The Project Gutenberg eBook of La disfatta

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Title: La disfatta

Author: Alfredo Oriani

Release date: December 9, 2006 [eBook #20061]
Most recently updated: January 1, 2021

Language: Italian

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA DISFATTA ***

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LA DISFATTA

ROMANZO

DI
ALFREDO ORIANI

MILANO—FRATELLI TREVES, EDITORI—MILANO

  ROMA Via del Corso, 383.
  NAPOLI Via Roma (già Toledo), 34.
  BOLOGNA: Libreria Fratelli Treves, di P. Virano, Angolo Via Farini.
  TRIESTE: presso G. Schubart.
  PARIGI: presso Boyveau et Chevillet, 22, rue de la Banque.
  LIPSIA, BERLINO e VIENNA: presso F. A. Brockhaus.

La Disfatta.

LA DISFATTA

ROMANZO
DI
ALFREDO ORIANI

MILANO

Fratelli Treves, Editori

1896.

PROPRIETÀ LETTERARIA

Riservati tutti i diritti. Tip. Fratelli Treves.

LA DISFATTA

I.

La contessa Ginevra volse la testa con un sorriso, tendendo al vecchio medico la bella mano bianca, sulla quale non brillava che il sottile anello matrimoniale.

—Perchè così tardi stasera?

—Esco ora dalla casa del marchese Roderigi: sta un po' meglio, il caso è nullameno disperato.

Qualcuno degli invitati scambiò un'occhiata malinconica alla triste notizia, ma la conversazione rimase impacciata come prima.

Il dottor Ambrosi si era seduto sopra una lunga poltrona in felpa gialla, presso la contessa Ginevra, abbandonando la testa sulla spalliera colla famigliarità di un amico, pel quale l'etichetta consente molte licenze. Era un bel vecchio alto, quasi calvo, di un color roseo ancora vivace sotto il bianco dei capelli e della barba; mostrava sessant'anni, benchè ne avesse quasi settanta, ma nè la fatica, nè lo studio avevano ancora potuto trionfare della sua robusta complessione.

—E Bice?—chiese subito, riaprendo gli occhi.

—È nella sua camera.

Tutti attesero quello che il dottore avrebbe detto. Egli parve scrutare nello sguardo della contessa, largo e tranquillo; quindi con quella bruscheria, che lo aveva reso popolare, si scrollò sulla poltrona.

—Vapori!

—Bice ha un'anima troppo delicata.

—E un corpo troppo debole: una cosa dipende dall'altra.

—Sapete perchè non viene stasera con noi?

—Lo immagino, ma forse verrà più tardi.

—Purchè non pianga! Negli organismi come il suo, il pianto è un disastro; si squilibria tutto il sistema nervoso, e lo stomaco si stanca in contrazioni inutili.

La contessa Ginevra girò lo sguardo sugli altri. Non erano molti; la contessa Ghigi, una dama di cinquant'anni, ossuta, nerastra, pochissimo simpatica, e nullameno di una bontà che sarebbe stata poetica, anche senza il profondo sentimento religioso che l'animava. Portava dei mezzi guanti di seta nera, a rete, sulle mani gonfie dai geloni, e sui capelli ancora nerissimi e duri, bipartiti sulla fronte bassa, un tocco di velluto scuro, quasi malandato. Ella sedeva vicino ad un ometto vestito di un largo soprabito bigio, tutto rasato, con una testina giallognola illuminata da due occhi cilestri vivacissimi. Dirimpetto a loro un altro vecchio, calvo sino quasi alla nuca, col ventre a stento rattenuto da un corpetto in panno turchino a fiorami di seta, e una cravatta bianca al collo troppo grosso, appoggiava le mani poderose al tavolo, trastullandosi con un mazzo di carte.

All'occhiata della contessa Ginevra tutti guardarono il dottore con muta disapprovazione.

—Ecco che mi siete tutti addosso!—disse raddrizzandosi sulla schiena con uno scoppio di voce, mentre il suo viso si animava di una energia simpatica:—volete davvero la mia opinione? Mi disapproverete, so già prima quanto pretenderete di oppormi, perchè ho fatto la vostra diagnosi da un pezzo; ebbene, la mia opinione eccola: il tenente Lamberto ha ragione.

Questa affermazione era così enorme, che sul momento nessuno potè protestare; la contessa Ghigi ebbe per la prima come un gesto di spavento.

—Per voi io sono già condannato; non lo negate, contessa Maria, perchè non mi offendo di questa condanna, alla quale sono sicuro di sfuggire da un'altra porta: d'altronde so che pregate da molti anni per me, e che la vostra cattiva opinione sulle mie idee non v'impedisce di volermi bene come ad un amico. Contessa mia, e anche voi, Ginevra, avete torto: è il tenente Lamberto, che ha ragione.

—Affliggere la povera Bice!—intervenne il vecchietto tutto rasato, con una voce così sottile che si sarebbe creduta di una ragazza.

—Sei fuori di tono, Giorgi: la vita ha più corde del tuo pianoforte. Dimentichi dunque, mio grande maestro, che il tempo è tutto, nella musica come nella natura? Lamberto ha ventisei anni, ecco perchè ha ragione.

—Io sono qui forse quella,—disse la contessa Ginevra,—che vi dà meno torto; però confessate, con tutta la vostra indulgenza alla gioventù, che almeno Lamberto ha peccato nel modo.

—Tutto quello che vorrete, la forma, la finezza delle maniere, che io, nato contadino, non ho ancora saputo imparare, ma che non avrebbero mutato nulla al problema. Tiriamo dritto: in una diagnosi si tiene forse conto della signorilità di un individuo? Volete un'altra opinione?

—Peggiore della prima?—osservò il grasso Prinetti, che non aveva ancora parlato.

—Siete dunque in vena, dottore?

Egli fece uno sforzo per frenarsi, ma il carattere riottoso lo trascinava.

—Bisogna pure, quando si tratti di passioni, non dimenticare che siamo composti di materia. Io non nego la spiritualità, come la chiamate voi altri con una parola inintelligibile, perchè senza di essa l'uomo sarebbe rimasto un bruto. Sì, l'amore, la gloria, la ricerca eroica del vero, tutto lo slancio umano, insomma il pensiero è la sola bellezza e la sola virtù della vita, ma per pensare ci vuole un cervello inaffiato largamente di sangue. Datemi i ventisei anni di Lamberto, rimescolatemi, a Roma, in una società dove non si pensa che a godere, e forse hanno più ragione di noi che abbiamo sempre lavorato,—esclamò con improvvisa amarezza:—anche se amo la nostra Bice con tutte le forze del cuore, se penso a lei in ogni momento che potrò sottrarre alla mia professione oziosa di soldato, Bice non mi basterà. L'amore è come la scienza; ha bisogno di rinnegarsi spesso nella pratica. Se non foste la gente che siete, vi direi: ricordatevi e mi darete ragione!

Tutti sorrisero, egli invece brontolò ancora riappoggiando la testa sulla poltrona.

Nel salotto l'aria era tiepida e leggermente aromatizzata da alcune pastiglie, che la contessa Ginevra aveva gittato sulle brace del caminetto, poco prima che entrasse il dottore. Vi fu un silenzio. Il salotto, di un gusto ricco e severo, in quella penombra diventava quasi cupo: solo le poltrone, sulle quali sedevano gl'invitati, e che evidentemente la padrona vi lasciava per una fine amabilità verso i vecchi amici, avevano un carattere quasi volgare di comodità, giacchè da molti anni servivano alle stesse persone, e ne conservavano coll'impronta del corpo i segni delle manìe particolari. Quella del dottore, stretta e lunga, colle frangie dei bracciuoli sfilacciate, metteva tratto tratto un gemito a quel suo dimenarsi, che le aveva slogato un piede; ma egli si sarebbe lamentato, se la contessa Ginevra avesse voluto rimbottirla e tappezzarla di altra felpa.

Giorgi sedeva sopra uno sgabello da pianoforte, la contessa Ghigi spariva quasi, entro una larga ottomana, mentre Prinetti allargandosi sopra una robusta sedia americana, a rete di giunco, perchè qualunque imbottitura gli avrebbe infiammato le reni, grasso com'era, guardava ancora il dottore. Nel mezzo, un piccolo tavolo da giuoco, parato di panno turchino, attendeva la solita partita sotto un magnifico lampadario in bronzo verde; gli altri mobili erano in palissandro, le pareti a damasco azzurro con fiori di un azzurro più carico, il caminetto di marmo nero, il soffitto, dipinto nel secolo scorso, posava sopra un cornicione a stucchi dorati. Pochi bronzi ornavano i tavoli da muro, e tre grandi quadri pendevano da grossi cordoni alle pareti, ma nella luce filtrante dai doppi merletti del lampadario si poteva appena indovinarne i soggetti; mentre a fianco del camino, su due grandi vasi cinesi sembravano accendersi improvvisi bagliori come se i mostri, che vi erano smaltati, si agitassero di quando in quando fra l'aggrovigliamento mostruoso dei loro rabeschi.

La contessa Ginevra, seduta presso il dottore entro una larga poltrona in velluto amaranto, aveva abbassato la testa. Il suo volto di badessa conservava ancora una dolce serenità di comando, sebbene la bellezza non ne potesse più essere la ragione, ora che le guance le si erano così ingrossate, e il mento, appena diviso dal collo per un solco molle di carne, le appesantiva tutta la fisonomia. Ma i suoi occhi neri, larghi ed intelligenti in una tranquillità di luce autunnale, rendevano anche più dolce il sorriso della sua bocca impigrita, sul quale appariva tratto tratto una condiscendenza, quasi stanca, di bontà sopravvissuta a tutte le passioni. Solo le mani, bianche e vellutate come ai bei giorni, vibravano ancora delle nervosità improvvise ed irresistibili della donna. Il resto del suo corpo non aveva più forme femminili; ella s'abbandonava entro abiti larghi, senza voler resistere alla deformazione degli anni se non colla testa e colle mani, quello che ancora la gente poteva vedere in lei, e che forse avrebbe ammirato fino all'ultima ora. Dinanzi al camino un alto seggiolone di quercia, ricoperto di una bazzana a dorature, e una poltroncina in raso roseo parevano una cattedra ed una culla; e dietro di esse, ancora più alto, un candelabro d'argento reggeva una grossa palla, avvolta in una nuvola di fiori, dai quali filtrava una luce da altare. La contessa Maria disse:

—Che vada io nella camera, per tentare di condurla qui?

—Bice non è abbastanza devota.—ribattè il dottore,—per subire il fascino delle vostre spiegazioni. Le direste che il Signore, visitandola con questa afflizione, si è ricordato di lei, e questa, pel momento, non può essere una consolazione.

—Non le avrei detto così.

—Ma, un presso a poco.

—Avrei aspettato che ella parlasse: la carità deve saper ascoltare il dolore, se vuole consolarlo.

—La bestia sono io, contessa; le bigotte, che ho conosciute, m'imbrogliano sempre la bella conoscenza che ho di voi.

—Io non andrei,—disse Prinetti:—non so il perchè, ma fate a modo mio, non andate. Se Bice, che ci ama, vuol restar sola, significa che nessuno di noi può nulla per lei.

—Non ha nemmeno aperto la bella messa di Tchaikowski, che ho potuto ottenere per lei dal Liceo,—disse Giorgi.—Gasperini, il bibliotecario, ha fatto un mondo di difficoltà per prestarmela.

—Giocate dunque voi, dottore, con Prinetti, il vostro solito bezique.

—Sai, Prinetti, giuoca con Giorgi,—ribattè quegli di mal umore:—ho i nervi anch'io.

Si conosceva la tenerezza burbera e brontolona del dottore per Bice.

—Noi due faremo la calza,—si volse la contessa Maria alla contessa
Ginevra,—aspettando che venga De Nittis.

—Allora forse tornerà Bice:—voi, dottore, dormite poichè siete stanco.

—È la vita che mi stanca.

—Eppure la sua prova non è lunga.

La contessa Maria aveva aperto un piccolo sacco da lavoro, traendone quattro grossi gomitoli di lana ordinaria, e due paia di calzettine appena incominciate.

—Via, anche tu, Ginevra, colle tue belle mani!—le disse, mostrandole le proprie sformate dai geloni.

—Centoquindici, centovent'otto, centonovantacinque,—contava già la voce sottile di Giorgi, mentre Prinetti, miope, si chinava sul tavolo per scrivere colla matita, sopra un pezzo di carta, i propri punti.

Nel salotto non si udiva che il ronzio della fiamma chiusa entro la palla di vetro sull'alto candelabro, e il battere sollecito dei ferri fra le mani caritatevoli della contessa Maria. E, a poco a poco, il dottore si assopì sulla poltrona, rimuginando nel pensiero tutta quella triste giornata di lavoro. Era celebre e ricco, ma le miserie, in mezzo alle quali aveva sempre dovuto vivere, gl'impedivano anche allora che la sua carriera aveva trionfato di tutti gli ostacoli, la gioia della vittoria. Poi il dolore di Bice lo spaventava. La ragazza, delicata come un fiore di serra, avrebbe potuto ammalarne; ed ecco perchè egli dava rabbiosamente ragione a Lamberto, quasi per punirsi di non essere riuscito con tutta la propria scienza a metterle la vigoria della giovinezza nel corpo. Ma, se Lamberto non aveva del tutto ragione, Bice aveva certamente torto di annettere tanta importanza ad una scappata giovanile, che si sarebbe sempre dovuto supporre, anche ignorandola. Tale estrema sensibilità non era forse che un effetto dell'anemia, giacchè le nature robuste sanno quasi sempre essere gelose ragionevolmente.

Tutte le sere il dottore veniva dalla contessa Ginevra per un paio d'ore, in quel salotto, a purificarsi, dai contatti inevitabili alla sua giornata di medico, entrando come in un'altra vita spirituale, egli medico materialista, che la negava stizzosamente nella scienza, appunto perchè se la sentiva più imperiosa e profonda di essa nel cuore.

Giorgi e Prinetti seguitavano a contare con voce sommessa: Giorgi pareva un ragnatelo e Prinetti una foca, ma l'uno aveva scritto nella musica sacra forse le ultime più belle pagine, traducendo la violenta passione dell'anima moderna nella eterna passione umana verso Dio; l'altro aveva viaggiato trent'anni, e per dieci era rimasto in Africa lottando per l'abolizione della schiavitù, viaggiatore e soldato eroico, senza riportarne nemmeno la tentazione di scrivere i propri viaggi in un tempo, nel quale non si viaggia più che per scrivere. Però nessun osservatore volgare avrebbe saputo, guardandoli giocare a quel modo, indovinare dal loro aspetto due anime aristocraticamente superiori: solo qualche volta, mentre abbassavano ancora più il tono della voce per non disturbare il lavoro delle due signore, il loro volto s'illuminava di un dolce sorriso.

—Dottore,—disse la contessa Maria,—la piccola Roberti verrà domattina a trovarmi con sua madre.

—Voi credete a quella donna? Sapete perchè era tanto afflitta per la malattia della figlia? Perchè spera di poter presto vivere sopra di lei.

La contessa Maria non si mosse.

—Forse il Signore non lo permetterà.

—Permette ben altro! Il popolo lo conosco più di voi, perchè ci sono nato: nulla potrà mutarlo. Novanta volte su cento la vostra bella carità diviene alimento a' suoi vizi; il popolo non crede, non spera, ma vuole evitare di soffrire ad ogni costo.

—È tanto che soffre,—rispose la contessa Ginevra.

—Quando soffrirà meno, sarà anche peggiore. Solamente l'egoismo dei poveri supera quello dei malati; almeno questi, atterriti dalla morte, sentono talora la riconoscenza, se si arriva a salvarli; mentre i poveri prendono sempre, invidiando secretamente, sino all'odio, quelli che donano loro.

—Voi avete diritto di essere severo colla miseria, giacchè ne avete trionfato,—replicò con dolcezza la contessa Maria;—ma noi, che non abbiamo fatto nulla, saremo sempre debitori verso i poveri. Se Dio ci ha preferito in questo mondo per la sua misericordia, vuole però che ne cerchiamo il secreto nei dolori della povera gente: aiutandoli a soffrire, possiamo forse persuaderli, che la poca parte di felicità concessa alla vita non è una ingiustizia.

Giorgi e Prinetti smisero di giuocare.

—Soffrendo molto, l'uomo arriva a comprendere la necessità del dolore,—intervenne questi.—Vedete la schiavitù, questa fase inevitabile della educazione: bisognava che il padrone, a forza di frugare nello schiavo, vi ritrovasse una coscienza invincibile, e che questi, resistendo, gli desse la vera misura delle forze umane. L'uomo non si è educato altrimenti. Ho visto sui mercati dell'Africa centrale tutti gli schiavi rassegnati, quasi indifferenti alla loro sorte; è la prima tappa.

—Solo il cristianesimo potrà redimerli,—disse la contessa Ginevra.

Ma il dottore protestò:

—E coloro che saranno morti prima di questa redenzione?

—Saranno morti come tutti gli altri, secondo i disegni di Dio,—ribattè la contessa Maria alzando la sua faccia quasi maschile, dalla quale trapelava un raggio dell'anima.—Dinanzi a lui siamo tutti egualmente colpevoli, ma quelli lo sono meno, senza dubbio, ai quali non ha voluto rivelarsi.

—La fede, la fede….—mormorò il dottore non convinto.

—Quella che voi trovate in tutti i moribondi,—disse finalmente Giorgi.—Haydn pregava prima di scrivere; ecco perchè il mondo crederà sempre alla sua musica.

La contessa Ginevra, che faceva la calza lentamente, mentre la contessa Maria andava in fretta come un piccolo telaio, osservò improvvisamente:

—Anche De Nittis tarda stasera.

Aveva appena pronunciate queste parole, che De Nittis entrò: tutti gli si volsero col viso come illuminato, ma egli non strinse la mano che alla contessa Ginevra.

—Bice?—chiese premurosamente.

—È nella sua camera.

—Lamberto è venuto da me.

—Tornato da Roma!—gridò quasi il dottore, alzandosi.

Giorgi e Prinetti avevano circondato De Nittis, la contessa Maria smise d'incrociare i ferri.

—Mi ha lasciato ora: domani verrà da Bice.

—Che cosa vi ha detto?—domandò la contessa Ginevra.

De Nittis sorrise:

—Voi lo sapete, senza dubbio, quanto me; il ragazzo ha trovato più di un nobile accento.

Il dottore si volse trionfante.

—Suonate, Giorgi, che portino il thè.

—Tu,—disse De Nittis al dottore,—va a chiamare Bice.

Questi rimase impacciato, ma tutti approvarono la scelta; il dottore colla sua affettuosa rudezza era forse il più amato da Bice.

—Le dico solo che sei arrivato.

De Nittis, sempre freddoloso, si era già appressato al camino, volgendovi la schiena ed alzando un piede verso la fiamma. Era vestito di nero, come al solito, con un soprabito quasi attillato, entro al quale il suo corpo, ancora elegante di tutte le proporzioni della giovinezza, si muoveva disinvoltamente. Ma la sua testa troppo grossa, sebbene i capelli bianchi, corti e pettinati con cura, non ne aumentassero la cornice, appariva non meno ammirabile nella altezza della fronte che nella vivacità del colorito quasi roseo, col volto tutto rasato all'inglese, due piccole fedine sotto le orecchie, e una bocca quasi fresca.

Anch'egli, come Prinetti, portava sempre la cravatta bianca, ma con un corpetto meno aperto e il colletto dritto, forse per nascondere le prime rughe del collo, per una di quelle civetterie quasi inconsapevoli nei vecchi rimasti belli; e la sua fisonomia, di una signorilità regale, se i re fossero davvero secondo l'antica cavalleresca definizione primi fra i signori, prendeva facilmente, appena la fronte gli si spianasse, quella espressione di calma monastica, di serena contemplazione, che solo la lunga abitudine del pensiero arriva ad imprimere.

—Roberto,—gli disse Prinetti,—ecco le sigarette per te: sono arrivate oggi da Costantinopoli.

—Davvero genuine!—esclamò l'altro, leggendone la scritta in caratteri turchi sul pacchetto a colori, mentre colle mani, belle quasi quanto quelle della contessa Ginevra, lo rigirava bambinescamente, prima d'aprirlo.

—Bice fumerà la prima.

—Lo credete?—chiesero tutti.

—Bisognerà bene che acconsenta, se dovrò accettare da lei la mia tazza di thè.

Il dottore tornò solo.

—Ora viene.

Un cameriere vestito di scuro, senza alcun distintivo di livrea, recò il servizio da thè; lo depose sopra uno dei tavoli a muro, fra due vasi di bronzo, e si ritirò mutamente. La fiammella dello spirito, cilestrina, tremolava nella penombra, mentre i ferri della contessa Maria martellavano sempre collo stesso ritmo affrettato nel silenzio del salotto.

Bice entrò.

Era solamente un po' più pallida delle altre sere.

Il suo abito di casimiro grigio, stretto su tutta la persona, ma così pesante che ella sembrava portarlo a stento, sebbene colla coda toccasse appena il tappeto, non aveva alcun ornamento: solo un piccolo fermaglio antico di acciaio, lavorato come una trina, vi brillava al colletto dritto e molto basso, malgrado la eccessiva lunghezza del collo. Anzi, per una di quelle profonde intuizioni artistiche che talvolta le donne hanno di sè medesime, invece di nascondere la propria magrezza, ella sembrava affettarla; l'abito le disegnava tutto il busto, colla schiena già piegata sotto il peso della testina dolorosa, e la sporgenza quasi mostruosa delle anche, al disopra delle quali il petto le rientrava nel dosso. Si era inoltrata adagio, colla testa lievemente china sulla spalla sinistra, facendo come una macchia nell'ombra del salotto col volto bianco. I capelli di un nero corvino, pettinati alti sulla fronte, accrescevano ancora l'aria imperiosa del suo volto, con quel gran naso aquilino fra le sopracciglia sottili e lievemente corrugate: però una fossetta sul mento metteva una grazia di bambina nel sorriso del suo saluto. Solo le sue orecchie ceree, piuttosto grandi, facevano una triste impressione.

—Buona sera,—disse colla sua voce appannata, di una dolcezza penetrante.

Tutti le vennero incontro; si capiva che avrebbero voluto parlare, ma la sapevano troppo intelligente per arrischiare una parola inutile. Ella stese a De Nittis la mano gelata.

—È più freddo stasera.

—Scaldati dunque anche tu, prima di farci il thè,—esclamò il dottore, che avendole afferrato l'altra mano, gliela stringeva fra le proprie; quindi le trasse la poltroncina rosea più accanto al fuoco.

—Mettiti qui.

—Prima faccio il thè.

—Niente, signorina; quando ho ordinato una cosa, deve essere, altrimenti cambiate medico.

—Preferirei di cambiare malattia.

—Ti converrebbe prima mutare di testa: Guillotin, il più umanitario fra noi medici, non è arrivato che ad inventare una macchina per tagliarle.

La contessa Maria si volse alla risata di tutti: aveva già tratto dal sacco del lavoro un piccolo astuccio, e le si avvicinò aprendolo. Tutti si appressarono per vedere. Era una medaglia d'oro, una madonnina di un grande artista sconosciuto.

—Oh!—disse Bice,—quale meraviglia!

—È miracolosa?—domandò sardonicamente il dottore, che quella sera cercava tutti i modi per divertire Bice.

—Come arte, senza dubbio,—rispose De Nittis.

—È stata benedetta sull'altare del Santo Sepolcro a Gerusalemme,—soggiunse la contessa Maria.—Era della mia povera mamma: ho voluto dartela stasera, perchè tu la porti sempre per amore di lei.

Bice gettò le braccia al collo della contessa, reprimendo un singhiozzo.

La contessa Ginevra, Prinetti e Giorgi erano tornati prudentemente alle loro sedie per non aumentare la commozione di quella scena, della quale il dottore cominciava già ad impazientirsi. Bice prese la medaglia per la sottile catenella d'oro, e se la mise al collo, sopra l'abito. Si vedeva che aveva freddo; allungò i piedini verso la grata lucente del camino, stringendosi dentro le vesti.

—Propongo fra noi tre,—disse il dottore,—un bicchierino di rhum.

Prinetti e Giorgi avevano ripreso il bezique, la contessa Ginevra e la contessa Maria le calzettine. Il salotto si manteneva silenzioso, ma a poco a poco il dottore, aiutato da De Nittis, riuscì ad annodare con Bice una conversazione; veramente egli non vi era molto forte, ma l'altro, il grand'uomo della loro piccola società, pensatore ed artista squisito, sapeva mettere nei propri discorsi un fascino quasi femminile. La sua voce morbida e sonora sembrava talvolta dilatare il significato delle parole come una musica.

Riprese dal collo di Bice la medaglia, e compiacendosi da principio a farle notare tutte le finezze del disegno, si perdette a poco a poco nella poesia della Vergine Madre di Dio, come prima era balenata nella fantasia torbida e grandiosa dei profeti israelitici, e nella vittoria del cristianesimo occupando poi tutti i cuori aveva potuto di leggenda in leggenda salire sino al paradiso di Dante, per riapparire nuovamente, attraverso il barocchismo del moderno culto gesuitico, in un altro idillio, alle anime semplici dei contadini nelle campagne della Salette e di Lourdes. Il dottore lo ascoltava, preso anch'egli all'incanto di quel mondo di fantasmi religiosi, senza i quali l'umanità, malgrado tutte le forze della salute, non avrebbe saputo vivere. Era il trionfo della donna al disopra di sè medesima, librata nella purità come in una luce rivelatrice.

—La verginità cristiana,—proseguiva De Nittis con un tremito leggero nella voce,—non è più la preparazione all'amore, l'attesa della maternità, come nel mondo antico: l'uomo ne è escluso. Egli non saprebbe essere vergine, perchè nella sua lotta contro la natura deve subirne tutti i contrasti e penetrarne tutte le contraddizioni. L'uomo potè, con uno sforzo supremo di ascetismo, salire sino alla castità isolandosi dalla vita, ma questo suo trionfo parziale non ebbe mai il valore di un principio religioso. La verginità è femminile: tutte le religioni lo hanno sentito, quasi tutte, almeno le più eccelse, osarono la fusione fra i due termini, verginità e maternità. Ma nel cristianesimo questo simbolo divenne anche più alto, e Maria vergine madre ne perfezionò la stessa bellezza plastica con una nuova perfezione morale: quindi ella fu la più vera bellezza umana nell'immunità dalle deformazioni del piacere, e l'eroismo più puro accettando tutti i dolori dell'umanità nel proprio figlio senza aver peccato nel partorirlo. Nessuna poesia supererà mai quella della Madonna cristiana, giacchè coloro che come voi, dottore, non si prostreranno alla sua immagine, dovranno adorarla nello spirito.

—I preti non spiegano così il mistero.

—Non l'ho io forse raddoppiato invece di spiegarlo? Non è miglior spiegazione la loro, quando dicono che Dio volle incarnare il proprio figlio, perchè morisse per noi, e ci redimesse? Tutte le spiegazioni sono così. Dinanzi ad un malato voi non dubitate della malattia, non vi chiedete se essa non sia piuttosto una nuova forma della vita, la vittoria di un vivente sopra un altro; per voi, per la medicina, la malattia invece è il nemico della vita, perchè scompone una individualità. In questo caso le spiegazioni della scienza, davanti al mistero della natura, in che cosa sono superiori a quelle della religione, di fronte al mistero dello spirito?

Il dottore, allegro di essere riuscito ad interessare Bice con quel discorso, si lasciò battere volentieri.

—L'eterna guerra fra la scienza e la filosofia!—replicò sorridendo:—voi ci accusate di non capire, noi vi accusiamo di non fare. Tu dovresti stare per la scienza, Bice, e farci il thè.

—Trecentoventinove,—proruppe Giorgi:—dottore, Prinetti ha bisogno di voi, sta male.

—Starebbe meglio se, invece di perdere delle puglie, perdesse un po' di grasso. Sei tornato troppo presto dall'Africa; con qualche altro anno laggiù ti saresti prosciugato.

Quando Bice ebbe servito il thè a tutti, tornò presso il camino: l'atmosfera del salotto sembrava cambiata. Rosa, la vecchia cameriera, venne silenziosamente a mettersi dietro De Nittis: la sua faccia grinzosa, fra la cuffia nera e il largo fazzoletto di lana a quadroni cupi sulle spalle, pareva assopita. Adesso tutti parlavano, il dottore era tornato alla sua poltrona, De Nittis, il solo che fumasse, aveva accesa una sigaretta costringendo Bice ad accettarne un'altra; ma la ragazza sembrava ricadere, ogni tanto, in una penosa meditazione.

De Nittis le prese una mano.

—Domani verrà Lamberto.

Ella sussultò.

—L'ho visto oggi; fra voi due è necessaria una spiegazione. Dovete ascoltarlo, prima di giudicare.

—Perchè ascoltarlo, quando ho già sentito?

—Ascoltatelo nullameno. Voi non siete una donna volgare, per la quale il dispetto possa essere una ragione; quando gli avrete parlato, sentirete che cosa il cuore vi detta. La vita è troppo profonda, perchè si possa pretendere di indovinarla alla prima ruga della sua superficie.

Ella parve raccogliersi.

—Mi dirà quanto ha detto a voi, che non ne siete rimasto persuaso, poichè non volete ripetermelo.

—Bice, voi soffrite troppo ora.

—No, è passata.

E si stese languidamente sulla poltrona: la sua debolezza, in quel momento, era pietosa. De Nittis la considerò a lungo, respirando quasi involontariamente la poesia dolorosa della sua figurina.

Dopo qualche minuto, Bice riprese con voce lenta:

—Mia madre è morta d'amore, me l'avete detto voi stesso. Quando penso a lei, io, che non ho potuto conoscerla, credo che dovrò morire di una morte anche peggiore. Mi fa pena per voi altri, specialmente pel povero dottore; egli avrebbe voluto fare di me una giovinetta fiorente, e non è riuscito che ad una larva di donna.

De Nittis protestò con un gesto.

—Non vedete come tutti siete penosamente preoccupati della mia rottura con Lamberto, temendo che ne esca infranta? Qualunque altra ragazza vi si mostrerebbe nella pienezza della propria natura; io debbo invece ritrarmene. Sono come quei cagnolini, che scappano in casa al primo tuono.

—Ho promesso a Lamberto che lo riceverete dimani, sulle due,—rispose
De Nittis tagliandole quello sfogo.

Ella titubò.

—Lo volete?

—Sì, per voi.

Bice rimase lungamente incantata nella fiamma. La sua fisonomia, non bella, perdeva in tale fissazione quella dolce gracilità di ammalata, che era la sua sola luce; allora De Nittis tacque, ma conoscendo tutta la delicata energia della sua anima, avrebbe preferito qualunque altra reazione angosciosa all'abbattimento di quella calma. La vecchia Rosa scambiò uno sguardo con lui.

—Che cosa avete mangiato oggi?—chiese a Bice il dottore.

—Non ho mangiato.

—Allora invitatemi a cena, mangeremo insieme.

Ella diede un'occhiata supplichevole.

—Benissimo, dieta dappertutto!—proruppe.—Domani mattina alle undici verrò a far colazione qui; vedremo un poco! Rosa, sapete che voglio mangiar bene…. ho mangiato così male da studente, che me ne ricordo ancora. Adesso, signorina,—proseguì consultando il proprio orologio, un grosso cronometro d'oro,—mi farete il piacere di andare a letto. Verrò a salutarvi nella vostra camera.

—Ma, dottore….

—Niente! vai, o ti porto via in braccio.

Ella si alzò con Rosa, salutò tutti: il dottore le diede un bacio sui capelli.

Erano le dieci e mezzo, il salotto tornò grave.

—Temete che si ammali?—chiese a bassa voce la contessa Ginevra al dottore.

—No.

De Nittis era pensieroso. Quell'aria rassegnata di Bice significava che la ferita era profonda, quindi la sua eccessiva debolezza rendeva, malgrado ogni asserzione del dottore, probabile una catastrofe. Tutti lo temevano.

—Vi dico,—egli replicò, dopo una pausa,—che non si ammalerà. Perchè si ammalerebbe? Ella non ama Lamberto.

—Non ama Lamberto!—proruppe Giorgi.

—E perchè?—chiese De Nittis fissando sul dottore uno sguardo luminoso.

—Perchè?! Essa è troppo anemica per amare davvero un giovane così bello e robusto.

A questa osservazione, terribile nella sua semplicità scientifica, nessuno rispose. Poco dopo il dottore, andandosene con De Nittis, passò nella camera di Bice.

Ella aveva ubbidito, era a letto. Invece di tastarle il polso, egli le pose carezzevolmente una mano sulla fronte.

—Ho detto a Rosa che domattina vi prepari la polenta cogli uccelletti: ho indovinato?—gli domandò due volte sorridendo.

Bice aveva sul cuscino un magnifico gatto, con la testa quasi più grossa della sua, e due grandi occhi chiari.

—Almeno non leggere;—egli le rispose brontolando.

E uscì, dopo averle rimboccato la punta delle coperte sotto il capezzale.

II.

La mattina a colazione Bice pareva più calma. Nullameno il suo pallore aveva quei toni cerei, che fanno quasi dubitare della presenza del sangue, dando alla pelle l'apparenza di una cosa morta. Invece il dottore, sempre in piedi per tempissimo, e a quell'ora già collo stomaco alacre, divorava ogni cosa con appetito giovanile cercando d'incitarla; poi era venuta anche la contessa Ghigi per condurlo da una sua protetta povera.

Quella mattina Ambrosi era di buon umore, giacchè solamente a sera, dopo aver girato ed altercato cogli infermi della sua vasta clientela, lo riprendeva una stanchezza irritata della vita.

Nessuno aveva ancora fatto la più piccola allusione alla visita del tenente Lamberto volendo, per una squisita raffinatezza, lasciare più libera Bice in quella suprema decisione della sua vita. Anche la vecchia Rosa, sempre colla solita cuffia e quel fazzolettone sulle spalle, mangiava coi padroni.

A tavola serviva un altro cameriere, attempato, corretto nei modi, senza quella affettazione dei domestici di grandi case, che pare un complimento imposto alla loro servilità verso l'importanza dei signori.

Le due dame parlavano vivamente di un'impresa, che le preoccupava da lungo tempo: l'idea era stata della contessa Ginevra, ma senza l'aiuto dell'amica non vi si sarebbe mai accinta. Si trattava di una casa, nella quale accogliere i bambini, che le mamme operaie sono costrette ad abbandonare nel giorno, andando al lavoro; occorreva quindi un buon numero di brave donne, ed alcune fra esse al caso di fare da balie, per custodire ed allattare i piccini nella giornata. Al momento, da casa avrebbe servito una delle molte, che la contessa Ginevra possedeva nella città; ma la somma per adattarla a tale uso, e per pagare le spese vive di esercizio, mancava, giacchè si sarebbero dovuti nutrire ad un tempo i bambini e le sorveglianti. Di notte lo stabilimento resterebbe chiuso.

Il problema maggiore era però, se le mamme avessero o no a versare una minima quota giornaliera per bambino: la contessa Maria avrebbe preferito una beneficenza compiuta, l'altra con intenzioni più moderne sosteneva, che non si dovesse esonerarle anche da tale piccolo sacrificio per non diminuire in esse il già scarso sentimento della responsabilità materna.

La loro discussione si accalorava, senza che il dottore, incredulo in fatto di beneficenza, mostrasse di interessarvisi; ma siccome Bice era ricaduta in un silenzio inquietante, le due signore si arrestarono. Il dottore s'impazientò: uso ad attaccare sempre di fronte malattie e malati credette bene di eccitare Bice.

—A che ora verrà il tenente Lamberto?

La contessa Ginevra gli fece un cenno inutile.

—Alle due.

—Va benissimo.

Ella lo guardò curiosamente.

—Questa notte dormirai, ecco tutto, o io sono più bestia che medico: il caso è frequente nella nostra professione.

—Voi dunque sapete quello che risponderò?

—Te lo dirò stasera, prima che tu mi racconti la cosa: vedrai se ho indovinato.

La ragazza guardò la zia Ginevra e la contessa Maria, quasi interrogandole se fossero anch'esse della medesima opinione.

Un sentimento di rivolta le saliva dal cuore a vedersi così prevenuta nella decisione suprema della propria vita, ma sui loro volti affettuosi non scorse che una preoccupazione repressa: Bice indovinò che temevano una risoluzione contraria a quella del dottore.

—Dottore,—disse Bice appoggiando un gomito sulla tavola ed abbandonando la testa sulla palma della mano,—checchè avvenga mi darete sempre la vostra approvazione?

—Sì,—egli rispose francamente.

Non parlarono più.

Il dottore, accorgendosi di aver fatto tardi a tavola, si alzò bruscamente, ma dovette promettere alla contessa Maria di lasciarsi trovare alle tre nella solita farmacia; ella passerebbe a prenderlo colla carrozza per accompagnarlo dalla sua nuova protetta, un caso straziante, forse irrimediabile. La contessa Ginevra doveva fare delle visite.

—Vuoi che resti teco?—chiese a Bice cingendole con un braccio l'esile vita, e baciandola sulla fronte.

—No, zia, andate pure.

La contessa era indecisa; un'onda d'affetto le traboccò dal cuore.

—Oh, Bice mia, sii forte!

Quando tutti se ne furono andati, ella tornò con Rosa nel proprio appartamentino, e si fece vestire. Malgrado la sua sgraziata figura, Bice era sempre di una eleganza tanto più squisita che non ne traspariva alcuna civetteria; laonde molti dicevano che vestiva all'inglese per satireggiare con questa parola male appropriata la severità delle sue stoffe e l'indifferenza colla quale le portava. Appena le due cameriere ebbero finito, sotto la sorveglianza della vecchia Rosa, che non parlava mai, Bice passò nel proprio gabinetto, uno stanzino parato di arazzi moderni, con soggetti quasi tutti derivati dai romanzi di Walter Scott, e si fece portare il piccolo telaio, sul quale ricamava da due mesi, nei momenti d'ozio, un manipolo per il curato della sua villa. La vecchia Rosa seduta presso di lei, facendo automaticamente la calza, l'osservava tratto tratto con ansiosa acutezza. L'altra avrebbe voluto parere calma, ma le mani sottili e ceree le tremavano involontariamente fuori dei piccoli merletti delle maniche, mentre quell'abito di velluto azzurrognolo smorto, con certe vivezze improvvise che parevano brividi, rendeva anche più inquietante il suo pallore.

—Rosa,—mormorò respingendo il telaio,—nessun di loro ha voluto dirmi nulla: che cosa debbo fare? Perchè non mi hanno consigliata?

—Il professore ti ha pur detto di riceverlo.

—Ma non ha detto nulla di più.

La vecchia si lasciò cadere nel grembo i ferri colla calza e, passando le mani sugli occhi di Bice, glieli chiuse carezzevolmente.

—Gli vuoi bene?—si chinò a susurrarle nell'orecchio.

Ma l'altra invece le domandò:

—Perchè non soffro di più, mentre la mamma ha potuto morire di amore?

Stettero un altro pezzo in silenzio. La vecchia, colla testa della fanciulla sulle ginocchia, la contemplava con una adorazione atterrita: ella vedeva nei suoi occhi azzurri le stesse piccole fiamme, che già avvampavano negli occhi della madre bruciandole il cuore tanto presto. Bice era in preda ad un orgasmo indefinibile.

—Rosa!—domandò nuovamente:—dopo te, chi mi vuol più bene?

La vecchia non esitò un istante:

—Il dottore.

—Perchè si ostinò a volermi far vivere, quando invece dovrò morire all'età della mamma? Mi restano ancora sei anni, sono molti. Lasciami dire, Rosa: io lo sento meglio di voi altri, che non si può vivere così.

—Vuoi tentare il Signore con questi discorsi?

—Sino ai quindici anni sono campata di acqua civilina e di olio di merluzzo; meno male che sono rimasta magra,—seguitò con amarezza;—se mi fossi ingrassata, avrebbero dovuto mettermi sulle bottiglie per réclame. Ecco il risultato della mia vita.

Rosa, che non voleva quei discorsi, se la tirò più su, contro il petto, come una bambina.

—Che cosa gli dirai, a lui?

—Dimmi piuttosto, come potrà spiegarsi meco?

La vecchia non seppe rispondere; gli occhi limpidi della fanciulla avevano una purità insostenibile.

—Dimmelo, Rosa: questo è il grande momento della vita per me. Tutto quanto ho imparato, tu che mi credi dotta, non mi serve a nulla davanti al problema, che sta per risolversi. Anche la mamma ha dovuto morire di un tradimento; tu devi capirlo bene, che ho bisogno di saperlo. Se l'amore degli uomini è così naturalmente diverso dal nostro, la colpa non è loro…. Ma dimmelo…. Questa notte ho sempre pensato alla mamma; non mi sono potuto sottrarre all'idea che, anche lei, sia stata tradita.

—Tu sei ancora troppo piccina; queste cose si sanno solamente dopo.

—No, Rosa: ho bisogno di saperlo. La mamma è morta di dolore…. tradita, anche lei?

—No.

—Giuralo.

—Te lo giuro.

—Perchè dunque è morta di amore? Si può morire della sua gioia?

Adesso la vecchia era malcontenta; anch'essa ricadde in una meditazione. Aveva quasi settant'anni, ma così curva e grinzosa li portava tuttavia abbastanza bene. La sua fronte di un colore di terra cotta, a larghe macchie, pareva spiegazzata: la bocca le era rientrata violentemente dentro le gengive deformando le linee, forse una volta belle del naso e del mento, ma sotto l'imperturbabilità della sua maschera antica s'indovinava ancora un cuore buono. Parlava lentamente, senza gestire, con voce bassa, che certe volte pareva un'eco. Da moltissimi anni era rimasta sola, poi aveva fuso la propria vita con quella di Bice disputandola, giorno per giorno, alla morte con la stessa energia di contadina, colla quale ella medesima se ne difendeva.

Ma leggendo più profondamente nell'anima della fanciulla, Rosa temeva più degli altri. Era la grande crisi; forse la morte si nascondeva dentro quell'amore di fanciulla come una vipera sotto un cespuglio.

—Andiamo dalla Madonna,—disse risolutamente.

Pochi minuti dopo uscivano di casa, a piedi, Bice imbacuccata in una pelliccia di martora, che la copriva sino a terra, e con un fitto velo sul viso per non aspirare l'aria troppo rigida; la vecchia avvolta in uno scialle antico della contessa Ginevra, e con un grande fazzoletto di seta sulla testa.

Talvolta la gente si voltava a vederle passare.

Entrarono in San Bartolomeo.

La chiesa era quasi tiepida e deserta: Rosa porse le dita bagnate nell'acqua santa a Bice, e andarono difilate all'altare della Madonna di Guido Reni, la sola che a Bologna abbia un'eguale celebrità di arte e di miracoli.

Due donne del volgo, inginocchiate dinanzi alla balaustra della cappella, non si mossero vedendo una signorina prostrarsi vicino a loro. La cappella, di un gusto villano, aveva per altare uno dei soliti banchi in legno dipinto stupidamente a marmo, ma la bella immagine sogguardava dalla piccola cornice, ovale e dorata, con uno sguardo dolcemente estatico, dentro al quale si sentiva come una tregua di dolore. Il suo busto, avvolto in un confuso panneggiamento turchino, sfuggiva nell'ombra.

Rosa piegò la fronte sulla fredda pietra della balaustra, mormorando a mezza voce una Salve Regina.

Nel silenzio della chiesa, vivamente illuminata, strisciavano dei passi: ogni tanto il portello pesante, sotto al quale erano passate, si richiudeva rimbombando cupamente; in fondo, nell'abside, ove alcuni apparatori lavoravano ad un addobbo salivano tratto tratto parole in dialetto, quasi striduli appelli di piazza in quel raccoglimento torpido, fra il volo muto delle preghiere.

Bice ne ricevette una penosa impressione. Ella non sapeva pregare che a certi momenti, quando l'anima, gonfia di poesia, le si alzava spontaneamente verso l'invisibile: allora tutti i mistici fantasmi le riapparivano attirandola sempre più in alto, per un azzurro rorido e vampeggiante d'improvvise illuminazioni.

Per qualche tempo seguì il passaggio dei pochi devoti, che entravano nella chiesa, s'inchinavano a quell'altare ed uscivano dall'altra porticina di fianco. La chiesa diventava volgare come ogni luogo pubblico. Malgrado lo spessore della pelliccia, ella si sentiva già i ginocchi indolenziti sulla durezza dello scalino: a che scopo quella visita, a quell'ora?

Ma le altre due donne, e la vecchia Rosa, seguitavano a pregare immobili, col volto fra le palme, in una posa di profondo abbattimento; per loro la Madonna era così presente, che non avevano nemmeno il bisogno di guardare la sua bella immagine sull'altare. Allora Bice s'incantò di nuovo a contemplarla, rammentandosi confusamente le parole di De Nittis sulla Vergine Madre di Dio. Erano vere: nessuna poesia supererebbe mai quella della madonna cristiana, così vergine da ricusare l'onore di madre di Dio, e così madre da abbandonare alla morte il proprio figlio divino per salvare quelli di tutte le altre donne. Ma la soave figura di quel quadro era appena malinconica: le sue guance rotonde, la sua piccola bocca, la sua fronte liscia non esprimevano la sovrumana tragedia della sua vita; solo gli occhi appannati lasciavano indovinare come un pianto di rugiada.

Poi tutto fu inutile, Bice non potè pregare. Invece era sorpresa di sentirsi così indifferente, mentre la grande crisi della sua vita stava per scoppiare.

—Di' un'Ave Maria con me,—le susurrò Rosa.

Uscirono: all'aria aperta Bice tornò pensierosa.

—Il signor tenente Lamberto è già nel salotto ad aspettarla,—disse il cameriere aprendo loro la porta dell'appartamento.

Bice sussultò.

—La zia è tornata?

—No, signorina.

Bice entrò risolutamente nel gabinetto, senza trarsi la pelliccia, alzandosi il velo sul cappellino; il tenente Lamberto balzò in piedi ma, per quanto si fosse preparato al colloquio, rimase incerto di tenderle la mano o d'inchinarsi solamente.

—Buon giorno,—gli disse Bice sull'uscio, e venne a sedersi presso di lui, sopra una poltrona, stringendosi freddolosamente nella pelliccia.

Il suo volto pallido era agitato da un tremito, che il freddo della strada bastava a spiegare. Egli non sapeva come incominciare. Così vestito, colle mostreggiature bianche del reggimento Novara, e la corta montura nera, poichè aveva gettato lo spencer sopra una poltrona, senza berretto, era veramente bello; la sua media statura di proporzioni ammirabili, e la sua piccola testa cogli occhi neri e la pelle bronzina avevano un'espressione di forza simpatica.

—È freddo.

—Da intirizzire.

—Anche la zia è uscita?

—Sì.

Non sapevano andare avanti.

—Sedete dunque,—ella gli disse.

Ma quando fu seduto, si sentirono entrambi così lontani l'uno dall'altro, ad una tale distanza, che non avrebbero più potuto farla sparire: ella dentro a quella pelliccia, dalla quale non sporgeva che la testina sofferente, era ripresa dal freddo. Poi una tristezza insopportabilmente greve le cadde sull'anima. Egli se ne accorse.

—Prima di presentarmi,—cominciò con visibile stento,—sono stato dal professore De Nittis: egli mi ha consigliato a venire, perchè vi debbo una spiegazione.

Bice attese; l'altro, che aspettava una parola d'incoraggiamento, s'imbrogliò di nuovo.

—Sarete offesa; ne convengo, tutte le apparenze sono contro di me.

—Che importano le apparenze?

—Mi credete dunque ancora?

—Vi crederò, senza dubbio, giacchè volete dirmi qualche cosa, e non potreste avere l'intenzione d'ingannarmi.

Questa facilità di Bice rendeva anche più difficile la spiegazione. Evidentemente egli si attendeva ad un'altra accoglienza, a lamenti, ad accuse, che provandogli di essere ancora amato, gli avrebbero dato immediatamente una superiorità sopra di lei: invece la fredda bontà di Bice lo sconcertava. La sua vanità ne fu punta: involontariamente si atteggiò con più seduttrice eleganza sulla poltrona, passandosi la spada tra i piedi e la mano sinistra sui piccoli baffi.

—Io non voglio certo ingannarvi.

—A che scopo lo fareste? Una fanciulla come me, fuori della vita….

—Come fuori della vita? Quando ne siete uscita?

—Voi mi avete provato, che non vi sono mai entrata davvero.

Era l'accusa: allora egli si sentì finalmente sollevato:

—V'ingannate. Può darsi che qualcuno vi abbia riferito le cose ben diversamente; so che i giornali ne hanno parlato, ma chi crede più ai giornali? Si conosce come ricevano le notizie e le propalino; hanno bisogno di trovare lo scandalo dovunque, giacchè non vivono d'altro.

—Quindi non vi è stato nulla.

Egli si arrestò.

—Hanno falsato, ecco: il fatto è vero, ma non così. Io fui insultato, ho dovuto battermi.

Un'emozione passò sul volto di Bice, egli se ne avvide.

—Ho fatto male. Un amico mi aveva pregato di accompagnare quella donna a casa, poichè lo aveva trovato con lei nel Corso, e si erano bisticciati. Ella invece volle entrare al Gambrinus; quelle donne son tutte così. Era impossibile rifiutare.

Bice ascoltava.

—Il tenente Ravizza aveva meco un vecchio rancore; ma, del resto, viene dalla bassa forza e ne ha conservati tutti i modi. Senza la sua provocazione troppo palese, nulla sarebbe accaduto…. Infine, qualunque sia la condizione di una donna, quando è anche momentaneamente, per caso, con noi, ogni gentiluomo ha il dovere di ottenerle da tutti il rispetto.

Egli aveva detto ciò in fretta, come un finale di lezione mandata a memoria, ma si sentiva che non ne era rimasto contento: d'altronde Bice non si era mossa. Parevano due stranieri, che per una stravaganza inesplicabile parlassero di un caso intimo; egli si trovava ridicolo con quelle spiegazioni assurde anche per un bambino, mentre il giorno prima con De Nittis raccontando sinceramente l'accaduto, aveva trovato qualche scatto simpaticamente generoso.

Ricaddero in silenzio, umiliati tutti e due.

Quindi un ricordo della loro tenerezza giovanile li punse, come un rimprovero pieno di dolci rimpianti; erano così confidenti allora l'uno nell'altra, che nessuna età della loro vita sarebbe mai più così felice. Egli, robusto e turbolento, ne faceva di tutte le sorta; ella lo rappattumava colla zia e coi maestri tornando poco dopo a bisticciarsi con lui, ma senza che una viltà d'inganno li avesse mai separati. Invece, soli in quel gabinetto tiepido, nell'abbandono di una spiegazione, che avrebbe dovuto suggellare il loro amore, s'accorgevano di non riconoscersi più. Involontariamente Bice pensava a quella cortigiana, una delle celebrità più impure della capitale, che Lamberto aveva condotto a cena, difendendola dai motteggi di un crocchio di ufficiali, sino a battersi col più imprudente di loro. Secondo tutti i giornali quella donna era irresistibile di eleganza, bella come le sue pari debbono esserlo, colla freschezza dei fiori e la mobilità carezzevole e tempestosa del mare.

Un'amarezza dolorosa le salì dal cuore alle labbra. Allora, con moto repentino, aperse la pelliccia per rigettarla sopra una sedia; Lamberto fu pronto a passarle di dietro, ma ella gli rispose un "grazie" secco, e rimase in piedi, quasi per farglisi vedere in tutta la propria desolata magrezza. L'imbarazzo dì lui crebbe; ella seguitava a tacere.

—Mi congedate?

—Non avevate delle spiegazioni da darmi?

—Mi sembrate così poco disposta a riceverne!

—Sarò io che ve le darò invece.

—Voi….

—Siete libero,—ella disse raddolcendosi nuovamente:—avrei voluto potervelo dir prima, per risparmiare ciò che avete creduto di dovermi spiegare, ma il tempo dei nostri giochi è passato. Io, lo vedete, sono rimasta egualmente pallida e magra, un'imponderabile, come una volta mi disse ridendo il dottore; solo l'anima e il volto sono invecchiati in me. Voi invece siete diventato un uomo: siete bello,—aggiunse con uno strano accento di purezza e d'indifferenza.

—Bice….

—Forse il mondo è troppo grande perchè noi donne possiamo comprenderlo, ma ho sentito che non sareste più ritornato dal vostro nel mio.

—Io vi amo, Bice.

—Ancora!—ella ribattè con ironia rassegnata.

—Qualunque siano i miei torti, dovete credere….

—Di qual fede volete voi parlare, Lamberto? Io non so che cosa sia l'amore degli uomini: esso può, secondo voi, dimenticare e transigere. È così, non è vero? Invece io sono tanto poco donna, che il vostro amore non saprebbe vivere di me: non m'interrompete, Lamberto. Nessuna generosa menzogna potrebbe cambiarmi la coscienza che ho di me stessa: vedete che non mi lagno.

—Così mi umiliate doppiamente.

—La colpa è della mia memoria, che in voi non ha potuto difendersi contro impressioni più gradevoli. Eccovi la mano, Lamberto, restiamo amici.

—È impossibile!—proruppe.—Vi dirò tutto, piuttosto che restare sotto il peso di questa bontà, che mi schiaccerebbe.

Con un gesto risoluto e grazioso, le prese una mano appressandole insensibilmente il volto al volto: i suoi occhi neri sfavillavano.

—Bice,—riprese con voce commossa,—quando vi avrò confessato che noi uomini diventiamo brutali, anche se ci brilla nell'anima la più santa delle immagini, ne saprete forse quanto prima: eppure è così. Quella donna, della quale un angelo come voi non potrebbe essere geloso, l'ho conosciuta; è vero, non ci pensavo, ma il mondo è così stupidamente fatto, che per lei ho dovuto arrischiare inconsideratamente la mia vita e ferire un compagno. Però essa non mi è mai entrata nel cuore: mi credete, non è vero?

—Sì.

—Allora mi perdonate.

—Non sono io che lo posso: dovrà perdonarvi quel vostro compagno, egli è il solo ferito.

Lamberto le lasciò cadere la mano; ella fece un passo addietro afferrando la pelliccia; egli raccolse lo spencer. Era diventato pallido; automaticamente Bice si rimise la pelliccia.

—Ve ne andate?

Ella gli tese la mano, col suo dolce sorriso.

—Addio, Lamberto.

—Così freddamente!—gridò, reprimendo a stento la collera:—adesso comprendo che non mi avete mai amato.

Una fiamma si accese negli occhi cilestri di Bice. Egli stava per prorompere, ma una improvvisa umiliazione lo colse di essere invano così giovane e bello per quella gracile creatura, che sino allora aveva creduto di trascinare vittoriosamente dietro al carro della propria vita. Bice gli sfuggiva in alto, come una di quelle immagini, che paiono risalire verso l'aurora della nostra infanzia, mentre noi discendiamo pel meriggio verso il vespro.

—Resterete a pranzo colla zia?

—No, se mi lasciate a questo modo.

—Allora tornate stasera a vederla: sarà contenta di trovarvi così bello.

—Mentre voi mi trovate moralmente tanto brutto.

Ella sorrise ancora:

—Non sareste allora uno dei miei amici.

—Amico! piuttosto nulla.

—Verrete stasera?

—Faremo la pace?

Ella ridivenne fredda.

—Addio, Lamberto.

E indietreggiò di qualche passo: pareva ad entrambi impossibile di lasciarsi così, ma nullameno avevano finito, non trovavano più altra parola. Non si erano nemmeno dati la mano.

Egli, sempre più piccato, fece un inchino contegnoso sull'uscio, ma allora Bice pentita della propria durezza gli corse dietro, lo raggiunse nell'anticamera, traversandola rapidamente per entrare nell'appartamento della zia, e gli tese la mano.

—Addio,—mormorò con un accento, sul quale era impossibile ingannarsi.

Ma entrando nel solito gabinetto di conversazione dovette sedersi per resistere alla emozione, che la soffocava: adesso le pareva di sentirsi più grande nella libertà del nuovo abbandono, dopo quella suprema abdicazione alla vita mondana, nella quale Lamberto avrebbe dovuto introdurla. Dopo avere per tanti anni creduto di amarlo con una passione di orfanella, la più intensa e dolorosa fra tutte, era sorpresa della propria pace fredda, mentre i nervi le fremevano ancora, e gli occhi le battevano dalla voglia di piangere. Era dunque questo il grande dolore aspettato? Poi un'ultima reazione la risospinse.

Suonò il campanello.

—Andrea,—disse al cameriere:—Rosa deve essere stanca, accompagnatemi voi.

Si riabbassò il velo sul volto ed uscì. Il vento si era fatto anche più rigido. Ella camminava in fretta, ascoltandosi dietro il passo del domestico, senza badare alla folla più rumorosa in quell'ora del passeggio, sotto i portici di Santo Stefano; quindi piegò per via Remorsella, verso la casa De Nittis. Secondo le sue abitudini, il professore doveva essere rientrato dopo la lezione delle due pomeridiane.

—Voi! Bice!—egli esclamò meravigliato, vedendola entrare colla grossa Margherita.

Nello studio il caldo della stufa era quasi insopportabile.

—Si cavi la pelliccia, signorina,—diceva la governante del professore.

Bice le sorrise: quella vasta stanza, calma e severa, le aveva subito dato un senso di gioia. Le pareti erano interamente nascoste da alti scaffali pieni di libri; in fondo, presso la finestra senza tende, che lasciava entrare tutta la luce della strada, lo scrittoio del professore spariva quasi sotto mucchi di fascicoli e di volumi, mentre egli, sempre così ben pettinato, vestito di nero, signorilmente elegante, stava seduto sopra un'antica poltrona in cuoio giallo, a spalliera alta e dritta.

—Che cosa avete?—le domandò premuroso tirandosela vicino.

Ella tardò invece a rispondere, ma il suo viso era così tranquillo che
De Nittis non le ripetè la domanda.

—È la grande opera?—ella chiese indicandogli un mucchietto di fascicoli a copertine rosee.

—La mia grande opera!—ribattè con un sorriso d'ironia,—quella che forse non finirò.

Bice ne prese un fascicolo, ma non potendo ancora star ferma, andò alla finestra per leggerne qualche riga.

—Ah!—esclamò,—è un latino che capisco anch'io.—Dominus, pars haereditatis meae et calicis mei: tu es qui restitues haereditatem meam mihi.—È una citazione di Rénan; come sarà bella! Quindi proseguì leggendo ad alta voce: Ah! que je frapperais volontiers ma poitrine si j'éspérais entendre cette voix chérie, qui autrefois me faisait tressaillir. Mais non, il n'y a que l'inflexible nature: quand je cherche ton oeil de père je ne trouve que l'orbite vide et sans fond de l'infini, quand je cherche ton front céleste je vais me heurter contre la voûte de airain, qui me renvoie froidement mon amour. Adieu donc, ò Dieu de ma jeunesse! Peut-être tu seras celui de mon lit de mort. Adieu: quoique tu m'aies trompé, je t'aime encore!

Ella aveva letto modulando le frasi, ma alle ultime parole si arrestò. Quel perdono superbo e malinconico, che l'anima umana, ingannata in tutte le proprie dolorose ricerche, gettava morente per l'infinito verso Dio, le fece vibrare tutte le fibre del cuore ancora agitato da quell'ultimo abbandono.

De Nittis si era alzato per venire a leggere sul manoscritto al disopra delle sue spalle.

—Ditemelo voi, è una bestemmia quest'ultimo grido di Rénan?—gli si volse con voce commossa.

—No, Bice, è il principio di una nuova preghiera: l'uomo perdonando a Dio di non esserglisi voluto rivelare, afferma così l'amore al disopra della fede. E voi avete perdonato a Lamberto?

—Sì.

—Come vi siete lasciati?

—Amici.

—Tu non l'ami dunque più?

Egli le aveva preso le mani, la sua voce era quasi severa.

—Nemmeno egli può amarmi.

Bice tornò a deporre il manoscritto sulla scrivania, e si rimise la pelliccia per uscire. De Nittis pensieroso si accostò per aiutarla. Ella lo lasciò fare, provando una dolce contentezza a sentirsi stringere da lui la pelliccia sul corpicino così bisognoso di riguardi, mentre una luce tremula le rideva negli occhi. De Nittis si attardava.

—Ho voluto dirlo a voi per il primo,—mormorò salutandolo graziosamente col capo:—verrete stasera?

III.

La signora Ginevra Benini, da molti anni vedova del conte Ramponi, non aveva mai avuto figli; sua sorella Ada invece era morta dopo aver dato alla luce la piccola Bice, così mingherlina allora, che nessuno la credette capace di vivere. Un lungo dramma d'amore aveva riempito e troncato la vita di Ada, quasi sul fiore, poichè toccava appena i vent'otto anni, e la sua florida bellezza sembrava prometterle, come a sua sorella Ginevra, una forte vecchiezza. Ma la morte precoce del marito, troppo amato, le aveva inaridito nell'animo tutte le sorgenti della vita.

A diciotto anni, più leggiadra ancora della sorella, alta, flessibile, bianca come una camelia, bionda cogli occhi neri, s'innamorò perdutamente di un giovane ingegnere, Silvio Tronconi, poverissimo e così gracile nella sua pallida bellezza che pareva una donna. Lo aveva conosciuto in casa di un'amica, dove lo studente si recava qualche volta a conversazione malgrado la selvatichezza dell'orgoglio, che gli faceva fuggire ogni occasione di feste per non mostrarsi nella ridicola decenza della propria miseria di orfano. Il mondo è severo cogli abbandonati, che hanno bisogno di conquistarlo per vivere, e se ne sentono la forza. Egli non aveva che una piccola pensione, appena sufficiente per non morire di fame, assegnatagli da uno zio, vecchio impiegato, il quale divideva così con lui la propria tutt'altro che lauta; quindi, venuto a Bologna per frequentare assiduamente l'Università, vi passava il resto del tempo nelle biblioteche o nella propria cameretta del quarto piano, dietro la Montagnola, sul canale Naviglio. Di lassù guardando sul canale, rotto a brevi distanze dalle ruote gigantesche, che vi muovevano gl'ingranaggi dei molini e degli opifici allineati strettamente lungo il suo corso, si poteva sognare di essere a Venezia o ad Amsterdam: per tutti i piani delle case correvano strette e sottili ringhiere di ferro battuto, dalle quali spenzolavano al sole le biancherie bagnate; gruppi di lavandaie lavavano sui muricciuoli, presso i ponti, che lo cavalcavano, ingiuriandosi o cantando ad alta voce: tutte le finestre avevano de' fiori, e sulle acque spumeggianti fragorosamente fra le ali delle ruote, che parevano scrollare nel sole grappoli di goccie iridate, passavano lente e nauseabonde tutte le immondizie della città.

Quando la stanchezza dello studio lo forzava a distarsi dal tavolino, egli veniva alla finestra colla pipa, abbandonandosi alle suggestioni fantastiche di quel quadro semplice e meraviglioso. Certe notti, col lume di luna, la scena assumeva forme e proporzioni stravaganti.

Aveva ventidue anni.

La natura femminea legatagli dalla mamma, che lo aveva partorito d'amore senza essere mai stata sposata, contrastava dolorosamente colle maschie temerità del suo ingegno già ferito dagli inevitabili dispregi della società per i poveri. Quindi innamorandosi di Ada, s'intese improvvisamente mancare tutte le forze. La ragazza era ricca, giacchè a Bologna quattrocentomila franchi di dote sono una ricchezza; era bella, elegante, una delle celebrità più in voga nei piccoli ritrovi della borghesia, ove si balla e si suona inesorabilmente il pianoforte. Egli capì che ogni speranza sarebbe stata assurda; ma, passato il primo sbalordimento, pretese nullameno a quell'amore con tutta la tenacia di una volontà abituata sino dai primi anni alla vittoria.

Già da piccino, mentre lo zio pensava di avviarlo ad un mestiere, egli invece gli aveva giurato di conquistare una laurea, qualunque ne fossero le difficoltà, e vi era oramai riuscito. L'anno venturo uscirebbe ingegnere dall'università. Era stata una lotta di ogni istante, in ogni luogo, minuta, grandiosa, insensata: vi erano stati giorni senza pane, inverni senza fuoco, studi senza libri, notti senza candela; con tutte le amarezze dell'esilio dalle strade, ove passavano le belle donne e le carrozze, colle febbri nel sangue giovane, che batteva a ondate sul cuore, collo squallore del deserto nel passato, poichè non aveva conosciuto nè padre nè madre, e una insofferenza di ambizione anelante alla rivincita come un condannato a morte nelle ultime ore può anelare alla vita. Senonchè, per resistere ai compagni incoscienti e chiassosi, aveva dovuto prima irrigidirsi in tutta l'anima e nel corpo. Poi l'amore lo trasformò.

Egli, che odiava la società come tutti gl'infelici, essendo quasi socialista, quantunque le conclusioni del suo pensiero scientifico si opponessero alle argomentazioni del suo cuore ulcerato, comprese istantaneamente la legittimità della ricchezza nella lotta senza tregua e senza misura della vita. Le ricchezze erano la conquista dei più agili o dei più forti, di coloro che sapevano prendere, o di quelli meno alacri, cui bastava il conservare. Tutte le lagnanze dei poveri, le recriminazioni dei vinti e le aberrazioni dei malati non avrebbero mai prevalso contro questo fatto così semplice ed universale, che in ogni lotta il premio tocca sempre giustamente a coloro, i quali sanno o in un modo o nell'altro strapparlo.

Ma, per diventare ricco, occorrevano, oltre l'ingegno e la volontà, alcune anticipazioni di danaro e la benevolenza della fortuna. Col candore dei cuori puri egli descrisse in lunghe lettere a Ada la propria condizione, dicendole che, appena laureato, andrebbe in America per raccogliervi in pochi anni con un lavoro febbrile una ricchezza pari alla sua dote. Ci voleva tutta la freschezza della inesperienza per osare simile proposta con una signorina dell'alta borghesia: cinque anni di attesa e di fedeltà ad uno sconosciuto, che aveva per unico patrimonio il proprio cuore.

Ada acconsentì.

Le loro spiegazioni a voce erano state brevi, quasi solenni, in casa di quell'amica, un giorno che essa li lasciò soli per qualche momento. Già dopo la prima lettera, Silvio passava tutte le notti al tocco sotto le sue finestre per salutarla rapidamente, e raccogliere un fiore o un biglietto. Nessuno aveva ancora scoperto nulla: egli le dava le lettere in casa di quell'amica, e dopo affettava di non parlarle più. S'incontravano di rado. Il suo più vivo desiderio sarebbe stato di poterla seguire per strada, pur essendo così povero ed inelegante; ma sicuro che Ada lo avrebbe salutato collo stesso luminoso sorriso, senza le solite ignobili superbie delle signore per i miserabili, non lo aveva mai osato per quella nativa alterezza del carattere, reso adesso più aspro dalle contraddizioni dell'amore. Solo qualche rara volta, di notte, le spiava all'uscire di casa, e se le due sorelle andavano a teatro, prendeva un biglietto pel loggione, perdendosi di lassù due o tre ore nella loro contemplazione.

Ada, che lo aveva già veduto, si voltava spesso per contraccambiargli uno sguardo.

Quando Silvio partì per l'America con poche migliaia di lire, l'ultimo sacrificio che lo zio aveva potuto fare per lui, vendendo una casetta rimastagli, Ada confessò alla famiglia il proprio amore; Ginevra, fidanzata al conte Ramponi, addetto d'ambasciata, la sostenne, ma i genitori furono inflessibili. Essi credettero ad un capriccio, che il tempo e la distanza avrebbero vinto. Invece non ne fu nulla. La ragazza, più delicata della sorella, nella quale una ammirabile assennatezza temperava la foga del temperamento generoso, si fissò con eroica costanza nella contemplazione dello sposo lontano, avventuriero dell'amore in quella terra dei racconti prodigiosi e delle più complicate avventure. Ella amava come si sentiva amata, al disopra di tutte le piccinerie della vita comune e dei poco stimabili privilegi di classe. La sua mestizia crebbe di giorno in giorno; lo spettacolo delle compagne, felici nella volgarità di una esistenza fatta di vestiti e di pettegolezzi, le inspirò quell'altera compassione, che diventa quasi sempre un tranello per le nature superiori, giacchè a forza di pensare più nobilmente finiscono col divinizzare le proprie passioni ricamandone le malinconie coi fiori più esotici della fantasia. Il suo carattere si guastò, si fece chiusa, triste, dispregiò in segreto la prudenza dei genitori, che la contrariavano, prese in uggia tutti i calcoli e gli interessi ordinari, pei quali solamente qualche volta sono possibili le improvvisazioni inebbrianti dell'ideale. Ella non pensava che a lui, alle sue battaglie oltre l'oceano, per conquistare colla ricchezza il diritto di amare la donna riserbatagli da Dio.

La sorella Ginevra sposò il conte Ramponi, e partì per Parigi: fu uno schianto! Dall'America giungevano lettere desolate e febbrili; nulla riusciva all'innamorato, malgrado tutta la sua scienza, fra quel popolo tumultuante nel periodo ancora brutale della prima assisa economica. La lotta era pel danaro, col danaro e nel danaro: nessuna delicatezza di anima, nessuna riserva morale, nessuna incertezza di mezzi era consentita. Bisognava vincere, senza altra fede che nella vittoria, e senza altra pietà che per sè stessi; invece egli aveva troppo presunto sulla intrepidezza della propria volontà. Alle prime avvisaglie, sul punto di commettere una ribalderia, che gli avrebbe assicurato un buon principio, tentennò; dopo, fu troppo tardi. Fu giudicato, si giudicò, era vinto. Attraverso le sue lettere s'indovinavano gli strazi della miseria: Ada ne ammalò quasi. Una idea pazzamente magnanima le aveva solcato il cervello infiammandolo, riunire la maggior somma che avesse potuto, e sarebbe stata ben piccola, per fuggire in America a trovarlo; ma, sul punto di eseguirla, le difficoltà la spaventarono. Invece scrisse a Ginevra, che ritornò subito a Bologna. Intanto la mamma, già cagionevole di salute, si metteva a letto per non più alzarsi. Quel nuovo dolore la distrasse col crescendo delle sue tragiche realtà; Ginevra aveva dovuto ripartire per Parigi. Il padre era anch'egli malandato. Ada fu ammirabile di abnegazione. Si sarebbe detto che amasse la sofferenza, ritrovando la calma solo nelle sue crisi più violente. Adesso dirigeva la casa, sorvegliava i domestici, amministrava coi fattori, sollevava il padre, al quale la vecchiezza e lo spavento della morte ammollivano giorno per giorno la fibra, faceva da infermiera alla mamma con una tenerezza intelligente ed inesauribile. Ma tutto fu inutile: la mamma morì di una infiammazione intestinale dopo tre mesi di atroce martirio.

Ginevra non era potuta arrivare a tempo per ricevere l'ultimo bacio.

Allora essa riportò seco Ada e il babbo a Parigi. Il conte Ramponi, bell'uomo e gran signore perfetto, li accolse colla più premurosa cordialità, cercando d'iniziarli nei segreti di quella gran vita parigina, della quale sognano da quasi due secoli tutti i libri e la gente di provincia; ma sotto quelle sue maniere aristocratiche Ada sentì subito la nullità dello spirito e l'aridezza del cuore. D'altronde il lutto recente e profondo non le permetteva di accogliere molte distrazioni: come mai Ginevra aveva potuto sposare un tal uomo!

Glielo chiese; l'altra ebbe un sorriso indulgente.

—Tu non lo ameresti?

—Lo ami forse?

—D'amore si può morire, mia cara, non vivere.

Ada indovinò nella sorella, sotto quella calma così serena e luminosa, una tempesta pari alla propria.

Da Parigi scrisse a Silvio narrandogli tutto; egli rispose con una lettera piena di nuove speranze: era entrato in una società per la ricerca di vene petrolifere, una sola delle quali sarebbe bastata a farlo diventare improvvisamente, immensamente ricco. La lettera, di venticinque facciate, su carta velina, a carattere così tremulo e minuto che si stentava quasi a leggerla, fu riposta nel solito cofanetto di seta, ricamato da lei colla propria cifra aggrovigliata inintelligibilmente al nome di Silvio. Ma il babbo si stancò presto di Parigi: in mezzo a quella fantasmagoria assordante egli rimpiangeva il passeggio tranquillo, sotto i vecchi portici di Bologna, e le cure agricole della sua villa verso Corticella, fra i grassi poderi, che gli avevano assicurato il vanto di uno fra i più solerti possidenti della città. Di ritorno avrebbe voluto maritare Ada ad un avvocato ricco e quasi illustre, già da tempo amico di casa, sebbene fosse un clericale fanatico; ma la fanciulla rifiutò recisamente. Allora scoppiò l'ultima scena: il padre fu violento, poi patetico; l'accusò di volerlo far morire disperato con tale malsano capriccio giovanile, giacchè quell'infelice spiantato non tornerebbe mai più dall'America, o tornerebbe più straccione di prima.

Infatti indovinò. Un bel giorno Silvio Tronconi capitò a Bologna disilluso, emaciato dalle febbri e coll'ultima febbre della disperazione nel cuore. Era ritornato per rendere a Ada la sua parola e finire, non sapeva ancora come, ma finire subito dopo in qualche modo. Egli le raccontò tutto, il viaggio, le speranze, le lotte, le cadute, come si era rialzato sempre, pensando a lei, facendosi della sua immagine una stella ed un'arma, volendo vincere ad ogni costo, e come era stato vinto. Pareva invecchiato, ma il suo volto femminile era diventato più bello: quella lunga guerra lo aveva nuovamente scolpito, facendone una testa di poeta e di martire. La sua parola trovava sonorità strane, paragoni bizzarri e grandiosi come la natura, contro la quale si era battuto; mentre la miseria degli abiti ed una più franca alterezza nelle maniere finivano di renderlo anche più pericolosamente simpatico. Aveva già rinunziato a lei, ma glielo disse senza alcuna teatralità: come avrebbe potuto sposarla dopo un simile insuccesso? Prima, sarebbe stato umiliante per lui; adesso, ridicolo per ambedue.

Naturalmente s'impegnò una lotta di generosità, nella quale vinse la donna. Anche ella non era più una fanciulla, quindi per trionfare della sua riluttanza gli si abbandonò fra le braccia con tale passione, che senza la nobile fermezza del suo cuore di uomo provato a tutte le sventure, e l'ingenua onestà del loro amore, si sarebbero reciprocamente perduti al momento stesso di ritrovarsi, dopo tanta assenza. Silvio dovette, per ubbidirle, tornare nel proprio villaggio, ove il vecchio zio era già morto, a vivervi come meglio potesse qualche tempo, mentre ella forzerebbe il babbo a consentire il loro matrimonio. La battaglia fu lunga. Ginevra chiamata da Vienna, ove suo marito era stato traslocato, la sostenne colla propria autorità, adesso che il conte Ramponi era diventato segretario dell'ambasciata, e il vecchio padre cominciava ad avere quasi soggezione di lei in frequente contatto con sovrani.

—Vedi tua sorella!—egli esclamava:—sono io che ho fatto questo matrimonio.

—Lasciatemi dunque fare quest'altro. Io diverrò ambasciatrice,—soggiunse la contessa Ginevra,—ne basta una in casa nostra: Ada sarà felice diversamente.

—E io, contessa, e io?

—Voi lo sarete più di noi, perchè sarete buono.

Ma non lo decise che una lettera del conte Ramponi, indettato da Ginevra, il quale scriveva facendo molti elogi dell'ingegnere, malgrado il suo fiasco d'America, e promettendo di assistere al matrimonio.

—Anche l'ambasciatore lo vuole,—mormorò il vecchio finalmente:—purchè non faccia così cogli altri interessi d'Italia!

Ma il matrimonio accadde con troppa solennità. Silvio accorgendosi dell'astiosa malevolenza di tutti, ne rimase impacciato; il padre aveva ancora qualche bruscheria sprezzante, Ada tremava, tutte le vecchie mamme si mostravano specialmente crudeli contro quell'ingegnere, al quale si sarebbero fatto un dovere di ricusare le loro figlie, anche brutte e senza dote.

Invece del solito viaggio, Ada volle ritirarsi in campagna col babbo, per non lasciarlo solo. Questi, già disposto a difendere le proprie terre contro l'ingegnere, perchè tutti i giovani usciti di fresco dall'Università s'immaginavano, secondo lui, di capire la campagna, e a lasciarli fare invece la guastavano a furia di invenzioni scientifiche, fu tutto sorpreso dell'amorevole ed intelligente riserbo del genero. Quindi, per la prima volta, non tornarono in città per San Petronio. Il vecchio, naturalmente più avaro di anno in anno, finì quasi di vergognarsi che non gli si chiedesse mai danaro. Silvio scoperse le frodi di alcuni fattori e, mutando insensibilmente qualche maniera di coltura, riassunse l'amministrazione in modo da raddoppiarne quasi le rendite alla fine dell'anno. Per fortuna, anche l'annata era stata eccezionalmente prospera.

Quell'idillio in tre sarebbe stato il paradiso, ma Ada non diventava incinta, e il babbo se ne rammaricava, sebbene vedendola così rifiorita nei primi mesi del matrimonio, ne fosse stato tutto contento. Nemmeno Ginevra aveva figli.

—Ma che cosa è dunque?—proruppe una volta, in fin di pranzo, con quella grossolanità consentita ai vecchi, e talora così simpatica:—non si è più buoni a nulla? Non ho da morire nonno, io?

E il suo sguardo avviluppò la magra persona di Silvio, che sembrava deperire tutti i giorni. Eppure era felice! Questi sentì il rimprovero e se ne accorò, Ada ne pianse quasi. Infatti il loro amore senza la benedizione di un figlio cominciava a turbarli: strane paure, indefinibili rimorsi di non meritarla per quella colpa di aver forzato la volontà del padre, si destavano nella loro coscienza. Persino nella rinascente frenesia di quei trasporti d'innamorati, quando tutto il mondo spariva ai loro sguardi, qualche brivido gelato li faceva talvolta sussultare, quasi sentissero improvvisamente che la vita non poteva essere così perduta nella egoistica solitudine di un duetto d'amore.

Ma era destinato che il babbo non dovesse morir nonno.

Infatti nella primavera soccombette ad un colpo fulminante di apoplessia. Ada e Silvio, quantunque abituati a quella vita, furono sorpresi di non provare maggior dolore; ma siccome la dote di Ada saliva ora coi risparmi del vecchio a quasi seicentomila lire, ricchezza abbastanza considerevole in provincia per concedersi in due il lusso di qualche capriccio, partirono per Parigi. Quindi da Parigi passarono a Londra, discesero il Reno, visitarono il mezzodì della Russia sino a Costantinopoli, e di là ritornarono a Vienna, già stanchi, senza più quell'accordo perfetto, che aveva fatto del loro primo anno in campagna un poema squisito ed inedito. Silvio era triste. La superiorità economica della moglie lo umiliava, sebbene ella delicatamente mostrasse di non sentirla. A Vienna, sospettoso come tutti i poveri, aveva creduto di sorprendere nelle maniere di Ginevra quell'aria di protezione, che alle anime altiere è più dolorosa di un aperto dispregio; mentre il conte Ramponi, sempre segretario di ambasciata, trattandolo colla urbanità fredda imposta dalla educazione verso un parente, sembrava evitare studiatamente d'introdurlo negli alti circoli dell'aristocrazia. Ada aveva sorpreso più di una volta il marito sopra una poltrona colla bocca stirata dolorosamente agli angoli e la fronte torbida. Ne' suoi occhi azzurri, smisuratamente aperti, si allargava la tristezza di quegli immensi laghi americani, senza alberi e senza montagne all'orizzonte, nei quali il cielo solo rispecchia la propria vacuità. Allora ella lo abbracciava piangendo, ma quell'inesauribile amore di donna non bastava più a difenderlo nel suo rancore di vinto dall'umiliazione di riconoscersi mantenuto dalla moglie. Questa piaga segreta, sanguinante ad ogni più innocente allusione verso la fortuna del suo matrimonio, lo rendeva inquieto con tutti attirandogli, fra molte accuse di stravaganze, veri dispregi. Ma per accingersi a qualche opera importante, nella quale affermare il proprio valore, avrebbe dovuto pur sempre farsene prestare i capitali da Ada, e allora il ricordo di tutti gli insuccessi d'America tornava ad avvelenargli lo spirito con più atroci diffidenze. Esporsi a perdere la dote di Ada dopo essere sembrato così vile in faccia al mondo da sposarla solamente per quella! Ad accettare in qualche luogo un impiego secondario non avrebbe nemmeno potuto pensarci, giacchè ella se ne sarebbe doluta, mentre tutti i maligni invece avrebbero finto di crederla una sua esigenza: poi si sentiva esaurito. Era questa la più profonda angoscia, che cercava di nascondere al suo occhio amoroso. Nelle più cupe miserie da studente, quando lo sorprendeva il pensiero del suicidio guardando giù al canale da quella tetra cameretta, l'orgoglio dell'ingegno capace di conquistare il proprio posto nel mondo lo aveva sempre sostenuto: talora anzi nel balenìo di una osservazione sopra una qualche teorica, che a lui pareva di poter modificare, si era persino creduto un predestinato, esaltandosi colla facilità dei giovani a scontare nella gloria futura i primi patimenti. A trent'anni invece nulla più restava in lui dello studente così forte dell'ammirazione inspirata al vecchio zio e ai compagni.

I viaggi lo stancarono: egli non osava dirlo, ma Ada gli lesse negli sguardi appannati la noia suprema di chi non vuole più vedere, perchè nulla potrebbe più rinnovargli la primavera nell'anima. Quindi il suo cuore generoso raddoppiò d'amore per quell'amante così infelice di non essere degno di lei.

Una scena straziante galvanizzò ancora la loro passione.

—Ti ho ingannata…. oh, come son vile!—egli aveva esclamato un giorno scoppiando in pianto dirotto.

Invece di tornare a Bologna si chiusero in campagna; egli ammalò, Ada rimase finalmente incinta, ma questa letizia tanto sospirata si convertì in dolore, giacchè egli se ne afflisse dicendo che quella creaturina del loro amore desolato sarebbe anche più infelice delle altre. E il suo accento era così tetro, la sua convinzione così profonda, che Ada se ne sentiva rabbrividire. Anche la sua salute si alterò, la gravidanza si annunciava delle più laboriose. Egli in preda ad un pessimismo sempre più cupo non parlava quasi più guardando fiso il ventre grosso della moglie, come talora si guardano certi ammalati mostruosamente dolorosi, condannati a morire. Naturalmente la maldicenza li perseguitò anche in quel ritiro con falsi compianti per Ada, così bella e così buona da essersi legata ad un uomo di un carattere tanto bisbetico: egli lo capì, e peggio ancora ne convenne.

Una sera, essendosi lasciato sorprendere dalla rugiada sul prato, n'ebbe la febbre; non volle badarci, ma la febbre tornò, poi sopraggiunse una tosse secca, perdette l'appetito, e si dichiarò una tisi galoppante. In due mesi non era più che uno scheletro, ai primi di novembre era già morto. Ma durante quella violenta malattia non uscì quasi dal suo sinistro mutismo, accettando i medici solamente troppo tardi, e dicendo loro pel primo con uno strano sorriso di essere spacciato.

L'ultima notte, poco prima di morire, le baciò con angoscia inesprimibile le mani.

—Perdonami!—mormorò due volte.

Ada ne morì quasi anche lei, molto più che Ginevra non potè accorrere da Vienna, perchè il conte pure era caduto gravemente infermo. Allora per la prima volta conobbe il dottore Ambrosi, già illustre, e che prese per lei una di quelle sue affezioni burbere e tenaci, salvandola dalla morte nella gravidanza. Ma la piccola Bice nacque così grama che il dottore andò quasi in bestia.

—Vedete,—esclamò colla levatrice, mentre questa l'asciugava con un pannolino bianco,—se un corpicciattolo simile merita lo sconquasso di una bella donna come lei!

Ada invece, nella nuova tenerezza per quella creaturina, sentì un raddoppiamento di amore pel marito morto. Egli la dominava ancora colla cupa tetraggine di quell'agonia di tre mesi, e i ricordi di un amore troppo ardente, perchè una vita così gracile non avesse dovuto bruciarvi. Quindi le pareva di comprendere solamente allora la sublimità disperata della sua passione, nella quale l'ultimo rimorso era stata la più lirica prova.

Il dottore Ambrosi seguitò ad ordinare la campagna all'ammalata, scovando egli stesso per la piccola Bice una magnifica balia dalle spalle poderose e la pelle bronzina, onde correggerle possibilmente colla ricchezza del latte il sangue troppo povero.

—Vivrà, dottore?—domandava Ada coi grandi occhi neri, pieni di un'ombra profonda.

—Certamente, ma non bisogna innamorarsi delle malattie, come fate spesso voialtre signore; bistecche per voi, latte per lei e sole sopratutto. Al resto penso io.

Però non pensava quello che diceva, anzi credeva poco alla vitalità della bambina, temendo per la mamma uno di quei languori, ai quali la scienza dà molti nomi per non conoscerne il vero, e pei quali non ha rimedi. Ada sentiva mancarsi la vita, tutto era morto in lei. La vista della piccina non le richiamava più alla memoria che le desolate profezie del marito, suggerendole quasi il voto che si compiessero; così avrebbero potuto raggiungerlo insieme, lo stesso giorno, nella larga e splendida tomba, che gli faceva erigere alla Certosa.

Poi un terrore indefinibile le gelava l'anima. Benchè non bigotta, ella credeva troppo intensamente nei dogmi cristiani per non chiedersi se Dio avrebbe perdonato a quell'infelice di essere morto imprecando, e di averla amata più del suo paradiso. Ada cercava di non pensarci, ma in quella debolezza crescente di tutte le forze gli spaventi religiosi la sopraffacevano. Quindi il dottore pensò di mandarle il curato, avendo prima quasi altercato con lui sulle pessime conseguenze di tali credulità; ma anche questi, nato di contadini e simile alla maggior parte dei preti, che assumono una parrocchia come un'affittanza, non seppe cosa dire dinanzi a quell'anima già in preda alle visioni di oltre tomba.

Finalmente Ada dovette porsi a letto: questa volta Ginevra potè accorrere da Vienna.

La prima parola di Ada fu:

—Avevi ragione! D'amore non si può che morire.

—Pensa alla tua creatura,—rispose la sorella quasi severamente.

Però gli ultimi giorni, quando nel corpo oramai disfatto sparvero anche le ultime traccie di quell'uomo, in lei rifiorì improvvisamente la madre.

Benchè gracile e macilente, Ada era tornata quasi bella come una volta. Una luce pareva trasparirle dalle carni facendole intorno agli occhi un'aureola: ma volle sempre la bambina presso il letto come per inebriarsi dolcemente nel contemplarla sospesa al seno potente della nutrice, che sorrideva nella sicurezza di poterle trasmettere parte della propria salute; mentre la contessa Ginevra col viso sereno nello strazio di quegli estremi amorevoli capricci vi sentiva già salire lentamente il freddo della morte.

Ada fu seppellita secondo la sua ultima volontà coll'abito bianco delle nozze, e la bambina rimase in casa della nutrice.

La morte di Ada fu per la contessa Ginevra l'ultimo colpo di scure, che le tagliava alle spalle tutto il passato. Benchè meglio equilibrata della sorella, e gittata nel mezzo di una più larga corrente mondana, la sua vita non era stata fino allora meno passionata ed infelice. Sposando il conte Ramponi, ella aveva in parte ceduto alla propria inesperienza degli uomini e alla volontà dei genitori, che vedevano in quel matrimonio un lustro per la famiglia. Ma presto s'accorse di essersi ingannata; sotto la sua maschera di bell'uomo, e quelle maniere perfette di diplomatico, il conte nascondeva una delle mediocrità più incapaci di dubitare di sè stesse. Era avido, presuntuoso, tutto dedito alle appariscenze della carica, con quella saccenteria dei signori, ai quali pare spesso un gran merito il non poltrire assolutamente nell'ozio dei propri pari. Sulle prime le loro relazioni si turbarono, ma Ginevra potè presto dominarlo senza lasciarglielo scorgere: poi la sua bellezza, il tatto finissimo di signora, e la malìa di uno spirito abbastanza originale per essere ovunque riconosciuto, le ottennero in quegli alti circoli la maggiore considerazione. Si capì che era onesta senza nè stimare nè amare il marito, e questo bastò perchè tutti la corteggiassero. Ella lasciava fare frenando i più audaci con un motto, ed accettando quella specie di apoteosi con una serenità, dentro la quale un fine osservatore avrebbe sentito lo sconforto di una malinconia solitaria. Non aveva figli. Per molti anni ne fu inconsolabile come tutte le donne, ribellandosi internamente contro questa sterilità, che le rendeva inutile la bellezza e quasi incerto il sesso; quindi si credette ammalata e consultò i più illustri clinici, sottoponendosi a molte cure senza valore e senza risultato, finchè dietro le impure suggestioni di un medico dubitò del marito. Ma una relazione di lui con una cantante, che ne rimase incinta, venne a toglierle anche tale triste scusa. Ella finse d'ignorare tutto da principio, poi al dilagare dello scandalo dai saloni nei giornali, s'innalzò di un altro gradino sopra di lui, ottenendo così intera la propria libertà.

Cessarono di essere coniugi e rimasero amici. Già la sua anima, orgogliosamente delicata, era giunta nelle meditazioni di così lunga solitudine spirituale a quelle critiche dissolventi, cui solo una grande passione può essere rimedio. Il matrimonio senza amore e senza figli le si era rivelato come la più umiliante delle degradazioni: perchè aveva ella sposato quel conte Ramponi? Come poteva accettare il suo amore senza che il cuore le battesse più precipitoso, o le ombre della passione gliene velassero al pensiero la rivoltante animalità? Per una anima nobile il piacere senza l'amore non è più nemmeno il piacere; quindi ella aveva pianto sopra sè medesima aspettando dalla maternità la propria redenzione; ma quando non potè più credere nemmeno in sè stessa, e un silenzio di deserto le occupò tutto il cuore, si guardò intorno smarrita come a riconoscere il mondo. Fu un'altra rivelazione: le più grandi parole, i maggiori interessi, le forme più alte non erano che piccinerie: dovunque il denaro e la vanità, l'amore ridotto ad un piacere, la gloria ad una decorazione di piazza o di corte, mentre la voce della religione s'allontanava nell'azzurro dai canti teatrali delle chiese, e quella della scienza si perdeva in basso fra le lordure fermentanti della vita. Un amaro scetticismo diede quindi al suo ingegno quella mordacità che invece di offendere è piuttosto l'espressione di un animo offeso; molti suoi motti rimasero celebri, e la sua eleganza senza civetteria fece disperare le più grandi dame, incapaci di comprendere il mistero di una bellezza così calma con uno spirito così tagliente, e di una virtù infrangibile senza alcuna passione pel marito o pei figli.

Ella, che già amava l'arte piuttosto nella logica del suo sviluppo che nel disordine apparente della sua produzione passionata, si diede in quell'ozio allo studio della storia acquistandovi un'ammirabile coltura. Ma anche questa volta l'istinto femminile potè salvarla dall'insopportabile ridicolaggine di cangiarsi in autore per trovare una rivincita alla propria vita in un trionfo, piuttosto contro l'uomo che sull'uomo, coll'affettazione di una potenza intellettuale, che la donna non ebbe dalla natura.

Questa lenta e dolorosa trasformazione si compieva, mentre il lungo idillio di Ada coll'ingegnere fluiva, tragicamente; Ginevra non aveva potuto amare, l'altra aveva ucciso amando per morirne poco dopo ella stessa. Solo la piccola Bice restava, labile ed inconsapevole testimonio del disordine amoroso di due cuori, che avevano voluto riassumere tutta la vita nella loro passione.

La contessa Ginevra aveva già trentatrè anni. La sua bellezza rimasta quasi vergine pareva muoversi dentro un'ombra malinconica, che ne appannava il candore; i suoi occhi neri, meno fiammanti di quelli di Ada, avevano lo splendore iridato, che tremola talvolta sulle forre delle alte montagne. Parlava cinque o sei lingue, era dotta come un professore, senza quella inevitabile durezza di chi deve apprendere per insegnare o per produrre, giacchè il suo lungo volo tranquillo attraverso le regioni del pensiero gliene aveva impresso nella memoria i molteplici paesaggi, permettendole di raccontarli come un viaggiatore intelligente, che ha saputo vedere per sè stesso. Ma se quella solitudine spirituale e le meditazioni sui più ardui problemi della vita avevano scosso la sua religione, l'ingenita bontà della sua anima resistendo all'inevitabile pessimismo dell'esperienza aveva saputo conservare verso tutti una grazia indulgente. Nullameno aveva giornate ben tetre. In mezzo agli splendori più aristocratici del lusso e circondata da una ammirazione quasi unanime, poichè la sua virtù oramai indiscussa aveva placato tutte le gelosie, ella non sapeva spesso di che vivere. Nulla l'interessava; aiutava il conte nelle più delicate e difficili urgenze, ma senza risentirne che il leggero compiacimento di un servizio reso ad un amico, mentre tutte quelle vanità diplomatiche irritavano meglio che non rompessero la noia del suo primato nei saloni. Qualche volta abbassando lo sguardo all'altezza della propria posizione invidiava le povere donne, anche le più miserabili moralmente, che vivendo nella lotta potevano esaltarsi delle proprie passioni. La sua bellezza di statua le pesava sul cuore. Quella contemplazione della vita infatti non doveva bastarle come a quei grandi filosofi, che discendendo negli ultimi abissi del pensiero vi affrontano contraddizioni più tremende di ogni dramma. Fra le tempeste del pensiero di Hegel e la bufera delle guerre di Napoleone chi oserebbe decidere? Ma ella non era così: la sua contemplazione somigliava a quella di un guardiano sulla cima di un faro, che si stanca dell'orizzonte e finisce coll'invidiare i vascelli allontanantisi fra gli uragani.

Ma la passione passò finalmente sopra lei. Il nuovo ambasciatore mandato a Vienna, mentre suo marito sempre primo segretario aspettava anche questa volta di essere promosso, era un uomo quasi giovane. Qualche filo bianco gli appariva appena fra i capelli biondi, era alto e sottile, piuttosto nobile che bello nell'aspetto, con una voce anche più insinuante delle maniere. Una tempesta parlamentare l'aveva momentaneamente costretto ad accettare quel posto, nel quale solamente una sorella l'accompagnava, perchè da molti anni la moglie aveva voluto abbandonarlo tornando in Inghilterra. A Vienna il suo arrivo fu un avvenimento: egli era stato uno dei maggiori collaboratori di Cavour nell'unificazione monarchica, meno largo del maestro, ma con quella poesia romantica nel cuore, che resterà nella storia la più amabile contraddizione di una generazione fatalmente equivoca e mercantile per conquistare a Casa Savoia l'Italia contro i più moderni ideali repubblicani.

Fin dalla prima presentazione, fra lui e la contessa Ginevra, fu uno scambio di impressioni profonde: egli era solo come lei, al culmine degli onori, ma senza la gloria vera che abbisogna ai grandi spiriti, e quell'amore che può farla dimenticare. Benchè si parlassero quasi guardingamente, a lei parve di leggergli nei grandi occhi azzurri una nostalgia; egli le sentì in un impeto improvviso della voce una di quelle invocazioni supreme, che le nature potenti non ancora abbastanza adoperate gettano nel tramonto della giovinezza; grido di allarme e di rimpianto, perchè tutto sta per mutare, mentre il cuore è ancora vuoto e il pensiero rivolgendosi al passato sbigottisce di vedervi già cancellate le proprie orme.

Ma siccome non si fecero la corte, il conte non comprese nulla. Malgrado l'apparente mondanità della loro esistenza si erano riconosciuti alle stesse abitudini spirituali, all'alterezza del carattere e al bisogno insoddisfatto di grandi cose; egli disperava della gloria in quel periodo assegnatogli all'opera, già dominato dal nome di Cavour; ella non aveva più la fede della donna in sè stessa, giacché la sua vita non avrebbe potuto ripetersi in altri, e dentro quella bellezza ancora fulgente nel meriggio, dalla quale parevano talora guizzare i lampi di tutte le promesse, aveva indarno accumulato un inesauribile tesoro di tenerezze.

Quindi ella si nascose quasi nell'ombra della propria superiorità colla facile condiscendenza dei grandi spiriti, che possono abbassarsi senza diminuirsi; egli invece le scoperse improvvisamente tutto sè stesso sollevandosi il cuore dal lungo peso di un segreto.

Ma nessuno scontro, e nessun patto fra loro.

Poi una sera, mentre erano soli, cedendo all'impeto irresistibile della passione egli la strinse repentinamente fra le braccia; l'altra rimase convulsa, colla bella faccia ombrata di dolore, e gli occhi stellanti.

—Ginevra, tu sei libera!

—Egli ha la mia parola.

Si sciolsero lentamente. Egli andò a sedersi sopra una poltrona, in silenzio, ella ratteneva con un delirante sforzo di volontà le lagrime, che le gonfiavano gli occhi; quindi egli si alzò e venne ad inginocchiarlesi davanti, prendendole una delle belle mani. Se la pose sulla fronte:

—Vostro per tutta la vita.

Ginevra lo baciò sui capelli.

Ma, come doveva accadere, la passione li travolse poco dopo, e tutti lo seppero. Era impossibile a due anime, così alteramente ingenue, il destreggiarsi nelle piccole quotidiane menzogne col pubblico: fortunatamente il conte, colla solita cecità dei mariti, non se ne accorse.

Il loro amore ebbe la solenne poesia dei vesperi estivi, quando la terra brucia ancora degli ardori del meriggio, e nel cielo di un azzurro profondo gli ultimi raggi del sole si colorano di porpora. La contessa Ginevra diventò più bella. Il suo volto, luminoso di serenità, assunse allora quell'espressione di dolce imperio, che anche adesso le rimaneva, mentre tutte le potenze della donna liberandosi finalmente dal suo spirito come germogli a primavera le sbocciarono in una potente ed insieme delicata fioritura. Egli l'adorava rinfacciandole dolcemente di non averlo saputo attendere, perchè allora la sua forza d'uomo ne sarebbe stata raddoppiata. Questo rimpianto del passato, reso più acuto dalle contraddizioni dell'adulterio, alle quali tratto tratto si urtavano dolorosamente, rendeva più trepida la loro tenerezza nella calma drammatica della loro compiuta fusione: egli risospinto ai propositi di gloria dalla fede di avere trovato finalmente in lei quel compagno d'arme, indissolubilmente affezionato, che gli eroi ebbero sempre in tutti i poemi, pareva ringiovanito.

Quindi si dimise da ambasciatore per riconquistare in Parlamento il posto di ministro; il conte Ramponi, da lui persuaso, lo seguì barattando la carica di primo segretario d'ambasciata in quella di senatore. Allora la Corte era a Firenze.

La contessa Ginevra vi si stabilì occupando tutto il primo piano di uno dei più illustri palazzi, e regnandovi con più vivo splendore. Il suo salone diventò il ritrovo degli spiriti più eletti e di ogni celebrità riconosciuta: la colonia estera vi si affollò, professori, artisti, letterati vi aggiunsero colla ricchezza dello spirito quella intonazione di superiorità, che sembra rendere tutto il resto della vita come uno spettacolo per pochi privilegiati. Allora la contessa Ginevra richiamò Bice, sempre così gracile malgrado i suoi tre anni compiti, e se ne innamorò perdutamente come d'una figlia. Quella fu la grande stagione della sua vita: bella ancora, adorata da un uomo che a lei pareva grande, e forse lo era, quasi madre nell'adozione di quella piccola creatura, ammirata da tutti come una regina dello spirito nella città, che ancora ne conservava più viva la tradizione, potè inebbriarsi lungamente di sè stessa. De Nittis, professore di filosofia all'Istituto superiore, divenne uno de' suoi amici più devoti, quantunque il suo spirito profondo e modesto si turbasse quasi agli eccessivi splendori di quella casa; ma Ginevra troppo felice per compiacersi nella preziosità delle grandi mondane, sapeva anche in mezzo a quel tumulto di gloria aristocratica conservare la magnifica semplicità della propria natura.

Quindi De Nittis divise con lei l'intimità di Bice: la piccina, sempre vestita e merlettata come un confetto, non voleva stare che con loro due, ma intelligente quanto ostinata nelle proprie voglie si disdiceva solamente, quando egli fingeva di adontarsene.

Per quattro o cinque anni nessuna nube passò pel cielo della contessa Ginevra; quell'illustre, del quale allora tutti i giornali raccontavano le battaglie quotidiane alla Camera, le serbò la fedeltà dei grandi spiriti; ella lo sostenne colla propria fede recandogli l'aiuto di tutta quella influenza femminile, ed attirando persino De Nittis nell'orbita della loro passione. Durante la crisi di Mentana, in quel rimescolamento tragico della coscienza nazionale, mentre la Prussia già vincitrice dell'Austria si levava lentamente minacciosa verso la Francia, e Vittorio Emanuele per supina dedizione di vassallo si ostinava ancora a pregare d'alleanza Napoleone III, De Nittis presago dell'imminente sfacelo napoleonico e dell'avvento germanico dettò un opuscolo, che servì all'altro per il suo più memorabile discorso contro il ministero Rattazzi. Fu l'ultimo bel giorno di battaglia: la contessa Ginevra stava nelle tribune un po' pallida; l'aria era satura di elettricità, nella Camera guizzavano urli e baleni. Egli si mostrò superbo di destrezza e di temerità; la Camera, indovinando in lui un probabile successore alla presidenza del ministero, tentò al solito di smontarlo, mentre Rattazzi, duttile e veemente, parve concentrare in tale supremo duello tutta la perfidia della propria abilità e l'audacia del grandioso disegno, nel quale aveva rinvolto la monarchia di Savoia, l'impero francese e la rivoluzione garibaldina. Vi furono istanti quasi angosciosi quanto in un naufragio ed effervescenti come in una festa. De Nittis, entrato quasi non visto nella tribuna diplomatica, era rimasto in piedi dietro la contessa Ginevra: ella non ebbe nemmeno la forza di salutarlo.

Rattazzi dovette soccombere.

La contessa, che per la prima volta dimentica degli sguardi della gente, era scattata in piedi col volto raggiante, incontrò l'occhio profondo e quasi mesto di De Nittis; egli le offerse prontamente il braccio per uscire.

Appena fuori della tribuna le disse:

—Ha vinto per altri.

E fu vero.

Da quel giorno la salute di lui si alterò.

La contessa Ginevra raddoppiò d'amore sopportando ammirabilmente le sciocche punture del conte, che incapace di sospettare la loro passione, e passato naturalmente al partito di Corte, si divertiva a canzonarli di quel fiasco. La sua scempiaggine cresciuta cogli anni e nella nuova vanità senatoriale, che gli faceva credere di dover capire la politica, arrivava talvolta sino all'impertinenza; l'altro invece atterrato nell'egoismo della propria ambizione non sentiva quasi più le delicatezze consolatrici della donna.

Quindi lentamente tutto finì. Vi furono assenze e brevi rotture, nelle quali ella si mostrò inalterabile di abnegazione, benchè costretta ogni giorno più a ripiegarsi sopra Bice: poi la gente si diradava nel suo salone, mentre ella ingrassava rimanendo ancora bella, parendo ancora la regina di un regno già tramontato da un pezzo. Il pubblico abituato da troppo tempo ad ammirarla si era rivolto altrove; finalmente ella lo sentì, ed abbassò il capo sotto la condanna.

Quando cinque anni dopo egli morì a Roma, nella nuova capitale d'Italia, senza essere più ridiventato ministro, ella già vedova del conte accorse da Bologna per ricevere l'ultima parola della sua anima.

Egli non la riconobbe.

IV.

A dieci anni Bice fu in grave pericolo di vita.

Una tosse secca ed ostinata minacciava giorno per giorno di spezzarla. Sebbene non si fosse molto sviluppata, il viso pensoso, con quel naso aquilino troppo grande, le dava già un'aria di brutta donnina. Aveva le gengive scialbe di tutte le anemiche, e il petto incurvato sotto le spalle; solo la fronte, alta sui magnifici occhi neri di una intensa espressione spirituale, poteva renderla simpatica, malgrado la naturale eccessiva serietà del suo carattere.

Suo cugino Lamberto Tibaldi, che la contessa Ginevra teneva presso di sè lungamente perchè Bice potesse meglio distrarsi, non l'amava meno degli altri. Chiassoso, aitante, coi capelli lievemente crespi e gli occhi dolci, quantunque di una monelleria irrefrenabile, era il compagno de' suoi giochi e lo schiavo delle sue volontà. Bice lo proteggeva contro i maestri, egli la vegliava già nell'orgoglio delle proprie forze maschili contro tutti i pericoli fantastici con un coraggio appassionato. Quando Bice dovette porsi a letto, Lamberto espulso dalla sua camera ne provò un'angoscia, che per qualche tempo gli modificò il carattere; divenne quieto, obbediente, finchè seppe farsi ammettere in quel vasto salone, ove la zia Ginevra aveva per consiglio di Ambrosi posto il lettino della fanciulla.

Bice cogli occhi chiusi, senza tossire, pareva già morta. La malattia durò quattro mesi, monotona, resistendo a tutti i tentativi della scienza sino all'estate; poi il sole la vinse. Per tutta la famiglia era stato quasi un uguale sbigottimento. In quella casa, molto ricca e di abitudini patriarcali, i servitori si sentivano fusi coi padroni, quantunque la distanza segnata fra loro dall'educazione non ne venisse diminuita; laonde la morte della piccola Bice, disperdendo nome e patrimonio, avrebbe d'un colpo mutate tutte le loro esistenze. A fianco della contessa Ginevra, muta ma più vigile di lei medesima, la vecchia Rosa pareva un genio antico del lare. Era stata la nutrice di Ada, e alla morte di lei avendo vegliato sulla balia di Bice, non aveva poi voluto a nessun costo staccarsi dalla piccina. La sua tenacità di villana le attirava al tempo stesso il rispetto e il ridicolo di tutti. Prima ancora che Ambrosi, spaventato dall'estrema debolezza della fanciulla avesse detto che bisognava riportarla in campagna, ella si lagnava già tutto il giorno dell'aria di città, nella quale anche i contadini avrebbero dovuto finire col diventare pallidi.

E una mattina, mentre la contessa era assente, aveva aperto la porta-finestra del salone mettendosi colla bambina, ravvoltolata dentro le coperte del letto, a sedere sul balcone nel sole.

La trovarono lì, con Bice sulle ginocchia, che nella vivezza ridente di quella luce pareva una statuina di cera, affagottata nella seta, appunto perchè non si squagliasse.

Rosa invece di rispondere alle loro interrogazioni seguitò a cullarla, mormorando una vecchia ninnananna.

Ma ci volle tutto quell'estate, perchè Bice potesse tornare come prima, senza che la tosse sparisse mai del tutto.

Poi la contessa Ginevra andò alla più lieta delle proprie ville, verso il Sasso, fra Bologna e Porretta, dove il Savena si congiunge al Reno allargandosi entro un paesaggio incantevole. Il paesello, scavato per metà nel masso, si direbbe abitato da trogloditi, ma non è povero: la ferrovia vi passa sotto lambendo il fiume, il tramvay vi arriva sulla larga strada provinciale recando nella bella stagione molta gente ad ammirarvi la postura ed a pranzarvi. La villa della contessa, poco lungi alle falde di un colle, scendeva coi giardini sino al fiume, ma il vento ed il sole ne agitavano sempre l'aria mantenendola pura.

In quell'anno ritornò il viaggiatore Prinetti dopo un soggiorno di quasi trent'anni nell'Africa centrale, ed avendo conosciuto la contessa in una gita, fu da lei invitato alla villa per divertire Bice coi propri racconti meravigliosi. Allora egli non era così grasso; aveva il viso adusto e solcato da sofferenze di ogni sorta, sebbene respirasse quella calma degli animi forti, che avendo toccato il fondo della vita ne ritornano consolati della sua inevitabile tragedia. A Bazzano la sua piccola famiglia, dalla quale aveva dovuto fuggire d'un colpo, non esisteva quasi più. Era partito con mille franchi, e non era tornato che con poche migliaia di lire, frutto di una magnifica collezione di farfalle venduta a due ricchi inglesi di Porto Said: ma una improvvisa agiatezza lo attendeva nella vecchia casa. Il padre, morto tardi e solo, dopo aver dato metà del proprio patrimonio al figlio minore prediletto, aveva amministrato il resto per quell'altro, assente, con una avarizia resa anche più intensa dal rimorso di averlo costretto alla fuga. Per molti anni non lo si era veduto uscire di casa, ma pur non ricevendo mai sue notizie si ostinò a non volerlo credere perduto, anzi sperò da Dio come un perdono la grazia di vederselo ricomparire innanzi da un giorno all'altro. Questi invece non tornò in paese che quattro anni dopo la morte di lui, trovandovi contro ogni aspettazione una modesta eredità di centomila lire; ma anche l'altro fratello non era più, e la sua vedova aveva sposato in seconde nozze un vetturino beone ed attaccabrighe. Sulle prime non vollero nemmeno riconoscerlo, come un morto che tornasse dal sepolcro per contendere loro un'eredità: ella aveva una fisonomia di bella donna, fredda e malvagia, e i suoi figli non somigliavano affatto a quel fratello morto.

Fu la più grande amarezza della sua nuova esistenza, poi l'amicizia della contessa Ginevra lo consolò. De Nittis e Prinetti, scapoli, sulla cinquantina, già ritirati da ogni agone, composero allora con quella donna intorno a Bice l'ammirabile quadro di una famiglia di adozione, senza rivalità d'interessi, nè divergenze di passioni.

Il dottore Ambrosi, infelice nella propria, perchè prima la moglie gli era scappata con un amante senza che se ne fosse saputo mai più nulla, poi l'unico figlio, al quale aveva pagato troppe volte i debiti, aveva dovuto fuggire in America con altro nome per sottrarsi ad un mandato di arresto per cambiali false, vi si aggiunse al loro ritorno d'inverno in Bologna. Il dottore, considerandosi oramai solo, aveva proibito a tutti di pronunziare persino il nome di quello sciagurato davanti a lui; ma quando la contessa Ginevra, troppo intelligente per non indovinare tutta la malata bontà del suo cuore sotto quella rudezza, aveva osato tenergliene parola:

—Ho perdonato,—le aveva risposto con due grosse lagrime negli occhi:—egli sarà il mio erede per interposta persona, perchè bisogna che almeno laggiù il suo nuovo nome non sia macchiato. Non ne parliamo.

Il dottore viveva con un servo, contadino anche lui, del quale l'adorazione incosciente gli teneva in casa luogo di tutto.

Quindi la contessa Ginevra chiuse i propri saloni di ricevimento per non accogliere più che quei tre amici, e qualche altra signora, come la contessa Maria; più tardi v'entrò anche Giorgi, maestro di cappella nell'antichissima chiesa di Santo Stefano, povero e grande musicista, ammogliato ad una megera, che lo bastonava, senza che egli trovasse mai il coraggio di resisterle. La sua vita rimasta nel mistero, perchè la Confraternita dei Lombardi, che gli passava un magro stipendio di venti scudi al mese, non faceva quasi mai grosse feste, era tutta piena della sua arte: dava qualche lezione nel seminario, e scriveva secretamente magnifici pezzi di musica sacra, chiedendone l'ispirazione a Dio colla commovente semplicità di un antico fedele. Prinetti lo aveva scovato in un piccolo caffè di via Lamme una sera, solo, mentre scriveva sul marmo di un tavolino colla matita alcune battute; quindi lo propose alla contessa Ginevra per maestro di pianoforte a Bice.

In quella casa Giorgi potè finalmente rivelarsi.

Nel suo entusiasmo pei grandi maestri vecchi egli non ammetteva nè melodrammi, nè romanze da camera, nè virtuosità di artisti: la musica non doveva esprimere secondo lui che la vita religiosa dell'anima, dacchè la rivelazione cristiana ne aveva ridato all'uomo la concessione ed il modo. Se il primo peccato aveva troncato il dialogo fra l'uomo e Dio, Cristo scendendo a morire sulla terra lo aveva riannodato. Solo nella musica quindi l'uomo poteva rivelare il dramma della propria coscienza fra dubbi deliranti di terrore e grida trionfali di fede, quando dinanzi all'impenetrabile mistero dei dogmi il suo spirito ne urtava l'una su l'altra le formule bronzee per udire il loro suono profondo allontanarsi per l'infinito, o rapito da una improvvisa fulgorazione traversava tutti i cieli senza giungere mai donde quel raggio era scoccato.

Da questa altezza di concezione perigliosa per l'arte egli umiliava senza accorgersene i modelli stessi de' suoi grandi maestri, giacchè la loro musica non aveva significato che il dramma biblico o cristiano, quale era apparso nella storia. Giorgi invece prendeva per la propria musica le mosse dal paradiso di Dante; e se la parola e l'immagine avevano rappresentato Cristo, la musica doveva esprimere lo spirito, questo inaccessibile rimasto senza culto, e che veglia come una luce di zaffiro in fondo a tutte le coscienze.

Alla contessa Ginevra piacque subito per l'originalità della sua prima dichiarazione:

—Bisogna che la fanciulla non diventi una suonatrice di pianoforte: questo orribile istrumento deve servire solo per imparare a leggere la musica.

De Nittis, che entrava in tale momento, si voltò meravigliato; quell'ometto chiuso in un vecchio soprabito color nocciuola, tutto rasato, parlava con voce ridicola. Infatti s'intimidì; e per farsi perdonare quelle strane parole, mentre Bice era presente, disse che il pianoforte avrebbe potuto indebolirle il petto, poi sopraffatto dalla vergogna di quella scusa anche peggiore del fallo, abbassò la testa tormentando il cappello fra le ginocchia.

Ma Prinetti guardò De Nittis.

—Permettetemi di darvi ragione, maestro.—intervenne questi colla sua voce melodiosa;—i dilettanti sono la più insopportabile mostruosità del pensiero. Si arriverà forse un giorno a non credere più nella musica, questa suprema preghiera dell'anima, perchè tutti sapranno suonare.

—Questo giorno è già arrivato.

—Speriamo di no. Se i pianoforti stanno per sommergere nella inanimità del loro suono il sentimento musicale, la nostra anima veglia ancora sulle cime più alte, e ha bisogno di un linguaggio indefinito per tradurre a sè medesima le proprie fuggevoli intuizioni. La musica sola può esprimere rapporti, ai quali è impossibile dare un nome, benchè siano forse runica certezza, che ci resti dopo tutte le distruzioni della critica.

—Oh!—egli esclamò rapito d'ammirazione come dinanzi all'uomo, che gli traduceva finalmente quello che da tanti anni faceva il tormento del suo spirito; e si alzò per prendergli la mano.

De Nittis, vedendolo perplesso per la timidezza, gliela stese pel primo: poco dopo Giorgi, che lo ascoltava sempre colla stessa avidità, si lasciò sfuggire involontariamente:

—Che bella voce!

La sera di quel giorno stesso, Giorgi tornò da Bice, che lo aveva accettato ridendo della sua strana figura, per suonare sul magnifico Erard della contessa Ginevra, nel gran salone giallo, una delle proprie più belle composizioni sulle prime parole della Messa:

"Introibo ad altare Dei, ad Deum qui lætificat juventutem meam."

Allora anche Bice lo ammirò, sebbene la sua anima ancora troppo piccina non potesse intendere la solenne e patetica temerità di tale apostrofe musicale. Egli suonava con una potenza inaudita, trasfigurato nel volto: nessuno parlò, ma sentendosi finalmente compreso Giorgi provò la prima estasi della propria sovranità spirituale.

Il resto della serata passò per lui come un incanto, poi uscì con De
Nittis.

—Voi non pubblicherete questo,—disse il filosofo rattenendolo un istante per la mano:—come il pensiero di Spinosa, la vostra musica sarà stata salvata dalla incoscienza di un secolo per un altro, che la intenderà. Adesso la pubblicità la falserebbe.

Giorgi non sapeva chi fosse stato Spinosa, ma comprese la terribilità di quel complimento, che lo condannava a morire sconosciuto; il suo cuore tremò, nullameno, allo svoltare per via San Giovanni in Monte, ancora lungi da casa, la sua natura artistica aveva già ripreso il sopravvento, facendogli sperare che quei nuovi protettori lo aiuterebbero a pubblicare tutte le sue opere inedite.

La educazione di Bice cominciò tardi, perchè il dottore non voleva arrischiare la sua salute, ancora troppo debole, contro la fatica di quelle prime applicazioni sui libri. La fanciulla sapeva appena leggere e scrivere, avendolo appreso fra i giochi quasi senza accorgersene dalla contessa Ginevra; ma nell'intimità di quelle conversazioni così spirituali molte cose le erano rimaste nella mente, e parlava altrettanto bene il francese e l'inglese colla zia che il dialetto coi servitori. Così a forza di partecipare anche ai chiassi di Lamberto, finì per aiutarlo nei piccoli temi di scuola, che egli le spiegava alla propria maniera con una vanteria di minimo maestro. Ma presto Bice lo sorpassò. Il ragazzo, incapace per la stessa esuberanza della propria natura a resistere dieci minuti nell'immobilità, era a scuola uno dei più tardi e dei più turbolenti malgrado la sua profonda tenerezza per Bice sempre in apprensione per i castighi, dai quali era colpito quasi tutti i giorni. Però solo con lei Lamberto si ammansiva al punto d'ubbidirle, anche quando gli imponeva di tornare dai maestri a dimandare scusa. Lamberto non aveva che il padre, molto trascurato verso di lui, quantunque abbastanza ricco per potergli lasciare da vivere senza la necessità di una professione; ma sino d'allora il ragazzo parlava di farsi soldato. La sua più grande felicità erano i regali soldateschi della contessa Ginevra, alla quale diceva zia come Bice, sebbene non fosse che un lontano cugino, perchè il padre nel lasciarlo per mesi interi in quella casa era stato il primo a dare scherzosamente quel titolo alla buona signora. Ma egli passava invece quasi tutta la propria giornata pei bigliardi.

Lamberto avrebbe preteso di abbandonare le scuole pubbliche per studiare sotto la maestra di Bice, se la fanciulla spaventata dalla sua turbolenza, che le avrebbe impedito quei primi raccoglimenti intellettuali, avesse voluto consentirvi. Invece ripigliava volentieri i giuochi con lui in giardino, appena la maestra se n'era andata. Lamberto ne usciva spesso impantanato, cogli abiti in brandelli; ella l'osservava seduta sopra una panchina, sorridendo con grazia di donna, che già ammira, senza poterlo seguire nelle sue corse sfrenate. Lamberto andava a letto presto, sfinito, Bice rimaneva invece nel salotto sino alle nove, piccola e felice nel centro di quelle conversazioni, che per lei si svolgevano nelle più amabili semplicità dell'ingegno. Quegli uomini formavano come un'accademia, gareggiando a chi meglio riuscisse nel comunicarle la maggior somma d'idee.

Dapprincipio il preferito era stato Prinetti coi racconti d'Africa, nei quali sapeva insinuare quasi tutte le scienze naturali. La sua fantasia sembrava riaccendersi alla rovente immensità dei deserti, per la quale s'azzuffavano fiere e selvaggi, egualmente nudi nella ingenuità della loro ferocia, mentre le carovane passavano lentamente sui camelli, o lungi fra le sabbie sollevate dai Simoun scoppiava impetuoso un assalto di predoni. Quindi sopra un magnifico atlante tedesco le spiegava nel quadro costante della geografia l'improvviso apparire e dissolversi delle epopee conquistatrici, riserbando tutta l'emozione della propria eloquenza per dipingerle l'eroismo dei missionari, inoltrantisi tuttora fra le più feroci popolazioni con una piccola croce in mano, e morenti l'uno dopo l'altro nel nome di Dio, come sentinelle perdute ai confini del suo impero. Prinetti diventato profondamente religioso fra i pericoli di quelle solitudini trovava allora degli accenti, che facevano trasalire la piccola Bice; ma nemmeno nei più confidenti abbandoni parlava mai delle proprie sofferenze in quei trent'anni di peregrinazioni e di prigionia presso uno di quei minimi sultani, dal quale per poco non era stato arrostito. Talvolta la fanciulla gli diceva improvvisamente:

—E tu dunque?

—Dio mi ha sempre protetto.

Poi Ambrosi raccontando le storie dei propri malati le spiegava coi segreti del corpo umano le prime leggi della fisica a forza di esempi e di esperimenti, che avrebbero fatto ridere all'Università, ma davanti ai quali De Nittis stesso era costretto sovente ad ammirare. Il dottore provava un indefinibile piacere a rimpicciolirsi così colla sua piccola arnica, malgrado tutti quei terribili perchè delle sue interruzioni, che facevano spesso oscillare le più salde ipotesi della scienza, costringendolo a constatarne la breve portata. Allora un sorriso sottile di De Nittis provocava nuove discussioni simili ad una battaglia, sul campo della quale ella poteva appena raccogliere poche parole scintillanti come frammenti di spade. Però fra quegli uomini, tutti egualmente superiori per comprendere come nessun metodo d'istruzione fra i moltissimi finora escogitati meritasse di essere accolto, e quindi valesse meglio lasciare l'intelligenza di Bice formarsi da sè coll'assistere quotidianamente allo spettacolo delle loro conversazioni, nemmeno il dottor Ambrosi, materialista convinto, aveva osato contrastare alla necessità di un ordinario insegnamento cristiano. Era impossibile evitare Dio nelle spiegazioni con una fanciulla, o giustificarle la morale senza i miti d'oltre tomba. La poesia fermentante nel suo spirito aveva d'uopo di fantasmi religiosi per la rappresentazione di quell'altro mondo, che l'anima umana sembra portare seco nascendo, e nel fanciullo è tanto più vivo, che la realtà, dalla quale è circondato, gli rimane impenetrabile. D'altronde la vecchia Rosa le aveva già appreso tutte le orazioni nel suo latino inesplicabile, infondendole l'amore per la Madonna con quello della povera mamma. Quindi ne uscivano bizzarre complicazioni, quando Bice attraverso i loro dibattiti scientifici domandava improvvisamente conto di un qualche grossolano racconto miracoloso, nel quale Dio e il diavolo si litigavano, come un contrabbandiere e una guardia di finanza, l'anima di un peccatore; mentre i terrori dell'inferno agitavano così il piccolo cuore della fanciulla, che se ne vedevano i tremiti nel suo pallido visino.

Giorgi era allora il solo che potesse calmarla. Egli aveva divorato un infinito numero di vite di santi e di opere mistiche, nutrendosene colla passione trascendente degli spiriti, ai quali la vita reale rimase sempre un pellegrinaggio verso altre invisibili regioni. Quindi le narrava le più belle leggende cristiane colla parola semplice ed inconfutabile di chi sembra aver veduto. Ed erano profili macilenti di anacoreti, intorno ai quali i deserti si popolavano di belve mansuete e di mostri infernali invano strapotenti nella proteiforme orribilità delle loro insidie; terribili figure di apostoli rovescianti nella propria invasione gl'imperi di tutti i conquistatori, martiri sorridenti nella docilità dell'agonia, vergini flessibili come fiori e più sfavillanti degli angeli, che venivano a proteggerle sulle grandi ali bianche: tutto un mondo di dolori divini, nel quale i sospiri avevano profumi inebbrianti, e la morte arrivava colla pompa di un festa fra sbigottimenti ineffabili e silenzi trionfali. Egli stesso, così povero in quell'immutabile soprabito color nocciola, scarno, giallognolo, tutto rasato, coi capelli quasi incollati sulla fronte protuberante e malinconica, pareva una figura di quei racconti rimasta nel mondo ad attestarne la veridicità. Allora l'inevitabile dolore umano, che la sua breve esperienza di fanciulla aveva già constatato in tanti ammalati e in tanti morti, le si mutava dentro in una gloria di elevazione divina; sapendo di dover soffrire e indovinando nella voce di Giorgi o sulla fronte rugosa degli altri le sofferenze secrete della loro vita, prima ancora che ella fosse nata, le sfiorava amorosamente quasi con tragica impazienza di quelle, che stavano ad attenderla forse non molto lontano. Ma tali impressioni improvvise e profonde la prostravano in lunghi silenzi, dai quali non rinveniva che sentendosi sola. Suo padre e sua madre erano morti a lei sconosciuti, il padre anzi non aveva nemmeno potuto vederla: perchè? La vedeva egli dal paradiso? Poteva riconoscerla adesso? Ella si sentiva abbandonata fra l'amore di tutta quella gente, che voleva appunto salvarla dall'abbandono, mentre un freddo inesplicabile le penetrava sempre più addentro nell'anima vuota e sonora come una di quelle immense case deserte delle fiabe. Ella vi era chiusa, per sempre, ascoltando il rumore del proprio passo leggero ripercosso lontanamente da tutti gli echi; avvertiva dei soffi leggeri e subitanei sulla fronte, ma non sapeva a chi gridare, perduta da tutti in quella inanime vacuità.

Poi lo sviluppo intellettuale le si affrettò nuovamente con più minacciosi pericoli di vita. Era diventata quasi cupa, evitando la compagnia di tutti per passare le intere giornate dinanzi ad una rozza statuina della Madonna Addolorata nella camera di Rosa. Quando l'interrogavano, sorrideva tristemente o diceva che sarebbe morta presto. La zia Ginevra ne era desolata; il dottore dopo avere indarno tentato tutti i modi per forzare l'ostinazione di quella volontà ammalata finiva col prendersela contro le ubbie religiose, che preparavano nel guasto delle teste infantili le future follie di quasi tutta la gente. Bice passò così qualche mese, poi mutò improvvisamente tornando ai giochi con Lamberto, che in quel tempo non aveva voluto quasi vedere. Si era fatta più bianca, colle labbra vizze e le guance così emaciate, che rendevano anche più grande il suo naso aquilino, di un giallore di cera, quando la luce lo attraversava.

Giorgi aveva sospeso le lezioni di pianoforte, ma veniva tutti i giorni a suonarle qualche musica dolce e profonda. Una volta arrivò colla testa fasciata da un fazzoletto. Bice aveva già saputo dai servitori che la moglie lo bastonava, ma non gliene avevano voluto dire l'orribile motivo di quella figlia, non sua, e che colei confessava apertamente dell'amante. Giorgi nell'insoddisfatta tenerezza del proprio cuore avrebbe voluto educarla piamente per farne poi una maestra elementare, mentre l'altra invece la prendeva sempre seco coll'amante, anche di notte, girellando pei caffè, e non voleva saperne di spese. Tutto il danaro della casa, poichè Giorgi doveva consegnarle ogni fin di mese l'intero stipendio, lo spendeva per sè stessa: era golosa.

La ragazza trascinata dall'esempio cominciava a corrompersi.

Malgrado la propria timidezza, Giorgi quella mattina aveva protestato vedendo la moglie disporsi ad andare colla figlia in casa dell'amante ad una gozzoviglia.

—Che c'entri tu!—era stata la risposta.

Poi lo aveva percosso coll'ombrello, lasciandolo solo sebbene gli vedesse il sangue spicciare dalla fronte. Giorgi, coll'anima singhiozzante, si era fasciato alla meglio per venire da Bice.

—Sono caduto,—si affrettò a risponderle, ma la sua voce aveva una strana dolorosa sonorità.

Bice volle ella stessa rifargli la fasciatura. Strappò ad un cappellino della zia una magnifica cordella nera di moerro, non più larga di due dita, e l'acconciò così bene cucendogliela dietro la testa, e nascondendola sotto i capelli, che quasi non si vedeva: poi gli rimise dolcemente il vecchio cilindro sul capo, che coperse il resto. Durante tutta quella cura Bice era diventata di una serietà, che finì coll'imporre a Giorgi: egli aveva le lagrime agli occhi per ringraziarla, ma non l'osò.

Si mise a suonare.

—Ti ha battuto!—ella interruppe improvvisamente senza nominarla.

Giorgi avrebbe voluto negare, ma Bice invece lo baciò per la prima volta sulla ferita, e andò a gettarsi sopra un divano in fondo al salone. L'altro non suonò più: una grande paura lo assalì che Bice pretendesse il racconto di quella disgrazia, perchè non avrebbe saputo resisterle, e non ne trovava nella propria testa ancora scombussolata un altro da sostituire. Finalmente tornò vicino a lei, Bice piangeva.

—Resta a pranzo con noi, tutt'oggi qui…. lo voglio.

E scappò.

—Rosa,—gridò alla vecchia:—Giorgi è ferito alla fronte…. è stata lei.

La vecchia alzò gli occhi senza rispondere, perchè sapeva già le condizioni di Giorgi, ma negli sguardi di Bice seguitava a dilatarsi un doloroso spavento davanti a questo mistero di una donna, che bastonava un uomo. Poi mormorò:

—Non bisogna dirlo, sai.—

Quel fatto le lasciò una incancellabile impressione.

Lamberto, entrato nel ginnasio, aveva molte più ore occupate di prima, adesso che il padre pareva cominciasse a badargli. Quei giuochi infantili con Bice erano dunque cessati coi calzoni corti di lui, quantunque ella conservasse ancora le piccole gonnelle, lasciando la casa in una nuova quiete anche quando si trovavano insieme, soli, per le vaste stanze. Bice era stata presa dalla passione della lettura.

Quindi De Nittis, diventato quasi il suo solo educatore, le sceglieva i libri, venendo spesso a leggerli con lei o facendola leggere ad alta voce, perchè la musicalità del periodo gliene rivelasse meglio il senso. Ma senza lasciarglielo scorgere la guidava abilmente dai sentieri capziosi della fantasia lungo le grandi vie della storia illustrandone tratto tratto i maggiori monumenti, o smontandole uno per uno i pezzi di qualche costituzione per riassumergliela nuovamente nella biografia di un grand'uomo. Bice non imparava ancora a coordinare colle date tutte quelle varie notizie, ma apprendeva già il senso della vita dai panorama della civiltà come dalle pagine di un immenso album. Quindi la sua educazione senza le solite piccole grammatiche e quei minimi sunti, coi quali si è creduto di provvedere a tutti i corsi dell'università elementare, pareva a molti stravagante, sebbene ella sapesse già gustare molte bellezze negli scrittori, e pur confondendo le epoche vi distinguesse abbastanza bene le diverse virtù dei massimi uomini.

Ma la contessa Ginevra, dal giorno che la maestra di Bice aveva voluto andarsene scandalizzata, non era senza apprensione dinanzi a tali pregiudizi scolastici malgrado tutta la superiorità del suo spirito.

—Fidatevi, contessa,—rispondeva sorridendo De Nittis:—Bice impara le cose prima delle parole, come dovette fare l'umanità. Quando la sua piccola testa si sarà inconsciamente abituata alla grande logica delle idee le basterà un mese per apprendere la grammatica. Giorgi ha ragione: vedete che Bice senza distinguere ancora il valore delle note suona già con profondo sentimento qualche pezzo. Che importa se non diverrà una suonatrice da salone? Sarà per lei una bella qualità di più: forse fra due anni saprà leggere una suonata, gustandola internamente come una pagina di poesia.

La contessa era troppo intelligente per non comprendere queste verità, ma nullameno stentava a difendersi da un sottile senso di umiliazione, quando Bice in mezzo alle giovanette della propria età si rivelava d'un tratto così ignorante della loro infantile istruzione. Quindi ella stessa volle prendere il posto della maestra per insegnarle le solite cose sui manuali di educandato. Bice sulle prime ne fu seccata, poi secondo le profezie di De Nittis in brevissimo tempo percorse tutto quel casellario di piccole nozioni, costringendo spesso la contessa ad arrestarsi nelle proprie spiegazioni davanti alle sue risposte, improvvisamente memori di altre idee. Ma il giorno che la contessa potè mostrare a De Nittis il primo componimento di Bice in italiano, una gita in campagna, scritto con una calligrafia passabile e senza nemmeno un errore di grammatica, le parve di trionfare.

—Fra sei mesi Bice potrà fare altrettanto in inglese e la sua educazione sarà quindi compita,—egli rispose.

La contessa sentì l'ironia.

—Conoscete pure il mondo…. Bice ha quattordici anni:—ma si accorse subito della volgarità, e confessò piuttosto che non aveva voluto vederla, neppure momentaneamente, inferiore alle altre ragazze.

Sopravvenne Bice; voleva da lui la vita di Gesù Cristo di Rénan. Come conosceva quel libro? Chi glielo aveva suggerito?

—L'ho prestata,—disse prontamente De Nittis.—Ti porterò invece, dello stesso Rénan, lo studio sopra S. Francesco d'Assisi.

La contessa e il professore si guardarono, Bice scappò via contenta.

—Le darete quella Vita di Gesù?

—Non ancora, ma dovrà leggerla un giorno. Rénan è una delle anime più profondamente religiose del nostro secolo; il suo scetticismo stesso è più devoto di molte pratiche cattoliche.

Quella doveva essere la grande crisi.

Quando scoppiò, Lamberto faceva l'ultimo anno di ginnasio più monello e più svogliato di prima. Quegli studi classici, colla loro gloria di bellezze morte, non gli parlavano nè alla testa nè al cuore; invece si divertiva agli esperimenti di fisica ed accettava quasi senza ripugnanza la geometria. Ma perchè quel latino e quel greco, insegnati da professori, che impiegavano come gli scolari un mattino a tradurne un periodo? Invece leggeva romanzi sozzi o lacrimosi, che lo appassionavano; poi qualcuno ne diede anche a Bice. Malgrado la corruzione precoce ed inevitabile nelle scuole fra giovanetti di nascita ed educazione troppo dispari, Lamberto non si era però guastato al punto da permettersi con lei modi o parole licenziose; anzi tutto la ragazza gl'imponeva per la superiorità dell'ingegno e quella malinconia del carattere, che in lei pareva già senno di vita, poi addentrandosi ogni giorno più nella facile volgarità del mondo cresceva in lui il rispetto per quella casa, ove persino i domestici erano gravi, e la contessa Ginevra regnava con dolcezza così penetrante. Egli non osava quasi più mischiarsi alle conversazioni di quei vecchi malgrado la perfetta cortesia delle loro maniere. Spesso nella loro parola calma gli sembrava di sentire la profondità dei gorghi, entro i quali s'avventurava coi compagni a pescare risalendo il Reno dalla grande chiusa di Casalecchio, quando il cielo turchino oscillava in fondo alle acque limpide o lievemente rugate alla superficie dal soffio del vento. Quegli uomini, più semplici assai dei professori, che lo redarguivano aspramente dalla cattedra, avevano un linguaggio differente anche per dire le cose più comuni; ma ascoltandoli si accorgeva di comprendere subito quello, che non aveva mai nemmeno osservato.

Bice invece era del loro ambiente: per essa tutti mostravano una dolce premura, della quale la vanità di Lamberto non trovava modo d'ingelosirsi. Anzitutto Bice era donna, così debole ancora da cader malata di giorno in giorno, poi una inesprimibile alterezza le cingeva la fronte malgrado la soavità del sorriso e la luce di lampada sacra, che le brillava in fondo agli occhi. Adesso il suono stesso delle sue parole faceva sentire meglio il peso di certi suoi lunghi silenzi. Il dramma della donna le si dibatteva già nella coscienza di giovinetta. Sulle prime fu uno sbigottimento del mondo. Era sola, senza aver mai conosciuto nè babbo nè mamma, perchè non ricordava nemmeno confusamente le loro sembianze: un deserto buio e silenzioso si stendeva quindi al nord della sua vita senza che gli occhi dell'anima potessero mai sperare di scorgervi l'oscillare di un'ombra. Era cresciuta sotto la pietà di una zia e per cura di alcuni vecchi amici riunitisi quasi per disputarla alla morte, ma dei quali nessuno avrebbe potuto dirle ancora il segreto perchè di quella sua così monca esistenza. Attraverso tanti libri letti ella rimaneva sempre nella stessa ignoranza: erano quadri della vita, teorie sulla natura, ricordi di epoche scomparse, tutto un tumulto di fisonomie e di spiegazioni, di casi e di leggi, nei quali la mente dei più grandi si era già smarrita, mentre il mondo seguitava ad avanzare sicuro fra i crolli delle proprie più micidiali contraddizioni. La sua educazione intellettuale, per quanto involontariamente avanzata, non poteva fornirle soccorsi contro le rinascenti dolorose domande della coscienza. Come sempre il problema morale instava prima di ogni altro. Perchè era nata? Perchè il babbo e la mamma erano morti così? Perchè la morte con tutti i dolori, che la precedono, e il male più profondo ancora e più inintelligibile del dolore alzava sempre e dappertutto la sua oscena protesta contro la bellezza della creazione e la giustizia del creatore? Perchè? Bice non si sentiva ancora tremare in fondo al cuore i fondamenti della fede cristiana, come la vecchia Rosa gliela aveva grossolanamente insegnata, ma sbigottiva già che tanti grandi uomini avessero potuto uscirne, gettandosi fra i vortici urlanti delle onde, piuttosto che rimanere nella timida sicurezza di quello scoglio a pregare invano dal cielo un'ora di luce e di calma.

Su quell'argomento nessuno de' suoi amici le rispondeva.

Come poteva Ambrosi, materialista convinto, essere così buono dal momento che la virtù non avrebbe ricompensa, e il suo nome stesso non significava più nulla?

—Vi sono pure i fiori che odorano e i fiori che puzzano—egli le aveva risposto scherzando per non addentrarsi nella questione:—differenza di oli essenziali in loro e di olfatto in noi.

—Non sperate in un'altra vita?

—La speranza si perde anche in questa.

Bice rimaneva malinconica. Accompagnava la contessa Ginevra tutte le domeniche a messa colla contessa Maria, ma fra il culto poco più che formale dell'una e la devozione ardente dell'altra non riusciva a quietarsi. La contessa Maria non sapeva dirle che: prega! Erano tentazioni del demonio, i primi effetti del mondo sulla sua coscienza dì giovinetta: bisognava supplicare da Dio la grazia della fede, che sorvola gli ostacoli come l'uccello s'innalza cantando nei cieli. Pregare ed amare! Quaggiù non si doveva combattere il peccato, ma convertirne gl'infermi al bene, accettando il dolore come una rivelazione, che Cristo rinnovava in noi del suo martirio. Era la stessa teorica di Giorgi, l'ebbrezza di un olocausto continuo di tutto sè medesimo a Dio, considerando la terra come un immenso altare, intorno al quale gl'incensi soffocavano i miasmi, e la sinfonia trionfale della preghiera copriva i rantoli degli addolorati.

Anche De Nittis le ricusava ogni spiegazione per non interrompere coi dogmi di un qualunque altro sistema, non più vero o più vasto di quello cristiano, l'elaborazione dalla quale doveva uscire il suo carattere spirituale. La natura profondamente religiosa di Bice aveva bisogno di questa crisi per riconoscere sè stessa. Invece egli l'iniziava alle rivelazioni delle grandi letterature per apprenderle nella passionata varietà di tutti i loro aspetti la tragica uguaglianza dello spirito umano. Ma anche lì tutto era problema. Mentre le anime liriche gridavano solitarie per un intero popolo, del quale la voce s'intendeva appena come un murmure, altre più forti s'immolavano nell'azione fra il timido egoismo della folla egualmente incapace di resistere al loro dramma o di entrarvi; e altre ancora suggevano come farfalle il nèttare dei fiori con immemore golosità, o librate vertiginosamente sui pinnacoli di tutte le credenze gettavano una scettica sfida alla credulità delle turbe, nella quale i cuori più mistici venivano a bruciarsi come sopra ad un rogo; ma a tutte le epoche e per tutte le regioni, popoli ed individui avevano, al pari di lei in tale momento, vissuta la tragedia di quel problema, e ne erano morti. Lo spirito poteva momentaneamente obbliarsi nelle proprie effimere passioni, giacchè ogni nuova domanda gli ricadeva sempre sul grande quesito di sè stesso, come sul coperchio di un sepolcro, traendone sonorità raccapriccianti.

A che cosa credeva De Nittis? Dove era Dio? Cristo era Dio?

—Ditemelo voi, maestro!—esclamò un giorno che erano soli in quel gabinetto, leggendo l'Imitazione di Cristo.

—T'affanneresti così se io potessi dirtelo? Questo libro è l'amore divino, il Cantico dei Cantici è l'amore umano.

—Perchè due amori?

—Bisogna amare per saperlo.

Ma ella vibrava ancora: abbassò la testa, poi risollevandogli gli occhi in viso:

—E dopo l'amore sempre la morte…?

—Spesso molto dopo,—egli replicò malinconicamente.

Poi alcuni grandi capolavori della letteratura amorosa distolsero Bice da quelle prime preoccupazioni religiose. A diciott'anni era ancora così magra e così pallida. La sua statura sarebbe stata normale, se l'estrema gracilità di tutto il corpo e la incurvatura del petto, che l'obbligava a tenere quasi sempre la testa bassa, non l'avessero fatta parere più piccola. Il suo collo stesso, troppo sottile, si piegava già al peso della sua testa, sulla quale i magnifici capelli neri sembravano aumentare quasi mostruosamente; ma in tutto il resto nessuna grazia di donna rammorbidiva ancora le angolosità della sua giovinezza in preda ai primi orgasmi primaverili. Solo il suo volto era dolce, quantunque sparuto, e una nativa eleganza le metteva in ogni atteggiamento quella inesprimibile vaghezza, che pare una inconsapevole preoccupazione d'amore anche quando questo non si è ancora rivelato. Adesso la sua vasta ed originale educazione cominciava a renderla singolare. Nessuna delle sue compagne, benchè poche ne frequentasse e nemmeno fra queste avesse un'amica, avrebbe potuto rivaleggiare con lei: sapeva quanto loro il francese e l'inglese, ma conosceva i grandi libri di tutte le letterature, e senza aver disegnato alcun fiore o suonato un pezzo di bravura sul pianoforte s'intendeva abbastanza di pittura e di musica per non sentirsi alcun gusto per l'arte da salone. Infatti De Nittis col solo soccorso della scuola bolognese aveva potuto apprenderle dopo la squisita semplicità dei quattrocentisti la decadenza ancora abbastanza vigorosa del seicento nella sua doppia espressione sentimentale ed accademica, preparandola all'entusiasmo pel Correggio, il suo pittore preferito. Bice aveva quasi creduto di delirare a Parma nella cappella dei suoi capolavori.

Quella era stata la suprema rivelazione della bellezza, che nemmeno le venustà del Tiziano o le più ideali figure di Raffaello poterono poi in lei sopraffare. La bellezza era dunque come il genio un segno di Dio sopra alcune creature, perchè tutte le altre pensassero a lui; ma per lei tanto meschina, che anche il sesso le rimaneva quasi senza forma, quella gloria di sentirsi adorabile e adorata resterebbe sempre un rimpianto. Invano il suo cuore s'innalzerebbe verso le regioni dell'amore sui canti più ardenti dei poeti, o sugli effluvi più vitali della natura dal momento che nessuna virtù spirituale poteva nella donna sostituire quella bellezza, della quale l'anima sembra aver bisogno per obliarsi nell'adorazione.

Quindi comprese anche troppo bene le spiegazioni di De Nittis sull'arte antica, oggi quasi inintelligibile anche alla maggior parte delle persone colte, dacchè nessun popolo dopo i greci intese più la bellezza come una verità più viva della realtà stessa, nella quale il difetto esprimeva un tentativo infelice della natura per raggiungere qualcuno dei proprii tipi. A che cosa serviva dunque una gioventù senza bellezza? Perchè tale crudele contraddizione? Perchè sua madre era stata anche più bella della zia Ginevra, nella quale brillavano tuttavia le traccie di una ammirabile leggiadria? Bice non aveva di questa che le mani, ma senza l'aristocratica morbidezza, che aveva rese celebri quelle della contessa: tutto il resto non avrebbe potuto inspirare che una simpatia di pietà. Nullameno il suo istinto di donna cercava di resistere a questa diminuzione di sè stessa. Se in quasi tutti i capolavori delle letterature le donne erano di una bellezza disperante, non mancavano però eroine senza bellezza, rese immortali dal genio degli uomini, che le avevano amate. L'anima aveva dunque anche essa una luce capace di rendere agli occhi di un amante il corpo, nel quale era chiusa, non meno ideale dei più vantati modelli dell'arte. Ella non avrebbe quindi amato che un uomo abbastanza grande da vederle l'anima attraverso quel suo magro viso dì anemica, amandola come le anime sole possono amare. Naturalmente l'eroe del suo pensiero era Amleto, il pazzo sublime tanto poco compreso da Ofelia. In quell'inevitabile romanticismo della giovinezza l'amore le si univa ancora ad una idea di sventura, come quella del mare alla paura delle tempeste. Invece la grande tragedia di Otello le lasciava nello spirito un incomprensibile orrore. Quel moro, ardente come il sole, che ghermendo un'ingenua fanciulla la trascinava sotto la propria tenda di soldato per soffocarla brutalmente al primo sospetto, rimaneva un enigma per il suo pensiero. Si può uccidere quando si ama? L'amore istantaneo, leonino, che rugge e squarcia alla più lieve difficoltà di una carezza, non doveva essere umano, giacchè l'anima non aveva nemmeno il tempo di fondervisi. Ella si diceva che Otello non amava, e nullameno i suoi urli di dolore sotto le punture avvelenate di Jago, le sue incertezze tremebonde nella camera di Desdemona prima di accostarsele al letto, la sua disperazione e la sua morte erano di un patetico ben più profondo che la simulata pazzia di Amleto. Si poteva dunque amare colla tenerezza balbuziente di un bambino, e sbranare colla ferocia irrefrenabile di una belva, appena il sangue accendendosi per le vene mandasse al cervello le proprie fiamme rosse, e gli occhi vedessero naturalmente sangue dappertutto?

Attraverso tutto l'orrore della propria paura ella sentiva nella morte di Desdemona una passione, che Ofelia stessa non avrebbe potuto comprendere malgrado tutta la propria tenerezza di fanciulla. Infatti quell'ultima menzogna per accusare sè stessa provava forse la superiorità di Otello su Amleto, perchè una donna non può amare così senza essere stata altrettanto amata.

Ma da queste illustri passioni immaginarie rientrando nel salotto ove la zia l'attendeva fra quei vecchi, le sembrava come d'inoltrarsi in un tempio; lì tutto era calmo, le parole avevano una dolcezza pacificatrice, un suono profondo come quelle anime stesse, cui le bastava di volgere una domanda perchè trovassero subito, simultaneamente, per lei una risposta. Però Bice parlava poco. Solo De Nittis sapeva condurla qualche volta ad una discussione, urtandole lievemente lo spirito per sprigionarne l'originalità con un dolce orgoglio di padre. Infatti nessuno di loro aveva altrettanto contribuito alla formazione di Bice all'infuori di Rosa coll'imprimerle incancellabilmente nello spirito la propria fede grossolana: tutto il resto era stata opera sua. Senza di lui Bice sarebbe diventata una ragazza forse peggiore delle altre, giacchè la contessa Ginevra cedendo alla moda di farla studiare maschilmente non avrebbe forse tratto dal suo spirito inquieto che una delle solite mostruosità letterarie. De Nittis, invece, nel proprio orrore di tutte le falsificazioni spirituali, giudicava la donna lanciata nella carriera dell'uomo una delle più odiose aberrazioni moderne, dacchè corpo ed anima, tutto in essa è egualmente atteggiato dalla maternità. Quindi iniziandola quasi contemporaneamente ai segreti dell'arte e a quelli della scienza, aveva saputo salvarle il carattere dal doppio pericolo del dilettantismo e dell'incredulità: così Bice avrebbe meritato di salire nell'amore di ogni uomo per la sua stessa capacità di tutte le più umili funzioni femminili, senza false superbie di signora o assurdi orgogli scolastici. In questo la contessa Maria colla sua bella umiltà cristiana aveva aiutato l'opera del filosofo. Bice credeva ancora come una fanciulla del popolo, quantunque con una più alta interpretazione dei simboli religiosi, ma in sostanza le sue idee erano tutt'altro che chiare. Scienza e filosofia mostrandole più che altro degli spettacoli, senza che la sua ragione muliebre potesse davvero afferrarne le linee e indovinarne le cause, le avevano lasciato nello spirito una incertezza simile a quelle nebbie leggere, che si formano costantemente nelle valli, e difendendole dai raggi troppo cocenti del sole vi assicurano la fecondazione. In questa educazione sentimentale, come De Nittis l'aveva voluta, Giorgi era quindi stato più fortunato di lui, portandola spesso colla propria musica nelle lontananze più celesti per farle sentire le intime corrispondenze dell'anima colla vita, che si svolgeva al di là del loro azzurro eternamente misterioso. Nullameno tutta la devozione di quelle anime non bastava al suo cuore.

Un bisogno le cresceva di un altro amore più profondo ed impetuoso, che mescolasse nel fiume di una maggiore vita il rivo limpido e canoro della sua. Così sola le pareva dì soccombere ad un peso misterioso, sotto il quale soffocassero tutte le tenerezze dell'anima, sebbene nessuno le avesse ancora parlato d'amore, nemmeno Lamberto. Gli altri giovani, che venivano talora in visita dalla zia, erano troppo simili l'uno all'altro in una medesima insignificanza di figurino per sentire l'amore, del quale ella aveva preso il contagio nei libri, imparandone quasi contemporaneamente dalla scienza i più impuri segreti, mentre le saliva dal cuore in una gloria di astro.

Lamberto a diciott'anni, spaventato degli ultimi esami liceali parlava di andare all'Accademia militare di Modena per uscirne ufficiale di cavalleria. Le sue relazioni con Bice, rimaste pure malgrado i disordini inevitabili del suo noviziato nel mondo, gli facevano provare più vivamente l'abbandono del padre, caduto nelle unghie di una ballerina, che lo teneva quasi sempre presso di sè, mungendogli grosse somme di denaro. La zia Ginevra invece e i suoi vecchi amici adesso lo trattavano da uomo con una cortesia piena di buoni consigli e di delicate attenzioni. Quando veniva a trovarli, provava quasi un rammarico contro la propria vita licenziosa, giacchè la precoce esperienza del vizio, lungi dall'intaccare la sua sana natura, pareva anzi presso a destarvi una salutare reazione.

Naturalmente i suoi discorsi con Bice pigliavano una piega galante. Quelle loro amabilità dei primi anni, diventando ogni giorno più difficili per eccesso di significato, dovevano necessariamente finire in una scherzosa ironia, o in una dichiarazione d'amore. Bice non era solo una giovinetta di vero ingegno e della più squisita educazione, ma una delle più ricche ereditiere della città, col vantaggio di poter disporre liberamente di sè stessa. Involontariamente Lamberto ci veniva pensando anche pei suggerimenti degli amici, già abbastanza pratici del mondo per riconoscere come nel matrimonio l'interesse debba fatalmente prevalere alla passione; mentre a lui quella sua grande bontà di fanciulla e lo splendore della posizione facevano sognare di una vita calma e signorile.

Ella non pareva più con lui così serena. Il sorriso le si arrestava talvolta sulle labbra, come se la sua stessa superiorità intellettuale l'agghiacciasse nel timore di non apparirgli abbastanza donna come tutte le altre. Intatti Lamberto la dominava colla statura; era bruno, forte, agile, con gli occhi neri, lampeggianti, e i baffetti nascenti sulle labbra rosse come due garofani: ma un'aria di bontà temperava la soverchia arditezza della sua fisonomia, che l'abbandono di ogni falsa pretensione rendeva anche più amabile.

Un giorno passeggiando con lui nei giardini pubblici, Bice sentì l'invidia delle altre ragazze, che le attribuivano già Lamberto per amante. Sulle prime se ne spaventò, l'altro incerto di esserle dispiaciuto chiese il perchè di quella improvvisa bruscheria; poi quando si rividero, Lamberto scherzò su quel caso, Bice arrossì. Erano soli nel gran salone giallo. Improvvisamente ella aveva sentito vanire tutto quanto sapeva dell'amore dinanzi a lui, prima ancora che le avesse detto nulla. Quell'impaccio durò finchè venne la zia per far rimanere Lamberto a pranzo; Bice incollerita seco medesima soccombeva già all'amarezza di sapersi troppo brutta per essere amata, mentre l'altro abituato sin da fanciullo alla dolente singolarità della sua figurina aveva sempre avuto per lei una dolce simpatia. Quindi cogli amici, che accusavano Bice di essere brutta, aveva sempre protestato:

—Non la conoscete.

Ma non credeva ancora di essere amato. Quando finalmente se ne accorse, la nobile purezza di quell'affetto gli diede quasi una impressione di scoraggiamento: quella povera abbandonata veniva a chiedergli tutto l'amore del babbo e della mamma, che non aveva conosciuti, offrendogli innocentemente colla propria mano la più ricca dote della città.

La sua emozione fu così sincera che Bice ne provò il contraccolpo, ma non ne parlarono che molto dopo, come se si fossero già pienamente intesi in quell'attimo. Nessuno fece opposizione, meno la vecchia Rosa, che sembrò disapprovare mutamente; poi fu deciso che Lamberto andrebbe ugualmente all'Accademia di Modena, e sposerebbe Bice solamente dopo il secondo anno di reggimento. Intanto la cosa resterebbe segreta.

—Siete ancora liberi,—aveva detto la contessa Ginevra:—cinque anni sono lunghi.

—No,—rispose Bice, alla quale il matrimonio con Lamberto sembrava già conchiuso, dacchè le loro anime si erano intese.

Al momento di partire per Modena, Lamberto diede il primo bacio a Bice, sulla fronte, dinanzi alla zia Ginevra: Bice non pianse. La sua calma, che Lamberto ammirò come uno sforzo supremo della volontà, parve invece fredda a De Nittis, quantunque Bice diventasse dopo malinconica. Ella invece s'interrogava curiosamente: era dunque quello l'amore celebrato nei poemi, che seminava di tante tragedie la vita dell'umanità? Adesso che non era più sola, si sentiva egualmente fredda, senza nessuna di quelle febbri, alle quali aveva creduto di doversi attendere. Nullameno le prime lettere di Lamberto, calde della fraseologia solita a tutti gl'innamorati, provocarono in lei l'esplosione di sentimentalità ancora più eloquenti.

Come accade quasi sempre, il primo amore fu per Bice una fioritura letteraria. Lamberto lontano diventava il grande fantasma romantico della sua vita con tutti gli ornamenti dei drammi, che le erano rimasti più profondamente impressi; la sua immaginazione si compiaceva a seguirlo tra la folla di quegli alunni come un prescelto, cui la terribile gloria delle armi sorridesse già attraverso la letizia di quell'idillio ma, vedendolo la prima volta così vestito da collegiale, le parve quasi dolorosamente ridicolo. Invano Lamberto tentò di scherzare sulla goffaggine della propria uniforme, raccontandole quella vita di collegio colla simpatica ingenuità di un novizio: Bice non vi sentì invece che la pedanteria e la vacuità di una carriera, nella quale la divisa e il cavallo rappresentavano fatalmente tutto l'ideale. Nessuna grandezza di guerra, nessun lampo d'eroismo era più possibile; l'Accademia educava gli ufficiali come i seminari allevano i preti: una stessa volgarità burocratica in ambe le classi, e la medesima preoccupazione professionale.

Così passarono molti mesi.

Invece Lamberto in quella specie di esilio scolastico l'amò con passione crescente. Già si era accorto che il padre, sempre più incapricciato di quella ballerina, gli aveva consentito la scelta di tale carriera piuttosto per trarselo di fra i piedi che per riconoscerla buona; quindi Bice diventava il suo unico affetto nel mondo. Le loro lettere se ne risentirono; quelle di lei splendide di poesia si smarrivano talvolta in preziosità sentimentali, come in un compiacimento raffinato di analisi sopra sè stessa, mentre in quelle di lui, più semplici ed impetuose, vibravano spesso gli accenti veri del cuore. La vita di Bice però era sempre così calma. Allora occupava quasi tutto il giorno con Giorgi a provare qualche pezzo di musica, o a discutere la grande edizione delle sue opere, per la quale ella stessa aveva offerto i fondi necessari; ma Giorgi sorpreso dagli scrupoli degli artisti, che tardarono troppo ad affrontare il pubblico, non sapeva più come scegliere fra così ricca varietà di scritti, coordinandone la serie in modo, che esprimesse egualmente il progresso della sua arte e lo sviluppo della sua idea.

De Nittis persuaso da Bice a preporvi uno studio critico sulla musica sacra, in una specie di prefazione al primo volume, sorrideva di quelle incertezze.

—Per conquistare la gloria tu stai per perdere la fede: perchè ricorreggi, amico mio?

Giorgi tremava.

—La gloria è difficile.

—Essa è l'ultimo amore, ma forse tradisce anche più crudelmente degli altri. Perchè la folla ci amerebbe più di un individuo? Essa non ci indovina che al terrore o al piacere, di cui la facciamo fremere, ma non ci può comprendere che morti.

—Nemmeno voi finirete dunque la vostra Storia di Dio?

—Non avete mai voluto leggermene nulla,—intervenne Bice.

—A che pro? tu sei nel primo amore, io e Giorgi abbiamo oltrepassato l'ultimo.

Bice credette di sentire nelle parole di De Nittis una sottile punta d'ironia. Dubitava egli della sua passione per Lamberto o, credendovi, la pungeva di amare con passione sì riposata? Certo la sua anima non aveva ancora provato alcuna di quelle commozioni, che sembrano mutare la nostra composizione spirituale; anzi le musiche di Giorgi la lasciavano spesso estenuata per lunghe ore, collo spirito natante in una pienezza di beatitudine, che nessuna lettera di Lamberto aveva ancora potuto darle. Di che dunque parlava quella musica? A chi parlava? V'era qualcuno, cui rivolgersi così, e che potesse rispondere? Questo slancio verso Dio era forse l'ultimo sforzo dell'amore umano inappagato o tradito? Amleto sulla fossa di Ofelia aveva lanciato a Laerte una sfida trionfante persino della morte; la Sulamitide, errando per la notte in cerca del proprio bello, aveva destato colle grida tutta l'immensa città: era quello l'amore?

Qualche sera il suo sguardo studiava lungamente il viso della contessa Ginevra, florido e tranquillo nell'ombra dorata del paralume. Aveva ella amato il conte Ramponi, giacchè Bice non avrebbe potuto supporle altri amori? Eppure non lo ricordava più: quel marito era dunque ben morto per lei. Forse i libri mentivano dipingendo l'amore come una tempesta di fiamme, nella quale gli spiriti andavano consunti, mentre invece nella vita quasi tutta la gente aveva tempo d'invecchiare dopo essere passata attraverso molti amori, e spesso a più di un matrimonio. Un'amarezza pessimistica le stringeva quindi il cuore dinanzi a tale immutabile prosaicità, che le impediva di provare con Lamberto una sola di quelle estasi così ben descritte nelle liriche dei grandi poeti; ma forse anche per loro tutte quelle visioni e quei suoni erano saliti dolorosamente verso un mondo più alto, come s'innalzano indarno verso il sole gli effluvi della terra.

I mesi più dolci per Bice erano quelli del mare e della campagna: Prinetti aveva una masseria vicino alla loro villa, De Nittis arrivava spesso in visita restandovi per intere settimane, mentre il dottore compariva appena qualche volta a pranzo, sempre d'improvviso, per ritornare subito ai propri ammalati. In quella salute dei campi anche Bice rifioriva. Il suo temperamento forse un po' frigido, lungi dal turbarsi all'immensa suggestione amorosa di tutte le piante, pareva invece farvisi più limpido e soave. Due volte Lamberto venne in permesso da Modena senza che Bice se ne mostrasse alterata: anzi il suo contegno affettuoso ma calmo mise l'altro in soggezione. Che cosa era accaduto? Il loro matrimonio non era già stabilito? Quando il discorso vi cadeva per caso, Bice ne parlava come di cosa avvenuta, ed egli non sapeva come replicare. Nullameno una volta, le disse che era diventata fredda e lo amava meno.

Ella lo guardò serenamente:

—Tu mi ami dunque di più?

—Sì,—rispose, avvolgendola in uno sguardo luminoso.

Ella abbassò la testa.

Quando si divisero, Lamberto tentò alla sfuggita di abbracciarla:

—Bice!

Ma il sopraggiungere della zia impedì loro di continuare.

Lamberto ne riportò una impressione assiderante, poi la vita all'Accademia lo distrasse, e finì col dirsi che forse era meglio così, trattandosi di un'amante che doveva sposare. Quindi a poco a poco la loro passione si raffreddò davvero in un affetto più tranquillo, quale veramente conveniva ad un matrimonio. Lamberto, credendosi sempre abbastanza amato, riposava sicuro sull'avvenire, Bice sembrava invece non pensarci quasi più; ma quando egli le comparve finalmente davanti nell'elegante divisa, a mostreggiature bianche, del reggimento Novara, trionfante nella propria giovinezza di soldato, del quale le armi erano ancor vergini e l'assisa appena una decorazione, Bice si sentì vinta di nuovo. Poi lo vide caracollare sotto le sue finestre, facendo spiccare al proprio cavallo inglese balzi prodigiosi fra l'ammirazione della gente, che si fermava a guardarlo.

Lamberto divenuto uomo aveva trovato senza sforzo quella superiorità maschile, davanti alla quale la donna soccombe quasi sempre. Questa volta Bice era innamorata, egli invece non le serbava in fondo al cuore che una grata benevolenza, col fermo proposito di farla sua moglie. Allora le lettere ricominciarono più frequenti, quelle di Bice quasi ardenti e con minori intenzioni letterarie, le sue invece artifiziose e galanti: ma nella vita più libera del reggimento egli poteva tornare più spesso a Bologna per restare con lei qualche giorno. Già da parecchio tempo il loro matrimonio non era più un segreto per alcuno, dacchè Lamberto stesso ne aveva parlato cogli amici, e suo padre se ne andava vantando per la città. I pareri oscillavano al solito per la troppa sproporzione delle ricchezze fra lui, sottotenente con forse duecentomila lire di patrimonio, se il babbo morisse a tempo, e lei che un giorno avrebbe avuto due milioni di dote: ma la simpatia, imposta dalla bellezza di Lamberto e dalla gioconda bontà del suo carattere, trionfò presto delle maggiori invidie. Poi una sposina così brutta poteva benissimo essere ricca.

I due anni assegnati per termine agli sponsali stavano appunto per finire, quando accadde a Lamberto quello sciagurato incidente al Gambrinus e il duello col tenente Ravizza, di cui al solito i giornali s'interessarono troppo.

Lamberto non aveva dubitato nemmeno un istante di Bice, sapendo di non essere molto più scapestrato dei propri compagni, e che quell'incontro con Ester, la celebre mima, era stato davvero un puro caso; ma nel discendere le scale del palazzo di Bice si diceva che tutto era perduto.

Il carattere della fanciulla era di quelli, sui quali è impossibile ingannarsi.

Tristemente, a testa bassa, uscì dal portone, e traversò la strada per voltarsi a guardare le finestre del gabinetto, nel quale la zia Ginevra riceveva da quindici anni quei vecchi amici; gli pareva che una catastrofe fosse accaduta lì intorno. La strada era quasi vuota; rimase immobile senza provare rimorsi, colla coscienza confusa che la sua vita mutava per uno di quei bruschi rivolgimenti, che ci lasciano soli nel mondo.

Attese ancora qualche minuto, poi accorgendosi che la gente l'osservava, se ne andò.

V.

L'impressione di quella rottura era stata fulminea in tutti.

La contessa Ginevra ne sofferse profondamente, poichè stimava Lamberto un buon ragazzo malgrado il giudizio severo, che ne aveva dato col dottore. Era impossibile del resto che un giovane ufficiale, bello, non trovasse a Roma motivi di galanteria in quella vita di reggimento fatta appunto di donne e di cavalli; e doveva quindi bastare che non s'innamorasse altrimenti, o trascorresse troppo oltre nel vizio compromettendo la salute dell'anima e del corpo.

Quella sera De Nittis tardò.

Bice affettava una disinvoltura nervosa gettando scintille di spirito ad ogni risposta, mentre il dottor Ambrosi l'osservava con quel suo sguardo pesante di medico, e Giorgi invece sprofondato in una tetra malinconia lasciava sfuggirsi qualche sospiro. Quel disastro di Bice gli rendeva più doloroso al pensiero l'avvenire della figlia non sua.

Solo la contessa Maria conservava la solita placidezza religiosa fra quella tempesta di interessi mondani; alla severità della sua coscienza Bice appariva ammirabile di giustizia avendo scacciato Lamberto, e sopportandone il dolore con tanta franchezza.

—Prepara il thè, Bice,—disse il dottore:—questa sera ho fretta.

—Avete dei malati gravi?

—Non più del solito.

Bice, aveva già suonato il campanello per ordinare al servo di portare il vassoio.

—Partirete subito?

—No.

La contessa Maria allora gli parlò di un'altra sua protetta: il caso era orribile, una madre tisica con due bimbi già colpiti dalla stessa malattia, e senza alcuna risorsa pecuniaria. Il marito, beone incorreggibile, li batteva tutti.

—Perchè non aspettiamo De Nittis?—domandò Bice disponendosi nullameno a preparare il thè.

—Tu sei andata subito dopo da lui.

Bice non rispose.

—De Nittis ti dirà….—e il dottore, che stava per prorompere, si voltò verso la contessa Ginevra come per cercare una ragione di frenarsi:—che importa? Tutte sentimentalità, le quali non servono a nulla nella vita: la virtù non può consistere nell'astinenza dal momento che la fame è un difetto. Se non si avesse della moralità un concetto così falso, vi sarebbero meno infelici e fors'anche meno furfanti al mondo.

Quest'allusione colpì tutti.

—Voi, contessa Maria, che siete qui l'individuo più religioso, rispondete voi; che cosa è la virtù?

A questa domanda ella alzò gli occhi dalla calza:

—L'amore.

—Risposta di donna.

—No,—disse Giorgi:—è l'anima che risponde così.

—Non è vero,—gridò Ambrosi:—l'amore è una legge della natura, colla quale essa mantiene la vita. La virtù, giacchè parlate di anima, dev'essere più in alto, nell'intelletto, che comprende la natura e sa farle quindi la sua parte. Se la natura fosse in difetto colle proprie esigenze, la colpa sarebbe allora di Dio.

—Dottore!—gli si volse la contessa Ginevra.

—Non mi dite che bestemmio, perchè non ne avrei l'intenzione. Io affermo solo che l'amore, come dice la contessa Maria, non è più quello, che conosciamo noi medici, e che tu, Prinetti, devi aver visto in Africa, dove non vi sono misticismi. Volevo dir questo, dal momento che l'amore è spirituale, non dovrebbe essere geloso della natura e prendere per una infedeltà ciò che essa eseguisce nella propria infallibile incoscienza. Dammi il thè, Bice.

La fanciulla si avanzò verso di lui colla tazza in mano.

—Dà qua,—egli esclamò, strappandole quasi la tazza con una bruscheria, che trasse un sorriso sulle labbra di tutti.

Prinetti intervenne.

—Ho visto la sultana di Ghera morire di gelosia. Era brutta, ma sovrastava egualmente a tutte le sue compagne di harem, ed amava Seid-Minka, un giovane soldato, che sposò una prigioniera del Turnam. Ella morì prima che il sultano ingelosito la facesse squartare; invece tagliò egli stesso la testa a Seid-Minka con un colpo di scimitarra. L'amore è uguale dappertutto.

Il dottore scosse la testa.

Bice si accorgeva di essere disapprovata. Quindi tutto il coraggio accumulato dalla sua alterezza morale in quella rottura le venne meno improvvisamente: le parve di aver avuto torto nel respingere Lamberto per un fallo, nel quale l'anima non aveva partecipato. Che le restava ora? Tutti quegli amici e la zia Ginevra, già ritirati dalla vita, la guardavano come spesso un gruppo di vecchi marinai s'incanta contemplando sul mare; la loro virtù era di esperienza e d'indulgenza. Ella invece doveva ancora affrontare la vita. Servì in giro tutte le tazze, poi andò a sedersi sul solito sgabello presso il camino, nel quale ardevano ancora rossastramente alcuni tizzoni.

Giorgi e Prinetti le vennero vicino, il dottore aveva socchiuso gli occhi.

Giorgi fu il primo a parlare, ma quella sera sembrava quasi ammalato. La sua voce stridula aveva tratto tratto certi suoni profondi, che rendevano più tristi le sue parole.

—Avete voluto essere sola?—le chiese.

Bice gli rispose di no cogli occhi; egli fece uno sforzo per rattenere una confessione dolorosa.

—Potete credermi, se ve lo dico, non si può essere soli nella vita. Gl'infelici, che rimangono tali, si rifugiano in Dio. Egli vuole talora che alcuni siano soli per i disegni della sua provvidenza, ma non bisogna ingannarsi sulla propria vocazione.

—No,—l'interruppe Prinetti,—Bice non vorrà rimaner sola. Se la colpa di Lamberto vi avesse offeso, avreste avuto torto di licenziarlo, mia cara: solo il perdono reciproco rende possibile la convivenza. Se invece vi siete accorta di non amarlo, appunto perchè non ne avete sofferto abbastanza, allora non vi è nulla a ridire. Il matrimonio può durare senza amore, quando vi sono figli, ai quali sacrificarsi, ma non si può contrarre senza amore, Sarebbe una degradazione.

La fanciulla si sentiva violentata da queste spiegazioni troppo religiose: la sua anima ancora in preda ad un orgasmo passionato, avrebbe avuto d'uopo di riposo per comprendere meglio sè medesima. Invece la necessità di rispondere subito le dava una dolorosa irritazione; s'accorgeva di dover mentire, non sapendo bene neppur essa perchè avesse scacciato Lamberto.

Ma tardò.

Allora Prinetti le parlò del nuovo libro di Stanley, l'illustre viaggiatore inglese partito alla ricerca di Livingstone, che egli aveva già letto, e nel quale aveva trovato molti errori e non poche bugie. Ciò lo riconfermava nel proposito di non scrivere mai le proprie memorie di viaggio, perchè il bisogno di divertire i lettori e la naturale superbia inducevano inevitabilmente a mentire, mentre l'utilità di tali viaggi rimaneva solo nelle idee e nei sentimenti propagati fra i selvaggi.

Propose quindi a Bice di venirglielo a leggere: lo avrebbero commentato insieme.

Giorgi non parlava più. Da due giorni sua moglie era fuori di casa, colla figlia, in una continua baldoria coll'amante. Egli aveva trovato la casa deserta e il proprio letticciuolo senza materasso; la moglie, che occupava colla fanciulla il grande letto matrimoniale, glielo aveva senza dubbio venduto. Giorgi dormiva in uno stambugio, dietro la cucina; non aveva che quel vecchio canapè e un pianoforte verticale.

Bice indovinando in lui qualche nuova disgrazia gli prese una mano.

Ma egli si schermì, non voleva offendere le pure orecchie della fanciulla con quel racconto.

Il dialogo tornò a languire. Malgrado l'intimità di un'amicizia, dinanzi alla quale non vi avrebbero dovuto essere segreti, ognuno serbava per sè stesso i più dolorosi; Prinetti non parlava mai della cognata caduta nella più ignobile miseria, e alla quale dava nascostamente metà della propria piccola rendita, ricevendone per compenso l'augurio di morire presto per poterle così cedere il rimanente. Giorgi da quindici anni era tuffato nel pantano della propria casa, con una moglie dissoluta e plebea, che lo bastonava allevando l'unica figlia nella crapula, mentre egli salito ad una seconda vita religiosa scriveva segreti capolavori coll'inguaribile tristezza degli artisti non visitati dalla gloria. Bice aveva arrestato bruscamente il corso della propria vita con una di quelle risoluzioni, delle quali la cicatrice non si chiude forse più.

La fanciulla fu la prima a reagire contro sè stessa. In quella impossibilità di parlare propose a Giorgi di aiutarla a dipanare alcune matassine di seta, delle quali si serviva per ricamare quel manipolo al parroco di Sasso. Prinetti stesso le aveva disegnato per questo alcuni meravigliosi fiori africani.

Bice andò ella medesima a prendere il piccolo telaio per mostrarglieli.

Infatti i loro calici di una vera bellezza orgiaca, screpolandosi sotto la pressione di un turgore febbrile, lasciavano spiovere i petali stancamente, coi pistilli tremolanti nei colori più vivi delle gemme. Giorgi si sentì turbato dinanzi alla voluttà spasimante di quei fiori.

—Non sono così, non sono così,—ripeteva Prinetti, ricorreggendoli nella propria memoria.

—Mi avete pur detto che il sole laggiù è un incendio.

Ma la sua faccia stessa si scomponeva.

—Prendete, Giorgi,—disse vivamente, gettandogli una matassina intorno alle palme congiunte.

La serata diventava sempre più triste, il dottore andò via presto, poco dopo anche Giorgi e Prinetti lo seguirono. Quando De Nittis entrò, le tre donne erano intorno al tavolo da giuoco ingombro di modelli in carta e di ritagli di mussolina.

—Ho trovato Marco Minghetti per via Farini,—-egli disse, quasi per scusare il proprio ritardo:—l'illustre uomo è molto malandato, forse non passerà la primavera.

Questa notizia impressionò la contessa Ginevra, che lo aveva molto conosciuto a Firenze.

—Giudicate dunque il suo caso così disperato?

—Egli stesso lo sente. Sono rimasto un'ora nel suo gabinetto: lavora alla relazione sul Catasto, uno studio lungo e difficile, che stancherebbe più di un giovane, e nel quale egli si accanisce coll'eroica ostinazione dei morenti. Sarà la sua ultima gloria, quella che il pubblico intenderà meno.

Poi parlarono d'altro, ma si capiva che stavano per affrontare un tema più difficile. Bice era tornata al vassoio per preparargli il thè, mentre egli già seduto sul solito seggiolone si scaldava i piedi ai pochi tizzi del camino.

La contessa Ginevra era uscita, la contessa Maria invece venne a sedersi colla propria poltrona presso di lui, e guardò all'uscio come aspettando che la contessa Ginevra rientrasse.

—Lamberto ha scritto?—chiese De Nittis a Bice seduta a testa bassa sullo sgabello.

Ella gli porse la lettera.

—La conoscete?

—Sì.

Egli la scorse. Senza umiliarsi scioccamente a domandare scusa,
Lamberto spiegava quell'incidente riaffermando il proprio affetto per
Bice con una sincerità, alla quale era impossibile ingannarsi. De
Nittis rimase meditabondo.

La sua bella testa esprimeva adesso una profonda melanconia; davanti a questa fanciulla, che ritraeva il piede dalla soglia soleggiata della vita per rientrare nell'ombra di una giovinezza sterile, egli sentiva diventare più dense le tenebre del proprio tramonto.

—Le avete parlato voi, contessa Maria?—disse quasi per ritardare così la propria opinione.

—Se lo vuoi, Bice, ti dirò quello che penso,—ella rispose:—Lamberto non ti ama.

La risposta era così cruda che tutti trasalirono.

—Lo conoscete dunque più di noi?—proruppe quasi piccata la contessa
Ginevra.

—No certamente,—ella ribattè con quella sua profonda umiltà, che disarmava tutte le collere:—ma non credo che si possa amare in due modi.

De Nittis ebbe un sorriso.

—Pensaci, Bice,—proseguì la zia Ginevra,—prima di ostinarti in questa risoluzione. Tu non sai ancora abbastanza la vita per condannare inappellabilmente il primo atto che ti offende.

—Non condanno.

—Che cosa farete?—intervenne De Nittis coprendola d'uno sguardo, del quale ella sentì tutta la penetrazione.—Eccovi al punto, in cui dovete giudicare per la prima volta la vita; qualunque sia stato il sogno delle vostre relazioni con Lamberto, adesso v'accorgete come anche i sogni avvengano dentro la realtà, la quale vi entra solamente per scomporli. Un'altra donna è già passata sulla traccia, che credevate di percorrere sola, lasciandovi forse un profumo, che attirerà altre donne. La vita è così: nessuna via vi è talmente individuale che gli altri non vi mettano il piede.

La contessa Maria stava per protestare, ma De Nittis la prevenne.

—So quello che vorreste obbiettarmi, contessa: nelle vie del Signore nessuno può contenderci il passo. Dimenticate dunque che in tutte le vite di santi i demonii si affollano intorno ad essi per farli deviare? La nostra vita non può conservare la sicurezza della propria solitudine: noi attraversiamo quella degli altri, ed essi attraversano la nostra; nessuno appartiene così a sè stesso da concedersi intero ad un altro. Non bisogna considerare tradimento la deviazione di un istante, dalla quale l'anima ritorna più innamorata.

—Più innamorata!—ripetè amaramente Bice.—Siete voi, che dite questo?

La sua voce era così stridula che le due donne si volsero meravigliate.

—Non credete dunque che Lamberto vi ami?

—No,—ribattè con accento rigido.

—Non vi ha nemmeno mai amato?

—Io sono brutta.

Questa ragione cadde su loro pesantemente.

—Ne convenite, adesso?—ella proseguì.—Lamberto è bello, sarà stato amato per questo, e non ha potuto resistere. Perchè dovrei lagnarmene io? Non dico che egli abbia finto di amarmi, perchè sono ricca; molti altri nel suo caso mi avrebbero forse considerata da questo punto di vista, egli invece si avvezzò da fanciullo a volermi bene. Eravamo come fratello e sorella, anche lui era quasi orfano. Forse la mia estrema debolezza destò la sua prima pietà.

—Lo amate voi?—interruppe De Nittis.

La fanciulla ebbe una violenta contrazione: allora De Nittis continuò.

—Eppure Lamberto è bello! Un altro vi avrebbe fatto pesare sul cuore questa sua superiorità; egli invece ve la offerse come un compenso a quella del vostro spirito. Se lo amate…. siate sincera, Bice,—esclamò:—ditelo francamente. Noi siamo qui per aiutare la vostra vita, nella quale abbiamo tutti un carato, perchè noi vi amiamo, fanciulla mia…. di questo almeno non dubiterete.

Le sue ultime parole tremarono di tenerezza.

—Lo amate, via….

—No,—ella rispose sollevando il capo.

—Non amate dunque la bellezza?

Ella si alzò nervosamente per andare al vassoio, come se vi avesse dimenticato qualche cosa, ma si accorse tosto della puerilità del pretesto. Quando Bice si volse, De Nittis, in piedi anch'egli, appoggiato colla schiena al camino, la considerava con uno sguardo profondo.

—Sarete sola.

—Non sono io vecchia come voialtri?

—Eh! fanciulla mia, la vecchiaia è anche peggiore della solitudine.
Adesso ricusate Lamberto per una colpa….

—Non è questo.

—Ebbene, forse un giorno potreste rassegnarvi ad accettare un uomo meno buono e meno bello di lui.

—Se mi amerà.

De Nittis invece di rispondere ebbe un pallido sorriso.

—Non credete che si possa essere amati?—ella chiese.

—Voi volete l'amore delle anime, quello che non può tradire.

—Anche voi,—intervenne la contessa Maria,—ne convenite dunque: solo la religione ce lo riserva.

—Avete sentito, Bice?

La conversazione parve impacciarsi di nuovo, la contessa Maria era contenta, ma la zia Ginevra rimaneva preoccupata. Evidentemente il carattere della fanciulla le dava serie apprensioni: Bice invece, come sollevata da un gran peso, pareva ridivenuta tranquilla.

—Hai dunque deciso?—le domandò un'altra volta la contessa Ginevra.

—Se non volete voi stessa ordinarmi quello che debbo fare: allora ubbidirò.

—Povero Lamberto!—sospirò l'altra stringendosi nelle spalle.

Bice aveva già riempito una seconda tazza di thè per De Nittis, mentre il servitore della contessa Maria entrava nel salotto colla pelliccia della padrona; le due signore uscirono assieme in anticamera.

La fanciulla si era seduta sullo sgabello dinanzi a De Nittis: egli le stese una mano sui capelli.

—Testolina!

—Perchè mi avete fatto diventare così? Adesso dovete tenermi come sono.

—Non lo vuoi, Lamberto?

—No.

—Vuoi nessun altro?

Ella non abbassò gli occhi davanti ai suoi.

—Me lo dirai quando la cosa sarà ben decisa; guardati dallo sceglier peggio,—e depose anch'egli la tazza sul camino per andarsene.

La fanciulla lo seguì nell'anticamera, dove le due signore chiaccheravano ancora.

Quando zia e nipote rimasero sole, si abbracciarono singhiozzando.

Ma la vita di Bice peggiorò da quel giorno. Malgrado le attenzioni affettuose de' suoi vecchi amici, ella sofferse qualche tempo dei pettegolezzi provocati dalla rottura del suo matrimonio con Lamberto, la quale interessò vivamente tutte le cronache cittadine. Bice era così ricca che il suo caso diventava tipico per tutte le giovinette della sua età. Naturalmente non mancarono i soliti saggi a criticare quella sua strana educazione, adesso così spiacevole ai primi frutti: si diceva che Bice credendosi un genio non aveva lusingato Lamberto che per il piacere di umiliarlo. Questo primo scontro col mondo esasperò il carattere della fanciulla.

Ma rinunciando a Lamberto era caduta come in un grande vuoto. Le giornate le parevano più lunghe, senza scopo: a che pensare? Che cosa potrebbe accaderle? L'avvenire non diventava più che una ripetizione del presente, indistinta e monotona nell'inutile durata del tempo. Quindi le ritornava quella debolezza di malata, con un pallore più cereo sul volto, cogli occhi opachi e una lassitudine anticipata di ogni moto, che la lasciava per lunghe ore muta sulla poltrona daccanto la zia. Colla terribile facoltà degli spiriti meditabondi, abituati a divorare sè stessi, ella prendeva allora uno per uno i propri giorni per dissolverli nell'amarezza di un pessimismo rassegnato. La sua vita non aveva ancora avuto nulla, nè padre, nè madre, nè fratello, nè amante; perchè dunque vivere? Per distrarsi si mise a frequentare i teatri, ma la sua eccellente coltura artistica la disgustò presto di melodrammi e di commedie, nelle quali il pubblico non cercava più che il divertimento di un'ora. La grande arte era dunque finita o almeno aveva disertato le scene per rifugiarsi nei libri. E dappertutto, ai passeggi, ai teatri, nei pochi salotti, ove andava colla zia, erano gli stessi discorsi, la solita passione dei piccoli interessi, trionfi di abiti o di maniere, un lusso vacuo e sonoro, del quale lo stordimento formava tutta la felicità.

Allora tornava a chiudersi per intere settimane in casa con la malinconia dei vecchi, che sentendosi respinti si preparano alla solitudine della morte nell'isolamento, finchè una conversazione spirituale de' suoi amici la soccorresse nuovamente coll'orgoglio d'un mondo più alto. Ed ella vi si precipitava come un fuggiasco in un impeto di liberazione, sebbene nella limpida purità di quei paesaggi ideali nessuna voce rispondesse agli appelli segreti del suo cuore. Solamente De Nittis, sempre così bello ed elegante nella sua verde vecchiezza, riscaldandosi in certe tesi favorite, le comunicava talora un indefinibile turbamento.

Giorgi invece declinava a vista d'occhio.

Anche il suo ultimo orgasmo d'autore era vanito nella grandezza della morte imminente. Una tosse secca e profonda gli scuoteva il petto, mandandogli un rosso effimero e di mal augurio sul volto, mentre la voce così stridula una volta gli si faceva ogni giorno più appannata. Ormai quel soprabito color nocciola, così abituato al suo corpo, non si abbottonava più che sopra un'ombra. In casa della contessa Ginevra il cordoglio fu intenso, molto più che Giorgi consapevole del proprio stato ricusava per una suprema alterezza di artista ogni soccorso.

Una mattina arrivò da Bice sulle undici. Era una giornata d'aprile calda e snervante. Entrando nel salotto cadde quasi sopra una poltrona, ma quando Bice avvisata dal cameriere corse a salutarlo, si era già rimesso; solamente un sudore perlaceo dava alla sua fronte gialla una lucentezza di avorio vecchio. Ricusò il thè, e cavandosi di tasca un rotolo di carta disse:

—Andiamo nel salone.

Appena vi furono entrati, la tosse lo riprese.

—Io non posso, non posso….—ripetè con voce rotta mostrando il pianoforte.

Bice spiegò il rotolo, era un De Profundis. La fanciulla sentì una stretta al cuore indovinando in quella estrema preghiera l'ultimo grido della sua anima, alla quale forse il genio aveva dato la chiaroveggenza e la gloria aveva negato la luce. Giorgi si era seduto sopra uno dei quattro divani dorati, dietro il pianoforte, colla testa sul petto e gli occhi chiusi. Il suo respiro era lento.

Bice appoggiò la carta sul leggìo e ne scorse attentamente le note. Il tremendo salmo biblico, nel quale l'anima sembra lagnarsi ancora dinanzi al terrore dell'imminente giudizio divino, diventava invece una sommessa invocazione di pellegrino al termine del viaggio, colla stanchezza consolata dalla prima apparizione della meta.

Bice era vestita di bianco. Nel salone giallo e oro solo il grande pianoforte era nero, mentre dalle finestre spalancate il sole entrava accendendo miriadi di fiammelle su tutte le dorature e riempiendo l'aria di un pulviscolo rutilante. Una emozione di pianto rattenuto contrasse la bocca della fanciulla alle prime battute. Ma quella musica, lenta come il corso di un gran fiume quando sbocca nel mare, calmò anche il suo spirito in una mestizia rassegnata ed insieme anelante al gran riposo; poi le poche voci, che sembravano tratto tratto voler prorompere da quella preghiera, finirono come nel soffio di un sospiro, mentre le ombre cadenti da ogni lato confondevano cielo e terra. Solo l'ultimo accordo sui bassi parve sprofondarsi nelle tenebre col fragore di un supremo spavento.

Giorgi era già in piedi; riprese dal leggìo la carta, la ripiegò, e se la pose in tasca senza parlare.

—Vi sentite male?—ella chiese ansiosamente.

Egli le rispose con un sorriso.

—Cercherò di venire stasera.

—Perchè non restate a pranzo?

—È un pezzo che non mangio più.

Bice non ebbe il coraggio d'insistere, quindi fece tutti gli sforzi per non piangere accompagnandolo sino all'uscio dello scalone: adesso sapeva che Giorgi aveva voluto sentir suonare da lei il proprio De Profundis. La sua commozione diventò così intensa che capì di non doverne parlare con alcuno.

Ma la sera interrogò abilmente il dottor Ambrosi nella propria camera. Questi lo visitava già in secreto da parecchio tempo, quando la moglie e la figlia erano fuori, senza averlo mai potuto persuadere ad abbandonare quella casa. Forse un sublime orgoglio di martire gli proibiva così di disertare il proprio posto, o una più dolorosa tenerezza lo affezionava a quello stambugio, nel quale aveva tanto sofferto da quindici anni, trasfondendo il secreto dei propri patimenti nel secreto più alto di una musica sacra. Al momento di morire sconosciuto tutte le condizioni della vita dovevano quindi parergli pressochè uguali: solamente quel terrore infantile ed invincibile della moglie gli durava ancora, mantenendolo nella stessa soggezione incondizionata, che la sua natura di sensitiva aveva sempre provato dinanzi a lei.

Ma Ambrosi non disse altro alla fanciulla.

—È dunque impossibile aiutarlo!—questa esclamò torcendosi le mani.

L'altro tacque.

Giorgi tornò ancora un'ultima volta con Prinetti, che essendo riuscito ad ammansire la moglie colle proprie maniere popolane, poteva andarlo a trovare quasi tutte le mattine; ma ogni soccorso sarebbe stato già indarno. Da molti mesi Giorgi moriva lentamente d'inanizione, non sorbendo oramai più che qualche cucchiaio di vino dalle vecchie bottiglie, che il dottore gli rinnovava tutte le mattine, perchè la moglie e la figlia ne bevevano il resto. Quindi Prinetti aveva dovuto suggerirgli di mandarne sei per volta, più di quanto le due donne potessero ingollarne anche ubbriacandosi. Giorgi s'era messo a letto, ma vi stava quasi sempre seduto, entro una vecchia giacca; il piccolo pianoforte verticale, di legno rossiccio, sorgeva all'altro lato presso la finestra.

—Ma se si offendessero di vedervi sempre qui!…—egli diceva tutte le volte a Prinetti tremando.

La malattia non fu lunga.

La sera dalla contessa Ginevra non si parlava d'altro; tutti erano desolati per l'impossibilità di poterlo confortare dopo che Prinetti imprudentemente aveva descritto loro quella casa immonda e quasi sempre deserta; ma Giorgi per un ultimo tragico pudore di artista avrebbe troppo sofferto nel ricevervi qualcuno. Moriva solo, nel deserto.

Bice piangeva. La verginità del suo cuore non poteva rassegnarsi a quel finale di una così alta vita nell'abbandono di tutti, fra l'immonda brutalità di due donne, che si ubbriacavano. Ella avrebbe voluto almeno dargli il conforto di sentirsi amato sino all'ultimo di quell'amore spirituale, che aveva indarno riempito la sua vita, innalzandosi colla musica sino a Dio, come un olezzo di fiori sbocciati troppo in alto, sulla montagna al disopra di tutti gli sguardi.

Quindi gli mandava ogni volta una letterina per Prinetti o per il dottore.

Questi riuscito finalmente ad imporre un certo rispetto alle due donne col visitare qualche altro ammalato fra i vicini, sollevandovi naturalmente lunghi pettegolezzi di elogi, poteva adesso venire tutti i giorni; ma la sua stessa celebrità, accrescendo l'importanza dell'infermo, diventava una critica al modo, col quale era tenuto, e Giorgi spaurito lo pregò di venire più di rado.

—Ti hanno dunque strapazzato anche per questo?

Il viso cadaverico di Giorgi espresse un terrore così doloroso, che l'altro si voltò per non mostrare di piangere.

Poi si sedette presso di lui. Il canapè non aveva che un cencio di coperta turchina, usata forse come tappeto da tavolo in altri tempi, e un cuscino sucido; di faccia, sopra una piccola cassa, nella quale stavano i pochi panni, si vedevano i suoi due stivaletti ancora infangati.

Ma siccome Giorgi non parlava, Ambrosi guardò all'orologio fingendo di avere qualche visita urgente.

—Credi che il mio stomaco sopporterà la Santa Comunione?—l'altro domandò con voce spenta, tendendogli la mano scheletrita.

—Sì, sì.

Tre giorni dopo Prinetti trovò nella cucina le due donne col garzone da macellaio intente, a riempire una sporta colle bottiglie mandate dal dottore; si trattava di una gita in tramvay sino a Casalecchio.

Prinetti non mostrò alcuna ripugnanza.

—Staremo via poco,—disse la moglie;—ieri sera si è confessato, ma non sta peggio del solito.

—Già…. resto qui io, fate pure.

Il garzone del macellaio gli chiese uno sigaro, Prinetti gli vuotò invece nelle mani l'astuccio delle sigarette.

—Queste le fumeremo noi,—esclamarono ad una voce mamma e figlia.

Egli passò nello stanzino e trovò Giorgi sentoni sul letto, più cadaverico; doveva aver udito tutto perchè, vedendogli sul volto la nausea di quella scena, sorrise.

—Ti aspettavo.

Poi chiuse gli occhi. Si intese ancora chiacchierare e ridere nella cucina con un fracasso di sedie come per la partenza, ma ci volle un altro grosso quarto d'ora prima che se ne andassero.

Il respiro di Giorgi era appena sensibile: stavano tutti e due immobili, quando Giorgi riaprendo gli occhi barcollò, e Prinetti vide che la luce vi si era oramai spenta. Allora spaventato balzò in piedi per sostenergli la testa fra le mani, ma nel dubbio di fargli più male l'appoggiò nuovamente al muro, lasciandola piegare a poco a poco sulla spalla destra.

Passò almeno un'altra ora. Nello stanzino l'aria aveva un cattivo odore di cenci, perchè la piccola finestra non si apriva quasi mai; poi i suoi vetri sporchi lasciavano passare un lume triste. Giorgi non si muoveva. L'altro sempre intento nel suo volto si sentì salire improvvisamente dal fondo della coscienza quella inesprimibile verità della morte, contro la quale lo spirito non protesta più come dinanzi all'infinito.

Che ora era? Prinetti ebbe la violenta sensazione di questa domanda nell'ombra sempre più densa, che aveva già riempito tutto lo stanzino.

Giorgi rinvenne.

—Che hai?—chiese l'altro premurosamente.

—Muoio….

E rinchiuse da capo gli occhi. Prinetti rimase in piedi. L'altro era sempre così, col viso scheletrito, di quel giallo cinereo, che solo certi morti hanno. Teneva le mani sulle coperte, immobili.

—Mio Dio!—pregava mentalmente Prinetti vedendo le sue labbra agitarsi nello sforzo di un'ultima parola.

Giorgi mormorò:

—Bianco…. bianco!

Poi la visione del primo cielo gli si interruppe.

VI.

Nel mese di maggio Bice era a Roma con De Nittis e la zia Ginevra.

Altri dolorosi avvenimenti avevano dispersi i pochi amici di quel salotto. Prinetti aveva dovuto tornare a Bazzano come tutore dei nipoti dopo la morte improvvisa della loro madre e la fuga del padrigno, che l'aveva poco prima abbandonata, vuotandole la casa: ma vi rimanevano tre figli, due maschi e una bambina, il maggiore dei quali non toccava ancora i quindici anni. Prinetti, che si era già lasciato mungere dalla cognata più che mezzo il proprio patrimonio, pur non ingannandosi nel giudicarla, doveva adesso mutarsi in padre di quegli orfani per avviarli ad un mestiere. Senza esitare ritornò quindi a Bazzano, ove ella aveva finito coll'aprire una bottega di pizzicheria. Era un sacrificio di tutte le sue squisite spiritualità, senza nemmeno una speranza di risultato, perchè i ragazzi mostravano già una precoce perversità di carattere.

—Sarà la mia ultima campagna d'Africa, disse nell'accomiatarsi dalla contessa Ginevra.

—Ma non tornerete proprio più a Bologna?

—Mi pare difficile: la bambina e il fratello minore, hanno meno di dieci anni, io non posso vivere tanto da non essere più il loro tutore. Così non avranno il tempo di essere ingrati.

Fu l'unica lagnanza, sapendo che quegli orfani malgrado tutte le apparenze legali non erano suoi nipoti.

Poi la contessa Maria andata a Milano per assistervi l'unica sorella colpita da una paralisi progressiva, vi era rimasta per tre mesi, e vi ritornava spesso, vinta dalla tenerezza, appena in casa potesse disporre di qualche giorno.

Nel salotto della contessa Ginevra non venivano più che De Nittis ed Ambrosi. Tutto vi pareva invecchiato; la contessa, diventata più grassa, si appesantiva anche nello spirito: le sue stesse maniere in quel contagio della volgarità provinciale, e sopratutto nell'assenza di ogni più alta preoccupazione, ridivenivano quelle di un tempo, quando fanciulla non era ancora uscita di Bologna. Il mondo cominciava a scordarla senza che ella lo indovinasse più coi begli occhi limpidi ed acuti di una volta.

Quindi si abbandonava giorno per giorno alle tentazioni della gola malgrado i frizzi affettuosi di Bice e le rimostranze di Ambrosi; Bice invece era sempre così magra, ma di quella severa e fine eleganza, colla quale aveva spesso trionfato di tutte le compagne, non le rimaneva che l'abitudine di certi tagli più semplici, quasi senza alcuna femminilità d'intenzione. Solo a certi particolari, nella finezza delle scarpe e dei guanti, nel lusso quasi eccessivo delle biancherie e delle pelliccie, il suo gusto signorile rivelava ancora la donna.

Per sei mesi aveva lavorato con De Nittis al compimento della grande edizione, abbandonata in ultimo dal povero Giorgi, trovando per essa in Germania il medesimo editore, che pubblicava finalmente le opere del Palestrina; poi quello studio musicale, sviluppandole una intensa passione per la primitiva arte cristiana, l'aveva trascinata anche più lungi dal mondo. Nell'ammirabile rinnovamento, operato dal cristianesimo su tutta l'arte antica, la sua anima di fanciulla era stata vivamente colpita dalla originalità dei due nuovi tipi, la vergine e il cavaliere. Come la prima Maria, quella accettava il sacrificio di sè stessa per la vita dell'uomo, ma la sua castità invece di essere una riserva, nella quale l'amore accumulasse i propri tesori per gioirne in una festa più intensa, era una ripugnanza a tutte le pretese della carne, che aveva già una altra volta perduta miseramente l'umanità. Come la vergine, il cavaliere doveva conservarsi puro per essere forte, e la sua milizia sotto l'insegna invincibile della croce era una vigilia continua nell'armi, aspettando che le fanfare della vittoria squillassero in cielo coi primi fuochi dell'alba. Egli poteva amare solamente come combatteva, perchè dal suo amore colla vergine altre vergini ed altri cavalieri nascessero a mantenere la vittoria di Dio.

Ma in questo concetto troppo tragico ed ideale della vita naturalmente ogni bellezza era perita. Solo il volto come rivelazione dell'anima aveva potuto rimanere bello, mentre il corpo ammalato della propria carne si era mutato per lo spirito in uno istrumento di redenzione contro il peccato. Nel suo inconsolabile dolore la primitiva arte cristiana aveva chiuso occhi ed orecchi alla natura: tutto vi aveva espresso la morte, le chiese erano sotterra, le cronache sanguinavano di martirii, i dogmi non minacciavano che dannazioni. Poi al rallentarsi delle persecuzioni il tempio salito sulla terra era rimasto egualmente chiuso alla bellezza. I santi incollati come cadaveri sulle sue pareti parlavano con una scritta fuori delle labbra, il crocifisso era il loro tipo, e la morte sola il perchè della loro rappresentazione, mentre le vergini sporgenti da un sacco, segnato con uno sgorbio, non mostravano che i piedi e i visi piatti del pari. Perchè sarebbero state belle?

Ma la bellezza tornò.

Invano il pessimismo cristiano vantandosi di farne a meno, poichè la verità stava nel mondo dello spirito, dal quale Cristo era disceso per morire, aveva permesso per molti secoli alla morte di spiegare tutta la pompa della propria magnificenza, mentre lentamente e mutamente, come passano l'aria e la luce, la bellezza rientrava giorno per giorno nella religione dietro al trionfo della Maddalena.

Quindi l'amore umano ricominciò fra la vergine e il cavaliere entro un quadro più giocondo, ma con tutte le nostalgie dell'amore divino, per diventare a poco a poco il nostro amore moderno nella tragedia anche più inconsolabile di non poter essere casto, e di pretendere dal contatto delle carni quella fusione, che solo lo spirito può realizzare in sè stesso.

Con analisi fine ed animatrice De Nittis spiegava a Bice il formarsi del romanticismo, la cavalleria e i suoi codici d'amore, i poeti solitari, il dramma immenso del monachismo, e quella idealità data dalla Chiesa a tutti gli atti della vita fra un mareggiare di invasioni e una tormenta di guerre, nelle quali si concepivano i sonetti più puri e si disegnavano i più immateriali profili. Però l'amore rimaneva sempre ideale: vergine e cavaliere potevano o non raggiungere o non mantenersi all'altezza del proprio tipo, senza che quella luce cessasse mai di risplendere anche nelle più depravate coscienze, come il Cristianesimo brilla ancora in fondo all'anima del popolo, che oggi si vanta così incredulo.

—La voluttà troverà sempre la propria ultima potenza nella castità.

A questa formula Bice lo aveva guardato, ma De Nittis quasi pentito si affrettò a soggiungere:

—Nemmeno il Cristianesimo soccombendo all'antitesi della carne collo spirito, fra il mondo dell'uomo e quello di Dio, ha potuto risolvere il problema dell'amore. Il tuo Lamberto, ecco l'ultima trasformazione del cavaliere.

Bice fu punta da questa ironia.

—Perchè non dite anche, che io sono l'ultima vergine bizantina?

—La piaga del tuo cuore non è ancora rimarginata.

—Non capite niente,—esclamò alzandosi per uscire.

De Nittis rimase interdetto da questa brusca violenza. Poi avendo ricondotto il discorso sull'editore tedesco, il quale esigeva un'altra cerna di tutte le musiche di Giorgi per non presentarne al pubblico che le più tipiche e le migliori, Bice l'interruppe ancora per chiedergli se avesse finito di scrivere quella prefazione. L'altro sorrise scusandosi: allora ella si offerse di aiutarlo.

—Non sarà troppo difficile?—domandò con accento umile di bambina.

—Nemmeno io so dirtelo. Vi sono ricerche, nelle quali certo potresti aiutarmi, ma ti stancherebbero senza divertirti.

—No, no: lasciatemi venire col mio abito da mattino come un'operaia, poi mi darete il cómpito per tutti i giorni.

—Tutti i giorni!—egli esclamò.

Bice fece una moina di sommissione.

De Nittis rimaneva perplesso: Bice tornò a rannuvolarsi, le lagrime le gonfiavano nuovamente gli occhi.

—Lo vuoi proprio?

—Non posso volere con voi.

La mattina seguente Bice arrivò in casa di De Nittis alle dieci e mezzo; egli stava ancora nella saletta da pranzo, a tavola, leggendo il giornale. La fanciulla, che aveva rimandato il servitore alla porta, diede subito con un sorriso la mano alla governante.

—Margherita, vengo anch'io a lavorare con voi.

—Lei, signorina!—proruppe l'altra sgranando gli occhi, mentre l'aiutava a cavarsi il cappellino.

La fanciulla si guardava attorno con aria ilare. Nella saletta non v'erano che la tavola ed una credenziera, piena di piatti e di bicchieri, con alcune seggiole: presso alla finestra un treppiede di vimini sosteneva il cestino da lavoro di Margherita. De Nittis, che doveva ancora prendere il caffè, ne ordinò un'altra tazza per Bice.

—Oggi, che avevo vacanza all'università, dovrò dunque lavorare con te?

—Ne sareste già pentito, maestro?

—Tu stessa te ne pentirai.

Ella ebbe un sorriso di sfida.

Poco dopo entrò anche Tonina, la cuoca. Le due donne avevano quasi la stessa età e il medesimo tipo, solamente Tonina era più secca; ma il loro viso di bionde, una volta senza bellezza, aveva già quella calma speciale delle zitellone, cui nulla turba più da molto tempo in una vita ridotta al minimo delle funzioni. Tonina cucinava, Margherita teneva in ordine la casa composta di poche stanze, un salotto da ricevere, la saletta da pranzo, lo studio e la camera del professore. Esse dormivano assieme, sul medesimo letto, come due sorelle, in una stanza attigua alla cucina. Ma Tonina ubbidiva in tutto a Margherita. Infatti questa aveva maniere più distinte, tutte due erano devote.

Tonina s'avanzò con una certa titubanza, ma l'altra chiese disinvoltamente a Bice se sarebbe rimasta a pranzo.

Bice non sapeva come rispondere.

—Non creda, signorina, che sarà un pranzo come a casa sua.

—Mia cara Bice,—disse il professore,—dal momento che vi si invita potete farle l'onore di accettare: qualche volta che io mi sono permesso di condurle un collega a pranzo, sono stato invece sgridato.

—Perchè lei fa sempre così,—ribattè Margherita:—i pranzi non s'improvvisano mica.

Ma sibbene la risposta fosse quasi rude, si sentiva nella voce grossa della vecchia una deferenza affettuosa verso il padrone.

—Poichè la signorina accetta,—seguitò Margherita volgendosi a Tonina, che si tormentava il grembiule bianco, dritta, impalata,—farai quello che ti ho detto.

Bice si sentiva già circondata da una ammirazione piena di simpatia. Se lo avesse osato in quella prima volta, si sarebbe offerta di lavorare anch'essa in cucina per divertirsi del loro stesso imbarazzo, preparando qualche sorpresa al professore; ma la placidezza di quelle due donne le imponeva rispetto.

De Nittis aveva ripreso il giornale, mentre Margherita finiva di sparecchiare. Allora Bice uscì con lei per visitare l'appartamento, del quale non conosceva che il salotto di ricevimento e lo studio. Tutto vi era tenuto con pulizia meticolosa, senza traccia di lusso: il salotto non aveva che un sofà ricoperto di lana verde, un tavolino rotondo nel mezzo con un vaso di fiori in cera sotto una campana di vetro, e due antichi canterani dai piedi alti, colle maniglie di ottone lucenti come oro. La camera da letto pareva quella di un frate; non v'era che un piccolo canapè in ferro colle coperte e coi cuscini di un candore virginale, un vecchio e largo armadio da biancheria, in un angolo un portacatino di ferro con due grandi brocche bianche allato, e un minuscolo specchio rotondo attaccato alla spagnoletta della finestra, presso la quale il professore si radeva la barba. Due pantofole, ricamate in lana a colori vistosi, attendevano sul tappeto, a fianco del letto: presso la finestra, sopra un tavolino, entro un bacile di vetro, si vedevano i pettini e le scopette da testa.

Bice notò l'assenza di ogni immagine religiosa.

—Il professore non ne ha mai voluto:—rispose Margherita.

Ma con improvvisa fiducia nella fanciulla la condusse al letto e, sollevandone il materasso, le mostrò un quadretto con una piccola madonna.

—Egli non lo sa!—esclamò trionfalmente.

Poi diede devotamente un bacio sulla immagine porgendola a Bice perchè facesse altrettanto.

—Che fate qui?—chiese de Nittis affacciandosi sulla porta appena Margherita aveva rimesso a posto la madonnina,—Tu, Bice, dovresti piuttosto mostrare a Margherita il tuo appartamento, che è veramente bello.

—Perchè voi stesso mi avete suggerito quasi tutto.

—Il professore,—intervenne Margherita, come vantando orgogliosamente un mobile della casa,—sa tutto quello che vuole.

Bice si mise a ridere, quantunque provasse in cuore una certa inquietudine di essere stata sorpresa da lui nella sua camera.

Quel primo giorno passò naturalmente senza lavorare. Bice curiosava su e giù per lo studio interrogando e mutando spesso argomento per condurre insensibilmente de Nittis a raccontare la propria vita. Ma questa era ben semplice: s'alzava alle otto, faceva colazione fra le dieci e le undici, poi sulle due andava all'università, anche quando non aveva lezione; pranzava sulle sei, passava un'ora al caffè delle Scienze fra un crocchio di colleghi, e alle nove veniva dalla contessa Ginevra per non rincasare che alle undici. A quell'ora le due donne erano già a letto da un pezzo.

Lavorava poco, almeno come diceva lui, che per lavoro intendeva solamente quello consacrato alla sua opera "Storia di Dio". Adesso avrebbe dovuto compiere quella prefazione alle musiche di Giorgi, ma il tema gli si slargava al solito in uno studio di tutta l'arte e dell'anima moderna contro le volgari affermazioni delle varie scuole positiviste. Accadeva spesso a De Nittis come a molti ingegni pigri di pensatori, che nella fiamma del parlare improvvisano i propri più squisiti capolavori, mentre nello scrivere il pensiero sembra perdere in essi della prima luce, cristallizzandosi in uno stile tutto di studio. Bice se ne accorse al ritratto di Giorgi, che egli aveva quasi perduto fra l'esplicazioni di quelle stesse idee, dalle quali avrebbe dovuto uscire, e che invece discorrendo gli si animava mirabilmente con tutte le sfumature della fisonomia.

Ella si offerse per copiare il manoscritto, perchè non potesse più rimutarlo.

—Davvero? Ne parleremo: vogliamo uscire?

—Passeremo dalla zia a dirle che resto qui a pranzo.

—Vado a mutare d'abito.

Bice scappò in cucina.

—Ah, signorina!—esclamò Margherita, che lavorava anch'essa in grembiule bianco intorno ad un dolce.

Ma la fanciulla fu pronta a scongiurare la tempesta.

—Usciamo per avvisare la zia. Ah la bella torta!—proruppe affettando l'ammirazione golosa di una bambina; poi la scongiurò di non dir nulla al maestro, e fuggì lasciandole entusiasmate della sua monelleria.

La zia Ginevra non era in casa. Allora andarono ai giardini pubblici; la magnifica giornata di sole aveva fatto uscire dalle case più gente del solito. Egli abbigliato di nero, nella consueta eleganza, rasato, inguantato, colle carni più fresche di quelle di Bice e un passo quasi da giovinotto, pareva superbo di farle da cavaliere. Dovettero fermarsi a molte carrozze per scambiare saluti e complimenti colle signore su quella loro passeggiata a piedi, ma, sebbene non se ne fossero data l'intesa, tacquero sul pranzo, che li aspettava come un epilogo anche più delizioso. Prima di tornare a casa, Bice volle però passare sotto il portico del Pavaglione, in quell'ora gremito di tutti gli eleganti, arrestandosi alla pasticceria di moda per affettare come una innamorata la propria intimità con lui. Egli si manteneva sempre così amabile. Molte signore, conoscendolo da un pezzo ed ammirandolo alla propria maniera, piuttosto per il suo gusto aristocratico che per la vera profondità dell'ingegno, si strinsero loro intorno in un cerchio di sorrisi, dentro i quali Bice si sentiva immergere come in una luce spirituale. Qualcuna scherzò nel vederli così soli, maestro e scolara, in isciopero.

Bice dovette mangiare delle paste; a casa il pranzo fu una piccola festa. Siccome Margherita aveva mutato abito per servirli, apparecchiando la tavola colle migliori stoviglie, anch'egli rimase così vestito, mentre gli altri giorni pranzava in veste da camera e in pantofole; ma invece di mostrarsi allegra, Bice s'inteneriva in una malinconia piena di umiltà. Le sembrava di essere più amata di quanto meritasse, occupando così di sè stessa tutta quella casa, da tanti anni tranquilla e silenziosa come un eremo; la grossa Margherita vegliava su lei come sopra una bambina, egli le usava tutte le più fini amabilità di un cavaliere. Tristemente Bice si avvide di non avere più appetito.

—La signorina non mangia,—esclamò Margherita, vedendola assaggiare appena un fritto composto:—glielo avevo pur detto che il nostro pranzo non poteva essere come il suo!

Bice sentì nell'amarezza mal dissimulata del rimprovero il cordoglio di una umiliazione, e istintivamente cercò come riparare a quella mancanza d'appetito. Quindi a certi atti parendole d'indovinare che gli altri giorni Margherita pranzasse alla tavola del professore per tenergli compagnia:

—Maestro,—si volse improvvisamente,—perchè quest'oggi Margherita non mangia con noi?

Egli rimase quasi imbarazzato di questa penetrazione della fanciulla.

—Mettetevi dunque qui, Margherita, io sono al vostro posto,—Bice le disse con una voce così buona, che l'altra capì di poter accettare.

—Allora vado prima da Tonina.

Il pranzo diventò più allegro, servito dalla cuoca, sebbene l'altra si alzasse sovente per riparare qualche inavvertenza.

Come tutti coloro che invecchiano, De Nittis era piuttosto goloso, ma quella sera fra Bice e Margherita, nella intimità di quella saletta, ove pranzava da tanti anni in silenzio leggendo il giornale per affrettare il volo del tempo, gli parve che le pietanze fossero anche più squisite. Le due donne, beate della sua contentezza, s'intendevano per servirlo vietandogli ogni attenzione verso di loro: gli riempivano il piatto, il bicchiere, come ad un bambino, con quella grazia femminile, che sa dare valore al più piccolo atto. Talvolta Margherita gli diceva:

—Basta, le farebbe male. Lei invece, signorina, dovrebbe mangiare ancora: alla sua età niente dà fastidio.

—Non posso, vedete come sono secca!

—Appunto, se viene qui l'ingrasseremo,—ribattè col suo riso, che le faceva tremare tutta la massa del seno.

Questa idea li esilarò, diventavano sciocchi. I discorsi, intonati sull'intelligenza di Margherita, avevano la bonomia confidente e volgare dei soliti argomenti domestici, le spese di casa, i vicini, le piccole difficoltà di tutte le vite, quella serietà anche delle piccole cose, alle quali Bice non aveva mai pensato nel lusso della propria esistenza. Poi sulla fine del pranzo Margherita andò ella stessa a fare il caffè, e tornò coi dolci e i rosoli. De Nittis, che aveva già acceso la sigaretta, ne porse un'altra alla fanciulla, sorridendo nel vedere entrare Tonina; la vecchia veniva a ricevere i complimenti. Sulla sua faccia, untuosa per il sudore del fuoco, oscillò un bagliore di contentezza alle prime parole di Bice: come tutto era andato bene! Margherita, malgrado la propria pesantezza, si muoveva con insolita agilità; quindi De Nittis cadde in quel leggero assopimento dei vecchi dopo il pasto, distese le gambe e si allungò sulla sedia, con una mano appoggiata sulla tavola.

Bice fe' un cenno a Margherita di camminare più piano. Non si ricordava in vita sua serata più deliziosa, quantunque anche in casa della zia tutti le volessero bene; il suo pensiero si adagiava nell'esistenza tranquilla di quell'uomo, così grande nell'ingegno, e che aveva avuto la bontà di allevarla facendosi per tanti anni piccolo come la sua anima di bambina. Egli era ancora solo al mondo, fra quelle due vecchie, che lo adoravano senza capirlo. In quel momento il suo volto riscaldato dal cibo aveva una freschezza rosea, che il candore dei capelli sembrava rendere anche più viva, mentre qualche cosa di più mite sembrava essergli calato sulla fronte di pensatore. La sua bella mano aveva lasciato cadere la sigaretta spenta sulla tovaglia, e vi rimaneva in un abbandono pieno d'eleganza.

Chi aveva egli amato? Amava egli? Bice non ne aveva mai saputo nulla, ma era impossibile che un uomo così bello fosse passato sconosciuto fra le donne; nullameno sulla sua pura fisonomia di vecchio, ancora rorida di tutte le grazie giovanili, le passioni non avevano lasciato traccia.

Margherita si era seduta, adagio, presso Bice.

—Fa così tutti i giorni, dorme per un quarto d'ora.

Parlarono di lui. La vecchia s'inteneriva a certi particolari: Tonina era stata raccolta dal professore quasi moribonda, dopo essere fuggita da casa propria per i cattivi trattamenti, poi da quella del primo padrone, che sapendola malata voleva mandarla all'ospedale. Siccome ella la conosceva, ne aveva parlato al professore: Tonina non si era rimessa che dopo sei mesi, aveva un cuore d'oro.

—Ho dovuto insegnarle tutto, ma è tanto obbediente!

A rovescio dei vecchi celibi, che hanno quasi tutti il carattere bisbetico forse per la mancanza di una famiglia e di bambini, De Nittis invece era sempre contento di tutto.

—Gli avete mai chiesto perchè non ha voluto prender moglie?

—Sì: egli sorride senza rispondere. Adesso sarebbe troppo tardi.

Poi Margherita le confessò i segreti di casa: non erano ricchi, ma siccome il professore non aveva alcun vizio, con i seimila franchi di paga potevano vivere benino. La maggior spesa per lui erano i libri: secondo Margherita vi dovevano essere dei tesori nella sua biblioteca.

—Andremo avanti così, purchè io muoia prima,—concluse.—Che cosa resteremmo a fare, sole, io e Tonina, che non abbiamo più nessuno?

—Verrete con me.

—Ah, signorina! ella è tanto buona, me lo ha detto mille volte il professore, ma alla nostra età non si può mutare più casa: è meglio morire.

De Nittis si destò.

—Ho dormito?—chiese stirandosi lievemente; poi colto quasi da vergogna:—vedi, mia piccola Bice, i vecchi! Addormentarsi a tavola, quando si ha per invitata la prima signorina di Bologna….

—Potevate dormire ancora invece di destarvi per questo cattivo complimento. Intanto noi abbiamo parlato di voi; zitta, Margherita!

Ma De Nittis non sapendo come far passare il tempo alla fanciulla, dichiarò che bisognava ritornare dalla zia Ginevra. Sull'uscio, al momento dei saluti, Margherita ripetè gl'inviti; anche Tonina era accorsa, ma stava semi-nascosta dietro il battente.

—Torni a pranzo, signorina, torni spesso,—l'altra ripeteva colla voce tremante:—vedrà che l'ingrasseremo.

Per strada De Nittis le diede il braccio. Passarono sotto i portici quasi deserti, con passo lento, allegri tutti due di quella buona giornata: ella gli si abbandonava dolcemente sulla spalla guardandolo tratto tratto, superba di sentirlo ancora così vigoroso, e ascoltando la percossa del suo passo echeggiare nelle sonorità delle volte e del pavimento. L'aria frizzante della notte batteva loro sul viso. Ella aveva finito col mettere anche l'altra mano sul suo braccio, e saltellava nelle disuguaglianze da portico a portico con certi scoppi di risa, abbassando improvvisamente il capo, come sorpresa da un'intima tenerezza in tale passeggiata notturna, fra quelle grandi ombre, che avrebbero permesso più di un bacio, e quei subiti chiarori di fanali, che lasciavano tempo ad un sorriso di mostrare tutte le sue carezze.

A casa la zia Ginevra li sgridò di aver tanto tardato.

Nullameno Bice seguitò ad andare spesso da lui col pretesto di copiare quella prefazione, ma occupandosi invece con istinto femminile a rendergli più dolce la vita. Infatti d'accordo con Margherita, e senza che egli potesse nemmeno sospettarlo, riuscì a sostituire il suo vino di osteria col migliore delle proprie terre, e a mandargli quasi tutte le mattine qualche primizia di ortaggio; poi gli riempì i cassetti di altra biancheria, e al primo onomastico seppe fargli accettare una magnifica veste da camera. Ma non osò alterare la semplicità, quasi povera, dell'appartamento.

De Nittis non vi aveva che pochi mobili da rigattiere.

Nell'abitudine di un isolamento, contro il quale non aveva mai lottato, egli si era avvezzo da tempo a quella povertà, preferendola al mezzo lusso borghese di molti suoi colleghi. Una malinconia di abbandono lo rendeva ora più che indifferente a quanto potesse ancora accadergli nella propria condizione di professore scapolo, prossimo ad andare in pensione, e al di fuori di ogni partito politico. Come la maggior parte di coloro, che sognarono la conquista del mondo, egli aveva camminato povero e solo. Appena compiti gli studi, accorgendosi che la vita era una battaglia, nella quale bisognava quasi sempre uccidere per non essere ucciso, il suo primo pensiero fu di ritirarsi sconosciuto in qualche bella campagna; ma questo sogno di tutte le anime troppo delicate dovette vanire quasi subito dinanzi alle rudi necessità della vita. Nullameno non lottò a lungo, e d'avvocato anelante all'arringo parlamentare si mutò dopo un anno fra lo stupore degli amici in professore di filosofia, esulando al solito in una Università isolana. Lo destinarono a Cagliari.

Colà, sperduto fra un popolo barbaro, si formò nella preparazione di una gloria più alta. Invece di comandare al parlamento volle regnare nella scienza con quella ideale sovranità non concessa che a pochi, e per la quale bisogna quasi sempre negarsi tutte le altre gioie della vita. Per dodici anni rimase quindi sepolto fra i libri, assimilandosi tutto il pensiero moderno nel sogno di dargli una nuova costituzione con uno di quegli sforzi sublimi, che pareggiano filosofi e conquistatori in una eguale gloria di aver saputo organizzare intorno a sè stessi per qualche tempo le cose o le idee. Quella vita claustrale lo abituò a tutte le castità. Il suo disegno era stato una guerra contro la neonata teorica darwiniana, nella quale stavano già per naufragare tutti i principi della filosofia e la storia dell'umanità; ma quando ebbe imparato abbastanza le scienze per contestarle anche molte affermazioni sperimentali, comprese che tale guerra non avrebbe potuto conchiudere ad una vera conquista, e concepì tutta una nuova filosofia della natura, entro la quale l'ipotesi della mutabilità delle specie si sarebbe sommersa spontaneamente. Un'immensa ambizione lo animava. Mentre l'Italia era risorta per opera dell'Europa, che le ripagava così il beneficio di due civiltà, il genio italiano pareva tramontato: Gioberti, l'ultimo filosofo, era morto; Manzoni, l'ultimo poeta, taceva. Un silenzio di paura pesava sull'anima del popolo appena riaffacciatosi alla vita, e già in preda alla disperazione di non potervi raggiungere coloro stessi, dai quali vi era evocato. I dispregi fioccavano d'oltre Alpe e d'oltre mare sulla rivoluzione incompiuta; la nuova monarchia era ancora vassalla di Francia, Roma un feudo del Papa. In quegli anni così pieni di lotta e di gazzarra De Nittis sognava solitario, coll'orgoglio dei novatori, un'altra rivoluzione del pensiero italiano in Europa. Arte, scienze, filosofia, politica, religioni, tutto era in subbuglio: la grande scuola hegeliana agonizzava, la nuova scuola positivista era troppo superficiale per gettare radici; nell'arte il romanticismo era consunto, nella politica al principio delle nazionalità, che aveva creato i popoli, doveva succederne un altro, che riunisse l'umanità.

Che importavano i dibattiti parlamentari dell'ora, poichè nessuno poteva più esservi grande in un periodo, che Mazzini aveva aperto, Cavour guidato, e Garibaldi chiudeva? Il rinnovamento bisognava farlo nel pensiero, o l'Italia non vivrebbe malgrado il miracolo della sua resurrezione. In questa febbre egli obliava di non essere oramai più giovane per non apprestare che materiali su materiali al moderno edificio dello spirito italiano; ma come accade sempre a chi si ripari nel pensiero dalla tormenta dell'azione, perchè il selvaggio egoismo delle passioni l'offese nelle fibre delicate del temperamento, che la volontà si stanca presto all'opera, mentre una eguale necessità di aspri combattimenti lo persegue anche nella costruzione di un sistema ideale, egli doveva soccombervi appunto per non sapere uscire dal vago delle meditazioni. Tutti gl'imperi si fondano del pari su cadaveri di uomini o di idee: la stessa precisione di sguardo è indispensabile al fondatore di un regno e al fondatore di una teorica; una medesima spietata parzialità rende tirannico il loro impero anche nel beneficio della grande opera. De Nittis invece, a forza di scorrere ovunque col pensiero, aveva finito coll'accoglierne tutte le forme in una specie di mistico scetticismo, forse più vasto di tutti i sistemi, ma colla inutilità di tutti gli scetticismi dinanzi a quel supremo bisogno nella vita del dover scegliere per agire.

Questa rivelazione fu l'ultima battaglia per lui. Aveva già passato i quarant'anni, quando ogni sogno radioso di gloria si spense improvvisamente nel suo spirito; a che prò dunque studiare ancora? Nel primo impeto di tale tristezza pensò persino di dimettersi da professore, ma siccome non aveva altri mezzi per vivere, e tutto quanto sapeva non gli avrebbe a questo bastato, dovette rinunziarvi. Poi era ancora solo, e non aveva mai amato.

In quella solitudine studiosa aveva conosciuto appena cinque o sei donne, tutte non abbastanza belle di corpo o di spirito per innamorarlo. La sua anima amava troppo l'amore per non sentirsi ferita al contatto della inevitabile volgarità femminile, quasi sempre incapace di sentire persino la bellezza, che nel suo spirito brillava e cantava come uno di quei fuochi accesi da Dante nelle sfere superiori del paradiso. Quindi il suo isolamento diventò un esilio più freddo che nei conventi, ove la fede può talora mutare l'abito in insegna di guerra. Sino all'ultimo trasloco nella università di Bologna aveva vissuto da studente in camere ammobigliate, mangiando all'albergo, senza dimestichezza colle padrone di casa, ed evitando a tavola le famigliarità dei soliti avventori insignificanti o chiassosi. All'università disimpegnava svogliatamente le poche lezioni di ogni anno fra l'indifferenza degli scolari, cui quello studio non poteva essere preparazione ad un mestiere; s'insegna forse filosofia a giovani sforniti d'ingegno ed inconsapevoli della vita, mentre il genio stesso deve restare solitario sino all'ora della rivelazione, e perirvi per quella legge simboleggiata dal cristianesimo, che solo dalla morte balenano le verità trascendenti? Poi la signorilità severa delle sue abitudini, facendo credere all'albagia di uno spirito preoccupato dalla propria importanza, sebbene nessuna opera l'avesse ancora significata, lo rendeva poco amato in quella carriera professorale, forse la più aspra alla vanità per la sua stessa elevatezza.

Quando la natura, stanca in lui di quella tensione spirituale, riprendeva per qualche ora il sopravvento soffiandogli nel sangue gli aromi dei fiori, egli s'abbandonava improvvisamente alla prima donna, magari non bella, per soffocare in una violenta prostrazione il cordoglio vedovile del proprio cuore. Ma erano rade soste, dalle quali si rialzava con una lunga amarezza nell'anima, quantunque nessuna fede religiosa gli vietasse quelle effimere soddisfazioni della carne. Come avevano dunque potuto amare i grandi poeti? Con quale potenza trasformavano le donne volgari dei loro amori nei fantasmi divini della loro arte? E in quella solitudine, appena illuminata dagli ultimi simboli della gloria, qualche volta si diceva di aver sbagliato nella rinuncia alla vita degli altri uomini, giacchè tutti i grandi davvero l'avevano percorsa cogli umili, assoggettandosi alle più basse funzioni per impararne forse così i supremi segreti.

Quindi da Cagliari senza chiederlo, mentre tutti i suoi colleghi sì agitavano ogni anno per uscirne, fu mandato a Firenze. La bella città, febbricitante allora in quella vita effimera di capitale, radunava nella propria piccola cerchia tutto il fiore d'Italia: egli già scorato di sè medesimo vi conobbe nelle sale della contessa Ginevra quasi tutte le celebrità del momento, sorridendo del trovarle così piccole. Anche la gloria vista da vicino diventava una ressa di vanità momentanee, nella quale si perdeva la voce dominatrice dei pochi grandi; appena qualche loro atto, incompreso o male interpretato, li scopriva un istante per lasciarli ricadere fra la folla e come la folla insignificanti. De Nittis trovò finalmente nella contessa Ginevra la donna. Ma adorando colla dedizione delle grandi anime l'insigne statista, che allora si esauriva in un'estrema lotta, ella non si accorse di questo ultimo innamorato. La contessa Ginevra, abbastanza bella ancora per contentare la finezza del suo gusto artistico, conservava nello spirito potentemente educato tutta quella inesplicabile dolcezza femminile, alla quale i cuori affranti da una troppo lunga lotta anelano come ad un riposo. Quindi soffocando con un'ultima stretta spasmodica della volontà questo tardo ideale, egli giovò del proprio ingegno, senza che alcuno potesse mai supporne il sacrificio, l'uomo a lui così inferiore, e nullameno abbastanza potente per far vibrare tuttavia il cuore di tutta Italia.

Poi la contessa Ginevra, vedova del marito e dell'amante, tornò a Bologna, e per la prima volta anch'egli chiese al ministero di esservi traslocato.

A Bologna compose definitivamente la propria vita. Egli stesso fu sorpreso dalla calma, colla quale rinunciava ad ogni avvenire, mentre i capelli gli si cominciavano appena a brizzolare, e nel largo ingegno tanta folla di idee si agitavano ancora intorno al monumento incompiuto della sua giovinezza. Da un collega morto ereditò Margherita come governante, poi capitò anche Tonina; mise casa e ne cedette loro il governo colla facile contentezza degli scapoli, che non ne veggono se non le noie.

Ma se fuori pareva freddo, in casa diventava malinconico. Per lungo tempo accarezzò il proposito di un giornale come quello di Amiel, il triste filosofo ginevrino, al pari di lui vissuto sul margine della gloria, e che la morte aveva finalmente rivelato alla crudele disattenzione dei contemporanei. Ma questa fama, che gli verrebbe dal testamento del suo spirito, gli parve troppo amara: perchè lasciare sul libro di bordo poche frasi, che potessero ricordarlo ad altri viaggiatori? Era egli così piccolo da non poter essere osservato che per un grido strappatogli dalla fuggente bellezza di un paesaggio, o da una riflessione suggeritagli misteriosamente in quelle lunghe noie del mare, che vincono l'attiva giocondità dì tutti i passeggieri? Come lui, Amiel era stato un malato dell'ideale, e il suo ingegno grande ma delicato aveva dovuto soccombere nella passione del capolavoro senza accorgersi di scriverlo in quel giornale, ove sfogava il dolore della propria impotenza. Questa suprema ironia del destino rivoltava in De Nittis tutta l'altera franchezza della sua personalità: o lasciare un monumento o sparire come quegli insetti, che danzano un istante nel sole, e dei quali nemmeno la scienza potè ancora sorprendere la nascita o la morte.

Il primo anno a Bologna lo passò in ozio.

Malgrado il rumore destato da alcune sue lezioni, seppe evitare quella gloria provinciale dei mediocri, nella quale s'impantanano quasi tutti i professori d'università; ma poi una stima vaga ed affettuosa gli venne crescendo d'intorno, finchè un bel giorno qualcuno lo proclamò la testa più forte dell'ateneo. Carducci, l'illustre poeta, ebbe per lui uno di quei rari encomi, che hanno fatto in Italia parecchie riputazioni; poi si seppe che stava scrivendo la Storia di Dio.

A chi l'aveva egli detto pel primo?

Forse non se ne ricordava più, ma questa idea gli si era lentamente, mutamente, imposta come ad uno di quei grandi filosofi medioevali, che pensavano il pensiero di Dio, mentre intorno a loro ruggiva la più feroce bufera d'ignoranze e di guerre. Solo in una esistenza come la sua, tale immensa opera sarebbe stata possibile.

Al di fuori di ogni partito e al disopra di ogni polemica, egli potè quindi concepirne il primo disegno senza alcuna di quelle riserve, che la vita impone quasi sempre a tutti gli autori. Credeva egli nel Dio adorato da tutti i popoli, gigantesca personalità, che creava improvvisamente l'universo gettandovi l'uomo per fargli eseguire una misteriosa missione? Il libro lo avrebbe provato. Da un esame profondo ed universale di tutte le forme, nelle quali Dio era stato concepito, dalle vicissitudini della sua alleanza coll'uomo tante volte rotta ed altrettante riannodata, dai dogmi delle religioni salienti l'una dall'altra come gradi di una scalea e la cui cima si perdeva nell'azzurro fra i baci del vento e gli schiaffi delle folgori, dalle testimonianze della coscienza popolare per ogni epoca e e per ogni regione, doveva uscire il segreto di questa parola, la più grande che l'uomo avesse ancora pronunziato. Dio era? Come sarebbe l'uomo con lui? De Nittis allontanava per il momento queste ultime domande per rimettersi sulle prime traccie dell'umanità. L'anima vergine del selvaggio, sopravvissuta sino a noi nella preistoria, gli rivelava i primissimi culti, come uno sguardo gettato nell'infinito e ritrattone istantaneamente quasi dall'orlo terrorizzante di un abisso. La vita umana era tutta involta in tale verbo, e non si rivelava a sè stessa che apprendendo a sillabarlo: Dio era nel vagito dei bambini e nel rantolo dei morenti, nell'urlo dei popoli e nel grido solitario degli abbandonati; il suo terrore dominava quello delle guerre, il suo sorriso ravvivava la speranza di tutte le paci; era negli spettacoli della natura, che solo la sua collera poteva aver sconvolto; raggiava sulle cime del pensiero che innalzandosi era costretto a cercarlo; e mentre le stelle roteavano ubbidienti nell'azzurro come bighe lanciate ad una corsa, e il mare si ripiegava nella propria ira dinanzi ad un confine misteriosamente assegnatogli, gli uccelli salendo nel cielo ebbri d'amore cantavano verso di lui gl'inni di quella fede, che si era già creata dei templi e dei dogmi egualmente imperituri.

Nella storia di Dio passavano naturalmente tutte le altre, giacchè le religioni erano al tempo stesso un poema ed un codice, nel quale ogni popolo per lunghissimi secoli vi aveva accolto con sè stesso quanto gli era riuscito di prendere alla natura. Dio aveva assunto tutti gli aspetti più atroci e più soavi; era uscito rosso e fumigante dai vulcani, era apparso spumante ed evanescente sul mare, era passato tuonando pel cielo; poi sbucando dai misteri dei boschi aveva ruggito come le fiere, e come queste reclamato il sangue dei piccoli, di coloro che colle fiere non avrebbero potuto lottare; aveva amalgamato in sè stesso tutte le potenze della fauna per diventare nel drago un mostro egualmente capace di trionfare sulla terra, nelle acque e pel cielo. Ma in tutte queste metamorfosi, fra preghiere deliranti di fede o di paura, egli non era che il segreto della vita, entro la quale gli uomini passavano, e sulla quale aveva sempre pesato come una significazione dell'infinito. La nostra esistenza era stata in lui e per lui, i nostri morti erano tramontati nel suo arcano, la nostra morte era appunto il suo stesso mistero.

Ma l'uomo, emancipandosi colla scienza dalla natura, ne aveva emancipato anche Dio per incominciare con lui quel dibattito, che forse non finirebbe se non alla morte di entrambi. Mosè era il primo uomo, che avesse parlato faccia a faccia con Dio: prima nè la persona umana, nè quella divina erano ancora abbastanza indipendenti, e in ogni mito la creazione involgeva egualmente creatura e creatore. Con Mosè invece la natura non offriva più che la scena pel dialogo dei due grandi attori. Senonchè la disputa era salita di tono, scoppiando in minaccie reciproche: il pensiero umano imponeva al pensiero divino di rivelarsi per essere adorato. La critica di Giobbe, contro cui Dio aveva indarno ingrossato la voce, era diventata metodo contro tutte le rivelazioni divine, pur soccombendo al problema umano, nel quale il dolore restava inesplicabile ed inguaribile. La filosofia greca aveva già risolto Dio in un puro spirito, quando nella terra di Mosè, quasi a protesta contro questa vittoria della persona umana sull'impersonalità divina, un'altra rivelazione, la più importante fra tutte, umanizzava nuovamente Dio, facendolo morire volontario sulla croce. Dal Dio, che violentava Giobbe il giusto, al nuovo, che perdonava ai propri assassini, quale distanza! Era Dio disceso sino all'uomo, o l'uomo salito sino a Dio? Comunque fosse, l'uomo aveva vinto, se Dio era stato costretto a ottenere da lui la fede col sacrificio di sè medesimo.

Nell'immenso panorama storico di Roma, Cristo appariva una figura senza tempo: la sua vita e la sua morte malgrado la volgarità dei particolari sfuggivano ad ogni misura; la guerra della sua nuova religione passata di vittoria in vittoria riempiva adesso quasi tutto il mondo sino ai confini di quella barbarie, che da secoli vi sopravvive attendendo di essere distrutta. Con Cristo la disputa fra uomo e Dio pareva finita, dal momento che questo patendo tutti i dolori ne aveva tolto ogni ingiustizia. Ciò che un Dio aveva patito, perchè un uomo ricuserebbe di soffrirlo? Ma perchè Dio aveva dovuto soffrirlo? E mentre nella storia, ubbidiente ai suoi ordini, la rivelazione era mantenuta costante dalla Chiesa, e i santi alimentavano la fiamma della fede vincendo tutti i mali colla predilezione stessa del dolore, il pensiero umano ripiegato come Giobbe sopra sè medesimo sorrideva di Dio, che per colpa dell'uomo era stato anch'egli costretto a soffrire e a morire. Una incredulità trionfante di ogni dolore e di ogni consolazione si levava dal fondo dei cuori; la scienza accettando la sfida lanciata da Dio a Giobbe scandagliava tutti gli abissi, trovava altre prode oltre gli oceani, altri soli oltre gli astri vantati dalla Bibbia; poi di epoca in epoca risaliva tutto il passato della nostra terra sino a quel tempo senza giorni, quando l'uomo non esisteva, lo sorpassava, e ricostruendo la storia di questo piccolo pianeta, nel quale l'uomo non era che un ultimo incidente, si domandava come Dio, disceso a morirvi per lui, avesse potuto riconoscerlo per centro ideale di tutto l'universo.

Ma l'umanità, misteriosa anch'essa nella propria marcia, abbinava le correnti della incredulità e della fede piegandole a descrivere un'orbita sempre più larga intorno al proprio pensiero. Le religioni, divorandosi a vicenda, s'incorporavano in un poema senza fine, cui i poeti ricamavano le liriche e i popoli davano colla sonorità della loro voce un accento ineffabile, mentre i templi crescevano di magnificenza e di numero, e quasi tutti i pensatori rientravano vecchi e stanchi nella chiesa per piegare la fronte sui gradini dell'altare, dal quale il loro spirito era partito temerariamente alla ricerca di Dio.

Dio era? L'umanità lo affermava e lo negava nel medesimo istante.

De Nittis aveva pensato l'immensa opera in quattro volumi, sapendo che forse non arriverebbe a finirla, ma con questa fatica dinanzi l'isolamento della vecchiaia non lo atterriva più: Dio gli terrebbe compagnia. Lo troverebbe egli in fondo alla storia dell'umanità, nell'ultimo giorno della propria vita? Qualche volta il suo pensiero sorrideva con un dolce sorriso di bambino, che guarda dal petto della balia il mondo all'intorno.

Il suo temperamento mite, in quello studio imparziale del più grande problema umano, aveva finito collo spogliarsi delle ultime passioni per giudicarle colla indulgenza leggermente ironica e caritatevole di certe parabole evangeliche.

Una volta in villa accompagnò la contessa Ginevra a messa.

—Come! venite anche voi?—ella chiese meravigliata.

—In campagna. Questi contadini soffrirebbero troppo, vedendomi restare sul sagrato ad attendervi. Perchè offendere la loro fede, quando non potremmo dar loro nemmeno le poche risorse dell'incredulità?

—Mio caro filosofo, finirete anche voi col convertirvi.

De Nittis, che aveva la piccola Bice per mano, si era arrestato.

—Accetto l'augurio: da Hegel a Balzac, da Darwin a Hugo, da Mazzini a Bismark nessuna delle guide moderne è uscita dalla religione: Zola sta forse per rientrarvi, Tolstoi vi predica come un missionario.

—Allora ne convenite?

—Aspetto come la piccola Bice.

—Vi farò convertire da lei.

Ma siccome erano già presso la porta, e i contadini li guardavano rispettosamente col cappello in mano, tacquero.

De Nittis in quegli anni si era rimesso allo studio delle lingue orientali, perchè solo dalla filologia potevano uscire le profonde verità della storia religiosa. Nessuna rivelazione infatti sarà mai più sincera che quella stessa della balbuzie nella primissima infanzia umana, quando dinanzi alla novità della vita lo spirito ne ripeteva inconsciamente le leggi nel proprio linguaggio. Ma rifacendo la storia di tutte le religioni ogni altra storia veniva cangiata: quanti errori accumulati dalla erudizione, quante false prospettive nel passato dello spirito umano! Nulla era più vero delle religioni, perchè l'anima non mente mai a sè medesima davanti all'infinito, e nulla forse più ignorato della loro vita millenaria, attraverso la rapida vicenda delle generazioni.

Quindi all'uscire dalle lunghe meditazioni su qualche problema religioso, la sua più viva compiacenza era una conversazione con Bice nel salotto della contessa Ginevra.

Tutta la sua insoddisfatta tenerezza di amante si riversava allora sulla piccina coi medesimi impeti di dedizione, che sono la migliore ricompensa della maternità, quando nella donna una falsa educazione o una più falsa vita non hanno soffocato la natura femminile. E la piccola Bice amava lui più d'ogni altro per quell'istinto sicuro dei bambini nella scelta degli affetti, che li circondano. Se il dottor Ambrosi infatti colla sua bruscheria brontolona era quasi il padre, cui ubbidiva talvolta a malincuore per una soggezione misteriosa della sua forza, De Nittis poteva ben essere la mamma con quel bel viso roseo, fresco sotto i capelli bianchi, e la voce dolce come una carezza. Bice cresciuta nell'ombra del suo pensiero, indovinandolo alla musica delle parole prima ancora che il povero Giorgi coll'iniziarla alla più sacra delle arti gliene insegnasse il segreto, nel dividere fra quegli amici il proprio cuore ne aveva riservato il fondo a De Nittis. Egli solo l'aveva sempre compresa anche nelle crisi più silenziose della giovinezza, quando il loro mistero era stato più volte per sommergerla in una melanconia piena di terrori.

Laonde dopo quella rottura col tenente Lamberto, nel nuovo vuoto fattosele intorno, ella si era naturalmente ristretta col vecchio maestro quasi a pagargli il grande debito di gratitudine, che le pesava sulla vita, occupandosi ora della sua. Cosi quella mattina che la contessa Ginevra, reiteratamente invitata a Roma dalla principessa d'Ornano per le feste di Pasqua, si mostrò malgrado la pigrizia invadente degli anni disposta ad andarvi, Bice disse impetuosamente a De Nittis:

—Maestro, venite anche voi.

Alla contessa Ginevra questa sarebbe parsa una fortuna forse sufficiente a deciderla; egli titubava.

—Mi avete pure promesso mille volte di mostrarmi Roma!

—Oramai puoi vederla da te.

—Non verrete nemmeno se ve ne prego?

—Lamberto è a Roma,—ribattè con dolce ironia.

Ma la fanciulla ebbe uno scatto.

—Dopo questa cattiva parola dovrete venire per punizione,—rispose venendo ad appoggiarsi sulla spalliera della sua poltrona con tutta la grazia, di cui era capace.

La prima settimana a Roma era stata un idillio artistico. Lasciando la zia Ginevra a parlare del passato colla vecchia amica, essi s'alzavano di buon mattino e non tornavano che a notte, stanchi e felici di una giornata, nella quale avevano percorso meravigliose distanze attraverso i capolavori delle varie civiltà. Il tempo era florido, il sole ardente di maggio incoronava la divina città delle proprie fiamme più pure. De Nittis si sentiva ritornare giovane in quelle lunghe passeggiate, che gli accendevano le guancie, bagnandole come di un sudore refrigerante; quindi si fermavano un po' dappertutto, a colazione o a pranzo, preferendo i luoghi più modesti, come uno studente o una crestaina partiti in festa a un mattino di primavera. Ella pure si animava. Sotto il pallore cereo del viso il sangue correva più caldo nelle sue piccole vene azzurrine, mentre dagli occhi e dalla voce stessa, sempre velata, le vibrava tratto tratto una allegria provocatrice. Bice non aveva mai vissuto tanto. Quella vita, all'aria, al sole, fra il vento polveroso delle strade, andando alla ventura con un abito succinto, gli stivalini gialli, un binoccolo ad armacollo, sospesa al braccio di De Nittis, che se la traeva violentemente contro il petto al menomo pericolo di un urto; quelle colazioni, quei pranzi furtivi nel segreto di una amicizia, che per diventare amore non aveva bisogno che di esaminarsi meglio, le eccitavano tutti i nervi. De Nittis l'osservava sorridendo. Non era più la Bice solita, ancora tanto poco persuasa di vivere, che assisteva alla vita quasi come ad uno spettacolo: il suo passo era mutato, camminava a testa alta, guardando tutte le donne, che incontravano, per coglierne a volo i difetti con una satira saltellante e sonora.

Qualche volta egli arrischiava uno scherzo giovanile, ella rispondeva sul medesimo tono, sorridevano, ridevano, finchè qualche cosa li arrestava bruscamente, sorpresi di tale intimità; poi gli scherzi proseguivano nei musei, dinanzi ai monumenti, quasi la loro gaiezza primaverile avesse bisogno di scrollare tutti i gioghi, anche quello dell'ingegno. Sembrava che volessero vivere, niente altro che vivere in quell'incanto del maggio, ai soffi della sua giovinezza immortale.

Una mattina videro Lamberto a cavallo, solo, presso porta San Giovanni. Egli occupato a far caracollare un magnifico sauro non li scorse, ma parve loro diventato anche più bello; la sua elegante figura si manteneva sulla sella in una compostezza ammirabile, pareva fuso col cavallo, che cercava d'inalberarsi, finchè d'un balzo, a redini lente, partì di un galoppo vertiginoso.

—Bel cavaliere!—esclamò De Nittis, mentre Lamberto scompariva alla svolta della strada.

—Veramente bello.

—E puoi dirlo così indifferentemente!

—Il centauro non è forse più bello? Lo sapete pure, maestro, che
Lamberto non amerà mai che sè stesso.

Due giorni dopo, verso le cinque pomeridiane, entravano in San Pietro. Ma Bice aveva voluto prima visitare l'ospedale dei pazzi alla Lungara, del quale i giardini si stendono voluttuosamente sul colle, ricevendone malgrado la gioconda bellezza del luogo una lugubre impressione. Le era sembrato che quegli infelici avessero tutti sul viso un'espressione di terrore indefinibile. Infatti i loro occhi e le loro bocche rimaste come contratte nello spasimo de la tempesta, nella quale era naufragata la loro ragione, avevano perduto il sorriso. Solamente gl'idioti apparivano sereni, ma anche quella loro serenità animale era involta di un'ombra, che non offusca mai le fronti del bue o del cavallo.

Bice non aveva parlato durante la lunga visita.

Quando uscirono finalmente dal gran portone, parve loro di respirare meglio, ella camminava a testa bassa.

—Ti senti male?

—Non avrei immaginato di provare una così angosciosa impressione. Tutto il resto dei mali possono essere una espiazione delle nostre colpe: Dio vorrà così nella sua misericordia per evitarci forse un più tremendo castigo, ma la pazzia…. è un mistero inconcepibile.

De Nittis si volse quasi con ammirazione: la fanciulla nella dolorante bontà del proprio cuore aveva sentito subito la più atroce antitesi del problema.

—Perchè si diventa pazzi?—ella gli chiese poco dopo nervosamente.

—Non lo si diventa, lo si resta. La follia come l'errore è una sosta inevitabile nel processo, col quale la nostra logica ricostruisce il mondo delle cose colle sensazioni stesse che ne riceve; nell'errore lo spirito è ingannato dalle apparenze, nella follia s'inganna sovra di esse per non saperle mantenere nella loro serie. Vedi, Bice; la follia ricomincia periodicamente nel sonno coi romanzi che vi combiniamo forzatamente e nei quali viviamo con sì intensa sensibilità: prorompe ad ogni passione che ci soverchia, si ripete ad ogni memoria che ci disordina. Nella follia la ragione non è morta ma prigioniera.

—Troppo alto, troppo alto!—esclamò Bice, che si sentiva opprimere da un nuovo peso.

Quando traversarono la piazza di San Pietro, il sole era ancora vivido; pochi fiaccheri vi sembravano fermi come barche in un lago silenzioso malgrado l'enorme getto spumeggiante delle due fontane dinanzi alla enorme facciata.

—Entriamo,—disse Bice.

Girarono un pezzo pel tempio a braccetto, fermandosi tratto tratto ai monumenti. Era vuoto ed immenso. Pochi altri visitatori vi erravano, destando strane sonorità colla battuta dei passi, e sparivano nell'ombra dietro i massicci pilastri; le colonne torse e dorate della Confessione luccicavano, laggiù, ad un raggio spiovente da un finestrone della cupola. De Nittis col cappello nella destra, e Bice sospesa al braccio sinistro, camminava come dentro a un museo; ella era tutta meravigliata di non provare alcuna emozione religiosa. Glielo disse.

—Credevi forse di entrare nel tuo bel San Petronio! Questo non è che un tempio cattolico, dal quale Dio è assente, perchè venne innalzato solo per la glorificazione della sua chiesa. Guardane l'architettura freddamente classica e le decorazioni posteriori. I mattoni spiegano la sua vastità colla insignificanza del loro costo; ogni cappella è un tempio a parte, ogni monumento vi rimane straniero a tutti gli altri. Dio dovrebb'essere sotto quel baldacchino di bronzo, così odiosamente rabescato e dorato, poichè davanti all'altare, che s'inabissa sotto le sue colonne, prega il Rezzonico. Decorazione, null'altro che decorazione! San Pietro è stato concepito troppo tardi, quando le arti per ritornare belle ripassavano pel paganesimo, e il pensiero per afferrare nuove verità usciva dal vangelo. Nullameno questa massa è gloriosa; il cattolicismo ha affermato con essa la propria universalità al momento stesso che il protestantesimo vittorioso la negava.

Poi De Nittis le fece notare la goffaggine della cattedra sostenuta dai quattro Evangelisti nelle pose più teatrali, e a sinistra il monumento di Della Porta, serenamente impudico, di un candore ambrato nelle carni palpitanti.

—Quale è dunque il vero tempio cristiano?

—Quello di Assisi. Prega, se puoi, qui.

—Eppure questa è la chiesa, che appare nelle orazioni a tutti i fedeli sparsi nel mondo.

—Essi la veggono nella fantasia ben diversamente.

Poi anch'egli tacque.

Improvvisamente udirono un suono di organo lontano, dentro a qualche cappella. L'ombra sbucava dalle profondità del tempio salendo sotto le sue vôlte come un vapore. Camminarono ancora: ogni tanto torri di legno ed immense scale li obbligavano a girare al largo da un pilastro, che i sampetrini in camiciotto da lavoro, chiamandosi ad alta voce come in piazza, restauravano; le cappelle indietreggiavano negli spaccati dei muri, dietro le balaustre di ferro o di marmo, già sommerse nelle tenebre e nel silenzio. Molti monumenti si discernevano appena.

—Sei stanca!—le chiese cercando indarno cogli occhi una panca.

Infatti Bice si appoggiava sempre più al suo braccio.

—Qui,—le disse, fermandosi per farla sedere sulla base di un pilastro.

Era rimasto in piedi dinanzi a lei, poi anch'egli le sedette vicino. Avrebbero potuto credersi nel mezzo di una foresta all'ora del tramonto; qualche voce remota giungeva loro come dal di fuori, l'ombra crescente sembrava raffreddare l'aria.

E a poco a poco quella solennità, cui le tenebre della notte stavano per dare un'altra grandezza di mistero, li vinse. Sebbene non fossero entrati che da un'ora, e ne dovesse mancare più di un'altra all'ave maria, pareva già molto tardi.

De Nittis fece atto di alzarsi.

—Piangi!

Ella si mise le mani sugli occhi.

—Perchè?—domandò ansiosamente tentando di staccarle le mani dal volto.

Ella cedette: nell'ombra i suoi occhi umidi gettarono un bagliore.

Ma sotto il suo sguardo egli stesso si turbò. Bice lo interrogava con una fissazione insistente, poscia chiuse gli occhi abbandonando nuovamente il capo sul muro. Così vestita di bianco, in quell'ombra, sul bianco incerto del pilastro, poteva sembrare una statua sepolcrale; De Nittis n'ebbe una vaga impressione, ma dinanzi alla rivelazione inaspettata di quel dolore tutta la sua prontezza di analisi venne meno. Una emozione indefinibile gli strinse il cuore.

—Ma che hai? Andiamo a casa: quest'ombra e questo freddo ti fanno male.

—Avete ragione,—ella sospirò senza muoversi.

Allora spaventato dal pericolo di una qualche crisi nervosa, le passò un braccio dietro la cintura, e se la strinse leggermente contro: aveva posato il cappello a cilindro sul pavimento, spiandosi sospettosamente intorno.

Ella tornò a guardarlo colla stessa interrogazione muta ed ardente.

—Hai freddo?

—Sì.

—Vieni. Perchè non rispondi?

—Siete voi che non volete rispondere.

Erano rimasti come abbracciati. Egli la sentiva tratto tratto vibrare sotto la pressione del suo braccio, mentre i singhiozzi le facevano groppo alla gola.

—Ebbene!—proruppe alzandosi bruscamente nella paura che una convulsione potesse sorprenderla:—verrai con me, te lo ordino.

Ella si alzò obbediente e gli riprese il braccio senza però camminare.

—Perchè sei così?

—Perchè vi amo.

De Nittis sentì il soffio di questa parola passargli sul volto come una fiamma. L'emozione di prima lo riprese più subitanea e violenta, lasciandolo quasi senza forze di fronte a lei: ma siccome tardava a rispondere, Bice chiese:

—Mi perdonate?

—Andiamo,—ribattè.

Quindi si rimise distrattamente il cappello, quasi fossero già fuori del tempio.

Bice lo seguì a stento, premendosi colla mano libera le labbra per soffocare i singhiozzi così che egli dovette arrestarsi da capo. Il suo volto si era alterato, giacchè quei pochi istanti gli erano bastati per ricapitolare tutto il passato di Bice e indovinare il mistero di quella passione.

—Non piangete dunque, Bice,—le disse con voce commossa.

—Rispondetemi.

—M'avete fatto entrare qui apposta?

—Sì, è stata una luce improvvisa: ho sentito che dovevo dirvelo oggi.

—Povera fanciulla! È tardi.

—Anche voi mi ricusate?

—No, Bice: sono io che mi ricuso. Il tuo cuore t'inganna; io sono il tuo padrino, la più profonda, la più pura affezione della tua vita.

Ella non piangeva più; la sua faccia esprimeva un dolore così acuto che l'altro n'ebbe ancora paura.

—Ti senti male?

Bice ebbe un gesto sprezzante, come se nemmeno la morte potesse più interessarla; poi mormorò con voce straziante:

—Anche per voi sono troppo brutta?

Erano nel vano di due pilastri. De Nittis, agitato da quella scena, nella quale potevano essere sorpresi, fece ancora qualche passo fermandosi davanti all'altro pilastro; si accorgeva della risoluzione di Bice a volere da lui una risposta definitiva, e ne provava nell'anima un trepido compiacimento.

Bice gli alzò gli occhi in viso.

—Voi siete solo come me. Mi avete allevata voi, perchè la solitudine vi faceva paura, e mi avete dato la vostra anima. Io vi amo così.

—Ma io non posso essere più nulla, Bice mia!

Ella trovò un sorriso trionfante:

—Non sono io più debole di voi?

Però De Nittis non era persuaso: quella scena inattesa gli aveva tolto tutto lo spirito; Bice inorgoglì sentendolo così scomposto dinanzi a quella sua affermazione di donna. La passione le dava il sopravvento.

—Non vi amerei se non mi amaste. Bisognava lasciarmi morire allora, se dovevate tutti abbandonarmi sola in un mondo, che potrebbe appena accettare la mia dote, e al quale non potrei mai mostrare la mia anima. Mi amate, non è vero?

—Ti ho sempre amata.

—Siate tutto per me.

Ella attese colla fronte dritta, già sicura della vittoria; gli aveva lasciato il braccio, standogli dinanzi per sbarrargli il passo, e guardandolo alta sulle stesse cime, dalle quali egli l'aveva sempre dominata. Ma in quella penombra la faccia di De Nittis, divenuta più pallida sotto i capelli bianchi, s'illuminò di un triste sorriso.

—Maestro!—ella proruppe per affrettargli la risposta.

—Il tuo maestro, null'altro.

Ella indietreggiò traballando; poi con uno sforzo supremo si avviò davanti a lui per uscire.

—Prendi il mio braccio.

—Che v'importa dal momento che non mi amate?

—Ingrata, che tenti d'ingannare te stessa!

—Non siete voi solamente il mio maestro? I maestri non amano più, quando l'educazione degli scolari è finita.

Una collera dolorosa scrollava la fanciulla.

—Non mi vorrai più nemmeno per maestro?

—Non irridete,—ella scoppiò senza piangere:—voi solo non ne avete il diritto.

Egli la fermò:

—Bice, lascia ch'io ti ami come ti ho sempre amata.

—No.

Erano presso il tamburo della porta: egli ne alzò colla spalla il pesante tendone, perchè ella vi passasse nella fessura. All'aria aperta De Nittis rimase tristemente impressionato della profonda, improvvisa alterazione in tutta la fisonomia di Bice, tremando di leggervi un sinistro prognostico. Il suo cuore si ammollì: quindi le offerse nuovamente il braccio per discendere la gradinata, ma ella ricusò ancora e si diresse verso un fiacre vicino alla colossale statua di San Pietro.

—Piazza Tor Sanguigna, palazzo Altemps,—ordinò con voce rotta al cocchiere.

Lungo la via non parlarono.

Al portone scese prima di lui, e senza rivolgersi sparì per l'atrio, su per le scale. Egli la seguì, la contessa Ginevra non era in casa: rimase nel salotto ad aspettare, poi una cameriera gli disse che Bice si era posta a letto, ordinando di chiudere tutte le finestre e di lasciarla tranquilla.

—Era un po' pallida, si sarà stancata,—aggiunse con indifferenza la vecchia cameriera della principessa d'Ornano.

De Nittis se ne andò senza aver visto la contessa Ginevra.

L'indomani alle undici si presentava ancora al palazzo Altemps; la contessa Ginevra era già uscita in visite, ma Bice lo attendeva. Era più bianca, cogli occhi cerchiati di nero, pesti da una notte d'insonnia; un pallore opaco le dava un'aria dolente di ammalata.

Rimasero entrambi imbarazzati, poi De Nittis per rompere il ghiaccio le disse con affettata disinvoltura:

—Oggi avevamo stabilito di visitare il museo Borghese.

—A che scopo?—ella rispose con voce mesta.

Ma egli, che voleva dimenticare assolutamente la scena di ieri, finse di sorridere.

—Andate a mettervi il cappellino: avete già fatto colazione o la faremo fuori? Io ho già fame.

—Mangiate qui.

—Perderei l'appetito: vai, Bice,—esclamò prendendole allegramente ambo le mani e sollevandola dalla poltrona; ma ella si rabbuiò.

De Nittis non se ne mostrò sorpreso; evidentemente si erano entrambi preparati nella notte, poi la fanciulla alzò gli occhi e, con voce tremula malgrado tutti gli sforzi della volontà, disse:

—Sono io che debbo parlarvi per l'ultima volta. Voi avete ragione, dovevate rispondermi così, ma bisogna che vi dica tutto. Mi vedete, sono una povera fanciulla senza nessuno dal giorno che sono nata: mio padre e mia madre mi avrebbero amata, perchè sono morti di amore, ma non hanno potuto conoscermi. La zia, voi, tutti gli altri mi avete protetta contro la morte, che mi ha sempre minacciata; avete voluto fare di me un'anima buona ed intelligente istillandomi tutte le vostre virtù. Che cosa sono diventata? Una creatura debole, piena di sogni, che ignora la vita appunto per tutte le spiegazioni superiori, che me ne avete dato. Forse non pensaste agli inconvenienti di questa educazione.

De Nittis non osò interromperla.

—Adesso mi sento freddo intorno. Lamberto non potevo amarlo: mi sono consultata molte volte dopo, e mi sono persuasa che le nostre due nature erano inconciliabili. Che cosa posso pretendere dalla vita? Voi solo, che mi avete amato più di tutti, siete adesso in dovere di rispondermi. Potrò essere amata ancora come da Lamberto? Egli non mi amava, lottava indarno colla sua amicizia per trasformarla in amore; mi avrebbe sposata e l'avrei fatto infelice. Gli altri mi subiranno come un inconveniente della mia dote: ecco che cosa sono, sapendolo troppo bene per poterlo mai dimenticare.

—Voi esagerate.

—No, maestro, siate grande e sincero come sempre: sapete benissimo che ho ragione. Io non dovrò dunque amare alcuno, non avrò avuto alcuno che mi ami? Come un trastullo spirituale avrò occupato le vostre conversazioni per rimanere come un giocattolo abbandonato in un appartamento deserto. Oh è ingiusto, credetelo!

De Nittis si sentiva commosso; Bice aveva pronunziato queste ultime parole con una tenerezza straziante. Egli avrebbe voluto alzarsi e camminare nel gabinetto per vincere l'emozione, che gli cresceva nel cuore, ma si accorgeva che la fanciulla non aveva ancora finito.

—Perchè mi rifiutate? lo so, mi amate,—gli gridò quasi improvvisamente.

Egli non trovava ancora la risposta, ma ne' suoi occhi inumiditi dalle lagrime s'accendeva qualche lampo.

—Ho paura di restar sola, ve l'ho pur detto.

—Non sareste sola egualmente?

—Non mi volete?

—Io ti voglio felice,—egli esclamò con impeto,—io che ti amo davvero, povera testolina! E verresti tu, che hai freddo al cuore, che sei così pallida, a rincantucciarti nell'ombra della mia vecchiezza per rimanere poi più sola di prima! No, Bice mia, la tua vita non può essere così: hai già sofferto troppo da piccina perdendo il babbo e la mamma, perchè non ti si appresti qualche felicità. Se non hai potuto amare Lamberto malgrado la sua bellezza, amerai un altro giovane buono come te, che ti aprirà le porte del mondo, dal quale io sono uscito per sempre e senza rimpianti. Non vi ho lasciato nulla. Più triste di te, che disperi per paura dell'avvenire, io non dispero più perchè disprezzo anche il passato; la mia vita sarà stata come un lucignolo acceso in una lanterna cieca; non ho potuto amare nè essere amato. La mia gloria sei tu sola che mi credi, i lettori dopo morto non m'interessano.

—Voi siete grande.

—Quanti scolari dissero così del proprio maestro! Non pensiamoci più: il tuo cuore ha scambiato la più dolce affezione della tua vita per amore. Quando amerai davvero, t'accorgerai della differenza.

—Non amo che voi,—ella replicò con accento quasi severo.

L'altro titubava.

—Badate di non essere poi costretto a credermi troppo tardi.

Bice si era alzata livida.

—Dove andate?

—Ritorno nella mia camera.

—Non uscirete con me?

—Oggi stesso pregherò la zia di ritornare a Bologna.

—Ma vi sentite male!—egli proruppe cercando di prenderle le mani.

Ella gli buttò le braccia al collo:

—Mi amate, mi amate!—mormorava scossa dai brividi di una convulsione imminente.

—Ma sì, lo sai pure che ti ho sempre amata!

—Non così, non così!

E sotto le sue strette deliranti egli medesimo sentì il bisogno d'abbracciarla, e la baciò sulla bocca. Allora Bice gli si sospese al collo, aggravandovisi con tutto il peso, così che lo fece traballare sconvolto, senza fiato.

—Mi amate?

—Sì.

—Sarete tutto per me?

Egli tardava a rispondere.

—Oh! cattivo,—esclamò pigliandogli il volto fra le mani;—io che sono sua da vent'anni, non mi vuole!

Allora De Nittis sopraffatto, felice, si arrese.

Poco dopo Bice raggiante scappava nella propria camera.

—Torna stasera a pranzo, lo diremo alla zia.

VII.

Invece era fuggito da Roma.

Ma a Bologna tutto era più triste. L'accoglienza festosa delle due donne, alle quali la sua assenza aveva tolto ogni occupazione, gli parve di una volgarità fastidiosa; dalla casa freddamente pulita e colle persiane rimaste chiuse in tutto quel tempo, perchè la polvere della strada e il sole non ne sciupassero i mobili, gli veniva una sensazione di scoraggiamento.

Invece di rispondere a tutte le loro dimande si chiuse nello studio. Allora Margherita e Tonina si consultarono: evidentemente il professore stava male. Il suo volto sparuto per la fatica del viaggio, nel quale non gli era riuscito di chiudere un occhio, aveva quei toni plumbei, che paiono sempre i segni di una malattia; la sua voce era velata, il gesto stanco. Margherita fu la prima a notare che il professore aveva evitato di rispondere alle sue interrogazioni su Bice, ma non seppe lì per lì indurne altro; tornò nella camera di lui a sprimacciare nuovamente il letto, vi diè aria, rassettò tutto, ed entrò coraggiosamente nello studio. De Nittis sprofondato nel vecchio seggiolone, colla testa fra le mani, sembrava assorto in una cupa meditazione: che cosa era dunque accaduto? In tanti anni non l'aveva mai visto così. Lentamente sulle punta dei piedi, uscì per dire a Tonina di preparare al più presto una buona tazza di brodo.

—Sta male?—chiese Tonina, guardandola coi piccoli occhi bianchi agitati.

Margherita non rispose, ma diventava sempre più pensierosa: nella propria superiorità verso l'altra capiva di non dover parlare su quello strano abbattimento del padrone, pel quale bisognava pure fare qualche cosa. Quando vi ebbe ben pensato non trovò altro che di tornare nello studio a dirgli:

—Venga.

De Nittis non comprese.

Ma ella gli spiegò subito col suo fare un po' importante di brava donna da casa la necessità di porsi a letto; certo il lungo viaggio doveva averlo stancato, perchè si conosceva anche nella faccia, ma una buona dormita di cinque o sei ore almeno gli farebbe passare tutto. Forse gli avrebbe anche detto di non alzarsi che l'indomani, poichè nemmeno la giornata era troppo bella, se la sorpresa del pranzo, che volevano fargli pel ritorno e al quale avevano tanto pensato nella sua assenza, non fosse così andata perduta. Poi le sarebbe parso di considerarlo ammalato per davvero.

De Nittis affranto non fece alcuna obbiezione.

L'altra, uscita al solito, mentre egli si svestiva, rientrò poco dopo, appena lo intese rivoltolarsi sul letto, per rimboccargli le coperte e portargli via il lume dal comodino.

—Dorma,—gli ripetè due o tre volte autorevolmente.

Egli ebbe un triste sorriso.

Ma invece di chiudere l'uscio, ella aveva già abbuiata l'altra stanza, e si sedette senza far rumore daccanto al tavolino per essere più pronta ad una chiamata.

Coll'intuizione degli affetti veri ella aveva indovinato in lui una ferita: che cosa era stato? Ella non aveva osato di chiederglielo, ma si teneva sicura di saperlo da lui stesso l'indomani, giacchè il professore non le aveva, almeno secondo lei, tenuto mai nulla segreto. Da quindici anni egli restava il padrone ben educato, contento, spesso distratto, che parlava pochissimo, e non si occupava affatto della casa; ella invece vi era tutto, vi faceva da governante e da padrona, da zia e da serva, spiegando la tirannia della sorveglianza sino nei più minuti particolari, ma temprandola coll'affettuosità gioconda del carattere.

Margherita aveva per il professore una idolatria incondizionata. Anzitutto sapeva che nessun altro all'università valeva quanto lui, perchè persone rispettabili glielo avevano detto; poi la castità della sua vita, nella quale non le era mai riuscito di trovare le traccia di una donna, aveva messo in quella sua ammirazione un'altra tenerezza. Ella medesima non aveva avuto che un amore infelice nella prima giovinezza, uno studente rapito da una tisi, al quale pensava sempre come nel primo giorno del loro primo incontro. Anche Tonina aveva vissuto così in una purità d'abbandono. Ma il professore aveva amato? Amava ancora? Quante donne si erano innamorate di lui, perchè Margherita lo sentiva bello anche ora, e dovea essere stato bellissimo in gioventù? E quella castighezza di costumi fuori di ogni regola religiosa, poichè De Nittis non andava mai in chiesa, la stupiva sopra tutto. Come mai il professore non credeva a nulla? Margherita aveva tentato di parlargliene qualche volta senza ottenerne mai più di un sorriso per risposta: quindi se ne era aperta persino col proprio confessore, un buon vecchio, che conoscendo bene De Nittis, le aveva detto solo di pregare Dio più fervidamente perchè finisse di convertirlo.

Infatti da molti anni, ogni sera, ella diceva con Tonina un rosario a questo scopo.

De Nittis non dormiva. Più d'una volta, adagio, senza far il minimo rumore, ella venne nell'ombra a mettere il capo dentro l'uscio. Erano le dieci del mattino: qualche filo di luce passando attraverso le finestre rigava le tenebre della stanza, che il rumore delle carrozze rotolanti sulla strada tratto tratto scrollava.

Ma in quella stanchezza malata di tutto il corpo, De Nittis si sentiva soffocare come da un gran peso. Era fuggito improvvisamente da Roma, spaventato della propria debolezza dopo quell'ultima scena con Bice; l'amava egli? Se ne era ella accorta veramente? O dicendoglielo aveva cercato solo una scusa alla propria imprudenza? Malgrado la lunga abitudine d'impero sopra sè stesso, De Nittis non arrivava ancora a sbrogliare questi problemi, che gli si ripresentavano ostinatamente al pensiero. Certo qualche gran cosa era avvenuta nel suo spirito. Quella fanciulla, sulla quale da principio aveva riportato tutta la tenerezza passionale, indarno per tanti anni inspiratagli dalla contessa Ginevra, era cresciuta nella sua anima riempiendola a poco a poco. Senza di lei da lungo tempo non avrebbe più saputo di che vivere. Poi quella solitudine della vita gli si era allargata intorno come un deserto, che ella sola attraversava ancora col volo rapido e leggero della giovinezza; ma quando Bice si allontanerebbe un giorno al braccio di un altro uomo, egli ci aveva pensato spesso, tutto sarebbe davvero finito per lui. La sua vita lungamente assorta nel sogno di una immensa ambizione, quindi assopitasi in quella castità semi-religiosa, si era un mattino risvegliata sotto le brine dell'inverno; tutto era freddo nell'aria, il cielo s'intristiva, e dall'orizzonte opaco non soffiava più che un vento umido e silenzioso.

Perchè era vissuto così? Può l'individuo dirigere davvero la propria vita? Poichè ogni proposito gli era fallito malgrado tutta la superiorità del suo spirito e la purezza delle intenzioni, bisognava che in lui fosse un qualche capitale difetto. Ma dove? Una volta egli aveva creduto di scoprirlo nell'aver troppo dimenticato, per diventare un grand'uomo, che le più alte grandezze della vita vi spuntano dal fango comune, assimilandosene con maggior voracità le forze misteriose. Così in una continua fantasia di epopea, aveva camminato sul margine di tutte le battaglie, sprezzante della loro meschinità e amaramente altero di saperne già prima il risultato.

Ricapitolando la propria vita non glie ne restava quasi nulla. Aveva letto una infinità di libri senza scriverne uno, nel quale potesse aspettare tranquillamente l'immortalità; forse vi riuscirebbe ancora, ma non sarebbe mai che un libro imperfetto, la espressione parziale di un'epoca, nella quale non aveva saputo tuffarsi per riportarne dai gorghi profondi il segreto. Poi la vita non può essere solamente meditazione: in tal caso bisognerebbe uscirne col mezzo suicidio dei monaci, che volgendo risolutamente le spalle al mondo si affisano nell'al di là. Ma quanti restavano entro l'orbita comune dovevano accettare la vita in tutte le sue forme, diventare padri essendo stati figli, amare per essere amati, estenuarsi e morire nella conquista di un predominio intorno a sè stessi per disciplinarvi le inutili ribellioni dei più deboli alle fatali necessità della storia. Tutto il segreto della felicità umana era lì; chiunque si apparta è un ribelle, e i ribelli finiscono sempre coll'essere vinti.

Quindi la natura, sopraffatta dalla violenza della volontà nella giovinezza dello spirito, ripiglia sovra di esso verso sera terribili rivincite; tutte le passioni rifioriscono impetuosamente agli ultimi soli autunnali, mentre quanto ci pareva prima spregevole, le illusioni più volgari, i piaceri più insulsi, le funzioni più basse si colorano di una ineffabile poesia. Allora si vorrebbe ritornare indietro, innamorarsi della donna meno bella, stordirsi nelle orgie più animali: la vita domestica nelle sue più umilianti miserie, colle figlie senza dote e i figli bisognosi di un impiego, alla quale una volta si pensava con altero pessimismo vantandosi intimamente di essere rimasti scapoli, rivela improvvisamente gioie insondabili, che mantengono nella vecchiezza il tepore delle gioventù sorgenti, e preparano alla morte stessa la calma di un riposo meritato. Spesso nelle anime più ardenti, che maggiormente soffersero nella mortificazione della vita, le passioni irrompono come galeotti dal carcere: i loro rimpianti hanno allora lo stridore delle bestemmie e l'inconsolabilità del passato. Che cosa restano la gloria, la virtù, l'ideale, anche se raggiunti, quando si sta per smarrirli nella morte? La loro illusione non vale più una bella mattinata di sole, coll'appetito di una volta; e la prima fanciulla, che vi passa vicino senza vedervi, perchè siete vecchio ed ella porta a qualche giovane il sorriso fresco de' suoi diciott'anni, vi schiaccia sotto un disprezzo, contro il quale nessuna reazione è possibile.

De Nittis lo aveva già provato molte volte.

Allungato sotto le coperte nell'ombra, senza trovarvi riposo, rifaceva per la centesima volta in quelle ventiquattr'ore il bilancio della propria vita con stoica amarezza. In sostanza non aveva mai vissuto, giacchè per vivere bisogna sorbire la vita degli altri abbandonando loro la propria: ecco perchè l'ebbrezza della gloria vince quella dell'amore di quanto il possesso dell'anima di un popolo supera l'altro dell'anima di un individuo.

Egli invece aveva sempre divorato sè medesimo. Solo colla piccola Bice il suo cuore aprendosi alle affezioni ordinarie aveva cominciato a comprendere l'immenso mistero di tanti milioni di uomini viventi come senza ideale, e nullameno felici nella pienezza della propria coscienza. E d'allora aveva capito molte altre cose. L'amore per la donna, che gli si era acceso nel sangue solamente a certe ore, mentre il suo pensiero seguitava a sorriderne quasi sprezzantemente, gli rivelò nell'affetto per Bice l'amore dei figli rinascenti per le serie dell'umanità attraverso il dolore di tutte le sue tragedie e la letizia di tutte le sue creazioni. Chi non è padre non è uomo. Di tutti i suicidi il solo veramente intero è il rifiuto alla generazione, la rinuncia della propria umanità gittata a tutto il numero degli uomini, che furono e che saranno, la sfida della volontà contro la creazione. Solo chi non volle generare serba il diritto di uccidersi, non avendo mai imposto ad altri la vita; mentre chi s'innamora d'una donna, subisce l'attrazione della sua potenzialità materna, e non è pessimista.

Forse non si può esserlo davvero.

Sotto la pressione di queste idee De Nittis si sentiva ingrossare nel cuore un'onda di pianto. Mentre tutti gli uomini prendono radice nelle proprie posizioni, egli era vissuto dovunque al bivacco: aveva abitato come straniero presso parecchie famiglie nei primi tempi della sua carriera professorale, aveva veduto rinnovarsi ogni anno intorno alla cattedra gli studenti presso a poco come un viaggiatore, mutando albergo, trova sempre nuovi ospiti. Egli si ricordava le desolate malinconie di tanti giorni, quando soffocato dalla solitudine della propria stanza era costretto ad uscire per le strade cercando indarno qualcuno, a cui interessarsi. Era solo. Tutti gli passavano vicino preoccupati dei propri interessi, travolti da passioni effimere ma assolute, che riempivano il loro egoismo. Il loro saluto tradiva sotto l'amabilità convenzionale la più profonda indifferenza, la loro ammirazione per il suo ingegno era fredda: si sa che nella vita vi sono sempre stati uomini superiori, si riconoscono, e si passa oltre. Che importa il loro nome dal momento che vi debbono essere? Il pubblico non si appassiona che per coloro, i quali sposano i suoi interessi, e vivono della sua vita bassa e turbolenta. De Nittis si sentiva come un esule attraverso un paese, nel quale il popolo parlasse un'altra lingua.

Poi le ultime scene di Bice gli rinnovavano nell'anima la prima trepidazione. La fanciulla gli aveva confessato la propria passione, umiliandosi ingenuamente davanti alla grazia, che invocava, mentre egli invece non si accorgeva più da molti anni della sua bruttezza. Come accade sempre nelle lunghe e profonde intimità, che le virtù dello spirito trionfano dei difetti del corpo, Bice era per lui la più adorabile delle donne: la sua squisita intelligenza e quell'infallibile delicatezza di cuore, che le faceva sorvolare ogni volgare malvagità della vita, davano alla delicata poesia della sua giovinezza un senso quasi religioso. Egli l'amava con tutta l'anima, non sapendo ancora di quale amore. Certo vi era in esso della paternità, quella tenerezza protettrice dei vecchi fatta di rimpianti e di prognostici; ma talvolta si era pure sorpreso a respirare il suo profumo di giovinetta con una sensazione indefinibile. Mentre i padri non possono avvertire il sesso dei figli, egli aveva colla fine analisi del proprio gusto di artista colto tutte le segrete bellezze del suo essere femminile. Bice così magrolina aveva spesso delle movenze e degli atteggiamenti prestigiosi. Ne' suoi occhi stellanti passavano talora delle caldezze, che davano al pallore della sua faccia un'ansia di aspettazione, quasi un impeto di appello, simile ai lampi della calura nel fondo delle notti estive. Ma la sua anima ardentemente religiosa in quella segregazione impostale dalla ricchezza e dalla educazione, non viveva più che di poesia. Il suo lusso stesso, le sue mode erano appena un motivo per scegliere una forma o un colore senza mai alcuna di quelle vanità, che tolgono all'eleganza femminile colla grazia della spontaneità l'altra anche più signorile della inconsapevolezza.

Ma ella aveva sopratutto della donna quella tenerezza inconscia ed inesauribile per tutte le miserie, che costituisce il fondo della maternità. L'amore pel bambino non è forse tutto di pietà per la sua condizione di inerme, e la sua incapacità a poter sopravvivere un'ora abbandonato a sè stesso? Così Bice aveva sentito la solitudine, nella quale si dissolveva la vita di De Nittis malgrado tutti i suoi sforzi per nasconderlo, e ne aveva sofferto nella propria tristezza di abbandonata. Certo non le sarebbe stato egualmente facile indovinare tutte le tragedie del suo pensiero fra la glaciale indifferenza del pubblico, ma il suo cuore si era esaltato in un irresistibile ritorno di amore verso quell'orfano misterioso della gloria, che da venti anni vegliava su lei orfanella della vita.

Egli invece, adoperandosi sinceramente ad impedire la sua rottura con Lamberto, aveva sentito sino d'allora in quella segreta ripugnanza di Bice l'istintiva antipatia della donna debole e spirituale per la bella e vuota mascolinità dell'uomo; ma non avrebbe mai immaginato che la fanciulla finirebbe per innamorarsi di lui. Nullameno era vero, ed era tardi. A sessant'anni, coi capelli bianchi e l'anima già sorpresa dai primi freddi della morte, sarebbe stata per lui una immoralità ed una ridicolaggine accettare l'offerta di quella vita di vergine. Contro tale triste debolezza sapeva di essere sicuro, ma era ancora dolorosamente meravigliato di doverne tanto soffrire. Perchè non aveva subito dissipato colla solita fine ironia questa illusione di Bice? Perchè, commovendosi come un fanciullo, le aveva invece lasciato credere di amarla come un uomo? Perchè cedendo alle sue ultime insistenze, e lasciandosi strappare una promessa, che lo aveva già degradato in faccia a sè medesimo, era fuggito l'indomani senza mandarle nemmeno un biglietto? E ora bisognava con una violenza rigida ed improvvisa troncare una situazione egualmente falsa per entrambi, che avrebbe reso lui la favola della città e attirato su Bice i sarcasmi di tutti i giovani. Poi la contessa Ginevra doveva a quest'ora esserne già sdegnata. Egli aveva amato la bella donna molti anni prima senza dirglielo, e verrebbe ora a domandarle la mano della nipote! Che cosa direbbero Prinetti e il dottore? Solo il povero Giorgi avrebbe potuto comprendere la delicata tragedia della sua anima in quel momento, e compiangere sino ad approvarla.

Erano già passate molte ore.

Adesso, fermamente deciso a rompere quell'incanto con Bice, si diceva segretamente che pure sarebbe stato degno di tale felicità. Nessun uomo avrebbe mai abbastanza delicatezza per quella troppo gracile fanciulla, che forse fra non molto finirebbe col cedere a qualcuno innamorato solamente della sua dote. Quindi abbandonandosi al sogno della vita, che avrebbe potuto passare con lei, avviluppava Bice in una passione di padre e di amante entro una visione domestica, dal sentimento profondo ed ingenuo come un quadro del quattrocento, prima che l'invasione delle bellezze pagane ritornasse ad accendere nel nostro sangue la febbre di tutti i vizi. Ma poi s'accorgeva che anche quei sogni erano una debolezza volgare dinanzi al pericolo di un incontro con Bice in casa della contessa Ginevra. Quanto tarderebbero ancora? Come si presenterebbe loro? La contessa Ginevra sapeva già tutto, o Bice nell'offesa di quel rifiuto aveva serbato il silenzio? Egli propendeva per questa seconda ipotesi senza potervisi raffermare, ma un incontro con Bice era pur sempre inevitabile. Egli aveva avuto un torto irremissibile nel lasciarsi sfuggire il segreto del proprio amore, mentre ella confessandosi brutta con tanta insistenza toglieva anticipatamente ogni valore a tutte le obbiezioni della sua vecchiezza.

A quarant'anni tutto sarebbe stato possibile, ma adesso era già troppo vecchio per ogni altra donna. Quella forza misteriosa, che caccia ostinatamente tutti gl'individui verso il matrimonio, anche quando la natura parrebbe omai dispensarli dal supremo ufficio di servire alla razza, gli si aggravava con irresistibile crescendo sulla coscienza; mai come in quel momento aveva sofferto le tentazioni della vita in due, quel bisogno supremo di non essere più solo, che unicamente la creazione di una famiglia può calmare nell'uomo. Evidentemente l'antichissima definizione indiana dell'uomo triplo come padre, madre e figlio era sempre la migliore, giacchè non potendo svolgersi in tale triade tutti rimanevano inconsolabili. Egli lo aveva sempre ammesso, calmo nella coscienza di aver trionfato della natura coll'offrirla in sacrificio ad un più alto ideale, mentre invece ne sentiva ora piangere dentro il cuore tutte le necessità. Era tardi; la natura si vendicava col mutare in castigo la funzione, alla quale per tanti anni lo aveva invitato con ogni sorta di carezze. Forse i suoi sessant'anni, vegeti e quasi vergini, avrebbero avuto ancora abbastanza forza per l'amore di quella frale giovinetta, ma il matrimonio per essere legittimo deve, sorpassando l'amore, elevarsi a tutela di tutto un gruppo di deboli, che solo una potente energia di marito e di padre può educare alla vita. I matrimoni dei vecchi invece non sono generalmente che la più ignobile forma di prostituzione, un accordo di due corruttele fra impotenze di sensi ed insufficenze di anima.

Nella camera si era fatto più caldo. Quei raggi di sole, filtrando dalle fessure della finestra, parevano striscie di fuoco, che accendessero l'aria; De Nittis si sentiva scottare le lenzuola addosso, ma non ebbe il coraggio di alzarsi non sapendo dopo come ingannare il tempo. Allora tentò di fissarsi in qualche idea noiosa per dormire.

—Vuole che le porti una tazza di brodo?—chiese improvvisamente nel buio Margherita, che vegliando all'uscio lo aveva inteso sospirare.

Ma quando gliela ebbe fatta trangugiare, Margherita si ritirò chiudendo la porta colla sicurezza che il brodo lo avrebbe fatto dormire: infatti egli non si svegliò che l'indomani, all'alba, quasi tranquillo.

Aveva fame. Attese per far colazione che le due donne si fossero alzate, poi si chiuse nello studio. La sua risoluzione era presa, andrebbe da Bice e con poche parole le farebbe comprendere la impossibilità del loro matrimonio. Una pace fredda gli si era fatta nel cuore, simile a quei mattini invernali, limpidi e muti, col cielo azzurro e tutta la terra bianca di neve. Dopo questa prova suprema non avrebbe più altro da attendersi: vivrebbe ancora pochi anni, solo fra quelle due povere donne, aspettando la morte coll'altera indifferenza di chi non ha più nulla da perdervi o da sperarvi.

Per la larga finestra senza tende entravano coll'aria frizzante della mattina tutte le sonorità della strada: niente era ancora mutato nella sua esistenza. I vecchi libri riempivano sempre gli ampi scaffali, sullo scrittoio ogni cosa era al solito posto, i manoscritti, le carte, il grosso calamaio bianco di maiolica, la stecca, colla quale giocherellava per solito leggendo. Come aveva dunque potuto pensare d'introdurre una giovinetta milionaria in una simile esistenza di benedettino? Era stata una folata di maggio, un'eco della sua giovinezza di studente ridestataglisi in cuore girando per qualcuna di quelle strade di Roma, ove quarant'anni prima aveva tanto vagabondato in gazzarra coi compagni.

Ma tutto ciò era adesso così lontano, che non gliene restava nemmeno un ricordo abbastanza vivo per desiderare di ritornarvi. A che ricominciare la vita per trovarsi vecchio da capo, nell'umidore ghiacciato del tramonto, dinanzi alla pallida prateria, in fondo alla quale biancheggiano le mura del cimitero?

Quella mattina si ricordò di avere una seduta al consiglio dell'università. Il rettore volle dopo condurlo nella propria villetta, fuori di porta San Mamolo, a pranzo. Era un vecchio medico, d'ingegno mediocrissimo e di una vanità puerile, che si teneva in casa, dopo la morte delle due figlie, uno dei molti nipoti, ingegnere abbastanza intelligente e giocatore sfrenato, sempre in lite anche con lui e colla propria moglie. De Nittis entrando in quella famiglia provò un senso di pena; la moglie dell'ingegnere era brutta, il pranzo fu cattivo. Appena potè liberarsene andò verso il caffè delle Scienze, ove generalmente si radunava un gruppo di professori; ma una malinconia subitanea lo sorprese, girando sotto tutti quei portici. Si ricordò l'ultima volta che Bice era venuta a pranzo da lui, e che egli l'aveva riaccompagnata a casa sulle dieci, a braccetto, come due innamorati, mentre ella gli si abbandonava quasi sulla spalla.

Molta folla era tuttavia in giro a coppie, a gruppi, coi bambini, aspirando nei primi tepori del maggio le esalazioni aromatiche involate dal vento alle campagne in fiore. La gente pareva allegra. Secondo il solito egli si era scordato di comunicare a Margherita quell'invito a pranzo fuori di casa, ma adesso, dopo la rinuncia al sogno di amore con Bice, si sentiva preso da impeti di tenerezza per quelle due serve riparate dentro la sua vita, e che invece finivano per proteggerla. Forse le due donne non avevano pranzato aspettandolo. Decise di andare a vederle, poi il pensiero di rincasare così presto lo spaventò: la notte sarebbe troppo lunga senza dormire, senza studiare, sino alla mattina. Eppure d'ora innanzi, tutte le sere si succederebbero così, giacchè dopo un'ultima spiegazione con Bice avrebbe dovuto diradare per molto tempo o forse anche sopprimere quelle visite. Dove andrebbe allora? Presso chi altri si rifugierebbe?

Invece di entrare nel caffè svoltò all'angolo verso la vecchia basilica di Santo Stefano, gironzando a caso.

Le strade vuote, perchè la gente teneva sotto i portici, gli parvero lugubri: tratto tratto la luna da una cantonata gettava una larga pezza biancastra sino a mezzo le case, dando al resto delle loro ombre una cupezza sinistra. Strani fantasmi, memorie dell'antica città, quando le fazioni vi si agitavano in una guerra senza requie fra drammi di congiure e di amori, gli tornavano alla memoria: erano tempi passati, obliati, come presto lo sarebbe anche il nostro, senza che delle loro opere immortali alcun giovamento venisse ora agli autori.

—Sei tu!—gridò improvvisamente Ambrosi.

Il dottore più stanco del solito strascicava i piedi.

—Sei tornato con loro?

—No,—rispose De Nittis trasalendo.

Ambedue avevano rallentato il passo, poi tornarono sotto i portici per cansare l'acutezza dei ciottoli; il dottore aveva sempre il medesimo bel colorito vegeto, ma pareva di umore più cupo.

—Vai a casa? Ti accompagno,—disse De Nittis.

—Debbo fare ancora due visite.

—Perchè? ti affatichi troppo.

—E che cosa vuoi che faccia?—scoppiò finalmente:—che vada a casa? A fare che cosa? Tu studi ancora; sei un fortunato, che non lo merita, perchè avendo voluto sottrarti ai pesi della famiglia dovresti finire nella desolazione di tutti i vecchi scapoli. Io invece avevo avuto da giovane questo coraggio…. e mi è finita così.

Vi era un rimpianto così disperato in queste sue parole che De Nittis non cercò nemmeno di consolarlo.

—Uhm!—riprese il dottore, come strapazzandosi per quell'inutile sfogo e cercando di mutare discorso.—Hai divertito la piccina a Roma? Raccontami un po': senza Bice non so come noi avremmo da molti anni passato le nostre sere. Sta bene, eh? Quando torna?

—Non lo so.

—Come non lo sai?

De Nittis s'imbarazzò nuovamente.

—In ogni modo,—l'altro replicò,—la contessa Ginevra, nè anche lei può stare molto fuori di casa. Tornerà presto: Lamberto è venuto a trovarvi?

—No.

—Asino! doveva venire. Lo avete visto?

—Sì, una mattina a cavallo.

—Ma non ti ha detto niente la contessa Ginevra? Io credevo che in quell'invito della principessa qualche disegno di matrimonio per Bice a Roma ci dovesse essere. Oramai non c'è molto d'aspettare, perchè adesso ha raggiunto il massimo della salute, e una troppo lunga vigilia del matrimonio è quasi sempre dannosa alle donne anche meglio costituite. Non sono come noi, che possiamo sfogarci altrove, ne convieni anche tu? Che cos'hai stasera? Sei seccato come me, della vita, che meniamo?

—Seccato! trova una parola più brutta.

—Non durerà un pezzo,—ribattè l'altro scrollando sprezzantemente le spalle.—Ma il matrimonio è per Bice da capo un problema di vita o di morte. Che cosa credi che sia quel suo corpicino? La sua resistenza, per quanto la natura possa avere delle forze segrete, è molto sotto la media; ma il pericolo non sta lì. Bice può soccombere più facilmente ad un contraccolpo morale. Oggi chiamano tutto isterismo, un'altra generalità piena di errori e di pretensioni: s'immaginano che ogni delicatezza dipenda esclusivamente dall'indebolimento di un organo. Non è vero. Esco adesso da una casa di povera gente, dove curo una ragazza fisicamente più malandata di Bice: è scrofolosa, tubercolotica, ma di una animalità rivoltante.

—Dove andiamo ora?—domandò De Nittis.

—Arrivo sino a San Salvatore; se non hai dove andare, accompagnami. Qui a Bologna non c'è nessuno per lei,—proseguì il dottore ripreso da quella preoccupazione del matrimonio di Bice, e felice di poterne parlare con De Nittis, come lui quasi un padre della fanciulla.—Non conosco alcuno capace di trattarla come va trattata. La sposerebbero per la dote tutti questi giovani, che adesso sognano solo di far carriera: non amano più nemmeno la scienza per la scienza!

—Diventi brontolone anche tu: forse che ai nostri tempi eravamo migliori?

—Non lo so, ma sento che con questo mondo io non vado più. Ecco qui!—esclamò fermandosi:—ho da salire due capi di scale.

—T'aspetto.

—Ti seccheresti, tira via. Passerò io a vedere se sono arrivate domani mattina: io mi alzo prima di te.

De Nittis tornò subito a casa.

La malinconia del dottore aveva irritato nuovamente tutti i suoi rimpianti. Anche quest'ultimo assetto della sua vita, colle poche lezioni all'università, la casetta linda con Margherita e Tonina, che vivevano in una incessante preoccupazione di servirlo bene, il salotto della contessa Ginevra, nel quale la sera andava a riposarsi nella più pura e spirituale amicizia, tutto si scomporrebbe. Il povero Giorgi era già morto, Prinetti aveva dovuto emigrare da capo, la contessa Maria adesso divideva il proprio tempo fra Torino e Bologna, Bice prenderebbe marito, e non resterebbero più che lui e il dottore. Ma anche Ambrosi calava: la piaga apertagli nel cuore dal figlio sanguinava sempre come al primo giorno, costringendolo a cercare nello stordimento del lavoro un sollievo momentaneo. Al pari di lui Ambrosi fuggiva disperatamente dalla propria casa. Poi una malattia terribile, inguaribile, impedirebbe loro una qualche mattina di uscirne più; tutta la speranza sarebbe allora di non impiegare troppo tempo a morire. Ma come rimanere solo tutto il giorno in casa, sopra una sedia, già segregato dalla vita, davanti al mistero della morte, senza un cuore che vi batta ancora d'intorno?

Napoleone I lo aveva detto, durante le discussioni sul Codice civile, in uno di quei suoi scatti: Se l'uomo non invecchiasse, non vorrei che pigliasse moglie.

Questa concessione, strappata dalla debolezza di tutti ad una delle anime più forti apparse nella storia, era una di quelle verità, che si rivelano solamente quando non potendo più operare siamo costretti a ripiegarci sopra noi medesimi. Ma poichè si era allora voluto definire scioccamente il matrimonio un contratto senza saperne precisare la natura, le parole di Napoleone I avrebbero dovute essere meglio comprese: il matrimonio era un contratto di assicurazione contro la vecchiaia.

Questa strana definizione, della quale sentiva intimamente la dolorosa verità, fece sorridere De Nittis.

—Io non avrò che la pensione!—mormorò quasi ad alta voce.

E la pensione era un'altra ridicolaggine! L'uomo, bambino per tutta la vita, che si lascia imporre il salvadanaio, rinunciando persino al diritto di romperlo.

A casa Margherita e Tonina erano già a letto.

Ma l'indomani De Nittis era più nervoso. Margherita non osò interrogarlo sulla gita di Roma; egli tentò indarno di lavorare. Poi a forza di meditare su quella inevitabile spiegazione con Bice finiva col non vedervi più nulla di chiaro: a che prò voler regolare la vita sopra un disegno logico, mentre tutto vi accade sempre a rovescio di ogni previsione: solo le ispirazioni del cuore erano infallibili, almeno in questo che appagavano qualche bisogno momentaneo? Se Bice aveva rifiutato Lamberto per lui, giacchè adesso De Nittis credeva di comprendere tutte quelle misteriose ripugnanze per il bell'ufficiale, il miglior partito era ancora di sposarla rinunciando ad ogni critica sulla passione. Il loro matrimonio nell'oblìo di ogni volgare interesse, e sotto la protezione dell'ideale, sarebbe ancora più vero di molti altri. In fondo egli aveva ben meritato con tanti anni di eroica preparazione questa gioia suprema di morire avvolto nell'amore, lasciando a Bice tutta la propria anima in un bambino biondo e sorridente.

Nullameno la ragione protestava sempre. Che cosa sarebbe egli fra pochi anni, forse fra pochi mesi? I vecchi meglio conservati si disfanno anch'essi improvvisamente per rimanere un avanzo senza nome, una reliquia, che solo la pietà interessata dei parenti ritira dal torrente della strada. Allora Bice, pentita del proprio amore, dovrebbe sforzarsi indarno di nasconderglielo per un'ultima carità: bastava questo pensiero ad immergerlo nel più squallido avvilimento.

Ma quella solitudine della casa gli diventava intollerabile. Le lezioni all'università, lo studio per la grande opera, le preoccupazioni per Bice, nel salotto della quale passava tutte le sere, gli avevano tolto sino allora di accorgersene; mentre adesso, davanti alla sua certezza uniforme, vuota, tutto il suo essere rabbrividiva. Una smania gl'impediva di star seduto o di applicarsi, anche per poco tempo, sopra qualsiasi libro. Quando usciva di casa, se ne pentiva quasi sulla porta: dove sarebbe andato? Almeno Ambrosi aveva i propri ammalati, egli invece non avrebbe potuto preoccuparsi che degli studenti, svogliati od ostili al suo corso, perchè di nessuna immediata utilità nella vita. Quegli studenti, apprendisti di un mestiere, li conosceva anche troppo. Nullameno gli conveniva rimanere lunghe ore fuori di casa per non soffrirne almeno quel triste senso di prigione. Involontariamente passò dinanzi al palazzo della contessa Ginevra: il portinaio non era secondo il solito sulla soglia; e non potè quindi sapere se fossero tornate, ma attraversando la strada, dall'altro portico, vide tutte le finestre dell'appartamento spalancate.

Bice vi era già?

Egli provò una strana letizia a tuffarsi in questo dubbio.

Rigironzando a caso per le vie tornò ancora davanti al palazzo colla improvvisa sensazione di ridiventare giovinetto, ai tempi del liceo, quando i primi sorrisi di una fanciulla ci traggono a commettere le più deliziose insulsaggini. Ma in tale orgasmo gli ritornava un altro bisogno di espandersi, di esalare con qualcuno, magari dinanzi ad un paesaggio, tutta quella foga di sentimenti simile ad una crisi primaverile, che si sfoga in profumi e in susurri.

La città cominciava a vuotarsi: i ricchi andavano già in campagna, la gente vestita a colori chiari passava sudando e ridendo, come presa nella forza di quel calore vibrante di tutte le fecondità. Egli solo rimaneva immutabile dentro quel soprabito nero, che lo segregava dalla vita, come un uomo diverso dagli altri. Infatti nessuno fra i tanti, che lo salutavano, avrebbe osato d'invitarlo ad una gita fra il chiasso di persone tutte egualmente felici di non saper pensare, riconoscendolo per uno di quegli illustri, ai quali si ricorre soltanto per un consulto, o che si ammirano a distanza. La sua piccola gloria non aveva altri vantaggi.

Allora non seppe più che cosa fare. Tutta la sua risorsa di ozioso fu di mettersi a curiosare per le strade, fantasticando sulle loro vecchie architetture così belle e così poco celebri per non avere ancora avuto un poeta, che le riveli alla indifferenza del pubblico. Girò a caso dietro a ricordi di cronache o di progetti edilizii, che gli ritornavano improvvisamente nel pensiero, sempre più stanco, con una sensazione di solitudine in mezzo a quella vita cittadina, che gli si addensava intorno da tutte le porte, riempiva le case, gridava dalle finestre, si mutava per ogni strada e per ogni vicolo in un quadro continuo ed evanescente, tumultuoso ed inafferrabile. Quante belle cose avrebbe potuto scrivere, se quel cristallizzare sempre il proprio pensiero, mutandone la poesia in fatica, invece di lasciarlo esalare come fanno i fiori coi profumi, non gli fosse in quel momento sembrata la più insopportabile delle goffaggini!

La sera, dopo pranzo, andò risolutamente al palazzo della contessa Ginevra: le signore erano ritornate nel pomeriggio. Allora ebbe paura; invece di salire si avviò verso i giardini pubblici. La notte era splendida, le stelle aggruppate nell'azzurro avevano una limpidità quasi sorridente, l'aria ondulava ad un vento leggero.

Ritornò.

La contessa Ginevra, la contessa Maria, il dottore, Bice stavano nel salotto attendendolo. Per la prima volta, dopo tanti anni, nell'entrarvi si sentì preso da un imbarazzo doloroso. La sua bella testa, impallidita in quei giorni, aveva un'espressione tale di sofferenza che la contessa Ginevra se ne accorse subito, e gli chiese affettuosamente:

—Siete dunque stato male, mio caro professore? Scappaste da Roma così senza neanche lasciarci un biglietto: che cosa fu?

Bice, alla quale aveva frattanto stretto la mano in silenzio, pallida anch'essa e coi grandi occhi dilatati, spiava la sua risposta; mentre il dottor Ambrosi col mal umore affettuoso dei vecchi sembrava tener il broncio alle due signore per esser rimaste tanto assenti.

—La scuola….—mormorò De Nittis, soffrendo di dover mentire.

—Avreste potuto dircelo,—insistè la contessa Ginevra;—non abbiamo saputo che pensarne. Bice voleva ripartire subito.

La conversazione si arrestò, Bice e De Nittis non avevano ancora scambiato una parola. La contessa Ginevra raccontava al dottore e alla contessa Maria le proprie impressioni di Roma. Erano malinconiche. Ella ricordava segretamente l'epoca del proprio impero a Firenze con una inconfessabile amarezza nel confronto della indifferenza, colla quale era stata accolta a Roma da coloro, che un tempo insuperbivano di frequentare i suoi saloni. Il mondo era mutato, altri interessi, altri personaggi vi occupavano i primi posti; altri sentimenti e altre mode vi facevano la regola. Ella ne parlava con una satira rattenuta, pur consentendo alla inevitabile ingratitudine umana di essere stata trattata così.

—Oramai,—si volse a De Nittis,—siamo tutti avanzi del medesimo naufragio. Tu sola, Maria, che non volesti mai saperne del mondo, puoi non comprendere la nostra posizione.

—Che cosa dovrebbe darvi il mondo, che non ha nulla per le anime? Tu,
Bice mia, farai benissimo ad evitarlo.

—Non ci avrò molto merito: non sono come la zia per poter pretendere di regnarvi.

—Anche tu, Bice, contro di me! Domani pranzeremo tutti assieme: verrete, non è vero? perchè Bice vuole andare, subito dopo, in campagna.

—È dunque un pranzo di addio?—lasciò sfuggirsi De Nittis.

—No, è un pranzo di riparazione,—proruppe il dottore.—Non vedi che anche Bice è un pochino estenuata; la campagna in questo mese è tutto ciò che vi ha di meglio. Che cosa vale star qui? Ci staremo io e te, che abbiamo una professione, benchè tu pure mi sembri peggiorato da qualche giorno; faresti anzi meglio ad accompagnarle per un paio di settimane. Così non avrò più nessuno intorno!

—Io resto tutto il mese venturo, ingrato!—disse la contessa Maria.

—Allora verremo da voi.

Non era più il salotto dell'inverno. L'assenza di Prinetti e di Giorgi vi aveva lasciato un vuoto malinconico, gli altri parevano invecchiati. Come accade sempre, anche quel gruppo, vissuto così intimamente per tanti anni, si sentiva colpito da dissoluzione nella monotonia stessa di quella amicizia, che niente veniva più a rianimare. Solo Bice, rinnovellandosi in una seconda famiglia, avrebbe potuto mantenerli uniti ancora per qualche tempo.

Finalmente si accorsero della tetraggine di De Nittis: egli si era seduto presso la contessa Maria occupata a cifrare delle pezze per bambini; Bice affettava di scherzare col dottore.

—Verrò a trovarti in campagna,—questi le diceva,—ma se non sarai a modo mio, dopo quindici giorni t'imporrò finalmente l'ultimo rimedio.

—Quale?

—Non importa che tu lo sappia ora.

Bice arrossì.

—Non sarà dunque un rimedio da dottore? Badate che non abbia ad esser peggio.

—Ti conosco, mascherina! Va, piccola presuntuosa: non c'è altro in fin dei conti. Non dico che sia una gran bella cosa, perchè al mondo di bello veramente non c'è nulla, ma è così perchè è così. Tu, Roberto, potresti su questo tema parlare meglio di me, molto più che stasera non hai ancora fiatato.

—Parlare di che cosa?—egli rispose, fingendosi distratto.

Tutti sorrisero meno Bice.

Ma il dottore, che aveva bisogno di vendicarsi sulle signore con qualche prepotenza, proruppe:

—Adesso io e De Nittis andiamo via: voi altri coricatevi perchè dovete essere stanche.

—Come lo dite, dottore!

Ambrosi e De Nittis accompagnarono la contessa Maria a casa, poi al momento di separarsi, il dottore gli domandò:

—Che cos'hai?

—Nulla.

—Qualche cosa hai: come va l'appetito?

—Non mangio.

—Male, ti vedrò domani a pranzo.

—Dimmi piuttosto di Bice: è sembrata anche a te deperita?

—Bisogna maritarla.

L'indomani De Nittis invece di venire al pranzo dalla contessa Ginevra, mandò un biglietto. Bice, che attendeva ansiosamente, leggendo quelle poche righe stentò a frenare le lagrime, il pranzo fu malinconico. Allora la contessa Ginevra, la contessa Maria e il dottore si consultarono con un'occhiata osservando la fanciulla, della quale la voce tradiva lo sforzo di una angoscia repressa. Che cosa le era accaduto? In pochi giorni il suo aspetto era mutato, la voce le si era arrochita, mentre improvvisi rossori le passavano sulle guance pallide, e il suo accento scorato diventava anche più impressionante. A volta a volta cadeva in lunghi silenzi, con quell'aria dei malati, che non sperano più.

Dopo pranzo Bice si ritirò un momento; allora la contessa Ginevra e la contessa Maria interrogarono ansiosamente il dottore.

—Temete che si ammali?

—Eh! ammalata è già,—ribattè impazientito.

—Rispondete dunque, dottore, per carità!

—La scienza non può niente in questo caso, è la vita che deve salvarla.

Le due signore scambiarono un'altra occhiata.

—Ma che cos'ha?

—È innamorata,—intervenne la vecchia Rosa.

Tutti si volsero.

—Te lo ha confessato, Rosa.

—Gli occhi….—replicò la vecchia con accento strano:—quelli di sua madre!

Ma dovettero troncare il discorso, perchè Bice rientrava.

L'indomani il dottore andò a trovare De Nittis. Evidentemente la fanciulla era innamorata di qualcuno al disotto di lei, poichè non ne aveva lasciato trapelar nulla, e solo la vecchia Rosa nella sua chiaroveggenza di nutrice se ne era accorta. La contessa Ginevra, spaventata dalle apprensioni del dottore, dichiarò subito di non opporsi a qualsiasi matrimonio, fidando in Bice per la onorabilità della scelta: per un istante avevano pensato ad un rinnovellamento della sua passione fanciullesca per Lamberto, che appunto in quei giorni aveva scritto alla contessa Ginevra per annunziarle le proprie nozze con una signorina romana, ma la perfetta indifferenza di Bice a quella notizia non poteva essere simulata.

—Sono già partite?—chiese De Nittis.

—Sì, quando vuoi che andiamo a trovarle? Tu le farai il discorso; anche per la rottura con Lamberto non si confidò che a te.

De Nittis non tentò nemmeno di resistere. Quest'ufficio, assegnatogli dal suo stesso ascendente spirituale su Bice, diventava l'inevitabile prova del suo amore per la donna! Perchè ricusarvisi?… Anzitutto avrebbe dovuto tradire il proprio segreto col dottore, che ne avrebbe certo risentito una cattiva impressione, poi la logica stessa della passione l'attirava a questo cimento col fascino irresistibile dei grandi dolori.

Il dottore stabilì la prossima domenica, sulle dieci del mattino.

Margherita lo attendeva sull'uscio per dirgli che il professore non mangiava e non dormiva più.

—Non sai nulla tu?—egli chiese senza fermarsi, perchè aveva fretta.

—Dev'essere un gran dispiacere.

—Eh! la vita è così: per ora non ho scoperto in lui niente d'importante, cerca di farlo mangiare.

De Nittis passò il resto della settimana in una specie di torpore senza uscire di casa. Tutta l'energia del suo carattere s'irrigidiva nello sforzo di questa suprema battaglia, nella quale salvando Bice doveva sacrificare irremissibilmente sè stesso senza alcuna di quelle illusioni, che abbelliscono tutti i sacrifici. Gli pareva quindi di essere già sopravvissuto a sè medesimo, non seguendo più la vita che come un cadavere abbandonato sulla corrente di un gran fiume. L'accento delle sue risposte con Margherita, quando ella veniva a chiamarlo per il pranzo, o insisteva per farlo mangiare qualche boccone di più, aveva quella inconsolabile rassegnazione, contro la quale anche le ostinazioni più affettuose debbono cedere.

La domenica mattina il dottore andò a prenderlo con una carrozza a due cavalli, perchè intendeva di ritornare in città nel pomeriggio, prima dell'arrivo del treno da Firenze, De Nittis sempre vestito di nero, ma più elegante del solito, aveva il volto pallido e gli occhi febbrili: il dottore gli fece qualche interrogazione, che l'altro troncò affermando nervosamente di stare benissimo.

Le campagne lussureggianti si agitavano sotto il sole ad un scirocco, che tratto tratto alzava dalla strada giallastra larghe nuvole di polvere sbattendole per l'alte siepi. Il dottore propose di abbassare il mantice della carrozza per fare un bagno in quel sole fecondatore; ma rimanevano entrambi taciturni.

Arrivarono giusto all'ora di colazione; Bice già sul prato ad attenderli, tutta vestita di bianco e con un ombrellino rosso aperto nel sole, ebbe un sorriso così dolce, scorgendo De Nittis, che parve trasfigurarla.

Ma a tavola questi non ostante tutti gli sforzi si sentiva mancare la parola: quel quadro di felicità fra Bice, la contessa Ginevra e il vecchio amico, d'onde uscirebbe per sempre volontariamente col primo consiglio rivolto alla fanciulla, gli dava in quel momento la prostrazione dei supremi abbandoni. La contessa Ginevra lo sorvegliava inquieta, Bice avvertita di una scena dal proprio istinto di donna lo covava collo sguardo, cercando di leggergli improvvisamente nell'anima.

Nullameno la colazione finì come al solito.

Il dottore impazientito si levò, allora De Nittis, seduto presso la contessa Ginevra, fece altrettanto senza dare il braccio a Bice, che ne rimase meravigliata.

Passarono nel salotto rustico.

—Piglieremo il caffè più tardi,—disse il dottore andando a chiudere l'uscio. La contessa Ginevra, seduta sopra una larga poltrona di vimini, si era tirata Bice vicino, il dottore venne a porsi dietro di loro.

—Sedete dunque anche voi, professore,—si rivolse scherzosamente la contessa a De Nittis.

—Perchè,—rispose con sottile ironia,—se dovrò fare un discorso?—e la sua mano sinistra stringeva nervosamente il piccolo fazzoletto bianco, col quale si era poco prima asciugato sulla fronte il sudore.

—Un discorso?—esclamò Bice fissandolo:—a chi?

—A te.

Tutti attesero.

Allora De Nittis riuscì a parlare. Si capiva benissimo che lottava seco stesso, ma sarebbe stato impossibile al dottore e alla contessa Ginevra indovinarne il perchè; nullameno Bice fu così impressionata dal suono delle sue prime parole che involontariamente fece l'atto di alzarsi verso di lui. Ella lo sentiva soffrire indicibilmente, forse al di là della sua forza medesima.

—Oh!—egli seguitò, respingendola con un gesto,—debbo dirti ancora altre cose. Se ti parlo, è tua zia che lo ha voluto, ma colui veramente degno di farlo è già morto. In questo momento, per te supremo, di librare la tua anima per lasciarla discendere verso il più profondo mistero della vita, solamente coloro, che come Giorgi toccarono il fondo dell'ideale divino, potrebbero darti la rivelazione dell'amore umano. Noi tutti non ti abbiamo accompagnata fin qui che per abbandonarti ad un altro; tu stessa devi avervi pensato, perchè la tua posizione è ancora più precaria della nostra. Noi siamo esauriti.

Ma le parole gli si imbrogliarono, mentre i suoi occhi fisi nello sforzo di dominarsi brillavano di una fiamma lontana di faro.

Nè Ambrosi, nè la contessa Ginevra si mossero.

Egli attese un istante, quasi per aspettare se lo aiutassero, quindi proseguì:

—Il nostro consiglio è che tu devi prender marito.

Bice ebbe un sussulto, guardò la zia, poi De Nittis, e gli rispose seccamente:

—Nient'altro.

—Per ora basterà,—intervenne il dottore cercando di rompere con uno scherzo la tensione della scena.

—Vi siete dunque riuniti per questo?

E il suo viso, divenuto improvvisamente duro, aveva una espressione energica di orgoglio.

—Non sei più una bambina, Bice mia: e se io non ci sarò più quando lo piglierai?—ribattè affettuosamente la contessa Ginevra, prendendole una mano.—De Nittis ha ragione, anche per Lamberto ti lasciasti guidare da lui.

—No;—rispose impetuosamente Bice,—egli avrebbe voluto che lo sposassi.

—Non ti piaceva: non hai veduto nessun altro dopo?

Bice corse nuovamente collo sguardo sui loro volti, mentre un tremito di freddo la scuoteva dentro l'abito bianco. Ma De Nittis non le lasciò il tempo di replicare. Era sempre in piedi, appoggiandosi con ambe le mani ad un tavolinetto formato di bastoncini, nell'atteggiamento di un oratore, che sta per concludere il proprio discorso.

—A che scopo resistere? La giovinezza è una sola stagione anche per lo spirito, ma se quello, che doveva esservi compito, non lo fu, diventa rimorso. Lasciati consigliare da tua zia: ella ha diritto d'importi tutte le forme dell'amore, anche quello di sposa e di madre, essendo stata tutto per te. Non puoi rimanere così orfana, dopo essere nata senza padre e quasi senza madre; il tuo cuore ha bisogno di questi sentimenti, che solo una famiglia germogliata dalla sua profondità può dargli. Noi vogliamo la tua felicità, tutto quello che la vita concede, pur facendoselo pagare caramente, ma senza cui non si può dire di aver vissuto. Noi non saremo forse ancora molto tempo intorno a te, noi vecchi: voi, contessa Ginevra, non lo siete ancora, parlo per me e per Ambrosi…. noi, che ti abbiamo adottato per tutto quello che ci era mancato, per tutti quelli che non potevamo più amare, abbiamo anche noi il diritto di vederti felice, amata da un uomo giovane come te. Non pretendere di isolarti, negando alla vita l'omaggio di una intera dedizione, giacchè anzitutto sarebbe indarno.

—Perchè dunque volete voi rimanere scapolo?

—Perchè lo sono rimasto piuttosto? Perchè? Questo perchè è già vanito, e sarebbe inutile cercarlo adesso che la mia vita è consunta: ma tu invece ti affacci alla primavera.

Rosa entrò portando il caffè; Bice per troncare quel discorso le andò nervosamente incontro, e l'aiutò a deporre il bacile sul tavolino.

Tutti rimasero impacciati. De Nittis si accorgeva di aver parlato con uno stento, che doveva parere enigmatico al dottore e alla contessa: istintivamente si mosse per uscire da quel gabinetto, nel quale si sentiva soffocare.

Poi temeva di aver la faccia stravolta.

Rosa aveva lasciato versare a Bice il caffè, sedendosi sopra uno sgabello in un angolo, silenziosa.

Allora il dottore fece un cenno a De Nittis che voleva dire: è andata male! adesso provo io.

Infatti respinse da Bice la tazza di caffè.

—No, se non mi dici di chi sei innamorata.

Rosa alzò la testa, la contessa Ginevra si appressò.

—Sono innamorata!

—Dimmi di chi. Sei diventata magra come una stecca: gli piacciono dunque le donne magre a costui?

—Non lo so, io non gli piaccio certamente.

A questa risposta inintelligibile il dottore e la contessa si guardarono maravigliati.

—Capisci tu, De Nittis?

Egli parve tardare un istante, poi rispose intrepidamente:

—No.

—Lo senti? neanche lui.

Ma Bice, che si era rivolta verso la zuccheriera per nascondere la propria emozione, accorgendosi che egli stava per uscire, lo fermò.

—Perchè dunque volete andarvene? Non avete nessun'altra buona ragione da dirmi? Ecco il caffè.

—Delle buone ragioni te ne dirà finchè vorrai, mia cara,—ricominciò la contessa Ginevra cingendole con un braccio la vita, appena De Nittis con un inchino, che avrebbe voluto indarno essere ironico, le ebbe preso la tazza dalle mani.—Ma tu non hai ancora voluto dirci nulla, siamo tutti qui intorno a te, aspettando la tua risposta: guarda il dottore come è diventato per l'impazienza.

—Lasciatela stare, gridò questi: i figli sono tutti così, anche quelli che si adottano. Se Bice non vuol dirci di chi è innamorata, se non è innamorata di nessuno, il che è anche peggio, io non c'entro. Non sono che un medico, mi manderai a chiamare se ne avrai bisogno.

—Non vi chiamerò, non voglio che mi salviate un'altra volta!—gridò anch'essa col massimo impeto, mentre i singhiozzi la prendevano alla gola, e fuggì lasciandoli sbigottiti dell'accento, col quale aveva pronunziato queste ultime parole. Rosa era già uscita dal salotto per seguire la fanciulla.

Allora si consultarono: che cosa era? Perchè Bice aveva un contegno così inesplicabile? Quale terribile passione le era entrata in cuore per mutarle così il carattere, e comprometterle la salute?

Il dottore era più agitato degli altri.

—Pare impossibile che voi, contessa, non abbiate dovuto accorgervi di nulla!

—Come avrei fatto? Ditemelo dunque. Anche il professore, che è stato a Roma con noi otto giorni, non ha saputo scoprir nulla,—ella rispose piccata.

De Nittis, nel terrore che quei due si rivolgessero ancora per chiedergli un altro consiglio, si sentiva negli occhi lo stesso sforzo di pianto, pel quale Bice aveva dovuto fuggire precipitosamente dal salotto. Quindi una speranza insensata di poter cedere all'amore per impedirle di morire, gli si levava raggiando dal cuore: perchè dinanzi al mistero della passione anche questa volta la ragione non si ritirerebbe ammutolita?

Ma il dottore inquieto si disponeva già a salire da Bice.

—Dove andate?—interrogò la contessa Ginevra.

—Ella sola può trionfare di sè stessa,—soggiunse De Nittis:—tutta l'esperienza degli altri è senza valore per un'anima, che si trova dinanzi ad una nuova strada.

—Con questo tuo spiritualismo ne ho visto parecchie delle anime cascare nel fosso e rompersi l'osso del collo.

—Credi che i tuoi consigli lo avrebbero impedito loro?

—A più di una certamente.

Pochi minuti dopo ridiscese ingrugnito perchè Bice non lo aveva ricevuto. Allora la contessa Ginevra non avrebbe voluto lasciarli partire per non rimanere sola con Bice in casa, ma con tutta la migliore volontà essi non avrebbero potuto mancare così agli obblighi della loro professione a Bologna; poi era meglio, per il momento, non irritare di più la fanciulla.

La partenza fu melanconica, la contessa Ginevra aveva le lagrime agli occhi: tutta l'ammirabile superiorità del suo spirito si perdeva davanti al pericolo, che minacciava Bice.

Questa, la sera stessa, prima di andare a letto, le disse che sarebbe partita dimani per Corticella, solamente con Rosa; la contessa sempre più impressionata si guardò bene dal farvi obbiezione, sebbene fosse questa la prima volta che Bice voleva restare sola.

—Non mi permetterai di accompagnarti? No, no,—fu pronta a soggiungere vedendola fare uno sforzo,—verrò a trovarti fra qualche giorno,—ma il suo accento era così triste, che l'altra ruppe in pianto.

Rimasero abbracciate, poi si separarono senza che la fanciulla le avesse confidato altro.

La mattina sulle dieci Bice partì per Corticella, nel grande calesse con Rosa, mentre la contessa Ginevra telegrafava la triste notizia al dottore. Questi lo disse la sera stessa a De Nittis in casa della contessa Maria.

—Povera Ginevra!—essa esclamò,—domani sarà certamente qui.

Infatti arrivò il giorno dopo, sulle undici, avendo già saputo dal fattore che Bice si era chiusa nella stanza della povera Ada. Allora l'ansia crebbe in tutti pei ricordi funerei di quella villa, nella quale nessuno della famiglia da oltre venti anni aveva osato ritornare. La contessa Ginevra aveva imposto al fattore di venire due volte per giorno ad avvisarla di ogni più piccola cosa, ma le informazioni erano sempre uguali: la fanciulla non piangeva, parlava poco, ritornando sempre nella camera della mamma.

—Vuoi morire qui?—le chiese il dottore, andato a trovarla un dopo pranzo all'insaputa di tutti.

—Che cosa ne pensereste in questo caso?

—Che sei cattiva, dimenticando così tutti i tuoi obblighi.

—Lo so, ma di chi la colpa se non ho la forza di soddisfarli?

—Ti pare dunque così difficile vivere?

—Mi avete pure sempre detto che la vita è una lotta, nella quale vi debbono essere necessariamente dei vinti? Io lo sono stata sino dalla nascita.

Il dottore aveva tentato indarno di farla parlare ancora, poi se ne era andato più triste di prima. Al momento della partenza Bice lo incaricò dei saluti per tutti, meno che per De Nittis: il dottore non confidò questa prova che cinque giorni dopo alla contessa Maria.

—Non ha mai ricordato De Nittis durante la vostra visita?

—No.

Quella sera la contessa Maria osservò attentamente De Nittis, meravigliandosi di non aver prima notato il grande cambiamento avvenuto in tutto il suo essere. Quella bella serenità spirituale, che lo rendeva quasi giovane, era scomparsa: adesso era veramente vecchio, colla faccia piena di ombre e la persona stanca, che si appoggiava istintivamente su tutto. Quando parlava la sua voce aveva dei toni bassi, nei quali le parole si affondavano come sembra talora degli uccelli migranti, laggiù, nelle ombre della sera.

—Professore,—gli disse profittando di un momento, in cui le era seduto vicino, e il dottore e la contessa Ginevra non avrebbero potuto udirla:—credete anche voi che Bice sia innamorata?

—Come non crederlo?—cercò di rispondere evasivamente.

—Allora il suo dolore deve dipendere dal non essere amata.

Quelle serate erano di una grande tristezza per tutti. I vecchi domestici passavano per le stanze simili ad ombre annoiate, non vi era più nulla da fare, nessuno dava più ordini. La contessa Ginevra rifugiata presso la contessa Maria non tornava con lei a casa che per aspettarvi De Nittis o il dottore e ripetere con essi le medesime cose della sera antecedente. Ma la speranza che Bice, lasciata così a sè medesima, riacquistasse più prontamente il proprio equilibrio, scemava tutti i giorni. In una ultima lettera alla contessa Maria, ricordandole una sua frase, ella parlava della vita monastica come della sola possibile per coloro, che il mondo non vuole o che non sanno volerlo.

—Ecco il pericolo vero per certe teste, quando si è voluto dar loro una educazione bigotta!—proruppe Ambrosi.

—Ma dottore!

—Lasciatemi dire, contessa Maria: perchè fuggire davanti alle difficoltà della vita? Il monachismo è una diserzione: per pregare non c'è bisogno d'imprigionarsi. Chi lavora prega.

—Eppure l'anima umana ha un bisogno egualmente incontentabile di solitudine e d'intimità,—ribattè De Nittis.—Il monachismo non è una diserzione più che non lo siano l'arte e la scienza, nelle quali si vive quasi sempre stranieri anche a quelli della vostra casa.

—Adesso tu sosterrai per mania filosofica che Bice farebbe benissimo a prendere il velo.

De Nittis ebbe un sorriso penoso.

—Nessuno di noi potrebbe sottrarla a questa fascinazione dell'ideale.

—Non è vero: io, tu stesso, se ella t'amasse, lo potresti. Dio non è amato che quando non si può più amare altro; è il suo lotto, pari a quello di noi altri vecchi.

De Nittis a questa allusione diretta impallidì visibilmente.

—Ve ne andate?—esclamò la contessa Maria, che lo osservava acutamente, vedendolo cercare il cappello.

—Neanche tu stai benissimo da qualche tempo,—gli si rivolse il dottore.

Allora le due contesse si preoccuparono di lui come messe in allarme da quelle parole di Ambrosi: De Nittis dovette rispondere a molte domande affettuose, restando lì in mezzo, impacciato, titubante di andarsene. La contessa Maria lo accompagnò sino nell'anticamera.

Per tre sere De Nittis mancò. La sua malinconia era diventata di giorno in giorno più cupa dopo quella fuga di Bice, nella quale sentiva il dolore di una passione pari alla propria. Invano egli si era tutto detto colla critica spietata, che usiamo solo contro noi stessi, cercando di sollevarsi sempre più in alto nella sfera luminosa del dovere; più invano osservando il proprio rapido decadimento ne aveva quasi gioito come di un fatto, che verrebbe a troncare violentemente l'angoscioso dibattito dei loro cuori, perchè Bice stessa non potrebbe resistere alla rivelazione improvvisa di quella vecchiezza, quando egli non le sembrerebbe più che un malato; tutto era egualmente doloroso ed inutile, anche questa compiacenza della morte, dalla quale la sua anima di uomo si levava irresistibilmente con un lungo grido di amore. Anch'egli voleva essere amato almeno una volta come ogni uomo, per quanto basso ed infelice, deve pur esserlo: era questo lo scotto, la ragione suprema della vita. Sciaguratamente la passione di Bice, nata e cresciuta inconsapevolmente come la sua, era anche essa di quelle che non transigono: ella morrebbe al pari di lui, avvolta nel proprio segreto come in un velo invisibile.

A che pro lottare ancora? Perchè tornare tutte le sere dalla contessa Ginevra a soffrirvi un martirio atroce ed inutile con quei discorsi pieni di allusioni e di sbigottimenti, sotto i quali egli sentiva l'egoismo inconscio di una vecchiezza, che non voleva essere abbandonata? Invece egli amava Bice per lei stessa, e l'avrebbe consegnata colle mani tremanti e la fronte alta al giovane, che ella avesse preferito destandosi da quel sogno impossibile d'amore a pallidi riflessi lunari. Avrebbe avuto ancora la forza di parlare per darle nella poesia di un augurio il suo ultimo addio, e se ne sarebbe andato.

Invece l'ostinazione di Bice lo condannava allo strazio di una muta tragedia, della quale era impossibile indovinare l'ultimo atto; se la fanciulla resisteva nell'amore, egli doveva essere anche più incrollabile nella ragione. D'altronde non era egli amato, non aveva già avuto tutto così? Il matrimonio, lungi dal compiere il loro amore, lo avrebbe forse ucciso colla miseria di quelle stesse gioie, che negli altri lo fanno vivere.

Ma dopo essersi allontanato così da tutti, lo riassaliva più doloroso il bisogno di sapere che cosa fosse accaduto di lei: era sempre in campagna? Si era ammalata? Come mai il dottore non era venuto a trovarlo?

La vecchiaia era dunque davvero senza amici come tutte le povertà?

Poi lo seccava di essere sorvegliato anche in casa da Margherita. La buona donna, angosciata dal vederlo deperire a quel modo, gli veniva più spesso intorno per chiedergli se non avesse bisogno di nulla, ma cercando più che altro di farlo parlare. La sera, quando, invece di uscire come al solito, si chiudeva nello studio, essa insisteva più lungamente perchè andasse dalla contessa Ginevra, meravigliandosi che avesse cessato le visite, ora appunto che Bice era ammalata.

Quindi De Nittis doveva sopportare nuovamente i suoi discorsi su Bice, dai quali tratto tratto sorgevano certe allusioni, come se Margherita avesse davvero indovinato qualche cosa. Una mattina ella s'accorse che il ritratto di Bice non era più nella solita cornice dorata, a piede, sullo scrittoio.

—Dove è andato?—chiese al professore.

—È qui,—rispose mostrandoglielo fra i fascicoli della sua grand'opera:—tutto ciò che mi resta!—Ma correggendosi:—sai, le fotografie si scolorano alla luce, è stato per questo.

Margherita parve crederlo.

—Ma perchè non va piuttosto a trovarla in campagna? Si direbbe che non le voglia più bene.

—Lasciami, ho bisogno di lavorare.

—Eh!—esclamò scrollando le spalle con quel suo moto, che la faceva tremare tutta, e col grosso viso animato da una collera latente:—lei lavora anche troppo, ha bisogno di ben altro!

—Andate, andate,—ripetè bruscamente, senza metterle molta soggezione nemmeno con quel tono insolito; ma improvvisamente fu suonato all'uscio.

Margherita dopo pochi istanti ritornava affannata: erano la contessa Maria e la contessa Ginevra. De Nittis balzò in piedi esterrefatto nel presentimento di una sciagura.

—Bice!—gridò loro colla faccia pallida e un gesto quasi disperato, mentre entravano nello studio.

Le due signore si guardarono, poi la contessa Maria disse sorridendo:

—È lei stessa che ci manda.

Margherita offerse loro due sedie, perchè egli rimasto in piedi non vi pensava, dolorosamente sorpreso di essersi tradito in quel grido, e non sapendo a che cosa attribuire tale doppia visita.

Margherita dovette ritirarsi. Allora De Nittis si sentì perduto: evidentemente le due signore avevano saputo tutto da Bice.

—Veniamo a domandare la vostra mano,—disse la contessa Ginevra col suo bel sorriso di un tempo, tendendogli la propria.

Egli invece indietreggiò sino allo scrittoio.

—Oh! non ricusate un'altra volta,—esclamò la contessa Maria.—Sono io che ho indovinato, e sono andata da Bice a farmi raccontare tutto: ella vi ama con tutta la sua anima, voi non potete quindi pretendere di essere più vecchio di quanto le sembrate. Ginevra ha apprezzato sino alle lagrime la vostra delicatezza.

—Non vi pare abbastanza bello il caso di venire noi stesse a domandarvi la mano?—questa seguitò serbando in tale difficilissima scena tutta la sua signorilità di gran dama.—Noi sappiamo già anticipatamente quello che vorreste dirci: andate invece a mettervi il soprabito e accompagnateci in carrozza. Bice ci aspetta.

—Venga, venga,—gridò Margherita spalancando l'uscio della camera da letto.

—Tu ascoltavi dunque?—le si volse la contessa.

—Avevo dei sospetti già da un pezzo!—ma venga dunque,—e avanzandosi lo tirò per la veste come un fanciullo.

Quando De Nittis ritornò nello studio, prese ambo le mani della contessa Ginevra e le baciò; due lagrime gli rigavano le guance.

—Abbracciatemi piuttosto, non sto per diventare la vostra mamma?

Anche Tonina era accorsa.

La contessa Maria piangeva, poi si riscosse:

—Andiamo, andiamo.

Appena scomparvero per le scale, Tonina e Margherita corsero a spalancare le finestre per vedere il professore salire in carrozza; istintivamente De Nittis alzò gli occhi, e allora esse salutarono agitando famigliarmente le mani fra la meraviglia della gente, che si voltava dalla strada a guardare.

—E noi?—disse improvvisamente Tonina, come destandosi davanti al pericolo di rimanere nuovamente abbandonata.

VIII.

Nell'uscire entro la nuova carrozza da porta Mascherella parve loro di respirare un'aria più leggera.

Il vecchio Giuseppe sollecitava più vivamente i due grossi cavalli, quelli stessi della contessa Ginevra, irrequieto ed allegro sull'alto serpe di una allegria, che i troppi bicchierini bevuti non sarebbero bastati a spiegare.

De Nittis strinse silenziosamente la mano a Bice abbandonata al suo fianco, cogli occhi perduti nella profondità verde delle campagne. Era un pomeriggio di settembre; il sole curvo sull'orizzonte aveva una luminosità appannata, che rendeva più cupo l'azzurro del cielo; non aliava vento. Dai campi, ove le stoppie si allungavano regolarmente come immense pezze cineree sotto i festoni delle viti, venivano tratto tratto echi di canzoni e soffi tiepidi, mentre tra gli alberi, immobili ancora nella siesta del meriggio, qualche bue bianco passava con lentezza quasi distratta.

Tutto era calmo: terra e piante riposavano tranquillamente dalla fruttificazione dell'estate in un rigoglio di verde più scuro, giacchè tutte le messi erano state raccolte meno l'uva, penzolante tuttavia dai tralci in grappoli bruni o biondi agli ultimi raggi del sole. Non si vedevano nè stagni, nè maceri, nè praterie vuote, nè rialzi brulli o sassosi. La strada larga e piana si distendeva pigramente per la ricca pianura piena di ville, dalle quali la gente si affacciava tratto tratto.

Bice colla mano stretta mollemente nella sua, e un sorriso tremulo su tutto il volto, guardava innanzi colla sensazione deliziosa dell'aria agitata dal trotto dei cavalli, che le entrava nei riccioli della fronte come una carezza refrigerante. Le sarebbe stato impossibile di parlare o di voltarsi. Dopo tutte quelle emozioni della giornata, solamente adesso le pareva di rientrare in sè medesima, ma perdendosi da capo in un'altra emozione più profonda, qualche cosa di vago e di dolce, come una novità stupefacente, che le confondeva agli occhi le forme stesse del paesaggio.

Era vestita di chiaro, con un cappellino di paglia ornato di una gran piuma bianca, le mani senza guanti, con un mazzo di rose sul grembo, ardenti e sanguigne, che le davano quasi col loro acre profumo una sensazione di caldo. E sorrideva dardeggiando inconsciamente dagli occhi neri qualche lampo cristallino, mentre colla spalla si appoggiava confidenzialmente a quella del marito.

Per la strada alcune carrozze passarono salutando.

De Nittis invece si sentiva malinconico. Era stata per lui una stanchezza agitata quella di tutte le funzioni insino dalla mattina, mentre la sua anima tremante di una tenerezza sbigottita avrebbe avuto bisogno del silenzio nell'attesa dell'ultimo grande momento. Tutto invece era stato rumoroso, affaticante in una volgarità inevitabile di festa, attraverso la quale più di una volta aveva provato l'improvviso dolore di una puntura. Ma egli stesso non avrebbe ancora saputo ricostruire nella memoria le molteplici scene di quella giornata, la più lunga della sua vita. Adesso la pace serena della campagna gli dava un altro sottile senso di pena, come di una solitudine, nella quale rimaneva nuovamente straniero. Quei campi, quelle ville, quella strada così larga e piana gli erano sconosciuti; non si ricordava di esservi passato altra volta: erano un mondo, che non poteva sorridere al suo cuore non avendo prima con esso stretto alcuna intimità. Involontariamente, per quel bisogno istintivo nell'uomo di non abbandonare mai interamente il proprio passato, si guardò intorno cercando una pianta, un pilastro, un segno qualunque, dal quale gli venisse come un saluto discreto alla sua felicità ancora vergine di quella prima ora con Bice.

Come era lontano il tempo, che se la teneva sulle ginocchia, insegnandole il senso delle prime parole!

Gli ultimi mesi invece erano passati rapidamente, pari ad un volo bianco di colombi. Bice era tornata a Bologna nella carrozza della contessa Ginevra, seduta accanto a lui e dirimpetto alla contessa Maria. La loro spiegazione dinanzi alle due signore non aveva avuto alcuna di quelle teatralità, che sono pure così frequenti nella vita: egli l'aveva baciata sulla fronte chiedendole notizia della sua salute, e le aveva quindi offerto il braccio per discendere in giardino.

A quella muta accettazione le guance della fanciulla si erano accese di un rossore momentaneo di febbre.

La sera De Nittis pranzò solo fra Bice e la contessa Ginevra, perchè la contessa Maria aveva trovato un pretesto per andarsene; ma la ragione era di avvisare il dottore, nel quale forse quel matrimonio avrebbe potuto produrre qualche scoppio. La contessa Ginevra era stata la prima a temerne.

Infatti ricevendone la notizia egli fece un gran gesto violento; la contessa Maria, che si aspettava ad una scarica, rimase meravigliata del suo silenzio.

—Saranno felici….

Il dottore ebbe un vago sorriso.

—Ma di che cosa temete voi dunque?

—Dopo tutto chi sa se l'istinto non è più sicuro della ragione: Lamberto era troppo forte, purchè De Nittis non sia troppo vecchio! Avete voluto avvertirmi per precauzione?—aggiunse sorridendo per nascondere la malinconia, nella quale la novella lo aveva gettato:—andiamo a vederli.

Dopo tanto tempo quella fu la prima serata deliziosa: Bice si era ritirata improvvisamente nella propria camera per scrivere al suo amico Prinetti, e coprire nuovamente Rosa di baci.

Poi quando tutti si separarono fra strette di mano più lunghe, mentre i servitori, partecipi anch'essi della festa, si erano aggruppati insolitamente nell'anticamera, De Nittis le disse piano:

—La tua carità ha vinto il mio amore.

Ella diede con un gaio sorriso una smentita alla umiltà della sua dichiarazione.

Naturalmente i saloni di Bologna andarono sossopra per la notizia, e la bufera dei sarcasmi inevitabile ad ogni matrimonio scoppiò più violenta. Tutti se ne sentivano offesi. La ricchezza di Bice, sulla quale molte famiglie patrizie dissestate avevano già fatto più di un calcolo, e che restava così in mano alla fanciulla, inaspriva le invidie sollecitando ogni più ingiuriosa interpretazione per quell'amore così anormale. La più bersagliata era quindi la contessa Ginevra, tanto stimata un tempo per la prontezza dello spirito e l'equilibrio della mente. Per molti mesi la grandine delle cattive parole seguitò a battere nel salotto di Bice, cui le amiche anche meno strette si affrettarono a rendere visita. Ella se ne accorò sulle prime, poi resistette non senza restare inquieta di una così lunga insistenza nel perseguitarla. In teatro, a passeggio, quando usciva come prima al braccio di De Nittis, erano occhiate ironiche, sorrisi rattenuti; mentre qualche altra coppia di signori o di signore li fermava col pretesto di salutare la contessa Ginevra, o di scambiare una notizia, e si rivolgevano poi ad esaminarli così che ella sentiva il peso dei loro sguardi senza rivolgersi.

De Nittis era tornato bello come prima. La sua eleganza di vecchio aveva sempre la stessa signorilità, senza ricercatezza e senza abbandoni; ma pareva anzi ringiovanito, col passo più fermo, l'occhio vivido di pensiero, dominando coloro che osavano affrontarlo. Bice lo ammirava superbamente, appoggiandosi alla sua virilità colla dolcezza di sentire le proprie idee confondersi.

Ma quando la zia Ginevra disse di andare in villa al Sasso, accettarono ambedue con entusiasmo.

Ella voleva così sottrarli a quelle minute, rinascenti contrarietà, delle quali toccava a lei stessa una grossa parte, e dare a Bice in una vita più sana agio di rimettersi interamente; poi il dottore ordinò i bagni di mare, soprattutto molte gite in mare, in qualche paesello calmo, senza ressa di bagnanti. La contessa prescelse San Cassiano, ma dovette ritornarsene presto, perchè Bice preferiva il Sasso. La fanciulla allegra, sorridente, pareva ogni tanto ripresa da subite preoccupazioni, anche quando De Nittis era con loro profondendo con amabilità inimitabile tutti i tesori del proprio spirito. Un più intenso fervore religioso le si era appreso dinanzi al problema della nuova vita. Allora avrebbe voluto vicino Prinetti o il povero Giorgi, le due anime più mistiche da lei amate, mentre De Nittis, maggiore di essi come intelletto, aveva sempre spiegazioni troppo filosofiche per il suo cuore di fanciulla. Ella lo amava così, pur rimanendo insoddisfatta, coll'orecchio teso alle voci arcane di un al di là pieno di ombre e di misteri, nel quale solo gli spiriti ingenui e insaziabilmente lirici, come Giorgi e Prinetti, avevano potuto penetrare. Quindi le delicate e spesso paurose divozioni del cattolicismo, riattirandola col fascino delle loro supplici umiltà, la facevano quasi dubitare di quella beatitudine troppo grande senza una seconda conferma della grazia. Ogni mattina si alzava presto per andare a messa nella chiesa della parrocchia colla vecchia Rosa, poi vi ritornava a tutte le funzioni, e vi rimaneva a lungo, in ginocchio, perduta nella sua piccola solitudine sacra.

La chiesa, nuda e povera, non aveva che pochi altari brutalmente dipinti: era bianca, coi panconi in mezzo, su molte file, segnati col nome del proprietario. Ella, la più ricca del paese, non ne possedeva uno. Ma all'infuori della domenica, a certe ore, la chiesa era quasi sempre deserta. Bice si rifugiava nel suo silenzio per interrogarsi ansiosamente sulla vita che avrebbe dovuto condurre d'ora innanzi, a fianco di lui, colle grandi responsabilità di sposa e forse di madre, così diverse dalle sue preoccupazioni di fanciulla. L'amore stava per aprirle le proprie porte misteriose, dalle quali non si esce più come da quelle della morte, perchè anche nell'amore qualche cosa muore, l'egoismo dell'individuo ancora solitario nell'umanità, e che investito subitamente dall'eterno fiume della generazione trabalza di cateratta in cateratta, trepidante, felice, disperato, finchè un'onda più violenta lo spezza, abbandonandolo cadavere sulla soglia di un'altra porta anche più misteriosa. Queste immaginazioni di morte, che la fanciulla non riusciva più a scindere da quelle dell'amore, la prostravano per lunghe ore. Quindi tutto il dramma della Vergine Madre di Dio le si rivelava improvvisamente, in una luce abbacinante. Maria era la donna ideale, come Dio si era compiaciuto a concepirla, vergine, sposa, madre, senza che l'uomo potesse comunicarle di sè medesimo altro che il il dolore. La sua verginità avvolgeva tutta la vita umana come un velo inconsutile, entro il quale il peccato finirebbe coll'essere perdonato; le sue nozze, senz'altro contatto che la parola, ripetevano la creazione dovuta unicamente al Verbo; la sua maternità riassumeva tutta la tragedia della morte, imposta da Dio agli uomini come la prima delle verità loro intelligibili. Per essere madre Maria aveva dovuto consentire anticipatamente a tutti i dolori: il suo cuore grondava ancora sangue dalle cicatrici delle spade, nei suoi occhi limpidi e profondi più del cielo immense ombre diafane si allontanavano come onde di tempeste nell'oceano; la sua fronte pura di ogni bacio era solcata dalle rughe incancellabili di tutte le meditazioni, le sue mani aperte per distribuire le grazie conservavano ancora il tremito spaurito della invocazione, che soccombe.

Maria aveva amato per tutti, sofferto per tutti. Nullameno il dolore doveva ripetersi in ogni individuo per purificarlo dai miasmi respirati sulla terra, e iniziarlo ai segreti di un'altra vita senza generazione, eterna, bianca, come si era rivelata a Dante negli ultimi canti del suo Paradiso, fulgurazione immobile ed inesauribile della presenza di Dio. E intorno a Maria tutti i dolori femminili avevano fiorito per secoli, avvolgendola come in un nimbo; ella era la confidente che ascolta, la martire che compatisce, la trionfatrice che solleva; nessun desiderio le sfuggiva sconosciuto, nessun singhiozzo le rimaneva inintelligibile.

—Maria, Maria!

Ella la comprendeva, l'amava, l'adorava attraverso quelle rozze immagini, senza la parola volgare del clero, abbandonandosi talvolta all'onda dei cori, che i contadini intonavano nei vespri dentro la chiesa colle loro pronuncie bizzarre. Le pareva allora come uno di quei murmuri di boschi o di acque, sotto i quali si abbassa involontariamente la testa pensando.

Ma il pensiero fisso era che dovrebbe espiare in qualche modo quella felicità troppo intera. Perchè, malgrado la morte prematura del babbo e della mamma, era ella stata così fortunata? Perchè aveva trovato nella zia, nella contessa Maria, in Giorgi, in Prinetti, in De Nittis, in tutti, perfino in Lamberto, quell'intesa affettuosa a servirla, a proteggerla contro le sofferenze del mondo, facendosi piccoli con lei quando era piccina, dandole quanto possedevano di meglio, i sentimenti più puri del cuore e i pensieri più difficili dell'ingegno? Chi era ella per meritare tanto, perchè persone così diverse e migliori di lei si quotassero a suo favore, mentre per giunta era ricca a milioni? Per gli altri il mondo non era così. Benchè la breve esperienza le vietasse di conoscerlo profondamente, sapeva il mondo tutto pieno d'infelici e di colpevoli, di strazi e di delitti; bisognava pagarvi a sudori di sangue il più piccolo tozzo di pane, comprarvi spesso colla vita la più effimera consolazione.

Ella tremava, raccomandandosi colla paura desolata ed insieme deliziosa di un bambino alla Vergine Madre di Dio di far soffrire lei sola, quando suonerebbe daccapo l'ora del dolore, perdonando a lui, che, pur fuori del suo culto, ne sentiva così vivamente la passione e ne esprimeva con parole così poetiche la bellezza.

Qualche volta De Nittis scherzava sul suo nuovo fervore.

—Ma anche tu credi.

—Potrei amare se non credessi?

Una mattina gli chiese di accompagnarla a messa: non era festa, e De Nittis l'accompagnò egualmente. Quando uscirono di chiesa, Bice gli parlò tremando del matrimonio religioso.

—Mi hai condotto in chiesa per questo?

—Volevo chiederlo alla Madonna, vicino a te.

—Ti ha esaudita, mia cara. La religione solamente può fare i matrimoni, perchè senza una qualunque consacrazione l'amore fisico dei sessi non può diventare amore spirituale dell'umanità.

Ma quando, resa più ardita da queste che le parevano concessioni, arrischiò qualche altra parola, perchè con un'intera accettazione di tutto il rito si confessasse e comunicasse come lei, De Nittis le oppose una dolce fermezza. Egli riconosceva pel matrimonio la necessità di un simbolo religioso, dacchè l'umanità aveva sempre così decorato tutti gli atti supremi della vita, e la laicizzazione del matrimonio, discesa sino alla ridicola prosaicità di chiamarlo un contratto, ne offendeva al tempo stesso il carattere d'istituzione civile e il senso divino; ma questa necessità non andava sino a consentire nella varia scenografia dei culti. Poichè il cristianesimo involgeva ancora tutta la parte superiore dell'umanità, nè vi era altra religione più alta, dalla quale prendere tale consacrazione, basterebbe che il loro matrimonio si compisse in chiesa.

Bice ne rimase poco persuasa; se non lo avesse conosciuto così bene, le sarebbe quasi nato il sospetto di un qualche volgare rispetto mondano, giacchè questa necessità di una religione non creduta sorpassava le sue facoltà critiche.

—Eppure è così, mia cara. Quando qualcuno crede di aver oltrepassato la propria religione deve abbracciarne un'altra; ma se gli diventi impossibile trovarla, non potrà mai uscire interamente da quella, dovendo farvi ripassare i propri figli. Ecco la suprema ragione: l'ateismo è incomunicabile ai bambini. Dobbiamo fare il matrimonio religioso per la stessa necessità, che ci impone una religione pei figli.

Questa insolubile contraddizione agitò più di una volta i loro discorsi, lasciando nell'anima di Bice una inquietudine di paura. Egli non sarebbe dunque con lei nella eternità promessa da Cristo ai propri credenti? Ella, sposa e madre, potrebbe essere beata in cielo, lungi da tutti quelli che aveva amato sulla terra, obbliando la loro dannazione?

Poi vennero altre preoccupazioni. Bice non poteva abbandonare la zia Ginevra, e non volendo ospitare lui nella propria casa per un rispetto delicato alla dignità del marito, convennero di seguitare a convivere colla zia lasciandole l'impero assoluto di tutto. Nulla sarebbe quindi mutato. La contessa non potè mai ottenere da De Nittis che le prestasse ascolto ad alcuna questione d'interesse; egli rispondeva invariabilmente con un sorriso:

—Io firmo solamente; avete qualche cosa da farmi firmare?

E Bice, trovando graziosa quella formula, la ripeteva colla stessa ostinazione. Nullameno vi furono congressi di notai e di avvocati, ai quali dovettero assistere per la costituzione della dote, i conti di tutela, gl'imbrogli e le questioni inevitabili di tutti i grossi patrimoni. La contessa si lagnava soventi del loro abbandono, benchè in fondo non le dispiacesse di conservare sino alla fine quella autorità, cui si era da tanti anni abituata.

Bice non si interessò che all'arredo della propria camera nuziale, ma sempre colla medesima squisitezza di cuore decise che, dopo il matrimonio, Margherita e Tonina sarebbero le sue cameriere. Esse rappresentavano la casa di lui, tutto quanto possedeva oltre i libri.

Con grande meraviglia di tutti la vecchia Rosa non protestò; anzi, quando Margherita venne la prima volta a prestare una mano pei nuovi lavori, le andò incontro; Bice e De Nittis assistevano alla scena.

—Venite qua che v'insegni,—disse.—Io l'ho allevata, ma adesso non posso andare più in là; conosco la ragione, che quando le donne si maritano hanno da mutare mano. La vecchia casa rimane come il guscio dopo che il pulcino è uscito.

Ma la solennità del doppio matrimonio civile e religioso diede a Bice e a De Nittis quasi il medesimo senso di pena, perchè la contessa Ginevra, pur rendendosi conto della malevolenza satirica di molti invitati, non volle rinunciare alla pompa impostale dalle ricchezze di Bice e dall'importanza della propria casa. La sua fine esperienza di dama le aveva fatto comprendere che, evitando il mondo col celebrare il matrimonio al Sasso nella piccola chiesa della parrocchia col dottore e Prinetti per testimoni, come la fanciulla desiderava, si sarebbe data causa vinta ai maligni propositi. Tutti avrebbero veduto in tale modestia una tacita confessione di ridicolo per quel matrimonio di un vecchio filosofo con una ereditiera, allevata nella bambagia e coll'olio di merluzzo.

Adesso De Nittis tra quella calma vespertina del paesaggio, risentiva più vivamente le umiliazioni del mattino. Il suo orgoglio di uomo aveva sanguinato più di una volta sotto la sferza di un complimento o la puntura di uno sguardo femminile; tutti lo spiavano, quasi pesando la sua virilità con certi sorrisi lunghi, che dicevano più impurità di una perizia medica. Le mamme specialmente, accalcate secondo il solito intorno a Bice per incuorarla contro l'emozione di quel momento, che fa piangere tante spose, s'attardavano nelle parole affinando i sottintesi con una crudeltà insultante. Quel matrimonio aveva offeso giovani e vecchi, ricchi e poveri. Si trovava assurdo ed immorale che De Nittis, già in diritto di chiedere la pensione, e quindi oramai incapace anche di fare il professore, sposasse una fanciulla con due milioni di dote, la più grossa ereditiera della città. Che cosa aveva creduto la zia nel permetterlo? Che cosa aveva sperato?

Tutti notarono ironicamente la miseria del regalo offerto dal marito, un filo di perle piccolissime, forse pagate un trecento lire, in confronto di quelli presentati dai parenti e dagli antichi più facoltosi amici della contessa Ginevra. Prinetti, presente al matrimonio, aveva portato un miracolo africano, un baule fatto con pelle d'elefante conciata, simile ad un piccolo blocco erratico.

Ed anch'egli era malinconico.

De Nittis provava in fondo al cuore uno sgomento indefinibile. Quel disprezzo unanime ed ostinato del mondo verso di lui gli richiamava alla memoria le ragioni opposte con dolorosa ed inutile costanza a tutte le insistenze di Bice, adesso che era troppo tardi per pentirsi. Nessuno li vedeva più in quel momento, erano soli nella prima emozione di una libertà piena di promesse e di misteri. Bice sempre così sdraiata, colla mano tiepida ed umida nella sua, lo avvolgeva nel proprio profumo non aspettando forse che una parola per trasalire. Quel silenzio stesso, troppo prolungato, finiva col dare alla loro intimità un altro turbamento. E a poco a poco egli cedeva alla paura della donna, questo essere dalle esigenze inesplicabili, profondo e leggero, che non aveva mai saputo affrontare. Nemmeno nella sua forte virilità, mentre più di una signora gli sorrideva invitevolmente, egli si era sentito in cuore la padronanza maschile, quella sfrontatezza prepotente di rapina, che sottomette la donna e la rende beata della propria debolezza. La donna era sempre stata per lui come un simbolo egualmente invincibile nella impassibilità della bellezza e nella insaziabilità della cupidigia, giacchè nessun dolore dello spirito avrebbe mai potuto intorbidare la serena calma della Venere, e nessuna gagliardia di sensi fiaccare la forza ingorda del suo desiderio; ma una stessa morte attendeva sempre l'uomo nel fondo di questo doppio enigma. Tale concetto mistico e pauroso della donna era forse stato la massima ragione della sua castità, senza che il lungo esercizio dello spirito bastasse mai a farglielo cangiare nemmeno coll'esperienza dei caratteri femminili, quasi sempre così uniformi sotto la varietà delle loro maschere.

E adesso era una incertezza anche più profonda, un dubbio spaurito di sè medesimo davanti all'amore innocente di Bice. La fanciulla lo amava con quell'entusiasmo primaverile della giovinezza, che trasfigura il mondo agli occhi dell'anima, e mette una melodia in ogni voce, un sorriso in ogni riverbero. Egli temeva di apparirle improvvisamente, tristamente, vecchio come agli occhi del mondo in quella lunga funzione del loro matrimonio. Quindi il suo imbarazzo si apprendeva insensibilmente anche a Bice.

Nell'incontro di un carro di fieno, che urtò quasi la carrozza, ella diè un grido.

Allora parlarono.

Bice sorrideva di sentirsi aspettata da Margherita e da Tonina; chi sa che pranzo avevano preparato! Poi si scusò con lui che la villa non avrebbe avuto tutti i comodi necessari, essendo stata chiusa per tanti anni; egli si ricordò di alcuni libri lasciati a Bologna.

—Tornerò domattina a prenderli.

—Cattivo!

—Te ne chiederò il permesso.

—Non te lo darò.

Ella rideva fissandolo con gli occhi umidi.

Oramai erano giunti, ma sul prato li attendeva la più ingrata delle sorprese. Tutti i loro contadini e molti altri del vicinato, la banda del paese, il parroco, lo stipavano malgrado gli ordini di Bice al fattore di non voler ricevere alcuno. Margherita, tremante in cuore di questa disobbedienza, raggiava sull'uscio fra il capobanda, il curato e il fattore, che si mossero tutti all'entrare della carrozza. Scoppiò un applauso fra grida e un agitare di cappelli, uno sventolare di fazzoletti, mentre il maestro cercava di radunare i bandisti col battere la bacchetta sopra uno dei leggii a stecche, disposti in circolo sul prato.

I suonatori disseminati fra la folla tardavano. La carrozza era già circondata; Margherita non aveva potuto arrivare ad aprirne lo sportello dal canto di Bice, perchè un giovane bandista biondo, dall'aria signorile, uno dei zerbinotti di Corticella, si era precipitato per il primo respingendo la folla, ed aveva offerto la mano alla sposa. Bice trepidante si volgeva verso De Nittis caduto nelle braccia del fattore, e già nascosto da tutte quelle mani alzate, gesticolanti. Non si capiva nulla; una gioia assurda rimescolava quella folla in un'improvvisa intimità coll'impeto e il frastuono di un baccanale. Sulla carrozza, rimasta arenata nel mezzo, Giuseppe troneggiava colla frusta sulla coscia, pallido anch'esso per l'emozione, seguendo di lassù lo spettacolo dei padroni, che s'inoltravano fra la calca, verso la porta della villa, senza potersi vedere.

Ma la gente vi si fermò come ad una clausura. Bice sorrideva già, presa nell'onda di quella gioia con una sensazione confusa del bel giovane dall'assisa di bandista, che le aveva aperto lo sportello della carrozza per accompagnarla colla mano nella mano, all'altezza del seno, come nei duetti d'opera. De Nittis invece, visibilmente contrariato da quella ressa, cui il vino prodigato anticipatamente dal fattore aveva più che altro contribuito, era diventato smorto; mentre il flusso delle grida e la veemenza dei gesti seguitavano ad investirlo coll'irrefrenabile crescendo delle passioni popolari.

—Vivano gli sposi, viva la contessa Bice, viva il professore!

—E il padrone!—urlò più forte un contadino.

—Viva!!

—Musica!—proruppero insieme molte voci.

Quasi nel medesimo istante i bassi della banda scoppiarono provocando un'altra esclamazione, come un tentativo per soffocarli, una sfida fra due espressioni di gioia egualmente fragorose.

—Andiamo, andiamo!—mormorava il curato messosi a fianco della porta: lasciate che i signori salgano.

Ma nuovi urrà li rattennero, intanto che i più vicini indirizzavano loro parole sconnesse, congratulazioni rese intelligibili da certi scatti maliziosi degli sguardi, che la severa signorilità del professore e la grazia mite di Bice non dominavano più. Era un altro mondo, ben diverso da quello del mattino, più semplice e fors'anco più brutale, ma che sentiva ancora nel matrimonio la più gran festa della vita, e ne delirava con una istintiva solidarietà per l'avvenire dei due, che la ricominciavano. Era impossibile ingannarsi sulla sincerità di quelle ovazioni.

Allora anche De Nittis, senza accorgersene, si tolse il cappello come dinanzi ad un pubblico, che stesse per ascoltarlo. Erano troppi, tutto il prato ne era pieno, e altri sopraggiungendo per la strada agli squilli della banda, che suonava la marcia dei Lombardi alla prima Crociata, si additavano il vecchio Giuseppe sempre troneggiante sul serpe della carrozza, colla frusta in mano, quasi per battere il tempo, e sorridevano.

Il fattore ritto d'accanto a De Nittis, per renderlo più libero, gli tolse di mano il cappello e lo agitò nell'aria.

—Viva il professore!—urlò a quel gesto la folla con nuovo impeto, come facendo eco al grido sottile di Bice, mentre Margherita e il curato gli si stringevano più vicino. Egli cogli orecchi intronati da tutto quello strepito di letizia dionisiaca perdette improvvisamente la coscienza della moltitudine, che lo osservava, e prendendo la testa di Bice fra le mani le diede un bacio sulla fronte.

Quasi simultaneamente sotto la pressione della folla, eccitata da quel bacio, De Nittis e Bice dovettero indietreggiare nell'andito, lasciando il parroco e il fattore a difendere la porta.

Margherita saliva già ansando le scale.

—Signora contessa….—singhiozzò Tonina appoggiata alla balaustra sull'ultimo pianerottolo, perchè l'emozione le aveva tagliato le gambe; e non seppe ripetere che quel titolo di contessa, venuto sulle labbra di tutti per la spontaneità popolare a mettere sempre i superiori un poco più alto. Poichè Bice era milionaria, doveva, secondo loro, essere anche contessa come la zia Ginevra.

La vasta sala del casino era ancora vuota; in fondo, dinanzi alla sua più lunga parete sopra un tavolone coperto di una abbagliante tovaglia bianca stava disposto il rinfresco. La banda suonava sempre, qualcuno cominciava ad arrivare.

Sebastiano, il sotto fattore per i buoi, bel contadino tozzo ed abbronzato, si affacciò sull'uscio vestito a festa, con una cravatta rossa e un paio di scarpe gialle; due o tre reggitori anziani delle migliori famiglie nella tenuta lo seguivano, ma appena dentro, divisi dalla folla, rimasero impacciati, col cappello fra le mani.

Anche il curato e il primo fattore, abbigliato di scuro come un piccolo borghese e tutto calvo, parevano cangiati. Le urla fuori diminuivano, poi la banda finì la marcia, e un altro scoppio di applausi salì fino alla finestra.

—Si affacci, si affacci, signor professore,—suggerì il curato vedendo Bice avvicinarsi già per guardare; quindi anche De Nittis, colla sensazione torbida di commettere una ridicolaggine, l'imitò.

—Vivano gli sposi!

Allora un clarinetto intonò l'inno di Garibaldi, e tutta la banda lo seguì fra una demenza più tempestosa di grida: perchè? Il maestro non l'aveva certo ordinato, ma la prima strofa passò su tutte quelle teste elettrizzandole. Non pareva più una fanfara di battaglia, un delirante appello ai morti perchè risorgessero anch'essi nel nuovo sole, ma una canzone eterna di gioia, che si rompeva in trilli, ondeggiava al vento come tutti quei fazzoletti, si riuniva come un'onda riversandosi nei cuori, sbalottandoli, spumeggiando. Nessuno si ricordava già più dell'altra suonata, mentre la folla battendo i piedi a tempo di marcia oscillava ritmicamente, cogli occhi rivolti in alto e le bocche frementi di un grido irrefrenato ed inconsapevole.

Essi in alto, dentro un raggio di sole, guardavano senza vedere colle pupille piene d'iridi.

—Hanno finito!—esclamò il curato con un sorriso ironico, vedendo la banda sciogliersi per entrare in casa.

Finalmente De Nittis lo esaminò. Era un giovane alto, bruno, dalla fisonomia intelligente, il quale non aveva in tutto quel tempo avuto altra preoccupazione che di apparire disinvolto. Vestiva con una certa ricercatezza, perchè sapendo De Nittis uno fra i più illustri professori dell'Università, e Bice la più ricca ereditiera di Bologna, voleva assolutamente far loro buona impressione.

Ma Bice pensò che, se non si metteva a dirigere lei stessa il rinfresco, non ne sarebbero mai venuti a capo.

Poco dopo il maestro, entrando nella sala alla testa della banda stretta come in manipolo, presentò al professore i complimenti di tutto il corpo musicale e del paese; Bice dovette appressarsi ancora per ringraziare, ma tornò subito verso la gran tavola a sollecitarvi la distribuzione. L'allegria si riaccese colle paste e coi bicchieri in mano, meno fragorosa e più intima: fuori, sul prato, per ordine del fattore si era tratta dalla rimessa una piccola botte di vino pei contadini, perchè la vuotassero. Il chiasso non era più che un rombo, nel quale le voci si perdevano.

Naturalmente nella sala vi furono dei brindisi; il giovane bandista, che aveva offerto la mano a Bice, declamò il primo in versi con abbastanza garbo, il curato lesse il secondo, un'ode manzoniana, sciaguratamente troppo lunga, e che De Nittis rimase quasi solo ad ascoltare. Oramai la stanchezza lo vinceva, Bice invece s'accalorava in quella distribuzione, aiutata da Margherita sfolgorante entro un vecchio abito di seta, color pulce, dal fattore, poi da Sebastiano, finchè persuasa di non potere bastare a tutti nel medesimo istante, li incoraggiò ella stessa al saccheggio, trovando ancora modo di ricevere o di rendere un complimento a qualche bandista più educato, che le diceva invariabilmente: contessa!

Era veramente la prima festa della sua vita.

Ma improvvisamente si sentì anch'essa le gambe rotte.

—Dovremo invitare qualcuno a pranzo?—chiese a Margherita, pensando confusamente al capo banda, al curato e a quel bandista che l'aveva aiutata nello scendere dalla carrozza.

—Non abbia paura,—rispose l'altra:—che diavolo! mi pare che oramai si è fatto abbastanza.

De Nittis si accostò sorridente per stringere di nascosto la mano a Bice, mentre il curato, proseguendo a parlargli di letteratura, ripeteva con una certa aria di competenza il nome di Carducci.

—Oh! un grande poeta,—egli rispose distrattamente.

—Signor curato,—disse Bice, prendendo dalla tavola, già macchiata da tutte quelle mani e da molti bicchierini rovesciati, un piattello di paste per offrirglielo.

Quegli accettò. Ma il fattore tornò nel loro gruppo per chiedere se erano stanchi, giacchè con tutto quel chiasso dovevano esserlo certamente, anche se la gente avesse avuto più educazione, ma che in ogni modo bisognava cominciare a liberarsene.

—La discrezione ci vuole sempre.

—Lasciate, lasciate pure,—mormorò De Nittis, contento di non sentire in alcuno di quegli sguardi la malevolenza degli altri invitati nel mattino.

Bice notò che una contadina, entrata con un bimbo per mano, gli aveva messo un confetto in tasca: allora una tenerezza la prese, volle abbracciare il bambino, gl'imbottì le saccoccie di dolci invitando tutti con un gesto a fare altrettanto per sè stessi. Nullameno la maggior parte non osava.

Solamente due ore dopo la villa fu sgombra; la piccola botte vuota e dimenticata dietro un vaso di oleandri era l'unico segno della festa, che rimanesse sul prato.

De Nittis e Bice pranzarono soli, al pianterreno, in un elegante salotto arredato negli ultimi mesi dalla povera Ada. In quella prima intimità d'innamorati le ore volavano. Margherita aveva messo un largo grembiule bianco, orlato di trine, su quell'abito di seta, e camminava con passo più leggero ritirandosi appena cangiati i piatti dalla tavola, quasi colla stessa circospezione, che avrebbe usato nella camera di un infermo. Un'aria lieve gonfiando le tende della finestra sbatteva ogni tanto la fiammella del lume a petrolio riparato da un festone di fiori in carta rosea: qualche farfalla aliava sulla tovaglia di un candore quasi troppo vivo, mentre il gabinetto basso, in cretonne a ramoscelli ceruli sopra un fondo paglierino rimaneva come in una soavità di bruma crepuscolare, più densa negli angoli, dai quali alcuni vasi di fiori alzavano vivi profumi.

Bice non mangiava quasi. Un sorriso sembrava circondarle di un'aureola il magro viso di monaca dagli occhi stellanti e dal gran naso ducale sulla piccola bocca, una delle sue più dolci bellezze. La sua fronte si perdeva sotto un nimbo di ricciolini nerissimi, ai quali il pallore del volto e il bianco della vestaglia, indossata appunto per il pranzo, davano un insolito risalto, sfumando di una intenzione di grazia l'angolosità de' suoi lineamenti. Quasi quasi si sarebbe detta già mutata in ogni mossa. Quella nuova pettinatura e la stanca mollezza de' suoi atteggiamenti entro quelle ampie pieghe, che simulavano tratto tratto ricchi contorni, tradivano uno studio intenso e subitaneo di civetteria; al collo, circonfuso di merletti, non portava che il tenue filo di perle offertole da lui nel mattino.

Egli invece dopo tutte quelle affaticanti impressioni mangiava gaiamente, con una letizia giovanile nel cuore, come a Roma, quando usciti con lei da un museo entravano ridendo della propria fame in qualche trattoria secondaria. Tutta la sua gravità di professore era scomparsa per dar luogo ad una eleganza quasi mondana, con un abito chiaro a corta giacca, una camicia molle dal colletto rovesciato, e invece della eterna cravatta bianca inamidata un fazzoletto chiaro di seta, annodato negligentemente. Sul principio aveva egli stesso sorriso di questa metamorfosi ma, incontrandosi con Bice, ella gli era saltata al collo con un grido di ammirazione.

Nella villa non v'erano più che Margherita, Tonina e il vecchio
Giuseppe, perchè il fattore abitava in un'altra casetta vicina.

Colla pronta intuizione delle donne in simili casi, Margherita non aveva parlato durante il pranzo, comprendendo benissimo che la dimestichezza bonaria permessale sino allora dal professore, non sarebbe stata più possibile nella nuova casa abituata ai modi cortesi ma aristocratici della contessa Ginevra. Quindi non fece alcuna obbiezione, allorchè uscendo nel giardino a braccio di lui Bice le disse di coricarsi.

Faceva caldo.

Camminarono qualche tempo sul prato fra gli odori acuti degli oleandri, poi tirando dall'interno il catenaccio del cancello con un senso giocondo di scappata, come due scolari che si avventurino a qualche impresa notturna, si trovarono fuori. La strada s'allungava biancastra e vuota dinanzi a loro nel silenzio. In alto, fra l'ombra, i sorrisi delle stelle accendevano tratto tratto strani bagliori, mentre le frondi palpitavano improvvisamente, e da lungi qualche voce indistinta si spegneva nel gran sonno della campagna. Gli alberi legati dai festoni delle viti, e col capo orlato di un sottile chiarore, si perdevano in lunghe file dentro la notte, togliendo ogni vista dei campi.

Bice aveva raccolto più strettamente lo scialle bianco di seta, e s'appoggiava al suo braccio sfiorandogli spesso colla fronte la spalla: egli superbo non si era che coperto il capo con un largo cappello chiaro da fattore, che gli annegava tutto il viso nell'ombra.

—Oh la bella notte!

—La prima notte bella! Sei tu, mia cara, è il tuo scialle bianco, che diffonde nell'aria questo senso di purezza, questo incanto di sogno crepuscolare. Oh!—sospirò anch'egli dopo un istante di pausa, passandole il braccio alla cintura, e piegandosi a respirare il profumo della sua testa nuda;—nemmeno tu la sapevi quest'ora sospesa nella nostra vita come una stella. L'amore solo è eterno ed ignora la morte. Che importano l'ombre, che quaggiù si dissolvono in un effimero contrasto, questa rauca tragedia, nella quale le anime si combattono quasi sempre mascherate: che importano, Bice mia, tutte le paure e tutti gli spasimi, quando la stella si scopre improvvisamente all'orizzonte, e un soffio insensibile ci depone sul suo lido? Le nostre parole non sono anch'esse che un'ombra, e dileguano quando i cuori cominciano ad intendersi.

—No, parla, parla.

—Sei tu la parola vivente, io non so più nulla. Non ero mai stato amato, non avevo mai amato: che cosa è ora? Dove sono? La mia vecchia anima, così stanca della vita, è scomparsa. Adesso indovino l'amore di mia madre attraverso la sua indifferenza per me, comprendo che cosa mi dicevano una volta gli sguardi della folla intenta alle mie lezioni: allora mi sentivo solo, perchè tu rimanevi chiusa dinanzi a me. Credevo di amarti solamente come padre, con quella commiserazione del pellegrino stanco, già presso a cadere nei fossi della strada, e che soccorre il fanciullo entratovi allora di corsa; m'immaginavo di essere la sentinella messa a guardia del tuo tesoro, appunto perchè troppo vecchia per cedere al sonno nella notte. Ti ricordi, quando volevano che t'insegnassi? S'insegna forse la vita, s'insegna forse l'amore? Tutto quanto io sapevo, che cosa è più ora, che mi ami?

Erano arrivati ad un ponticello di pietra, che cavalcava un largo fossato di scolo: una grossa quercia lo nascondeva quasi nella propria ombra.

—Sediamoci,—disse Bice.

Ella salì senza sforzo sul parapetto, esclamando poco dopo con gaiezza infantile:

—Vieni anche tu.

Quando si furono seduti, abbracciandosi quasi nel timore di cadere, rimasero un pezzo a guardarsi; ma ella gli trasse il cappello.

—Così almeno ti veggo. Sei pentito adesso, cattivo, di non avermi voluto?

—Io ti volevo, ma non potevo che attendere nel silenzio angoscioso della speranza, quando le si vela l'immagine del premio. Ho sofferto in quei giorni di prova, specialmente quando sentivo la notte cadermi sul capo come un'altra solitudine. Ma questa è la notte vera, quest'ombra, dalla quale tutto traspare, qui con te, dentro al tuo profumo di gran fiore.

Ella gli si abbandonò sul petto vinta da quell'eloquenza.

—Non credere di amare più di me,—mormorò poi:—lo hai confessato or ora che le parole non possono dir tutto. Come sono felice! Soffriremo, sai, lo sento, perchè questa felicità sarebbe troppa senza doverla scontare un qualche giorno, quando non ne saremo più degni. Lasciami dire: tu vuoi farmi un altro complimento, io invece ho bisogno di pensare in questo momento alla morte, a qualche cosa anche di più triste, per poter resistere allo sforzo, che mi soffoca. Vedi, nel sole non potrei dirti questo.

—Non siamo abbastanza forti per il sole,—egli si lasciò sfuggire inconsapevolmente.—La mezzanotte è il meriggio delle anime profonde, che si ameranno sempre, mentre il sole ha bisogno di bruciare tutto ciò che ha creato.

Allora ella gli salì sulle ginocchia, e con ambe le mani aggrappate al suo collo gli adagiò il capo sopra la spalla, sfiorandogli la bocca con un bacio. Il suo scialle bianco, lungo sino a terra, vi si confondeva nell'incerta bianchezza.

—Perchè, non si muore d'amore?—Bice sospirò scossa da un brivido.

Egli le coperse la fronte di baci tuffando il volto nel profumo vaporante da tutte le sue vesti, mentre ella gli si illanguidiva mollemente fra le braccia, e la seta fine dello scialle, che le difendeva il seno, strideva di un riso sottile.

—Parla, parla,—Bice ripetè:—non voglio dormire ancora. Dimmi che mi ami.

—Quando ti sei accorta di amarmi?

—Alla indifferenza, colla quale imparai il tradimento di Lamberto: egli non amerà mai come noi, infelice!

—Anche l'amore è una rivelazione, alla quale l'umanità tenta indarno di sollevarsi, impedita dal peso della propria massa. La gente ama come vive, senza saperlo, precipitandosi verso le prime ebbrezze della voluttà, come il neonato stende brancicando la manina verso la mammella della madre. Ama forse il bambino? Che cosa sanno ancora adesso i cristiani dell'amore di Cristo? Essi si muovono dentro la sua religione, ne portano al collo per emblema la croce, e forse nessuno di essi ha mai pensato al più tremendo di tutti i misteri, al suicidio di un Dio per amore della umanità. Tu pensavi ora a morire, perchè tu ami, e non manca più che la morte alla pienezza della tua vita. Anch'io ne sento l'alito refrigerante in fondo al cuore. Sparire ora, dissolversi in questa notte, che non ridirebbe ad alcuno il nostro segreto, non essere più che un'anima sola, mentre la vita ci divide ancora, e non possiamo amarci che separati! Eppure io ti amo di tutti gli amori; mi pare di essere tuo figlio, tremo di tenerezza e di rispetto tenendoti fra le braccia; tu sei mia sorella, l'amicizia dell'amore, la sua purità più intellettuale; poi tu sei mia, la sola donna fra tutte, la bambina che mi sono allevata, il poema vivente del mio pensiero, la rivelazione suprema della mia anima. Ascoltami, Bice, non ti offendere; guai a me se non fossi vecchio! Mi pare di comprenderlo solamente adesso, eppure ne ho tanto sofferto prima; ora invece ne sono beato. Tu devi essere giovane per sopravvivermi dopo aver difeso colla tua carità la mia vecchiezza. No, lasciami dire: l'amore della donna è pietà; pietà per la forza che ci manca, per la fatica che ci uccide; ecco perchè l'uomo non ha mai tanto bisogno della donna come ritraendosi dalla battaglia. Il nostro amore, quello dell'uomo, è come la gloria, una ebbrezza di essere amato, di essere pensato anche dopo morto. La donna sola ama: Cristo per amare ha dovuto apprenderlo nel seno di Maria. Bice!—proseguì dopo una pausa.

Ella lo guardò coi grandi occhi incantati, rannicchiata sul suo petto sotto la violenza melodica di quelle parole, che le trascinavano il pensiero alla deriva. Ma in quella positura, a lungo andare troppo incomoda, ogni tanto si tirava su al suo collo con le scarpine puntellate nelle sue gambe.

—Niente! adesso io non parlo più,—ella esclamò con un sorriso.

—Sarà tardi: vuoi che ritorniamo?

—Aspetta, la notte è bella. Mi pare strano di non avere paura.

—Di che?

—Non lo so, ma non ho paura: è la prima volta che mi trovo in campagna.

Egli le ravviò lo scialle perchè non avesse a pigliar freddo.

—Se la zia ci vedesse!

—Direbbe che siamo matti, qui, a quest'ora.

Ella si arrese, ma al ritorno non parlarono quasi più: si erano fatti gravi. Bice rabbrividiva al suo braccio camminando a testa bassa, egli trepidante di una emozione a mano a mano più intensa non trovava più modo di riannodare il dialogo, mentre dalla notte profonda le foglie sospiravano lentamente, e per l'aria tiepida il volo invisibile delle nottole discendeva talora quasi sino alle loro teste con fuggevoli soffi irrequieti. La strada parve loro più lunga. Adesso discendevano meglio oltre siepi nei campi, e s'accorgevano della polvere, che si sollevava in nuvolo ad ogni loro passo.

—Tienti su le vesti,—egli le disse, chinandosi per aiutarla a stringerle in pugno, ma ella sorpresa da una improvvisa timidezza non volle.

Il cancello era aperto, Giuseppe li attendeva sul prato, fumando la pipa, sdraiato sull'erba e colla testa poggiata ad un grosso vaso di limone. Al vederli entrare si alzò, essi ne rimasero scontenti.

—La notte è buonissima, non cade rugiada,—si permise di dir loro.

Aveva lasciato la candela accesa dietro il battente della porta: ne accese un'altra, disponendosi ad accompagnarli.

—Date qui,—gli si volse Bice.

L'altro titubava; allora De Nittis gliela prese di mano e, interpretando il pensiero di lei, lo mandò a letto.

La loro camera era al primo piano, Bice saliva le scale tremando. Appena furono dentro, De Nittis andò ad accendere la candela sopra uno dei comodini del letto, presso il quale era un antico inginocchiatoio di quercia con due piccoli cuscini di seta rossa per i gomiti e per le ginocchia. La camera, parata di una stoffa cenerognola, era pallida e mite nel chiarore, che si spandeva da una grossa lampada appannata, sospesa al mezzo del soffitto per una catena di anelloni dorati.

Poi tornò presso Bice per trarle lo scialle, ma le mani tremavano anche a lui; ella invece gli sfuggì correndo all'inginocchiatoio, e curvandovisi tutta col viso fra le palme. A lui parve d'intendere un singhiozzo, fremè. La sua anima ebbe un ultimo spasimo in quel vacillamento misterioso, che ci coglie sempre al momento di entrare in una nuova irrevocabile fase della vita, e le si appressò colle mani tese quasi per sostenerla.

Infatti ella singhiozzava sotto il piccolo ritratto della Vergine.

—Bice!—le mormorò sul capo, mentre con ambo le mani cercava di alzarle il volto.

Ella cedette, arrovesciandosi verso di lui, sempre in ginocchio, colla faccia illuminata dolcemente dai grandi occhi profondi; la sua mano sottile gli accennò tremando la Vergine.

—Anche tu l'adori….—balbettò come un'ultima preghiera.

—In te.

IX.

Quando le dissero finalmente di aver trovato la contessa Ginevra morta nel letto per un colpo fulminante di apoplessia, Bice cadde in convulsioni; poi rinvenendo fra il dottore e il marito:

—Se non ti avessi!—aveva esclamato, afferrando con una specie di spavento la mano di questo.

La contessa Maria, ammirabile come sempre di devozione, rimase parecchi giorni al suo capezzale per ammonirla che adesso più alti doveri le imponevano di soffocare le mormoranti ribellioni del suo cuore contro i voleri di Dio. Se la contessa Ginevra era morta senza i conforti della religione, la sua anima era troppo bella e la sua vita troppo pura per temere che Dio non l'avesse accolta fra gli angeli del suo paradiso: e la voce della contessa Maria in queste esortazioni aveva un tono di sicurezza esaltata, alla quale Bice non avrebbe saputo come opporsi. Ma parlandole dei riguardi dovuti alla creaturina, che stava per nascere, ella stessa era ripresa dalle dolci paure del parto, questo mistero dei misteri anche per le madri, e nel quale nessuna luce di pensiero ha ancora saputo penetrare.

Dopo la morte della contessa Ginevra, Bice, come unica erede, aveva seguitato ad abitarne il palazzo senza cangiarvi alcuna disposizione. Tutti i servitori avevano ricevuto la pensione restando in servizio, benchè non avessero più nulla a fare, dal momento che ella non voleva intorno se non Margherita, Tonina e la vecchia Rosa oramai rimbambita. De Nittis, compiuti i trent'anni d'insegnamento, rinunciò alla cattedra per compiacere Bice, paurosa di restar sola ed incapace di occuparsi di amministrazione. Infatti il suo patrimonio, quantunque abbastanza ben amministrato, avrebbe avuto bisogno di molte riforme e di una più intensa vigilanza. Con quella ammirabile duttilità d'ingegno, che era una delle sue doti più caratteristiche, De Nittis vi si accinse quindi alacremente riuscendo in poche settimane a rendersi conto di ogni errore nel sistema e dei vizi delle persone: poi libero da qualunque suscettività avara, e colla bella indulgenza acquistata in quella lunga austera vita di studio, non precipitò a reazioni imperiose. Espose tutto a Bice, che lo ascoltò senza capire consentendo anticipatamente a quanto stava per chiederle. La sua idea, semplice e chiara, era di cedere tutti i terreni in una lunga affittanza, che costringesse il locatario nel proprio medesimo interesse a coltivarli senza risparmi; così il patrimonio sarebbe aumentato di rendite e di capitali. Naturalmente agenti e fattori sarebbero stati pensionati, meno quei due o tre fra i migliori, ai quali verrebbe affidata la sorveglianza degli stessi affittuari. Questo sistema era il solo per non lasciare Bice, nel caso troppo pronto di una vedovanza, in balia di un personale d'amministrazione naturalmente proclive ad ingannarla. Se fosse stato più giovane, si sarebbe messo egli medesimo alla testa di quegli ottanta poderi per compiervi una rivoluzione agraria ed agricola, ma non potendo più averne nè il tempo nè il modo si limitò a guarantire contro la naturale rapacità degli affittaiuoli tutti i vecchi patti colonici dei contadini condonando a questi anche i debiti.

Questa semplificazione, così logica, comportò nullameno molte trattative e disturbi, durante i quali De Nittis rimpianse più d'una volta la propria cattedra, sentendo per un'ultima amara ironia della vita crescervi intorno la celebrità appunto dopo quella volontaria rinuncia. Vi era stata per lui all'università una specie di festa, della quale i giornali avevano parlato anche fuori della provincia; così al momento di abbandonare per sempre quell'aula, nella quale il suo pensiero si era svolto per tanti anni in spirali luminose, la commozione lo vinse.

Doveva essere l'ultima data della sua vita.

Tutti i sogni e i dolori passati gli fecero ressa al cuore: l'aula rigurgitava di scolari, alcuni professori erano presenti. L'applauso, fragoroso ed insistente alle sue prime parole di saluto, gli mozzò il respiro costringendolo ad abbassare la testa per nascondere le lagrime, che gli cadevano grosse dagli occhi. Quella folla volgare, sempre la medesima di tutti gli anni, in tale momento si trasformava anch'essa come accade sempre a tutte le folle sotto la pressione di un qualunque sentimento. Egli era già morto per loro, che salivano gaiamente l'erta della vita: il suo pensiero non li incontrerebbe più, la sua voce non potrebbe più scrollare colle proprie sonorità certe fibre recondite della loro coscienza. Ritto sulla cattedra, come sulla tolda di un vascello che salpi per un altro mondo, egli si sentiva lo sguardo vago e la fronte battuta dal vento.

Qualche cosa piangeva in fondo al suo cuore, come piangono talora gli emigranti poveri, ammucchiati giù nella stiva, quando intendono levare l'ancora.

Il rettore, altri professori, altri studenti sopraggiunti, lo acclamarono con un entusiasmo crescente e mano mano più incomprensibile, quasi solamente allora, disceso dalla cattedra, indovinassero confusamente in lui il grand'uomo. Nell'uscire dal portone dell'università l'ovazione ebbe uno schianto di tempesta, poi un'altra folla sì aggiunse a quella degli studenti per accompagnarlo a piedi sino al palazzo di Bice, rimanendo qualche minuto ad applaudirlo sotto le finestre.

Bice, nel vederlo così pallido, corse ad abbracciarlo dondolandosi a stento, perchè la gravidanza già inoltrata le aveva deformato il ventre, e tolta ogni forza alle gambe.

—Piangi!—esclamò intenerita.

Egli fece uno sforzo per dissimulare:

—Ho assistito ai funerali del mio ingegno, sono cerimonie sempre un po' tristi.

L'intimità della loro vita si restrinse ancora. Prinetti adesso veniva a trovarli tutti i sabati, sempre così grasso e tranquillo in quella scabrosa missione di far da padre a tre nipoti scapestrati, ma evitava di parlarne. Evidentemente il suo cuore soffriva nel proprio profondo di quanto la sua esperienza era costretta a profetare di loro; poi la sera, nel medesimo salotto della contessa Ginevra, non si radunavano più che la contessa Maria, il dottore e qualche volta la vecchia Rosa, in un angolo, muta e rugosa come una mummia.

Naturalmente la grande preoccupazione era il parto di Bice. Una attesa piena di trepidazioni occupava tutti dinanzi al problema di quel rinnovellamento della vecchia casa, una fra le più grosse della città; poi la modestia della sua vita anche più ritirata dopo la morte della contessa Ginevra, il tatto finissimo di De Nittis, diventato finalmente una illustrazione cittadina, avevano finito col disarmare ogni malevolenza. Si seppe loro grado di non fare alcun lusso, si vantarono le loro carità segrete, esagerandole per quella incapacità del mondo a valutare esattamente cose e persone. Bice non compariva quasi mai in pubblico, non si era montato un appartamento, usciva ancora nella carrozza della contessa Ginevra, quasi sempre colla contessa Maria, per rendere le visite d'obbligo. Ma nessuno la disse bigotta.

In quella ineffabile tenerezza del sapersi madre la divozione alla Vergine le aveva rifiorito nel cuore come un mistico roseto bianco. Le pareva di essere ella medesima il tempio del più grande fra i misteri, meravigliandosi di tanta semplicità della vita, che ricominciava nel suo grembo per proseguire chissà attraverso quante generazioni l'opera assegnatale da Dio. Lunghe fantasticherie la traevano nel futuro sulle traccie di coloro, che sarebbero nati dalla sua sostanza, mentre di lei non saprebbero forse nemmeno il nome, e sentiva di amare anche questi sconosciuti, nei quali il suo cuore seguiterebbe a soffrire e a pregare. Poi le paure la riprendevano violentemente di non bastare alla maternità, infondendo col latte e colla parola una seconda vita al proprio bambino: abbandonarlo così, morirne, quasi il bambino potesse mai essere una malattia per la madre! Ella non ne parlava con alcuno, perchè non vi potevano essere risposte a tali domande, e sapeva già anticipatamente quelle che avrebbe ricevuto; ma gli altri spesso la indovinavano. Allora ella cercava di farsi più forte ed allegra specialmente sotto gli sguardi di Ambrosi. Il vecchio medico rispondeva adesso con una indifferenza quasi sprezzante alle interrogazioni, colle quali De Nittis e la contessa Maria lo tentavano qualche volta, quando Bice non era presente. E che era forse un miracolo il partorire? Per quanto questa funzione potesse parere importante nell'organismo e meccanicamente difficile, la natura vi adoperava una tale insondabile riserva di forze che tutte le donne ne erano capaci, anche le più gracili. I pochi casi di morte dipendono sempre da colpevoli strapazzi o da vizi di struttura, anche questi estremamente rari; quindi citava casi su casi di donne, che al vederle avrebbero dovuto soccombere, ed invece avevano trionfato.

—La vita si è assicurata un ingresso facile, sapendo che tutto le sarebbe dopo difficile.

—Quando cesserete dunque di essere pessimista?—esclamò la contessa
Maria.

—Quando avrò capito che torna conto a soffrire.

—Credete in Dio.

—Voi ci credete per tutti noi, e vedete bene che non basta.

Ma con questi modi egli otteneva di mantenere in Bice la maggiore disinvoltura possibile. Ella si era voluto far promettere da lui di assisterla.

—Non faccio la levatrice io: guarda un po' che mani da facchino per trattare le donne. Che cosa c'è da assistere? Tutte ipocrisie inventate dai medici per guadagnare quattrini colle signore! Quando sarà tempo, andrai al Sasso, e la levatrice del paese ti servirà. Sai che cosa vidi una volta da giovane? Ho studiato due anni a Torino. In una escursione d'estate, che feci solo sulle Alpi, a tre mila metri trovai una contadina, che custodiva un branco di vacche. Là il bestiame parte per gli alti prati alla buona stagione, e non discende che l'inverno rimanendo sempre all'aria aperta. Quella contadina era sola e gravida di otto mesi; non aveva che un casotto per ripararsi dalle pioggie. Mi stupii di trovarla così in quello stato e in quel luogo: dovrete pur discendere fra poco, quando si avvicinerà il momento? le dissi. Ella sorrise e mi rispose che avrebbe partorito da sola; a casa il marito le era morto, e non restavano che il nonno con un nipotino, figlio di un'altra sua sorella morta.—Partorirete da sola? esclamai.—Coll'aiuto di Dio! Dopo ne ho viste altre partorire improvvisamente così, nella propria camera, senza bisogno di alcuno.

Nullameno Bice rimaneva paurosa, parendole di indovinare un'altra paura in quella esagerazione del dottore sulla facilità dei parti.

Egli temeva in fatti, ma di cosa anche più tremenda.

Fra Bice e De Nittis la passione di amanti si era già purificata nell'amore di quella invisibile creaturina, che stava per apparire nella loro vita. Egli si era fatto timido, mentre ella invece pareva dominarlo con una nuova importanza superiore a tutto ciò che egli potrebbe mai produrre nella loro esistenza di coniugi. Quindi erano inquietudini per il più lieve dei pallori e la più effimera delle nausee, che spesso le salivano dallo stomaco; ogni passeggiata a piedi importava lunghe discussioni; egli la vigilava con una instancabilità dissimulata abilmente, appena qualche improvvisa esasperazione nervosa le turbasse l'ordinaria placidezza del carattere. Una luce sacra avvolgeva Bice ai suoi occhi di pensatore, quell'aureola che le religioni hanno sempre messo intorno alla donna fecondata, e dentro la quale la presentarono alle adorazioni dell'uomo. Tutti i fulgori della bellezza e i profumi della voluttà vaniscono dalla donna al momento di diventar madre: che importa oramai l'uomo, pel quale potè cangiarsi così? Adesso ella vive già nel futuro di colui, che nascerà dalla sua carne, e il suo cuore si rivolge a Dio perchè salvi la misteriosa opera propria.

Infatti Bice, tutte le mattine, andava a messa con Margherita per ripetere sempre le stesse orazioni, e allorchè De Nittis, sapendo di darle la più profonda delle gioie, l'accompagnava, ella si sentiva anche più sicura della bontà del Signore. Ma al rovescio di molte donne, che affettano orgogliosamente la prima gonfiezza del ventre, cercava quasi di nasconderla sotto ampie vesti, soffrendo anche più dolorosamente di De Nittis, nel ricevere fra i soliti complimenti la punta avvelenata di qualche ironia. Adesso parecchie amiche di Bice, rimaste zitelle, fingevano di compassionarla per quello stato, nel quale diventava anche più brutta, come se la maternità fosse una specie di malattia, che nello sformare il corpo impediva per lunghi mesi tutti gli altri divertimenti. Altre mamme, invece, la spaventavano col racconto dei dolori e dei pericoli inseparabili del parto, anche quando la donna vi giunge, non debilitata.

—È la nostra guerra,—le aveva detto un giorno la moglie del professore di statistica, una bionda angolosa, dagli occhi verdi, troppo povera per non invidiare la posizione di Bice—mio marito mi ha spiegato cento volte che il massimo della mortalità per le donne è nel periodo del parto.

—Siamo dunque più fortunate degli uomini, che morendo in guerra possono solamente avervi ucciso,—rispose Bice amabilmente, difendendosi invano da una paura gelida.

Ma quando De Nittis rientrò, corse a rifugiarsi al suo collo: non si lasciavano più. Nei giorni, che a lei pareva di star meglio, tornavano amanti con una tenerezza guardinga e più profonda, non avendo adesso più nulla che non fosse in comune. I loro giuochi, quasi infantili, li facevano spesso ridere con uno scoppio irrefrenabile di gaiezza; ella, seduta sulle sue ginocchia, gli ripeteva per ore con parole spezzate, quasi senza senso, come si usa coi bambini, la medesima carezza, e finiva col fingere di addormentarsi sulla sua spalla. Egli la cullava come una balia, superbo allora che gli riusciva di alzarsi con lei fra le braccia, per trasportarla sopra un sofà. Questa prova di forza gli gonfiava il cuore di giovinezza. E in quelle lunghe conversazioni da soli doveva spesso rinnovarle, sempre colla stessa inutilità, la spiegazione di tutto ciò che la scienza aveva potuto sorprendere nel fatto della generazione. Bice si ribellava; era impossibile che in un certo momento il feto di un uomo fosse identico a quello di un ranocchio o di un colombo, giacchè tale parità nella natura le faceva male al cuore. L'uomo doveva essere un'opera a parte. Invece si compiaceva al racconto delle poesie, entro le quali l'istinto di tutti i popoli aveva sempre rappresentato la nascita umana: il bambino era la prima strofe di tutte le religioni, la prima emozione veramente disinteressata di ogni individuo.

—Chiamami mamma,—ella esclamava sovente:—non lo sono di già, anche se dovessi morirne prima? Dimmelo prima di lui: chissà quanto tempo gli occorrerà per potermelo balbettare!

Intanto il corredino, stupefacente di ricchezza e di minuzie, era già pronto. In questo capriccio di gran signora, Bice non aveva risparmiato nulla di quanto il suo cuore potesse desiderare; ma la culla sopra tutto, scolpita da uno di quei poveri grandi artisti di campagna, nei quali oggi l'industria uccide il genio, e scoperto da Prinetti sui colli di Vergato, era un piccolo capolavoro. Lo scultore, memore di Mosè, l'avea immaginata come una navicella presa fra le alghe di una riva, compiacendosi a lungo nella disperante riproduzione delle foglie e degli steli schiacciati fra il pantano. Bice invece, dopo averla riempita di merletti, come un nido bianco e soffice, s'incantava spesso a contemplarla, vedendovi già la testa di un bambino sorridente nel sonno.

Poi, negli ultimi mesi, Bice parve ingrassare ed acquistare in robustezza, forse per una recondita necessità di quello stesso peso, che le si aggravava dentro il ventre; ma rimaneva sempre troppo bianca, colle gengive smorte, e certe trasparenze ceree agli orecchi, di augurio non buono. Finalmente, verso la fine di aprile, Ambrosi ordinò di andare al Sasso.

Nel lasciare Bologna Bice diede in un pianto dirotto.

—Non la vedrò più, non la vedrò più!—mormorava fra i singhiozzi, ma la bellezza della campagna la rianimò, e appena arrivati nel giardino della villa, era già tutta contenta. Pochi giorni dopo Ambrosi e Prinetti, venendo alla villa, vi trovarono la levatrice, una donna sui cinquant'anni, di famiglia abbastanza buona, già divenuta una cliente di casa. Aveva un naso da uomo sopra una lunga faccia bruna, con una statura quasi di granatiere; De Nittis meravigliato dell'intenderla dichiarare la necessità assoluta delle lavande antisettiche in tutti i parti, come di un ritrovato messo in voga dall'università di Bologna e che ella aveva praticato per la prima nella provincia, ne parlò con entusiasmo al dottore.

Ambrosi, già contento di lei per averla veduta all'opera in altre circostanze, sorrise di tali elogi, combinando in segreto di venire alla villa, quando ne sarebbe il momento, ma senza lasciarsi scorgere da Bice per mantenerla nella illusione di una assoluta facilità. Il parto invece avendo anticipato felicemente di qualche giorno, il vecchio dottore non potè arrivare che per ricevere il bambino dalle mani della levatrice, mentre stava per fasciarlo.

De Nittis era nella camera di Bice.

—Lascia vedere,—disse bruscamente Ambrosi, benchè alla prima occhiata avesse già fatto l'esame del bambino.

Margherita era gongolante.

Il piccino scuro, grinzoso, cogli occhi chiusi e un ciuffetto biondo nella testolina calva, guaiva, con un suono fesso di giocattolo, fra le grosse mani villose del vecchio.

—Che gliene pare?—chiese la levatrice con una specie di famigliarità professionale, gittando a Margherita una occhiata di superiorità.

—Uhm!

La levatrice credette di vedergli tremare una lagrima negli occhi. Margherita invece, che non aveva pratica di neonati, sordamente indispettita di quella severità di giudizio, tese ambo le mani, chiamando il piccino a piccoli gridi sommessi:

—Amore, bell'amorino!

—Tutto il resto, bene?—egli tornò a domandare.

—Dorme già.

—Andiamo a cena.

Invece si affacciò alla camera; Bice dormiva profondamente, con una mano di De Nittis stretta nella propria. Al rumore dell'uscio questi alzò la testa, accennandogli di andar piano per non destarla.

—Hai visto il bambino?

—Va bene.

Appressò il lume al volto della dormiente, le tastò il polso e parve soddisfatto dell'esame.

—Vieni.

—Oh!—esclamò l'altro a bassa voce:—potrei lasciarla ora?

La balia era già in casa, una montanara dell'Appennino, bionda, tozza, dalle spalle larghe e la pelle brinata come le pesche; il dottore la volle seco a cena per ripeterle un'altra volta tutte le istruzioni; ma restava cupo. Da ultimo respinse il piatto dispettosamente: anche la balia non era contenta del bambino.

—Non potrò farmi onore,—disse con ingenuo egoismo.

—Eh! si tratta proprio di questo. Perdio, fa conto che il bambino sia di vetro: guai se non ubbidisci a tutte le mie prescrizioni! Ma in ogni modo non avrai a lagnarti…. ti saranno riconoscenti egualmente.

Ella pure si fece seria. Quei discorsi tristi, in tale momento, le serravano il cuore coi ricordi dell'altro bambino, che essa aveva ceduto ad una cognata per venire a fare da balia in casa della contessa. Ma quello era grasso, grosso, roseo, enorme per i suoi cinque mesi.

—Il mio è un vitellino;—si lasciò sfuggire arrossendo, perchè entrava Margherita.

Benchè il parto fosse andato anche troppo bene, Bice penò a rimettersi. Uno sfinimento la teneva a letto, bianca ed inerte, coll'anima piena di una malinconia, che la vista stessa del suo bambino non bastava a vincere. Infatti il piccolo Giulio sembrava deperire tutti i giorni: la sua testina scura, con la pelle già vecchia, diventava di un effetto impressionante, quando Mea se l'attaccava alla grossa mammella, sfolgorante e resistente come il marmo. Invano Margherita per vincere tali preoccupazioni si ostinava a vantarlo come un amorino, portandolo spesso in giro fra le braccia, e fingendo di palleggiarlo appena Bice o De Nittis potesse vederla. Questi invece soffriva più di tutti, orribilmente, in silenzio: quella creaturina era dunque tutto ciò che la natura aveva consentito alla sua passione per Bice! Quindi una amarezza, mano mano più umiliante, gli toglieva perfino di fingere innanzi agli altri il solito entusiasmo dei nuovi padri pel primo figlio, specialmente se ella, spaurita del pari, si voltava interrogando coi grandi occhi. Tale chiaroveggenza, nella quale un medico avrebbe forse ancora saputo sperare, si esagerava in loro cogli spasimi di una paura delirante di amore. Bice non osava più la menoma osservazione a quanto le ingiungessero, preoccupata di nascondere il proprio stato per non accrescere quella muta desolazione del marito. La sola sua gioia, intensa e repressa, era di contemplare Mea curva sulla faccia del bambino, schiacciandolo quasi con quel suo seno largo di contadina, dal quale il latte zampillava così copioso che doveva possedere le stesse virtù supreme del sangue per il rinnovellamento di una tanto grama esistenza. Allora una specie di contentezza le saliva dal cuore ad umiliare la propria superiorità di signora malaticcia, tanto poco capace di essere madre, davanti alla sua potenza di balia sufficiente per due bambini, e alla sicurezza, colla quale maneggiava talora anche dinanzi a lei, quasi senza riguardi, quel frale corpiciattolo.

Mea, timida da principio, si era accorta presto di questa muta venerazione senza poterne intendere il profondo significato, ma il suo umore facile, eccitato dalla carne e dal vino, col quale a tavola la rimpinzavano, ne era diventato anche più allegro; mentre la sua bellezza nelle nuove vesti sgargianti di seta, col grande fazzoletto bianco di trine, che le involgeva il busto roseo ed azzurro, e un altro fazzoletto attorcigliato sulla nuca alla provenzale, raggiava di più vivo splendore.

Fortunatamente la naturale bontà del suo carattere le faceva amare anche il bambino.

Bice avrebbe voluto farla dormire nella propria camera, ma il dottore si oppose. A che pro? I bambini avevano bisogno di aria pura, anche più degli adulti, e quella stanza non era abbastanza grande per tre; poi la balia, messa in soggezione dalla madre, non avrebbe dormito quanto le occorreva.

—Per questo,—aveva detto Mea imprudentemente,—a me non ci pensino.

Pochi giorni dopo, Ambrosi dovette tornare precipitosamente perchè il bambino, preso da sforzi di vomito, pareva dare in convulsioni; la balia sosteneva che non era nulla, però dal suo accento si capiva che voleva mostrarsi più pratica di quanto lo fosse. Il piccolo Giulio, sepolto fra i merletti della sua navicella scolpita, dormiva di un sonno agitato sotto gli sguardi di Bice, curva su lui col volto disfatto.

Il dottore esaminò il bambino fingendo di non avvertire la febbre, che lo teneva sopito, e scoppiò a strapazzare tutti. Così era impossibile andare avanti! Che cosa credevano adunque? Che quello fosse il primo bambino nato al mondo, da diventare matti tutti quanti, improvvisamente, se avendo deglutito un po' più di latte, aveva necessariamente fatto qualche sforzo per rivomitarlo? Non accadeva anche agli adulti? Adesso con tutte quelle false tenerezze si era riusciti a spaventare anche la balia.

Bice allibita piangeva silenziosamente, De Nittis invece, pallido come un cencio, scrutava nel viso del dottore temendo d'indovinare la commedia di quella collera.

Allora Ambrosi trascese.

—Volete allevare un bambino in questo modo…. e perchè no? Ho visto ben di peggio io in quasi cinquant'anni. Mi dispiace per la bella balia, che vi avevo trovato, perchè a forza di far sempre una scena se il bambino non mangia, se mangia troppo, se non dorme quanto desiderate voialtri, finirete col guastare il latte anche a lei. Se fosse qui la povera contessa Ginevra, so quello che direbbe. La mia opinione eccola chiara e tonda: domani rimando Mea a casa col bambino, o non vengo mai più.

—Dottore!—esclamò Bice giungendo le mani.

—Appunto perchè sono il dottore. Tu sei una sciocchina, che t'immagini una grande novità nel fatto di aver un bambino. Siamo intesi, domani: mi rivolgo a te, Roberto, che sei il padre, e devi capire un po' più di lei. Io resto, torneremo tutti e tre a Bologna, e la balia andrà a casa sua. Sei contenta, Mea? Non è vero che l'alleverai meglio da sola?

—Se Dio m'aiuta!—non potè a meno di rispondere con un atto di gioia.

—Ma vivrà?—proruppe Bice straziantemente, curvandosi ancora ad ascoltare il rantolo del suo respiro.

—Perchè non dovrebbe vivere, dal momento che tu pure sei vissuta? Allora non ti facemmo tante smorfie: lasciatelo dunque dormire una buona volta colla sua balia, e venite con me.

Quella fu nullameno una triste giornata: Bice ogni tanto si asciugava gli occhi, e cercava tutti i pretesti per tornare presso la culla del piccolo Giulio. Il suo spavento si accresceva da questo, che per i bambini non ci potevano essere medicine.

Ma appena rimasti soli, De Nittis aveva afferrato la mano di Ambrosi.

—Tu disperi!

—No ti dico, ma in ogni caso voglio salvare la madre.

—Il pericolo è così imminente?

—Anzi non ve n'è affatto, però colle apprensioni, che avete già nell'anima, non bisogna che il bambino resti qui. Mea a casa propria lo alleverà meglio, perchè sarà più allegra: è questione di mandarle spesso regali, tutta roba di cucina, perchè in casa vorranno mangiare anche gli altri.

De Nittis restava tetro.

—Tu non dici tutto.

—Adesso vuoi fare tu una scena? Ti ripeto, il bambino vivrà, lo spero: la balia è un miracolo di salute. Naturalmente, se tu vedessi, il suo è un'altra cosa; ma se Giulio restasse qui, e per caso si ammalasse seriamente, Bice ne morrebbe. A Bologna la distrarremo.

E gli volse le spalle per andare a riprendere Bice dalla camera della balia.

La mattina seguente, quando Bice si destò, Mea per ordine del dottore era già partita verso i propri monti, dentro il vecchio calesse della contessa Ginevra, con un monte di fagotti e di regali. Bice tornò a piangere; allora Ambrosi mutando tono si fece affettuoso.

—Figlia mia, ho rimandato la balia col bambino appunto per risparmiarti quest'emozione. Quando si è madre, bisogna sapersi frenare e dar retta a chi capisce più di noi: la balia, qui con te, si sarebbe guastata perchè, la conosco, è golosa; a casa sua invece, tutto andrà d'incanto. Giulio, l'ho esaminato un'ora fa, era fresco come una rosa, ma tu non sei donna da saperlo allevare; a forza di riguardi, di vietargli l'aria, di misurargli il sole, gli avresti comunicato le tue paure finendo coll'indebolirlo. Ho dunque deciso io: se non mi credi più, scusami tanto…. vorrà dire che mi sono rimbambito.

Bice gli si buttò nelle braccia, ma nel salire in carrozza, mentre il dottore parlava con Margherita, susurrò all'orecchio di De Nittis:

—Te lo dissi, che avremmo dovuto tanto soffrire!

A Bologna la loro vita continuò come prima, apparentemente calma e modesta, ma un terrore angoscioso di quel matrimonio, nel quale Dio li puniva coll'inane debolezza del figlio, separava ogni giorno più profondamente i due sposi. Bice era anche più severa verso sè medesima. Perchè aveva dunque voluto diventare sposa e madre, sapendo intimamente di dovere quella sottile esistenza di ventitrè anni solamente alla sapiente carità di tutti i suoi amici? Essi avevano potuto strapparla alla morte, ma non darle la vita rigogliosa e feconda delle altre donne. Invece, dopo aver ricusato Lamberto, bello come un atleta, ella si era messa pazientemente, tristamente, ad insidiare la tenerezza del maestro togliendolo alla propria pace crepuscolare per gettargli nell'anima la più dolorosa di tutte le tragedie, quello spasimo dei padri costretti ad assistere l'agonia dei figli, e a rimproverarsela. Nessuna passione poteva scusare tale crudele egoismo. Lamberto, sposandola nell'equivoco di una prima simpatia fanciullesca, avrebbe sempre potuto consolarsene con altre donne, mentre De Nittis doveva invece morirne fra le querele della propria coscienza e le ironie del mondo. Quindi ella sentiva di amarlo più vivamente, appunto per questo rimorso di essere la irreparabile sciagura della sua vita, ora che sformata dal parto non aveva nemmeno più nulla da offrirgli come donna.

Infatti la pelle del volto, macchiata qua e là di trasparenze perlacee, le cadeva flosciamente rugandosi ad ogni piccolo moto, mentre il ventre, rimasto grosso, faceva sembrare anche più dolorosa la curva rientrante del suo petto. Una invincibile prostrazione, dopo qualunque più lieve fatica, le toglieva persino quella prima vivacità giovanile, della quale aveva potuto farsi una grazia, lasciandola quasi senza vita dinanzi allo sguardo malinconico di lui. In tale avvilimento di sè medesima una delirante passione le saliva dal cuore di cadergli ancora fra le braccia per ottenere il suo perdono in un abbandono di singhiozzi e di baci. E siccome il parto li aveva separati, quella solitudine sul grande letto matrimoniale, di notte, nella camera fiocamente illuminata, le rinnovava quasi le paure da bambina fra voci di pianto e invocazioni di nuovi dolori, che la ritornassero un'altra volta degna di essere sposa e madre.

Talvolta invece, credendo d'aver sorpreso nell'occhio di lui un lampo inquietante, si rifugiava ai piedi della Vergine in un'angoscia anche più acuta di felicità. Egli l'amava dunque ancora? Tutto era dunque possibile; e Giulio, il piccolo Giulio, rifiorirebbe egli pure, perchè i bambini sono davvero come i fiori, e basta una goccia di rugiada o un raggio di sole a decidere del loro rigoglio! Poi le malinconie la riprendevano da capo dinanzi a lui, che non sapeva più dove passare le giornate. De Nittis usciva poco di casa, non aveva più lezioni all'università per distrarsi, nè brighe nell'amministrazione già abbastanza bene riordinata; invece cercava di esserle vicino tutto il giorno con una evidente intenzione di consolarla. Malgrado tutta la propria perspicacia, ella non avrebbe mai potuto indovinare con quali più tristi accuse egli segretamente si torturasse per non aver saputo resistere alla propria passione senile, togliendo così a lei l'aiuto di un'altra giovinezza più forte, come la natura avrebbe voluto. Quella, che in Bice era stata inesperienza e fascino di un primo affetto, in lui, già passato attraverso tutte le tragedie della vita, era divenuta corruttela. Questa abbietta parola adesso gli stava confitta nella mente come un marchio di pena. Qualunque fosse la passione, che il suo cuore aveva finito per sentire verso di lei, il senno più volgare e la più ordinaria onestà avrebbero dovuto imporgli di soffocarla: a che dunque tanti anni di filosofia, se non bastavano ad impedire un matrimonio, nel quale un vecchio maestro povero, oramai senza sangue nelle vene, abusava della giovinezza ammalata di una scolara milionaria per farsi sposare?

Tutte le scuse, che allora lo avevano persuaso, scoprivano adesso la propria inanità. Certamente il piccolo Giulio morrebbe! Egli lo sentiva, era necessario, era giusto… Perchè, e sopratutto di che, quella creaturina avrebbe vissuto? Si ricordava la tristezza di Prinetti, durante la grande cerimonia civile, tra quella fredda e latente ironia di tutti gli invitati; i modi così mutati del dottore che, conoscendo di non potersi opporre a simile follia, aveva voluto lasciarvi quel poco di allegria permessa da un'ultima illusione. E anche ora mentiva ostinatamente con lui e con Bice, dichiarando che il bambino non correva alcun pericolo; ma egli pure aveva studiato abbastanza biologia e fisiologia per non potersi più consolare di tali menzogne.

Che gli restava dunque della vita? Quella solitudine senza passato, senza avvenire, senza amici, senza idee, dalla quale aveva creduto di fuggire sposando Bice, si dilatava adesso nella sua vita come sopra una steppa gelata. Era solo, e forse lo diventerebbe maggiormente, perchè sua moglie e suo figlio, sottomessi precocemente alla morte dalla sua vecchiezza, agonizzavano già, silenziosamente, vicino a lui.

Era così, lo aveva voluto.

Indarno il dottore e la contessa Maria tentarono ogni modo di distrarli, poichè l'anno di lutto non essendo ancora trascorso, persino i teatri rimanevano loro chiusi. Quindi per uno di quegli accordi taciti, che solo i grandi dolori suggeriscono, ciascuno evitava di parlare del piccolo Giulio; solo il dottore, che andava spesso a trovarlo, riassumeva tutte le notizie in un solito:

—Va bene.

Quelle sere i volti erano più ansiosi; ma dopo queste parole sacramentali, la conversazione stentava ancora più a riannodarsi.

Verso Natale Bice insistè per vederlo.

Malgrado tutta la salute della balia e l'aria balsamica dei monti, il bambino deperiva quotidianamente; De Nittis, avvertitone da Ambrosi, andò a visitarlo di nascosto, colla scusa di una gita a Firenze, e ne ritornò colla morte nel cuore. Allora non fu più possibile rattenere Bice; ma, a rovescio di ogni previsione, ella si mantenne nella più grande tranquillità davanti al piccino, che le parve quasi come tutti gli altri, poichè il dottore era riescito abilmente a far sparire di casa l'altro della balia per cansare il confronto.

Da quel giorno, per una di quelle coincidenze, delle quali la superstizione è sempre pronta a giovarsi, il piccolo Giulio parve migliorare; quindi le visite alla balia si ripeterono ogni due settimane, poi tutte le domeniche, talora anche senza il permesso del dottore, meravigliato anch'egli di tale risveglio. Bice, d'accordo colla contessa Maria, spese duemila franchi in una magnifica festa alla Madonna nella chiesa della parrocchia, spogliando per quel giorno tutte le proprie serre. E il bambino prosperò ancora al ritorno della primavera. Certo rimaneva sempre mingherlino, con una pelle cinerea e la testa così grossa, che sembrava non potergli reggere fra le spalle, ma adesso suggeva tutto il latte della balia e cominciava a tenersi ritto sulle gambine. Era più di quanto abbisognava per illudere un cuore di madre.

Il dottore invece non se ne mostrava molto più lieto, però non ebbe più bisogno di persuadere a Bice di lasciarlo in campagna.

Poi anch'egli ammalò. Sulle prime non era parso nulla; si lagnava d'improvvise fiacchezze e s'andava addormentando ovunque sulle sedie; quindi una mattina, sull'uscio di casa, un colpo apoplettico lo aveva fatto cadere sul pianerottolo. L'illustre clinico dell'università, accorso precipitosamente alla prima chiamata, potè dichiarare che per questa volta il caso non era grave. Bice, avvertitane necessariamente da De Nittis, diede subito in convulsioni, ma appena rinvenuta andò risolutamente a vederlo, e non volle più uscire dalla sua camera. Quel vecchio servo contadino pareva rimbecillito. Allora De Nittis e la contessa Maria si aggiunsero a lei per circondare il malato di cure così affettuose, che lo facevano piangere.

Era rimasto alquanto impedito nella lingua, ma colla mente lucida. In capo a una settimana non serbava di quell'insulto che un intorpidimento nella gamba sinistra e qualche difficoltà di pronuncia a certe sillabe. Ma la sua faccia non era più quella: sembrava che un velo bianco ed opaco gli si fosse incollato sulla pelle, gli occhi guardavano incerti, si era curvato, spesso traballava. Colla caparbietà dei vecchi forti non ne volle però convenire. La prima mattina, che uscì di casa per riprendere il giro delle sue solite visite, ingiuriò il servitore perchè voleva accompagnarlo, e ricusò persino di salire in fiacre.

De Nittis, trovandolo per strada, potè appena trarselo a casa colla scusa di fare tutti insieme colezione con Bice.

—Volete strapazzarmi, non vengo.

—Lo meriteresti.

—Perchè non rimango in casa ad aspettare il secondo accidente, che mi porti via!—borbottò scrollando le spalle.—So presso a poco quanto può tardare alla mia età, colpito dove sono stato colpito: sarà finita finalmente.

A colezione combinarono per la prima domenica di andare dal piccolo
Giulio.

Fecero il viaggio in calesse con un bel sole; il dottore pareva allegro, ma la sua allegria cessò subito davanti al bambino.

—Non dite dunque niente?—gli si volse Bice inquieta.

—Non c'entro più…. io me ne sarò andato da Bologna prima che lui ci venga.

E fu vero. Quasi due mesi dopo, un'altra mattina, il servitore lo trovò morto nel letto; il piccolo Giulio, già slattato, non tornò invece dal Sasso a Bologna che sui primi di novembre.

Allora Bice sentì che della propria giovinezza non le rimanevano più che i ricordi; altri doveri, altri orizzonti di sposa e di madre le si aprivano alla coscienza. Ne divenne più calma, con quella mite severità della contessa Ginevra, alla quale veniva sempre più somigliando anche nei gesti e nelle inflessioni della voce. Comprendendo la necessità di non chiudere la propria casa in una città come Bologna, ne parlò con De Nittis perchè vi attirasse quanti ne sarebbero stati degni per la finezza della educazione e la coltura della mente; ma quantunque persuaso della bontà di tale idea, egli se ne schermì. Stavano tanto bene così, che non v'era motivo di mutare; poi il tempo non mancherebbe mai per accogliere qualche nuovo amico, e magari apprestare qualche festa.

L'anno di lutto era già finito da un pezzo, senza che Bice avesse ancora posto il piede in alcun teatro. Tutta la sua vita era intorno al bambino, del quale aveva fatto porre la magnifica culla nella propria camera, presso il grande letto, compiacendosi ella stessa a fargli da governante, quando si destava per qualche bisogno improvviso. Ma oramai il miracolo della guarigione era fatto per sempre. Quindi il suo cuore si fondeva in una riconoscenza devota al ricordo del vecchio dottore, che opponendosi ai suoi naturali egoismi di madre, glielo aveva salvato col mandarlo in campagna, a casa della balia. Già nel primo impeto di riconoscenza, allorchè Mea col marito aveva riportato il piccino alla villa, Bice aveva dato loro un libretto della cassa di risparmio, intestato all'altro bambino, per una somma di cinquemila lire.

—È Giulio che vuole così, per il suo fratellino di latte.

Poi Mea aveva dovuto, naturalmente, promettere di tornare spesso a
Bologna..

E da principio tutto andò bene. Bice non si ricordava quasi più del marito, se non per sorridergli come al padre del bambino, o preoccuparsi tratto tratto di quanto avesse potuto ancora fargli piacere. Quindi aveva tolto dalla propria camera di sposa, divenuta come una cappella colla presenza del bambino, tutte le mondanità della toeletta, per aggiungervi invece un altro gran quadro della Vergine al disopra della culla. De Nittis dormiva in fondo all'appartamento, in una camera attigua al proprio gabinetto di lavoro.

Un altro cuoco aveva sostituito Tonina, occupata ora della vecchia Rosa, che perduta quasi affatto la conoscenza e la vista, non si muoveva più da sedere. Era diventata anche sorda.

Solo Bice, parlandole forte nell'orecchio, aveva ancora la facoltà di trarla da quella sonnolenza di bruto; poi la vecchia tornava ad abbandonare la testa sul petto, e i suoi occhi senza sguardo rimanevano fisi in una opacità oleosa d'impannata. Laonde tutti i tentativi per farle riconoscere il bambino erano riusciti vani; glielo avevano messo sul letto, sulle ginocchia, quasi fra le mani, con una di quelle ostinazioni, alle quali è così difficile dare un nome; ma il piccino era sempre scoppiato a piangere, ed ella non aveva avuto che un gesto vago.

Bice, superstiziosa come tutte le mamme, si era sentita stringere il cuore da un'angoscia inesprimibile. Nella sua immaginazione malata, Rosa era a poco a poco divenuta il genio misterioso della casa, che ne custodiva nella profonda coscienza tutti i segreti; quindi si ricordava di non essere mai riuscita, malgrado la propria superiorità, a celarle qualche cosa di se stessa o a ribellarsi contro i suoi oscuri voleri. Ma quando l'aveva interrogata su quel matrimonio con De Nittis, la vecchia era rimasta in silenzio. Perchè? Ella non aveva osato ripetere la domanda. Però, da quel giorno, Rosa rientrata più profondamente nel silenzio della propria solitudine, non aveva sentito altro nella casa, nè le feste del matrimonio, nè la morte della contessa Ginevra, nè la nascita del piccolo Giulio; Bice veniva a vederla due o tre volte al giorno, ma il suo cuore si distaccava insensibilmente da quella figura di mummia, già fuori della vita.

Il piccolo Giulio assorbiva tutte le sue preoccupazioni.

Era piccino, coi capelli radi e riccioluti sopra la fronte troppo convessa e la testa troppo grossa. I suoi occhi frangiati da ciglia di una lunghezza impressionante, che a lei ignara del probabile significato patologico di questa bellezza facevano battere il cuore d'orgoglio, erano azzurri, di una limpidità cristallina e fosforescente; avea la pelle non fresca, ma così fine che vi si contavano tutte le più piccole vene di un turchino scialbo, come fili stinti sotto uno strato diafano di polvere. Ma, sebbene parlasse già e conoscesse benissimo tutti, la sua viva predilezione era di restar lungamente seduto sopra un'alta scranna a guardare delle stampe nel gabinetto di Bice, mentre essa fingeva di lavorare sorvegliandolo con intensa passione. Entrambi parevano quasi sempre tristi: egli permaloso per ogni nonnulla resisteva ostinatamente a tutti i tentativi di riconciliazione, e allorchè, pigliandolo in collo dolcemente, ella si metteva a passeggiare pel gabinetto, la sua pesante testina le si piegava a poco a poco, lenta e smorta, sui capelli neri come sopra il cuscino di una bara. Quindi Bice, non osando accompagnarlo fuori di casa per paura del freddo, aveva fatto disporre due grandi saloni con molti vasi di piante, a giardino, perchè potesse svagarvisi come per una campagna; ma poco appresso, impaurita da qualche gesto del bambino, che si portava spesso la mano alla testa, credette che i profumi di quei pochi fiori gli facessero male, e fece rimettere i saloni come prima. Solamente nelle belle giornate di sole, quando faceva quasi caldo, usciva con lui in carrozza sul mezzogiorno, dopo averlo ben bene affagottato.

Poi, ai primi soffi della primavera, tornarono al Sasso. Il bambino deperiva lentamente, diventava cereo, colle mani crespe, senza più voglia di camminare. Margherita, quando era sola con lui, doveva soffrire mille pene per fargli muovere qualche passo sul prato; ma, se Bice sopravveniva, lo ripigliava subito in braccio, e se ne andava dondolandolo guardingamente.

De Nittis, anche più inquieto di Bice, taceva. Già prima di partire pel Sasso, avendo interrogato vagamente l'illustre clinico dell'università, questi gli aveva risposto in modo così scoraggiante, da fargli quasi sospettare che potesse avere esaminato il bambino; e però soffocando in cuore le paure, che ne guizzavano ogni minuto, lo sorvegliava anch'egli di continuo, con una acutezza di osservazione resa anche più dolorosa dalla necessità di nasconderla.

Bice invece sembrava reagire contro quelle dolorose impressioni, come sforzandosi a negarle con una insolita volubilità; ma una sera che il sindaco era venuto a salutarli col medico condotto, un giovane secco e bruno, di una fisonomia volgarissima, la sonnolenza del bambino e il suo schermirsi incessante dalla luce colle manine la colpirono più vivamente. Glielo mostrò.

Il dottor Leoni, che lo aveva già guardato, parve quasi rifiutarsi, poi disse che senza spogliarlo qualunque serio esame era impossibile.

—Vuoi andare a nanna, Giulietto?

Egli rispose di sì col capo.

Allora il dottore seguì Bice. Era diventato improvvisamente più serio, studiando il piccino nudo, che dormigliava in piedi; ella si sentiva sopraffatta da un freddo terrore.

—Si è un po' smagrito,—tentò di dirgli.

Ma il dottore rimaneva concentrato, poi rispose:

—Lo mostri a qualche altro.

Bice si voltò di scatto.

—Ma non ha nulla: le accerto che, da quando l'ho ripreso a casa, non è mai stato a letto un giorno solo.

Ella non volle dir nulla a De Nittis, ma la mattina dopo il bambino ebbe uno sforzo di vomito, mentre Margherita lo rizzava in piedi per vestirlo, e si mise a piangere dal dolore di testa, nascondendogliela nel seno per non vedere la luce.

Il dottore, mandato a chiamare in fretta, entrò nella camera vestito peggio della sera prima, con una giacca di fustagno e due scarpe gialle, giacchè un servitore lo aveva trovato, mentre col biroccino si dirigeva verso San Quirico, alla casa di un colono.

Anche De Nittis era nella camera.

—Dottore, mio Dio!—esclamò Bice, andandogli incontro.

Egli non sembrò commuoversi a questa angoscia di madre: fece rizzare il bambino da Margherita e gli scrutò acutamente gli occhi.

—Veda,—si volse a De Nittis,—la pupilla destra è leggermente strabica: non mi pare che ieri sera fosse così. Il bambino ha sempre avuto questo difetto?

—Mai!—gridò Bice precipitosamente, curvandosi per guardare anche lei, ma il bambino aveva già chiuso gli occhi e, quando glieli vollero aprire per appressarvi una candela accesa, tentò un gesto disperato per respingerla, rompendo in un urlo di pianto, che gli rinnovò gli sforzi del vomito.

—Lo calmi, lo calmi,—disse il dottore.

Poi, siccome il bambino si teneva abbracciato a Margherita per il collo, Bice e De Nittis trascinarono il dottore alla finestra; egli s'imbarazzò, aveva conosciuto De Nittis all'università, e benchè condannasse i suoi principii filosofici come retrivi, provava una certa soggezione del suo ingegno e per la signorilità delle sue maniere.

—Sentano,—rispose finalmente, non senza durezza: se si trattasse del figlio di un povero, io potrei dire la mia opinione, ma con loro…. Chiamino Murri; lei, professore, è stato suo collega.

Bice si strinse la fronte nelle mani.

—Non c'è nessun pericolo per ora…. potrei anche ingannarmi, ma fra due o tre giorni la diagnosi sarà chiara. Anche quelle ciglia così lunghe sono sempre un sintomo….

—Di che?

L'altro non volle rispondere.

De Nittis comprese che era inutile insistere.

—Avrete la bontà, dottore, di ripassare oggi? Intanto io scriverò al mio amico Murri che voi desiderate di consultarlo.

Ma la voce gli venne meno.

Questa delicatezza parve impressionare il dottore; Bice li ascoltava come trasognata.

—Tornerò tutte le volte che vogliano. Allora aspettiamo altri due giorni, pericolo non ce n'è ancora, poi nemmeno ci sarebbe….—ma s'interruppe per tornare su la culla ad ascoltare il respiro del bambino, che si era addormentato.

Questi pareva calmo, senonchè attraverso il suo rantolo lieve, tratto tratto, passava qualche piccolo strido.

Poi quella scena così spezzata, profondamente repressa, sconcertò lui pure: avrebbe voluto dire qualche parola gentile per andarsene, ma invece non trovava nemmeno come salutarli.

Quando finalmente fu uscito, Bice afferrò De Nittis per l'abito mormorando con accento di terrore:

—Quell'uomo ci odia, l'ho sentito.

—Almeno non ci ama perchè siamo signori;—egli rispose con un sorriso doloroso.—Quasi tutti i giovani medici condotti oggi sono socialisti.

—Scrivi subito a Murri.

—Aspettiamo, mia cara: vedi bene che, se ci fosse ombra di pericolo, egli ce lo avrebbe detto, dal momento che invoca il controllo di Murri per la diagnosi. È un giovane, che mi pare intelligente.

Alle nove della sera lo strabismo della pupilla destra non era aumentato, sebbene il vomito si fosse ripetuto con qualche piccola convulsione, e l'addome del bambino apparisse anche più retratto; ma tornando per la terza volta verso le undici, il dottore trovò Bice e De Nittis ancora nella stessa posizione, a fianco della culla, che lo attendevano.

Il piccino batteva i denti nel sonno. Al rumore dell'uscio gettò un grido acuto, lacerante, quel grido speciale, idrocefalico, che pei medici è uno dei sintomi più sicuri in tale malattia. Il dottore si fermò sulla soglia, mentre gli altri due, invece di venirgli incontro, si erano già rivolti verso la culla. Nella camera una lampadina opaca, da notte, rompeva le tenebre: Margherita entrò poco dopo, senza il solito grembiale bianco, recando un cerino: tutti parlavano piano, girando sulle punte dei piedi, come in un mistero di terrore.

Gli altri sintomi della malattia erano già comparsi; le pupille ristrette, le glandole del collo tumefatte, e soprattutto quegli sforzi ripetuti per infossare la testa nel cuscino, che rivelavano le contrazioni dolenti dei muscoli cervicali. Un lampo d'orgoglio illuminò la faccia del dottore: De Nittis se ne accorse. Ma Bice non staccava gli occhi dal piccino.

—Ha un gran male alla testa, poverino! perchè non gli date qualche cosa, dottore? Vi debbono pure essere dei rimedi!

Egli invece tornò a ripetere l'esame, poi voltandosi di preferenza a De Nittis, del quale la faccia apparentemente calma gl'inspirava maggior fiducia:

—Senta,—disse,—io non assumo di fare alcuna ordinazione. Si potrebbe mettergli il ghiaccio sulla testa e tentare un'applicazione di mignatte dietro le orecchie; una volta somministravano anche il calomelano coi fiori di zinco…. ma non credo alla razionalità di tali rimedi. Scriva a Murri, vedremo che cosa decide.

—Non vedete come soffre alla testa?—tornò ad esclamare Bice, che non aveva badato a tutte quelle parole scientifiche, pronunciate dal dottore con visibile importanza.

Ma De Nittis lo trasse alquanto in disparte, mentre Margherita, indovinando la gravità della situazione, cercava d'intrattenere Bice col ricomporre i cuscini nella culla.

—Dottore,—gli disse piano con voce tremula,—non ho altro diritto
per chiedervi un favore che questa mia miseria…. la vedete!
Oh!—sospirò frenandosi con un ultimo sforzo:—andate voi stesso a
Bologna da Murri, conducetelo qui subito. Non vedete Bice?

—A quest'ora sarà difficile che mi riceva.

—Non c'è proprio nessun rimedio? Credo di aver capito, è una meningite.

—Basilare tubercolosa: talvolta si guarisce.

—Ma non vi sono rimedi?

—Credo di no.

—Dottore, andate per carità nella mia carrozza. Avete altri ammalati gravi?

—No.

—Andate, non è vero?

E la sua voce aveva un accento così triste che l'altro si arrese, sicuro che l'illustre clinico non l'avrebbe ricevuto a quell'ora, e molto meno si sarebbe alzato per un caso, del quale la gravità non presentava nessun carattere di urgenza.

Infatti non tornò che l'indomani, alle due dopo mezzogiorno; Bice e De Nittis non si erano coricati, vegliando assiduamente il bambino. Quando l'illustre clinico entrò nella camera, l'aspetto smorto, disfatto di quei due parve impressionarlo. Era quasi un bell'uomo, alto, ancora giovane, dai capelli già bianchi e il viso malinconico; coll'abitudine di simili scene, invece di perdere tempo in complimenti inutili, andò difilato alla cuna. Margherita aveva già spalancate le finestre. Il dottore, che gli aveva parlato più di una volta lungo il viaggio su quel caso, non fiatava, spiandolo nel volto con un'ansia mal dissimulata, ma si accorse subito di aver indovinato, sebbene la faccia di lui rimanesse impassibile sotto lo sforzo di tutte quelle emozioni, che la tentavano. Bice, De Nittis e Margherita non respiravano più, mentre il bambino, colla testa affondata nel cuscino, gettava tratto tratto quel grido insopportabile.

Poi l'illustre clinico scambiò col dottore un segno quasi invisibile di assenso.

Era la morte, nessuno s'ingannò.

—Si può mettere una piccola vescica di ghiaccio,—disse colla sua voce chiara;—questo lo calmerà un poco, e aspetteremo. Quanto alle sanguisughe sarebbero un errore: avete fatto benissimo, dottore; l'esudato essendo negli spazi sotto aracnoidali, non si vede come una sottrazione sanguigna dietro l'orecchio potesse limitarne l'afflusso o deciderne il riassorbimento. I fenomeni flogistici in questo caso sono troppo secondari, per poter essere combattuti nemmeno con una cura sintomatica.

Pareva in clinica facendo la solita lezione: ma si riscosse prontamente e, volgendosi a De Nittis, gli strinse con nuovo affetto la mano:

—Coraggio, mio caro professore! il caso è piuttosto grave, ma abbiamo anche esempi di guarigione. Non bisogna tormentarlo e nemmeno tormentarsi così, signora mia: ella ha fatto malissimo a non andare a letto; io la consiglierei a coricarsi subito, altrimenti correrà pericolo di ammalarsi pei troppi strapazzi. No, no, non pianga: ho avuto casi di guarigione, che ci permettono ancora di sperare; poi la natura, specialmente nei bambini, è piena di risorse.

Ma sotto la cortesia dei modi si sentiva l'indifferenza professionale.

Bice si drizzò delirante, con un gesto vago di minaccia, mentre De
Nittis le si gettava davanti per rattenerla.

—Morirà!

—No, signora, non ho detto questo, anzi dobbiamo sperare che guarisca. Ella non si agiti così inutilmente, perchè noi faremo tutto il possibile per salvare questa cara creaturina. Creda un poco anche a noi; non sempre la malattia è più forte della scienza.

Ma ai singhiozzi di Bice anche De Nittis diede in pianto tenendola abbracciata, e si stringevano il collo, la faccia nella faccia, cogli occhi chiusi in una cecità disperata, mentre il sole entrando per le finestre spalancate stendeva come una larga pezza d'oro su per quel pesante letto di quercia, e nell'angolo la piccola navicella, coperta da un gran velo bianco di merletti, pareva oscillare mollemente fra le alghe del proprio piedestallo.

Ad un cenno dell'illustre clinico il dottor Leoni lo aveva seguito, uscendo adagio, quasi inavvertiti, colla scusa di andarsene subito per altre visite, ma profittando invece di quel momento per sottrarsi al finale di una scena indarno straziante. Margherita corse loro dietro ad offrire un rinfresco, che accettarono in piedi: anch'ella capiva dai loro volti che tutto era finito, ma l'indifferenza dell'accento, col quale adesso parlavano della malattia, le faceva male. Il dottor Leoni mostrava un rispetto quasi servile verso il gran clinico.

—Tornerà ella, professore?

—A che scopo?

Margherita aveva rovesciato una bottiglia di chartreuse verde nel deporla sulla tavola; il suo grosso seno tremava di un singulto represso, poi quando vide che andavano verso l'uscio:

—Non c'è proprio rimedio!—gridò—Oh poveri padroni…. due santi!

Il dottor Leoni, che si ritraeva già all'uscio per lasciar passare il professore, si volse di scatto a questa parola.

—Due santi!—ripetè poscia ironicamente, con quella brutalità, della quale i medici spesso non si rendono conto, appena fu salito con lui nella carrozza.

—Già! De Nittis è un grande ingegno mistico.

—Un degenerato superiore!

L'illustre clinico sorrise enigmaticamente a questa affermazione di una tra le più volgari teorie della nuova scuola psicologica.

—In ogni caso la generazione non è dei santi ma dei forti,—concluse; mentre la carrozza s'allontanava, e il dottor Leoni tornava a parlare del carrettiere, che voleva mostrargli, sfruttando quella occasione di una visita pagata da De Nittis.

Da quel giorno alla villa tutto parve mutato: i servitori non si vedevano quasi più, le finestre rimanevano chiuse al bel sole di primavera, e dentro il silenzio era anche più tetro. Giuseppe, il vecchio cocchiere, rimaneva quasi tutta la giornata nell'altro caseggiato delle stalle, ove il cuoco e i giardinieri andavano a trovarlo parlando a bassa voce, giacchè la coscienza di quel disastro era uguale in tutti. La casa andava in isfacelo. La signora Bice non avrebbe potuto sopravvivere alla perdita del bambino: e dopo? come finirebbe? Essi amavano già in De Nittis la grande bontà del carattere, ma non lo conoscevano abbastanza per sapersi sicuri dell'avvenire, mentre Margherita e Tonina invece si obbliavano in quell'angoscia di morte, che lo minacciava. Già la mattina dopo, avendo vegliato anche la seconda notte presso la culla, non era più riconoscibile; Bice terrea, cogli occhi infossati e cerchiati di una lividezza sinistra, pareva diventata anche più curva. Le sue labbra contratte avevano quel colore indefinibile delle cicatrici, che non possono guarire. Tutte le sue ribellioni erano cessate in quella disperata certezza della morte, come se il bambino le si spegnesse lentamente dentro l'anima: tratto tratto credeva di non pensare più, poi al primo grido gli si curvava precipitosamente sul viso con un'altra sensazione inesprimibile, che egli stesse per affogare travolto da una corrente rapidissima, e le tendesse le manine inutilmente nel passarle dinanzi.

Dentro la camera, quasi buia, l'ombra in quei primi caldi di maggio diventava pesante: i mobili si vedevano appena, solo quel grande merletto gettato sopra la culla biancheggiava al chiarore della lampadina opaca, riparata nell'angolo dietro l'inginocchiatoio, mentre in alto qualche riverbero correva per la vecchia cornice dorata della Madonna sospesa al disopra del letto nelle tenebre.

De Nittis, seduto a' piedi della culla, guardava ora Bice ed ora il bambino, quasi ugualmente agonizzanti, senza che la sua anima, immobile dinanzi a quella dissoluzione pigra ed inesorabile di tutto ciò che aveva amato, potesse gettare un lamento. Il bambino non gli apparteneva già più, era una cosa che si disfaceva sotto i suoi occhi nella insignificanza di tutte le morti materiali, che il dolore non può sollevare sino alle sfere dello spirito.

Adesso non aveva più nè moglie nè figlio. Quel dolce sogno di amore, fra la donna e il bambino, vanito come uno di quei vapori d'autunno sopra i prati montani al primo soffio freddo del vento, lo lasciava più solo di prima. Dopo l'ultimo scoppio di pianto alle parole cortesemente inesorabili dell'illustre clinico, Bice era piombata nel silenzio; non un lamento, un'accusa ingiusta e reciproca, che li sollevasse con un mutamento di dolore. Anch'essa accettava l'espiazione. Il loro amore era stato come una rivincita di anime, ebbre della propria immortalità, contro le leggi della natura, la quale si rinnova nelle stagioni, e perisce quando non può rinnovarsi. Si ricordava l'esultanza delirante dei loro cuori su quel ponte, lungo la strada, che lambiva il cancello della villa allorchè, avvolti nell'ombra diafana e tra i sorrisi delle stelle, si erano parlati col linguaggio dei poeti, credendo di ricevere dalla notte le supreme rivelazioni della vita. L'incanto della loro passione simile a quello dei santi, che non vivono più che in Dio, e ai quali la natura rinnovella sempre col proprio contatto il senso doloroso di una caduta, avrebbe dovuto dileguare nel sogno di quella notte come un altro sogno più leggero, oltre i confini dell'ombra, là dove tutto quanto fu diviso si riunisce, e il mistero delle apparenze si dissipa. A che prò ridiscendere fra la moltitudine delle esistenze suscitate dal sole sulla terra, e sottomesse alle necessità di una distruzione faticosa? L'amore non può diventare divino che nella morte, ma le sue leggi nella vita sono quelle stesse della natura, che si vendicava adesso sul corpo del loro bambino spazzandolo come un inutile rifiuto. Quella meningite colpiva appunto il figlio dove il padre aveva peccato: era caso, era legge? Era forse null'altro che una pietà suprema, o un risparmio brutale della materia, colla quale tutti i corpi si rinnovano? Tutta la scienza del suo pensiero soccombeva davanti alla terribilità di questi problemi; egli non era più uomo; quella morte lo isolava per sempre in se stesso, nell'inconsolabile vergogna della propria inanità. Comunque si succedessero i giorni, e splendesse il sole e la gente esultasse intorno a lui, egli sarebbe solo a fianco di Bice ancora giovane, e nullameno condannata a guardare nella vita senza la speranza di potervi mai più partecipare.

Adesso vivevano chiusi in quella camera, uscendone appena per il pranzo e ritornandovi subito dopo, quasi sempre senza aver mangiato, ad attendere il dottor Leoni, che veniva tre volte al giorno. Ma tale insondabile dolore muto aveva sconvolto anche in lui tutte le idee di giustizia colla rivelazione di un altro ordine ben più tragico della gerarchia, che egli rinfacciava alla società, e nel quale la grandezza dei mali si misurava non alla miseria dei salari ma alla superiorità dello spirito. La sua anima, più volgare che bassa, ne subiva inconsciamente il fascino cedendo ad una ammirazione sempre più viva per De Nittis, del quale l'ingegno gli scopriva talora in poche frasi di un pessimismo lacerante tutta la inanità della medicina, condannata fatalmente a non comprendere nemmeno il perchè dei pochissimi rimedi, e a stabilire le proprie leggi sull'incertezza di alcuni fenomeni.

Ma quella meningite basilare tubercolosa non consentiva nemmeno di essere lenita, giacchè il piccino aveva fatto ogni sforzo, rantolando affannosamente, per torsi dal capo la vescica del ghiaccio. Bisognava assistere per otto, forse per quindici giorni, al suo lento supplizio, immobili, senza potergli neppure nelle crisi più spasmodiche porgere il conforto di una carezza. Entro quella ricca cuna sommersa nell'ombra della camera, e fra il chiarore incerto delle trine, che orlavano i cuscini e i piccoli lenzuoli egli appariva vagamente come una macchia; ma non appena aprivano le finestre all'arrivo del medico, e questi lo pigliava fra le mani per esaminarlo, il suo volto cinereo, lucido di un sudore viscoso, coi labbruzzi scuri come una foglia imputridita, ricadeva d'ogni lato pesantemente, sempre con quel rantolo interrotto da grida sottili. Le sue pupille, salite sotto le palpebre, vi rimanevano coperte a mezzo, come stravolte nello spavento di una visione dileguata; però, adesso che il loro azzurro pareva essersi dilatato, la luce non le offendeva quasi più. Poi il respiro gli si faceva improvvisamente tranquillo, e un fuggevole rossore gli colorava le gote, permettendo quasi di sperare in un ritorno vittorioso della vita, mentre il coma si manteneva sempre così grave, e subiti scatti di convulsioni facevano da capo sbalzare tutte le sue piccole membra, come sotto il morso di una scottatura.

Allora il dottore s'affrettava a rimetterlo sotto le lenzuola, ordinando di socchiudere le finestre per velare loro quello straziante spettacolo.

Bice non gli domandava più nulla, De Nittis lo accompagnava pel giardino sino al cancello, e più di una volta lo aveva interrogato sullo stato di lei. C'era infatti da impensierirsene: la sua magrezza diventava tutti i giorni più livida, molte sere doveva aver avuto la febbre, ma fortunatamente la tosse non era ricomparsa. Ella invece, appena uscito il medico, andava a gittarsi sull'inginocchiatoio ridomandando smaniosamente alla Madonna il miracolo di quella guarigione. Non era quello il solo momento che potesse farlo, quantunque De Nittis non abbandonasse quasi mai la camera, ed ella non volesse farsi vedere da lui in tale supremo tentativo di forzare la volontà onnipotente della Vergine; ma lo sceglieva: con un raffinamento adulatore di fede, per umiliare quella abdicazione della scienza umana troppo spesso così orgogliosa contro Dio.

Era andata anche due o tre mattine nella chiesa parrocchiale a farvi la comunione durante la messa, senza avvisare alcuno. Ella solamente come madre poteva ottenere la grazia: era la carne della propria carne, l'anima della propria anima, quella che domandava a Dio. Per quanto De Nittis soffrisse, non avrebbe mai potuto paragonare il proprio dolore al suo; egli non era che padre per il contatto di un attimo con quella creatura, che ella aveva composto di sè stessa. Poi De Nittis non credeva come lei; adesso nella paura delirante, che la ricacciava verso Dio, le pareva che solamente una fede senza alcun egoismo di speranza potesse commuoverlo.

—Oh Signore, voi potete!

Ma colla Madonna invece piangeva e chiedeva. Ella non poteva aver dimenticato un tale dolore nella gloria della propria assunzione, dacchè aveva voluto rimanere sugli altari all'adorazione degli infelici come una Mater Dolorosa. Era questo il suo culto più gradito, l'immagine lasciata di sè stessa alle povere donne votate a soffrire dopo di lei. Bice la pregava con un'intimità pressante, parlandole mentalmente come a persona viva, senza che la visione poetica le s'intorbidasse mai tanto, da dover ricorrere come il volgo ad immagini materializzate per sempre nella deformità di un culto idolatrico. Anzi ella non avrebbe nemmeno saputo dire in che consisteva questa sua fede nella Madonna: sentiva che Dio, l'inaccessibile, l'infallibile, era il padrone, e tutto veniva da lui, tutto vaniva innanzi a lui, anche gli spiriti che aveva più amati e la Vergine, nella quale si era compito il suo più grande mistero; ma ella amava nella Madonna il simbolo divinizzato dell'amore materno coll'agonia di tutti i dolori e il trionfo finale sulla morte, in quel rapimento di angeli osannanti, che l'avevano trasportata vivente sul trono di Dio.

Non ostante la febbre di tali esaltazioni, la natura stremata la costringeva a prendere qualche riposo. Da principio s'addormentava di un sonno inquieto sulla sedia, presso la culla, poi dovette cedere alle istanze e mettersi a letto; anche De Nittis aveva consentito a fare altrettanto, dividendo le ore di veglia con lei, Margherita e Tonina. Erano già passati otto giorni. Tutte le sere arrivavano lettere di amici da Bologna, che domandavano notizie colle solite frasi d'incoraggiamento; Prinetti, venuto di nascosto alla villa per evitare a Bice un'altra commozione, non aveva parlato che con De Nittis, e non era più ritornato. Anche a lui crescevano i dolori: una nipote gli era fuggita con un giovinastro senza lasciare traccia, gli altri erano già lo scandalo del paese.

Ma Bice, immemore di tutti, non aveva nemmeno notato la sua assenza. Invece pensava talora al povero Giorgi, la sola anima di santo che avrebbe potuto parlarle di quel dolore, mentre tutti gli altri, compreso De Nittis, non lo intendevano abbastanza.

La mattina del decimo giorno, una domenica fiammeggiante di sole, il bambino stava peggio: erano già tutti alzati intorno alla culla, colle finestre socchiuse. Fuori, nell'aria limpida e vibrante, passavano tutti i soffi del maggio, si udivano stormire le foglie e cantare gli uccelli. Ella n'ebbe un risveglio lacerante, poi Margherita corse da Giuseppe perchè andasse a cercare il medico, ma questi era in visita, lontano sui monti, ai confini del comune.

Quando Margherita rientrò ansante per la corsa e si appressò alla culla, il bambino respirava a stento; le pupille gli erano un po' discese dalle palpebre, ma parevano anche più opache.

Non parlarono. Margherita aveva scambiato un'occhiata con De Nittis, bianco nel volto come nei capelli, e colla barba non rasa da tre giorni, che gli faceva una fisonomia più ammalata.

—Il dottore?—egli si rivolse a Tonina sopraggiunta in punta di piedi.

L'altra, senza capire bene, andò a guardare dalla finestra, ma Bice scorgendola solamente allora, fece un gran gesto e scappò dalla camera verso quella di Rosa, della quale non si era ricordata più in tutto quel tempo. Margherita e Tonina la seguirono dietro un cenno di De Nittis.

Ella correva; aperse l'uscio precipitosamente e cadde in ginocchio dinanzi alla vecchia seduta, secondo il solito, nella larga poltrona di paglia coi bracciuoli imbottiti e ricoperti di una vecchia stoffa unta.

Era diventata cieca del tutto.

Bice le si strinse contro, riempiendosi la bocca col suo grembiule turchino per soffocare i singhiozzi; la vecchia ne traballò, poi con una mano gialla, ossuta, le tastò il capo, e sul suo volto di mummia parve passare una luce bianca.

—Rosa, Rosa…. il mio bambino!—l'altra gridò con un singulto anche più violento, urtandole col petto le ginocchia in una invocazione delirante.

Ma la vecchia si ritirò in grembo la mano, cadutale come morta lungo il fianco, e seguitò a dondolare automaticamente la testa, cogli occhi anche più appannati di quelli del bambino.

Bice si rizzò lentamente, colla faccia arida, per ritornare nella propria camera. Un raggio di sole arrivava al davanzale della finestra. Adesso il grido continuo del piccino era diventato più sottile, e le pupille gli si muovevano come galleggiando dentro gli occhi.

Ella rimase in piedi con ambe le mani attaccate alla cuna; aveva una vestaglia scura a righe sanguigne, i capelli scarduffati come da un colpo di vento. Ogni tanto batteva i denti. Ma una convulsione scosse ancora tutto quel povero corpicino sotto le lenzuola, che s'incresparono come l'acqua di un piccolo gorgo, nel quale fosse caduto un sasso. Pareva che istintivamente tentasse di alzare la bocca aperta, agitando le manine tutte grinze, colle piccole unghie diventate lunghe.

—Mio Dio, muore!—si lasciò sfuggire Margherita chiudendo gli occhi.

Quando li riaperse, lo vide colla testina rivolta sul lato sinistro, presso all'orlo della culla, che ripigliava lentamente il respiro.

Bice e Margherita gli stavano ai lati, De Nittis ai piedi della culla, tutti e tre evitando di guardarsi. Questa volta era l'agonia, un epilogo più incomprensibile ancora di quella muta tragedia, perchè il bambino non aveva mai potuto parlare; ma sebbene il suo corpicino apparisse anche troppo fragile, le convulsioni vi scoppiavano con una violenza quasi di odio. La sua piccola testa sparuta s'affossava sempre più faticosamente nei cuscini, mentre le braccia sottili come due stecchi, sui quali le larghe e fini maniche della camicia penzolassero, battevano tratto tratto l'aria nello sforzo di respirare. Ma ogni volta le vene del collo parevano gonfiarsi sotto una mano invisibile, che glielo stringesse con calcolata lentezza: poi rimaneva senza fisonomia, colle pupille spente in un canto dell'occhio, e la bocca bagnata da un velo diafano di bava.

Che cosa era dunque la morte per lui? Che cosa uccideva?

Nessuno poteva chiederselo per la stessa impossibilità di fondere la propria anima in quella sua agonia di animalino. Egli moriva così, soffrendo senza capire, come tante volte si vede per strada morire qualche altra bestia, percossa da lunghi brividi, colla faccia insignificante. De Nittis, immobile ai piedi della culla, stringendosi di quando in quando la fronte sotto una fitta lancinante, sentiva il proprio spirito diventare di una limpidità cristallina. Nulla gli sfuggiva nè degli altri nè di sè stesso. Il suo mondo era lì, in quelle tre creature, che stavano per rimanervi isolate, appena la più piccola sparisse; ma tutto il suo ingegno e il suo cuore non bastavano a trovare un'altra espiazione, un baratto insensato di devozione e di dolore per placare l'esigenza della morte. Doveva morire il più piccino, quello che aveva appena cominciato a vivere, mentre lui, stanco ed oramai inutile, resterebbe a galleggiare nella vita come una tavola di naufragio sul mare. E quella agonia di una bestiolina conchiudeva il grande dramma del suo pensiero, diventava la catastrofe finale del suo spirito rigettato per sempre dalle correnti della generazione! Adesso avrebbe voluto udirlo piangere, gridare: aiuto! toccando così l'ultima vetta del dolore, piuttosto che vederlo sparire in quell'agonia senza significato. La sua anima vi assisteva come cristallizzata da un freddo siderale, che nulla potrebbe più vincere. La morte non avrebbe dovuto essere così, ma compiersi nello spirito, come l'ultimo atto della sua incomprensibile tragedia, fra l'orrore del nulla e lo spavento di Dio. Quale differenza rimaneva dunque fra la morte di quel bambino e la morte di un agnello? A che era esso nato? Che significava la sua apparizione di un istante? Se la religione aveva saputo immaginare un al di là per l'uomo, il bambino, non potendo recarvi nè merito nè colpa, vi diventava inintelligibile.

Queste domande passavano per la limpidezza del suo spirito come raggi sottili, mentre le sue viscere ricevevano tutti i contraccolpi di quelle convulsioni nel medesimo punto, come se una stessa carne soffrisse in ambedue. E non pertanto erano già separati per sempre. Fino dal primo giorno di quella malattia la sua anima di padre era morta, e tutto il resto non era stato nemmeno più dolore, perchè non si può forse chiamare così ciò che soffre il pesce in secco, sulla riva. Ma in quel momento lo strazio delle due donne tornava a farlo tremare di un'altra pietà più profonda: a che pensavano esse? Come non avevano una seconda volta domandato del dottore! Perchè si erano scordate di far chiamare il parroco? De Nittis se lo chiedeva per quella terribile facoltà nei pensatori di riflettere sempre, anche nelle crisi più atroci, assistendo così allo spettacolo di sè medesimi. Infatti non gli era sfuggito l'allegro tremolìo della luce su tutti i mobili al soffio delle tende respinte dal vento, sino quasi a mezzo della camera. Era un mattino palpitante di risa e di grida, che si udivano al di fuori per la campagna: le piante si scrollavano nel sole, tutto vibrava di vita.

In quel momento una grossa voce parlò sul prato; Margherita corse alla finestra, poi uscì dalla camera.

L'immobilità delle loro due figure si fece più tragica; da venti minuti non avevano pronunciata una parola o scambiato uno sguardo. Bice sentì che un'altra più formidabile convulsione stava per scoppiare e piegandosi sulla culla, tese le mani per prenderlo sotto le ascelle: difatti potè appena afferrarlo, che il suo corpicino sbalzava già per tutte le membra, come sotto l'urto di detonazioni elettriche. La testa gittata indietro, dondolava con un rauco gorgoglio di soffocamento, facendosi tratto tratto pavonazza, mentre le braccine sferzavano l'aria disperatamente, e le gambe a certi sforzi gli rientravano sotto la corta camiciola fino al ventre rigonfio. Ma questa volta la convulsione si ripeteva sempre più violenta; ella lo stringeva fra le mani cercando istintivamente di farlo star dritto, sebbene i piedini gli si ritraessero come respinti da una molla al contatto delle lenzuola, e la testa gli si arrovesciasse sempre più pesantemente. Un momento, fra il rantolo che lo soffocava, gli sfuggì uno strido stentato, sibilante.

—Muore!—gridò De Nittis, che non poteva vederlo così nascosto contro il petto di Bice, ma ella si volse impetuosamente per dire di no.

Una fiamma bianca le bruciava negli occhi, come se vi fosse salita da tutto il volto marmoreo: quindi rialzò il piccino quasi all'altezza del proprio mento per appressargli la bocca alla bocca; lo tenne così qualche minuto trionfalmente, sentendo fra le dita il battito affrettato del suo piccolo cuore, e adagio, curvandosi senza baciarlo, lo ricompose sul cuscino.

De Nittis aveva chinato il capo.

Ella strinse nella mano destra l'altro orlo della culla piegandosi col volto, del quale De Nittis non poteva vedere che una tempia, quasi a sfiorare quello del bambino ridivenuto tranquillo. In quella lotta delirante della sua anima contro la morte, Bice lo avvolgeva dentro lo splendore dei propri occhi, giungendogli sino al fondo di tutte le fibre coll'irresistibile penetrazione della luce. Non voleva che morisse, non sapeva nemmeno che cosa fosse più la morte, ma era come se le ritirassero qualche cosa dall'intimità del proprio essere, e la sua volontà s'irrigidisse per impedirlo. Aveva quasi cessato di soffrire, non si ricordava più di nulla; il suo bambino era solamente il suo bambino, senza i lineamenti caratteristici del suo Giulio, era dentro la sua volontà stessa, inseparabile dalla sua vita, che nulla ancora minacciava.

Infatti sotto la pressione di quegli sforzi egli si era addormentato. Un sudore gli argentava le guance livide, respirava appena, colle palpebre lente sulle pupille dilatate, che gli riempivano di un azzurro scialbo quasi tutto l'occhio. Il suo corpicino raggomitolato sotto le lenzuola vi faceva appena il rilievo di un cartoccio.

Ella lo contemplava, già rilassata sopra di lui nella dolcezza di una prima vittoria. Il suo respiro sempre più calmo le passava sul volto come una carezza, richiamandole la memoria di tutte le preoccupazioni, quelle tenerezze vigilanti, piene di moine, colle quali le mamme sanno persuadere ai bambini anche il sonno: ma quello del piccolo Giulio proseguiva oramai al sicuro da ogni altro attacco sotto la protezione del sorriso, che le illuminava ora tutto il volto. Quindi la coscienza le ritornava nella stanchezza di una tensione troppo prolungata. Improvvisamente provò un gran dolore sotto la scapola sinistra in quell'atteggiamento faticoso, riempiendo così la culla con tutto il proprio busto; ma non potè staccarsene.

Era sempre lo stesso coma, insistente, invincibile, anche a questo ultimo sforzo della sua volontà.

Il bambino respirava ad intervalli più radi, con un suono sordo di bolle, che gli si rompessero dentro il petto, e la bocca immobile in una contorsione, che il sonno non ha o non serba lungamente. Poi un altro odore acido, nauseante, gli salì intorno, di fra le lenzuola, senza che egli avesse mutato posa o si fosse anche lievemente scrollato. La sua manina sinistra, fuori della coperta bianca, ne teneva una piega sottile fra le dita.

Allora Bice gli appressò un'altra volta le orecchie alle labbra per udirne il soffio, contemplandolo intensamente colla sensazione mostruosa di non riconoscerlo più; infatti la sua fronte aveva la stessa opacità inanime delle grandi pupille azzurre, sulle quali le frangie delle palpebre socchiuse ricamavano un'ombra stagnante, mentre un'altra ombra pareva uscirgli dalla bocca su per tutto il viso. Ma il rallentarsi stesso del respiro provava la tranquillità del suo riposo. Non era più la lotta, quella lacerazione di prima, a strappi, contro la quale la volontà poteva ancora irrigidirsi; ma una insidia invisibile, che li avvolgeva entrambi, senza possibilità di resistenza, in un oblìo sempre più scuro di ogni cosa. Ella aveva appoggiata la testa sul cuscino accanto alla sua, cogli occhi egualmente socchiusi entro l'ombra più larga dei propri capelli, e sotto quella bandiera di merletti, che si gonfiava bianca nel vento.

Il bambino muoveva ancora le labbra di quando in quando, ma ad ogni respiro il rantolo gli si abbassava; poi un brivido leggero come un riverbero gli passò sulla faccia, e i piedi gli si allungarono sotto le lenzuola.

—Ah!—ella gridò spasmodicamente balzando in piedi, perchè in quel momento lo aveva sentito morire, ma ripiegandosi quasi nel medesimo istante sopra di lui; mentre De Nittis l'afferrava alla cintura per sostenerla, e ancora più pallido si chinava per cogliere l'ultimo respiro del proprio bambino.

X.

—Ma perchè fai così?—gridò la signora Giulia al rumore del vaso, che traballava, e corse precipitosamente con un grande svolazzo di sottane verso di lui.

Era stato Nello, il suo magnifico bambino di quasi quattro anni, che arrampicandosi pel vaso di una gardenia se lo era tirato addosso col pericolo di restarvi sotto, ma invece aveva saputo cansarlo, saltando subito dopo sull'arbusto per spiccarne un largo fiore bianco dalla vetta.

E rideva trionfalmente.

Anche Lamberto e De Nittis si erano alzati.

—Sei insoffribile!—seguitava la signora Giulia tentando indarno d'ingrossare la voce, vinta dalla tenerezza orgogliosa delle mamme davanti alla monelleria di quel bimbo grasso e ricciuto, così poco spaventato dalla sua aria, che si accostava tendendole una falda dell'abitino azzurro tutto impolverato:

—Puliscimi, puliscimi.

Ella non seppe resistere, gli scosse la polvere con una mano, e ritornò verso di loro tenendolo in braccio.

Anch'ella alta, coi capelli di un biondo ardente, il petto largo e voluttuoso, era ammirabile in quel momento; benchè il bambino fosse pesante, lo aveva sollevato con allegra facilità, e rideva sonoramente, mentre egli le provava il fiore fra i capelli agitandosi così che qualunque altra donna ne avrebbe traballato.

—Bada a non farti male,—intervenne Lamberto:—via, fallo discendere.

Ma Nello le si teneva stretto al collo.

La scena durò qualche minuto.

Quel giorno Lamberto, tornato nell'inverno di guarnigione a Bologna col grado di capitano, era appunto venuto colla signora Giulia, sua moglie, a trovare Bice in quella magnifica villa del Sasso conducendo seco il bambino. Difficilmente si sarebbe potuto vedere un gruppo più bello. Egli era diventato anche più robusto, con un principio di pinguedine, che accresceva la poderosità delle sue forme ancora eleganti; ella fulgida di gioventù, non fine nei lineamenti, ma con una espressione di sana giocondità, che attirava subito le simpatie.

Non vi fu neppure un'allusione al passato.

Bice, dopo quella sventura, era diventata taciturna, di una magrezza anche più inquietante per la stessa cortesia dei suoi modi, nella quale s'indovinava la rassegnazione di un dolore inconsolabile. Non vestiva più che di scuro, una specie di mezzo lutto, senza affettazione e senza eleganza, che le dava un'aria di signora devota, già svezzata del mondo in qualche secreto esercizio di carità. Infatti non aveva serbato altra amica che la contessa Maria; tutte le altre, a poco a poco, si erano ritirate, o non venivano a renderle visita che nelle maggiori solennità dell'anno. Erano quelli i giorni più tristi per lei.

Il sole tramontava dietro l'Apennino in mezzo ad un frastaglio d'oro, che pareva incendiarvi le vette, mentre i grandi alberi del giardino ondulando al primo vento del vespero rispondevano con susurro discreto al murmure del fiume vicino. All'intorno tutto era pieno di fiori, l'aria ne rimaneva fragrante, i passeri si chiamavano l'un l'altro per l'aria verso un alto cipresso, in fondo, dietro gli abeti.

Nello era scappato un'altra volta in mezzo alla grande aiuola, poi tornò da Bice per mostrarle uno scarabeo dalle ali di smeraldo, che aveva sorpreso sopra una foglia. Coll'istinto infallibile dei bambini egli aveva subito sentito la bella impressione, che le aveva fatto.

—Ma Nello,—ricominciò sul medesimo tono la mamma.—tu annoi la signora: le vuoi bene?

—Sì,—ribattè aggrappandosele alle sottane.

Ella ebbe un divino sorriso, e gli prese fra le mani ceree la grossa testa ricciuta per aiutarlo a salire; allora Lamberto credette di dover intervenire.

—Lascia, lascia,—gli si rivolse Bice, che aveva ripreso con lui il tu da fanciulla, adesso che quei due matrimoni avevano tutto cancellato.

—Vieni a giocare con me,—diceva Nello pestandole gli abiti per mettersele a cavalcioni sulle ginocchia.

—Come vuoi giocare?

—Adesso, quando andremo via, ti lascio qui,—lo minacciò la signora
Giulia col solito vezzo delle mamme.

Egli si voltò.

—Ci staresti colla signora?—ripetè imprudentemente.

Ma Nello spaurito si era già lasciato strisciare sino a terra guardando Bice, che gli tendeva le mani per nascondere il dolore cagionatole da quella scena; poi corse alle sottane della mamma.

—Va via, cattivo, che mi sciupi tutta. Ma è davvero un supplizio con questo birichino,—e sorrideva beatamente,—che non sta fermo un minuto! Anche ieri è cascato da una sedia, sulla quale era montato per prendere un album da un tavolino.

Lamberto la guardò di sfuggita per troncare il discorso, conoscendo il pettegolezzo vuoto della moglie.

Egli parlava con De Nittis di Roma, ove sperava di poter ritornare presto. La grande città, così elegante ed aristocratica nella moltitudine dei propri saloni affollati di tutta la nobiltà del mondo, gli aveva lasciato nell'anima una impressione incancellabile. Anzitutto vi aveva ottenuto molti trionfi femminili, era stato presentato a corte e accettato finalmente al Club della Caccia, il più difficile di tutti i clubs. Nella volgarità della propria vita militare egli non aveva capito altro di Roma; poi sua moglie, figlia unica di un grosso mercante di campagna, gli aveva portato una ricca dote, colla quale potevano tenere carrozza, abitando nello stesso palazzo del padre un appartamento, abbastanza ricco per darvi qualche ricevimento.

A Bologna invece tutto gli era apparso noioso.

Ma De Nittis finiva coll'impacciarsi in quella conversazione insignificante.

Già la colezione del mezzogiorno non era stata allegra; qualche parola sventata della signora Giulia aveva rievocato memorie dolorose, attirandole brusche occhiate da Lamberto, che l'avrebbero imbarazzata maggiormente, senza le continue diversioni, colle quali la petulanza di Nello la soccorreva. Evidentemente quella loro visita non si sarebbe ripetuta per un pezzo. Lamberto aveva perduto ogni rimasuglio di spiritualità in quella vita di caserma e di salone, nella quale una rivista od un ballo diventavano i massimi avvenimenti; Bice e De Nittis, spogliati di ogni foglia e di ogni flore, non erano più che due piante che si essicavano lentamente in un lungo autunno.

Quindi Lamberto per non sapere cosa dire lo interrogò sulla grande opera, cui lavorava da tanti anni.

L'altro scosse tristemente il capo.

—Quale costanza!—replicò Lamberto:—capisco che i capolavori esigono spesso tutta la vita.

—Bisognerebbe poter fare della vita il proprio capolavoro! A che giova la gloria, quando non si può più viverla? Le spalline di capitano adesso valgono per voi meglio del nome di Napoleone.

L'altro credette di sentire una ironia nel complimento.

—Napoleone alla mia età era già Primo Console.

—Ecco perchè egli è ancora così vivo nell'ammirazione di tutti: la gloria non è vera che giovane. Dante aveva più ingegno di Napoleone, ma non si è cominciato a valutare davvero la sua opera che al principio del nostro secolo. Chi oggi vorrebbe essere stato Dante? Chi non ha sognato di essere Napoleone I? Forse il poema di Dante non ha procurato al pensiero tante soddisfazioni quante la biografia di Napoleone! La sua leggenda è stata l'ebbrezza di questo secolo.

—Pare che in Francia si prepari un risveglio napoleonico.

—Non credo: la reazione vi è piuttosto contro l'abbassamento socialistico, dal quale siamo minacciati, che contro la repubblica. L'umanità, condannata a comprendere so stessa solamente nei propri grandi uomini, non potrà uscire mai dall'ideale messianico, mentre il socialismo moderno, negando nella religione la prima poesia di ogni vita, e sopprimendo colla gloria la sola poesia della morte, contraddice ai due più profondi bisogni dell'anima umana. Ecco perchè Napoleone risorge ora nella fantasia popolare come un sogno consolatore di grandezza, una rivincita della individualità, che non vuole essere preterita. Vedete: oggi si moltiplicano le società per l'abolizione della guerra, e il popolo invece non si sente vivo che sognandone un'altra maggiore di tutte le passate, quella di classe.

—Lei non crede dunque alla pace perpetua?—chiese Lamberto, contento come capitano di trovare nell'illustre filosofo le proprie idee, che credeva solamente pratiche.

—La pace perpetua! cioè tutte le guerre tranne quella delle armi, la meno micidiale. Se la civiltà è formata di stratificazioni, come una razza potrebbe sovrapporsi alle altre senza schiacciarle più o meno? Adesso la razza bianca si trova nuovamente in lotta con la gialla e la nera per dare davvero alla propria civiltà un carattere mondiale: vi giungerà senza guerra? Se il socialismo è l'avvento di una nuova classe per mettere un'altra giustizia nell'ordine e una diversa autorità nel potere, vincerà senza guerra?

—Parlano di nazione armata….

—Ancora la guerra di tutti contro tutti, quando ogni proroga di riforma sarà esaurita! Ma forse neppure voi, capitano, benchè siate ancora giovane, vi ci troverete.

E De Nittis, accorgendosi che la signora Giulia si annoiava, cercò di mutare discorso.

Aspettavano l'arrivo del sindaco, del dottore Leoni e del parroco, invitati a pranzare da Bice per far meglio passare il tempo ai due ospiti, giacchè il treno non ripassava verso Bologna che sulle undici.

Infatti non tardarono molto ad arrivare: il curato fu l'ultimo. Era un vecchio molto semplice, con tutti i capelli bianchi e gli abiti poco puliti, ma senza quella solita servilità del clero verso i signori. Per molti anni aveva insegnato filosofia nel seminario di Bertinoro, poi disgustato dalla guerra sleale mossagli da tutti gli altri colleghi per la paura che diventasse vescovo, era ritornato a Bologna presso il cardinale Morichini, uno degli ultimi prelati liberali e gentiluomini del quarantotto; e alla morte di questo protettore aveva accettato di andare in campagna. Da un anno si trovava al Sasso, curato della chiesa principale, ove lo avevano battezzato settant'anni prima, il giorno stesso della morte di Napoleone. Naturalmente era presto diventato amico dei signori della villa e, dacchè Bice vi era ritornata, veniva spesso a trovarla per una segreta speranza di poterle giovare. La sua esperienza di vecchio confessore gli aveva fatto subito indovinare la posizione reciproca dei due sposi, dopo la morte del bambino, sulla quale la brutalità dei medici non aveva al solito saputo tacere.

Però non aveva ancora osato affrontare con lei questo tema. La sua vecchia faccia scarna, rischiarata dalla bontà di due grandi occhi neri, cercava di farsi anche più dolce nell'intimità, quando poteva trovarla sola; mentre dinanzi a De Nittis non sapeva difendersi dalla soggezione nell'abbarbaglio troppo frequente di qualche grande idea, sebbene la sua fede di piccolo professore cattolico non ne rimanesse turbata. Invece il dottore si era sentito trascinare verso Bice da una simpatia quasi inconscia, poi mano mano più viva, fatta di pietà e di amor proprio, giacchè dopo tutte quelle sue premure quasi affettuose verso il piccolo Giulio negli ultimi giorni, ella gliene era rimasta vivamente grata. Quindi al suo primo onomastico gli aveva offerto una magnifica busta chirurgica, comprata appositamente a Londra, un capolavoro ed un lusso degno di un clinico. Certo ella era tutt'altro che bella, con quel grande naso ducale sopra un viso così sparuto, e un pallore quasi cereo, senza nessuna delle più labili e minute civetterie femminili; ma forse appunto per questo, egli sino allora quasi superbo della propria sana brutalità, finiva per ammirare passionatamente quella spirituale delicatezza, cui la stessa miseria del corpo pareva accrescere la grazia.

D'altronde Bice e De Nittis erano le sole persone colle quali al Sasso potesse qualche volta assorgere dalle pesanti volgarità del proprio mestiere.

Ma la presenza di Lamberto era subito bastata a rieccitare in lui tutti gli istinti di odio contro l'attuale ordine della società, ancora offesi dalle ingiustizie subite nei tre anni passati per forza, come medico, in un reggimento di fanteria.

Stavano sul prato in circolo, davanti alla grande porta della villa, ornata di tende in tela grigia a liste azzurre, dietro le quali si travedeva nell'andito un mobilio severo di cassettoni scolpiti, e un tavolo oblungo, nel mezzo, dai piedi di drago. Come accade spesso in simili casi, il bambino serviva all'imbarazzo generale, ricevendo colla propria adorabile disinvoltura di piccolo monello le carezze di tutti. Ma il sindaco, sempre pieno di pretensioni cortesi, affettava già di parlare colla signora Giulia di Roma, dove si era laureato ingegnere gli ultimi anni del governo pontificio; mentre con quel delizioso accento romano, così indeterminabile nella canzonatura, ella si divertiva invece ad imbrogliargli i ricordi con bruschi accenni ai grandi lavori edilizi, che ne avevano, secondo lei, mutato affatto la fisonomia.

Invece Don Gregorio vi era stato per le ultime feste del giubileo.

—Vorrei potervi tornare.

—Verrete con me, Don Gregorio, se vi andrò più.

—Perchè più, questa brutta parola?—rispose con dolce rimprovero.—Quando si è giovani bisogna vivere il più allegramente possibile.

Servite Domino in laetitia,—intervenne sardonicamente il dottor Leoni.

—Questo consiglio, caro dottore, è forse più profondo di quanto non paia: la malinconia può diventare facilmente un rimprovero contro Dio per la parte assegnataci in questo mondo. Ecco perchè bisognerebbe saper portare come un peso leggero anche il dolore.

De Nittis, prevedendo una delle loro solite discussioni, sorrise.

—Per riceverne il premio in paradiso, non è vero? Il dolore si deve sopprimere qui, colle ingiustizie che lo producono.

—Potrete sopprimere il dolore nelle malattie? Dovrete prima sopprimere queste, e prima ancora di queste, la morte, che ne è la gran causa. Voi siete socialista, dottore, e io sono prete: siamo dunque vicini; ambedue vorremmo correggere il male e consolare il dolore, ma voi cancellate il cielo. Che cosa vi resta? Chi avreste contentato, trionfando col vostro sistema? Coloro che avevano fame, e coloro che avevano freddo: ma che cosa darete dopo anche a questi?

Lamberto ascoltava, preso già nell'interesse della disputa, perchè la figura del medico gli era subito spiaciuta.

—Quando l'uomo avrà il necessario…

—S'accorgerà tosto che vale anche meno del superfluo,—fu pronto a ribattere il prete.—Oramai l'utopia socialistica non può ingannare più alcuno: è un appello, una promessa di piaceri brutali in un oblio convenuto di tutti i più alti e necessari dolori. Supponete che questo bambino così bello muoia, malgrado tutta la vostra scienza,—seguitava impetuosamente, senza accorgersi della sconvenienza così angosciosa per Bice di questo esempio, ma poi lo sentì ad un suo sussulto, e dovette nullameno proseguire perchè era troppo tardi:—che cosa potrebbe dare il socialismo al cuore dei due genitori? Sapete che cosa sarebbe la vostra nuova città? Un refettorio al pianterreno, un dormitorio al primo piano: dovreste incaricare i cuochi di consolare tutte le afflizioni con una doppia razione di budino. Ma quello, che voi giudicate il superfluo, è invece per l'anima umana il più necessario, è la fede nell'ideale di un'altra vita, in una giustizia, che la società non potrà mai applicare, perchè la natura stessa non può contenerla quaggiù. Non vedete come la natura è apparentemente ingiusta nella distribuzione della salute e della vita?

Il dottore non trovò subito la risposta.

—Convenite almeno,—disse poi coll'aria di chi vuol troncare una discussione, nella quale certamente saprebbe vincere, se la cortesia di altri riguardi non glielo impedisse:—convenite almeno che la società è male organizzata. La pace armata negli ultimi vent'anni ha già costato all'Europa oltre cento miliardi: quante miserie si sarebbero guarite con questa somma!

Il capitano sentì l'allusione.

—Molte certamente, ma altre peggiori avrebbero potuto prodursi senza la salvaguardia dell'esercito.

—La guerra è sempre stata, fino ad oggi, un male necessario,—ribattè don Gregorio.

Ma Bice s'intromise opportunamente con un sorriso.

—Non farete dunque mai la pace voialtri due?

Tutti si volsero.

—Eppure cercate la medesima traccia, voi, dottore, cogli occhi bassi, voi, don Gregorio, cogli occhi in alto; v'incontrerete in fondo all'orizzonte, dove la terra tocca il cielo.

—Ah!—esclamò Lamberto commosso d'ammirazione,—sei sempre la Bice di una volta; mentre invece la signora Giulia, un po' seccata, la guardava senza aver ben capito le sue ultime parole.

Ma Nello produsse ancora una diversione; tutti si alzarono dirigendosi dal giardino verso il bosco, che si allungava cupo di abeti a fianco della villa. Il sindaco aveva offerto il braccio alla signora Giulia, e dentro quel largo soprabito nero, colla pelle bruciacchiata dal sole, pareva anche più secco; don Gregorio, rimasto alquanto addietro con Bice, s'accorse della tristezza più desolata del suo volto. Ella seguiva coi grandi occhi neri il bambino, che sgambettava dinanzi a tutti senza berretto.

—Signora Bice,—le disse improvvisamente con uno sforzo, che gli faceva tremare la voce.

Ella lo guardò; don Gregorio si era già nuovamente confuso, ma superando la propria emozione:

—Veda—seguitò—avrei voluto domandarglielo prima: ella non spera più da Dio la benedizione di un bel bambino come quello là? Io sono vecchio…. credo di aver indovinato il suo dolore, ma badi che non bisogna essere più prudenti di Dio, rifiutando di esporci di nuovo ad una disgrazia, colla quale ha voluto provarci. Dio è buono, signora Bice; egli comprende meglio di noi i nostri bisogni, ma vuole tutta la nostra confidenza. Anch'io non sono che un povero prete, ma dovevo dirle questo; ella, signora Bice, non vorrà aversene a male, se mi sono espresso come ho potuto.

Invece le parole gli venivano fluenti sulle labbra. La sua faccia ne rimaneva come illuminata, mentre le mani non abbastanza pulite gli tremavano leggermente.

Bice rattenne a stento uno scoppio di pianto.

—Speri, speri, lei è giovane ancora.

—Come è bello!—esclamò poco dopo, mostrandogli il bambino, che in quel momento era corso ad abbracciare le gambe del padre.

—Ebbene, io voglio credere di battezzarne presto un altro,—si affrettò a rispondere, perchè la signora Giulia ritornava verso di loro.

Ma durante il pranzo Lamberto, col quale il sindaco cercava di sfoggiare tutte le proprie cognizioni di buon amministratore, venne a parlare di cavalli per l'esercito e del loro allevamento non abbastanza incoraggiato dal governo nelle campagne. La razza friulana era già perita, quella delle Maremme, così famosa un tempo, e che aveva fornito a Napoleone I i cavalli più resistenti nella grande campagna di Russia, non era più riconoscibile; le altre dell'Agro romano non davano risultati, i cavalli sardi erano cavalli da bimbi. Lamberto, fanatico pei cavalli inglesi, spiegava tutto ciò coll'esaurimento del sangue negli stalloni, cui bisognava comprare in Inghilterra moltiplicando le stazioni di monta, e non ricevendovi cavalle difettose. L'Italia era rimasta ultima in Europa in questa produzione così importante; si conoscevano cavalli normanni, andalusi, russi, inglesi, meklemburghesi, ungheresi, ma non vi erano cavalli italiani; il loro tipo mancava sui mercati. La nostra cavalleria, montata sugli scarti delle altre nazioni, era condannata in caso di guerra ad una pericolosa inferiorità.

—Tutte le nostre razze sono così,—proseguiva,—i buoi, i cani, le pecore, i polli: se lei va in Inghilterra vedrà delle meraviglie, e non sarebbe difficile farne di simili. È questione d'incrociamento, bisogna escluderne gl'individui affetti da vizi ereditari: ciò vale anche per la razza umana.

Don Gregorio guardò Bice.

—Per la razza umana, signor capitano, non si può giudicarla alla stessa stregua.

—Lei non lo crede, ma tutta la scienza moderna le dà torto: lo domandi,—seguitò imprudentemente Lamberto riscaldandosi in questo suo terna favorito, che faceva le spese di tutti i discorsi al reggimento;—lo domandi al professore; oggi si è provato che anche la delinquenza è ereditaria. Veda, per esempio, l'Agro romano è un territorio dei più malsani, eppure i butteri sono forse gli uomini più belli d'Italia: perchè? Perchè vi nascono si può dire a cavallo, e ne discendono solamente per essere seppelliti; i bambini a questa vita non resistono che essendo molto forti. In molti secoli con tale selezione si è formata una magnifica razza.

—Me li ricordo anch'io,—disse il sindaco: sono ammirabili.

De Nittis così interpellato dovette assentire con un cenno del capo, ma un turbamento gli era passato negli occhi; Bice si era piegata verso Nello, che in ginocchio sulla sedia s'impiastricciava le manine nel piatto, mentre la mamma lo sgridava:

—Oh il porcellino!

Ed egli voltava la grossa testa rosea verso di loro con un sorriso trionfante sui labbruzzi sporchi, che lo rendeva anche più bello.

—Ma scusi, don Gregorio,—si ostinò Lamberto:—oramai questa non è più una questione.

—Cioè…. mi permetta allora di rinnovarla. Non voglio discutere gli allevamenti animali, perchè non sono competente a giudicare sulle cause dei miglioramenti ottenutivi, e saranno magari dovuti ad una più logica scelta nell'incrociamento….

Il capitano sorrise di questa concessione.

—Ma quanto alla razza umana ho diritto di affermare, che le sue leggi sono così diverse da quelle delle altre razze, come la missione affidatale da Dio. Che cosa sappiamo noi sul perchè e sul modo della nostra vita? Certo vi è un animale in noi, un corpo soggetto alle necessità della materia, ma l'anima, che vi sta dentro, non può essere spiegata colle condizioni fisiche di esso. Coloro che paiono i più deboli, sono spesso i più forti; poi siete ben sicuro che il muscolo sia sempre in noi il più resistente, e il più longevo fra noi il più robusto? Oggi si fa un gran discorrere di eredità per scusare tutti i difetti con questa spiegazione: è il suo temperamento, i suoi genitori erano così! Io non lo credo.

—Non si tratta di fede, ma di fatti.

—Provateli dunque. Mio padre era un giuocatore, io giuoco; è una eredità? Vi è dunque in noi un organo anche pel giuoco; ma se vi è, come passa nel bambino al momento della sua generazione? Che cosa sa la scienza, di questa generazione? Nei primi mesi del feto essa è costretta a dichiarare che non può nemmeno precisarne l'umanità. Mi permetta ancora, signor capitano, una obbiezione e non parlo più. Il bambino preesiste, o si forma nel momento che diciamo della generazione? Nessuno può affermare nè l'uno nè l'altro, giacchè le due ipotesi sono egualmente assurde per la scienza, e la terza non v'è. Se preesiste, vi sono già forme di uomo vuote, che la generazione riempirebbe ed imprimerebbe di certi caratteri dei due genitori: ma che cosa sono allora queste forme, dalle quali uscirebbero gl'individui umani? Se il bambino non preesiste, la sua individualità come deriva dalla dualità dei genitori? Era nell'ovo, o vi è immesso? Se vi era, la madre è tutta la generazione, e le obbiezioni di prima ritornano; se vi è immesso, preesiste dunque nel padre, e siamo ancora dentro la stessa obbiezione. Vedete bene che per la nostra logica il fatto della nascita è sempre egualmente impossibile. Ma veniamo all'eredità: questo bambino somiglia ai genitori; comunque sia di lui, preesistesse loro, o sia stato creato dal loro incontro, è uscito alla vita da un ovo, nel quale si è compito il fatto della sua somiglianza con essi. Per quale processo le loro due fisonomie hanno formato la sua? Nell'attimo unico della generazione, come il colore degli occhi del padre e la forma degli occhi della madre hanno potuto passare in lui che non aveva occhi? Forma e colore passano dunque senza la cosa? Eppure passano: d'accordo, ma confessate che tutto ciò è assurdo, inesplicabile, per la nostra scienza, come la nascita. Mio padre gioca, io gioco; questa è ancora una trasmissione come quella del colore de' suoi occhi ne' miei? Con quale diritto la vostra, la mia ignoranza lo affermerebbero? Io ho un'anima, una mente, una volontà, giuoco perchè voglio giuocare: ecco tutto. Queste famose leggi dell'eredità non sono che riapparizioni dei medesimi fatti nei padri e nei figli, spesso anche assai male osservati. Vi è una eredità, nella quale il nostro spirito resta libero, secondo il dogma cristiano del peccato originale, mentre la vostra scienza la falsifica pretendendo di sopprimere con essa la nostra libertà morale. L'uomo nasce nel peccato, ma al bene: la sua anima può assorgere a tutte le virtù, e precipitare in tutti i vizi: ecco la verità cristiana, che nessuna scienza potrà mai smentire.

E si fermò come ansante; tutti lo avevano ascoltato attentamente, quantunque non afferrando sempre bene il valore di quelle argomentazioni. Lamberto guardò il dottor Leoni, al quale sarebbe scaduta per diritto la risposta, ma questi, contento di vederlo imbarazzato, si volse invece a don Gregorio:

—Eh! avete portato il problema alla radice.

—Io non posso risponderle,—replicò allora il capitano.—Vi sarà benissimo un mistero anche per la scienza, ma basta guardarsi intorno, dappertutto, per trovare giuste le mie osservazioni. Io non mi sono ammalato che una volta: il medico, prima di esaminarmi, m'interrogò su' miei genitori.

—Non nego questo, mi oppongo solo alla pretesa di voler spiegare tutta la vita umana con leggi animali, che spessissimo non sono nemmeno leggi.

Don Gregorio si accorgeva di aver fatto peggio ad approfondire simile questione, ma trascinato dall'impeto dialettico della vittoria, avrebbe voluto lanciare al capitano un ultimo razzo, che dissipasse nel cuore di Bice tutte le paure lasciatevi dalla morte del piccolo Giulio. Quelle teoriche sull'atavismo uccidevano al tempo stesso la religione e la vita. Come osare di essere padre, sapendosi affetto da una inguaribile malattia ereditaria? Certo la maggioranza della gente non vi pensava, ma e coloro invece che vi pensassero? Come accorderebbero la coscienza coll'istinto? La sua fede e il suo buon senso si ribellavano del pari a queste leggi, avendo anch'egli nella propria esperienza visto spessissimo il contrario, genitori buoni avere figli pessimi, e da genitori malaticci uscire figli robusti. Adesso l'ultima teorica dei microbi annullava tutte le famose leggi dell'eredità patologiche, riproducendo nella natura la legge cristiana: gli uomini essere egualmente immersi in tutti i morbi e in tutti i peccati, e la loro salute fisica o spirituale non risultare che dalla resistenza oppostavi.

Queste idee, raccolte da tempo in una delle sue prediche meglio riuscite, gli si ripresentavano tumultuariamente nella memoria, mentre il cuore gli doleva di avere offeso quelle due anime già così infelici, intendendo invece a consolarle. Una vergogna lo sorprese fra tutti quegli sguardi, che sembravano aspettare come sarebbe uscito da tale scabra situazione.

De Nittis dovette generosamente soccorrerlo; il suo sguardo cadde prima su Bice.

—Avete difeso validamente la vostra religione, don Gregorio, ma nemmeno essa ha diritto di rinfacciare alla scienza il mistero, dopo esserne egualmente ricinta. Come in ogni epoca d'incredulità religiosa, oggi si dogmatizza su tutto colla stessa facilità di altri tempi a credere; eppure si sa così poco! Se le nostre osservazioni resteranno eternamente strette fra microscopio e telescopio, mentre la verità è forse al di là d'entrambi, le nostre più salde certezze non sono che l'accordo di una prima ipotesi con alcune altre; ma senza la fede istintiva, che è in fondo alla nostra intelligenza, cosa ci resterebbe di esse? La fede sola, questa vittoria sull'incomprensibile, può salvare la vita incomprensibile anch'essa come l'amore.

—Avrei voluto dire così anch'io!—esclamò don Gregorio.

Tutti sorrisero, meno il dottore Leoni intento nel volto di Bice durante tutto quel discorso.

Ella si era voltata verso il marito con un moto passionato: una luce spirituale le brillò repentinamente sul viso, ma quel dubbio supremo, nel quale egli parve voler disciogliere tutte le realtà della vita, e che aveva entusiasmato don Gregorio come una mistica formula cristiana, ve la spense.

Il pranzo si protrasse ancora meno animato; il dottore affettava il silenzio, Lamberto ed il sindaco, disorientati dalle ultime parole di De Nittis, non trovavano più l'accento ordinario della conversazione, mentre la signora Giulia seguitava a rimpinzare Nello sempre in ginocchio sulla sedia, e col tovagliolo annodato al collo, che lo faceva sembrare anche più grosso.

Poi, quando passarono nell'altra sala a prendere il caffè, il dottor
Leoni disse a don Gregorio con un sorriso enigmatico:

—Chi volevate dunque persuadere con quel vostro attacco contro le leggi dell'eredità, le più sicure della scienza moderna? Voi stesso non potreste dubitarne dopo la morte del loro bambino: credete che vivano separati?

La domanda era così brutale, che l'altro ne sofferse; alla propria volta guardò acutamente il dottore.

—Voi mi domandate un secreto che non ho, e che non potrei rivelare in alcun modo. Perchè me lo chiedete? La loro sventura è una delle più terribili, che io abbia incontrato nella mia oramai lunga carriera di prete, ma lo è forse diventata maggiormente per le parole di voialtri medici. Secondo il verdetto della vostra scienza, le loro nozze sarebbero colpevoli, mentre il matrimonio cristiano, lasciando a Dio il segreto della generazione, ignora tali colpe. Quella povera signora soffre il più straziante dei martirii nella propria maternità.

—Perchè ha ella voluto sposare un vecchio, essendo lei stessa così debole?

—La sua cattiva eredità sarebbe dunque diventata buona, sposando un giovane come voi?

Bice veniva appunto verso di loro con una tazza nella mano, ma siccome don Gregorio non prendeva mai caffè, la tazza toccò al dottor Leoni, che arrossì impercettibilmente facendole il solito piccolo inchino. Gli occhi di don Gregorio diventarono malinconici: il dottore amava Bice, ma come avrebbe potuto capire un'anima simile?

La conversazione seguitò ancora sino alle nove, poi la carrozza venne a postarsi dinanzi alla porta per riaccompagnare in paese don Gregorio, il dottor Leoni e il sindaco; il vecchio prete era solito a coricarsi presto, e il dottore aveva tuttavia qualche visita importante da fare. Il sindaco si attardava nel complimentare la signora Giulia.

Quando furono partiti, Lamberto chiese a Bice:

—È questa tutta la gente della tua conversazione?

—Nemmeno questa: don Gregorio viene qualche volta, gli altri due quasi mai.

—Come si fa a passare il tempo allora?—esclamò ingenuamente la signora Giulia.

La tristezza della casa si appesantiva su tutti. Quella grande villa, con un giardino ed un bosco principesco, era muta; le sue ricche sale parevano disabitate, tutti i servitori erano vecchi, non si udiva strepito di cavalli, di cani o di bimbi, che la facessero vibrare della propria vita. Fuori sul prato, nell'ombra rotta dai due grandi fanali a fianco della porta, si travedeva qualche vaso, e un poco più lungi, a sinistra, i primi gruppi degli abeti si alzavano come un fumo dapprima compatto, poi meno denso in alto, dentro la notte. Non aliava vento; solo il murmure del fiume si allontanava mestamente per il fondo della valle.

Benchè la notte fosse tiepida, rientrarono nell'andito.

Gli ultimi discorsi furono naturalmente di Roma, ove Lamberto sperava di ritornare nell'inverno passando dalla cavalleria allo stato maggiore; quindi la signora Giulia insistè per cavare da Bice una promessa di venirli a trovare nel loro appartamento a Roma. Si capiva dalle parole che desiderava di mostrarglielo.

L'altra si schermiva: De Nittis, colla solita signorile affabilità, acconsentiva a tutto senza aggravare colle proprie esortazioni quegli inviti.

Nello dormiva già sulle ginocchia di Margherita.

La carrozza aspettava nuovamente sul prato dinanzi alla porta, ma
Lamberto propose invece di andare alla stazione a piedi.

—Scommetto che tu, Bice, cammini troppo poco.

Ella sorrise.

—Ma il bambino….

—Vedrai che non piange svegliandosi.

Infatti, quando lo destarono, si stropicciò gli occhi e chiese per la prima cosa da bere.

Alle dieci si avviarono, Lamberto dinanzi con Bice e Nello dall'altra mano, De Nittis dietro loro colla signora Giulia che, malgrado le sue istanze, non aveva voluto mettersi la piccola giacca inglese. Appena fuori del prato, quasi sommerso nell'ombra degli abeti, la notte parve loro più chiara, le stelle scintillavano a miriadi, la strada era bianca. Bice e Lamberto camminavano adagio, senza parlare. Involontariamente pensarono entrambi al passato, a quella illusione di amore, entro la quale avevano vissuto parecchi anni, e che un giorno si era dissipata all'improvviso, lasciandoli indifferenti l'uno per l'altra. Ora nulla avrebbe potuto più riavvicinarli. Le loro vite divergevano verso una meta egualmente inconoscibile, obliandosi reciprocamente a poco a poco: non erano passati cinque anni dal loro ultimo abboccamento in casa della contessa Ginevra, e nel rivedersi solamente allora per la prima volta, avevano potuto riconoscersi appena. Egli era un bel capitano, felice del proprio grado, ricco, con una moglie florida, un bambino incantevole, senza un dubbio dell'avvenire e un rimpianto del passato. Suo padre, la sola persona che avrebbe potuto intorbidargli l'esistenza, era morto senza riuscire nemmeno a divorare tutto il proprio patrimonio.

Bice invece era diventata più pallida, più magra, più orfana di prima: lentamente tutti erano scomparsi intorno a lei: il povero Giorgi, la zia Ginevra, il dottor Ambrosi, Prinetti, Rosa, tutto quel piccolo mondo così spirituale e così eroico nella semplicità, quale a Lamberto era rimasto nella fantasia in un'impressione confusa di leggenda. Ella aveva finito collo sposare De Nittis, il suo grande maestro, il più alto fra tutti come spirito: il loro amore doveva essere stato uno di quei poemi, che nemmeno i maggiori poeti sanno scrivere, e che passano attraverso la vita ordinaria come una indefinibile sensazione di un altro mondo. Ma il poema si era bruscamente interrotto al canto più bello, nell'inno radioso, che si leva coi primi vagiti di un bambino intorno alla sua culla. Ella non era rimasta che l'involucro di sè stessa, talmente leggera che non la sentiva neppure pesare sul braccio: di che viveva ella dunque? Come passava i giorni? Amava ancora De Nittis? Credeva ancora di poter sopravvivere lungamente a se stessa? Osservandoli in tutta quella giornata, egli non aveva potuto indovinar nulla dei loro rapporti di sposi; parevano ambedue egualmente assiderati da un dolore, che rendeva fredde anche le loro parole, e dava alle loro faccie una strana bianchezza di statue.

Eppure egli avrebbe potuto diventare suo marito: un incidente meschino, quasi ridicolo, lo aveva impedito.

E questo pensiero adesso gli metteva un altro freddo nella mente, rendendola quasi più limpida nel considerare invece la condizione che si era creata sposando la signora Giulia. In quel momento faceva più fatica a reggere il bambino per mano, che a sostenere Bice con tutto il braccio.

Nullameno una sensazione triste ed insieme deliziosa gli veniva dalla sua presenza, dal sentirsela camminare al fianco, vestita di scuro, colla leggerezza di un fantasma. Quelle poche parole, prima di attraversare il villaggio, si erano spente intorno a loro come l'eco di un sogno.

Doveva mancare ancora mezz'ora all'arrivo del treno.

La strada costeggiava quasi il fiume.

Allora si fermarono per attendere De Nittis e la signora Giulia, che andavano anche più piano; poi Nello, per uno di quei capricci inesplicabili, volle lasciare la mano di Lamberto per prendere quella di Bice.

—Tu sei felice, Lamberto?—ella gli chiese con accento così dolce di speranza, che lo fece trasalire.

Allora una tenerezza passionata gli sgorgò impetuosamente dal cuore a quella domanda, nella quale il suo amore di fanciulla per lui risorgeva trasmutato dal dolore in una più pura carità: tremò, ma non sapendo come rispondere, le strinse quasi violentemente il braccio.

—È proprio una deliziosa passeggiata!—esclamò la signora
Giulia:—Nello, vuoi venire con me?

Invece volle rimanere attaccato alla mano di Bice.

La stazione non era molto lungi. Quando giunsero sul piccolo piazzale vuoto, due o tre fanali tralucevano dietro le vetriate socchiuse: entrarono nella sala d'aspetto e sedettero sui divani neri. Al momento di separarsi la loro tristezza aumentò; Lamberto rimaneva preoccupato, Nello stava per riaddormentarsi, solo la signora Giulia, colla bella faccia fresca sotto il largo cappellino di paglia, si guardava intorno osservando le cose più insignificanti. Alla parete dicontro pendeva una carta geografica fra due annunzi commerciali, rossi e gialli, di una lucentezza metallica. La porta della sala, che dava sotto la tettoia, era aperta.

Passarono pochi minuti in silenzio, poi un fischio tagliò l'aria. Il treno, un diretto, arrivava sbuffando e folgorando nelle tenebre: i saluti furono precipitati; Lamberto salì per ultimo nel vagone, e coi piedi già sul predellino, si volse per stringere ancora la mano a Bice. Quando fu sopra, mise il bambino allo sportello, tenendolo fermo sotto le braccia.

—Fa un bacio alla signora.

Bice rispose con un cenno inesprimibile, e rimase ritta in quella penombra a guardare il treno, che fuggiva già invisibile verso Bologna, coll'ultima visione della sua giovinezza.

In quella notte serena di settembre l'aria aveva ancora la caldezza dell'estate, ma le ombre parevano più profonde e il sonno della campagna più stanco. Ritornarono a braccetto, a passo lento; egli chiuso nel pastrano, lei avvolta in uno scialle scuro, che le scendeva fino ai piedi; le loro anime erano tuttavia piene della novità di quella visita venuta a rompere imprevedutamente la malinconia taciturna della loro vita. La casa se ne era animata, i servitori e i giardinieri non parevano più gli stessi per la sola presenza di quegli ospiti giovani, ridenti di salute, mentre Nello correva urlando fra le aiuole, e la signora Giulia le riempiva collo svolazzo dei propri abiti chiari, rossa nel sole, che le accendeva come un nimbo d'oro intorno ai magnifici capelli biondi. Era stata la visione di un'altra vita, repentina ed inaspettata, attraverso il giardino assopito nel silenzio dei propri fiori. Adesso i campi si distendevano mollemente per la stretta valle, verso il fiume, in un'ombra diafana e muta; non uno stormire di fronde, non un battito di ala notturna. Lontano, nel fondo, la massa dell'Appennino sfumava verso le stelle, e tutto il paesaggio, così chiassoso di colori nel giorno, pareva essersi addormentato al monotono murmure del fiume.

Traversando il paese, Bice si volse a guardare le finestre della scuola, da lei aperta pei bambini poveri, nella quale veniva qualche volta la mattina a perdere una mezz'ora. Era una piccola casa, ridotta alla meglio per tale uso, già appartenente alla contessa Ginevra; nella camera più grande si apriva il refettorio, dove i bambini ricevevano gratis la colazione. Ma tale beneficenza, resa oramai volgare dalla filantropia politica di troppi signori, non era bastata nemmeno ad ingannarla sulla gratitudine di quei bambini, che invece temevano in lei la signora, e sulle loro famiglie contente di scroccarle così qualche migliaio di lire.

La scuola, chiusa da due mesi, non si riaprirebbe che ai primi di ottobre, nel tempo per tutti i villeggianti di ritornare a Bologna. Ma anche là nulla sarebbe mutato nella loro vita solitaria. Dacchè il piccolo Giulio era morto, la separazione, già provocata dalla sua nascita, era divenuta anche più profonda; un rimorso troppo delicato, perchè potesse esprimersi a parole e logorarsi appunto in tale sforzo, faceva loro evitare ogni richiamo al passato con quell'istinto dei feriti, che pure nel sonno non si voltano sulla parte piagata. Avevano occupato i primi mesi nella erezione di un grande monumento alla Certosa, che servisse anche per loro; De Nittis ne aveva concepito il disegno, Bice vi aveva posto questa singolare iscrizione:

GIULIO DE NITTIS UNICO FIGLIUOLO ASPETTA QUI I PROPRI GENITORI

Poi le due date della nascita e della morte.

Ma la vita li aveva nuovamente circondati come un immenso deserto sotto un sole appannato, in un silenzio anche più immenso. Ella rimaneva quasi tutto il giorno nella propria camera, egli aveva accettato la presidenza dell'Accademia Benedettina, come un ultimo modo di passare il tempo nel riordinarvi la biblioteca, prostrando in questo lavoro materiale le ultime ribellioni dei propri ricordi. Talvolta il loro appartamento troppo vasto li spaventava. Il salotto della contessa Ginevra, sempre con quei vecchi mobili, sembrava attendere la stessa conversazione di tanti anni; la poltrona del povero Ambrosi portava ancora le tracce delle sue così pronte irritazioni nelle frangie sfilacciate dei bracciuoli; quella della contessa Ginevra, più larga e pesta dalla pesantezza del suo corpo, era presso al solito tavolino, sul quale il piccolo paniere da lavoro, in vimini dorati e con uno sportello rialzato, lasciava vedere tutto un aggrovigliamento di matassine e di gomitoli a mille colori. V'era lo sgabello di Giorgi, la sedia americana di Prinetti, quel servizio da tè, gli albums, gli ultimi giornali ancora aperti, religiosamente conservati al medesimo posto. E le altre sale più ricche spiravano un senso anche più desolato di abbandono. I servitori, oramai tutti invecchiati, ne sorvegliavano meno la pulizia, spesso le finestre restavano chiuse per intere settimane, la polvere si stendeva a veli diafani sulle stoffe, l'aria vi stagnava nell'ombra con quel sito indefinibile degli appartamenti troppo a lungo disabitati. Infatti Bice e De Nittis, respinti da quella solitudine, non occupavano più che poche stanze. Ella si era attaccata alla contessa Maria, seguendola in tutte le sue corse di beneficenza e nelle lunghe divozioni per le chiese; poi, anche la vecchia Rosa era morta, e quella figlia del povero Giorgi, piuttosto di sua moglie che sua, aveva preso una mala piega. Bice, che avrebbe voluto farle una piccola posizione, dovette rinunciarvi con una stretta più straziante al cuore. Tutto era finito; del suo passato non rimaneva che Lamberto, fra Nello e la signora Giulia, che passavano tutti i pomeriggi sotto i portici del Pavaglione, all'ora del passeggio, così belli tutti tre che la gente si voltava loro dietro sorridendo d'ammirazione.

Ma in quella tristezza, qualche volta, le si alzavano dalla coscienza voci impetuose.

Perchè vivere così? Aveva ella diritto di condannare quell'uomo tanto adorato ad una solitudine più amara di quella che il celibato gli avrebbe inevitabilmente riserbato, dopo averlo inseguito nel suo calmo ritiro di sapiente per trarlo dentro il dramma giovanile del proprio amore? Perchè disperare della vita, mentre vedeva tutti i giorni gente più tribolata di lei resistervi coll'invincibile ostinazione dell'istinto, o colla speranza sempre verde nella misericordia di Dio? E certe parole della contessa Maria la toccavano come un rimprovero di quella sua rassegnazione disperata, forse non meno empia di tante bestemmie, dopo le quali le anime si umiliano nuovamente nella preghiera. Quindi la natura la tentava con bruschi risvegli come nel marzo, quando tra gli ultimi freddi dell'inverno tutte le piante presentono da capo la festa del sole. Le signore, che venivano raramente a trovarla in quel gabinetto, presso la sua camera da letto, vi apportavano, colla vivacità della loro eleganza, tutti i sentori della strada; il salotto ne rimaneva vibrante per tutta la giornata, dandole un senso quasi stanco di quegli abiti così modesti, fuori di moda, che le facevano una figura di donna già vecchia, ridotta a non essere più che un parassita di altre esistenze più rigogliose. Ma De Nittis era ancora più vecchio di lei. La sua bella faccia rosea era diventata di un giallognolo opaco, non si pettinava, non vestiva più colla stessa severa eleganza; le spalle incurvate gli lasciavano cadere la testa sul petto, appena si obliasse in un pensiero, o non vi fosse più gente intorno per tenerlo eccitato. Solo i suoi occhi limpidi e profondi si accendevano ancora qualche volta nel lampo improvviso di una memoria, ma la sua voce non aveva più le profonde dolcezze dì accento, alle quali già tutti restavano presi.

Erano venuti lentamente dalla stazione, barattando appena qualche parola su Lamberto e la signora Giulia così felicemente accoppiati; ma, volta per volta, il dialogo si era loro rotto alle prime parole.

—Non hai freddo?—egli tornò a domandarle.

—No.

La villa non era molto lontana.

La campagna intorno dormiva di un sonno leggero sotto gli occhi sorridenti delle stelle, in quel tepore autunnale, che sembra rendere l'aria più molle. Tutto taceva. Solo il fiume seguitava a passare con un mormorio inintelligibile, come un susurro di voci le quali soffocassero la propria gioia per non rompere la tranquillità discreta della notte. La strada era senza polvere.

De Nittis allungò il passo. Il suo braccio stringeva insensibilmente quello di Bice, imprimendole una leggera ondulazione, che le fece alzare il capo.

Era una notte come la prima del loro matrimonio, diafana e lieve, ma gli ultimi profumi, vaporanti in quel sonno della terra, avevano una dolcezza anche più acuta. Alcuni alberi disegnavano sulla strada grandi macchie oscure. Ella ebbe una vaga impressione di languore e si abbandonò sul suo braccio, mentre da tutta quell'ombra, che li circondava nascondendoli nel proprio mistero, le veniva nuovamente una più cupa tristezza, una inesprimibile persuasione di non essere ella medesima più che un'ombra abbandonata per una notte senza fine. Egli invece camminava con insolita vivacità, trascinandola colla leggerezza di una volta, gli occhi fisi al grande cancello della villa, che appariva già alla svolta della strada. Bice gli sentiva battere il cuore. Nullameno ogni sforzo per ritmare il proprio passo sul suo le fu impossibile; diventava sempre più stanca, colla sensazione pesante di quello scialle che le impediva i movimenti.

Egli allentò il passo, erano già vicini al cancello. L'ombra dei due grandi ippocastani, a fianco dei suoi grossi pilastri in pietra, era così profonda che avrebbero potuto seguitare, non veduti dalla villa, quella passeggiata.

Un battente del cancello era socchiuso.

Una suprema speranza teneva sospeso De Nittis nel ricordo della loro prima notte, per quella strada di Corticella.

—Vuoi rientrare?—dovette finalmente chiederle con voce tremula, dopo avere atteso invano qualche istante un suo atto per proseguire.

Ella assentì mutamente.

Appena dentro, videro un lume spiccarsi dalla porta e venire loro incontro sul prato; era il giardiniere. De Nittis si portò la mano al volto per nascondergliene la profonda emozione, ma Bice non se ne accorse. Nella villa tutti i servitori erano già a letto, secondo il solito, perchè da oltre un anno nè egli nè Bice usavano più di farsi aiutare da loro coricandosi; Margherita e Tonina, tornate alle antiche abitudini, dormivano insieme in una camera, a fianco di quella di Bice.

Nell'andito v'erano due bugie d'argento colle candele pronte.

—Vattene pure; buona notte, Giovanni,—disse De Nittis al vecchio giardiniere.

Mise egli stesso il catenaccio alla porta, e tornando presso Bice ancora avvolta nello scialle, prese anche il suo candeliere dal tavolo colle mani tremanti. Ella ebbe una strana sensazione nel vedergli la faccia così animata, salirono i due rami di scale; quindi De Nittis sempre dinanzi si avviò alla camera di lei.

Appena vi furono dentro, depose le candele sul comò, e si volse per aiutarla a torsi lo scialle. La camera aveva le finestre socchiuse per ricevere l'aria balsamica della notte.

—Debbo chiudere?—le chiese.

Ella rimaneva in mezzo, presso al tavolo, sul quale da un grande vaso di Sèvres si alzava una bella pianta verde. Era la prima volta, dopo tanto tempo, che egli le veniva così in camera, e le parlava con tale intimità. Un sorriso gli tremava sulle labbra; quindi andò a chiudere la finestra, mettendovi un certo tempo.

Ella si era appoggiata al tavolo cogli occhi bassi.

La sua anima rabbrividiva nel silenzio di quella camera sacra alla morte, dacchè i becchini erano venuti un giorno a prendervi il cadavere del piccolo Giulio, dalla culla a fianco del letto. La culla era ancora lì, con quella bandiera bianca di merletti, che la copriva a mezzo, tutta bianca al di dentro, come aspettando il sonno di un altro bambino. Bice non aveva voluto che la togliessero dalla camera, per un bisogno segreto di potersele ancora inginocchiare daccanto nelle notti più desolate della propria vedovanza. Le due candele, quasi contigue, bruciavano sul comò con un battito leggero delle fiammelle, che faceva oscillare trepidamente l'ombra su per le pareti.

—Bice!—mormorò De Nittis cogli occhi lucenti.

Ella sentì quell'appello, sommesso come un'eco che le venisse dai giorni lontani della sua vita, quando la sua anima vergine attendeva tutte le rivelazioni dell'amore, e istintivamente tremò. Il suo cuore ebbe cinque o sei battiti convulsi. L'altro non respirava.

Ma vedendola sempre così curva, cogli occhi a terra, quasi non avesse intesa la preghiera della sua voce, ebbe uno smarrimento profondo, la sensazione di un abisso, nel quale stesse nuovamente per cadere. Tutte le speranze gli fuggivano sul capo con un volo spaventato di colombi, mentre un vento freddo gli batteva dolorosamente gli occhi.

Stettero così qualche secondo, poi Bice alzò la testa, guardando con una indefinibile espressione verso la culla vuota e biancheggiante nell'ombra come un'alba lunare; un'emozione insopportabile di amore e di abbandono, egualmente eterni, soffocava loro il respiro: ella fu quasi per cadere, quindi colla mano sinistra, sempre appoggiata al tavolo, si voltò lentamente, girandogli per sempre in un saluto tutta la propria anima.

De Nittis afferrò traballando la candela, ed uscì.

Il suo studio nella villa non era che una piccola stanza con pochi libri, giacchè da molti mesi non lavorava più alla grande opera sulle religioni. I fascicoli accuratamente legati in carta rosea, con un grosso numero nero, romano, in cima, si ammucchiavano sullo scrittoio a fianco di un ritratto di Bice, chiuso in una cornice di bronzo inverdito, elegantemente severa nel disegno.

Egli sedette sulla poltrona, innanzi alla piccola candela. Tutto era perito intorno a lui, giorno per giorno, silenziosamente, la sua gloria, il suo amore, la sua sposa, il suo bambino, coloro ai quali si era accompagnato, quelli che avrebbero dovuto sopravvivergli. Come quei viaggiatori, che attraversano il deserto e che il deserto esaurisce, egli non aveva più dinanzi che un orizzonte fatto di un cielo e di una terra egualmente vuota, nella quale il suo grido resterebbe senza eco, e il suo passo senza traccia. Da gran tempo la sua anima non aveva potuto parlare giacchè, dopo la morte del piccolo Giulio, Bice era rimasta forse più sola di lui stesso, nella inutile giovinezza dei propri ventisei anni. Un'angoscia piena di rimorsi li divideva ancora, e li dividerebbe sempre un terrore che il loro bacio chiamasse alla morte un altro piccolo innocente, terreo e singhiozzante, con le pupille stravolte nello spasimo della propria effimera apparizione.

Egli si stupiva persino di essersene potuto dimenticare poco dianzi. Era stata l'eccitazione prodotta in lui dallo spettacolo di Lamberto e della signora Giulia, così belli entrambi e felici nel trionfo del proprio bambino? O il delirio di una speranza, come talvolta ne hanno i moribondi drizzandosi sui cuscini a parlare di quanto faranno, appena guariti, con accento convulso d'impazienza? Adesso egli soffriva del dolore, che Bice doveva aver provato rispondendo al suo appello, con quello sguardo, nel quale tutta l'anima le aveva bruciato come una stella cadente per gli abissi del cielo. Ella, più pura e più profondamente piagata di lui nel proprio cuore di madre, accettava la castità di quell'esilio colla virtù delle prime donne cristiane, uscenti dalla vita sulla traccia di Gesù. Non piangeva, non sperava. Per quanto egli avesse cercato d'indovinare lo stato del suo spirito, non vi era riuscito: Bice gli mostrava sempre lo stesso viso pallido, cogli occhi velati, e gli rispondeva colla stessa voce assopita. Tutto era morto in lei, tranne la fede in Dio e alla sua giustizia, dentro il mistero della quale camminava a testa bassa. Egli invece aveva sentito scoppiare nella propria anima la frenesia di tutte le ribellioni; il suo pensiero si era teso in uno sforzo titanico per resistere alla ruina, che lo travolgeva, gridando come quello di Giobbe contro il pensiero di Dio. Certo non era giusto quanto gli accadeva. Per lunghi mesi, nel silenzio delle proprie notti, egli aveva ripetuto questa eterna protesta umana, con una specie di ebrietà nell'opporre così la grandezza dei lamenti a quella della sventura, senza che la morte, trionfante come sempre, uscisse dal proprio mistero per rispondere. E a poco a poco era ricaduto anch'egli nel silenzio, col viso pallido e gli occhi velati come Bice.

Adesso gli altri gli facevano invidia per la loro stessa insensibilità, anzi non invidiava più che tale inerzia della memoria, e quella facilità di ogni più basso piacere, che la vita consente al maggior numero per non esaurire forse sè stessa negli inutili sforzi dell'ideale. Così la gente non soffriva nemmeno della morte. Molte madri, molti padri si trovavano come lui al tramonto, egualmente deserti, e non pertanto ostinati a prolungare i propri ultimi giorni; egli invece non sentiva più che la morte dovunque. Il suo alito passava in tutti i soffi, il suo singhiozzo si rompeva in tutte le voci, il suo tremito appariva sotto ogni moto, la sua oscurità saliva da ogni ombra. Era la morte che, interrompendo a mezzo tutte le allegrie, lasciava sempre la stessa goccia putrida nel fondo di tutti i bicchieri e di tutti gli sguardi.

Quindi una stanchezza disperata gli rendeva ogni giorno più pesante la vita, nella coscienza profonda della sua inutilità. Non era egli omai troppo vecchio per durare ancora, dopo che tutte le prove erano finite? Ma la morte stessa sarebbe una soluzione del problema imposto dalla vita al pensiero? V'era qualche altra cosa, un altro dove?

La vecchiaia era già essa pure una morte.

E non pertanto il cristianesimo, questa massima rinnovazione tentata sulla vita, era un'opera di vecchi. Tale tremenda ironia contro la natura soffiava dalle prime scene del dramma cristiano sempre più fredda sino alle ultime, perchè tutto era vecchio nel cristianesimo; Elisabetta e Zaccaria avevano generato Giovanni, il precursore, nella più tarda età; Anna e Gioacchino erano già vecchi prima di generare Maria; Giuseppe, secondo le più antiche leggende, aveva sposato a settant'anni Maria, la piccola vergine di dodici. Mai l'eterna giovinezza dello spirito fu significata con più sicuro disprezzo contro le leggi della natura.

Egli vi ripensava anche in quel momento, ricordandosi le frasi di don
Gregorio nella disputa con Lamberto.

La fede del vecchio prete aveva ancora la freschezza delle prime albe, quando lo spirito lanciandosi a volo pei nuovi cieli aperti dalla resurrezione di Cristo, aveva lungamente gridato di amore dietro il suo fantasma radioso, del quale non rimanevano sulla terra che una croce e pochi discepoli a proclamare la vittoria sulla morte. Nullameno, dopo molti secoli, l'anima umana tornava a dubitare della propria redenzione, senza trovare in sè stessa un altro maggiore concetto, entro cui raccogliersi nuovamente con Dio. Tutta la critica accampata ora, come nel secolo di Augusto, oltre i confini delle filosofie e delle religioni, sembrava un'altra volta pronta a retrocedere dinanzi al mistero. Se allora nessuna fola pagana poteva più essere ripetuta in un circolo di persone colte senza eccitarvi le beffe, noi pensiamo oggi con eguale sorriso agli effetti, che produrrebbe sugli abitanti di Marte un cristiano annunciando che il loro Dio, duemila anni or sono, discese a morire sulla terra per salvarvi dal peccato i discendenti del primo uomo. I cieli, che narravano la gloria dì Dio, ne velano adesso il segreto con una folla di mondi così immensi, che il nostro piccolo globo non vi ha più importanza di un granello di sabbia nel deserto o di un riflesso di luce sul mare. Ma il pensiero umano, sperduto col proprio pianeta nell'infinito, sente che tutto vi naviga ad una meta misteriosa, e il medesimo soffio, che incendia gli astri come fari, dirige le migrazioni delle comete, attraverso i grandi oceani di stelle, per la serenità delle notti. Perchè dunque l'infinito può essere pensato? È questa la prima delle rivelazioni, che ci attendono, o Dio volle anticiparne qualche altra, come affermarono tutte le religioni?

A poco a poco De Nittis si era assorto in queste meditazioni. La candela, oramai consunta, ventava nel bocciuolo della bugia con un battito di ali spaventate: accese l'altro lume a petrolio, e si trasse dinanzi tutti i fascicoli della sua grande opera.

Sulla pallidezza lapidea della fronte gli si accendeva come una aureola.

I suoi occhi si fissarono attenti su quelle pagine fitte e minute, nelle quali la posterità avrebbe letto il testamento del suo pensiero: tutto era silenzio intorno a lui, tutto era morto dentro di lui. E allora riprendendo la penna, come un romeo antico il bordone in vista del Santo Sepolcro, si rimise sulla traccia di Dio.

Casolavalsenio, 15 agosto 1894.

FINE

MILANO—FRATELLI TREVES, EDITORI—MILANO

ANNO XXIII—1896
L'ILLUSTRAZIONE ITALIANA

È il più grande giornale illustrato d'Italia

ESCE OGNI DOMENICA IN MILANO in sedici o venti pagine del formato grande in-4

Direttori: EMILIO TREVES e EDUARDO XIMENES

Otto pagine sono dedicate alle incisioni eseguite dai primi artisti d'Italia, che riproducono gli avvenimenti del giorno, le feste, le cerimonie, i ritratti d'uomini celebri, i quadri e le statue che si sono segnalate nelle Esposizioni, vedute di paesi, monumenti, insomma tutti i soggetti che attraggono l'attenzione del pubblico.—Collaboratori principali: A. G. Barrili, R. Bonfadini, A. Brunialti, R. Barbiera, A. Caccianiga, E. Castelnuovo, Cordelia, De Amicis, G. Ferrero, Giacosa, D. Giuriati, P. Mantegazza, F. Martini, G. Marcotti, P. G. Molmenti, C. Ricci, S. Sighele, A. Tedeschi, G. Verga, ecc. Nel 1896, abbiamo assicurato una

      Conversazione Settimanale
                DI
         FERDINANDO MARTINI

I 52 fascicoli stampati in carta di lusso formano in fine d'anno due magnifici volumi di oltre mille pagine illustrate da oltre 500 incisioni; ogni volume ha la coperta, il frontispizio e l'indice, e forma il più ricco degli Album e delle Strenne.

Centesimi 50 il numero

Anno, L 25.—Semestre, L. 13.-Trimestre, L. 7.

Estero, Franchi 33 l'anno.

Premio: Chi manda L. 25,60 (Est. Fr. 34) per l'anno 1896 dell'Illustrazione Italiana, vien dato in dono 1.°) numero straordinario: NATALE E CAPO D'ANNO, 25 opere scelte della MOSTRA INTERNAZIONALE D'ARTE di VENEZIA. Queste tavole sono affatto nuove, non comparse nè nel nostro giornale nè nella prima dispensa dell'Album dell'Esposizione. 2.°) un ALMANACCO STORICO, che comprenderà il calendario pel 1896, e la cronistoria del 1895. (I 60 cent. [Estero, 1 fr.] sono aggiunti per l'affrancaz. dei premi).

Dirigere comm. e vaglia ai Fratelli Treves, editori, Milano.

MILANO—FRATELLI TREVES, EDITORI—MILANO

OPERE DI EDMONDO DE AMICIS.
(EDIZIONI IN-16)

  =La vita militare=. 28.^a impressione della nuova ediz. del
  1880 riveduta, con l'aggiunta di due bozzetti.. L. 4 —

  =Novelle=. 11.^a impressione della nuova edizione del 1888,
  riveduta dall'autore, illustrata da 7 disegni di V. Bignami. 4 —

=Marocco=. 13.^a edizione……….. 5 —

=Olanda=. 14.^a edizione riveduta dall'autore….. 4 —

=Costantinopoli=. 25.^a edizione. Due volumi…. 6 50

=Ricordi di Londra=. 21.^a edizione, con 22 disegni.. 1 50

=Ricordi di Parigi=. 7.^a edizione…….. 3 50

=Ritratti letterari=. 2.^a edizione……… 4 —

=Poesie=. 8.^a edizione………… 4 —

=Gli Amici=. 13.^a edizione. Due volumi…… 2 —

=Cuore=. Libro per i ragazzi. 189.^a edizione….. 2 —

=Alle porte d'Italia=. Nuova edizione completamente rifusa ed ampliata dall'autore, 7.^a impressione…. 3 50

=Sull'Oceano=. 20.^a edizione……… 5 —

=Il romanzo d'un maestro=. Ediz. economica. 18.^a ed. 2 —

——- ——-Ediz. di lusso. 10.^a ed. 5—

  =Il Vino=. Nuova edizione in-16, illustrata da A. Ferraguti,
  Ett. Ximenes ed E. Nardi 2.^a impressione… 2 50

=Fra scuola e casa=. 6.^a edizione…….. 4 —

=La maestrina degli operai=. Racconto. 2.^a ediz.. 3 —

  =Ai ragazzi=. Discorsi. 6.^a edizione…….. 1 —
  ———- Edizione di lusso in carta a mano uso antico. 5 —

  =La lettera anonima=. Conferenza, illustrata da Medardo
  Pagani
ed E. Ximenes (in preparazione).

(EDIZIONI ILLUSTRATE in-8).

=Alle porte d'Italia=. Con 172 disegni di G. Amato. 10 —

=Sull'Oceano=. Con 191 disegni di Arnaldo Ferraguti. 10 —

=Marocco=. Con 171 disegni di S. Ussi e C. Biseo. 2.^a ediz.10 —

=Costantinopoli=. Con 202 disegni di Cesare Biseo.. 10 —

=La vita militare=. Con disegni di V. Bignami, E. Matania, D. Paolocci, Ed. Ximenes, G. Amato e G. Colantoni. 3.^a edizione con nuove incisioni aggiunte… 10 —

=Olanda=. Con 41 disegni e la carta del Zuiderzee.. 10 —

  =Gli Amici=. 17.^a ediz. ridotta dall'autore e illustrata da
  Amato, Ximeues, Pennasilico, Paolocci, Colantoni.. 4 —

=Cuore=. Con 200 disegni di Ferraguti, Nardi, Sartorio. 10 —

=Novelle=. Con 100 disegni di A. Ferraguti…. 10 —

=Il Vino=. Ill. da A. Ferraguti, Ett. Ximenes ed E. Nardi. 6 —

  Dirigere commissioni e vaglia ai Fratelli Treves, editori, Milano.
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                             OPERE
                               DI
                       Gabriele D'Annunzio

ROMANZI:

  Le Vergini delle Rocce
  6.^a edizione.—Un volume in-16 di 470 pagine,— Lire 5.

  Il Piacere. 8.^a edizione L. 5 —
  (tradotto in francese sotto il titolo d'Enfant de Volupté).

  L'Innocente, 5.^a edizione L. 4 —
  (tradotto in francese sotto il titolo l'Intrus).

Trionfo della Morte. 6.^a ed. L. 5 —

  Il fuoco }
  La Grazia } in preparazione.
  L'Annunziazione }

POESIE:

  Poema Paradisiaco; Odi Navali.
  Un volume formato bijou. 3.^a edizione. L. 4 —

  L'Isottèo e la Chimera. 2.^a ed. Formato
  bijou. L. 4 —

Intermezzo di rime L. 2 —

Canto Novo in preparazione.

Dirigere commissioni e vaglia ai Fratelli Treves, editori, Milano.

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OPERE DI CORDELIA

RACCONTI e BOZZETTI.

Il regno della donna. 7.^a edizione L. 2 —

Prime battaglie. 4.^a ediz. 2 —

Dopo le nozze. 3.^a ediz. 3 —

Racconti di Natale. 2.^a ed. 3 50 ——Ed. ill. da Dalbono, Macchiati e Colantoni. 4.^a ed. 4 —

Alla ventura, illustrato da Gennaro Amato. 2.^a ediz. 4 —

Vita intima 8.^a edizione. 1 —

Casa altrui, 7.^a ediz. L. 1 —

  ——Ediz. ill. da 24 dis. di Matania
  e Bignami. 2.^a ed. 3 —

  All'aperto, ill. da Ferraguti,
  Nardi e Amato. 2.^a ediz. 4 —

  I nostri figli. Edizione formato
  bijou, stampata a colori. 3 —

Le donne che lavorano (in prep.).

ROMANZI.

Catene. 2.^a edizione. 3 50

  ——Ed. ill. da 32 disegni di
  A. Bonamore. 3.^a ediz. 4 —

Per la gloria. 2.^a ediz. 3 50

Forza irresistibile. 2.^a edizione. 3 50

Il mio delitto. 2.^a ediz. 1 —

——Ediz ill. da G. Colantoni 2.^a edizione. 3 —

Per vendetta. 3 50

——Ed. ill. da A. Ferraguti e G. Pennasilico. 4 —

LIBRI PER I RAGAZZI.

Piccoli eroi, 30.^a edizione. 2 — ——Ediz. in-8 ill. con 26 dis. di A. Ferraguti. 31.^a ed. 4 —

Mondo Piccino, con 15 incisioni. 5.^a edizione. 1 —

  Mentre nevica, illustrato con
  12 incis. 4.^a edizione. 2 —

Nel regno delle fate, illustrato da Dalbono. 3.^a ediz. 7 50

Il castello di Barbanera, illustrato da Paolocci. 2 — ——Ediz. di lusso. 2.^a ed. 4 —

  I nipoti di Barbabianca, ill. da
  Ed. Matania. 2.^a ediz. 4 —

TEATRO.

Teatro in famiglia, commedie pei giovani, illustrato (in prep.).

  È meglio un uovo oggi che una gallina domani; Rosetta; Quando
  manca la gatta….; Diavolina; Sartine; Mondo in miniatura.

  Gringoire, opera in un atto, parole di Cordelia, musica di
  A. Scontrino. Riduzione per canto e pianoforte. 5 —

Dirigere commissioni e vaglia ai Fratelli Treves, editori, Milano.

OPERE DI A. G. BARRILI

Amori antichi L. 4 — Capitan Dodèro 1 — Santa Cecilia 1 — L'olmo e l'edera 1 — Il libro nero 2 — I Rossi e i Neri 2 — Val d'Olivi 1 — Le confessioni di fra Gualberto 1 — Semiramide 1 — Castel Gavone 1 — Come un sogno 1 — La notte del Commendatore 4 — Cuor di ferro e cuor d'oro 2 — Diana degli Embriaci 3 — Tizio Caio Sempronio 3 50 La conquista d'Alessandro 4 — Il tesoro di Golconda 1 — La donna di Picche 1 — L'XI Comandamento 1 — O tutto o nulla 3 50 Il ritratto del diavolo 3 — Il Biancospino 1 — L'anello di Salomone 3 50 Fior di Mughetto 3 50 Dalla rupe 3 50 Il Conte Rosso 3 50 Amori alla macchia 3 50 Monsù Tomè 3 50 Il lettore della principessa L. 4 — —Ediz. illustrata 5 — La Montanara 2 — —Ediz. illustrata 5 — Arrigo il Savio 3 50 Uomini e bestie 3 50 La spada di fuoco 4 — Casa Polidori 4 — Il merlo bianco 3 50 —Ediz. illustrata 5 — Il giudizio di Dio 4 — Il Dantino 3 50 Zio Cesare, comm. 1 20 La Sirena 2 — La signora Àutari 3 50 Scudi e Corone 4 — Rosa di Gerico 3 50 La bella Graziana 3 50 —Ediz. illustrata 3 50 Le due Beatrici 3 50 Terra vergine 3 50 I figli del cielo 3 50 La Castellana 3 50 Fior d'oro 3 50 Con Garibaldi alle porte di Roma 4 — Il Prato Maledetto 3 50 Lutezia 2 — Vittor Hugo 2 50

IN PREPARAZIONE:

Galatea, romanzo.

Sorrisi di gioventù. (Edizione bijou).

Ada Negri

  FATALITÀ! (1892). 9.^a edizione. Formato
  bijou L. 4 —

  TEMPESTE(1895). 5.^a edizione. Formato
  bijou 4 —

  Queste poesie hanno avuto un successo dei più clamorosi non solo in
  Italia, ma nel mondo.

  Il più autorevole elogio di Ada Negri si trova nella relazione sul
  premio Milli che porta le firme di tre maestri: M. Tabarrini, A.
  D'Ancona, I. Del Lungo. Eccone le parole precise:

"Poesia notevole per immediata e gagliarda intuizione del vero, e per intima apprensione del sentimento umano; poesia, che nutrita di dolore, sa, dagli strazi di questo, sollevarsi a idealità, più o meno serene, più o meno tranquille, ma illuminate sempre dalla fede in un ordine di giustizia suprema e di carità universale. Schiva, o piuttosto ignara, d'ogni convenzionale artificio, saputa conservarsi libera dalla servitù e dalla rettorica delle sêtte, Ada Negri ritrae fedelmente, senza alterazioni soggettive, senza atteggiamenti teorici, le realtà della vita moderna; ed è uno de' pochi poeti, che dalle condizioni presenti dell'umana società, da questo tramutarsi di cose del quale sono così incerti gli auspici, abbiano saputo attingere ispirazioni non volgari e non partigiane. Il che fa che la sua poesia si ripercuota in tutti i cuori: e quando ella piange con chi soffre, e benedice a chi col braccio o con l'intelletto lavora, e a chi combatte per diritti legittimi promette una vittoria che sia la pace di tutti, l'animo di noi che leggiamo, si dischiude a quelle visioni che la poesia dà solamente quando è vera poesia."

BIBLIOTECA "BIJOU"

Edizioni elegantissime, di gran lusso, stampate a colori

POESIA

  BALOSSARDI. Gìobbe (3.^a ediz.) L. 4 —
  COLAUTTI (Arturo). Canti virili 4 —
  D'ANNUNZIO. L'Isottéo e La Chimera (2.^a ed.) 4 —
  —Poema Paradisiaco—Odi navali (3.^a ediz.) 4 —
  DE AMICIS. Poesie (8.^a ediz) 4 —
  DE CASTRO (E.). Belkiss, regina di Saba 3 —
  Poema drammatico in prosa, tradotto dal portoghese da V. PICA.
  GALANTI. Spirito e cose 2 —
  Con proemio di A. De Gubernatis.
  GRAF. Dopo il tramonto 4 —
  MARRADI. Nuovi canti 4 —
  —Ricordi lirici 4 —
  REMIGIO ZENA (G. Invrea). Le Pellegrine 4 —
  SARFATTI. Rime Veneziane e Minuetto 4 —
  PROSA
  BARRILI. Con Garibaldi alle porte di Roma 4 —
  CHECCHI (Eugenio). Teatro di società 2 —
  CORDELIA. I nostri figli v 3 —
  DE AMICIS. La maestrina degli operai. 2.^a ed. 3 —
  GIACOSA. La signora di Challant (2.^a ediz.) 4 —
  Dramma in cinque atti.
  LEGOUVÉ. Fiori e Frutti d'Inverno 2 —
  MANTEGAZZA. L'arte di prender moglie (6.^a ed.) 4 —
  —L'arte di prender marito (3.^a ediz.) 4 —
  —Elogio della vecchiaia (2.^a ediz.) 4 —
  MARTINI. La Vipera, ed altre commedie 4 —
  PANZACCHI. I miei racconti 4 —
  RAGUSA MOLETI. Memorie e acqueforti 4 —
  —Miniature e filigrane 3 —
  SERAO (Matilde). Gli Amanti (2.^a ediz.) 4 —
  —Le Amanti (2.^a ediz.) 4 —
  THUN (Contessa di) Quel che raccontò la nonna. 3 —
  VERGA. Storia di una Capinera (15.^a ediz.) 3 —

Sotto i torchi

Sorrisi di gioventù, di A. G. BARRILI.

Ultime Pubblicazioni.

  =Barbiera= (Raffaello). Il salotto della Contessa Maffei e la
  Società Milanese (1834-1886).
Con scritti e ricordi di Balzac,
  Manzoni, Verdi, E. Visconti Venosta, Prati, Aleardi, Carlo Tenca, A.
  Maffei, Giulio Carcano Correnti, Grossi, Nievo, Giannina Milli, D.
  Stern, Liszt, ecc. 5.^a ediz. 4 —

=Boccardi= (Alberto). Il peccato di Loreta, romanzo 3 50

=Boito= (Camillo). Storielle vane. 4.^a edizione 1 —

=Capranica= (Luigi). Re Manfredi, romanzo: 3 vol. 2.^a ediz. 3 50

=Castelnuovo= (Enrico). L'onorevole Paolo Leonforte. 3.^a ed. 1 —

=Colautti= (Arturo). Canti Virili. Edizione bijou 4 —

=D'Annunzio= (Gabriele). Le Vergini delle Rocce. 5.^a ediz. 5 —

Trionfo della Morte, romanzo. 6.^a edizione 5 —

L'Innocente, con disegno di G. A. SARTORIO, 5.^a edizione 4 —

Il Piacere, romanzo. 6.^a edizione 5 —

Intermezzo di rime 2 —

=De Amicis= (Edmondo). La maestrina degli operai. Ed. bijou 3 —

=De Castro= (Eugenio). Belkiss, regina di Saba, d'Axum e dell'Hymiar, poema paradisiaco tradotto dal portoghese da VITTORIO PICA, con studio biografico e ritratto. Edizione bijou 3 —

=Di Giorgi= (Ferdinando). La prima donna, romanzo 3 50

  =Ferrero= (Guglielmo) e =Sighele= (Scipio). Cronache
  criminali italiane
(1896). con 12 ritratti 4 —

  I BRIGANTI: Ultime gesta della banda Maurina; Autobiografia di Giovanni
  Botindari; Il brigantaggio in Sardegna.

I DELINQUENTI POLITICI: Una società segreta nel 1894; Alle porte del domicilio coatto.—I DELINQUENTI COMUNI: I funerali di un "guappo"; Il delitto di un mistico; Averardo Bracciotti; L'assassinio di Giuseppe Bandi; Gennaro Volpe; Il mistero di Vico Equense (processo de Nayve).

=Gallina= (Giacinto). Serenissima, commedia in 2 atti. 1 —

=Martini= (Ferdinando). Nell'Affrica Italiana, ediz. illustrata 5 — Edizione economica in-16 2 — —La Vipera, ed altre commedie 4 —

=Negri= (Ada). Tempeste, poesie. Formato bijou. 5.^a edizione 4 —

=Remigio Zena=. Le pellegrine, poesie 4 —

=Rovetta= (Gerolamo). La baraonda, romanzo. 3.^a edizione 4 —

=Thun= (contessa de). Quel che raccontò la nonna (formato bijou)3 —

=Tolstoi= (Leone). Padrone e servitore 1 —

=Verga= (Giovanni). Ricordi del Capitano d'Arce. 2.^a ediz. 2 50

=Villari= (Pasquale). La Sicilia e il Socialismo 2 —

Vita (La) italiana nel settecento. Volume Primo: Storia 2 —

D'imminente pubblicazione

                              LA LUPA
                In Portineria e Cavalleria Rusticana
                             DRAMMI DI
                          GIOVANNI VERGA.

Dirigere commissioni e vaglia ai Fratelli Treves, editori, in Milano.