulle labbra una nota di canto? e nessun impeto giulivo le faceva mai balzare il cuore? Tutto era scolorito e monotono in lei, principio di una anemia generale, del torpore che assale i viaggiatori smarriti nelle nevi, che non soffrono, che non si lagnano, che muoiono dolcemente nella tranquilla evanescenza di un sogno…

Il medico le dava la sicurezza che era incinta. Ella aveva avuto, qualche mese prima, dei leggeri disturbi di digestione, che erano scomparsi, e null'altra sensazione fisica abbastanza sensibile le rammentava questo fatto che la lasciava indifferente al pari di tutto il resto. Le grandi cose che aveva udite sulla maternità dovevano essere, come quelle udite sull'amore, esageratissime; oppure ella era una disgraziata priva di sensi e di viscere, sospetto che le veniva tratto tratto e che la rendeva orribilmente triste.

Perchè sarebbe madre? Se non aveva mai trasalito, mai, in ciò che il mondo chiama l'amore, se questo amore ella non lo capiva, se un estraneo si era avvicinato a lei senza infonderle il brivido della creazione, perchè ella avrebbe dato il proprio sangue e la propria carne, ed avrebbe rischiato di toccare le soglie dell'eternità senza conoscere quelle del piacere?

Se i figli sono frutti dell'amore, ogni frutto fa supporre la precedenza di un fiore; ma ella sentivasi arida; niente del suo io pensante rispondeva alle inconscie funzioni del suo io meccanico. Un profondo avvilimento la degradava a' suoi propri occhi; il germe caduto nel suo grembo poteva fecondare una Giuditta qualsiasi, e sarebbe stato egualmente il frutto dell'amore.

No, l'amore non esiste!

Ella era giunta a questo.

Padre, fratello, amico, socio, marito, tutti sinonimi; uno poteva valere l'altro, non l'amante. L'amante restava ancora per lei il giovinetto imberbe che aveva sospirato sotto le sue finestre, che le aveva rapito un fiore e stretta la mano, per cui ella recitava, struggendosi di voluttà, i versi della vecchia strenna:

    O fanciulla qual mesto contento
    Mi discenda nell'alma non sai.

Una visione, una fantasia che non aveva corpo, nulla.

Del resto che cosa vedeva altrove? Gavazzini, dopo aver rapita la cara donna e bevuto il dolce liquore delle sue vene, occhieggiava le donne degli altri, fra due liti intime. Merelli dava bensì dei frutti d'amore annuali alla angelica moglie, ma teneva le serve giovani e belle. Toniolo, morta la prima sposa pigliava la seconda, con molte consolazioni frammezzo e il contrappeso di una buona dote. Trasporto momentaneo, eccitazione, sensualità, cupidigia, calcolo; amore, come lo aveva sognato lei, mai!

Ma Romeo, ma Paolo, ma il fatto quotidiano dei bracieri di carbone accesi nella soffitta di una modistina, ma i cadaveri trovati sui talami, stretti insieme, bocca su bocca?

Romanzi.

Ma i delinquenti dell'amore? ma gli eroi dell'amore?

Mattoidi.

E le storie di tutti i secoli?

Leggende.

E i poemi di tutti i popoli?

Fantasia.

Così era giunta a recidere ogni aspirazione; l'anima sua nello schianto, come pianticella orbata de' suoi rami, non sembrava più cosa vitale.

Vegetava in una esistenza da vecchierella, sentendo già i brividi di novembre, coprendosi molto, avvicinandosi al fuoco. Tolto il leggero arrotondarsi della vita, le altre membra sembravano spersonirsi, la pelle perdeva la lucentezza della gioventù; accanto alle labbra si disegnava in permanenza una piega triste e gli occhi s'incavavano, velati, e i muscoli apparivano meno elastici, meno pronti all'appello di una volontà che sonnecchiava; un tutto insieme di lampada a cui l'olio manchi, di macchina guasta ne' suoi più delicati congegni.

Appollonia le aveva ben detto di non uscire quel giorno, che il tempo minacciava pioggia. Marta non le credette o credette di poter giungere al podere prima che il tempo si guastasse. Erano gli ultimi bei giorni dell'autunno, bisognava pure approfittarne innanzi di chiudersi in casa a fare l'invernata; e poi aveva presa l'abitudine di quella giterella, e l'abitudine, nella sua esistenza quasi monastica, teneva già un posto importante.

Modesta modesta nel suo abito grigio, con un tocco di lontra in testa ed uno scialletto sul braccio, Marta si allontanava sul sentiero coperto di foglie secche, sparendo e ricomparendo col suo passo aereo, mentre le serviva di sfondo ora una colonna d'edera addossata sul tronco di una quercia, ora il pennacchio onduleggiante delle acacie che sfioccavano via per l'aria le piccole foglie gialle.

Vi erano degli alberi dorati come le treccie di una Margherita ideale; altri ancora che ricordavano i bagliori di una fiamma morente; ed alcuni strisciati in rosa, con gradazioni tenere di carne, di corallo pallido, sfumati, diafani, con una morbidezza di velo e d'ali d'angelo cadute.

Tutta la materialità dell'amore e della fecondazione sembrava sparita dai campi mietuti, dalle piante che non avevano più nè fiori, nè frutti, che lasciavano pendere le foglie a guisa di pensieri vacui, di illusioni isterilite; nè dai nidi pigolavano le rondini oramai lontane; solo il freddo passero saltellando sui rami denudati, salmeggiava la vanità di tutte le cose.

E Marta passava col suo lieve fardello, creatrice inconsapevole in mezzo alla natura che moriva, sentendosi penetrare nell'anima una dolce e tranquilla malinconia.

Sui lembi del cielo errava il suo sguardo, così come errava la sua mente perduta nei ricordi, vaneggiando dietro il filo fantasioso che riunisce una nuvola al colore di un abito, al profilo di un volto conosciuto, ad una iniziale; per cui rinascono all'improvviso memorie disparate, e scene e detti; e si riodono suoni di voce dimenticati.

Ella ricordava un salottino parato con una stoffa a grandi fiori sanguigni, con certi divanucci bassi di una forma affatto speciale, con un velario che mascherava il soffitto e sembrava proteggere quel nido elegante dai contatti plebei. Ricordava sopratutto un trespolo, poggiato in un canto, sul quale bruciava un qualche cosa di odoroso, evaporando nuvolette cineree che si innalzavano misteriosamente verso le pieghe del velario, lasciandosi dietro un profumo sottile e caldo di persona viva. Una donna giaceva, coricata a mezzo, sopra uno dei divanini; ma di quella donna rammentava appena gli occhi nerissimi e un anello che portava sul mignolo della mano; anello bizzarro formato di sette pezzi; un diamante, un rubino, uno smeraldo, un topazio, un zaffiro, una perla nera e un dente—un piccolissimo dente di bimbo, bianco e lucente come un'opale. Marta, che era allora una fanciullina, non aveva visto altro. Conobbe più tardi esser quella una compagna di collegio di sua madre, che aveva avuto grandi sventure ed amori tragici, di cui il mondo sparlava e che sua madre non nominava mai senza volgere gli occhi al cielo e dire: Poveretta!

Poveretta! ripeteva Marta a vent'anni di distanza. Non sapeva nulla della sua vita e de' suoi errori, non ricordava nulla di lei, altro che gli occhi ed un anello; era forse morta a quest'ora! Il segreto del piccolo dente legato insieme alle pietre preziose, quel segreto che aveva tanto colpita la sua immaginazione giovinetta, stava al sicuro nel pudore e nell'oblio della tomba; eppure le sembrava di averla conosciuta, di comprendere i suoi dolori; ed aveva un desiderio ardente di assolverla, di rivederla nella purezza fredda di quel giorno di novembre, assorgere fra le nuvole, e di là sorridere a lei co' suoi occhi neri.

Ed altre visioni ancora, rotte, fuggenti; lembi di conversazioni, ritornelli di canzoni ignote, battute di walzer; e certi sguardi che non sapeva più a chi avessero appartenuto, e scoppi di risa di bocche invisibili; tutto il suo mondo interno che si agitava, che usciva a far parte del mondo esteriore, fondendosi col cielo, coll'aria, colle foglie cadenti, col silenzio dei prati, colla tavolozza inimitabile delle masse d'alberi, col respiro misterioso della terra e delle acque.

Venivano a lei i lamenti degli alberi sfrondati, dei nidi deserti; venivano le voci occulte dei fili d'erba, le timidi voci dei fiori còlti e dimenticati; e ad essi ritornavano i sospiri della sua giovinezza, i sogni, i rimpianti, le larve abbrunate.

Camminava senza sentire la terra, come portata da un amplesso; e non s'era nemmeno accorta che il tempo s'andava rannuvolando sempre più, tanto che giunta al podere incominciava già a cadere qualche goccia.

—Mio marito?—chiese subito.

Alberto non l'aspettava con quel tempo; egli era già partito da mezz'ora, prendendo le scorciatoie attraverso i campi.

—Ed ora?

—Ora non le resta altro che entrare in casa.

Così disse allegramente la fattora, una sposina anche lei, ma che aveva preceduto Marta nel riempire una piccola culla di vimini, intorno alla quale si affaccendava con grandi ansie.

Marta conosceva appena la fattora; per solito incontrava Alberto sull'aia, gli prendeva il braccio e non guardava altro. Fu sorpresa della gaiezza di quel volto, della luce strana che le brillava negli occhi, dell'aria disinvolta, padrona di sè.

Entrò.

Il bambino piangeva. La fattora se lo prese tra le braccia, cullandolo, baciandolo lieve lieve sulla fronte, mormorando parole tronche, senza senso, dolcissime.

Ella dunque avrebbe fatto allo stesso modo? E quello era l'amor materno?

—Lo amate molto questo piccino?

—Se lo amo! Cara gioia… Proverà, proverà… non le dico altro…

Marta guardava il fantolino, rosso, rosso, con due occhietti tondi senza sguardo ed una bocca continuamente umida. Per fermo egli non doveva comprendere nulla.

—Dorme alla notte?

—Qualche volta sì, qualche volta no, secondo.

—E quando non dorme piange?

—Sicuro!

—E voi allora che cosa fate?

—Mi alzo, lo prendo e lo porto ingiro per la camera. Non c'è altro, cara la mia signora. A lei sembra che non debba intendere perchè è piccino, invece intende meglio di noi e si fa intendere. Bisogna vedere quando entra il suo babbo!

—Vostro marito non dorme a casa tutte le notti, nevvero?

—Purtroppo! Quando va al mulino vi dorme anche; così fu jeri; ma oggi lo aspetto, ed anche il piccino lo aspetta. Nevvero che aspetti papà?

Baciucchiando il suo bimbo, la giovane madre si animava. Aveva due labbra fresche e mobili che dovevano conoscere i baci; un riso perlato di donna felice; il collo sciolto, il seno palpitante velato appena; una morbidezza in tutti i movimenti, un calore di membra appagate, di sangue circolante, sano, nella completa espansione del benessere.

Marta domandò ancora:

—Vostro marito vi ama?

Al che l'altra non rispose se non arrossendo e chinando il capo sulle guancie del suo bambino.

Continuava a piovere, e dalla finestra che dava sui campi la massa verde degli alberi luceva, morbida e vaporosa, con dei contorni da pastello. La fattora, rimesso il piccino nella culla, si diede a rattizzare il fuoco:

—Il mio uomo se la prende tutta!

Marta pensava come avrebbe fatto a tornare a casa.

—Per fortuna—sentenziò la fattora, dopo aver data una guardatina di traverso al cielo—non è un'acqua che durerà molto.

E girava dal caminetto alla culla, ed alla soglia dell'uscio, di dove sbirciava nella via con occhiate lunghe, impazienti.

Marta, rannicchiata dietro il canterano sulla prima seggiola che aveva trovata, seguiva tutti quei movimenti, guardando successivamente il caminetto, la culla, la soglia dell'uscio e la gaia sposa che trotterellava nel suo modesto regno con passo franco.

Rapidamente, un'ombra otturò il vano della porta; un uomo, gettando via il cappello intriso d'acqua, si precipitò nella stanza. In un balzo si ebbe sollevato tra le braccia la sua donna, tenendola alla vita con una mano, cercando con l'altra il di lei cuore, mosso da un impeto di sensualità appassionata, e con tale trasfusione di tutto il suo essere che si squarciava per essa il mistero delle parole bibliche: formerete una sola carne e un solo spirito. Per un istante si udì il fremito delle labbra congiunte, il rantolo della voluttà; poi la donna si sciolse, vergognosa, additando Marta.

Marta aveva soffocato un grido, come colpita al cuore; e nello stesso momento aveva sentito le sue viscere sollevarsi, muoversi nel suo grembo un essere, e per le sue vene, per la sua carne correre il palpito atteso, la rivelazione di un'altra vita, scoppiata colla rivelazione stessa dell'amore.

Ogni velo era tolto, sciolto ogni dubbio, la sua virginità cadeva in quel punto, ella era fatta donna. Comprendeva, sentiva, desiderava tutto. L'impressione era stata così rapida e violenta, che la presenza di quell'uomo, adesso, le faceva male.

Si rizzò, pallida, volgendo altrove gli occhi.

—Vuol partire con questo tempo?—balbettò la donna.

Voleva partire.

L'uomo si offerse di accompagnarla; non accettò. Allora i due sposi, imbarazzati, le diedero un ombrello, insegnandole la via più breve.

Quel balzo, quella stretta, quel bacio, quel rantolo, Marta portava tutto con sè, l'avrebbe portato l'intera vita. E correva sotto la pioggia, mentre da' suoi occhi scorrevano larghe lagrime, inondata dal cielo, inondata dall'anima sua. Piangeva e rabbrividiva, con una consolazione lontana, una consolazione che le veniva dalle viscere, debole ancora, confusa, eppure deliziosamente soave.

Poco lungi da casa incontrò Alberto che la sgridò con dolcezza, dicendole che era stata imprudente. Egli era agitato, temeva per lei; ma sotto l'ombrello che la riparava, non vide le sue lagrime, no, queste non le vide. Egli aveva d'altra parte una notizia a darle.

—Quale notizia?—disse Marta, distratta.

—Vedrai, vedrai!

Marta tornò a correre, precedendo suo marito, febbrile, ansiosa, tutta fracida per l'acqua presa. Appena entrata nel cortile le apparve davanti sua madre.

—Ah!—gridò. E le cadde nelle braccia.

* * *

Le cortine fiorate del letto, velando la luce, spandevano intorno un'aria raccolta d'alcova, una dolce aria di intimità, che Marta respirava voluttuosamente.

Aveva avuto una febbriciattola, leggera, tuttavia non le permettevano di alzarsi per quel giorno. Pioveva sempre, e nell'uggia del cielo grigio la camera sembrava per il confronto più lieta, coi parati nuovi, i veli della pettiniera candidissimi, i fiocchi azzurri così dolci all'occhio, i cristalli del lavabo lucenti, iridati, entro cui prolungava i suoi giorni un ciuffo di vaniglia, l'ultimo della stagione.

—Come è simpatica questa casa!—disse la mamma.

La signora Oldofredi era ancor giovane, piuttosto piccola e grassoccia, con una distinzione che le veniva dal sorriso, lo stesso sorriso malinconico di Marta; senonchè l'espressione serena di tutto il volto, la calma della persona, annunciavano un abito di filosofica indifferenza alle tempeste della vita, un partito preso di ottimismo ad ogni costo.

Aveva i capelli neri, acconciati con cura, le mani piccole e ben tenute, una sciarpa di trina allacciata con un ampio fiocco sotto la gola. Quando girava il capo le si vedevano scintillare i diamantini appesi all'orecchio.

Stava seduta sulla poltrona accanto al letto, e di lì fissava un paio di pianelle scalcagnate, poste dov'erano i vestiti di Marta.

—Che cosa guardi mamma?

—Sono tue queste pianelle?

—Sì, perchè?

—Non te le avevo comperate nuove, di pelle bianca, con una fodera di raso bleu marin che doveva accompagnare la vestaglia? E a proposito, dov'è la vestaglia?

—La mettevo nei primi tempi—rispose Marta con esitazione—poi mi parve di sciuparla inutilmente.

La signora Oldofredi rimase pensierosa su quell'inutilmente.

—Noi donne—disse poi—dobbiamo avere molta cura della persona, delle vesti, di tutto ciò che indica pulitezza e grazia; specie quando si ha per marito un giovinotto.

—Oh!—interruppe Marta—Alberto non bada a queste cose.

Tacquero, trascinate entrambe dai loro pensieri, divise per modo che dopo un po' di tempo si guardarono in faccia disorientate. Molto c'era da dire da una parte e dall'altra; immenso il desiderio di chiedere, di confidare, ma un pudore ed un orgoglio di donna le tratteneva. La madre si accontentava di guardar Marta intensamente, studiandone il volto affilato, e Marta si lasciava covare da quello sguardo, restando dolce, malinconica, sempre un po' distratta, coll'aria di una persona che assiste a delle visioni.

Per farla parlare, la signora Oldofredi si interessò alle nuove relazioni di sua figlia; ebbe così la descrizione dei coniugi Merelli, di Toniolo, del dottorone. A sua volta le narrò degli amici di città, dei matrimoni fatti o da farsi. Disse di una loro cugina che voleva sposare per forza un sottotenente, che i parenti non acconsentivano, che d'altra parte non vi era neppure la dote militare, che l'ufficialetto pazzo d'amore minacciava di togliersi la vita e che lei, la ragazza, sognava combinazioni incredibili per riunire la somma; l'ultima trovata era di farsi attrice, andare in America…

Marta ascoltava in silenzio.

—Teste esaltate—concluse la signora Oldofredi, accomodandosi il fiocco della sciarpa.—I buoni matrimoni sono quelli combinati dalla ragione. Io, vedi, avevo diciotto anni quando conobbi tuo padre. Non ne ero innamorata proprio niente. Veniva in casa nostra due volte alla settimana a giuocare al sette e mezzo; si usava molto allora. Mi par di vederlo: entrava duro duro, un po' angoloso, miope, salutava con quel cenno vago delle persone che non veggono un palmo più in là del naso: ed era molto meno bello di Alberto, senza confronto. Perdeva spesso al giuoco. Mio padre gli diceva: fortunato in amore! Io ricamavo, lo rammento come fosse adesso, due conigli sopra un fondo di lana rossa; questo ricamo penzolava un po' qui, un po' là, non ero allora quella terribile nemica del disordine che sono adesso… Ebbene, egli guardava il mio lavoro con un interesse, con una attenzione che non avrebbe potuto essere maggiore se la sua vita fosse dipesa da quello. Il fatto è che terminati i conigli, chiese la mia mano. Ed ecco tutto. Vedi che non è un romanzo.

—Mio padre però ti amava—disse Marta con una voce profonda che fece trasalire la signora Oldofredi.

—Sì—rispose questa semplicemente.—Io pure gli volevo bene; apprezzavo la sua onestà, le cure gentili di cui mi circondava, il suo affetto nobile, sicuro, e fu una grave disgrazia il perderlo così presto.

—Ti amava d'amore?—domandò Marta bruscamente.

E siccome la mamma esitava, cogli occhi erranti sulle pianelle di Marta e con mille dubbi nel cuore, ella rincalzò con quel suo impeto appassionato:

—Dimmelo mammina, mammuccia, mammolina…

—Oh! Marta—fece la signora Oldofredi chinandosi a baciarla—sei ancora la stessa.

E si pose a ravviarle i capelli sulla fronte, le coltri intorno al collo, e il guanciale, e il piumino, proprio come ad una bimbetta in culla, bevendo il raggio di quei cari occhi mesti, dove ondeggiava un pensiero inafferrabile.

—Vi sono delle parole sulle quali io credo non si arriverà mai a metterci tutti d'accordo, bimba cara. Il sesso, l'età, il temperamento, la educazione, l'ambiente, le circostanze sono altretante cause che modificano il significato della parola amore. Noi generalmente ce lo figuriamo come la quintessenza delle gioie mortali; è naturale, lo vediamo così da lontano finchè siamo fanciulle! È la fiammolina che guizza sulle zolle umide, è la fosforescenza dorata della farfalla, è un gaz, è una polvere alla quale noi diamo i grandi nomi di passione, di delirio, di estasi…

La voce della signora Oldofredi tremava un poco; ella riprese tuttavia sforzandosi di parere calma e padrona di sè:

—E quando si scopre l'inganno, invece di accusare la falsità della nostra immaginazione, ce la prendiamo coll'amore che, poveretto, non può essere diversamente da quello che è sempre stato, un sogno, un miraggio…

—No, mamma, l'amore esiste.—Marta, che dapprima aveva ascoltato quietamente, si rizzò sui guanciali, febbrile, rosea, con quella bellezza improvvisa che le veniva a sbalzi, colla pupilla ardente e dilatata.—L'amore esiste!

Per un istante la madre scrutò fino in fondo il pensiero di sua figlia.

—Facciamo una supposizione—continuò Marta appoggiandosi col gomito sul guanciale—mettiamo una ragazza che abbia passato otto, dieci anni della sua vita, divisa fra questi due pensieri che sono il fondamento della nostra educazione: l'onestà e l'amore. Vuol amare, primo perchè è il suo istinto, poi perchè trova scritto e sente ripetere che l'amore è la massima delle felicità, che la donna è creata per l'amore, ecc. La religione stessa, più castamente, le parla però di amore e fa anzi dell'amore un sacramento. Vuol essere onesta, di quella onestà tutta femminile che è il pudore, la riserbatezza, la sottomissione; onestà che l'uomo non conosce, che è stata inventata unicamente per la donna e che la porta a fuggire con orrore tutto ciò che ha l'apparenza di una colpa. Che fa la ragazza? Ella riunisce le due aspirazioni, i due punti principali del suo catechismo, e dall'unione di due cose ben reali ne esce quel non so che di incorporeo, di vaporoso, di sublime e di ridicolo insieme che si chiama appunto l'ideale.

—Ma…

—Abbi pazienza mamma. Già non si parla di noi, è una supposizione, nevvero? Lasciami dire. Se, entrando nella vita, quella ragazza non trova le due aspirazioni riunite, se vede che l'amore non è sempre il premio e il compagno dell'onestà, che, legati insieme barbaramente come gemelli mostruosi, non sempre vanno d'accordo, non sempre si intendono e viene il momento in cui uno dei due…

La signora Oldofredi scandagliò l'abisso e non la lasciò terminare; ma trascinata dall'impeto che Marta frenava invano, ella pure si sentì donna, ella pure colle guancie arrossate, l'occhio ardente, le labbra che tremavano urtandosi al placido sorriso abituale, ella pure illuminata da una arcana bellezza, esclamò:

—L'amore è una illusione! Credi tu che vi sarebbe tanta attività nel mondo, che l'arte produrrebbe i suoi capolavori, che la pietà innalzerebbe i suoi monumenti, che il patriottismo darebbe i suoi eroi e la religione i suoi martiri, se l'amore come lo intendi tu esistesse? Perchè si coltivano tanti fiori nei vasi e si tengono dei canerini in gabbia, perchè si riempiono le case di ricami e di lavori all'uncinetto, perchè leggiamo i romanzi e i giornali di mode, perchè andiamo ai concerti, perchè vi è sì gran numero di istituzioni filantropiche dove le donne sono patronesse, ispettrici, visitatrici, se l'amore fosse una realtà, se l'amore potesse bastare almeno alla vita di una donna?

—Eppure—ripetè Marta scuotendo il capo—è l'amore che ispira l'arte, è l'amore che riscalda la carità…

—Sono i disinganni dell'amore, è l'impotenza, l'assoluta impossibilità di estrinsecare nell'amore, nel solo amore, quella tendenza al sublime che c'è in noi. Oh! ma tutto il mondo perirebbe, non vi sarebbe più posto per nulla, per nulla capisci, se il lampo dell'amore potesse durare?

Marta fu colpita dalla luce straordinaria che brillava negli occhi di sua madre, rivelandole un fondo di ardore che ella non avrebbe mai sospettato; come l'eco di battaglie lontane, di lotte, di pianti, di morti, su cui era passata la grande, la benefica ala del tempo; e sentì di amarla doppiamente; si sentì sua eguale, sua compagna.

Forse l'amore non è per tutti, forse è il più gran dolore della vita, forse non dura, forse è un miraggio; ma ella aveva visto, aveva visto!.. e cogli occhi gonfi di lagrime, mormorò, quasi parlando a se stessa:

—Esiste.

Nel silenzio raccolto dell'alcova quest'unica parola cadde con un mormorìo solenne di responso.

—Senti—disse la signora Oldofredi prendendole le mani e abbassando la voce in ragione inversa dall'emozione crescente—facciamo un'altra supposizione. Mettiamo una donna, una giovane donna libera di sè, e mettiamo pure che ella incontri sulla sua via l'amore.

—Dunque c'è.

—Ma Dio!—gemette la signora Oldofredi con tutta l'anima negli occhi—c'è il desiderio, il sogno, l'illusione! C'è l'istante del delirio, c'è la febbre che fa dimenticare tutto, lo spasimo per cui il piacere rasenta il freddo della morte; ma poichè tutto ciò passa, poichè non resta nulla dei più sinceri trasporti, poichè gli amanti finiscono col diventare stranieri l'uno all'altro e incontrarsi senza che più nulla trasalisca del loro cuore nè dei loro sensi, bisogna rinnegare l'amore, bisogna dire l'amore non esiste! Credi a me… credi, credi.

Colle mani strette nelle mani si guardarono in fondo all'anima, misurando le loro disperazioni; la madre violentata per non poter dire di più, la figlia temendo di indovinare troppo.

—Allora—fece Marta, tergendosi la fronte quasi un sudore improvviso l'avesse bagnata—non c'è nulla.

In quel momento si arrestò ascoltando. La stessa sensazione che l'aveva fatta trasalire il giorno prima nella casuccia dei due contadini, si rinnovava. Sentiva le sue viscere commoversi sotto un impulso di persona viva, colla strana rivelazione di un altro essere in se stessa. Sembrava una piccola mano che battesse contro il suo seno, una piccola mano che voleva dire: Aprimi, io sono l'amore e la verità.

—Gli uomini—continuò la signora Oldofredi, presa nella foga vertiginosa delle proprie parole—conoscono presto l'amore, lo valutano per quello che è e passano oltre, attratti dalla ambizione, dagli affari, della vita pubblica. Ma anche noi non possiamo vivere nella continua illusione dell'amore; per questo abbiamo la religione e la maternità. È ancora l'amore, ma l'amore che si trasforma; l'ideale risale al cielo, mentre la parte materiale di noi si anima e vive della nostra stessa carne…

Marta non udiva, delle parole di sua madre, che il bisbiglio. Colle mani raccolte sul grembo, le palpebre socchiuse, il corpo abbandonato nei guanciali, aveva l'apparenza della più gran calma, ma un brivido la scuoteva internamente, un brivido e una puntura. Vedeva ancora quell'amplesso, quel bacio… come dubitarne, se tutto il suo essere ne era stato scosso, se all'improvvisa rivelazione aveva compreso, lei già donna, il mistero della virginità, quel mistero che è il segreto di Dio e che l'amore solo comunica agli uomini?

Lievi lagrime brucianti sfuggivano dalle sue palpebre.

—Marta! Marta!—chiamava la mamma, curva su di lei, divinatrice amorosa della lotta che si combatteva nel di lei cuore.

Marta, senza parlare, ripeteva fra sè: Sarà il raggio che sfolgora e muore, sarà l'illusione che passa, sarà il sogno, il delirio di un istante; pure esiste. Raggio che non scalda tutti i cuori, sogno che non rallegra tutte le notti…

Ma intanto la piccola mano ripeteva con insistenza: Apri, io sono l'amore e la verità.

E Marta rivedeva, in una specie di visione magnetica, la bella campagna estiva, gli alberi frondosi ramificanti sopra lo sfondo azzurro e un meschino insetto che tendeva i suoi fili d'argento. Spezzato un filo gettava l'altro, e un altro ancora e ancora, sempre avanti, la tela prendeva proporzioni gigantesche, i fili abbracciavano tutto il creato, salivano ad altezze vertiginose, toccavano il cielo.

Era la vasta tela della vita umana, il lavoro ogni giorno rinnovato di chi soffre e combatte; il lavoro temerario che poggia nel vuoto guardando arditamente la luce; lo sforzo immane di milioni di esseri, intelligenze torturate, cuori spasimanti, schiavi in pena, tutti sorgenti dalle loro catene, tutti lanciando il loro filo d'argento al misterioso Ignoto. E i fili si spezzano, e la tela si strappa e la felicità dondola sempre sospesa all'impalpabile bava di un aracnide. Che importa?

Tutto muore, tutto nasce, tutto cambia, tutto si rinnova, le tombe scoperchiate servono di culla, i cuori insanguinati e piangenti danno nuovo sangue e nuove lagrime alla vita.

Avanti, coraggio!

FINE.

LIBRERIA EDITRICE GALLI

DI

=Milano C. CHIESA e F. GUINDANI Milano=

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RACCOLTA DEI MIGLIORI ROMANZI MODERNI ITALIANI

UGO VALCARENGHI

I RETORI

LE CONFESSIONI DI ANDREA

Seconda edizione.—Un bel volume in-16 __L. 3.__

__Diamo alcuni giudizi dei più importanti Periodici su questo Romanzo, che forma il primo volume della Serie «I RETORI.»__

«….La prefazione è splendida, e credo fermamente sia quanto di più notevole si sia scritto da molti anni a questa parte intorno agli intenti del romanzo.

«… Predomina nel romanzo la ricerca decisa, quasi febbrile, della verità. Il Valcarenghi ha avuto il coraggio di dominare coll'idea il sentimento, e di studiare a fondo l'anima propria non badando ai dolori, agli strazi di vedere mille illusioni andarsene, dinanzi alla necessità ineluttabile del vero scientifico.

«….Il romanzo del Valcarenghi sintetizza in modo chiaro e semplice quello cui pochi hanno accennato appena, e che infine è nella coscienza di molti. Neera, Gerolamo Rovetta, Antonio Fogazzaro, Bruno Sperani, Filippo Turati, Memini non hanno potuto leggere le Confessioni di Andrea, senza provare una commozione profonda.

«….Il romanzo italiano, per vivere, ha bisogno di giovani, che, come il Valcarenghi nutrano forti convinzioni e principii veramente positivi.»

Rivista di Filosofia Scientifica (Agosto 1888).

«Nelle Confessioni di Andrea, il Valcarenghi esce ardito, gagliardo… egli vuole smascherare gli ipocriti della società; vuole ribellarsi contro le convenzioni sociali.

«….L'Andrea, il suo protagonista, si confessa con sincerità brutale: non giustifica nemmeno sè stesso quando erra nei suoi pazzi amori, quando si mostra negli espedienti dell'egoismo; la sua anima non è corrotta sino all'eccesso, ma è spesso cinica, in qualche momento fa orrore, si svela tutta nelle sue convulsioni, e nello stesso tempo tende inesorabile a smascherare le altre, mostrandone le bassezze.

«….In ogni pagina stride e quasi sghignazza uno scrittore che ha stomaco di ferro e non ha peli sulla lingua; uno scrittore che ha molte idee, filosofeggia molto, troppo, e che farà strada!»

=C. R. Barbiera=, nell'Illustrazione Italiana (8 Gennaio 1888).

«Il libro del Valcarenghi sarà certamente molto discusso, perchè è un libro ardito e coraggioso: tanto coraggioso che, veramente, nelle 370 pagine di cui si compone, non corre che una tenuissima favola. Sarà molto probabilmente giudicato nei modi i più diversi: ma la discussione e la disparità dei giudizi saranno la miglior soddisfazione dell'autore; il quale, dopo tutto, ha dimostrato ed affermato bene un fatto, quello di volere e di saper fare un libro con intendimenti serii, con viste larghe, con profondità di pensiero.»

Gazzetta del Popolo della Domenica di Torino (8 Aprile 1888).

«Le Confessioni d'Andrea iniziano una serie, un ciclo di romanzi, che meglio e più propriamente potrebbero chiamarsi studi sociali. Il Valcarenghi mira con essi ad interessare i suoi lettori con lo studio assiduo e paziente dei vizii, dell'ambiente, delle consuetudini ed ipocrisie sociali che corrompono il carattere, la coscienza, quanto v'ha di più nobile nel sentimento umano. Egli cerca di fondere nell'artista il filosofo ed il sociologo, per dare dei mali della società una descrizione fotografica, esatta; per studiarne in seguito, con amore e verità, i rimedii.

«…. Questo volume nuovo del Valcarenghi, di gran lunga si lascia addietro i suoi precedenti: e per esso e con esso s'avanza in prima fila fra i migliori cultori del romanzo italiano.»

=M. Mariani=, nella Cronaca Rossa di Milano (22 Aprile 1888).

«….Un uomo che mette a nudo il proprio egoismo con una schiettezza rara, in omaggio alla verità…. Chi non sente gemere un cuore d'artista e di galantuomo sotto le pagine spietate? E quella larga nota di dolore che sale acuta, persistente da ogni pagina, non è dessa la moralità tutta, tutta la bontà e la efficacia dell'opera d'arte?…»

=Neera=, nel Fanfulla della Domenica (15 Aprile 1888).

«….Già più d'una volta ebbi a lodare, ed anche in queste stesse colonne, dei libri sinceri; principalmente perchè sinceri. Eccone un altro da aggiungere al numeroso stuolo.

«….Innamoratomi alla prefazione, bellissima, lo divorai tutto in un fiato….»

=Filippo Turati=, nell'Italia (4 Aprile 1888).

«….Malgrado le lacune e le sovrabbondanze, le Confessioni d'Andrea sono un romanzo forte pel concetto e bello di pagine, nelle quali l'esecuzione corrisponde al concetto.

«….Le Confessioni d'Andrea si leggono con profitto e con diletto dalla prima all'ultima pagina.»

=G. Depanis=, nella Gazzetta letteraria di Torino (7 Aprile 1888).

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UGO VALCARENGHI
SOTTO LA CROCE
ROMANZO

Un bel volume, in-16 L. 3.

«Dopo Baci perduti: Sotto la Croce; vale a dire, dopo le scene della vita borghese, il romanzo. Questo prova che il Valcarenghi non si è fermato sul successo di quel primo lavoro, ma che ha voluto far qualche cosa di più seriamente pensato.

«L'argomento è una storia triste, ma vera, uno dei romanzi umani che leggiamo nella vita d'ogni giorno. I fatti si succedono naturali ed i caratteri, per lo più, sono disegnati con cura e sempre conseguenti a lor stessi. Anche la forma è generalmente buona.

«….. Sotto la Croce, non ostante difetti parziali, è sempre un romanzo di merito e di merito grande.»

Gazzetta letteraria (20 Febbraio 1886).

«…Questo romanzo segna un gran progresso sui precedenti lavori dell'Autore che è giovanissimo.

«Il libro si legge con interesse, non per curiosità dello svolgimento, bensì per la naturalezza del racconto e per la verità della rappresentazione.»

=A. Fogazzaro=, nella Provincia di Vicenza (18 Marzo 1886).

«….Il romanzo del Valcarenghi mostra nell'Autore un giovane che ha dell'ingegno, tanto come osservatore, che come artista. Il sentimento della realtà non manca quasi mai in Sotto la Croce, e questo vuol dire che i personaggi sono veri, e che vero è l'ambiente.»

Giornale Cronaca Azzurra di Firenze (8 Aprile 1886).

«L'Autore ha facoltà di intuire e cogliere la vita borghese con ischiettezza. Bel saggio n'è la descrizione di una festa da ballo;—più bella, perchè molto più breve, la descrizione d'una passeggiata nei giardini pubblici….»

Giornale La Nuova Antologia di Roma (1 Aprile 1886).

«Se il giovane Autore dei Baci perduti, segni un progresso col nuovo suo lavoro, tanto nello studio dei caratteri e dell'ambiente, quanto nella forma, ognuno lo vede fra quei critici imparziali che lo giudicarono con logica di criterii, e ne fanno testimonianza le lodi tributategli da molti giornali, fra cui la Piemontese letteraria, la Lombardia, l'Italia, la __Ronda__, l'Illustrazione Italiana, il Presente, il Patriota, la Venezia, l'Indipendente di Trieste, la Provincia di Vicenza, con un articolo di Fogazzaro, ecc,»

=F. Cameroni=, nel Giornale Il Sole (24 Marzo 1886).

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UGO VALCARENGHI
BACI PERDUTI
SCENE DELLA VITA BORGHESE.

Terza edizione.

Un elegantissimo volume con copertina disegnata dall'illustre pittore L. Conconi __L. 2__.

«….Rilessi la 2^a edizione dei Baci perduti collo stesso diletto, come se si trattasse di un racconto nuovo, e questo è il miglior elogio che per un racconto italiano si possa concretare. Il Valcarenghi possiede qualità preziose di novelliere, prima fra tutte l'arte di rendersi simpatico, di infondere nelle cose sue vita e colore. Attraverso alle pagine dei suoi libri palpita l'anima dell'uomo e dello scrittore, il quale, senza sostituirsi mai ai personaggi, infonde loro un po' della passione che lo agita e lo commuove.

«Triste e semplice è la storia di Ulisse, di questo spostato dell'arte e dell'amore, che nell'una deve appagarsi del supremo ideale, e nell'altra di alcuni sorrisi, di alcuni baci, e di molti rimpianti; la vigliaccheria delle piccole cose uccide in lui la facoltà di produrne delle grandi. Le pagine nelle quali dopo la partenza di Ada, è descritto il naufragio dell'anima di Ulisse sono tali che niuno fra i più celebrati scrittori dell'oggi sdegnerebbe di firmare.

«Baci perduti, per intensità di emozione, è degno di pigliar posto fra i migliori racconti italiani di genere intimo pubblicati negli ultimi tempi.»

=G. Depanis=, nella Gazzetta letteraria di Torino (Giugno 1887).

«Il libro ha vita di osservazione acuta, e si distingue per questo dai troppi che, senza avere nulla di vero, fan pompa di nascere da studi coscienziosi. Il Valcarenghi ha scritto pagine dalle quali è chiara la molta attitudine che egli ha al romanzo.»

Giornale Nuova Antologia di Roma (1 Settembre 1887).

«È un racconto semplice, alla mano, senza arruffate vicende, né intrecci a sorprese, che si legge volontieri per la spontaneità dello svolgimento e la chiarezza dell'elocuzione corretta: due pregi di buon novelliere, che non si possono negare al Valcarenghi.»

Giornale La Domenica del Fracassa di Roma (24 Maggio 1885).

«…Queste Scene della vita borghese, pur essendo molto semplici nell'impianto, presentano larghezza di disegno e sicurezza di colorito. I due caratteri principali di Ulisse, il giovanotto ingenuamente innamorato, e di Ada, la provocante civettuola senza cuore, sono tratteggiati con un certo sviluppo psicologico. L'ambiente borghese delle due famiglie, che appigionano le stanze ammobigliate, parmi reso con naturalezza.»

=F. Cameroni=, nel Sole di Milano (19 Dicembre 1884).

«…Un libro pensato, d'indole tutt'affatto patologica, fondato su uno studio appassionatamente fedele del vero.

«È impossibile, con quattro righe, entrare nelle viscere di questo volume, che anatomizza con una provvida asprezza di clinico perfino le più minuscole fibroline dell'uomo e della donna odierna. Però deve essere lecito conchiudere, che l'eco di questo arditissimo e castigatissimo volume, non si smorzerà per un pezzo nella sonorità del mondo del pensiero.»

=F. Giarelli=, nel Caffaro di Genova (30 Dicembre 1884).

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UGO VALCARENGHI
SPERGIURO!

    Battaglia perduta—Tragitto di anime—Amore e fame
               In Valfonda—Antitesi
        Dramma e paesaggio—Il Ragioniere Bertini.

NOVELLE

Un elegantissimo volume con copertina disegnata dall'illustre pittore
Conconi __L. 3__.

«Spergiuro!… Il racconto si fa leggere con molto piacere ed interesse, poichè l'analisi della passione al suo pieno sviluppo è fatta con coscienza e conoscenza del cuore umano… e da quest'analisi accurata, i caratteri dei due giovani amanti, escon fuori delineati bravamente da mano maestra, sul fondo verde della bella campagna lombarda, descritta con una freschezza ammirabile.

«Nel Ragioniere Bertini, v'è lo studio d'altri tipi abbandonati nella società moderna: la vedova esperta del mondo, che predica continuamente alla figlia di trovarsi un marito; la giovinetta, corrotta in parte dalla madre, che civetteggia; ed il burocratico, pieno di studi, che non conosce il mondo.»

Giornale Il Napoli (2 Dicembre 1888).

«Tutte le pagine del nitido volume allettano per la vita vera e palpitante, che emana forte e spontanea… Il libro s'intitola dalla prima novella, che apre degnamente il volume.

«Ma la migliore, a mio giudizio, è la terza, Amore e fame. In essa è tratteggiata splendidamente la lotta contro la miseria, contro l'esaurimento delle forze intellettuali, a cui sopravvive e grandeggia l'amore.

«Non prenderò qui in esame le altre novelle: ognuno, leggendo il libro, potrà trovare da solo le bellezze in esso contenute, e gustare quei pregi di cui il rinomato Autore sa ornare i suoi scritti.»

Giornale di Udine (26 Dicembre 1888).

«Spergiuro!… Della fantasia si sente il difetto, ma forse a bella posta: l'Autore, sull'esempio della nuova scuola naturalista, sceglie apposta soggetti noti, comuni, collo scopo di trattarli artisticamente, nuovamente.

«In tragitto d'anime c'è una scena deliziosa, con quelle piccole collegiali dai capelli svolazzanti al vento come piccole bandiere spiegate, gracili, malaticcie, colla loro allegria triste…

«Battaglia perduta! per evidenza artistica, e verità, è il miglior lavoro e fa onore all'ingegno del Valcarenghi.»

=R. Barbiera=, nell'Illustrazione Italiana (30 Dicembre 1888).

«Spergiuro!… Cose scritte con molto garbo artistico, con una forma limpida e scorrevole.

«Il Valcarenghi occupa, nella novellistica moderna, un posto che molti gli invidiano, e questo volume rappresenta un intermezzo piacente e pregiato nella sua forte ed ampia produzione di raccontatore geniale.»

=P. De Luca=, nella Luce di Salerno (19 Gennaio 1889).

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DELLO STESSO AUTORE

___PERCHÈ RITA?…___ ed altre novelle.

Un volume in-16 __L. 1__.

=I Retori.=—FUMO E CENERE.

Un volume in-16 __L. 3 50__.

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GRANDI ORAZIO
LA PRESENZA DEL NUME

Un volume in-16 L. 2.

«Il Grandi è un eccellente pittore della natura, e sa animare i suoi paesaggi con garbate figure tratte dalla vita reale. In questa narrazione alla antipatica cognata, fa riscontro la nobile e buona donna Claudia, madre di Massimo; e compiono il quadro l'ottimo Sante, marito di Paolina, l'enologo Raveggi, il notaio poeta, l'antico sindaco colla sindachessa, e sopratutto lo zio vescovo nelle parole dette sul suo letto di morte, spiega il concetto morale del lavoro. La lingua è di buon conio paesano; e lo stile corre via rapido e spigliato. Sicchè il nuovo racconto del Grandi è degno degli altri, che gli han data meritata lode, ed offre onesta e piacevole lettura.»

=A. Franchetti=

«Non sono più di centoventisei pagine in-16 di un bel garamone, con molto lusso di spazii interlineari e marginali. La lettura non mi rubò più di un'ora, ma se anche ne avessi impiegate due, non me ne pentirei nemmeno.

«Il racconto è dedicato ad una bambina, la figlia dell'autore, il quale con una prefazione, che è una vera gemma, la affida a lei, rivolgendole fra le altre queste delicate parole:

«O piccola fata, lascia che, come segue la fortuna, preceda queste pagine, nel mio pensiero l'immagine tua… Quando i tuoi labbrucci si schiudono verso di noi e il lieve sospiro del tuo cuoricino si confonde col nostro, non ti dice, Lina, quella gara di baci qual vuoto crudele la tua presenza ha colmato?»

«L'azione del racconto è semplicissima e si svolge con la più serena naturalezza.

«La falsa posizione di una giovine donna moglie a un uomo che non sa nè può amare, costituisce la tela nella quale è ricamato il racconto. Paolina, che potrebbe abbandonarsi nelle braccia di Massimo è trattenuta dal culto per la sua bimba morta sulla tomba della quale ella si reca con Massimo a piangere e pregare.

«L'autore dell'Abbandono e delle Macchiette, possiede oltrechè una intuizione felicissima nel tratteggiare i caratteri, una stupenda tavolozza per dar risalto alle figure e all'ambiente nel quale le fa muovere e agire. E però reputo che la lettura di questo nuovo suo libro piacerà senza dubbio a tutti, perchè non soltanto è dilettevole, ma pure naturale.»

Dall'Alabarda Triestina (Luglio 1888).

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A. G. CAGNA
ALPINISTI CIABATTONI

Elegante volume in-16 con copertina illustrata L. 2.

«L'autore di Un bel sogno, di Noviziato di sposa, di Provinciali, ecc., ingegno facile e geniale, ha voluto questa volta far passare un'ora di buon umore ai suoi lettori. In questo racconto pieno di verve, pieno di trovate, l'autore ci descrive con evidente verità le avventure di un Alpinista… ciabattone, appunto una specie di Tartarin italiano; e v'è riescito così bene, da far ritornare ai bei tempi del Ghislanzoni.

«Questo volume è forse il miglior lavoro del Cagna; l'emanazione più naturale, spontanea della sua mente. Un umorismo, fine, bonario spira da tutto il libro. Il grottesco è la nota che vi domina, ed è la nota vera. Quanti non ne abbiamo visti noi di questi alpinisti ciabattoni sulle rive del lago, o alle acque termali, i quali vengono per osservare la natura e non la intendono, salgono un monte, come i due onesti coniugi e droghieri Gibella, e si fermano meravigliati a guardare le teste di morto di un vecchio ossario, o un verme che attraversa la strada, nè mai danno un'occhiata d'intorno perchè trovano che anche fuori del loro paese, dal grande al piccino, le cose hanno tutte lo stesso andazzo; dappertutto cielo, terra e montagnaccie, seccature, gabbamondi e ciarlatani di ogni specie.

«Le lacrimevoli odissee di questi coniugi Gibella, ne' sette giorni che passarono sulla riviera d'Orta, sono divertentissime; magistralmente descritto anche l'ambiente. La vis comica vi abbonda, ed è di buona lega.»

Giornale La Postilla.

«Sono scene le quali valgono a fissare uno dei tanti aspetti che presentano le cose della vita; aspetto passeggiero, fuggevole se si vuole, ma profondamente vero e ritratto con meravigliosa efficacia di rappresentazione.—Esse rispondono dunque alla tendenza del pensiero moderno.

«Negli Alpinisti ciabattoni abbiamo realtà vivissima di ambiente, di personaggi, di tipi; non manca, per chi sappia ritrovarcelo, l'elemento psicologico. Essi costituiscono adunque un vero e proprio lavoro d'arte.

«La realtà che il Cagna descrive negli Alpinisti ciabattoni è semplice, bonaria, credo anzi ch'egli stesso la definisca una realtà borghese. Ma è forse meno difficile a cogliere di un'altra? Sarebbe illusione o pochezza di mente il crederlo. Quelle pagine sono una miniatura così delicata di particolari, di circostanze minutissime, tutte però significative, tutte concludenti, da rilevare il lavorio sottile di una intelligenza penetrante.

«Sfilano davanti a noi numerosi paesaggi. Colli verdi ed ameni, montagne brulle e nevose; cieli limpidi e sereni, cieli plumbei corsi da nubi scapigliate; distese d'acque calme, azzurrine, ridenti; acque sconvolte dalla bufera, il lago nero e imbronciato. E poi aurore, meriggi infocati nelle solitudini dei campi, tramonti. Una varietà di scene da non finir più; ma tutte belle, tutte magistralmente ritratte. Nessuna monotonia.

«Questo lo sfondo della scena, nel quale s'aggirano pieni di freschezza, viventi di vita vera, figure e tipi umani colti con meravigliosa verità del mondo reale e trasportato in quello artistico che il romanziere ha creato.

«E poi una lettura buona, che fa bene al cuore, che parla alla parte migliore di noi. Nessuna predica morale, nessun sermone; eppure sprizzano fuori d'ogni lato, per l'indole stessa dei fatti, quelle idee, quei sentimenti che valgono a rendere gli uomini migliori.»

Giornale La Sesia.

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FOGAZZARO ANTONIO

FEDELE
ED ALTRI RACCONTI.

Elegantissimo volume in-16 L. 4.

«Ogni nuovo lavoro dell'Autore di Malombra è una prova del suo non solo grande, ma originalissimo ingegno che, appunto per la elevata singolarità non è stato apprezzato come meritava da quei lettori passivi che precuravano degli smerci favolosi ai più sconclusionati romanzi, e specialmente a quelli, magari barbaramente tradotti di Montépin e Ponson du Terrail. È un miracolo che Malombra sia arrivato alla quinta edizione, ad onta del merito singolare di forma unito ad un grande interesse, palpitante dal principio alla fine.

«….Rare volte mi è avvenuto di leggere con tanto gusto una così bella raccolta di garbate invenzioni. Le novelle di Antonio Fogazzaro pubblicate in questi giorni dall'avveduto editore Galli sono destinate al più grande successo.

=Filippo Filippi=, nella Perseveranza.

RACCOLTA DEI MIGLIORI ROMANZI ITALIANI MODERNI

EDIZIONI GALLI

Lire

FOGAZZARO A. Malombra. Quinta edizione 4 50 —Fedele ed altri racconti. Seconda edizione 4 — —Il Mistero del Poeta. Quarta edizione 1 — NEERA. Teresa. Quarta edizione 2 — —Lydia, Secondo migliaio 4 — —Il marito dell'amica. Seconda edizione 3 — —Addio! Quarta edizione 2 — BRUNO SPERANI. Numeri e Sogni. Sec. ediz. 4 — —L'Avvocato Malpieri. Seconda edizione 3 50 COLAUTTI A. Fidelia. Secondo migliaio 3 — LA MARCHESA COLOMBI. Prima morire. Terza edizione 2 50 SERAO, Vita e avventure di Riccardo Joanna. Secondo migliaio 4 — —Fior di Passione 3 50 OTTONE DI BANZOLE. Al di là. Seconda ediz. 4 — —No. Seconda edizione 4 — VALCARENGHI U. Spergiuro! 3 — —Le Confessioni di Andrea. Seconda edizione. 3 — —Baci perduti Seconda edizione 2 — —Sotto la Croce 3 — —Fumo e Cenere 3 50 ROVETTA G. Montegù. Seconda edizione 4 — —Mater Dolorosa, Settima edizione 5 — MEMINI. La Marchesa d'Arcello. Seconda ediz. 5 — BERMANI E. Frate Gaudenzio 2 50 CAGNA A. G. Provinciali. Secondo migliaio 3 —

NOTA DEL TRASCRITTORE

Sono stati corretti i seguenti refusi:

e studiando il problema se dovesse torglieselo Ella avrebbe voluto vedere que due sposi modello Ce ne vorrebbero due al giorno delle Ninette per quello li! non mi ricordavo memmeno di chiuder la porta. Mi padre, si sa, ogni uomo ha il suo vizio, Non una parola durante otto giorno interi. sempre nell'aspettiva di una vostra lettera No, no, sarebbe stata una vile ed inrata creatura. ora una colonna d'edera arrossata sul tronco di una quercia aveva compreso, lei già donna, i mistero della virginità,