The Project Gutenberg eBook of Col fuoco non si scherza

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Title: Col fuoco non si scherza

Author: Emilio De Marchi

Release date: August 16, 2006 [eBook #19059]

Language: Italian

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK COL FUOCO NON SI SCHERZA ***

Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli, Elena

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EMILIO DE MARCHI

COL FUOCO NON SI SCHERZA
ROMANZO CON PREFAZIONE DI GAETANO NEGRI

MILANO CARLO ALIPRANDI—EDITORE VIA DURINI, 34

PROPRIETÀ LETTERARIA

Le copie non firmate s'intendono contraffatte.

Milano 1901—Stabilimento Tipografico G. Mauri e C., Via Unione, 20.

È una voce d'oltretomba che ci parla dalle pagine di questo romanzo, è la voce di Emilio De Marchi, il gentile poeta, il geniale ed arguto scrittore, ahi troppo presto rapito agli amici, agli ammiratori, al Paese di cui era ornamento ed onore.

La fama non ha sempre una misura perfettamente giusta nella distribuzione de' suoi favori. Non sempre i più meritevoli sono i suoi prediletti, e i suoi errori, ai tempi nostri, son forse più frequenti e più gravi che nel passato. Per essere uditi in mezzo al frastuono da cui è assordato il mondo moderno, bisogna farsi annunciare da squilli di tromba ed aver un accompagnamento di cori. Chi parla solitario deve rassegnarsi talvolta a lasciare che la sua voce sia soffocata dall'onda tumultuosa dei suoni che le si innalzano intorno. Emilio De Marchi, artista nel senso più genuino e più dignitoso della parola, ch'altro non amava se non l'arte e la verità, non apparteneva a nessuna consorteria letteraria; egli faceva parte per sè stesso, non andava in cerca dell'applauso e del successo, rifuggiva da ogni artifizio da cui potesse venire al suo nome un bagliore fallace. Da qui la conseguenza che Emilio De Marchi non ebbe in vita il posto che gli spettava nella gerarchia degli scrittori italiani nell'ultima parte del secolo decimonono, mentre gli stranieri lo accoglievano con una larghezza di spontanea ammirazione che era il più chiaro indizio del suo grande valore.

Emilio De Marchi, in arte, era un verista, ciò che rettamente inteso vuol dire un manzoniano. Egli fu dei pochissimi fra i discendenti del grande lombardo a comprendere come non fosse un seguire il maestro l'abbandonarsi ad una morbosa mollezza di sentimenti e di stile, ma lo fosse bensì lo scrutare il vero ne' suoi più riposti avvolgimenti, per riprodurlo con un intento altamente morale. Per questo, egli è stato, insieme, un poeta ed un moralista.

Il tratto saliente dell'ingegno del nostro artista era appunto la scrupolosa fedeltà al vero, fedeltà nella rappresentazione dei personaggi e in quella dell'ambiente in cui li collocava, Nella creazione dei tipi umani il De Marchi si_ rivelava un pensatore dall'anima vibrante a tutti i problemi detta vita moderna, un psicologo che sapeva scrutare le passioni che tempestano nel cuore dell'uomo in tutte le fasi del loro svolgimento. Tuttavia, per quanto mirabili le analisi ch'egli eseguiva col suo scalpello provato e sicuro, per quanto efficaci e parlanti le figure a cui egli dava il soffio della vita, altri potrà, per questo rispetto, averlo eguagliato, e forse superato. Ma nella pittura dell'ambiente il De Marchi era propriamente un Maestro. La sua arte finissima e discreta ci fa rivivere nel mondo ch'egli descrive con un'esattezza di riproduzione veramente singolare. Il Demetrio Pianelli, _che rimarrà del resto, per gli altri suoi pregi, come uno dei migliori romanci contemporanei, è, veduto da questo aspetto, un capolavoro. Il mondo milanese, la sua vita, le sue abitudini, il suo linguaggio, l'aria, quasi direi, che vi si respira, tutto vi è riprodotto con un'acutezza d'impressione che rivela l'intensità dell'osservazione. E vi si unisce quell'arte squisita, che sa dare, nella pittura, il tocco risolutivo dell'effetto, conservando la chiarezza del disegno e la semplicità dell'insieme.

Quest'arte si ritrova in tutti i romanzi del De Marchi; la si ritrova in_ Giacomo l'idealista dove vela ed abbella una concezione di carattere che è forse la più profonda e la più geniale di quante siano uscite dalla mente pensosa del nostro romanziere, la si ritrova nell'ultimo suo lavoro in _cui una storia triste si svolge in mezzo a tanto sorriso di natura, a tanta trasparenza d'aria, a tanta pace e tanto azzurro di lago e di cielo.

Lo stile del De Marchi, è limpido come l'acqua zampillante da fonte montana e rispecchia mirabilmente lo spirito dello scrittore. L'imagine precisa e vivace, la frase spirante un'emozione profondamente sentita, il concetto espresso con facile eleganza, mai nessun eccesso di parola, nessuno sfoggio di inutile virtuosità, quasi un pudico aborrimento d'ogni lezioso artifizio, tutto ciò infonde nelle pagine del De Marchi quel fascino che ha la bellezza quando ci si affaccia nella sua semplice e genuina realtà.

Emilio De Marchi, mi piace ripeterlo perchè è il più grande fra i titoli d'onore del nostro poeta, ha sempre accompagnato all'arte l'ispirazione morale e fu guidato, in tutte le sue opere, da un concetto educativo. Egli sentiva altamente la missione dello scrittore, e voleva che da ogni suo libro venisse un insegnamento che, purificando, ravvivasse i cuori. Quando egli parlava ai giovani, la sua parola aveva un accento paternamente affettuoso. Il maestro diventava un amico che aveva il segreto di toccar le corde più intime del cuore. Ma l'idea morale regge ed anima non solo i suoi libri educativi, bensì tutta l'opera sua.

Non si chiude nessun suo romanzo senza sentirsi migliori, perchè più inclinati all'indulgenza, alla pietà_ _per le umane debolezze, più sensibili alla simpatia per la sventura, più aperti all'influenza d'ogni grande e generoso ideale.—

    Il fare un libro è meno che niente
    Se il libro fatto non rifà la gente

diceva il Giusti. A questa convinzione del poeta toscano, che era anche la sua, Emilio De Marchi è rimasto fedele in tutte le manifestazioni del suo ingegno. Artista squisito, scrittore altamente civile e morale egli lascia una traccia duratura. Il suo spirito rimane nelle figure viventi di cui ha popolato il mondo della fantasia e del romanzo, rimane nei preziosi insegnamenti da lui sparsi a piene mani lungo il cammino, ahi troppo presto troncato, della sua laboriosa esistenza.

GAETANO NEGRI.

PARTE PRIMA.

I.

Due vecchi amici.

Cinque minuti prima dell'arrivo del battello, Beniamino Cresti era già col suo inseparabile ombrello chiuso, che gli serviva di bastone, allo sbarco di Tremezzo in attesa di Massimo Bagliani. Per la circostanza il solitario misantropo del Pioppino aveva indossato un vestito d'un grigio chiaro tutto eguale, che insieme al cappello chiaro di paglia faceva comparire ancor più scura la carnagione del volto e delle mani d'un color nero di terra lavorata.

Da qualche tempo i pochi amici canzonatori notavano che il solitario ortolano del Pioppino faceva degli sforzi straordinari per essere bello ed elegante. Ezio Bagliani, che tra i burloni era forse il più feroce, voleva vedere in certe scarpe alla polacca che il Cresti portava con ostentazione, una specie di dichiarazione per la bella sua cuginetta che abitava al Castelletto. Altri nelle doppie suole e nei talloni alti di quelle scarpe volevan vedere lo sforzo d'un uomo corto di gambe per sollevarsi di qualche centimetro sul livello normale del lago. Cresti lasciava dire e si limitava a sogghignare di quel sorriso muto, che gli irritava le mandibole sporgenti senza arrivare a muoverle: o digrignava i denti o si lasciava trascinare a pungere il suo tormentatore col puntale dell'ombrello eternamente chiuso. In fondo sentiva che tutti gli volevan bene e che in un momento grave sapevan far conto dell'ortolano del Pioppino. Ezio Bagliani, per esempio, il più dissipato di tutti, aveva più d'una volta ricorso all'aiuto segreto di Beniamino Cresti, quando nelle sue strettezze di studente, non osava affrontare la faccia dura di papà: e non sempre, pare, aveva restituito con precisione. Maggiore di lui una buona dozzina d'anni, il Cresti si permetteva di considerare l'allegro giovinotto quasi come un suo nipote, gli dava spesso consigli brevi, espliciti, opportuni, che non andavano sempre perduti, specialmente quando il giovane si gloriava della sua compagnia del caffè Storchi e del Ravellino. La vita dissipata di Ezio, i suoi rapporti costosi con la famosa Liana non erano un mistero per Beniamino Cresti, che deplorava spesso sinceramente che un giovine di così bell'ingegno, ricco, simpaticissimo, perdesse il suo tempo coi Lulù e coi decadenti del Circolo dell'Asse di cuore, una combriccola di eleganti malviventi.

A Massimo Bagliani, zio di Ezio, oltre a un lontano rapporto di parentela lo legava un'antica amicizia fatta a Torino, quando l'uno studiava all'Accademia militare e lui attendeva agli studi di legge. Per quanto lontani d'indole e di studi, o forse appunto per questo, la loro buona amicizia era andata crescendo col tempo e colla distanza, che è, come vuole il proverbio, il vento che fa crescere la fiamma. Le peripezie amorose di Massimo Bagliani l'avevano commosso: l'ingiustizia di cui era stato vittima aveva trovato nella naturale misantropia dell'amico Cresti un terreno preparato apposta per germogliare.

Già poco inclinato a credere nella bontà degli uomini (e cogli uomini, come quel predicatore, intendeva anche le donne), il caso di Massimo ribadì nel cuore di Beniamino che un uomo è lupo all'altro e che non si è mai tanto sicuri come quando si è soli. Per questo si era confinato in quel suo Pioppino, lassù, a coltivare cavoli e rose. Finiti gli studi legali avrebbe ben potuto percorrere una buona carriera negli uffici erariali, perché non mancava di una certa disposizione agli studi economici, specialmente nella statistica; ma il nostro Cresti non potè mai conciliare l'ingegno col temperamento. Mentre l'uno avrebbe voluto andar diritto allo scopo come una palla da bigliardo sotto i colpi di un buon giocatore, l'altro, l'animale restío e instabile, s'impuntava per ogni ombra, per ogni frasca. Sdegnando di essere un mediocre, sdegnando le arti di riuscire, sdegnando gl'inchini, sentendosi troppo migliore di cento altri, che fanno fortuna, per rassegnarsi a far come loro, il misantropo del Pioppino si era ridotto a vivere della sua rendita e a rinchiudersi nel guscio come una lumaca. Suo padre, morendo, gli aveva lasciato tanto da vivere bene, col reddito d'un grosso fondo sul lodigiano, una casa a Como, e un pezzo di montagna sul lago, dove si ritirò in seguito al suo primo disinganno d'amore, e donde non si moveva quasi mai, tranne le poche volte che scendeva a dare un'occhiata alle sue risaie di S. Angelo, o a vedere un carnevale a Milano. Ma un cavolo e una rosa del Pioppino valevano per Cresti tutti i migliori prodotti della civiltà. Nella rozza compagnia di due zitelle, dette da cinquant'anni le ragazze, che erano cresciute e invecchiate con lui, amando in lui la tradizione di una grossa famiglia ridotta a quest'ultimo filo, si trovò sui trentasette anni, cioè quasi vecchio, senza avere provato il piacere di esser giovane. Oltre alla poca amministrazione della roba sua, non rifiutava qualche servizietto al Comune e qualche consiglio gratuito ai vicini possidenti, che amano litigare; ma faceva presto capire che preferiva d'esser lasciato in pace. L'unica sua visita quasi giornaliera era per le signore del Castelletto, dove restava anche volentieri a giocare agli scacchi con Flora, colla Flora dai capelli rossi, che l'irritava continuamente con mosse contrarie ad ogni regola di giuoco. La signorina leggeva bene l'inglese e Cresti, che non conosceva l'inglese, le regalava regolarmente tutti i romanzi dell'eterna collezione Tauchnitz, i più bei Christmass illustrati che uscissero a Londra: e così tra una partita e l'altra, passava mediocremente l'inverno. Coll'aprirsi della bella stagione rifioriva coll'orto anche l'ortolano. Intorno alla casa del Pioppino c'era coll'orto anche una vigna e tra l'orto e la vigna correvano spalliere delle più belle pere, filari delle più belle rose, due specialità in cui il signor Cresti era ritenuto insuperabile: tra le pere un esemplare superbo di Martino Secco, buono d'inverno, era rinomato su tutto il lago; e tra le rose famosa era una varietà di borracine, ora così trascurate, e pur così belle nella loro gonnella verdicina e molle e nei colori teneri di carnagione umana.

Un suono di cornetta avvertì il Cresti che il battello era in vista alla punta del Barbianello. Massimo Bagliani, rassicurato che la sua presenza in Tremezzina non sarebbe stata cagione di conflitti diplomatici, aveva scritto segretamente a Cresti che sarebbe venuto il giorno tale, l'ora tale, ma non dicesse nulla per il momento a Villa Serena, al Castelletto e in altri luoghi, volendo prima abituarsi alla respirazione della nuova aria e rientrare a poco a poco nelle antiche impressioni con quella prudenza con cui si entra in un'acqua un po' troppo fredda.

Se il Cresti apparteneva alla schiera di coloro che diffidano degli uomini, questo signor Massimo, che stava per arrivare, apparteneva a quella non meno numerosa di coloro che diffidano di sè stessi, cioè ai malati di troppa riflessione.

L'uno era uno scontroso, l'altro un timido, colla differenza che c'è fra una capra ostinata capace di cozzare, anche coi corni rotti, contro un pilastro, e un coniglio a cui lo scatto d'una trappola fa battere il cuore fino alla soffocazione. Il Cresti, rimasto sempre solo, s'era rinforzato nella sua selvatichezza, che è come le squamme per gli animali deboli. Massimo, in frequenti contatti cogli uomini e colle cose, dopo aver viaggiato le quattro vie del mondo e preso parte ai delicati intrighi della diplomazia, tornava a casa dopo dodici anni d'assenza, un po' meglio dotato di quella esperienza che insegna a compatire negli altri anche sè stesso.

Quando un nuovo suono di cornetta avvisò che il battello stava per approdare, il cuore del Cresti si mosse sotto l'impulso di un soave sentimento, che gli fece correre la saliva per la bocca. In questi lunghi dodici anni, per quanto divisi dagli oceani, i due vecchi amici non avevan mai cessato di scriversi, ed eran state lettere lunghe, espansive, come sogliono essere quelle delle persone che parlan poco. S'eran lasciati giovani, nel fiore della vita, e stavano per rivedersi, non vecchi, ma al volgere di quella seconda età, che può dirsi il settembre della vita. Le foglie non cadono ancora, ma è bene che non piova troppo sopra le piante. Il tempo che abbrunisce le muraglie e dà la patina al bronzo, non passa inutilmente sulla facciata e sull'interno d'un uomo. Alcune idee e molte parole ch'eran già fresche in giovinezza hanno ora un aspetto secco, altre prima così care e preziose diventarono trite e frivole; la voce ha un tono più basso e l'illusione che prima volava in un cielo spazioso, se non è morta, vive malinconicamente in una gabbia.

Quando il battelliere sonò la campana e gridò la stazione di Tremezzo, un signore vestito d'un perfetto costume di viaggio, con una borsetta di cuoio a tracolla, girò il canocchiale che aveva agli occhi e cercò di scoprire nella folla che si addensava all'imbarcadero una figura d'uomo che gli ricordasse il vecchio amico; e quando il battello cominciò a rallentare, provò ad agitare il fazzoletto, a cui rispose un ombrello chiuso dalla riva, un segnale da innamorati che ebbe la forza di farli arrossire tutti due. Massimo, dopo aver ben bene esplorato, visto che non c'eran signore di sua conoscenza, si rallegrò vivamente. Cresti aveva obbedito alla consegna. Un incontro improvviso con una certa signora, lì sul ponte dello sbarco, sarebbe stata una cosa molto imbarazzante.

Il battello appoggiò adagio adagio, scricchiolò contro i pali e la folla cominciò ad incontrarsi sul ponticello mobile. Quasi sospinto da essa e dai facchini che trasportavano i bagagli, il commendatore Massimo Bagliani si trovò, non sapeva ben dire in che modo, all'ombra d'una robinia con due mani nelle mani, davanti a un ometto vestito di grigio, che aveva lasciata crescere una barbetta crespa sopra una faccia di terra cotta, in cui brillavano due occhi neri, la faccia bruna di can barbino dell'unico e invariabile suo amico Cresti. E questi, dopo aver palpata e allacciata colle braccia la rotondità d'una discreta pancia che dodici anni prima non esisteva ancora, si arrampicò sull'amico colossale e volle baciarlo e farsi baciare: tutto questo in silenzio, s'intende, come è bene di fare quando si avrebbero troppe cose a dire. Pareva quasi che piangessero; ma bisognò occuparsi subito del bagaglio, che un rapace portiere d'albergo pretendeva di portar via.

Tognina—disse il Cresti a una delle due ragazze, che era discesa con una gran gerla sulle spalle—prendi queste tre valigie.

La donna mise la roba nella gerla, caricò questa senza fatica sulle vecchie spalle abituate da cinquant'anni a portar ben altri pesi e andò avanti a battere la strada per un viottolo sassoso che si distaccava quasi immediatamente dalla via grande presso la chiesa e si arrampicava a scalini disuguali su per la schiena del monte.

—In questi paesi o su o giù, in piano se si può—disse finalmente Cresti, che pareva diventato un turacciolo accanto alla massa corpulenta del signor commendatore, che somigliava piuttosto a un fiaschetto di Chianti.—Tu avrai dio sa che sete e che fame: ma intanto che noi facciamo questi centotre scalini, l'Angiolina, che ci ha visti partire dal battello, fa andare il risotto a tutto vapore.

—Centotre scalini…?—domandò l'ambasciatore con un senso di sgomento, soffermandosi sopra uno dei primi dodici.

—Ma poi la strada va piana. Ti ricorderai dell'Angiolina e della
Tognina, le nostre due ragazze d'una volta. Questa è la Tognina.
Guardalo un po', Tognina: lo riconosci? non si è fatto più bello?

La Tognina che s'era voltata d'un terzo sopra i suoi zoccoli, colle braccia arcuate come le anse d'una anfora, dopo aver arrossito al di sotto della ruvida corteccia, disse colla cantilena del paese:—Stava forse un pochetto più bene nella montura: però il tempo non gli ha fatto male, sor Massimo.

—Sor commendatore, si dice—corresse il Cresti.

—Bisognerà pure che ci lasci parlare a nostro modo.

—Hai proprio detto centotre scalini?—chiese ancora Massimo, fermandosi a prendere un po' di fiato all'ombra di una cappelletta sull'incontro di tre viottoli.

—Il tempo di cuocere il risotto: abbi pazienza!

—C'eran questi centotre scalini dodici anni fa?

—C'erano, ma forse erano più dolci. Anche i sassi peggiorano col tempo. Al Pioppino non troverai nulla di cambiato, nè un chiodo, nè una sedia, nè una stoffa. Non manca che quella povera donnetta di mia madre, che ho fatto portare laggiù, dove spunta quel cipresso. Era il suo gusto negli ultimi anni di stare alla finestra a vedere il lago; e spero di andare anch'io a mio tempo a vederlo da quel cipresso. È stata lei che ha voluto far rinfrescare questa cappelletta e ritoccare questa brutta Immacolata, per la quale aveva una divozione speciale. A volte si dice: peccato non poter credere!…. Del resto qui il tempo passa che tu non te ne accorgi. Non è scomparsa la neve che ci son le violette; le violette cedono il posto al fiordaliso e al papavero; questi all'uva, l'uva alle castagne, le castagne alle nebbie e al freddo.

—E alle partite a scacchi….—aggiunse l'amico con intenzione.

—Anche—confermò l'altro, arrossendo un poco.

—Si ricorda ancora la piccola Flora di me?

—Piccola…. Tu vedrai che donnone s'è fatta.

—Sicuro, dodici anni son molti: me ne accorgo al peso di questi scalini.

—Forse io ti faccio correre troppo.

—La diplomazia va sempre adagio nelle cose sue.

—Ha sempre questa bella pancia la diplomazia?

—Non giudicare dalle apparenze. Vorrei che il cuore fosse più giusto.
E invece fa quel che vuole.

—Tre mesi al Pioppino guariscono tutti i mali.

—Faremo i nostri conti.

Finita la scalinata, la strada prese a serpeggiare tra due muricciuoli alti, ombreggiati dai gelsi e dalle piante di fico, che sporgevano dai campi: salì poi un trattino dura e selciata, finchè la comitiva si fermò a un cancelletto dipinto in rosso che metteva in un brolo, e il brolo era attraversato nel suo lungo da un viale fiancheggiato da due folte siepi di grossa mortella regolata e riquadrata come un muricciuolo. In fondo a questo viale partiva una scala di cinque o sei gradini lunghi di vecchia pietra sconnessa con grossi vasi di limone ai lati, fino a un portichetto quasi rustico da dove l'occhio spiccavasi liberamente su tutta quanta la superficie del lago, da Lezzeno fino alle lontane sponde di Bellano o di Dervio, con tutto quanto il monte Legnone per prospettiva, come se la montagna fosse stata fatta apposta e messa lì nell'arco di quel portichetto.

—Qui è la mia officina, il mio salotto d'estate, il luogo dove faccio i miei sonnellini, quando è troppo caldo. Quassù vedi i nidi delle rondini che mi tengono buona compagnia: per di qua si va in cucina: qua c'è un grottino fresco per il vin vecchio: per di qui si passa agli appartamenti superiori, da dove la vista è ancora più larga. Ti ho fatta preparare la stanza d'angolo che godeva la povera mamma e ti prego, se non vuoi che vada in collera, di comandare come se fossi in casa tua. L'Angiolina è ai tuoi ordini e tu le dirai quel che fa bene e quel che non fa bene al tuo stomaco, se vuoi il caffè alla mattina o la cioccolata.

Cresti non aveva mai detto tante parole in un mese quante ne disse quel giorno, in cui sentiva moversi dentro e ronzare tutto uno sciame di memorie di cose pensate e non dette, di sensazioni rimaste chiuse e come sprofondate nei crepacci più oscuri della sua coscienza d'uomo solitario e irritabile. A Massimo aveva scritto d'un certo suo progetto in aria e Massimo era venuto per aiutare un povero uomo a tirare abbasso questo grosso pallone, in cui viaggiava una sublime speranza.

Flora, quella Flora dai folti capelli rossi, quella bambina che in dodici anni si era fatta un donnone aveva ormai preso possesso del suo cuore…. L'idea ch'egli potesse essere per Flora qualche cosa di più d'un vecchio amico andava prendendo da un anno in qua sempre più consistenza: e più ci pensava e più gli pareva di ribadire quell'uncino nel cuore. E batti e batti, ormai se lo sentiva così conficcato quell'uncino che levarlo da sè non avrebbe saputo senza lacerarne tutta la carne. Ecco perchè aveva fatto venire un amico dalla mano medica e delicata. Era strano, quasi inesplicabile alla sua età (trentasette anni e mesi); ma ormai non c'era più dubbio: egli era innamorato. Innamorato, egli, Cresti, d'una figliuola di ventidue anni, di quella figliuola là? egli che si sentiva non vecchio fisicamente, ma esteticamente vecchio e giunto a quella sazietà della vita che fa parere tutto finito? Eppure era così, cari signori! e questa passione era per lui molto più formidabile in quanto si presentava al vecchietto con un'attrattiva nuova e sorprendente, non come un ritorno d'un'antica primavera, non come un bel giorno di tardo autunno, ma come un fenomeno non mai nè provato, nè previsto, con tutti gl'incanti e con tutte le seduzioni d'un amore di sedici anni. Egli non aveva mai amato così, a suo tempo, colpa sua, forse: ma il rimorso di non avere saputo amare non faceva che aggiungere uno stimolo di più a questo amore in ritardo e di riparazione.

Qualche volta egli si rimproverava questa debolezza nei frequenti soliloqui con cui istigava se stesso.—Che vuoi che faccia di te quella ragazza? che cosa vuoi ch'ella trovi in te, vecchio e rustico coltivatore di cavoli? ha ben altri ideali per la testa la signorina del Castelletto: o se per non saper far altro, si rassegnasse a sposarti, non ci sarebbe pericolo che s'ingannasse sulle sue stesse intenzioni e che vi trovaste ingannati a vicenda? Nel giuoco d'amore una sola è la partita e a chi tocca lo scacco matto è suo danno.

Mille volte erasi già ripetuto queste considerazioni, stando tutto solo le lunghe sere d'estate sotto il portichetto del Pioppino coll'occhio fisso alla torretta merlata del Castelletto, finchè le case alla riva s'immergevano nelle tenebre e nella luce d'una finestra vedeva passare o credeva di veder passare un'ombra. Di questi suoi scrupoli aveva riempite le ultime lettere a Massimo Bagliani che s'era mosso anche per questo, uscendo da un esilio che, secondo il decreto, doveva essere perpetuo.

La stanza assegnata al signor commendatore era la più grande della casa, forse fin troppo sfogata e larga, con quattro finestre che davano sul lago e sul monte, arredata di vecchi mobili nei quali sì specchiava la luce. Le pareti erano dipinte a calce con strisce rosse intrecciate a rombi in ciascuno dei quali era scarabocchiato un fiorellino celeste, lavoro paziente del vecchio Bargella di Bellano, un imbianchino celebre di cinquant'anni fa, annegato, chi dice nell'acqua chi dice nel vino, un giorno di sant'Anna dopo una famosa baldoria.

Quantunque una vasta tavola rotonda occupasse il mezzo di quello spazioso ammattonato a spina di pesce, c'era ancor posto in giro per una processione. Molti quadri e vecchie stampe occupavano le pareti, tra gli altri il ritratto d'un altro Beniaminus Crestus, notaio camerale, morto a Como nel 1771, che sotto una zazzera imponente accusava anche lui un musetto di buon cane barbino.

Una grande incisione della scuola del Piazzetta rappresentava Amore nella fucina di Vulcano nell'atto che ritrae la mano scottata dalla vampa.

O che non sapeva il piccolo tormentatore dei cuori che il fuoco scotta? il Dio e i ciclopi ridono di lui mentre le lagrime scendono sul bel volto del più crudele dei numi.

—Un per volta ci si scotta tutti…—disse il Cresti, indicando a
Massimo la vecchia stampa, a cui attribuiva qualche valore.

—Col fuoco non si scherza—commentò l'amico.

—Eh…. lo so—disse l'altro, tirando lungo il respiro.

Le due ragazze avevano preparato un magnifico letto coi lenzuoli che sentivano di lavanda, col famoso piumino stato messo insieme a pezzi e bocconi dalla povera signora Caterina durante l'ultima sua malattia coi frastagli del suo vestito da sposa. Ai piedi era un soppedaneo immenso, tutto verde come un prato, su cui spiccavano due pantofole d'un rosso fiammante.

Beniamino corse a spalancare la finestra e:

—Guarda—disse con un sentimento d'orgoglio, come se ci avesse qualche merito nella bella vista.—Ecco Lenno, Azzano, Mezzegra e là in quel verde, villa Serena.

—Dove, dove? chiese subito l'amico, facendo canocchiale col pugno.

—Laggiù alla riva, quel gran giardino colla balaustrata. Infandum, regina, jubes renovare dolorem. Ci andremo domani.

—Domani no; è troppo presto.

—Andremo quando ti sentirai in forze. Non la troverai molto mutata, perchè queste donne tranquille non invecchiano. Sono i nervi che fanno soffrire.

—Mio nipote sa che devo arrivare?

—Glie l'ho detto: e non desidera che di abbracciare il suo caro zio d'America.

—Credi ch'egli sia a parte di quel che è passato tra me e suo padre?

—Ho tutti i motivi per credere che non sappia nulla: a meno che non abbia trovato qualche lettera tra le carte del defunto.—E guarda un po' anche da questa parte—disse il padrone di casa, aprendo l'altra finestra verso levante. I più grossi paesi di Tremezzo e di Cadenabbia eran lì immediatamente sotto i piedi, coi loro alberghi, coi loro tetti accostati e sovrapposti, congiunti da una sottile collana di ville incastonate nei verdi giardini, tra cui, sopra un minuscolo promontorio, il Castelletto colla sua brutta torretta dipinta,

La colazione servita nel salotto che dava sulla parte più fiorita del giardino fu veramente degna di un diplomatico, e le ore passarono come un sogno nel riandare le centomila cose passate, quelle morte, quelle che non avevan potuto nascere e che avrebbero dovuto nascere meglio. Dopo aver fatta una visita alle pere e alle rose, all'ombra di due grandi cappelli di paglia, il signor commendatore accettò volentieri il consiglio di ritirarsi in camera a fare un sonnellino. C'era a questo scopo una poltrona grande come un bagno, aperta come la misericordia di Dio, nella quale Massimo si raccolse per prendere il volo verso riposati lidi, mentre le foglie delle piante battute dal vento mandavano un barbaglio di ombre attraverso alle gelosie sopra il soffitto e sulla rosicchiata cornice del vecchio notaio.

Le cicale cantavano a tutto cantare nella lenta e calda quiete di quella giornata di agosto.

II.

Due amici giovani.

Sonava la mezzanotte a S. Giovanni di Bellagio, quando Ezio Bagliani e il contino Andreino Lulli, detto anche Lolò, sfuggendo alla baraonda, scioglievano il canotto dagli anelli della darsena e si staccavano dal piccolo molo del Ravellino.

Dal Ravellino a Villa Serena, a lago tranquillo, è una traversata di una mezz'ora o poco più; ma per i due giovani, che uscivano caldi dalla baldoria e che avevano da mettere d'accordo l'acqua un po' grossa del lago col vino bevuto a tavola, fu impresa alquanto più complicata.

—Vuol dare a intendere che è Sciampagna di dodici lire…. brontolò
Ezio Bagliani, continuando un discorso già avviato nel giardino.

—È del vin d'Asti malvestito in carta d'argento—soggiunse don
Andreino, che andava cercando suoi remi in fondo al canotto.

Dalla voce rauca e sepolta si capiva che Asti o Sciampagna ne avevano bevuto un poco più della loro sete. C'era nel loro confuso risentimento anche un segreto rancore contro un così detto Cognac tre stelle, che don Erminio Bersi aveva travasato agli amici senza economia. Lolò mezzo istupidito, per quanto annaspasse colle mani, non riusciva a discernere il capo dalla coda de' suoi remi: e rideva, rideva della sua incapacità d'un bel ridere fatuo, in faccia alla luna che bianca e tonda versava sull'acqua una bella luce tremolante.

Tutte le cime dei monti che circondavano il lago si disegnavano nitide sul cielo: in fondo il Legnone e la Grigna, due colossi, che parevano ingranditi in una misteriosa trasparenza, e più avanti gli altri monti più modesti, dai nomi meno conosciuti, dalla fisionomia meno espressiva, che versavano i loro fianchi ossuti nei golfi oscuri, densi di ombre e di secreti.

Nella spaccatura della Val d'Intelvi disegnavasi nel palpito lunare una specie di scena interna, profonda, in cui dominava come su un altare il Santuario di Sant'Anna.

Tutta la bella Tremezzina era lì spiegata in una sfilata di case immerse nella gran pace dell'ora notturna, solenne, tremolante di sogni.

—Lavora, fannullone—comandò Ezio Bagliani che nella sua qualità di vice-presidente della Società dei Canottieri era detto anche il vice-ammiraglio. E per essere più sciolto si tolse la giacca e il cappello, che buttò sul sedile di poppa.—Andiamo, in quattro colpi siamo al di là.

—Sento una zampa d'aragosta che mi graffia lo stomaco—sogghignò don Andreino, che alle prime ondulazioni del canotto credette veramente che qualche cosa di vivo si movesse in mezzo allo Sciampagna. Non riuscendo nè di reggersi, nè di star seduto sulla banchina, andava brancicando in ginocchio tra le assicelle del legno in traccia d'una pipa che gli era sfuggita dal taschino e di cui non poteva più far senza.

Il suo compagno, più forte, più superbo, dopo aver cercato di dominare il suo vino col dirne male, afferrò i remi e colla salda vigorìa de' suoi ventiquattro anni, riattivata l'energia dei muscoli e svampati i bollori al soffio dell'aria frizzante, cominciò a battere l'onda con colpi lunghi e ben assestati, che fecero volare il canotto riluttante tra i larghi cumuli d'acqua, resi pesanti da un contrario venticello di tramontana.

All'improvviso un colpo di pistola risonò nel grave silenzio a risvegliare gli echi più addormentati della montagna.

—È ancora quella pazza ubbriaca di Vera che tira ai palloncini: finirà coll'ammazzare qualcuno, se non la fanno smettere—disse Ezio.

Sul terrazzo del Ravellino dondolavano al vento gli ultimi palloncini d'una illuminazione giapponese che don Erminio Bersi aveva allestita in onore degli amici e di certe sue amiche, mentre or sì or no venivano sui voli d'aria gli ultimi schiamazzi della baldoria. Rovinato nel credito, diffidato dai parenti, perseguitato dai malvagi creditori don Erminio Bersi a trent'anni, messo nel bivio o d'imbarcarsi per l'America o di sposare le ottocentomila lire d'una Pezzani di Codogno, un nome quasi glorioso nell'industria del formaggio, aveva preferito le ottocentomila lire; ma prima di dare un estremo addio al mondo e alle sue pompe aveva voluto radunare un'ultima volta al Ravellino gli amici dell'Asse di cuore e gli altri ch'eran soliti ritrovarsi con lui d'inverno nelle sale superiori del Caffè Storchi a Milano, cioè oltre a Ezio Bagliani e ad Andreino Lulli, Tito Netti, Filippino Doria, il marchese Schiavi e le più ragionevoli loro amiche, tra cui Vera Spino, Liana detta la Spagnuola e quella patetica Gismonda, mima simbolica, come dicevano gli adoratori, bellezza trasparente che morì tisica a San Remo, dopo aver rovinato un paio di principi russi.

Nelle sale del Caffè Storchi i compagni dell'Asso di cuore non pretendevano di far dell'accademia, nè della politica, nè dell'economia sociale; ma semplicemente divertirsi nel miglior modo, ciascuno secondo i propri mezzi e le proprie facoltà. Vi si cenava spesso dopo i teatri, vi si facevano dei giuochi atletici, della ginnastica svedese, dello sport da camera, vi si giuocava a scopa, a bezigue, perfino alla briscola plebea: vi si declamavano delle concioni e dei versi, si cantava, si miagolava su un disperato pianoforte, vi si facevano insomma delle allegre goffaggini in mezzo al fumo degli avana e delle pipette di gesso all'unico intento di non sentire il peso della noia, che facilmente strapiomba su chi ha poco da fare e nulla da pensare. Tutto era permesso, tranne il dire una cosa troppo seria e troppo sensata. Chi si fosse lasciato scappare di bocca una sentenza o un proverbio con intendimento pedagogico doveva pagare o scontare il delitto con qualche speciale supplizio. La notte che arrivò il telegramma che annunciava il disastro di Dogali, per non lasciarsi traviare a sentimenti di troppa commozione, Filippino Doria comandò gli esercizii militari e per una mezz'ora condusse intorno al biliardo la schiera degli Ascari ammantati in bianche tovaglie, col viso dipinto di cioccolata, finchè fu decretata la morte di Ras Alula nella persona di Lolò, cioè del contino Lulli. Gli fecero una testa africana col nero fumo, lo addobbarono di tovaglioli e punf…. lo fucilarono con le stecche. Liana per simulare il sangue gli versò nel colletto della camicia una mezza bottiglia di vin di Barolo.

A parte questi giochi eran del resto tutti buoni figliuoli; buoni, s'intende, a far nulla; ma già qualcuno cominciava a capire che a questo mondo non si è venuti soltanto per far delle schiocchezze. Erminio Bersi stava per prender moglie; Ezio Bagliani carezzava l'idea di finire i suoi studi legali e di pigliarsi una buona volta la sua laurea a Genova o a Pisa. Don Andreino, trascinato nell'orbita di suo cugino deputato, il conte Andrea della Roncaglia, mescolava alle corse, alle regate, un po' di sport elettorale e qualche sua personale velleità politica,

—Sei proprio in collera del tutto con Liana?—chiese don Andreino, quando dopo infiniti patimenti ebbe finalmente infilato il remo in una forcella.—Mi ha detto che tu le fai un gran male,

—Ne ho gusto.

—Non vuoi proprio più saperne di lei?

—Non si è già consolata abbastanza col suo americano?

—L'americano è un ripiego.

—Sai quel che mi ha fatto a Nizza?

—Lo so: ma tu sei troppo feroce, Ezio.

—Vada a farsi benedire. Mi ha seccato abbastanza. E poi ho bisogno di far giudizio quest'inverno.

—Ho capito—soggiunse Lolò quasi piagnucolando—vuoi prender moglie anche te. Allora io faccio il deputato.

—Bada, tieni a destra. Vedo laggiù al Castelletto la finestra di mia cugina Flora ancora illuminata. Andiamo ad augurarle la buona notte.

—Due minuti dopo il canotto ballonzava sotto il terrazzo d'una modesta casa posta a picco sul lago sostenuta da tre archi di muro e coronata da una torricciuola merlata dipinta a striscie rosse e nere, che giustificava agli occhi della gente il nome di Castelletto. Per quanto umile e goffa nella sua struttura di pasticcio mal riuscito, tuttavia all'indulgente raggio della luna anche quel vecchio rudere di casa colorata, chiusa tra un cipresso da una parte o un gran ciuffo di oleandri dall'altra, aveva la sua modesta poesia.

—Ohe, Flora…—gridò Ezio, intonando il deh vieni alla finestra del Don Giovanni. La finestra illuminata si aprì e dalla porta a vetri uscì sulla terrazza la ragazza dai capelli rossi, in una vestaglia chiara, che il raggio candido della luna avvolse d'una luce patetica.

—Che fate in giro a quest'ora, vagabondi? gridò Flora.

—E tu che cosa fai al mesto lume della lucerna?

—Sto copiando quella tua dissertazione di laurea. Sai che il tuo gobbetto ha una scritturaccia da gallina?

—Ti presento don Andreino Lulli, una grande autorità sportistica e un futuro uomo politico.

—Per celia, signorina—corresse il contino agitando il cappello.

—I vostri schiamazzi dal Ravellino arrivano fin qua, Chi è che giuoca al bersaglio?

—Vogliono ammazzare la luna.

—È una vergogna, a quest'ora.

—La mamma sta bene?

—Dorme.

—Non logorarti troppo gli occhi per me, povera Flora. Domattina sei in casa?

—Sempre ci siamo.

—Mi pigliate a colazione? ma sans-gêne; due uova, due fette di salame e un caffè nero. Vedremo di leggere insieme qualche pagina di questo malaugurato scarabocchio.

—Va bene: alle nove?

—Alle nove. Addio, Flora…

—Addio—rispose Flora, alzando la voce per seguire il canotto che si allontanava come una freccia: e le parve che un piccolo eco nascosto in qualche crepa del monte opposto ripetesse di là del lago;—Addio….

* * * * *

Villa Serena nel seno più interno della riva spiccava solitaria nel giardino vasto e oscuro, che l'abbracciava tutta nelle sue ombre profonde. Era una casa aperta sul lago con terrazzo a lunga balaustra di pietra bigia, ornato di grossi vasi di sasso, colla facciata d'una gravità signorile senza pompa e senza leziosaggini, una casa ancora senza storia, che Camillo Bagliani, il padre di Ezio aveva acquistato poco prima della morte della sua prima moglie. Vi aveva poi condotta la seconda moglie, Vincenzina, vi aveva raccolto le sue memorie e vi era morto anche lui da poco tempo, dopo aver passato gli ultimi anni di vita in uno stato di lenta paralisi sul balcone della camera che prospetta il piano più vasto del lago.

Ezio vi era, si può dire, cresciuto negli anni più belli della sua giovinezza e dopo la morte del babbo considerava Villa Serena come il rifugio delle sue idee migliori. Per rispetto a donna Vincenzina, sua seconda madre, l'eco dello gazzarre del Ravellino non vi doveva nemmeno arrivare e dagli amici suoi, tranne questo contino Lulli, che aveva una specie di salvacondotto nel titolo e nell'onorabilità del nome, nessuno altro era mai stato introdotto tra le ombre oneste e tranquille di quell'angolo invidiato. Ezio sapeva e voleva che gli altri avessero a distinguere tra il compagnone allegro e il padrone di casa. I piaceri della vita non l'ubbriacavano mai fino al punto di fargli perdere il sentimento de' suoi doveri, e in questa specie di governo di se stesso era la sua forza e la sua superiorità su tutti gli altri che gli facevano la corte. Questo senso di orgoglio lo faceva parere molte volte duro e aristocratico ai democraticoni della gazzarra, pei quali lo stravizio non ha bisogno di guanti e nemmeno di brache: ma Ezio voleva essere aristocratico, e sapeva di esserlo, magnificamente, quando era il caso. Quarantamila lire di rendita ben amministrata gli potevan concedere questo lusso.

Il canotto con una giratina magistrale imboccò l'arco oscuro della darsena e andò ad arrestarsi ai piedi della scala che mena al giardino. Ma il luogo era così buio che lo sbarcare non fu cosa facile. Ezio saltò a terra per il primo, tirò il legno a riva, lo legò, a tastoni, colla catena, bestemmiando contro quell'animale di Moschino che non era venuto incontro colla lanterna. Accese un zolfanello per rompere l'oscurità e alla fiamma che rischiarò l'antro vide il ragazzetto seduto sulla scala, addormentato, colla lanterna morta tra le gambe.

—Aspetta, lazzarone!—brontolò, frenando con fatica la voglia di farlo rotolare nell'acqua. E presa uno ciotola di legno, di quelle che servono a vuotar le barche, la riempì fino all'orlo e versò tutta l'acqua sulla testa di Moschino, che gettò un urlo di spavento. Il battesimo discese e serpeggiò fresco fino in fondo alla schiena.

—È così che tieni il lume acceso, pigro animalaccio?—gridò il padroncino, mentre il disgraziato si dibatteva nei panni bagnati.—Alza il lampione, se non vuoi che con un calcio ti butti dentro.—Il ragazzo che conosceva per prova le furie del signorino, si alzò grugnendo, levò il lampioncino di vetro: ma l'acqua aveva così bagnato il lucignolo che si dovette rinunziare a ogni tentativo di accenderlo.

Bisognò far di necessità virtù, arrabattarsi al buio e persuadere Andreino a uscir dalla barca: ma nel frattempo Lolò s'era beatissimamente addormentato nel fondo e giaceva come un sacco di cenci. Abbruciandogli due o tre zolfanelli sotto il naso, Ezio potè richiamarlo un poco ai sensi e persuaderlo a lasciarsi tirar fuori: ma il contino che sentiva la zampa dell'aragosta grattargli l'ugola, cominciò a piangere sulla sua sventura e a dichiarare d'essere il più vile vermiciattolo che si nutra di fango e altre di quelle melanconiche amarezze, da cui son presi i nobili spiriti che hanno un'aragosta e del cattivo Sciampagna sullo stomaco.

Colle buone e colle brusche Ezio, che in queste tragedie non era alle sue prime prove, potè finalmente schiodarlo dall'asse, impedì che il più infelice degli uomini tuffasse le scarpette nell'acqua buia della darsena, lo tirò sulla scala e a urti e a spintoni lo condusse per l'oscura galleria alla luce del giardino. Era un peccato che don Andreino non fosse in grado di ammirare la mite bellezza e l'incanto della luce lunare, che stendevasi come un lenzuolo bianco sul piazzaletto ghiaioso e gocciolava in vaghissime falde di neve nell'ombra dei viali senza riuscire a dissiparne l'oscurità,

Tra una massa densa di cupe conifere e una parete di mimose, d'aloè, di bambù, l'oscuro e tortuoso sentiero conduceva alla casa dove tutti, fortunatamente, dormivano in quell'ora piccina, nella calma profonda in cui il batter lento dell'onda pare anch'esso il respiro della notte addormentata.

Don Andreino un po' sostenuto, un po' trascinato dalla mano robusta dell'amico, non cessava di ripetere quel che aveva già detto le cento volte, cioè, ch'egli era il più miserabile degli uomini, più vile del più vile vermiciattolo che mangi il fango della terra: e ogni qual tratto faceva il tentativo di fermarsi per dichiararsi indegno di riporre il piede sotto il tetto ospitale del più generoso degli uomini. Alle parole seguivano teneri abbracci, singhiozzi e vere lagrime di tenerezza, a cui Ezio non sapeva opporre che frasi sorde come queste: Sta zitto, asino: non svegliare quei di casa. Sì, vermicciattolo, taci che ora ti mettiamo a letto.

Moschino corse in cucina a prendere un lume e per la scaletta di servizio venne fatto a tutti e due di spingere il giovine ubbriaco fino a una stanzina, che di solito serviva al guattero di casa. Lolò cadde sul letto, su cui Ezio distese un coltrone e lo lasciò mormorando: Ora ne hai fino a domani sera.

Moschino accompagnò il padroncino fin sulla soglia della stanza e tornò a cercare il suo letto. Nello strapparsi di dosso i vestiti bagnati, che mandavano un forte odore di pesce, mormorava:—E dicon porci a noi!—Ma il sonno scese presto a dissipare ogni rancore. Anche Ezio si addormentò presto, rotto com'era dalla fatica: e non sognò che un chiarore vago di luna in cui una voce, la voce di Flora, andava leggendo qualche cosa ch'egli non riusciva a capire.

III.

Studi severi.

Non si svegliò prima delle sette e il suo pensiero corse subito alla promessa fatta a Flora.

Sonò. La vecchia Bernarda gli portò l'acqua ed il caffè.

—Dirai a don Andreino, quando si sveglia, che mi raggiunga verso le due alla Boliviana, dove si radunerà il comitato delle regate.

Saltò dal letto e compiè la sua toeletta, dopo aver deterso colla spugna nell'acqua diacciata tutto il suo corpo di elegante atleta, che strofinò colla canfora e coll'aceto profumato. Quando si sentì ripulito da tutti i fumi dell'orgia, si vestì della biancheria fresca di bucato, che mandava un buon odore di ireos, spalancò le gelosie verso il lago per lasciar entrare tutta l'aria e tutta la luce della mattina,

Il lago era un tranquillo raso celeste senza una piega da questa all'altra sponda. Per la china dei monti scendeva a pezze disuguali il sole dorato a illuminare il vario verde dei boschi e le capanne più alte, mentre una rara nebbiolina vagolava sui fianchi più bassi e sulle rive che sentivano ancora qualche brivido della notte. Poche barche di pescatori parevano immobili nello specchio, tra cui veniva sbuffando il battello della mattina, che lasciava indietro un pennacchio di fumo.

Il giovane respirò a grandi fiati la freschezza dell'atmosfera e mentre si spazzolava i capelli corti alla repubblicana, sentì il bisogno di far eco zufolando ai gorgheggi delle capinere e dei merli che popolavano i boschetti. Il profumo caldo dell'Olea fragrans veniva dagli sterrati del giardino, che tocco dal primo raggio del sole, che sul lago sorge tardi, schiudeva i suoi verdi, da quello scuro dell'abies nigra, al verde smunto del deodara, a quello paglierino del bambù e al verde luccicante e bagnato del lauro ceraso e della magnolia. E tutta questa festa di verde veniva sbattuta dal riflesso del lago, che faceva luminello sulle pareti della stanza.

Questa era stata già del suo povero babbo. Qui il brav'uomo aveva languito gli ultimi mesi, qui era morto. Vicino a questa camera si apriva lo studio vasto, ancora arredato da solidi scaffali, pieni di libri e di carte, e popolati dei cento oggetti che parlavano della sua vita e delle sue opere. Tra due scaffali un busto di marmo lo rappresentava nel vigore degli anni e della fortuna, quando su proposta di Quintino Sella, che aveva avuto di don Camillo Bagliani un'alta opinione, era stato mandato prefetto in Sicilia in un momento di grave pericolo sociale. E in un quadro era esposta tutta la raccolta delle sue decorazioni, che cominciavano con una piccola medaglia commemorativa della battaglia di Palestro e finivano colla commenda dei SS. Maurizio e Lazzaro.

In faccia al busto del babbo, nello spazio tra le due finestre, in una ricca cornice d'oro pendeva il ritratto a olio di sua madre, la povera contessa Saulina di Pianello, una bellezza dolce e delicata, scomparsa troppo presto tra gli strazi d'un lento esaurimento nervoso.

Questo era per Ezio come un santuario: e quando, sottraendosi alle dissipazioni della vita esterna, poteva raccogliersi una mezza giornata tra le sacre memorie e metter le mani nella corrispondenza di suo padre, il giovane Bagliani sentiva dentro di sè quasi un senso di ribellione contro la miseria di quel suo vivere, tra gente fatua, che nel suo orgoglio istintivo sentiva di stimare meno dei cani.

Fu in uno di questi momenti di resipiscenza che pensò di romperla con Liana, una vagabonda che pretendeva di comandargli e che gli aveva già fatto molte scene disgustose: e da tre mesi si vantava in cuor suo di saper resistere alle tentazioni. Anche il desiderio di dar l'ultimo colpo a' suoi studi e di prendere un titolo accademico secondo il desiderio del povero babbo, andava parlandogli in cuore come un rimorso.

Tra le molte disuguaglianze di spirito che la natura gli aveva regalato c'era in Ezio un fondo massiccio d'orgoglio che gli impediva di scendere fin dove il fango arriva agli occhi. Avveniva che dai più irregolari eccessi, quasi per rifarsi un credito davanti a sè, si chiudeva come un bimbo cocciuto per quindici o venti giorni in camera, dove si dava a studiare a più non posso, come se dovesse pubblicare un nuovo Digesto.

Da un mese era in questo periodo di penitenza e di esercizi spirituali e, se aveva ceduto una notte all'invito di Erminio Bersi, sentiva di esserne tornato ancor più sazio e ancor più convinto che la vita non può essere soltanto in fondo ai piaceri.

Per far venir l'ora di andare da Flora, tolse il violino dall'astuccio e corse una mezz'ora sulle corde, ripetendo a memoria tutte le scale degli esercizi che da cinque o sei anni tormentavano il vecchio strumento. Per quanto la naturale disposizione l'aiutasse, il nostro filarmonico non aveva mai saputo uscire da quella mezza capacità, che fa desiderare e rimpiangere l'altra mezza. Forse aveva ragione di dire il suo maestro Pazzini che i topi avrebbero fatto più presto a rosicchiare lo strumento di quel che Ezio Bagliani a studiarlo. Ma quel poco, così frammentario e rappezzato, gli serviva qualche volta a ingannare il tempo, quel benedetto tempo che in fondo, come si dice, è galantuomo e non merita di essere ingannato.

* * * * *

Prima delle otto al Castelletto era già tutto in ordine e nitido come uno specchio. Dalle sei alle sette Flora nella brezzolina fresca, che veniva dal lago, aveva finito di copiare la grossa dissertazione sulla Complicità, che per settanta lire Ezio aveva acquistata da un povero storpiatello di studente, bisognoso e bravo in questi studi come un Cuiacio. Con quattro raffazzonature di stile gli aveva data apparenza di roba nuova e sperava con quattro ciarle di darla a bere ai professori della Facoltà, che hanno delle dissertazioni, specialmente di quelle grosse, un rispetto quasi istintivo che lì dispensa spesso dal leggerle. Flora aveva dovuto lottare un poco per decifrare gli sgorbi d'una scrittura storpia come il suo autore. Tutto quel gran latino ch'essa non capiva, tutte le citazioni giuridiche e i commenti ermeneutici che avrebbero fatta la disperazione d'un cancelliere, s'eran trasformati, passando sotto la sua penna di acciaio, in una magnifica scrittura violetta, aperta, slanciata, decorata di fregi e di svolazzi che gli eguali non avevano mai veduto i parrucconi dell'Università.

Dalle sette alle sette e mezzo era scesa in giardino a innaffiare i quarantacinque tra vasi e vasetti della sua botanica e a dar da mangiare alle quattro galline del pollaio. Aveva portato il caffè in camera alla mamma e combinato con lei una lista per far onore al quasi cugino di Villa Serena, che si degnava di venire a colazione al Castelletto. Si stabilì che alle due uova si dovesse aggiungere una costoletta di montone, un caffè e panna e un piatto di fichi primaticci. In quanto al vino si poteva far prendere all'osteria un certo bianco non troppo brusco che Ezio aveva una volta portato alle stelle.

Dati gli ordini alla vecchia Nunziata, Flora preparò la tavola sul terrazzo in ombra con quanto vi era di più bello e di meno scornato nella dispensa: e verso le otto si ritirò in camera a lavarsi e a pettinarsi. De' suoi tre vestiti più presentabili scelse uno di percalle celeste a fiorellini bianchi senza cintura, chiuso con una semplice arricciatura intorno al collo: un abito di carattere infantile, che la faceva parere più alta e più leggera. Que' suoi folti capelli color del rame (checchè si dica contro il rosso) non istavano male sopra il percalle scolorito, che oltre a scendere con pieghe morte e lunghe, come si vedon dipinti certi angeli di frate Angelico, coi capelli d'oro, aveva il vantaggio di nascondere un paio di stivaletti non troppo in armonia tra loro.

Mai il tempo non le era parso così lungo e abbondante come quella mattina! o le mani lavoravano troppo in fretta o troppo in fretta lavorava il suo pensiero. Dacchè Ezio aveva ripreso a frequentare il Castelletto col pretesto della Dissertazione, qualche cosa d'insolito era entrato nella vita scolorita ed eguale della casa, che da cinque o sei anni dormiva nella pigrizia delle loro padrone. Flora aveva riaperto il vecchio pianoforte, detto il trappolone, e procurava di farlo stridere meno orribilmente sotto le sue dita di acciaio. Un po' meno di polvere si accumulava sui mobili e qualche ragnatela di meno intorbidava il ritratto della nonna Celina sul fondo slavato della tappezzeria di carta color ulivo.

Quantunque Ezio non fosse per Flora che un cugino posticcio, perchè la zia Vincenzina non era che una seconda madre per il giovane, tuttavia i due ragazzi eran cresciuti, si può dire, insieme all'ombra delle stesse piante; e si trattavano col tu, sebbene la diversità della loro condizione sociale e gli anni passati da Ezio all'università li avesse separati più di quel che fosse nei loro gusti e nei loro intendimenti.

* * * * *

Il Conte Stanislao Polony, padre di Flora, di antica famiglia di Varsavia, era venuto giovanissimo in Italia col celebre poeta Adamo Mickiewicz a offrire il suo braccio alla nostra causa nazionale e dopo aver combattuto nelle cinque giornate di Milano, era stato con altri polacchi incorporato nell'esercito sardo. Aveva col grado di capitano combattuto in Crimea e nel cinquantanove era stato nominato colonnello sul campo. Dopo la pace di Villafranca sposò Matilde Stellini, figlia d'un modesto impiegato della Tesoreria provinciale, la quale lo consolò presto col dono di una bella bambina dai capelli d'oro, i capelli della nonna Celina. Scoppiata la guerra del sessantasei, il conte Polony fu tra le prime file e cadde colpito al cuore alle prime cariche alla testa del suo battaglione, lasciando la moglie e la bambina in qualche strettezza.

I beni dell'antica famiglia erano stati confiscati fin dal dì che i Polony s'eran mescolati ai moti politici del loro paese. Anche la nonna Celina, che ora guardava dal di sopra del pianoforte con uno sguardo tenero, dentro la sua vecchia cornice tarlata, anche questa figurina minuscola dai labbri rosei e dai cappelli di fuoco aveva rappresentata una parte tragica negli avvenimenti e nei rivolgimenti della patria. Donna di singolare energia, accesa di santa fiamma per la causa nazionale, inscritta ad una società segreta, la sua manina delicata aveva saputo assestare una pugnalata mortale al Commissario della polizia russa nell'uscire una notte in mezzo a una frotta di maschere dal teatro dell'opera: e così aveva creduto di vendicare il marito, il conte Vladimiro Polony, che i Russi avevan fatto morire sotto le verghe. Storie d'altri tempi e d'altri cuori, che sembrano leggende d'un altro mondo al nostro stanco quietismo; ma Flora che aveva letto questi casi in un opuscolo stampato a Parigi, dove la contessa Celina era morta in una dignitosa miseria, non poteva guardare in faccia alla scolorita immagine della nonna senza provare nel sangue un piccolo fremito d'orgoglio. Della antica grandezza di casa Polony non ora rimasta che quella cornice d'oro sbiadito, e una cassettina misteriosa che conteneva un pugnaletto sottilissimo e un piccolo guanto di donna tinto di sangue. Ma al fasto delle memorie poco, troppo poco, corrispondeva la tenue pensione che il governo aveva assegnata alla vedova del colonello Polony, e se la zia Vincenzina non fosse venuta spesse volte in soccorso della sorella più povera, troppi giorni tristi avrebbero amareggiata la vita delle due derelitte. La zia, entrata in una casa ricca, provveduta d'ogni bene, non lasciò mai di giovar loro fin dove il soccorso non paresse confinare coll'elemosina. Per loro aveva presa a pigione questa piccola e sconclusionata casa detta del Castelletto, in cui le Polony per economia passavano anche l'inverno. Nei mesi buoni amava avere con sè la nipotina a Villa Serena, che la rallegrava colla sua vivacità: o andava essa stessa a passare qualche ora ogni giorno al Castelletto quando la sorella, già molto scossa dalle frequenti artriti, non si arrischiava di affrontare i soffi dell'aria.

A questa loro sorte le Polony s'erano ormai abituate. Gl'inverni così tiepidi sul lago facevano meno sentire alla madre il tormento dei vecchi dolori che l'obbligavano quasi a un perpetuo ritiro: e in quanto a Flora, per natura già alquanto selvaggia, sapeva trar profitto della sua solitudine, anche quando il sole si specchia nelle nevi, anche nelle più torbide giornate, quando il vento porta le nubi sul lago e batte la pioggia dura contro le finestre. La lettura e lo studio delle lingue, per le quali aveva una disposizione tutta slava, la pittura, il «trappolone» le faccende di casa, le sue buone vicine povere, l'assistenza a un asilo infantile di cui s'era lasciata nominare patronessa, rubavano le ore delle brevi giornate; finchè al tornare dell'aprile il lago cominciava a ripopolarsi. Allora colle rondini tornavano le amiche straniere che son solite passare la primavera in Tremezzina: più tardi si riempivano le ville delle conoscenze più intime. Ricchi e poveri tutti conoscevano la signorina del Castelletto, la contessina, la polacca dai capelli rossi, che per quanto uscisse colle singolarità del suo modo di vivere dalle compassate convenienze, pure era l'anima delle brigate. Non si faceva una scampagnata, non si metteva insieme un ballo o una lotteria di beneficenza senza prendere gli ordini al Castelletto, che veniva considerato come il quartier generale delle buone imprese. In quanto al popolo dei barcaiuoli o dei pescatori considerava ormai la signorina come una figliuola del paese.—Peccato—dicevano qualche volta tra loro i poveretti—peccato che n'abbia pochi….

* * * * *

Per far venir quelle benedette nove che non sonavano mai, Flora sedette davanti al «trappolone» e cominciò a correre colle dita sopra un'indiavolata variazione, che faceva stridere e saltare tutte le corde più svogliate e più addormentate nel cassone; e mentre le note s'inseguivano urtandosi e incalzandosi, il pensiero si lasciava trascinare a vecchie fantasie, a ricordi lontani, ai tempi della più remota fanciullezza, quando era venuta a stabilirsi dopo la morte di suo padre in quest'angolo del lago, in questa casa aperta a tutti i venti; e vedeva Don Camillo Bagliani, un uomo grave che parlava con tristezza; vedeva Ezio, un ragazzo poco più alto di lei, vestito alla marinara, che l'invitava a giocare nel boschetto della villa o la conduceva in barchetta: vedeva la bella zia Vincenzina, ancor giovine in tutto lo splendore de' suoi vent'anni, vestita come una regina, colle sue magnifiche buccole di diamanti. Con uno sguardo riassuntivo (mentre le dita andavano per loro conto sui gialli avori del trappolone) vedeva passare molti anni e molta gente. Gli uni morire, gli altri farsi più grandi, la mamma rinchiudersi sempre più ne' suoi piccoli mali, e delle amiche, che venivano a villeggiare sul lago, quale andar sposa ed essere felice, quale andar monaca ed esserlo di più, quale alzarsi, quale scomparire. Quel che era molti anni fa un piccolo giardino s'era fatto quasi una selva: le rive una volta più deserte s'erano popolate di casette: molti che essa aveva carezzato ragazzi sulla riva c'eran già partiti e ritornati da soldato. Essa sola era stata sempre la stessa; e presso ora a voltare la punta pericolosa dei ventidue anni, si domandava (in un modo confuso che non aspettava risposta) se proprio era scritto che per lei il tempo dovesse sempre passare così.

La mamma avrebbe desiderato ch'ella sposasse il buon Cresti, il misantropo del Pioppino, un misantropo non privo d'una sua singolare amabilità, il fedele compagno delle loro lunghe serate d'inverno, il buono e ruvido Cresti, non più giovane, non di bellezza un sole, ma che avrebbe diviso tanto volentieri la vita con lei e colla mamma.

Cresti voleva dire la tranquillità e l'agiatezza serena per tutta la vita, e ciò non era poco: perchè quando Flora correva fino a immaginare quel che sarebbe di lor due povere donne tra un dieci o dodici anni, non sapeva togliersi a un senso di sgomento. La miseria e la vecchiezza son le due parche più giovani; la morte è la terza. Cresti era un cuore poco espansivo ma solido, ostinato ne' suoi affetti, di gusti selvatici, che non potevano dispiacere a Flora, anch'essa un'erba selvatica dall'aroma forte; ma con tutto questo non era ancor giunto il momento di dirgli di sì.

Posto che Ezio non poteva amar lei già vecchia e stracciona, posto che essa non poteva sposar lui per la grande differenza di condizione sociale: posto che il bel signorino amava divertirsi a modo suo e non aveva alcuna intenzione di legarsi le mani e i piedi: posto ancora che le belle—per quel che se ne diceva—eran già tutte sue e che per far breccia nel suo cuor di ragazzo gaudente ed egoista Venere e Minerva insieme non sarebbero bastate: posto finalmente che una contessina Polony dagli stivaletti scompagnati aveva pure il suo bell'orgoglio di razza—non era il caso di supporre ch'ella resistesse al desiderio della mamma e alla muta adorazione del buon Cresti per qualche segreta speranza o per un'illusione in aria che si fosse messa davanti. Ezio Bagliani—lo sapeva benissimo—non era un ragazzo da vendere la sua libertà a ventiquattro anni a una signorina di ventidue. Diceva anzi nudo e crudo a tutti quelli che volevano sentire che prima dei quarant'anni è follia per un uomo ricco il prender moglie. Troppo bella gli si apriva la vita per tutti i quattro punti cardinali, perchè volesse farsi eremita. Eran queste le massime sue e di tutti quelli che amano, come si dice, godersi la vita. Con chi e che cosa andasse a fare a Nizza nella stagione dei famosi carnevali era il segreto di pulcinella: il nome di Liana e d'altre bellezze non era sconosciuto al Castelletto. Il buon Cresti, che dalla sua solitudine seguiva la cronaca elegante, non si faceva scrupolo di parlarne forte anche in presenza di Flora, di descrivere le belle ossia le brutte avventure del signorino di Villa Serena, che dopo la morte del babbo s'era dato a battere allegramente la cavallina: e metteva quasi un certo gusto, forse un interesse suo, a caricare le tinte e a suscitare nell'animo impressionabile dell'onesta signorina orribili ripugnanze morali.

Con tutto ciò Flora non sentiva ancora per il suo quasi cugino quel senso di ribrezzo che il vizio dovrebbe suscitare in ogni animo ben nato. Per lo meno fin che poteva sperare di poter esercitare qualche benefica influenza, non voleva da parte sua perdere il vantaggio di una posizione indipendente. Essa si era quasi convinta che il cielo l'aveva prescelta a esercitare sopra il giovane dissipato una benefica influenza, quasi la parte di buon genio e non voleva, fin che questa convinzione durava, mettersi in condizione di non poter giovargli quel giorno ch'egli fosse venuto a chiedergli un soccorso.

In che modo le fosse entrato nell'animo questa persuasione non sarebbe difficile dimostrare, quando si ricordi che Flora nei primi anni della giovinezza, allorchè si risvegliano per la prima volta i misteri del cuore, era stata per Ezio la compagnina preferita in tutti i suoi giuochi nel giardino della villa, nelle grotte della vigna, sul lago, sui monti. S'eran più volte misurati nei vani delle finestre, segnando ogni anno l'altezza con molte striscie sul muro: le lettere E F intrecciate si vedevano ancora crescere scolpite nella carnosa corteccia degli aloè. Giochetti da fanciulli, d'accordo. E fu appunto per tagliar corto a questi giochetti pericolosi che don Camillo, il babbo, dalla faccia triste, aveva fatto capire alla zia Vincenzina come non fosse più decorosa una tanta famigliarità tra un giovinetto di quasi vent'anni e una bambina che cresceva alta come un papavero.

La mamma Matilde alla sua volta aveva fatta una lunga predica per dimostrarle che la troppa confidenza fa perdere la riverenza. Ezio non era suo fratello e nemmeno suo cugino giusto, come credeva la gente. Tutto il bene che poteva venir loro da Villa Serena non si aveva ad accettare che come una grazia di cui era dovere corrispondere con riverente riconoscenza e punto lì. Qualche volta scappò detto alla buona mamma che dei signori in genere è bene non fidarsi, perchè i signori meno degli altri capiscono il male che fanno e il bene che non sanno fare. L'egoismo a differenza delle altre passioni, si rinforza nella bambagia e nulla c'è di più crudele come una signorile pigrizia che non vuole scomodarsi.

Questi avvertimenti ripetuti e ribaditi, la sopravvenuta malattia di don Camillo, che durò molti mesi, la catastrofe della sua morte, l'assenza prolungata della zia e di Ezio tennero per quasi due anni separate le due famiglie e intanto il giovine ebbe tempo di dimenticare e di stringere altre amicizie che l'avviarono in un altro ordine di gusti e di preferenze.

* * * * *

Passavano queste immagini nell'onda sonora del trappolone, mescolandosi a una Variazione sulla Norma, una complicazione tremenda di semicrome, che le uscivano macchinalmente dalle dita….

Ora Ezio s'era dato tutto agli studî seri, voleva prendere la sua laurea, non perchè avesse bisogno di attaccare un manico al suo nome, ma perchè non si dicesse da nessuno ch'egli non aveva saputo fare quel che cento imbecilli sanno fare. L'orgoglio non è sempre al servizio del diavolo: e una volta inforcato questo cavallo, Ezio era uomo da camminare un pezzo sulla strada del bene. Era il momento di aiutarlo in tutti i modi, compreso quello di copiar per roba sua una scienza comperata per settanta lire….

Passavano questi pensieri, quando il campanello del portone di strada sonò in un modo più forte del solito, come soleva farlo sonar lui. Ezio era qui: l'orologio segnava le nove precise. Flora alzò uno sguardo alla nonna Celina e si scagliò sulla tastiera per darsi della forza e un contegno di artista ispirata. Sentì il suo passo che attraversava il cortiletto, lo sentì entrare, lo sentì fermo dietro le spalle: e piombò sul triplice finale: boum, boum, boum.

—Boum, boum, boum… questo tuo Listz merita di essere impiccato, ma tu non suoni male. Questa non è musica, ma semplicemente una Norma tirata a coda di cavalli.

—Forse è la prima volta che ne dici una giusta—rispose Flora colla solita spigliatezza, in cui soleva rinforzarsi come in una corazza.—Che sia effetto di quel cappellino nuovo di paglia?

—Che ha ella a dire del mio cappellino di paglia?—disse, mettendosi ritto davanti a un gran vetro allumacato, che faceva da specchio al ritratto della nonna Celina.

—È bello… è stupendo… è degno del padrone.

Egli era in giacchettina chiara con una larga fascia color pomodoro, che spiccava assai bene sopra i suoi calzoni color del burro, cascanti e flosci, da cui usciva un paio di scarpe zafferano,—Che cosa mi manca per essere un bel giovine? Celiò mentre si carezzava colla punta delle dita gli scarsi baffi neri e un cespuglietto di barba crespa incipiente, che dava vigore e forza alla sua faccia abbronzata di vice ammiraglio.

—Mamma, c'è Ezio—disse Flora, andando incontro alla signora Matilde, che entrò ravvolta ne' suoi soliti scialli di lana, come se fossimo in novembre, con in testa la sua cuffietta a nastrini celesti, in cui il suo viso pareva ancor più delicato e pallido: ma la finezza dei lineamenti manteneva in quella donna malaticcia un'apparenza di giovinezza, che i quarantacinque anni avean passato da un pezzo.

—Già in piedi la mia cara zia? quando si va ancora alla Cappelletta in canotto?

—Con te mai più—protestò la zietta, che si ricordava un brutto quarto d'ora.—Non avete nessun rispetto dell'acqua.

—Sono i vostri peccati che fanno il lago cattivo.

—I nostri? chi c'era al Ravellino stanotte? è così che lor signori si preparano agli esami di laurea?

—Tu predichi così bene in quella cuffietta che è peccato non far dei peccati.

—E del tuo conte Lolò che n'hai fatto? chiese Flora,—Dove l'hai fatto fare questo elegante attaccapanni?

—Don Andreino è il più impeccabile degli elegantissimi di Milano. È lui che da il tono alla moda.

—È per questo che porta quel corvattone verde e crespo come l'indìvia?

—È l'ultima parola di Parigi. Don Andreino, così minuscolo come lo vedi, sa a memoria il nome di tutti i cavalli che hanno vinto sui turf d'Europa in questi dodici anni.

—E non quello degli asini che perdono?…—rimbeccò la lingua maledica di Flora.

—Non per nulla tu hai sul capo quei capelli rossi e rabbiosi come bisce.

—Se avete qualche cosa a fare non perdetevi in ciarle—osservò la signora Matilde, prendendo posto nel suo seggiolone di velluto nel vano della finestra, mentre i giovani si mettevano a sedere alla tavola di mezzo.

—Brava, tu hai lavorato come un angelo, biondina, e bisognerà che ti faccia un bel regalo…—Bello, mirabile, incantevole…—andava ripetendo Ezio, mentre faceva passare le pagine del manoscritto.—Questi svolazzi faranno colpo sugli esaminatori.

—Bisogna che rileggiamo insieme qualche pagina che non ho ben capita. Quel tuo gobbetto, a ogni fiato, t'incastra una citazione latina che è uno spasimo.

—Il latino dà il sapore alla scienza come i lardelli allo stufato.

Si cominciò col ridere a questo paragone dei lardelli.

La mamma cercò di far la voce grossa, ma i ragazzi risero ancor più forte. Il sole entrava lieto per le due finestre e andava a battere sul volto di nonna Celina, che pareva rider anche lei nella vecchia cornice.

—Prima permettimi una pregiudiziale, come dite voi legali—soggiunse Flora.—Non c'è pericolo che l'autore di questa dissertazione abbia già presentata per roba sua la tesi o l'abbia già venduta ad altri? tu faresti una brutta figura.

—Punto primo la roba vien da Napoli e da Napoli a Genova c'è di mezzo il mare: punto secondo ho mutato il titolo e il principio dei capitoli: punto terzo i professori non sono così bestie da legger quel che noi presentiamo.

—Allora perchè fate le dissertazioni?

—È un uso così.

—Come le cravatte di Lolò.

—Oh no, più stupido.

—Sarete almeno chiamati a esporre le idee fondamentali del vostro lavoro.

—Questo sì. Sarebbe un'eccessiva imprudenza andare agli esami senza aver letto almeno una volta quel che si è scritto. Vuoi una sigaretta, Flora?

—Cominciamo.

—Cominciamo pure. Leggi tu, mentre io tiro due boccate. Tu permetti, zietta?

—Purchè non si faccian discorsi inutili.

Ezio si abbandonò sulla tavola, appoggiò la testa al palmo della mano, e seguendo coll'occhio il manoscritto originale, invitò Flora a leggere la sua copia.

La giovine cominciò con voce netta e scorrevole:

«Nella legge de Sicariis troviamo eguagliato chi prepara il veleno a chi lo somministra. Qui hominis necandi causa…—vuoi masticarlo tu questo lardello?

Necandi causa—continuò Ezio, mentre Flora seguiva il manoscritto colla punta della penna—venenum confecerit, dederit, vel vendiderit, vel habuerit; quive falsum testimonium dolo malo dixerit… quo… qui… tu hai ragione, questi son scorpioni, non parole,

—Non c'è voluto meno che la mia pazienza e il mio amore per la tua laurea, se ho potuto resistere sino alla fine.

—Tu avrai un bel posto in paradiso.

—Speravo che mi dicessi: ti troverò un bel marito.

—A questo potrò pensarci quando avrò presa la laurea.

—Ahimè misera allora…!—conchiuse ridendo la fanciulla, che sapeva affrontare gli argomenti sdrucciolevoli per darsi il gusto di scivolarvi sopra.

quo… qui pubblico judicio rei capitalis damnaretur… cioè gli si tagli il collo—continuò il mariuolo, che sapeva anche lui scivolare sugli argomenti sdrucciolevoli.

—…—retur—fece eco Flora:—E altrove nella stessa legge Cornelia:—Nihil…

Nihil interest occidat quis an causam mortis praebeat.

—…praebeat, Ottaviano Augusto, Valentiniano, Valente, Graziano sotto il titolo:—de iis qui latrones…..

—Salta il lardello, biondina.

—Ulpiano tiene responsale di furto chi persuade il servo a fuggire e cita la conforme opinione di Pomponio Labeone che scrive:—non minus delinquunt

—Salta!

—Non capisco se questo Pomponio è una persona sola con Labeone o so siano due giureconsulti.

—Che te ne importa? quando si sta bene in salute.

I due giovani risero di nuovo in coro e fecero ridere di nuovo la mamma zietta, che si sforzava di aguzzare una faccia severa sopra il calcagno d'una calza che teneva nelle mani.

Essa temeva sempre in cuor suo che Flora si abituasse a scherzare col fuoco e ne avesse poi a riportare qualche scottatura. Ma Flora diceva sempre:—Non aver paura, mamma; so fin dove posso andare.

—Tira avanti che è bello, Flora—comandò Ezio.

—«Ulpiano afferma…»—ma li conosci tu questi bravi signori?

—Ulpiano credo di averlo sentito nominare. In quanto a Pomponio Labeone, dacchè l'ho dato alla balia, non ho mai avuto notizie de' fatti suoi.

—«Noi non intendiamo con ciò di negare il fattore antropologico del delitto—continuò Flora, leggendo nel manoscritto—ma intendiamo soltanto di dimostrare questa verità: l'unione degli individui peggiora moralmente ciascuno,»—Ma sai che quel tuo gobbino ne dice delle belle? Par che abbia conosciuto Lolò.

—Va avanti, lingua velenosa,

—«Avviene allora…»—senti anche tu, mamma, come scrive bene il nostro Ezio, quando fa il Pomponio Labeone:—«avviene allora una degenerazione fatale dovuta a quella verità dolorosa che nella società come nella natura sono i germi peggiori quelli che più facilmente si riproducono e si diffondono. Il microbo del male ha una potenza d'espansione infinitamente più grande di quella del bene—(Flora andava alzando la voce in tono di predica, gesticolando con un dito in aria)—giacchè, mentre pur troppo si sa che molte malattie sono contagiose, non è ugualmente provato che sia contagiosa la salute…»

—Ti giuro, zietta, che non le ho scritte io queste belle parole: è tutta sapienza del gobbetto.

La lettura andò avanti ancora un pochino a spinte e a calci; ma quando si fu alla fine del primo capitolo e che si annunciò il secondo sul «Manutengolismo» Ezio si alzò e disse:

—Basta per oggi: ho fame.

* * * * *

Mezz'ora dopo sedevano tutt'e tre intorno alla piccola tavola imbandita sulla terrazza, nell'ombra fitta d'una pergola di vite americana, che si appoggiava da una parte al muro della casa e dall'altra al grande oleandro in fiore. I due giovani, messi in vena dalla giurisprudenza, fecero onore alle uova, al montone, al pane fresco e al vin bianco non troppo brusco. Si parlò delle prossime Regate, che dovevano quest'anno aver luogo nel bacino di Tremezzo e che avrebbero attirata mezza Lombardia. Ci dovevano essere corse a vela, corse di canotto, corse di barcaiuoli, per le quali si stavano già raccogliendo ricchissimi premi e vessilli dalle patronesse. Ezio nella sua qualità di vice presidente aveva offerta la bella coppa d'argento vinta lo scorso inverno col suo Morning Star a Nizza, dove aveva battuto i canottieri della Senna. Di Tremezzo avrebbe corsa la gara dei barcaioli il bell'Amedeo, il fidanzato di Regina, che sperava quest'anno di battere quei di Gravedona.

Ezio, animato dal vinetto bianco e dall'aria viva che rinfrescava il terrazzo, passò dalla nautica a discorrere di scherma, e piantatosi nel mezzo dello spazio libero, mostrò a quelle due donne e alla vecchia Nunziata, che entrava col piatto dei fichi, come si giuoca una finta all'avversario, quando lo si attira per appoggiargli una puntata al petto. Flora corse a prendere due bastoni e provò a incrociare il suo ferro con quello del quasi cugino, che dopo varie mosse di cortesia, si lasciò ferire nello sparato della camicia per dar spettacolo di un uomo che, colpito a morte, barcolla e cade boccheggiando nel proprio sangue.

La mimica commosse tanto la povera Flora, che chinatasi con un ginocchio a terra sul finto morente, finse di piangere e di strapparsi i capelli rossi, i quali si sciolsero davvero dalle stringhe e dalle forcine posticcie e scesero nella loro straordinaria e rubiconda abbondanza sopra le spalle e il busto. La vecchia Nunziata, affascinata, stava lì immobile come stanno le statue del Sacro monte, colla faccia irrigidita nelle grinze, in una espressione di comica afflizione, quasi dubitasse che il signor Ezio fosse ferito davvero; e intanto lasciava cascare i fichi dal piatto.

Flora era ancora in quell'atteggiamento di Maddalena, cercando di sollevare la testa del falso moribondo, quando la signora Matilde, scattando improvisamente, gridò;

—O Cresti, da dove è scaturito?

—Dall'uscio.—Sulla porta della sala, due passi dietro la donna dei fichi, s'era fermato anche lui in un atteggiamento tra il comico e il disgustato, il solitario del Pioppino, che teneva tra le mani un canestrello di vimini, coperto da un tovagliolo, una vera figura anche la sua di presepio meccanico.

—O Cresti—declamò Ezio in accento tragico, stendendogli la mano dal terreno—tu arrivi a tempo a baciare un moribondo. Pianta, ti prego, una carota sulla mia tomba.—Com'ebbe detto ciò si lasciò andare morto del tutto, acciuffando un paio di fichi che si mangiò colla pelle.

—Morirà la capra d'una povera donna, non certe bestie—brontolò, facendosi avanti con lenti passi il padrone del Pioppino fino alla tavola, dove collocò il prezioso canestrello, che dava dei guizzi come se avesse dentro qualche cosa di vivo. Quando Flora potò supporre quel che di veramente vivo ci doveva esser dentro, dette un grido di gioia, e così come si trovava, con quella fiera chioma disciolta sulle spalle, rimosso con precauzione il capo del tovagliuolo, si prese nelle mani un coniglietta vivo, tutto bianco, una morbidezza calda che faceva tenerezza a stringere: e piagnucolandogli sopra, colla bocca appoggiata al pelo liscio e morbido-.—O che caro Cresti, si è ricordato! guarda, mamma, come son belli, Son novellini?

—Hanno poco più di una settimana.

—Cari, cari! e mangiano da soli?

—Cari, cari—disse Ezio, risuscitando—e come si mangiano?

—Tu stai meglio morto…—gli disse Cresti, mettendogli la mano dura sul petto.

—Tu mi odii, o Cresti: lo sento, lo vedo: uno di noi è troppo sulla terra. Ti lascio la scelta delle armi.

—La scopa, la scopa—ribattè il misantropo, divincolandosi tra le strette di Ezio che cercava di fargli ballare un minuetto. Quando fu possibile avviare un discorso ragionevole, Cresti insegnò a Flora come dovesse trinciare minutamente delle foglie di cavolo, ammollarle nel latte in una scodella, e come dovesse a poco a poco imboccare i coniglietti. Poi volgendosi a Ezio, gli disse bruscamente:

—È arrivato tuo zio Massimo.

—L'ambasciatore della Bolivia? e perchè non viene ad abbracciare l'unico suo nipote?

—Verrà, verremo insieme, Ora è un po' stanco del viaggio.

Ezio tirò un poco in disparte la zia Matilde e abbassando la voce, domandò:—Questo mio zio doveva sposare la mia madrina, non è vero?

—Come sai questa storia?—esclamò essa, arrossendo e confondendosi.

—Ho trovato alcune lettere tra le carte del babbo; ma voi sapete che sono uomo di mondo capace d'intendere e di compatire.

La zia Matilde strinse la mano del giovane nelle sue e mormorò:—Son storie di altri tempi: storie morte o sepolte.

—Io non desidero che di voler bene a chi mi vuol bene,

—Bravo Ezio!—disse la zia con voce commossa. Improvvisamente il giovane si ricordò che per le undici e mezzo doveva trovarsi col Bersi e con altri amici del Comitato.

Il tempo gli era volato via più presto del solito quella mattina. Sentendo sonar mezzodì, scese la scaletta che dal giardino va alla riva e diede una voce ad Amedeo, che stava stendendo alcune reti al sole. Il giovinetto venne colla barca.—Addio, addio, e grazie di tutto…—gridò saltando nel legno e afferrando un remo.—A rivederci domani per il secondo capitolo; e tu, Cresti, non augurarmi una perfida morte. Saluti carissimi allo zio: ditegli che l'aspettiamo a colazione; sarà bene che veniate tutti quanti una di queste mattine.

—Addio, Pomponio Labeone—gridò Flora all'orlo dell'acqua, mentre cercava di allacciare colle mani dietro la nuca quel suo mazzo di bisce infocate dal sole.

La signora Matilde dall'alto del muro faceva addio colla mano indulgente, ancor commossa delle parole che il giovane aveva saputo trovare in fondo al suo cuore.

Quando si volsero per cercar Cresti, non lo trovarono più. Qualche cosa aveva offesa la sua nervosa suscettibilità, al solito; ma il buon Cresti era di quegli uomini che ritornano.

IV.

La Saetta.

Flora Polony non era di quelle bellezze che saltano agli occhi e che fanno dire alla gente che passa;—Guarda che stupenda ragazza! Piuttosto alta e slanciata, la sua persona più vigorosa che ricca sentiva ancor molto lo squilibrio di uno sviluppo affrettato, che i ventidue anni cominciavano appena ora a frenare e a consolidare.

La testa molto alta sul busto, sopra un collo ammirabile per candore e per delicatezza, dominava un po' troppo con quella folta criniera di capelli color del rame, ribelli al pettine, e sempre in aria come le idee della padrona.

La natura sana, solida nei muscoli, flessibile ai cenni d'una volontà piuttosto impaziente, traspariva da quel suo corpo non ancora finito di grande collegiale, dalle lunghe braccia aguzze nei gomiti, dal collo del piede che usciva dalla balzana troppo corta della veste, dai movimenti soldateschi non corretti da nessun'ambizione femminile, anzi peggiorati da un'ingenita pigrizia per tutto ciò che fosse ordine e disciplina. Molto era in lei del colonnello di cavalleria—come soleva dire la zia Vincenzina—che avrebbe voluto vederla più corretta e più pettinata. Ma gli occhi d'un celeste chiaro erano di una bellezza rara e parlante; la voce d'una risonanza metallica aveva nelle parole e nel ridere degli squilli sonori di battaglia, che indicavano uno spirito nato per dire e per fare cose non comuni, che si rifiuta agli effetti volgari come alle regole della moda e del galateo dei salotti, in cui le signore amano sparpagliare più di quanto possono disporre. Ezio, abituato a bellezze più molli e più seducenti, non aveva mai posto mente a quel non so che di insolito e di selvatico, che era nella bellezza intellettuale di Flora; anzi ara uno de' suoi gusti, quando poteva mettere in ridicolo gli angoli e i triangoli sporgenti di questa figura geometrica di ragazzona selvatica, ingenua, ignorante di tutto ciò che forma la forza della civetteria femminile, e a cui si poteva dar a intendere tutto quel che si voleva. Certe spavalderie, che alle amiche villeggianti parevano quasi il frutto di dottrine anarchiche, non erano in Flora che la natura stessa tenuta incolta e innocente da una vita semplice e solitaria.

A ventidue anni, per quanto andava intorno con un gran cappellaccio da pastore e colle scarpe di montagna e con un passo da monello, Flora non conosceva della vita che quanto se ne può capire attraverso ai romanzi inglesi dell'edizione Tauchnitz. Si può essere sicuri che essa non conosceva nemmeno sè stessa: e più sicuri ancora che Ezio, più navigato nelle acque del mondo, sapeva per quanto poteva venderla e comperarla.

Ma noi abbiam detto che il giovinotto era in un momento di raccoglimento spirituale, in un bisogno di vita raccolta, come gli capitava di tempo in tempo, quando la nausea e la stanchezza della vita allegra lo spingevano verso idee di ordine e di riposo.

Il noioso conflitto con Liana, il bisogno che aveva di romperla con questa bellezza noiosa e cretina e di compiere definitivamente i suoi studi, gli facevano parere dolci le ore che passava a Villa Serena e al Castelletto in tranquille occupazioni amministrative, tra i libri e le memorie, nella lettura di vecchie riviste, che gli portavano in ritardo una quantità di notizie e di curiosità a cui nella furia del divertirsi non aveva tempo di fare attenzione.

Flora, creatura sana e intelligente, rivestita di bellezza morale, ritornava in questi momenti a prendere il suo antico posto nello spirito del giovine scapestrato, che nella grazia spirituale e pura di lei risentiva il fascino misterioso che la virtù esercita sempre al di sopra d'ogni altra lusinga, specialmente in chi sa e tocca colla mano di quanta cipria e di quanto belletto sia impastata la bellezza corrotta. Gli occhi di Flora avevano profondità marine: negli occhi di Liana era come guardare nell'acqua scura d'uno stagno. Una risata acuta di Flora saliva al cielo come uno scampanìo a festa; il sorriso fatuo di Liana non usciva dai labbri dipinti. I moti della fanciulla onesta erano l'espressione della forza sana e della volontà potente: le cascaggini flessuose di Liana non erano che le contorsioni della debolezza. Flora era l'aquila o il falco dell'aria; Liana e le sue pari niente di più che delle graziose lucertole.

Questi confronti tornavano, come dico, assai spesso al giudizio del suo pensiero e per quanto egli non fosse abituato ad approfondire la riflessione per non farla pesar troppo sul cuore, tuttavia sentiva che la verità della vita non era che in ciò che essa può avere di buono e di sano. Sentiva nello stesso tempo che in questa patetica convinzione vi poteva essere una trappola e un pericolo; e si propose di stare in guardia contro le seduzioni dei cappelli rossi.

Dopo ch'egli ebbe combattuto con Flora una partita di scherma sul terrazzo del Castelletto, che s'era lasciato ferire da lei, che aveva visto quel profluvio di capelli cascanti sulla sua persona, un fascino nuovo e pericoloso lo accompagnava sempre, come se il fantasma di Flora lo perseguitasse, come se tutto quel rosso gli fosse rimasto troppo impresso nella retina degli occhi.

—Adagio, Biagio!—andava raccomandando a sè stesso—qui non si scherza. Se sdruccioli nella virtù, sei finito per sempre. Peccato che Flora non abbia dieci anni meno! fra dieci anni io avrei potuto rifarmi in lei una soave verginità di cuore. Ma ora no; sarebbe male e per me e per lei… Uccel di bosco, non posso ancora desiderare la gabbia d'oro. La virtù, una volta sposata, è difficile far divorzio. Tu avrai sempre tempo di farti eremita; basta un sospiro a creare un santo. Ma nessuno ti potrebbe compensare della giovinezza perduta, quando ti vedessi già nonno a cinquant'anni.

Belle massime di beato egoismo, direte; ma per il momento egli non ne aveva di migliori. Non pensano forse così tutti coloro che possono far qualche conto sui piaceri della vita?—Il giudizio vien da sè in groppa al tempo senza bisogno di mandarlo a cercare come un chirurgo.—Era anche questa una delle sue massime!

Il caso del povero Bersi che a trent'anni si vedeva condannato al matrimonio e i cento esempi di tristezze coniugali, che nella sua breve esperienza aveva già avuto occasione di conoscere, bastavano a metterlo in guardia contro i falsi gorgheggi di quell'idealismo, che attira i merli per farli poi morire nella rete dei santi doveri, Non gli pareva di aver la barba di un padre di famiglia; quest'idea lo faceva ridere e nello stesso tempo rabbrividire.

Con ciò Ezio non rinunciava ad ammirare en artiste quel che vi poteva essere di bello e di ammirabile nella galleria della virtù, cioè, per stare al caso suo, sentiva di voler bene a Flora, di cui conosceva oltre a qualche singolare prerogativa fisica, il prezioso valore morale, la linea aristocratica, la spontaneità, la freschezza, il profumo d'una rosa non ancor passata in nessuna mano.

Volentieri tornava al Castelletto, andava spesso in barca con lei: o colla scusa di farsi accompagnare in qualche esercizio di violino, la invitava spesso a Villa Serena.

Dal giorno che gli era venuta la buona idea di mettere un poco d'ordine nelle carte del babbo, l'aiuto intelligente di Flora gli era stato preziosissimo. Si voleva dare un assetto nuovo a certe sale, rimovere una libreria, preparare il materiale per una futura pubblicazione: bisognava far passare un mare di carte vecchie, di stampe, di lettere, di giornali: leggere, trascegliere il buono, metter via quel che pareva meno opportuno.

Un giorno tra gli altri, mentre la mamma era in stretta e confidenziale conversazione colla zia Vincenzina nella sala della veranda, Ezio e Flora coll'aiuto di Moschino trascinarono nel corridoio delle stanze superiori un vecchio e pesante baule, non ancora esplorato, che conteneva non so quante centinaia di volumi degli atti ufficiali del Parlamento subalpino. Che se ne doveva fare? abbruciarli era peccato: nè si voleva ingombrar stanze e scaffali con roba fuor di stagione. Ma intanto conveniva far passare quei grossi volumi che potevano contenere note e postille di qualche valore, Da un'ora i due giovani lavoravano con intenso raccoglimento, in mezzo a una nuvola di polvere, presso la finestra del balcone, levando dalla cassa i libri, che andavano disponendo in una lunga fila sopra la tavola accostata al muro. Lavoravano in buona armonia, come due camerati, comunicandosi a vicenda le loro scoperte, con tanto gusto di sentirsi vicini che non si accorsero nemmeno che il cielo s'era andato via via oscurando e che un fosco temporale rompevasi già sopra la cresta del Grussgal.

Moschino scese a chiudere le persiane contro i primi goccioloni che battevano sui vetri della veranda, mentre Ezio e Flora correvano dentro e fuori per le stanze ad assicurare porte e finestre. La casa fu presto invasa da quella oscurità, che dà ai muri e agli oggetti una improvvisa espressione di sgomento e rende l'animo pauroso delle proprie sensazioni. Il cielo divenne ben tosto d'un bigio cenere, intenso, carico di vento e di tuoni: il lago, teso, d'un color di ferro pareva scosso da impeti convulsivi, mal frenati dalla stanchezza pesante dell'acqua, su cui roteavano i gabbiani con giri instancabili e capricciosi. La pioggia cadeva già sulla montagna, ma veniva avanti a corsa, preceduta dal gemito spaventato delle piante che luccicavano nel sinistro crepuscolo: ed ecco subito scendere oscura e densa contro la casa e scrosciare con furioso impeto sul giardino che si umiliò a riceverla avvilito.

Non era un temporale come se ne danno tanti in agosto; e infatti si seppe poi che nelle valli aveva fatto il diavolo, strappato alberi, diroccato muri, gonfiato in malo modo i torrenti che menarono sassi e rovine.

Oramai non rimaneva che di chiudere la finestra del balcone, dove l'assalto dell'uragano era più forte e per la quale entrava già a rigagnoli l'acqua a innondare i libri. Flora che correva di camera in camera, gridando per un selvaggio gusto, come se in quella battaglia di elementi trovasse anche lei il suo posto di combattimento, vedendo la pioggia invadere il corridoio, cercò di chiudere le persiane anche da questa parte. Ma per far questo bisognò prima aprire i vetri e affrontare la furia dell'acquazzone, che fu più forte di lei, le strappò di mano le imposte, l'avvolse, l'accecò con un turbine così villano, che grondante acqua dai mille capelli dovette ritirarsi e chiedere aiuto. In quell'istante la saetta, che s'era tenuta in riserbo per il colpo finale, scoppiò sopra un ginocchio del monte, tutta la casa traballò e un guizzo sanguigno passò nel cielo, tra gli alberi, nel cuore della fanciulla, che si ricoverò atterrita nelle braccia di Ezio. Egli l'accolse e la protesse, tirandola nella gabbia della scala a riparo dal vento: l'accolse e l'avvolse nelle braccia e la tenne così un poco, fin che gli parve di sentir battere il povero cuore spaventato. Ma il profumo che esalava da quei molti capelli avvolse lui che ci posò la bocca e ci lasciò cadere tre grandi baci, che scesero profondi come tre goccie di piombo caldo a bruciare per un istante tutte le fibre vitali della fanciulla, che si abbandonò più pesante e si dimenticò in una breve e soave inerzia.

Fu essa la prima a rompere i lacci: e lo fece respingendolo con lenta e rigida violenza. Era pallidissima, ma splendida di un amabile terrore. Si liberò da lui, scosse due volte quella sua chioma leonina, e scese a corsa la prima rampa della scala. Egli si tenne aggrappato all'inferriata. Dal pianerottolo, Flora mandò sulla punta della mano un gran bacio a lui e scese a precipizio a cercar la mamma, che vedendola così bagnata e scomposta, le avvolse la testa in uno de' suoi scialli di lana. La fanciulla andava ripetendo:—O mamma, che spavento…!—e lasciandosi andare sopra un canapè, premendo il suo cuore colle due mani, diceva a sè stessa:—mio cuore, che dolcezza!

Ezio rimase un pezzo avanti ai vetri della finestra su cui scorrevano le goccie come lagrime lunghe, sbalordito, pentito, seccato, in collera con qualcuno poco lontano, cogli occhi fissi all'uragano che si allontanava come un vincitore, ma veramente egli non vedeva nulla. Non vedeva il raggio di luce livida, che sprigionandosi dal nugolone nero, correva sulle creste della burrasca come un faro elettrico a illuminare la danza dei cavalloni bianchi e verdognoli. Quel raggio di luce solare, come se fosse mosso da una mano nascosta nel grembo della nube, si apriva a ventaglio e scendeva a illuminare le acque più lontane che brulicavano in un colore verdicino, si posava sulla montagna, schiariva d'un chiaror umido, e stinto le case, le ville che parevano immerse in una grande lontananza. Ezio non vedeva nulla, nemmeno gli uccellacci che volticavano nello spazio.

—Perchè l'aveva baciata?—Cominciava a capire d'aver commessa una bestialità. S'era lasciato trasportare anche lui come un gabbiano da un soffio temporalesco di passione, e ora se ne pentiva per tutti i corollari che la testina logica di Flora ne avrebbe tirati.

—Maledetta la saetta!—brontolò, movendo qualche passo per il corridoio, colle mani ciondoloni nelle tasche dei calzoni, curvo nelle spalle, avvilito, pensando ai modi coi quali avrebbe potuto purificarsi di quel grosso peccato d'irriflessione. Era la prima volta che un bacio fuggiva dalle sue labbra senza il permesso del babbo: quasi stentava a riconoscerlo per suo.

—Maledetta la saetta!—brontolò tutto quel giorno in cui parve più distratto e più incontentabile del solito: e il rimorso, misto all'amaro sapore della stizza, gli saliva alla gola e gli riempiva la bocca ancora quando si cacciò sotto le coltri; per la prima volta stentò a pigliar sonno: e il letto gli parve pieno di stecchi.

V.

L'incontro.

—Quando si va dunque a far visita a Villa Serena?—chiese per la terza volta il Cresti a Massimo Bagliani.

—Che vuoi? ho sempre un po' di paura.

—Paura di che? dei morti?

—No.

—Dei vivi?

—Nemmeno. Ho paura di me stesso.

—Tu sei un gran ragazzo. Ezio non sa capire perchè io non abbia ancora condotto il suo bravo zio d'America: e più aspetti, più dai a questa tua paura un significato che non ha,

—Allora andiamoci domani—disse finalmente Massimo dopo una lunga riflessione.

* * * * *

Massimo, fratello di Don Camillo Bagliani, più giovane di lui un certo numero di anni, poco prima della guerra del sessantasei aveva conosciuto in casa del Colonello Polony la bella Vincenzina Stellini, sorella di Matilde e se n'era perdutamente innamorato. Ma allora non era che un ufficiale in principio di carriera, sprovvisto affatto di fortuna, non in grado di pigliar moglie.

Matilde e Vincenzina Stellini, figlie di un umile cassiere della Tesoreria provinciale, eran cresciute in una casa molto modesta: e se proprio non avevan veduto la povertà, avevan vissuto in quelle piccole angustie che come un paio di scarpe strette fan più male che l'andare a piedi nudi. Ma belle e piacenti, trascinate dal padre, vecchio gaudente, alle feste di tutti i carnevali torinesi, trovarono per via la loro fortuna. Matilde sposò il conte Polony, uomo non più giovane ma di una grande amabilità, soldato valoroso, già in bella posizione e in via di andar più in su. Vincenzina, dopo alcuni anni, s'imbattè in Massimo Bagliani, che non potè sposarla subito, per mancanza di quel deposito che il regolamento chiede ai militari: ma promise di farlo appena le circostanze lo avessero permesso.

Massimo sperò nell'aiuto di suo fratello Camillo, che occupava già un grado autorevole nella magistratura. Pare che dell'asse paterno non ancora diviso una parte gli spettasse di diritto: ma c'eran contestazioni e liti da parte degli interessati per modo che non si potè far conto di questo denaro.

Forse Camillo non volle o non potè rendere allora dei conti, che non furono resi mai, nemmeno più tardi: forse Massimo non ebbe abbastanza forza d'insistere nel far valere il suo diritto: forse il suo fratello maggiore, coll'autorità che avea sempre esercitata nell'animo timido del giovane, gli dimostrò che alla sua età non gli conveniva intralciare una carriera sul principio, molto più che i tempi eran pieni di minaccie e che la guerra poteva scoppiar da un giorno all'altro… come infatti scoppiò.

Massimo dovette partire per il Veneto, e partì, lasciando nelle mani della bella Vincenzina il suo cuore. Se una palla austriaca non la faceva finita, egli sperava di tornare almeno capitano. La sua sposa l'avrebbe conquistata sul campo di battaglia. Fu una separazione dolorosa e lacrimosa di cui Vincenzina conservò un troppo debole ricordo; o almeno così dovette giudicare la gente, quando s'intese dire tutto ad un tratto che essa andava sposa ad un altro.

Che era accaduto? la storia era ancora per Massimo piena di ombre e di mistero. Sul campo di battaglia il nostro ufficialetto si era comportato assai bene, Il Conte Polony era spirato nelle sue braccia e gli aveva raccomandato, morendo, Matilde e Flora; ma gli avvenimenti precipitosi che seguirono al disastro di Custoza sconvolsero tutti i suoi progetti. Scoppiata la rivoluzione in Sicilia, il suo reggimento fu mandato laggiù in un'ingrata guerra civile: poi per nove o dieci mesi si trovò confinato nel distretto di Caltanisetta, lontano da ogni comunicazione col mondo, in continue scaramuccie coi briganti.

Qui lo raggiunsero le prime lettere di Matilde, che furono per il suo cuore il segnale di un nuovo disastro morale. Morto il colonello Polony, essa e la piccina avevano dovuto ritornare in casa del padre, il quale non poteva più provvedere a tutti. Il povero uomo in seguito a un errore commesso (che Massimo non potè mai conoscer bene) era stato costretto a chiedere il suo riposo, mentre si faceva sempre più vecchio e più esigente. Se Massimo non poteva mantenere la sua promessa, toglieva alla povera Vincenzina ogni altra occasione di ben collocarsi e di venir eventualmente in soccorso delle due famiglie. Già molte onorevoli richieste si erano presentate e altre se ne presentavano, a cui sarebbe stato imprevidenza nelle condizioni loro chiudere gli orecchi: ma Vincenzina si sentiva obbligata dalla sua parola. Il babbo Scellini reso querulo dalla sventura non cessava dal dire che le sue figliuole non avevan cuore per lui, che volevano lasciarlo morire di fame. Nel suo egoismo d'uomo gaudente e avido scriveva anche lui lettere indelicato al povero Massimo per voler sapere che conti si potevan fare sull'avvenire… Finchè Massimo, già coll'animo scoraggiato e affranto per le cose pubbliche, in un momento quasi di dispetto e di avvilimento, scrisse che egli lasciava libera Vincenzina di disporre della sua mano. Tre mesi dopo, mentre si trovava gravemente ammalato di scorbuto all'ospedale militare, suo fratello Camillo gli scriveva da Torino che intendeva dare una seconda madre al piccolo Ezio: e senza troppe parole annunziavagli il suo matrimonio con Vincenzina Stellini.

Fu un colpo che per poco non lo trasse alla morte. La condotta di Vincenzina e de' parenti suoi gli parve un basso tradimento: quella di suo fratello iniqua. Come avesse potuto avvenir ciò egli non sapeva immaginare, ma confusamente sentiva che Vincenzina, presa tra due feroci egoismi, non aveva avuta la forza di resistere. A lei forse avrebbe potuto perdonare: ma Camillo, che conosceva i suoi bisogni e il suo cuore, quest'uomo che nell'alta sua posizione sociale poteva scegliere fra cento donne della più eletta aristocrazia, questo fratello che approfittava della debolezza di un fratello minore per sopraffarlo, ah no, questo Caino non era degno di perdono.

Massimo non morì di quell'oltraggio, ma non volle che nessuno lo vedesse soffrire. Scrisse a Camillo quel che credeva necessario di scrivergli in forma alta e superba: non gli chiese nemmeno quel piccolo rendiconto dell'eredità paterna a cui aveva pur diritto: lo giudicò secondo i suoi meriti: e date le dimissioni, s'imbarcò sopra una nave inglese per la via dell'America. E non era più tornato da quel dì. Laggiù fece qualche fortuna in piccole imprese minerarie e il governo ebbe a servirsi di lui prima come console, poi gli conferì il grado di ambasciatore presso i piccoli Stati della Bolivia e della Venezuela. Unico filo che lo tenne legato al vecchio mondo fu l'amicizia di Cresti, col quale non cessò mai di corrispondere e che lo teneva periodicamente informato delle vicende grandi e piccole del suo emisfero. Quando Camillo Bagliani venne a morire, il Cresti fu il primo ad aprir trattative per una conciliazione.

Morto l'uomo che era stato causa de' suoi mali, non ci era più motivo perchè egli si condannasse a un eterno esilio.

Gli altri erano stati anch'essi vittima innocente delle circostanze. Il tempo seppellisce coi morti anche molti rancori vivi, mentre i vivi hanno bisogno di pace, di perdono, di soccorso.

Fossero questi consigli o parlasse più forte nell'animo buono di Massimo un desiderio di rivedere il sole della sua patria e col sole qualche fiore non appassito del tutto delle sue memorie, finì col lasciarsi persuadere. Anche il suo cuore che era stato malmenato in tante battaglie e che aveva palpitazioni troppo frequenti, sperava di trovar quiete e vigore nell'aria nativa. Tornò, si lasciò condurre dal vecchio Cresti fino al Pioppino; ma sul punto di scendere a Villa Serena provava ancora qualche titubanza e una specie di sgomento, quale proverebbe un attore sul punto di uscire sulla scena a recitare una parte che non sa troppo bene.

—Allora ci andremo domani—aveva detto e promesso; ma la notte prima non potò quasi dormire. Del passato non si doveva discorrere, s'intende; era bene incontrarsi come vecchie conoscenze che si fossero conosciute in illo tempore in qualche amena villeggiatura, d'accordo. Nè egli doveva ricordare i torti ricevuti, nè all'altra parte conveniva riandare parole e violenze che avevano nel tempo perduta ogni loro forza. La colpa era stata di tutti: forse di nessuno o di quel destino che non si sa che cosa sia. Ezio aveva trovato in Vincenzina una matrigna buona e indulgente, e in virtù di questo bene doveva essere più disposto a far verso lo zio un atto di tenerezza, che tenesse il luogo d'ogni altra riparazione. Egli, vecchio vagabondo, sentiva il bisogno di voler bene a qualcuno. Le miniere gli avevano procurato qualche vantaggio e non voleva buttare il suo ai cani: mentre questo figliuolo, questo Bagliani, per poco che sapesse fare col vecchio zio, avrebbe potuto cavargli il cuore.

Questo pensiero d'un appoggio per l'avvenire gli aveva fatto parer dolce e ragionevole il ritorno: e poichè Cresti aveva delicatamente così ben preparato il terreno, era una sciochezza aver tutta quella sì grande paura, quasi che il rivedere la donna che si è amato inutilmente in gioventù, fosse come aprire una tomba.

—Cresti ha ragione di dire ch'io son peggio d'un fanciullo. Che cosa posso ormai temere?

Per non agitarsi troppo su questi pensieri, che gli toglievano il sonno, lesse qualche pagina della storia del Consolato e dell'Impero del Thiers, che insieme a qualche opera del Cantù e del Balbo formavano la biblioteca del Pioppino: e si addormentò nel bel mezzo della battaglia di Austerlitz.

Il giorno dopo si fece la barba e si vestì nel miglior modo con quella compitezza tutta militare ch'era rimasta ne' suoi gusti anche in mezzo ai più crudi bisogni. E dopo colazione si lasciò condurre al convegno. La sua visita era stata annunciata da Cresti, che aveva in giuoco anche lui il suo interesse. Massimo s'era assunto di aprire le prime trattative di quell'atto, che doveva essere per l'amico il passo risolutivo di tutta la sua vita.

—Donna Vincenzina—gli aveva detto il Cresti—vuol un gran bene a Flora e Flora sta volentieri a quel che dice la zia Vincenzina. Tu le devi chiedere prima di tutto quel che pensa di me, se gli sembro un uomo ragionevole o un pazzo. Se essa ci incoraggia, nessuno meglio di lei potrà fare il resto. Dille che io metto la mia vita nelle sue mani. Al punto a cui sono arrivato non posso più vivere di dubbi e di incertezze: meglio un bel colpo sul capo tutto in una volta che non questo morire a goccia a goccia.

—Io farò del mio meglio, quantunque sia un ambasciatore in disponibilità.

Per evitare il troppo sole seguirono un pezzo la stradicciuola alta in mezzo ai campi e uscirono sulla strada di Bolvedro, dove Cresti si fermò alla botteguccia d'un pasticciere a comperare un cartoccio di bocche di dama e di schiumette per le signore. Massimo andò avanti solo e alla prima ombra che trovò si fermò ad aspettare il compagno, seduto sull'orlo di un muricciuolo. Dai giardini veniva un buon profumo di erbe aromatiche. La montagna sparsa di casolari, divisa in quadratelli coltivati, nella piena luce del sole saliva a disegnarsi colla linea grossa delle sue creste sul fondo del cielo. Il lago mandava alla riva un'onda blanda, senza spume, in cui riflettevasi senza rompersi l'immagine di tre nuvolette bianche immobili sopra il San Primo.

Massimo andava osservando queste cose sparse per non voler pensar troppo alla sua parte di attore pauroso: ma per quanto cercasse di uscir di sè, non poteva a meno di non rimasticare il suo monologo:—Non è lei che debba perdonare qualche cosa a me; piuttosto sono io che dovrei perdonarle di non aver avuto fiducia nelle mie forze: ma a che giova riandare quel che non può più tornare indietro? Il perdono è un vaso delicatissimo che è difficile tanto consegnare come ricevere bene. Meglio sarà non parlarne. Ma il tempo, il tempo che cosa avrà fatto di noi? Cresti dice che ella è ancora quella di prima, se non forse più bella: ma io non son più quello e stenterò a rientrare così rotondo come sono nella sottile immagine che forse ella conserva ancora di me. Dovrà ridere un poco vedendo quel che il tempo cava fuori da un brillante ufficiale di cavalleria, o, se è vero, come vuol Cresti, ch'io sia rimasto ancor vivo nel suo pensiero, dovrà piangere, vedendomi diventato l'astuccio di me stesso. Era forse meglio ch'io non risuscitassi e restassi morto giovine nella sua memoria. Ma andiamo avanti: oggi non è per me ch'io vivo: oggi devo anch'io tornar utile a chi mi vuole adoperare. Ezio mi dovrà condurre a visitare una tomba, che ha bisogno anch'essa d'un mio requiem. Lo devo dire anche per riposo dell'anima mia, perchè da troppo tempo porto chiuso nell'anima il peso morto d'un odio inumano e inutile. Chi rientra nell'amore rientra nella vita: e nulla fa tanto piacere come una buona fiammata domestica al comparire delle prime nebbie d'autunno.

Su questo filo all'incirca correvano i suoi pensieri, mentre le cicale facevano coro dagli ulivi. Finalmente il piccolo Cresti comparì nel vano d'un portichetto e si avvicinò col suo passo diritto di soldatino di piombo, tenendo l'ombrello chiuso sopra una spalla come uno schioppetto e il pacchetto delle paste nella mano.

—Senti, ho pensato che oggi ci può essere anche Flora e che è forse meglio rimandare il gran discorso a un'altra volta—disse quando fu vicino.—E forse è meglio ancora che io non ci sia.

—Ho capito: anche tu hai una grande paura….—disse Massimo ridendo.

—Tanta paura che mi tremano le gambe.

—E allora—continuò Massimo, fermandosi nel mezzo della strada—che cosa andiamo a fare a Villa Serena? a che pro tormentarci a vicenda? Torniamo indietro.

Cresti stette a sentire se l'amico diceva da senno: a che pro tormentarci? ma quando vide che Massimo rideva di lui, appuntando un dito, gli disse:—Sei giusto tu il capitano senza paura!

—Tiriamo avanti, Massimo. Se saranno botte le piglieremo.

E in questo discorso giunsero davanti a un cancelletto che metteva nel giardino della villa. Cresti lo spinse e fece suonare due forti campanelli che ne custodivano la soglia e che riempirono il cuore di Massimo di un diabolico spavento. Ma non fu solamente il suo cuore a balzare allo schiamazzo di quei due campanelli pettegoli.

Anche donna Vincenzina, che aspettava da un'ora in ansietà, dopo una notte mal dormita, trasalì, impallidì, si lasciò andare sopra una sedia.

—E ora che cosa fai? sei pazza?—esclamò la sorella Matilde, vedendola così smarrita—possibile che tu possa aver di queste paure?

—Non è paura: paura di che? ma egli non è per me il primo che capita.
Mi avrà perdonato davvero?

—Che ti deve perdonare? tu hai sempre fatto più del tuo dovere.

—Ma egli non sa tutto. Un mistero c'è tra me e lui.

—Oramai è storia finita.

—È storia finita: ma io, senza mia colpa, gli ho fatto un gran male.

—S'egli avesse in cuore qualche rancore, non sarebbe venuto.

—È vero. E poi, dodici anni sono una gran tomba. Va tu, va tu incontro per la prima: io vi raggiungo subito.

Donna Vincenzina, rimasta sola, raccolse tutte le sue forze, si arrestò un istante davanti allo specchio passò le mani sulle tempie, corse col piumino della cipria leggermente sulla fronte e sulle gote, si considerò, forse si confrontò con un'altra donna d'altro tempo e nel venir via disse, lanciando un'occhiata al quadro ch'era a capo del letto:—Cara Madonna, aiutatemi voi!

La zia Matilde trovò Ezio che aspettava nell'atrio e gli disse:—Dunque siamo intesi. Quel che è morto è morto.

—Diavolo, zietta! e speriamo che nasca qualche cosa di bene.

Uscirono insieme sul piazzaletto, mentre Massimo e Cresti scendevano adagio adagio per il sentiero ombreggiato. Al veder la figura di una donna, Massimo s'arrestò un momentino e, sforzando il fiato, chiese sottovoce:—Chi è?

—È Matilde—mormorò il Cresti. Di mano in mano che scendevano dall'ombra verso la luce del piazzaletto, le cose si confondevano come dentro a una nebbia per il povero Massimo, che non sentiva più nemmen la voce del suo compagno, che gli faceva l'effetto d'un moscone. Fu scosso dagli schiamazzi allegri d'un giovinotto che, allacciandolo, stringendolo, palpandolo, gli gridava:—È questo dunque il mio vecchio zio d'America? oh, bravo: lasciati abbracciare, uomo selvaggio. Come ti si deve dire? cavaliere? commendatore? ambasciatore?

—Zio, zio, zio…—potè finalmente esclamare quel pover'uomo affogato dall'emozione.

—Un bacio me lo vuoi dare?

—O caro…—proruppe con immensa effusione di affetto quel buon uomo d'uno zio d'America, posando un bacio lungo sulla testa del giovine, come se con quel bacio deponesse tutto il fardello de' suoi vecchi dispiaceri. E le lagrime uscirono molli dagli occhi a tutti e due.

—Il merito è tutto mio d'averlo schiodato dagli antipodi—soggiunse il Cresti, che preso anche lui dalla commozione, per non saper piangere, andava movendo le gambe e agitando l'ombrello.

—Mia zia Matilde—disse Ezio presentandola.

—Oh…. oh…. Matilde, vecchia conoscenza—esclamò, ingrossando la voce, Massimo Bagliani per darsi della forza.

—È sempre bello quando ci si ritrova—disse la pallida signora.

—Ho amato il colonello Polony quasi come un mio padre.. Ma dov'è, dov'è.. la piccina? voglio dire quella piccina che dev'essere diventata un donnone? Dov'è Flora? soleva specchiarsi così volentieri nei bottoni d'argento della mia montura.

—Flora non è potuta venire oggi: l'aspettavano alla villa Carlotta per non so quale complotto di matrimonio.

Presento invece mia sorella, Vincenzina….—soggiunse, tirandosi un poco in disparte.

—Oh… oh… donna Vincenzina, grazie, ho piacere… Che bel sito! una vista stupenda! brava…

—Bravo anche lei!…

I due personaggi si parlavano senza vedersi, perchè una specie di nube era improvvisamente discesa in mezzo a loro. A poco a poco Massimo potè in mezzo alla nebbia riconoscere una testa con molti capelli chiari, due grandi occhi chiari anch'essi, una figura di donna molto bella, forse ancor più bella d'una volta nella maestà matronale dei trent'ott'anni: ma vedere non è capire: tutta la forza del suo intendimento la concentrò nell'impedire a sè stesso di fare una cattiva figura.

Ezio e Cresti vennero opportunamente in aiuto. Entrarono in casa, fu servito il caffè nella bella veranda a vetri piena di ombre verdi e di fiori, ingombra di oggetti smaglianti, nel vago disordine dei mobili e nella mescolanza delle stoffe. La linea del lago si vedeva luccicare tra la chioma dei platani e la balconata in uno sfondo luminoso in cui passavano le vele gonfie di ritorno dal mercato. Nella buona compagnia e nella evocazione delle antiche memorie, molta gente morta e dimenticata fu chiamata fuori e rimpianta, si consultarono molti ritratti già sbiaditi nelle loro cornici, si ricordò la vita di Torino, di Novara, di Vercelli, i tempi eroici e i tempi romantici con una così buona volontà dalle due parti, che ricondusse il sentimento e la giovialità della giovinezza.

La nebbia che velava gli occhi si dissipò a poco a poco e i due antichi fidanzati si riconobbero. Essa era ancora la bella figura alta, bionda, d'una biondezza cenericcia, dalla fisionomia larga o delicata, dagli occhi quieti che parevano veder poco lontano e somigliavano alla sua voce per la soavità dell'espressione. Parlava scarso, in tono sommesso, svelando una natura sensibile fino alla paura, incapace d'imporsi e di affermarsi con una qualsiasi iniziativa, incapace ancor di più di volere e di non volere, di agire e di vivere per proprio conto. Ma appunto per tutte queste sue qualità negative Vincenzina era di quelle donne che son più di altre capaci di far la felicità di un uomo energico, che abbia bisogno di un'obbedienza assoluta come un cuscino di piume su cui riposare la forza dell'egoismo.

Camillo Bagliani era stato quest'uomo.

Dal giorno che con una violenza di passione aveva preso possesso di questa creatura, se n'era compiaciuto gelosamente come d'un bene dolce e arrendevole, che compensava gli acri umori del suo temperamento biliare e le asprezze della sua rapida decadenza fisica.

Vincenzina, donna di istinti semplici e primitivi, di nessuna resistenza sanguigna, come non aveva saputo opporsi all'egoismo di suo padre, aveva per dodici anni ceduto umilmente al suo dovere di moglie e di matrigna, portando nell'adempimento del suo dovere non sempre facile quella docile indulgenza e quella riservatezza che nega a sè stessa tutto quel che concede agli altri.

Adorata dal marito tiranno, aveva finito col conquistare anche la benevolenza e la stima di Ezio, che si avviava alla sua volta a essere un tiranno dispotico di deboli cuori.

Massimo ritrovò queste doti ancor fresche nella bellezza matura di sua cognata. Di mutato non trovò che la carnagione fatta d'una bianchezza un po' stanca che impallidiva di più sotto la massa dei suoi capelli più scoloriti. Ma gli occhi d'un grigio marino avevano ancora tutte le languidezze tenere e affettuose delle creature deboli che disarmano i forti.

Si fecero molti progetti per le vacanze e si stabilì che tutti sarebbero tornati a far colazione e a passare una giornata in compagnia.

Massimo, nel risalire il viale fino al cancelletto, si trovò un momento al fianco di lei e si meravigliò di sentirsi così tranquillo e così contento.

—Ezio è stato buono con me, povero figliuolo, e mi ha fatto provare una commozione di cui non mi sentivo capace. Il merito sarà anche della buona matrigna.

—Io ci ho poco merito…—balbettò donna Vincenzina, arrossendo.

—Allora il merito è di Cresti che mi ha persuaso a tornare. Dovrò discorrere anche di lui a lungo: ma ora che siam qui dovremo pur vederci assai spesso; non è vero, Vincenzina?

—Sicuro, Massimo…—Fu tutto quanto ella potè dirgli per ringraziarlo d'esser venuto: ma glielo disse in un modo così tenero e commovente, che il signor zio fu per vacillare un'altra volta.

Ezio andò ad accompagnarli un bel tratto fin verso Bolvedro, stando in mezzo a loro due colle braccia infilate nelle loro braccia.

Vincenzina ritornò colla sorella pel viale del giardino; ma quando fu presso il casino svizzero si fermò improvvisamente e ruppe in un gran pianto.

—Che cos'hai?—chiese Matilde.

—Niente.

—Perchè piangi?

—Non so.

—Voi vi siete portati bene. Ezio fu un tesoro. Non è bene forse ch'egli sia tornato e che abbia perdonato?

—Sì, sì, Tilde: non piango per questo.

—E allora?

—Non ti pare ch'egli abbia sofferto?

—Tutti abbiamo sofferto: ma è sempre bene quel che non finisce peggio. Ora tutt'insieme mi dovete aiutare a maritare quella mia figliuola. Cresti farà presto una domanda, a cui sarebbe peccato non rispondere bene. Flora ha delle idee romantiche per la testa: ma colle idee romantiche non si vive e non si paga la pigione. Cresti è un gentiluomo, è ricco, è un cuore delicato, ama la bambina e Flora stima lui per tutti i suoi meriti. Un matrimonio oggi è diventato necessario, perchè nè si vuole tenere un vecchio amico sulla corda, nè si vuole lasciar Flora al pericolo d'una fantasia sbrigliata. Da qualche giorno mi pare che la sua testa non sia molto a posto: parla, canta, salta per la casa, esce e torna cento volte, si è data alla devozione e parla di regalare un manto nuovo alla Madonna del Soccorso. Suo padre era anche lui un poco così, una testa polacca: la nonna Celina ne ha fatte di peggio. No, così non si deve più andare avanti. Io ho bisogno di tranquillità pei miei dolori e non di avere la tarantella in casa. Tu le devi parlare, tu la devi persuadere: Cresti non aspetta che un nostro segnale per farsi avanti.

Le due sorelle s'intesero sui modi di pigliar la figliuola in un momento di buone disposizioni. E intanto i due vecchi amici, lasciato Ezio risalivano lentamente la strada del Pioppino. Massimo camminava avanti raccolto ne' suoi vaghi pensieri; Cresti, che gli veniva appresso, chinavasi spesso a raccogliere una foglia di menta, un rametto di timo, o a contemplare una piccola lumaca annicchiata in qualche corteccia: ma avvolgevasi anche lui nel filo di quei teneri pensieri che da un anno andava tessendo alla trama della sua vita. Massimo guardava più al passato, Cresti all'avvenire, e camminando così fuor della loro strada, non sentivano nè il sole infocato che faceva arrabbiare le cicale, nè i ciottoli che ingombravano il sentiero.

Quando per una viottola in mezzo alle vigne sbucarono all'ombra della Cappelletta della povera mamma, Massimo Bagliani arso e trafelato si fermò, si asciugò la testa e il collo grondanti, e ruppe improvvisamente in una risata sonora, che fece tremare il volume della sua mole diplomatica.

—Che c'è da ridere?—chiese l'amico.

—Lasciami ridere, caro: è una facezia.

—Che cosa?

—Questa vita.

—Ehm! Sei forse pentito d'esser disceso a Villa Serena?

—Son felice, Cresti: tu sei un tesoro.

—T'avevo detto che l'avresti trovata più bella! queste donne senza nervi migliorano stagionando.

—Tu sei cattivo con lei, Cresti…

—Dodici anni di schiavitù non le hanno fatto male. Va a credere alle donne.

—E perchè mi tormenti allora colla Flora?—soggiunge Massimo, ripigliando quel suo ridere convulso che finì col strizzargli le lagrimette.—Sai perchè rido, Cresti?

—Che devo saper io?

—Penso che Vincenzina avrà trovato che io son diventato l'astuccio di me stesso: che…? che?.., altro che astuccio: il cofano, la cassa della mummia. Meno male che la vita è una facezia…

E su questa sentenza i due amici camminarono in silenzio verso al
Pioppino.

VI.

Una visita.

Flora da quel giorno famoso in cui Ezio l'ebbe tre volte baciata sui capelli, cominciò a discorrere con la mamma e colla Regina del suo dovere di regalare un nuovo manto alla Madonna del Soccorso per ringraziare la Benedetta d'averla salvata dal fulmine.

La saetta era caduta poco fuori del giardino e aveva scavezzato un antico olivo vecchio forse di duecento anni: ma questo era nulla al paragone di quei tre fulmini che erano discesi nel suo cuore.

Ezio l'amava, Ezio l'amava, Ezio l'amava!

La Madonna meritava non un manto solamente, ma una corona d'oro tempestata di diamanti. Qualche cosa bisognava ch'ella facesse dal momento che il restar rinchiusa in casa era diventato per lei quasi un supplizio.

Quel troppo di assoluto e quasi di asciutto, che era nell'espressione del suo volto fatto di linee sottili e lunghe, dalle labbra tumidette, dagli occhi pungenti, si spianò, si allargò, per così dire, in una grazia di pensieri soddisfatti e fioriti, di benevolenza tenera, di bontà amorosa, piena d'indulgenza e di carezze. E non il volto soltanto, ma tutta la persona, si abbellì d'una mollezza più femminile, che faceva comparir meglio i vestiti e toglieva al suo portamento quel non so che di rigido e di soldatesco, che ricordava troppo la figlia del colonnello.

Ora che tra lor due s'era fatta una luce solare temeva ch'egli avesse a veder meglio le macchie della sua povertà morale. Non si sentiva più così forte come prima. Una gran scossa interna aveva spezzato il macigno della sua vita arida, senza verde e senza fiori e dal fondo scaturivano in lei ruscelli da tutte le parti.

Anche le cose di fuori avevano tutt'altri colori. Il lago pareva diventato più azzurro, più d'accordo con lei, le montagne più trasparenti: le campane dicevano cose nuove e commoventi: i gridi dei bambini sulla piazzuola, così noiosi prima, facevano eco adesso ai cento fanciulli allegri che giocavano in lei. Perfino il trombone del sarto, quel terribile trombone che urtava continuamente colle sue note lacerate le case del piccolo golfo, era diventato anch'esso più sopportabile dacchè vi sentiva il soffio d'un uomo felice. Solamente i conigli del povero Cresti non ebbero grazia.

Per vedere la Regina usciva spesso a piedi o in barca e andava a cercarla alla Villa Carlotta. Una volta trovò il vecchio Bortolo che stava rattoppando una rete all'ombra dei grandi platani.

—È in casa Regina?—disse Flora al giardiniere.

—Credo che sia al ponticello.

—E quando si faranno queste nozze?

—Sento parlar della Madonna di settembre: ma i padroni son loro. Amedeo vorrebbe prima lasciar passare le Regate e cercar di vincere qualche premio. Quest'anno quei di Tremezzo voglion vincere.

—È un bravo figliuolo, siete fortunati.

—È un ragazzo a cui non pesa il remo.

—E per la casa avete potuto combinare?

—La mamma di Amedeo andrà a stare con sua sorella a Mezzegra e cederà la sua casetta al torrente. Così Regina potrà avere la scuola dell'Asilo in casa.

—È stato ben pensato. E voi Bortolo?

—Ci faremo compagnia io e la mia vecchia—disse Bortolo rassegnato—e poi non vorranno tardar molto quegli altri.

—Certo: e saranno il balocco del nonno.

—La natura è un giro—finì col conchiudere il giardiniere che amava entrare nello spirito delle cose.

—E lei, contessina, non pensa a trovare il suo Amedeo anche lei?

—Oh, oh…—protestò con enfasi la signorina del Castelletto—Chi volete che si occupi de' fatti miei?

—Io no, poverina—rispose Bortolo buffonchiando—la mia rete non piglia più pesci. Ma ho visto pescar delle anguille anche più furbe.

Flora rise alto, sentendosi paragonare a un'anguilla; e passando per la cucina della fattoria, entrò nel giardino della villa, chiamando Regina. Non sentendo rispondere, si avviò per il viale che s'inoltra in un fitto boschetto di abeti, sicura di trovarla al ponticello.

* * * * *

La Villa Carlotta, famosa in tutto il mondo per quel che ne dicono le Storie del lago e le Guide dei viaggiatori, ha intorno a sè un giardino vasto e profondo, in cui non sai dire fin dove l'arte corregga la natura e fin dove questa colla sua potenza rigogliosa nasconda i limiti dell'arte. Seguendo le sinuosità un po' erte della montagna, su cui si appoggia, il giardino è tutto una selva di piante di raro valore, antiche e folte, che nella dolcezza lusinghiera del clima, nel lento e non trascurato lavorìo degli anni continuano a mescolare i loro amplessi e i loro verdi diversi, in cui domina il bruno fisso e cupo delle conifere colossali. La mano dell'uomo non le disturba, se non in quanto vuole raddoppiarne le ombre, rimuovere gli ostacoli morti, aprire nelle macchie che sarebbero inaccessibili, qualche ombroso recesso asilo alle ninfe che ci passano, aumentarne gl'incanti con improvvise aperture sopra lo specchio luminoso del lago, con qualche grotta di tufo piangente, con scalinate rozze e muscose che menano a chioschi isolati e taciturni, in cui dorme anche il silenzio nella frescura della solitudine.

La Villa, che fu già dei Sommariva, è oggi nelle mani d'un principe tedesco che fa pagare il piacere di visitarne le gallerie, in cui trionfano Amore e Psiche del divino Canova. Le mancie che fruttano i tesori dell'arte nostra sul lembo azzurro del nostro lago, servono a ingentilire i servi del principe tedesco, che nelle lunghe assenze del padrone, inselvaticherebbero in una oziosa sonnolenza. Così l'Italia continua l'opera sua di liberale educatrice dei popoli, dietro la tenue tassa d'una lira per la villa e d'una lira per il giardino.

Flora, per l'amicizia sua colla figlia del giardiniere poteva passare senza pagar nulla alla Germania e considerare il giardino come suo. Vi andava spesso, specialmente nei giorni più caldi del luglio e dell'agosto quando l'estate arroventa le roccie e fa dormire anche le acque del lago.

Regina, natura semplice e modesta, amava la compagnia della contessina del Castelletto, da cui aveva sempre a imparare qualche cosa di bello. E Flora da parte sua, nella sua superiorità morale sempre un po' incomoda da portare, amava di riposarsi nella bontà alquanto ignorante d'una ragazza del popolo, priva di concetti e quasi senza idee, per la quale era nuova e fresca ogni impressione che non uscisse dal paiolo, dalla calza e dal libro da messa.

Flora, che aveva letto, i suoi trecento volumi tra inglesi e tedeschi e che da un mese si storpiava lo spirito coi drammi dell'Ibsen, si rifaceva una non ingrata ingenuità e una specie di curiosità nuova e primitiva nelle senzazioni infantili della figlia del giardiniere, su cui tentava spesso delle piccole esperienze morali a sua propria istruzione come un medico curioso farebbe sulla vita d'un coniglio. Nelle ore in cui rimanevano sole nel giardino le insegnava qualche ricamo sui modelli della Mode illustrée, le faceva ripetere le canzonette che poi Regina insegnava ai bambini dell'asilo, schizzava nella sabbia dei disegni geografici per darle un'idea di quel mondo che la ragazza non avrebbe mai conosciuto: e in compenso si faceva insegnare da lei oggi il modo di cucire un paio di sandali di corda, domani quello di intrecciare un punto a rete o di cuocere una torta di castagne. Eran poi compagne indivisibili in tutte le spedizioni di montagna che non aveva più segreti per loro e di cui conoscevano tutti i fiori e tutte le erbe lunghe e corte, che hanno un nome in botanica.

Flora, non trovando Regina al ponticello, sedette sulla solita panchina ad aspettarla. Ivi il monte scende quasi a perpendicolo con una spaccatura, in cui scorre e salta dopo le piogge un piccolo torrente tra fitte boscaglie di rovi e di felci; e sulla spaccatura è buttato un ponticello di legno rustico. Era il luogo dove le due ragazze portavano i loro lavori, i libri, la merenda. Vi rimanevano le mezze giornate a parlar dei piccoli casi del paese, tacevano spesso insieme volentieri, cantavano sottovoce le canzonette delle filande, mescolavano le loro intime confidenze fin dove lo spirito umile dell'una poteva salire alle altezze alquanto vertiginose in cui si sbizzarriva spesso lo spirito dell'altra.

Regina era una pia e sottomessa figlia di Maria. La sua religione era quella del signor curato. Aveva imparato a credere dalla sua mamma, come questa alla sua volta aveva imparato dalla nonna. Di questa scienza fatta coscienza, non che dubitare, Regina non credeva nemmen possibile che si potesse aver un dubbio, come non si dubita del sole che porta il giorno.

Invece la contessina metteva forse nella sua fede troppi capelli rossi. Ribelle alle convenzioni di quaggiù, dal suo spirito indomito era spesso trascinata a rompere anche qualche convenzione di lassù. Quel benedetto eterno paradiso, per esempio, con tutte le sue sedie d'oro in fila gli faceva l'effetto d'un sito noioso.—Se ci vado—diceva per bizzarria di spirito—la prima cosa è di cambiar posto a quegli sgabelli che non si muovon più dalla creazione del mondo…

Ma a giorni di eresie succedevano facilmente moti di grande fervore, in cui la signorina del Castelletto sentiva l'anima allargarsi fino a toccare gli orli del cielo. La felicità l'avvicinava facilmente a Dio. Nella gioia profonda del suo cuore sentiva che era poca una vita, e volentieri abbandonavasi verso una santa dolcezza in cui non le sarebbe dispiaciuto di morire.

Ezio l'amava. A questo pensiero provava una gioia che le faceva quasi paura, Bea conosceva la dolcezza infinita dell'amare, ma questa soavità dell'essere amata le arrivava nuova, immensa e in gran parte ancora incomprensibile. Per quanto nobile o sublime sia l'idea che una ragazza o una donna si formi dell'amore, l'idea è un fuoco dipinto in paragone della fiamma vera o viva che penetra in tutto l'essere e morde le fibre più sottili dell'anima.

Oggi per Flora non c'era più dubbio che Ezio l'amasse. Egli stesso aveva voluto dirglielo non richiesto col più eloquente linguaggio che sia concesso alle labbra dell'uomo. Quei tre baci avevano rivelato un Ezio buono, un Ezio tenero, un Ezio rispettoso, come non era mai stato, nemmeno quando giocavano insieme nelle ombre del giardino o guardavano insieme i torrenti della montagna o vogavano insieme nella stessa barchetta.

Che cosa grande (pensava) che cosa divina la bontà di un uomo che ti ama! la donna non saprebbe mai che cosa è l'immensità e l'infinito se un uomo non la trasportasse colla sua forza al di là di questa povera riva. Era ancora sulle braccia di Ezio che essa faceva il passaggio del mistico oceano. Essa era felice. Dopo una lunga esistenza piena di piccole angoscie e di piccinerie vane dipinte sul nulla, sentivasi finalmente rapita da un fiotto di calda giovinezza in cui rigermogliavano tutti i fiori appassiti e si schiudevano le più segrete essenze della vita.

Come al calore del sole di aprile si squagliano le nevi e scendono a precipizio i bei ruscelli chiari, mentre il sole si purifica dalle nebbie, mentre le rondini fabbricano i nidi sotto le gronde e va per tutta la natura una contentezza intima che fa fremere le foglie degli alberi e delle siepi, così pareva anche a lei d'essere tutta una primavera,

Avrebbe voluto parlar alto e cantare ai tronchi la sua felicità. Fin la sua stessa ombra le era diventata cara, perchè era l'ombra d'una creatura felice.

Sollevando gli occhi alle cime degli alberi tra le punte verdi oscillanti sotto l'azzurro del cielo, stava a lungo colla testa appoggiata alle mani, colla bocca schiusa ad aspirare la contentezza che le faceva parere così bello il cielo e così buono il Signore che vi abita.

A questa contentezza di tutti i sensi si accompagnava un senso d'orgoglio d'aver saputo attendere con pazienza l'ora sacra e predestinata del suo trionfo. Da un pezzo essa considerava il suo Ezio come uno di quei traviati peccatori, colpevoli di spensieratezza che è un onore e insieme una delizia per una donna di condurre al bene. In questa lunga speranza aveva vegliato molte notti, e pregato a molti altari, coltivando il suo amore nel giardino chiuso della immaginazione respingendo ogni altro idolo, piangendo sopra di lui come sopra un figliuolo del suo pensiero.

Ecco, Dio aveva voluto che essa raccogliesse il premio della sua fede.—Tu sai, buon Dio, che io sarei rimasta contenta d'essere la sua umile ancella; ma tu hai voluto ch'io fossi qualche cosa di più. Grazie! che tu sia lodato per sempre! Tu hai fatto sonare nell'anima mia molte corde che sarebbero state mute per sempre: tu mi dai una più viva forza spirituale, una più piena coscienza di me? quest'amore mi viene da te, o Signore, parche non può venire che dal cielo quel che fa felice una creatura.—

Aveva ragione la sua mamma di dire che c'era molto della nonna Celina in questa sua figliuola rivoluzionaria: e che bisognava darle marito.

Tanta era la contentezza e la persuasione che Flora aveva della sua felicità che non diede nemmeno molta importanza al fatto che Ezio, dal giorno fatale della saetta, non si era più lasciato vedere al Castelletto, nemmeno sotto le spoglie di Pomponio Labeone. La dissertazione era rimasta al capitolo del «Manutengolismo» ma Pomponio Labeone non pareva già più quell'uomo diligente che aveva promesso di essere.

Che importava a Flora se da sei o sette giorni non dava più segno di essere vivo? Ezio, il suo Ezio essa l'aveva vivo e grande nel suo piccolo cuore, lo portava con sè, nè c'era bisogno ch'egli si facesse vedere. Oppure spiegava quest'assenza troppo lunga nel modo più semplice e naturale. Ezio aspettava d'essere incoraggiato. Toccava a lei forse di farsi vedere non offesa a Villa Serena e dare un segno di grazia a quel brutto impertinentello. E l'avrebbe fatto: certo, essa doveva andarci appena il suo cuore si fosse sentito pronto ad affrontare per la seconda volta la prova della mitraglia.

E l'occasione venne a tempo nell'invito a colazione che il Cresti portò al Castelletto in nome della zia Vincenzina e di Ezio per festeggiare il ritorno dello zio d'America.

* * * * *

—Ecco il gran giorno!—andava ripetendo Flora in cuor suo—Bisogna che io ci vada con tutte le armi.—Volle per quella mattina essere bella, ben vestita, raggiante di quel poco di buono che Dio le aveva dato. Mai aveva sciolto tanto amido azzurro nella catinella come questa volta per dare consistenza e splendore alla sua gonnella di mussolina. Al collo volle mettere le due fila di corallo rosso che facevano brillare il candore di cigno della sua carnagione; nei capelli bastava che ci fosse un nastro che li stringesse forte nel mezzo e li lasciasse cascare liberi alla greca.

Mentre stava nella sua stanza a dar gli ultimi punti a un paio di stivaletti scuciti, sentì nel salotto da basso risonare una voce sconosciuta, una voce di donna che parlava il falsetto, ma forse più che parlare gorgheggiava con una intonazione di testa, framettendo risate acute ed esclamazioni entusiastiche piene di oh, di ah, di stupendi, di splendidi.

—Chi è e da dove viene questa Cocorita?—domandò facendosi sul pianerottolo con quelle due scarpette in mano. E stette un poco a sentire.

La voce continuava a raccontare alla mamma storie non mai sentite di viaggi, di corse, di matrimoni, di carnevali in Riviera, di gente incontrata a Parigi, a Nizza al Cairo, a Madera e in cento altri siti meravigliosi, in cui madama Cocorita era passata ne' suoi inverni, in compagnia del barone suo marito (madama Cocorita era una baronessa). Ora eran venuti a passar qualche mese a Cadenabbia, sull'albergo, nella speranza di poter acquistare una villa in Tremezzina, di cui il barone suo marito, sovente malaticcio, era innamorato. Parlava quasi sempre lei, madama la baronessa Cocorita, con un tono di festosa declamazione, di piena soddisfazione di sè stessa, gorgheggiando, stridendo sugli acuti come un violino: e solo di tanto in tanto un'altra voce più bassa e querula andava intercalando una frase a mo' d'accompagnamento:—Mio genero el baron l'ha fato—mio genero el baron l'ha dito.

Dopo un quarto d'ora di quel concerto, stando in vedetta sul pianerottolo e spiando dalle gretole delle gelosie, vide uscire una signora—pallida e molto bella, che aveva in testa un gran cappello alla Luigi XV, ornato di larghe piume di struzzo, una figura spagnuola che pareva tolta da un quadro del Velasquez: e accanto a lei vide girondolare un vecchietto piccolo e secco come un baccalà, tutt'ufficioso e complimentoso, vestito di un'elegante stifelius di società che non pareva folto sul suo dosso, da cui uscivano due solinoni acuti e taglienti come trincetti, stretti in una cravattona verde più dell'insalata.

Mentre la mamma accompagnava questi non mai veduti visitatori verso il cancelletto, Flora sentì che la baronessa nominava la bella Vincenzina e quel caro tesoro di Ezio…

—Che c'entra costei con Ezio? chi è, da dove viene questa baronessa dalle piume di struzzo?—e appena vide la mamma ritornare, scese le scale e le andò incontro:—Vuoi dirmi chi è questa Cocorita colle penne di struzzo?

—È un'antica compagna di scuola della zia Vincenzina e venne a cercarla qui, credendo che fosse al Castelletto,

—E quel vecchietto che pare un ombrello in una fodera troppo grande?

—È suo padre, il sor Paoletto: un antico sonatore di clarinetto del teatro Regio.

—E come si chiamano?

—Lei da giovine si chiamava semplicemente Ersilia Baracchi e fu sempre una povera ragazza come noi: ma trovò qualche fortuna sul teatro.

—Ah ora capisco..! È un'ex cantante.

—Sposò un ricco banchiere. Oggi è la baronessa Ersilia Hospenthal, ricca a milioni. Fortuna e dormi, dice il proverbio. È una cara leggierona che non manca di buon cuore.

—E come ha potuto conoscere Ezio?

—Credo che si sian trovati quest'inverno a Nizza in occasione delle regate. Il barone è un gran dilettante di nautica.

—E intende di rimanere qui ad appestare l'aria co' suoi profumi giapponesi?—chiese con un tono rivoltoso la giovine aprendo le finestre del salotto.

—Peccato che tu non abbia potuto vedere i suoi splendidi brillanti.

—Non me ne importa nulla. Spero che non ci seccherà troppo spesso colle sue visite,

—Eh… che cosa ti ha fatto?

—Nulla; ma noi non abbiamo poltrone degne dei suoi milioni.

VII.

Colpo di mitraglia.

Flora scese alla Villa insieme alla mamma mezz'ora prima del tempo convenuto per la colazione, colla segreta speranza d'incontrarlo in giardino: ma egli non era lì ad aspettarla alla scaletta della darsena, come si era immaginata, nè si lasciò vedere nel giardino.

Passando davanti alla veranda, sentì invece la voce del Cresti, che parlava col signor curato,

—Faccio un giretto—disse la fanciulla, quando furono per entrare; e corse verso il boschetto delle magnolie, come se sperasse di trovarvi quel che era venuta a cercare o volesse mettere tra lei e il desiderato incontro un nuovo atto di preparazione e di raccoglimento.

Salì e discese la montagnola: e giunta all'imboccatura della grotta, sedette ai piedi di un'antica statua di Diana, in attitudine di donna stanca e smemorata, chiedendosi umilmente con infantile semplicità: —Perchè non era lì ad aspettarmi?

Nella grotta di tufo dove marcivano vecchie casse fuor d'uso, riconobbe una logora carriola di legno, in cui Ezio l'aveva condotta le cento volte su e giù pel viale della montagnola. Erano ancora le stesse piante, o quasi, magre e lunghe, che tremavano all'aria, popolate di tortorelle e di rossignoli: era ancora lo stesso odore di lago misto al più acre odore di canape che fanno marcire alla riva del torrente, un cattivo odore carico di idee buone per quel che suscitava delle antiche memorie. Che cosa era avvenuto di lei che le pareva d'esser così grande in mezzo a queste piccole cose? E perchè tanta paura sul punto d'incontrarsi in quel ragazzo, che l'aveva condotta, docile e obbediente come un buon cavallino, nella carriola di legno? Perdio soffriva già tanto di non averlo visto ai piedi della scaletta, come aveva sognato che ci dovesse essere? Pensò ch'egli fosse a far toeletta. Il signorino mutava di vestiti almeno quattro volte al giorno. Alla mattina scendeva in canotto in tela russa da marinaio: poi faceva colazione colla matrigna in abito da casa: poi usciva in costume di società, e qualche volta si lasciava imbrancare nella compagnia che, in maniche di camicia, giocava alle boccie nel giardino del curato.

Flora non osava pensare ch'egli non fosse lì a riceverla per un sentimento cattivo; ad ogni stormire di foglie credeva di vederlo uscir fuori, tra pianta e pianta, e di sentir le sue mani sugli occhi. Ma la campanella del cuoco suonò il secondo segnale senza che Ezio venisse a scovarla dal suo nascondiglio, lì allora si rassegnò a entrare in casa. Il Cresti la vide subito e corse a prenderla per mano per presentarla a Massimo, che non volle riconoscere nella grande fanciulla, che aveva davanti, la bambinella che si specchiava nei bottoni della montura. Di lei non era rimasta quasi che la gran fiamma dei capelli, diventati un vulcano.

La zia Vincenzina la rimproverò perchè era stata tanto tempo senza lasciarsi vedere; l'abbracciò, la carezzò, le raddrizzò quel che c'era meno diritto in quel suo gran vestito di mussolina, e finì di dirle sottovoce:—Ho un gran discorso a farti, in segreto. A tavola ti ho messa vicino a Cresti: sii gentile con lui.

Il vecchio Andrea venne a dire che la colazione era pronta: e tutti si avviarono verso il salotto.

Egli… egli non c'era ancora. Flora girò gli occhi e fu per gridare: Dov'è?—Il Cresti venne a offrirle il braccio, che essa accettò senza capire dove si andasse.

Si misero a tavola senza di lui: e venne in tavola il secondo piatto prima che il padroncino facesse agli invitati l'onore della sua presenza.

Flora stava già per piangere, quando Ezio entrò in gran furia, chiedendo molte scuse, stendendo la mano allo zio, al signor curato, a Cresti, prendendo il posto tra la zia e lo zio, guardando agli altri cogli occhi vuoti e distratti. Egli fece sapere che per il tocco aveva un'importantissima adunanza del Comitato dei Canottieri al Ravellino, dove sarebbe stata provata la forza di resistenza di due imbarcazioni: si voleva allenare una coppia di barcaiuoli e stabilire una graduatoria di premi; ma questo era nulla. Ciò che aveva scombussolato i suoi progetti e che lo aveva fatto comparire poco grazioso colla cara compagnia era un telegramma urgente dell'amico Bersi, che gli annunciava l'improvviso arrivo del Duca d'Aosta, il presidente onorario del club dei Canottieri. Questo l'aveva costretto a trasformare la sua toeletta; e la compagnia doveva perdonare non solo il ritardo, ma la confidenza del suo vestito mezzo da pescatore e mezzo da gentleman, cioè una maglia da canottiere sotto una giubba nera di società. Oltre a questo doveva anche chiedere il permesso di allontanarsi un po' presto, forse prima che fosse finita la colazione…

—Tutte cose importanti, una più dell'altra—interruppe con un filo d'ironia il Cresti.

—Per te non c'è nulla di più importante d'una conserva di pomodoro… ribeccò il giovine con burbanza.

—Questa almeno è ricchezza nazionale. Ma il vostro correre non vi serve che a pigliar caldo in agosto.

—Sei tu che corri?

—A me basta d'arrivare a tempo…—concluse il Cresti, piegando la testa verso Flora e abbassando la voce come se volesse parlare soltanto con lei e per lei.

—E tu, mio buon zio d'America, come hai ritrovata l'Italia dopo tanto tempo?

—È sempre il paese di Dio…—proclamò lo zio—Gira e rigira, un pezzo di lago come questo non lo trovi in nessun sito. Mi par di ricominciare a vivere.

—L'Italia—volle aggiungere il Cresti—sarebbe senza dubbio il più bel paese del mondo, se potesse essere liberata dagli italiani.

—Non prestare delle brutte parole al più buono degli zii, vecchio selvatico, coltivatore di patate…—gridò Ezio, che lanciava di tempo in tempo un'occhiata all'orologio. I suoi modi erano lieti e cortesi, ma gli occhi no; gli occhi dicevano ch'egli non vedeva l'ora di andarsene.

—Pare che tra voi due sia guerra dichiarata—osservò lo zio Massimo.

—Uno di noi due è di troppo sulla terra..—disse il giovine.

I discorsi a poco a poco si mescolarono e si scaldarono al rumore delle forchette. Massimo aveva cento cose da raccontare di quei paesi di laggiù, della Bolivia, della Venezuela, dell'America centrale: e sentendo di essere ascoltato volentieri, si lasciava andare liberamente a discorrere, provando nella famigliarità dei cari parenti e degli amici il piacere e il riposo che prova il viaggiatore che può, dopo una lunga giornata d'incomoda carrozza, stendere e sgranchire le gambe in una buona poltrona.

Cresti fece una corte spietata a Flora. Lodò il bel vestito di mussolina a bolle bianche e celesti, lodò la collana di corallo, che faceva spiccare il candore marmoreo del collo; lodò le belle mani magre e lunghe, a cui non mancava che una cosuccia sopra un dito…

Mai il solitario del Pioppino era stato così eloquente e poetico; ma sentendosi in quest'assedio spalleggiato dalla madre, dalla zia, da Massimo, trovava nel vin bianco del suo amico Ezio un coraggio di cui quasi aveva egli stesso paura.

Flora stava a sentirlo senza turbarsi, senza ridere, senz'arrossire, senza rispondere, con una impassibilità che poteva parere attenzione:—Perchè Ezio non osava guardarla? perchè questa smania in lui di andarsene? perchè non si era lasciato vedere un momento prima? perchè quei suoi occhi avevano un fondo immobile di noia e di malcontento?

Non si era ancora arrivati al caffè che il giovine, confrontato il suo orologio con quello del caminetto, disse:—Cari miei, bisogna proprio che vada. Me ne duole assai, ma non vorrei che Sua Altezza andasse a Cadenabbia e non ci trovasse.

Pare che tu non abbia soltanto degli amici a Cadenabbia—azzardò con un tratto di sfida il misantropo del Pioppino, che in questa carta un po' arrischiata aveva il suo buon giuoco.

—Cioè?—disse Ezio, coll'aria beffarda di chi accetta la sfida.

—Si dice che sarebbe arrivata anche una certa famosa altezza… Chi me ne ha parlato? credo il Bersi quest inverno, quando tornò da Nizza.

—E se anche fosse, che te ne importa? troncò netto il giovine con un'alzata aspra del viso.

A Flora, che stava parlando di musica con Massimo non isfuggì una sola parola di questo breve dialogo, in cui Ezio affettò quasi del brutto cinismo: e la colpì il modo violento con cui egli uscì senza degnarla nemmeno d'un'occhiata. Cresti rideva del suo buon giuoco—Avete visto? pare che l'abbia toccato sul vivo. Come si chiama, donna Vincenzina, quella baronessa ex cantante di cui parlava quest'inverno il Bersi? Ci deve essere stato un piccolo dramma a Nizza tra lei e quell'altra, di nome spagnuolo. Son le prodezze di questi giovinotti.

Flora si mosse improvvisamente e andò incontro alla Bernarda, che entrava col vassoio del caffè. Glielo tolse di mano e passò a preparare il tavolino e le sedie nella veranda.

Aveva bisogno di essere sola un momento. Oh se avesse potuto buttarsi colla testa in terra, piangere, gridare! Da un'ora non facevano che tormentarla in tutti i modi; ma le ultime parole odiose del Cresti avevano finito col configgerle uno spillo nel cuore. Essa non sapeva nulla del dramma a cui si accennava, ma cominciava a sentire che quella donna dalle penne di struzzo era venuta sul lago in tempo per rompere la sua felicità. Si spiegò l'istintiva ripugnanza che le aveva ispirata la sua presenza: si spiegò l'improvviso mutamento di Ezio, che già cominciava a gustare le dolcezze dello studio e della vita domestica: si spiegò la freddezza delle sue parole, la morte de' suoi sguardi, il suo spirito eccitato e caustico..

Vedendolo passare, mentre si recava verso la scala della darsena, non stette più alle mosse; ma obbedendo all'impetuosa forza che l'avviluppò, gli andò dietro. Egli doveva dirle, almeno, in che cosa si credeva offeso.

Giunta all'ingresso della darsena, sentì la sua voce irritata gridare contro il povero Moschino, che doveva averne fatta una delle sue.

—Chi ti ha detto di toccare il canotto? ecco, asino calzato, ora mi hai fracassato il timone. Ah questa non te la perdono, manigoldo.

—Misericordia!—gridò Moschino con voce atterrita.

Alle parole tenne dietro un brusco e scatenato sballottamento di legni. Ezio era fuori di sè, con qualche ragione questa volta. Quel disgraziato nel maneggiare il suo bel canotto Morning Star gliel'aveva conficcato tra il battello pesante e il muro scabro della darsena con tanta grazia che il delicato timone era saltato via in due pezzi. E questo malanno quasi alla vigilia delle regate! C'era di che morir avvelenato di rabbia. E l'ira gli andò così veemente al cervello, che saltando dal canotto sul battello, con quel pezzo di timone rotto in mano, Ezio, preso il ragazzo per il petto, dopo averlo inchiodato sul muro, gli picchiò quel legno sulla zucca, fin che ne restò un mozzicone. Il sangue colò abbondante sul viso del ragazzotto, che andava gridando:—Padron, misericordia!

—Tu non sei amabile, stamattina—disse improvvisamente la signorina del Castelletto, scendendo gli scalini e comparendo non invitata e non aspettata ad assistere a quella brutta scena.—Nemmeno le bestie si trattano così.

—Ma le arcibestie sì—ribattè Ezio senza scomporsi. E continuando nelle sue minaccie, come se Flora non ci fosse, seguitò:—E pensa a sbrattare da casa mia, brutto imbecille. Non dò da mangiare alle bestie che mi rovinano i canotti, io.

—Ora hai gridato abbastanza—interruppe Flora che in questo frattempo s'era chinata a bagnare il fazzoletto nell'acqua e cercava di fermare il sangue della piccola ferita. Poi persuase Moschino a non dir nulla e a tornare in casa dove sarebbe venuta subito anche lei. Il ragazzo obbedì. Allora la fanciulla, che la pietà e lo sdegno rendevano animosa, si volse di nuovo al signorotto di Villa Serena e gli disse:—Prima di cacciar questo povero ragazzo dalla tua casa, dovresti cacciare quel brutto diavolo che hai indosso.

Essa fremeva tutta. Commossa alla vista del sangue e dell'ingiustizia, la Polonia si sollevò e parlò chiaro in tono di sfida, in cui entravano dei personali risentimenti.

Ezio, lieto in cuor suo che essa gli offrisse così a buon mercato il pretesto di rompere le buone relazioni diplomatiche, si alzò nel mezzo del battello e parve un gigante sotto la volta bassa e tenebrosa della darsena. Nella maglia bruna che lasciava nudo il collo e nude le braccia abbronzate dal sole il suo corpo di giovine atleta si disegnò nella plastica bellezza d'un busto di bronzo. E anche l'atteggiamento ebbe del plastico, quando, appuntando verso Flora quel mozzicone di timone che aveva in mano, le disse con un sottile sarcasmo:—Contessina, quando voglio ricevere lezioni da lei so dove sta di casa.

—Ezio!—gridò la povera Flora, opponendosi con un supremo sforzo a un fiotto largo di lagrime, che minacciava di soffocarla:—Perchè sei così cattivo con me stamattina?

—Son quel che voglio essere, in casa mia—ribeccò con collera nervosa.

—Sai che ti voglio bene, Ezio—si lasciò condurre a dire la poverina con un'espressione umile di supplica; ma Ezio, aveva già col remo distaccato il canotto, che scivolò a un secondo colpo fuor della darsena nella luce aperta e svoltò dietro l'argine d'ingresso.

Essa rimase lì sull'ultimo scalino, coi piedi quasi nell'acqua mossa, in cui la persona vestita di chiaro si sconnetteva tutta in una figura tremula e convulsa.

—Sai che ti voglio bene…—stava per ripetere, mentre stringeva la testa nelle mani, come se anche lei fosse stata percossa e tutto il sangue uscisse da quella ferita.—Ezio! Ezio!—avrebbe voluto gridare, scendendo in quell'acqua oscura per corrergli dietro; ma il suo orgoglio si ridestò impetuosamente e non volle più ch'essa piangesse e pregasse. Essa non aveva bisogno di avvilirsi fino alla viltà di quell'uomo. Se egli si era abbassato fino alla menzogna e se da una menzogna cercava di riscattarsi con una violenza, perchè doveva essa seguirlo nel suo fango? no, morire prima: piangere mai!

Intanto il signor vice ammiraglio con una vigoria di colpi che facevano volare il leggiero canotto sul pelo dell'acqua, pigliava il largo come un contrabbandiere che sa come, perduto il momento propizio, non si passa più. Da una settimana andava studiando il suo piano per far capire a una ingenua che non bisogna credere troppo ai temporali d'amore.

Acquazzoni di montagna! egli aveva voluto semplicemente scherzare.

Con un pizzico di malafede diplomatica oggi poteva dimostrarle che il torto è di chi si mescola negli affari altrui.

—Piglia il tuo tempo mentre passa; (diceva accanto a lui un cattivo diavolo) nelle guerre d'amore vince chi fugge.

Poichè l'animo non era del tutto pervertito bisogna anche dire che un senso di malcontento, quasi di rimorso, gli faceva parere pesanti i remi: ma il suo diavolo, seduto in poppa, al posto del timone spezzato, andava soffiandogli negli orecchi:—Via, via, alla larga dalle ragazze che piglian l'amore troppo sul serio.

VIII.

Trista ebbrezza di cattivo vino.

Ezio, accettando l'invito del barone, recavasi una mattina a far colazione a Cadenabbia.

Sul battello s'incontrò in Erminio Bersi, che veniva dalla Brianza, e che era stato invitato anche lui nella sua qualità di segretario della società dei canottieri, della quale il Barone Samuele Hospenthal era uno dei soci fondatori.

Il Bersi, un vecchio giovinotto dalla faccia rubiconda e grinzuta sotto i capelli precocemente imbiancati, raccontò di aver trovato Lolò a Merate tutto in faccende nel sostenere la candidatura di suo cugino il Marchese di Roncaglia; ma lo sport politico non gli avrebbe impedito di essere sul lago il giorno delle Regate.

—Sai chi ho visto a Como? ed abbiamo viaggiato sul battello insieme, fino ad Argegno, dov'è discesa, probabilmente diretta in Val d'Intelvi in compagnia del suo vecchio americano. Ha promesso di venire anche lei sul lago per le Regate dopo che avrà condotto il suo vecchio arcimilionario a vedere il lago di Lugano. Tu sai di chi parlo.

—Di Liana. Le hai parlato?

—Ha voluto presentarmi al suo vecchio miliardario, una specie di baccalà cotto nel petrolio, che la copre di diamanti; ma mi ha fatto capire che si annoia e mi ha chiesto di te.

—E tu che cosa le hai risposto?

—Ho detto che Ezio Bagliani si è dato interamente alla
Giurisprudenza.

—Precisamente..—confermò con secchezza il giovane.

—Dice che tu sei stato troppo cattivo con lei.

—Oggi o domani bisognava che io venissi a questa decisione. Potrei risolvermi anch'io a prender moglie.—Ezio rise cogli occhi, mentre offriva una sigaretta all'amico. Poi per girare il discorso gli domandò:—Conosci il barone?

—Da un pezzo, ci siamo trovati tre anni fa ai bagni dell'Ardenza.

—Che uomo è?

—Uomo di molto ingegno, acuto come una lesina, che sa mescolare l'utile al dolce, non privo di ambizione, che aspira a rendere qualche grosso servizio alla deplorata finanza italiana. Non è l'Apollo del Belvedere, poverino, con quella fronte a pera, con quel naso da pappagallo, con quegli occhi da formica, che son sempre in cerca di occhiali; ma è una testa che pensa. Conosce egualmente bene un quadro d'autore come un titolo di rendita, e mentre ti espone un programma finanziario, è capace di citarti un verso di Orazio.

—Che tu forse non sei capace d'intendere.

—È il nostro torto, Ezio. Il mondo, mi persuado sempre più, è di chi sa.

—Paf! esclamò Ezio, picchiando un colpo di mano sul panciotto del vecchio giovinotto. In un altro momento il Bersi avrebbe dovuto pagare l'onore di aver pronunciata una sentenza così seria: ma costui nicchiando continuò:

—In quanto alla baronessa pare che tu la conosca meglio di me; dicono che ella sappia, come Rossini, pigliare il suo bene dove lo trova: ma è d'una imprudenza fenomenale. Avviso al lettore.

Ezio non diede segno di capire, ma si mosse per salutare la bella marchesa Lenzi che montava sul ponte in compagnia di due giovinette sue nipoti e di don Gino Corsi. La Lenzi, che dopo aver divorata tutta la sua parte di felicità, s'era consacrata a procacciare quella degli altri, presentò il giovane Bagliani a Fanny e a Mimì che risposero con vigorosi shake hands. Il Bersi ridendo gli disse sottovoce:—Essa ti cova…

La riva e lo sbarco di Cadenabbia erano affollati. Le belle giornate, le prossime regate, il passaggio grande dei forestieri, che incominciavano a piovere dall'Engadina, rendevano la stagione sul lago molto promettente.

—C'è anche il professore—disse il Bersi, mentre il battello si accostava al ponte.

—Che professore?

—Non conosci il sor Paoletto Baracchi celebre professore di clarinetto? eccolo, quel vecchietto che agita il cappello. È il babbo della baronessa, un ometto modesto, allegro, rassegnato, che gode il papato all'ombra di sua figlia. Credo che sia l'uomo più felice del mondo. Mangiare, bere, viaggiare e trovar tutto pagato per uno che ha soffiato trent'anni in un pezzo di legno, si può dare di più?

In un gruppo in disparte Ezio riconobbe la baronessa che gli sorrise al di sotto d'un cannocchialino d'avorio che teneva agli occhi. Vicine a lei eran altre signore, tra cui due giovinette alte, bionde, di tipo esotico, due Russe che viaggiavano sole il mondo. Il barone Samuele col suo contegno umile, d'uomo che digerisce male, faceva da cicerone a un grosso signore, un tedesco all'aspetto, che approvava tutto quel che sentiva dire. Le presentazioni furono fatte sul piazzale dell'albergo. Il barone presentò i suoi amici, il nobile Ezio Bagliani e don Erminio Bersi, al commendatore Zuccani, segretario particolare di S. E. il Ministro delle Finanze al signor Ignazio Bühler, direttore della Banca federale, presidente anche lui del club dei Canottieri di Zurigo.

—C'è voluta proprio tutta la forza di Samuele per averla una mattina con noi, Bagliani—disse la baronessa, mentre serrava con una segreta corrispondenza massonica la mano di Ezio. Questi cercò di soffocare una prima emozione, mettendo in canzonatura le sue grandi occupazioni, i restauri alla villa, le regate, gli studi, le Pandette e Pomponio Labeone.

—Sì, sì, tutte belle cose, ma noi abbiamo bisogno dei nostri amici—disse la baronessa, infilando il suo braccio pesante in quello del giovine.

Ersilia Baracchi maritata al Barone Hospenthal, bella sempre nella sua floridezza di donna leggiera e sciocchina, quella mattina poteva parer bellissima anche per la singolarità del suo modo di vestire. Non più penne di struzzo in testa, ma un cappello di paglia o piuttosto un cestello di spighe e di papaveri. In dosso aveva una giacchettina a vita, di sottile stoffa inglese paglierina con risvolti gialli, sopra una sottana della stessa stoffa a pieghe pesanti, che non arrivava a nascondere gli stivaletti alti di montagna e sulla quale cascava da uno dei lati una borsetta di cuoio di Russia. Gli alti guanti svedesi che le stringevano il braccio fino al gomito e il parasole dal lungo bastone di bambù colla punta ferrata compivano il suo costume di driade calzata, che poteva far sorridere le vere dame dell'eleganza; ma che essa portava bene colla disinvoltura della seconda donna, che ne ha portati di più stravaganti.

Prima di entrare nell'albergo, dove li aspettava la colazione, la baronessa si voltò a salutare le signorine Sanin, le due sorelle russe, e diede loro un prossimo convegno.

—Io dovrò presentarla a queste signorine, caro Bagliani, per combinare con loro qualche bella gita in montagna. Sono innamorate dell'Italia, dei nostri laghi, del nostro canto… e di me.

—Poco merito!—balbettò Ezio guardandola negli occhi. Che cosa le volesse dire con quello sguardo non sapeva bene nemmeno lui; ma poichè era venuto a questo invito e gli capitava l'occasione di divertirsi con questa mimica, non voleva venir meno allo spirito della situazione. L'anima superficiale e la coltura rudimentale di una donna che scriveva Ezzio ed Ersiglia non potevano commuovere troppo profondamente i gusti aristocratici di un raffinato, come il nostro vice ammiraglio, che aveva navigato nei golfi più oscuri dell'amore; ed era stato ben lieto che le scenate di Nizza (dove Liana, come si raccontava, aveva preso a schiaffi la baronessa in pieno giardino pubblico) l'avessero liberato da un pericoloso perditempo e gli avessero data la forza di rompere una vecchia catena.

Ora che si trovava in un momento di raccoglimento spirituale, non avrebbe voluto ripigliare il giuoco, se non fosse stato il bisogno di opporre qualche distrazione al suo rimorso e di strapparsi alla seduzione, forse più pericolosa, di Flora.

La baronessa tornò a ripetere il suo progetto di una bella gita in montagna.—Sento che quassù c'è un'alpe dove si può anche riposare la notte. Non ho mai passata una notte in montagna. Ci deve venire anche lei, Commendatore—soggiunse volgendosi al giovine segretario particolare che era sempre in moto a cercare il cordone degli occhialetti tra i peli della barba nera e folta.

Ovve va la bbaronessa è ssempre un sentieru fiuriddu—declamò l'illustre uomo politico, alzando il mento e socchiudendo gli occhi, come se recitasse una formola sacramentale.

—E voi, Buhler, siete alpinista?

—Fin dove arriva il barone, madama—rispose in discreto italiano il direttore della banca federale, ridendo colla traboccante giovialità d'uno svizzero contento di sè.

Il Bersi si lasciò acchiappare dal sor Paoleto, antica conoscenza, che cominciò a ricordargli certe misteriose scappate fatte insieme a Viareggio e a Chiavari nelle rosticciere popolari dei calli, dove più che aria si respira pesce fritto.

Il vecchietto dagli occhi vivi, dalle guance infossate, come se il lungo soffiare le avesse sgonfiate, solido e frettoloso come un frullino, conservava al disotto della sua nuova felicità e del signorile benessere che godeva in casa del baron suo genero, i gusti dell'antico e modesto filarmonico e il suo piacere più forte era di scappar dalla soggezione dei pranzi di lusso dei ricevimenti, per correre a soddisfare la gola con un bel piatto di spaghetti al pomodoro, non tropo coti, o di pescheria alla genovese, mangiata in tre o quattro amici sotto un pergolato d'osteria. In queste circostanze, se trovava un po' d'incoraggiamento, faceva sentire ancora il clarinetto che da sei o sette anni dormiva scomunicato nel vecchio astuccio.—Scarso e sottile nei vestiti ancor buoni che il genero milionario gli faceva (con ben intesa economia) portare, volonteroso e sempre pronto a render sevigio a tutti, il sor Paoleto non era un uomo inutile in quella gran casa senza figliuoli; curava i pappagalli, accompagnava a spasso la Tota, una vecchia cagna stanca di vivere, portava lettere, involtini, ambasciate alle sarte e alle modiste di sua figlia la baronessa e durante il tempo che i figliuoli giravano all'estero, solo, nella gran casa di Milano, restava a custodire le bestie, di cui mandava le preziose notizie fino a Parigi, a Madrid, in Egitto.

La colazione fu preparata in un elegante salotto dell'albergo, che faceva parte del quartierino che il barone aveva scelto per sè nell'angolo più ombreggiato: e fu servita con una grande profusione di piatti, di vasi, di fiori.

Bellissimi mazzi d'orchidee, dalle forme più strane e contorte, s'intrecciavano fra i trionfi di cristallo sopra un tappeto di fiori teneri dai colori delicati steso come un tovagliuolo nel mezzo della tavola. Altre orchidee dalle corolle fantastiche in mezzo a foglie vellutate e screziate come stoffe riempivano i vani delle finestre, che davano sul verde nero dal boschetto, da cui veniva un chiarore caldo, che moriva lentamente sulle argenterie, sulle cornici d'oro e sugli specchi del bel salotto tappezzato di cuoio.

Si vedeva in quell'apparato di sfarzo e di ricchezza l'intenzione di far colpo o sul segretario generale o sul direttore della Banca di Zurigo, o su tutti e due. Il barone, che sapeva così bene far qualche economia sui vestiti smessi, sapeva anche spender bene quando voleva dare un saggio della sua potenzialità economica. Cattivo stomaco, logorato da una vecchia dispepsìa, per conto suo mangiava come una gallina e non beveva che vino comune molto allungato in una quantità straordinaria di acqua di Vichy: ma conosceva troppo bene gli effetti psicologici che un buon pranzo e delle buone bottiglie producono nelle disposizioni umane. Da un anno Samuele Hospenthal, quest'uomo sempre in preda a crampi di stomaco, andava tra una stazione e l'altra della sua vita vagabonda preparando gli elementi per la costituzione di una forte Banca italo-elvetica, che doveva aver sede in Milano con appoggi solidi nella Banca Romana, che già fin d'allora godeva le simpatie di molti deputati: e siccome tutto faceva prevedere un vicino patatrac, il barone avrebbe voluto prepararsi a rilevarne le rovine con una forte organizzazione Bancaria, che fosse lì pronta a sostituirsi. A questo solo intento, tra una regata e l'altra, quell'uomo sobrio che per risparmio di respiro non finiva mai un discorso, aveva trovato il tempo di fondare e di sostenere due giornali, il Corriere Commerciale di Genova, e l'Eco della Borsa di Napoli, che andavano da sei mesi preparando un terreno propizio.

La baronessa fece sedere alla sua destra il Segretario generale che bisognava carezzare e alla sinistra Ezio Bagliani, il piccolo ribelle; in faccia aveva il marito tra Buhler e Bersi. Il sor Paoleto, per non rompere la simmetria aveva mangiato prima alla table d'hôte, ma si riservava di far onore al punch frappé quando fosse venuto.

La conversazione corse rapida e animata tutto il tempo che durò l'elegante servizio fatto sotto la direzione stessa di monsieur Detraz, il maggiordomo, con un ordine silenzioso e colla precisione degna d'una cerimonia religiosa. Il cartello della mensa cominciava con oeufs brouillés aux truffes e finiva col punch frappé passando attraverso a dei rougets grillés, a uno squisito filet de chevreuil e a piatti riboccanti di frutti e di confetture.

Nè meno squisita fu la lista dei vini che un cameriere biondo come Apollo, versò di seguito in una serie di bicchieri di cristallo degradanti come una zampogna, dal bianco Chablis, dal Bordeaux lucente come sangue vermiglio, allo Champagne biondo e spumante che traboccava fremendo dalle coppe fragilissime.

Era la calda abbondanza della buona tavola, a cui Ezio col vigor lieto de' suoi ventiquattro anni, sotto l'occhio carezzevole d'una bella donna che lo desiderava, fece un superbo onore. I discorsi seguitarono a riscaldarsi nel tepore delle vivande, che spandevano un acre odore di salse in quell'aria già carica del profumo dei fiori. Si parlò di politica, di regate, del lago di Como, in paragone coi laghi svizzeri, delle brutte notizie di Sicilia dove si faceva nuovamente sentire l'azione rivoluzionaria dei Fasci socialisti. Il Bersi, che era sempre un po' sfrenato nel bere, non trovava che un rimedio ai torbidi:—Polvere e piombo.. come il general Radetzky soleva fare coi milanesi nel 48. Finchè l'idra avesse avuta una testa (e i capi bisognava fucilarli subito) la Sicilia non avrebbe mai ricuperato la sua quiete: ma il guaio d'Italia—soggiungeva il vecchio giovinetto, chiedendo scusa a sua eccellenza il commendatore Zuccani—il guaio era tutto nella debolezza del Governo.

Il Commendatore si permetteva di osservare che la questione era complessa: che veramente un po' di miseria c'era laggiù.

—E non soltanto laggiù,—aggiunse il barone.

—E non soltanto in Italia—appoggiò il direttore della Banca federale.

—Quel che occorre è una buona circolazione monetaria e un coordinamento più razionale delle banche.

I tre illustri uomini avviarono su questo argomento una discussione piuttosto animosa, in cui entravano e il cambio traiettizio, e l'arbitraggio bancario e la massa di rispetto e il fondo di riserva, e altre astruserie di questo genere, che si accendevano come d'una lieta fiamma passando nella trasparenza dei bicchieri.

Il Bersi, che cominciava a veder confuso, si lasciò trascinare nel vano d'una finestra dal sor Paoleto che, tenendo il calice del punch frappé fra le dita, gli spiegò minutamente come si debba trattare lo stoccafisso salato, se gli si vuol conservare il suo aroma di mare; niente burro, ma olio, olio purissimo, con qualche soluzionetta di acciuga.

Ezio si lasciò trascinare anche lui dall'onda del l'ambiente. Venuto per soffocare un'idea cattiva in un cattivo vino, il vagabondo non dolevasi di trovare nel vino qualche dolcezza. Nei fumi dell'ebbrezza, le figure del giuoco gli si confusero in mano ed egli si trovò di prender gusto alle parole insinuami di una donna, di cui sentiva il fascino fisico.

La baronessa che i calori dello Sciampagna resero ben presto irriflessiva lo dominava già cogli occhi, e lo esaltava col rapido contatto delle mani, non gli lasciava quasi più tempo di riflettere.

—So che mi hai vendicata—gli disse una volta sottovoce, dandogli di punto in bianco del tu, come se tra loro fosse già roba intesa.

—Di chi?

—Di quella svergognata tua spagnuola. È vero che l'hai battuta prima di cacciarla via?

—Chi l'ha detto?

—Lo so.

Il pericolo della conquista che stuzzica sempre quel residuo di cavalleresco ch'è nel fondo di ogni giovine elegante, l'attrattiva del frutto proibito, l'idea che tra cinquanta possibili adoratori di una donna essa sceglie te, e per te è pronta a sacrificare la sua tranquillità, dovevano a lungo andare produrre nel giovine Bagliani, che vantavasi come un uomo positivo, una cieca esaltazione, degno castigo del suo peccato.

Ben presto egli non seppe più distinguere se parlasse in lui più forte l'amore o l'orgoglio, o dove l'uno cedesse il terreno all'altro; ma si sentì travolto da tutte e due, come da due cavalli eccitati e sfrenati che trascinano un piccolo cocchio di paglia.

—Il caffè andremo a prenderlo nel chiosco—disse la baronessa alzandosi; e impadronitasi del braccio del giovine Bagliani, lo condusse verso il giardino. Gli altri seguirono infervorati, nei loro discorsi, in cui la digestione mescolavasi alla riduzione della rendita, allo scioglimento dei Fasci socialisti e alla non mai provata squisitezza di una pizza napoletana abbrustolita con pane grattugiato.

—Tu mi dirai tutto quello che è accaduto. Sapevi che sarei venuta a cercarti? non hai ricevuto una mia lettera da Parigi? Noi resteremo qui, sul lago, fino a ottobre e tu devi aiutarci a cercare una bella villa. Samuele è disposto a spendere quel che occorre e a me non sembrerà vero d'essere così vicina a te. Tu sai quel che ho sofferto dopo quella brutta scena di Nizza. Tu mi devi dare un giorno o l'altro quella donna nelle mani. Ho bisogno di flagellarla…

E rompendo in una risata comica, come se si burlasse di questa sua ferocia, soggiunse:—Ma che m'importa di lei se tu sei mio?

E intanto entravano nel piccolo chiosco costrutto in una foggia tra il turco e il chinese nel fondo di un boschetto di pini, con piccole finestre a vetri colorati, che versavano macchie rossastre e giallastre sui pochi mobili che arredavano l'interno…

* * * * *

—E ora dammi una sigaretta…—riprese la baronessa, E colla sigaretta in mano discese ad aiutare Ignazio Buhler che pienaccio di corpo e alquanto squilibrato dal vino, stentava a scalare gli ultimi gradini.

Fu servito il caffè coi liquori nell'ombra verde di quel boschetto, in cui, tratto tratto, ai grandi discorsi di economia politica osava mescolarsi il trillo di un usignolo.

IX.

Una benedizione.

La settimana che precedette alle Regate furono per Regina giorni di trepidazioni e di pensieri. Amedeo aveva accettato di entrare nella gara dei battellieri e di rappresentare con Tremezzo anche gli altri paesi minori, che stanno ai piedi del monte Crocione e tutto lasciava sperare ch'egli avrebbe battuto questa volta quei di Dongo, che da tre anni portavan via la bandiera.

Regina era in cuor suo orgogliosa, ma non c'è gloria senza palpiti. Nella sua paurosa modestia avrebbe voluto che quel benedetto giorno fosse già passato. Dopo le Regate si sarebbero celebrate le nozze: ma già gli occhi della gente erano addosso a lei, come se toccasse a lei di dar forza e coraggio ad Amedeo. Per conto suo poco ci aveva a guadagnare il giovine, se anche avesse vinto tutte le bandiere del lago, come poco ci aveva a perdere se quei di Dongo o d'altri siti l'avessero battuto: la loro gloria ormai, era un'altra: anzi le pareva che tutta questa gente che s'immischiava tra lor due portasse via la parte migliore di quella contentezza, a cui dopo due anni di aspettazione e di segreti sospiri, avevano diritto. Tuttavia, se Amedeo avesse battuto veramente quei di Dongo e fosse tornato con quella benedetta bandiera in mano, acclamato vincitore, portato in trionfo dai compagni, messo al di sopra di tutti gli altri, le pareva che sarebbe stata una bella consolazione di più.

Intanto coll'aiuto e coi consigli della signorina del Castelletto lavorava a preparare il costume da battelliere, che era fissato in una blusa di rigatino turchino con filettature bianche, nastro turchino nel cappello tempestato di stelle bianche.

Questo piccolo corredo non fece dimenticare quell'altro. Bortolo che non aveva tempo o non voleva spendere i denari di un viaggio fino a Como, pensò d'incaricare un mercantello ambulante, di quei che vanno colla cassetta sulle spalle a vendere tela e minuterie alle donne, di portargli un assortimento di stoffe, cercando di combinare il buon gusto colla non troppa spesa.

La casetta al torrente era stata imbiancata di fresco: l'aria e il sole entravano da due parti ad asciugarla.

Maria Giulia, la mamma di Amedeo, ci aveva lasciato un paiuolo, un calderotto, un armadio da cucina, quattro sedie e un laveggio: il padre della sposa avrebbe provveduto il letto, i canterani e la biancheria: alle gioie voleva pensare Amedeo colle duecento lire delle Regate, che bisognava vincere e con qualche altro risparmio messo in disparte.

La signorina del Castelletto prese sopra di sè l'incarico degli addobbi, delle tende alle finestre, dei quadri e della Madonna a capo del letto, che volle appendere essa stessa. Tutto l'appartamento degli sposi consisteva in quattro stanze, due al pian di sopra, due a terreno, che servivano anche di scuola ai bambini dell'asilo con un piccolo chioso verso la riva ombreggiato da quattro piante di fico; ma come non è mai disgrazia quando il frumento trabocca dallo staio, così non è male che la felicità sia più grande della casa che abita.

Quei due figliuoli, alla loro maniera semplice eran proprio felici, di quella felicità che non perde il tempo a definire sè stessa. Essi non discorrevano mai del bene che avrebbero trovato in quella casetta presso il torrente, per quella quasi paura che la gente incolta ha della luce che esce dalle sue più vive emozioni; ma vi guardavano ansiosamente come a una grossa moneta d'oro riposta che non conviene buttare in spiccioli. Dei due, forse il più imbarazzato davanti a questo avvenire era lo sposo, perchè era il meno ignorante dei misteri della vita, mentre la sposa, nell'innocenza sua, ci andava fidente come a un dovere voluto e benedetto da Dio: ma entrambi sentivano di essere sicuri di quella felicità che ha le salde radici nei bisogni della natura, che fiorisce e muore naturalmente nell'aria aperta e nel benefico calore del sole.

È in mancanza di questa felicità naturale che i signori inventano le serre e storpiano i fiori. Chiusi essi stessi in una atmosfera di bisogni artificiali, non le copiose rugiade del cielo rinnovano e rinfrescano le piccole radici sepolte in angusti vasi di porcellana, non il caldo del sole rinforza i gracili steli tenuti ritti dalle posticcie convenzioni. Vivono i poveri germi, senza terra di sotto di una vita tutta superficiale, come le muffe e gli agrifogli selvatici che rivestono le pareti di un umido sepolcro. Basta un soffio di novembre a irrigidire tutta questa vegetazione di salotto.

* * * * *

Se ne accorgeva già la povera Flora, per cui la felicità non era durata più di quel che dura una goccia di rugiada sul filo di una ragnatela. L'illusione era caduta e ora non le restava che di mostrare il suo amaro disinganno. Quando fu veramente persuasa che essa si era inebriata in un bel sogno, e che Ezio la respingeva per ricuperare brutalmente la sua libertà, credette per un istante di morire. Livida, coi lineamenti stravolti, passava molte ore al buio, buttata sul letto, fingendo degli atroci mali di capo, fin che sentiva la mamma che veniva a cercare di lei. In presenza sua e più ancora in faccia agli estranei, sapeva trovar la forza di nascondere il patimento del suo cuore e l'avvilimento mortale in cui l'aveva gettata la sua credulità; ma appena sola, ricadeva in quella cupa tetraggine, che è come l'ombra della morte. Idee cupe passavano nel suo cervello e la spinsero una volta ad aprire il vecchio stipo e a trarre da un nascondiglio il pugnaletto ancor col sangue rappreso, che aveva un giorno vendicato l'onore dei Polony. La sua testa in fiamme non sognava che incendi e distruzioni.

Perchè, quando ci pensava, la situazione non era più quella di prima, nè essa poteva dire a sè stessa che Ezio da allegro egoista aveva diritto di ripigliare una posizione perduta: no, non era più la stessa cosa. L'antico equilibrio non poteva più essere ristabilito con un semplice atto di volontà. Ezio l'aveva ferita al cuore e il cuore perdeva il suo sangue dalla ferita. Perchè l'aveva onorata se era sua intenzione d'oltraggiarla? perchè accendere una gran fiamma per soffocarla in un mucchio di cenere… la cenere della sua povera vita? e più si sprofondava in queste considerazioni, più andava persuadendosi che qualche cosa di nuovo era intervenuto a rendere impossibile la pace tra lei e il signorino della Villa Serena.

Che Ezio la sacrificasse al suo egoismo: che per amore di tutte le vagabonde del mondo la lasciasse languire in un'inutile speranza era storia antica: cosa dura, ma la poteva accettare, perchè sentiva di essere sacrificata al suo egoismo, cioè alla parte più forte di lui; ma che ella dovesse fare questo sacrificio a una donna… a quella donna che entrava repentinamente a portarglielo via… Alle belle Liane, Ezio non cercava che i passatempi della sua età, e una povera creatura innamorata poteva ben restar di fuori al freddo ad aspettare, come la moglie del cattivo operaio sta sull'uscio d'una bettola in attesa ch'egli esca per ricondurlo a casa. Ma questa signora dalle penne di struzzo, questa baronessa, questa donna maritata era venuta in un momento sacro ad avvilupparlo colla fatale passione che accieca e che perde. Non più giovine, ma forte della terribile bellezza che non vuol abdicare, l'ex cantante era venuta apposta (se Cresti diceva il vero) per riprendere possesso d'un tesoro contrastato, farne ludibrio delle sue basse sensazioni.

Davanti alla invasione indecente di questo male, il suo antico e modesto altare era andato travolto e distrutto. Ezio non sarebbe più tornato a lei, o non poteva tornare se non quando era troppo tardi per tutti e due. Nè essa l'avrebbe voluto più riavere, uscito da quelle mani. L'orgoglio del suo sangue rifiutavasi a bassi perdoni; ma intanto la sua misera vita soffriva come se il destino feroce la facesse morire tra le verghe.

La mamma aveva avuto ragione di dire che col fuoco non si scherza: ma una Polony discendente da eroi, poteva anche dimostrare al mondo che si può ridere e cantare anche in mezzo alle fiamme, quando sorregge un'altiera fierezza. Ma per far ciò bisognava chiamare tutte le forze più superbe intorno al cuore, affettare un sublime disprezzo per ciò che umilia, farsi vedere più occupata di altri che di sè, evocare qualche dovere più grande in cui potesse star sepolto il suo disinganno.

La mamma andava parlando di Cresti, del buon Cresti, del povero
Cresti…

Non sarebbe stata la migliore delle vendette?

Non osò fermarsi su questo pensiero, ma non osò nemmeno respingerlo. Nella tempesta della sua vita Cresti era uno scoglio, in cui poteva tanto approdare come rompersi la sua barca.

Per opporre pensieri a pensieri, cose a cose, per tutta la settimana che precedette alle Regate volle mostrare di prender parte alle angustie di Regina e ai voti che tutti quelli del paese facevano per il trionfo di Amedeo. Non potendo star seduta in casa, usciva cinque o sei volte al giorno, per recarsi ora alla casetta degli sposi, ora alla Villa Carlotta, provando spesso la sensazione paurosa di una persona che fugge colle vesti in fiamme.

* * * * *

Un giorno sul piazzaletto che si allarga davanti alla fattoria, tra la chiesa e la riva, trovò seduti all'ombra dei platani il vecchio Bortolo, e la moglie sua Santina, Maria Giulia, la madre di Amedeo, in contemplazione d'un armadio che un vecchietto lungo con un collo lungo, munito d'un grosso pomo di Adamo, aveva collocato sul muricciuolo della sponda e teneva aperto come un tabernacolo.

Il mercantello detto il Cernobbio andava levando dal tabernacolo e spiegazzando sui ginocchi dei clienti una stoffa di mezzo cotone e mezza seta ch'egli assicurava essere un merinos garantito, di un colore solido che non sarebbe scomparso nemmeno a usarlo, parlando con poco rispetto, per strofinaccio dei piatti. Provassero, toccassero, palpassero: lui non aveva premura…—E per dimostrare la sua pazienza trasse una pipetta e le diede fuoco.

Bortolo levò dall'astuccio di cartone i grossi occhiali; se ne fortificò il naso e cominciò a stringere nei grossi polpastrelli di vecchio giardiniere il tessuto fino e scivolante: ma non volendo arrischiare un giudizio stette a sentire il parere delle donne.

La Santina, nella sua prudenza, dopo aver esaminata la stoffa attraverso la luce, disse bruscamente:—Possiamo vederne qualche altra?

—Finchè ne volete, la mia gente, e se non vi contento oggi voglio accontentarvi domani—disse il Cernobbio sciogliendo un'altra pezza di stoffa color acqua di mare, un alpagàs finissimo, che avrebbe fatto soggezione a una principessa.

Ricominciarono le trattative. Maria Giulia trovava che il Cernobbio diceva più spropositi che parole. A Como essa aveva visto e toccato della roba cento volte più sostanziosa per un terzo del prezzo che metteva fuori quel disgraziato mercantello.—Ora capisco perchè vi s'ingrossa il pomo d'Adamo: son lo vostre bugie…—finì col dire la mamma di Amedeo, una donna ancor viva e forte coi cappelli bianchi, che cascavano sui pomelli rossi delle sue guance essicate.

Bortolo a quel proverbio del pomo di Adamo non potè trattenersi dal ridere, mentre la Santina mostrava il desiderio di veder qualche altra cosa.

—Che il mio pomo d'Adamo possa cascarmi nell'ugola e strozzarmi, se questa roba non la pago io al Bon marcê due lire e settantacinque. Ma io non voglio far più prezzi: li farete voi i prezzi: anzi li farà questa bella signoretta che mi conosce da un pezzo e che sa quel che costa la roba bella.

Flora dovette intervenire, pigliar posto sopra una sedia, metter le mani nelle stoffe che il mercantello andava cavando fuori dal tabernacolo come se fosse il pozzo di San Patrizio.

La breva che comincia a spirare sul mezzodì si mosse e mosse le foglie dei platani, agitando le ombre e le luci di quell'angolo in cui sedevano i piccoli bisogni di una modesta famiglia.

Mentre duravano le trattative e i tira tira sui prezzi, Regina, uscendo dalla fattoria, venne a dire:—Vedete un po' e dite quel che vi pare…—Dietro di lei seguiva Amedeo nel suo costume nuovo di battelliere, con una tunica turchina dai risvolti bianchi e le stelle bianche nel nastro del cappello. Le donne gli si misero intorno e lo fecero girare sulle gambe. Chi suggerì di trasportare un occhiello, chi avrebbe voluto più largo il bavero alla marinara: ma tutto sommato, tutte si accordarono che il giovanotto valeva i suoi cinque soldi.

Senza aspirare alla gloria di Apollo, il nostro Amedeo, non troppo alto ma ben piantato e saldo nei muscoli, largo e corazzato il petto di robustezza, era quel che si dice un bel barcaiolo. L'occhio piccolo e fermo indicava uno spirito prudente ma tenace: e se qualche cosa di troppo fiero vi poteva essere nel volto abbruciacchiato dal sole e indurito dal faticoso esercizio del batter l'onda e il vento, veniva raddolcito dalla tinta chiara dei capelli e da un velo sottile di baffi biondi che non nascondevano nulla della sua bocca robusta e de' suoi denti sani, bianchi come l'avorio.

—Regina, Reginella, ti fidi troppo a lasciarlo correre domenica—disse burlando il Cernobbio.—Tutte le ragazze di Bellagio e di San Giovanni ne vorranno un pezzetto del tuo Amedeo.

—Che mi fa?—si difese ridendo con insolito abbandono la ragazza—ho fatto senza vent'anni, farò senza ancora.

—È dell'amore come del vin buono. Si può non berne mai, ma è più difficile smettere che non incominciare.—E il vecchio mercante che dava i suoi proverbi per nulla, rivolgendosi alla signoretta del Castelletto, la chiamò in testimonio, soggiungendo:—Non è vero, signorina? o non berne o bere fino in fondo.

Flora sentì di arrossire. Fortunatamente la brigata si mosse per andar incontro a un vecchio prete, a don Malachia della Madonna del Soccorso, che veniva dalla stradicciuola di Tremezzo, col suo passo posato, agitando un bel ramo d'olivo.

—O don Malachia—disse Bortolo, togliendosi il berretto di testa e cercando colla riverenza dei buoni tempi di baciare la mano del prete, che offerse invece la tabacchiera.

—Ha proprio voluto venir giù con questo caldo…

—Nostro Signore andava lui in cerca di pecorelle.

—Si voleva venir noi alla Madonna—si scusò Amedeo,—ma non si trova più un momento.

—Mi accompagnerai a S. Giovanni colla barca: sono a pranzo da quel curato. E così? siete proprio disposti a sposarvi davvero? Che cosa mi hanno detto? che Regina voleva farsi monaca missionaria.

Regina cercò una difesa dietro le spalle di Flora.

—Ecco la nostra brava contessina—disse il vecchio cappellano, toccandola leggermente col lungo ramo che teneva in mano—Chi mi parlava di lei, ieri, con mille elogi? ah, il signor Cresti del Pioppino; anzi vuole che un giorno vada da lui a mangiar la polenta al Pioppino, Pare che abbia in aria dei progetti… diplomatici…—e col movimento delle sue dita magre e lunghe con cui accompagnò nell'aria quella parola, di…plo…matici…, fece capire che sapeva qualche cosa.

—Il tempo promette d'esser bello domenica, e sarà un gran giorno per Tremezzo e dintorni se non si mette troppo presto il vento. Sta attento al san Primo, Amedeo: se ti par di vedere della nebbia schiva il filo dell'aria. San Primo è una grande spia, Ho visto dei rematori famosi perder per tre colpi di remo appunto perchè non avevano fatto i conti coll'aria. Ma Bortolo ne sa più di me.

—Non si può dir nulla. Alle Regate è come nel mondo: non sempre arriva chi corre di più.

—Dobbiamo entrare, figliuoli?

Tutti seguirono il vecchio prete nella elegante chiesuola del palazzo e si raccolsero sopra i gradini di marmo dell'altare. Don Malachia mise al collo una stola e fece inginocchiare Amedeo, vestito della tunica nuova, sulla predella più alta: pose un lembo della stola sopra una sua spalla e cominciò a leggere delle orazioni in un libro latino.

Dietro il barcaiolo andò a inginocchiarsi Regina che aveva voluto e combinata questa benedizione speciale per il suo Amedeo, perchè potesse andare con più confidenza alla gara. Sulla soglia della porta aperta, per dove entravano lo splendore del lago e il fruscìo delle foglie scosse dalla breva, una frotta di ragazzetti che fan presto a spuntare, bisbigliavano intorno alla figura allampanata del Cernobbio che dava un'occhio all'altare e l'altro alla cassetta.

* * * * *

Flora andò a inginocchiarsi su un banco in un canto, e mentre il vecchio prete recitava sul giovane barcaiolo le preghiere della benedizione, nascosta la faccia entro le mani, essa pensò con tristezza a un altro campione che forse in quel momento era inginocchiato ai piedi di una donna… di quella donna! Una voglia amara di pungere l'assalì, la soffocò: ma seppe coll'aiuto materiale delle mani che stringeva alla bocca reprimere questa debolezza. No: non avrebbe pianto mai…

Le preghiere che i presenti risposero a voce alta, seguendo quella tremula del prete, coprirono qualche singhiozzo del suo povero cuore; e quando tutti si mossero, cercò di uscir la prima per dissipare nell'aria e nel bisbiglio dei bambini che salutavano gli sposi, l'ombra della cupa e invidiosa sua tristezza.

X.

Le Regate.

Le Regate ebbero luogo la prima domenica di settembre nel vasto bacino del lago, che si apre tra Bellagio e Cadenabbia. Era stabilito che le vele dovessero partire dalla punta di Barbianello e le barche a remi dalla Cappelleria presso S. Giovanni per approdare allo sbarco della villa Maria poco più in alto del grand'Hôtel Britannia.

Lungo la strada davanti alla Villa era stati rizzati i palchi addobbati con maggior o minore sfarzo a seconda dei prezzi, con grande sfoggio di bandiere e di pennoni che animavano l'aria coi loro vivaci colori.

Nel giardino, dove insieme alla folla privilegiata e colle patronesse si sarebbe radunato il Consiglio della giurìa, era stato eretto un ampio e superbo padiglione sfolgorante di emblemi, dove sopra un trofeo splendevano i vasi, le coppe, i piatti cesellati, di vero o falso argento, tra le bandiere di seta ricamate d'oro che il Comitato destinava ai campioni vincitori.

Il programma stampato in piccoli libri di forma graziosa e diffuso a migliaia di copie, oltre ai nomi dei concorrenti e all'ordine delle gare, recava il disegno in fototipia dei premi più ricchi, insieme col ritratto dei membri del Comitato, che a questa industria delle gare, così utile al commercio del popolo, dedicavano le ore che avrebbero potuto consacrare a far nulla. Tutto era stato previsto, a tutto era stato dedicato un pensiero: ma nulla sarebbe riuscito, se il tempo non fosse stato d'accordo col desiderio di coloro che amano divertirsi e di quelli più furbi e più delicati, che amano veder divertirsi gli altri.

Già dalle prime ore del mattino don Malachia assicurò che la giornata non avrebbe avuto un nuvoletto, ma non osò promettere il vento, un capricioso che, come la fortuna, abbandona spesso i suoi sul più bello. Ma se le corse a vela potevano correre pericolo di restar a mezzo per mancanza di fiato, il lago era quel che ci voleva per mettere alla prova la vigoria, la resistenza e l'occhio dei rematori: non era un lago ma un biliardo.

Il popolo, che ama vedere la bravura delle braccia, la lotta aperta dell'uomo col remo e col peso della barca, fin dalle prime ore del giorno fu in moto: e finite le funzioni religiose nelle chiese, dai paesetti lungo le rive e da quelli che stanno sulla montagna cominciò a moversi in folla e a confluire verso Cadenabbia, mescolando i colori vistosi dei vestiti di festa, godendo della bella giornata, facendo pronostici e scommesse, rievocando le regate d'altri tempi, le vecchie glorie, le non mai morte gelosie.

Aperte le ville, aperti e addobbati gli alberghi, popolato il lago di barchette, rallegrata l'aria dal suono delle bande che i vari paeselli mandavano a gara, già la festa era sul cominciare, quando arrivò verso le due un gran battello a vapore da Como, sovraccarico di gente, tutto festoso di bandieruole svolazzanti, con su un paio di altre bande a bordo vestite come gli usseri; e tutta questa gente cominciò a discendere in una fila interminabile al ponte di sbarco, mescolando piume e strumenti luccicanti, si sparse per le strade, per le case, per le osterie, su per i palchi a pagamento: era un incontrarsi e un salutarsi allegro di persone che non si vedevano da un pezzo, uno stringersi di mani, un confondersi confidente di tutte le classi sociali, dal barcaiuolo, dal pescatore, dal sonatore d'organetto, dal venditore di dolci, al negoziante, al grosso industriale, al banchiere, alla contessa, al lord inglese: un viver lieto nella luce ampia e diffusa di una di quelle belle giornate d'estate, in cui più dispiacerebbe di morire, in una gioia naturale che vien dalla benevolenza stessa della natura, che quando l'uomo sa fare, non lesina i godimenti a' suoi figliuoli.

Amedeo, pettinato come uno sposino, tutto fresco nel suo vestito nuovo alla marinara, quando gli amici verso il tocco vennero a pigliarlo alla casetta del torrente, scese con Bortolo e colle donne alla riva deserta, e fattosi il segno della croce, entrò nella barca che doveva condurlo alla Cappelletta.

L'emozione non lo lasciava parlare e parve a tutti ch'egli fosse un pò scoraggiato.

—Ci penseremo noi a fargli passare la tremarella con un paio di bicchieri di vecchia rabbiosa—dissero i compagni.

—E soprattutto—raccomandò Bortolo—adagio se vuoi arrivare a tempo.

—E bacia la medaglia della Madonna—aggiunse Regina, che non sapeva più dove avesse il cuore.

Con un'altra barca Bortolo, Regina, Maria Giulia, la Nunziata del Castelletto con un'altra figliuola di nome Costanza si fecero condurre all'osteria del Galletto, poco su della strada di Griante, un luogo tenuto da un parente di Bortolo, da dove si potevano dominare e seguire molto bene i movimenti delle barche e tutta la festa che brulicava disotto.

Flora, quando li vide passare sotto il Castelletto, fece un segnale e li pregò di prenderla con loro.

—Come?—disse Regina, quando la barca toccò la riva—vuol venire in questa barca così alla buona? non va colla mamma e colla zia?

—La mamma ha i suoi dolori e la zia deve trovarsi col signor Cresti e con altri signori sul gran balcone dell'Albergo. Se non vi disturbo, preferisco venire con voi.

—Noi andiamo al Galletto—disse Bortolo—da quel nostro parente che fa l'oste.

—Ci sarà un posto anche per me—disse Flora, mettendosi a sedere sul nudo sedile tra Regina e Costanza.

—Credevo che il signor Ezio avesse riservato per loro dei buoni posti nel palco del Comitato—disse Regina, che da qualche tempo andava notando sul volto della signorina qualche cosa di insolitamente triste.

—Ha mandato dei biglietti, ma non conosco nessuno di quei signori.
Preferisco venir con voi.

—Perchè non si è messo il suo bel vestito chiaro? provò a chiedere —Regina, chinandosi a toccare il vestito nero sciupato, mal assestato —in vita, che Flora portava alle Regate come una protesta contro la —gioia di tutti. Essa rispose con una spallata e girò lo sguardo per —il piano dell'acqua come se cercasse lontano una ragione per non —rispondere.

La barca spinta dai colpi lenti e pesanti dei due remi passò davanti a Tremezzo, in mezzo al fitto viavai delle barchette d'ogni foggia e d'ogni colore, che scaricavano o pigliavano gente. Dai balconi pavesati, dalle finestre, dai terrazzi delle case, dai pergolati, dai giardini era un continuo chiamare, uno schiamazzio di voci femminili, di risa, di pianoforti e di mandolini, un rimescolarsi di cappellini infiorati, di parasoli dai colori vivaci, di canotti che si distaccavano dalle darsene come canestri galleggianti di fiori, di barche e barcaccie che menavano cori di ragazze, cantanti le arie del filatoio, di lancette e di sandolini che guizzavano come pesci, mentre dalle case i servitori, le fantesche, i cuochi, sui muriccioli e sulle scale andavano stendendo le file dei palloncini, che dovevano servire per la illuminazione della sera.

Quando dal giardino della villa Maria, si sparò il primo colpo di cannoncino, che segnava il principio della gara, fu un crescere improvviso di tutte quelle voci, un affollarsi di tutte quelle imbarcazioni, che mossero come una flottiglia verso Cadenabbia, finchè si raccolsero in una piccola città galleggiante. Bortolo sforzò anche lui la macchina e venne colla barca a un approdo quasi nascosto tra i muri di due terrazze, d'onde, salendo per un brutto viottolo, si riusciva sulla strada di Griante quasi davanti all'osteria del Galletto.

Flora, attraversato un piccolo orto, condotta dalla brigatella, si trovò sotto un pergolato lungo il muricciolo, che dominava come un balcone il padiglione e i viali della villa, già gremiti di una folla elegantissima di signori e di signore!

Dalla torre del palazzo fu sparato un secondo colpo: la banda intonò un inno popolare patriottico che destò gli entusiasmi e gli applausi della folla, che si pigiava nei palchi e nelle barche, mentre un gran personaggio (chi diceva un principe, chi diceva perfino che fosse il re) scendeva da una peota veneziana condotta da otto rematori, che strascinava il lembo della sua bandiera nell'acqua.

I signori del Comitato muovono ansiosi incontro all'illustre personaggio, che sale la scalinata del padiglione, seguito da alcuni ufficiali in divisa. Cominciano le presentazioni, gli omaggi, gl'inchini, le strette di mano, i sorrisi delle belle signore, che hanno sfoggiato per questa circostanza le più fosforescenti acconciature… quand'ecco il terzo colpo di cannone avvisa che il giuoco incomincia.

Alla punta di Barbianello chi ha buona vista vede o crede di veder guizzare nell'acqua qualche cosa di bianco: sono i canotti a vela. Si muovono? non si muovono? chi lo sa. Visti da lontano sembrano uccellacci imbalsamati dall'ali bianche: ma poco importa, pare, di quel che fanno o non fanno alla gran folla accorsa a godere sè stessa, a spandere alla bell'aria e al sole la gioia d'una giornata libera e senza affanni. Quel dì, ciascuno aveva cercato di lasciare a casa i suoi.

Meno che a tutti gli altri importa a Flora di sapere chi vincerà e chi perderà. Seduta sul muricciuolo del giardinetto, appoggiata la testa al tronco di un vecchio gelso che la protegge dai rami del sole, lascia che i suoi sguardi pieni di una triste stanchezza si perdano nel gran brulichìo delle cose che la circondano, ma non vede quasi nulla. Intorno a lei è il frastuono d'una gran gioia. Regina vien spesso a parlarle de' suoi palpiti, c'è chi l'invita a scegliere un posto più bello: Bortolo vuole offrirle un cuscino, perchè non abbia a sentir il freddo del sasso. Essa risponde e si difende amorevolmente, vincendo una specie di violenza interiore che vuol trascinarla a piangere e a gridare.

Comunque vadano le cose, Amedeo ha promesso di venir subito dopo la corsa al Galletto a bere un bicchiere, o anche due, coi parenti.

Sotto il pergolato le ragazze stendono una tovaglia e tratti dai panieri le torte e i cibi freddi preparano la tavola su cui Bortolo e il cognato dispongono le bottiglie. Se sarà la vittoria ne verranno delle altre…

I vicini fanno i più sicuri pronostici su Amedeo, che è conosciuto come uno dei più bravi barcaioli del lago: e obbligano Regina a bere un mezzo bicchiere di vin bianco per tener su lo spirito, quasi che toccasse a lei a batter quei di Dongo: e c'è chi celia sulla forza che una donna può dare e può togliere a un uomo… Ma Flora a cui arriva il bisbiglio dei discorsi non capisce che la sua tristezza.

Non solamente Ezio non si era lasciato più vedere al Castelletto, nè aveva mandato a dire una parola di scusa; ma per dichiarar bene il suo pensiero non aveva nemmeno inviato quei tre o quattro biglietti di invito che aveva promesso. Dovette correre Cresti a cercarli: ma Flora dichiarò che non si sentiva di andar tra la gente… La mamma che vedeva avverarsi quel che aveva sempre temuto, non osò contraddirla e si fece venire i suoi dolori articolari. Così ormai si metteva la sua vita ed era a domandarsi perchè fosse venuta a rattristare col suo viso duro la buona allegria di questa povera gente. Quale malsana curiosità l'aveva spinta a cercare nella festa un'altra prova della sua miseria? non era abbastanza convinta dell'umiliazione sua? e quando avesse raccolta una prova di più, che le poteva giovare? che può giovare il conoscere lo strumento di tortura che ti deve straziare?

Colla testa appoggiata al tronco, le mani avvinghiate ai ginocchi, socchiudendo spesso gli occhi davanti a un ostile visione, provava di tanto in tanto l'amara voluttà di abbandonarsi a strani sogni di odio o di vendetta. Davanti a quella festa variopinta e al trionfo di tante belle creature, sfolgoranti nell'oro e nei diamanti, essa sentiva risorgere un violento spirito di ribellione e di anarchia per tutto quel che vedeva rubato a lei. Se non poteva più amare quel che era suo, ch'era sempre stato suo fin dalla fanciullezza, nessuno le poteva contendere il diritto di odiare.

Gettando lo sguardo su quel giardino di sfolgoranti bellezze, non poteva sottrarsi alla mortificazione di qualche confronto tra l'oscurità del suo destino di ragazza appassita nella solitudine, e il trionfo di quelle belle signore a cui sorrideva la vita con tutti gli incanti della bellezza, della ricchezza, dell'amore. Troppo aveva contato sopra se stessa, lo sentiva, quel giorno che si era lusingata di vincere con uno sforzo del suo cuore le mille seduzioni che la femminilità splendente e ridente offre a un giovine bello, ricco, geniale, desideroso di emozioni e di pericoli. Cresciuta nell'uggia incresciosa della sua mediocrità, misero arbusto all'ombra, aveva osato chiedere a un giovine eroe, pel quale amare voleva dire trionfare e le donne erano belle prede di guerra, un troppo grande sacrificio. Essa era stata punita della sua presunzione. Forse aveva fatto bene a procurarsi questa persuasione, a vedere cogli occhi suoi la verità di queste condizioni. Per quanto il suo orgoglio ne uscisse scornato, pure cominciava a sentire che la pazza, la pretenziosa, la sciocca era stata lei, lei la monaca del Castelletto, la povera strimpellatrice di musica, lei, la bisognosa che non aveva nemmeno un vestito di moda per assistere alle regate, che rifiutava con irragionevole orgoglio l'affettuosa proposta d'un galantuomo come Cresti, il quale avrebbe potuto farla sedere su un trono, vestirla di drappo e di seta come tutte le altre, adornarla di oro e di diamanti… e tutto ciò per correr dietro al fantasma d'un amore che l'umiliava e la rendeva cattiva…

—Partono adesso…—susurrò Regina con voce tremante, accostandosi alla signorina, che correva dietro alla corsa vertiginosa dei suoi pensieri.—Mi lasci star qui, accanto a lei. Madonna, aiutate quel poverino! Vede laggiù quelle due barche? la bandiera bianca è la nostra.

Flora si scosse dal suo torpore e cercò cogli occhi le due barche, che non più grandi di due ciotole venivano colla punta verso Cadenabbia.

Un leggero svolazzo delle bandiere e un cadenzato moto dei remi, che uscivano luccicanti dall'acqua, eran segni che già la gara era incominciata e che in quelle piccole ciotole galleggianti nei flutti fosforescenti battevano dei cuori e nei cuori delle speranze.

Altri cuori cominciarono a battere nella folla quando uscite dal riverbero solare, le barche, cinque in tutto, si disegnarono più nette in una riga nel fondo ombroso del monte e si potè discernere il colore delle bandiere. Ogni barca aveva due battellieri, che remavano in piedi: già si poteva dai più pratici riconoscere la statura e la battuta di ciascuno. Quei di Dongo erano ancora davanti a tutti, quasi la misura di due battelli; poi venivano quei di Cernobbio. Amedeo era tra il terzo e il quarto…

L'oste, Bortolo, gli amici di casa, le donne, le ragazze stavan lì cogli occhi fermi, presi già dal fascino della gara, non osando quasi di parlare per non guastar il desiderio.

—È la rossa davanti.—No, è la turchina.—Amedeo si è tenuto da conto, è il consiglio che gli ho dato io. Vedrete verso la fine.—Ahi, Cernobbio perde acqua.—Qua, qua, don Malachia, che ne dice? Bortolo fece posto al vecchio rettore, che era venuto quasi a corsa sotto il sole.

—Dove sono? vediamo…—e facendosi aiutare volle salire sul muricciolo per dominar meglio la posizione. Fattosi visiera colla mano, dopo aver strologato il lago, l'aria, lo spazio tra le barche e la riva:—Non si può ancora dir nulla—sentenziò—tutto dipende dai polmoni. La battuta dei nostri è buona, e se quei di Dongo non hanno fatto patto col diavolo, potrebbero avere un osso duro da rosicchiare. In cinque minuti Napoleone ha vinto e ha perso delle battaglie.

Tacquero tutti in devoto raccoglimento, attenti a quel che il prete diceva. Vecchio laghista, figlio anche lui di barcaiolo, don Malachia in sessantacinque anni ne aveva viste arrivare delle barche e anche molte andare a fondo, proprio come capita nella vita.

Chi arriva, chi resta a mezzo, chi si lascia cogliere dal cattivo tempo, chi parte per un luogo e approda a un altro, chi s'imbarca e non torna più. Tanto nella vita come nella barca, dove non soccorre la fortuna del vento, bisogna supplire colla forza delle braccia e fidare pel rimanente nel Padrone dell'aria e dell'acqua.

—Senta come mi batte il cuore…—disse sottovoce Regina, posandosi la mano inerte e rigida di Flora sul petto.

—Meglio…—fece costei, che sentiva il suo farsi piccino e duro come un ciotolo.

—È come fare una malattia.

—Certo: e ci si muore anche.

Mentre così sussurravano all'ombra del gelso, un grande movimento si produsse accompagnato da un improvviso bisbiglio di tutta la moltitudine.

—Ecco, ecco…—sclamò il vecchio prete—Amedeo si muove, tocca quei di Dongo a randa: attenti: il fiocco va fuori, va, va: mezza barca è fuori… Bella volata, corpo di mille bombe! bravi, bravo Amedeo. Su vispa, Regina…—E che taglio netto, avete visto?… eh, eh, vien fuori anche la coda… Zitto, figliuoli; o mi sbaglio, o Tremezzo stavolta batte la campagna.—

—Forza, Amedeo!—gridò anche Bortolo, facendo conca colle mani.

La folla elegante del giardino e quella che si accalcava nei palchi, nelle barche, si agitò, come un prato di fiori alti in cui scenda un soffio di vento. Un gran tumulto d'incoraggiamento partì da tutte le parti.

Regina che teneva le mani di Flora, quando vide che Amedeo pigliava la testa, si scosse, saltò in piedi anche lei sul muro e agitando il fazzoletto, cominciò a gridare: Viva, viva, viva!

Maria Giulia e la Santina piangevano di gioia, mentre don Malachia, battendo le mani, faceva tripudio colle gambette secche come si balla a quindici anni.

—Una barca e mezza è fuori… E non si perde un'oncia, per bia! ah polentoni quei di Dongo! Già portan fuori la bandiera… Su, su una bella volata finale. Benone! stupendissimamente bene! Avete visto che arcate di violino?

Così andava commentando il prete. Un grande clamore e un confuso agitarsi di mani, di fazzoletti, di cappelli salutò gli ultimi trenta colpi di remo, che fecero volare Tremezzo al traguardo col vantaggio almeno d'una dozzina di barche. I signori del Comitato si precipitarono verso i vincitori e li condussero quasi in trionfo davanti al padiglione, dove furono circondati dalle patronesse, acclamati dalle signore. L'illustre personaggio volle stringere la ruvida mano dei valorosi barcaioli, che ricevuta la bandiera, uscirono a corsa incontro agli amici.

Furono subito presi in mezzo e portati fin al Galletto, Bortolo, Maria Giulia, la mamma, il prete corsero fuori; ma Regina corse più di tutti col suo scialle di lana aperto nelle mani, e quando vide il suo Amedeo venir a corsa sudato e trafelato l'avviluppò nello scialle e lo strinse nelle braccia, lasciando ch'egli la baciasse sulle gote con una sfacciataggine che don Malachia non aveva mai vista l'eguale.

Flora, inosservata mentre tutti correvano a prendere i bicchieri, si tirò in disparte e seguendo un vialetto, andò a celarsi in fondo a un cortile, presso il fienile, dove alcune galline razzolavano tranquille fuori dai rumori della festa. Essa non volle guastare colla sua rigida presenza la gioia espansiva di quella povera gente, che senza aver letto troppi libri, o avendone letto uno solo dalle grosse parole, sapeva tuttavia misurare gli affetti a quel che dà la sorte, spendere bene l'interesse naturale che fruttava a loro il modesto tesoro della vita, mentre altri non sa trarre dalle sensazioni che compera alla bottega della vanità se non tristezza e afflizione di spirito. Avviene della contentezza come dell'appetito, che non dipende mai dal piatto in cui si mangia.

Io per la prima sono colpevole di questa incontentabilità—pensava e rimproveravasi la fanciulla, fissando gli occhi sulla riga azzurra del lago, che disegnavasi dietro una siepe di pomidoro.

Per non aver voluto andare con Cresti aveva disgustato un vecchio e fedele amico, amareggiata la mamma e procurata a sè stessa l'aspra sensazione di non essere nè cercata nè desiderata da Ezio.

Aveva ben altro per la testa il signor vice-ammiraglio che di pensare a lei!

E così eccola qui rincantucciata nell'angolo di un fienile, in compagnia delle galline, invidiosa dell'altrui felicità, vergognosa di non saper godere nemmeno di quel poco che faceva ballare don Malachia sul muricciuolo. A questo punto si mosse come se obbedisse al comando di una voce interna. Non voleva soffrir più. Nulla di più umiliante che il farsi vittima di sè stessi. Al di sopra delle illusioni sta la verità e chi non ama la verità è un disgraziato che vive dormendo.

Una buona scossa d'orgoglio doveva svegliarla. La mendicante doveva cedere il posto alla signora, alla contessa, alla Polony che aveva diritto di comandare e di redimersi con un atto di sacro orgoglio. Dove vien meno un piccolo piacere della vita, c'è sempre il posto per un grande dovere.

Il pensiero della povera mamma rimasta a casa sola le fece desiderare di tornar presto. Bortolo si offrì di riaccompagnarla colla barca fino al Castelletto e nel breve tragitto Flora si lasciò distrarre e portar via dalla gioia e dai discorsi dei suoi compagni di viaggio. Più di tutti era felice la buona Regina, che la gioia mescolata a qualche bicchieretto di vin bianco rendeva più ciarliera del solito e come raggiante di una nuova bellezza.

* * * * *

Poco prima delle case di Tremezzo la barca s'incrociò e quasi venne urtata dalla lancia dell'Hôtel Bellagio, che un ragazzetto vestito di verde col cappello alla marinara guidava con poca esperienza. Bortolo gli diè sulla voce e lo mandò a imparare il mestiere.

—Ci vuol altro che il cappello alla marinara, Moschino—gli gridò dietro, quando ebbe riconosciuto nel ragazzo il servitorello di villa Serena.—Mangia un po' di pane ancora prima di menar a spasso i forestieri.—Moschino, cacciato da Ezio, aveva trovato questo posto presso un vecchio signore americano arcimilionario, che abitava in una dipendenza dell'Hôtel Bellagio. Seduta, per non dire sdraiata mollemente ai fianchi del vecchio negoziante di merluzzi, che dopo aver ammucchiati i dollari veniva a buttarli via in Europa, stava in uno spumoso vestito bianco una giovane bellissima, che poteva essere sua figlia. Ma Bortolo aveva sentito dire che la bella creatura era semplicemente una dama di compagnia.

—Addio a tutti, e grazie, Bortolo…—disse la signorina, scendendo al Castelletto, mentre già cominciava a imbrunire. Salì la scala del giardino e trovò la mamma sola, tutta ravvolta ne' suoi scialli sulla terrazza, seduta nella sua poltroncina di vimini, già nascosta dalla semioscurità della sera.

—O povera mammetta, che sei rimasta sempre sola—disse la figliuola, correndo verso di lei, inginocchiandosi, circondandola, come soleva fare nei momenti buoni, colle sue braccia.—Avrei dovuto restar anch'io a tenerti compagnia. Quanta gente, avessi visto! grande vittoria per Tremezzo; Amedeo fu portato in trionfo; le vele invece son rimaste a mezza via… Ma tu, poverina, avrai fame. Vieni in casa mammetta, che accendo la lucerna e ti preparo il solito caffè e latte. Mi par quasi di aver fame anch'io come se avessi vogato e vinto.

La signora Matilde era rimasta in compagnia di cattivi presentimenti. Pur troppo vedeva avverarsi quel che aveva sempre temuto. Flora non aveva voluto andare con Cresti sul balcone dell'albergo, ma era poi quasi fuggita di nascosto nella barca di Bortolo quasi per fare una dichiarazione, per non dire un dispetto anche alla sua mamma. Era troppo chiaro che la figliuola si preparava degli amari disinganni per voler correre dietro al fuoco fatuo della sua illusione.

Accesa la lucerna, Flora stese il tovagliolo e corse in cucina a far un po' di fuoco nel fornello.

—E invece non ho nè vogato nè vinto…—pensava tra sè. Vedendo che la mamma stentava a rispondere alle sue parole, tornò a carezzarla:—Scusami, sono stata cattiva: dovevo restare a farti compagnia.

—Non mi fa nulla restar sola: ma non mi piace che tu abbia a usare degli sgarbi al povero Cresti.

—Domanderò scusa anche a lui.

—Non c'è alcun motivo perchè tu abbia a disgustare un vecchio amico.

—Lo so, hai ragione…—confermò in tono arrendevole.

—Non si vuol far violenza al tuo cuore, se proprio non ti senti di corrispondere alla sua devozione e alla sua tenerezza: ma non è giusto d'altra parte che tu lo offenda.

—Povero Cresti, merita ogni riguardo—ripetè umile e persuasa.

—Sai quel che gli dobbiamo. Son cinque mila lire di cui da un anno non paghiamo gl'interessi. Speravo che un giorno o l'altro tu avessi potuto cancellare questo debito, ma capisco che non puoi sacrificarti, se il cuore non ti dice nulla. E allora, mia cara, noi dovremo pur restituire questo denaro. Bisognerà che io ne parli a tua zia Vincenzina o a Ezio.

—No, niente—interruppe imperiosamete—tu non parlerai di queste cose con nessuno. È un debito che dobbiamo pagar noi…

—Pagare è subito detto: ma per pagare ci vogliono i denari.

—Li troveremo, mamma—dichiarò solennemente la contessina del
Castelletto—ma non voglio più ricever nulla, nemmeno un fiore da
Villa Serena.

—Son parole, mia povera ragazza. La pensione di tuo padre vedi che basta appena per vivere poveramente.

—Lavorerò.

—Come vuoi lavorare se non hai un mestiere nelle mani? Ci vuol altro, poverina… a meno che non abbia a sposare un ricco signore… La mamma non potè non far sentire una certa canzonatura in queste parole.

—No, no… mamma—protestò Flora arrossendo io non sposerò un ricco —signore; ma posso lavorare e pagare i miei debiti. Sento anch'io che —questa vita vegetale non è degna di me e già ho scritto a Elisa —D'Avanzo che conosce molte famiglie, perchè mi procuri qualche posto —d'istitutrice o mi trovi delle lezioni di disegno, di musica o di —lingua inglese. Essa mi assicurava un giorno che con quel che so —dovrei vivere bene a Milano o a Torino. Nelle vacanze potrei trovare —delle lezioni anche qui sul lago, in queste ville… Forse abbiamo —vissuto già troppo della benevolenza altrui. Di chi è questa casa? —come paghiamo il tetto che ci copre?

—Tu sai che tua zia Vicenzina è sempre stata buona con me.

La carità e l'ospitalità della zia Vicenzina non mi pesano: ma questa casa non è sua: è di Ezio Bagliani.

Flora pronunciò questo nome con voce ferma, come se si trattasse d'un signore straniero.

—Non è più sua da un anno.

—L'avrebbe venduta?

—Dovette cederla in pagamento di un antico debito che aveva verso
Cresti.

—Ah… meno male…!—fece la ragazza e non disse altro. La modesta cena finì in silenzio. Troppe cose eran uscite fuori in un momento, perchè si potesse e da una parte e dall'altra collocarle a posto senza guastarle.

Mentre la povera mamma sentiva gelare il cuore al pensiero che Flora potesse correre il mondo in cerca di un tozzo di pane, che non avrebbe saputo inghiottire, Flora sentiva crescere la sua commozione per questo segreto e umile benefattore, che da un anno le aveva ricoverate nella sua casa senza mai avanzare il suo credito di benevolenza.

A scoterle dalle loro riflessioni entrarono il sarto e il calzolaio venuti in rappresentanza del paese per pregare le signore a lasciar mettere una fila di palloncini sulla terrazza del Castelletto, che in mezzo alle altre case pareva una macchia scura.

Quando Flora e la mamma uscirono a vedere, già tutto l'Arco della Tremezzina era illuminato dai più vaghi colori che si riflettevano nello specchio tranquillo del lago; e illuminate pure eran le case, le ville, gli alberghi dell'altra riva, con striscie e con disegni che spiccavano sul fondo oscuro del monte. Vagavano barche luminose nel lago, da cui veniva l'onda di serenate e di cori. Poche stelle erano nel cielo piuttosto scuro con vantaggio di quella miriade di lumini dondolanti e galleggianti infilati come pietre preziose in una lunga collana.

Flora stette a lungo quella sera alla finestra della sua camera, ricordando, meditando, contrastando co' pensieri. Non le era ignoto che dovevano a Cresti una somma di danaro prestata a poco per volta alla mamma nei momenti di tristezza; ma non sapeva che da un anno Cresti fosse il padrone del Castelletto e che a lui dovessero anche questa beneficenza. Questo non dover più nulla a Villa Serena fu per il suo orgoglio un primo conforto: poi s'intenerì al pensiero del bene umile e nascosto che il buon Cresti faceva alle sue amiche del Castelletto…

Ora si parlava ch'egli volesse acquistare dal Bersi anche il Ravellino, di cui Flora vedeva il giardino illuminato. Per poco ch'ella dicesse di sì poteva essere la signora di là e vendicarsi assai abilmente di chi l'aveva oltraggiata.

—Perchè no?—chiese a sè stessa nel chiudere la finestra.

—Perchè no?—chiedeva ancora una voce sommessa, mentre stanca delle emozioni della giornata si addormentava d'un sonno tranquillo.

XI

Fiori e fragole.

La signora Matilde scriveva qualche giorno dopo alla sorella:—«Mi pare che Flora cominci a essere ragionevole. Bisognerebbe battere il ferro mentre è caldo».

Il Cresti, che ogni anno celebrava al Pioppino una specie di festa della polenta, mandò gli inviti anche alle signore del Castelletto coll'ordine di non mancare, Questa volta sarebbe venuto, oltre a don Malachia, anche quel poco di buono del signor Bersi, che era sulla strada della penitenza: forse si sarebbe firmato, al fumo della polenta, il contratto di vendita del Ravellino, Soltanto Ezio, in tutt'altre faccende affaccendato, sarebbe mancato quest'anno. Si sarebbe pranzato all'aperto, all'ombra degli agrifogli fioriti, colla vista dei monti da una parte, collo sfondo infinito del lago dall'altra, in mezzo ai fiori… Ma a dir tutto quello che di fresco, di dolce, di leccardo, di aristocratico, il padron di casa aveva preparato intorno alla volgare polenta di gran turco, sarebbe un far dell'arte simbolica. La polenta era un pretesto per sfoggiare ogni anno le ricche porcellane di casa Cresti e l'abilità non mai abbastanza riconosciuta delle due vecchie ragazze, che da trent'anni tenevano lo scettro della cucina.

Quest'anno c'era di nuovo la presenza di Massimo Bagliani; e la polenta guarnita dei più squisiti piaceri dell'amicizia, condita dalle profumate speranze, che avrebbero portato dal Castelletto, doveva avere un sapore particolare, un sapore che il vecchio e arruffato padron di casa sentiva già correre per la bocca prima ancora che la farina fosse gettata nel paiolo.

—Mi rincresce che questa volta non ci sia Ezio—disse a Massimo, che stava leggendo un gran lenzuolo di giornale inglese sotto il portichetto—ma è forse meglio per lui e per noi. Il Bersi me ne ha raccontate di belle di questa ex cantante moglie d'un barone banchiere e di altre vagabonde internazionali in mezzo a cui il nostro giovinotto fa una vita di vero nichilismo morale. È stato veduto più volte in canotto in costume di battelliere, colla maglia succinta e le braccia nude in compagnia di una signorina russa, a cui insegna i segreti della ginnastica italiana. Gl'inglesi ne sono orribilmente scandolezzati. In quanto al barone, giocatore nato, tira spesso il nostro ragazzo in piccole trappole, a cui tien mano anche la baronessa e il suonatore di clarinetto. Cose brutte, insomma, che fanno rabbia e a cui si dovrebbe trovare un rimedio. Tu dovresti parlarne oggi a donna Vincenzina, che una certa autorità ha sempre esercitato colla sua dolcezza sul figliuolo: e ancor meglio sarà, se gli parlassi tu stesso da uomo di mondo, che sa come si nasce e come si vive. Non si vuol mica pretendere che un giovinetto bello, ricco, simpatico prenda moglie o faccia il frate a ventiquattro anni, ma c'è modo e modo di divertirsi. Il peggio è quello che mena dritto a fracassarsi il collo.

—Io gli parlerò…—disse Massimo, persuaso.

—Ti lascio di sentinella e vado in cantina a vedere che non mi confondano i classici.

Massimo rimase sotto il portichetto con quel suo gran lenzuolo in mano in attesa degli invitati. Il pranzo, secondo il buon uso di campagna, doveva cominciare a un'ora e già dalle sponde del lago venivano le squille che annunciavano il mezzodì. Poco dopo comparvero in cima al vialetto delle mortelle tre signore, prima Flora, in capelli sotto il parasole, e donna Vincenzina per ultima con in testa un cappello rotondo di paglia a larga tesa sovraccarico di grossi fiori violetti.

Massimo, quantunque si fosse trovato ormai con lei tre o quattro volte e avesse avuto una lunga conversazione sul balcone dell'albergo durante le regate, non potè vedere quel cappello di paglia senza provare una specie di stringimento alla gola.

Del passato non s'era toccato nulla, nemmeno una parola: il perdono era stato portato e ricevuto dalle due parti con dignitosa benevolenza: essi avevano potuto ritrovarsi sani e salvi dopo dodici anni come gente che è sfuggita miracolosamente al disastro d'un lungo viaggio e che può allegramente congratularsi. Ma con tutto questo, o forse in virtù di questo, Massimo Bagliani non sapeva sottrarsi al dolce fascino che la memoria ringiovanita nell'immagine vivente della donna andava esercitando sul suo cuore naturalmente tenero e di poca resistenza.

Mentre le signore risalivano lentamente il viale, soffermandosi a considerare le novità introdotte nell'orto, Massimo si compiacque di seguire coll'occhio e di accompagnarsi alla bella signora di villa Serena. L'affanno e il caldo del salire avevano colorito il suo viso, dandole un colore giovanile che faceva un poco scomparire la povera Flora nella sua patita e battuta magrezza. Come in un golfo profondo e chiuso, le tempeste avevano potuto qualche volta increspare le acque della sua esistenza, ma donna Vincenzina non aveva mai perduta la serena trasparenza delle anime semplici. Quest'anima traspariva dai grand'occhi umidi, dai movimenti placidi, senza risoluzioni proprie, dal modo quasi infantile con cui sapeva nascondersi alle spalle degli altri, sia che la minacciasse una grande responsabilità, sia che sentisse abbaiare un grosso cane.

Massimo, che l'aveva amata appunto per questo suo timido candore di fanciullona buona da pigliarsi in braccio, credette di tornare indietro a' suoi bei tempi: ma nel muoversi, gli occhiali cascarono dal naso e andarono tra la vecchia cassapanca e il muro. Tosto si fece quasi buio. Ebbe appena il tempo di rimuovere il pesante cassone e di raccattare i suoi occhi di vetro: ma nel tirarsi su e nel risospingere quel diavolo di mobile al posto sentì scendere come tre acuti dardi al lato sinistro… Ah pur troppo, era passato il suo bel tempo! e non c'è nulla che paghi un amore perduto, nulla, nemmeno il piacere di ritrovarlo.

Cresti in vestito grigio sasso, colle uose grigie sulle scarpe gialle, lindo, ripicchiato, ingioiellato coi suoi due grossi diamanti allo sparato della camicia, con una cravatta verde ramarro, su cui faceva sangue una grossa goccia di corallo, fu pronto a riceverle ai piedi della scalinata. Agitando un enorme cappello alla panama, diede il benvenuto e corse a offrire il suo braccio a donna Vincenzina. Massimo offrì il suo a Matilde e preceduti da Flora entrarono nel luminoso salotto a terreno, dove trovarono acqua diacciata, succo di limone, piatti di uva e di fichi per un primo ristoro.

—Qui c'è dell'acqua, dell'uva, del ghiaccio e sarà bene non fare complimenti.

Le signore che non venivano al Pioppino da un pezzo trovarono tutto bello, tutto lucido e netto, come se fosse non la casa d'un vecchio scapolo, ma quella d'una sposa nuova.

—Cresti ha delle idee—disse Massimo, cominciando a lanciare un primo proiettile nella fortezza. Flora che aveva scoperto un pianoforte:—Come? come?—esclamò—da quando in qua si fa della musica al Pioppino?

—Da due o tre mesi—rispose Cresti, perdendo un poco l'equilibrio delle gambe e arrossendo sotto la pelle di patata abbrustolita.

—Chi suona?—dissero le signore.

—La sposa!—disse Massimo.

Flora avrebbe dovuto chiedere chi fosse e dove fosse questa sposa misteriosa di cui si parlava tanto, ma preferì lasciarsi bombardare.

—E come va l'inglese, Cresti?—chiese la signorina.

—Leggo, leggo, pas mal

—Tu confondi l'inglese col francese—osservò l'ambasciatore, ridendo e facendo ridere le signore.—Pas mal! che avessi per isbaglio studiata una lingua per un'altra?

Cresti, che aveva già l'animo teso a punte di spillo sulle sue emozioni, non sapendo come uscir da quelle burle, esclamò:—Vado a veder la polenta—e scappò.

Tornò cinque minuti dopo con due quadretti antichi che diceva d'aver scoverti in una sagrestia di montagna, arrivando a tempo a salvarli dalla bocca dei topi. L'uno rappretentava una Maddalena, l'altro un sant'Antonio, due brutte croste in apparenza con qualche sfilacciatura irrimediabile nella tela; ma le carni e le teste d'una morbidezza non comune indicavano un pennello antico, forse un Lorenzo Lotto, anche a giudizio dei più competenti.

Flora senz'osare un giudizio trovò che Cresti aveva avuta la mano felice e gli raccomandò di non fidarsi troppo dei restauratori che son peggio dei topi. Inginocchiata sul tappetino del divano, essa andava scoprendo sempre nuovi particolari pregevoli nell'intonazione delle tinte e lodava Cresti, che stava lì, colle due cornici in mano, tutto contento di sentirsi lodare; tanto che Massimo gli disse:—Guarda che faccino gustoso che fa! si direbbe che li ha dipinti lui.

—La Maddalena ha una testina ideale—disse Flora.

—Anch'essa coi cappelli rossi… come il famoso ritratto di donna del Rembrandt che è a Milano, come la Venere del Tiziano, come tutte le bellezze rare… e pericolose.—Chi parlava? il signor ambasciatore, per procura; ma Cresti beveva cogli occhi quegli elogi, come se l'amico parlasse di lui. Per trovar un complimento non è necessario aver studiata diplomazia, ma egli sentiva che non gli avrebbero strappata nemmeno cogli uncini una parola un po' ragionevole. La macchina era carica di vapore, ma le valvole eran chiuse e ribadite: se non scappava via di tanto in tanto, c'era a temere ch'egli avesse a scoppiare.

A salvarlo e a renderlo meno impacciato venne a tempo l'occasione di sfoggiare tutte le sue cognizioni di orticoltore e di botanico, quando accettò di accompagnare le sue ospiti nel giardino e nel brolo, che col nome generico di vigna circondava la casa.

L'orto, il giardino e la vigna si mescolavano veramente bene in quel pezzo di montagna lavorata, che formava l'Eden del solitario Adamo del Pioppino.

Qualche vecchio olivo dal tronco rugoso e forte uscendo dalla roccia screpolata copriva coll'antichissima ombra cespugli di aloe, aggrovigliati come serpenti. Accanto alla rosa del Bengala, verdeggiava il nespolo del Giappone: filari di novelle viti di Borgogna correvano lungo gli scaglioni, alternandosi a spallierati di pere invernali che avevano rinomanza sul lago; le rive dei praticelli intermedi tra cui volgevasi una stradina polita e pastosa erano sostenute e continuamente incorniciate da un cordone di tufo scavato a foggia di cassette e dentro, a seconda delle esposizioni, il bravo giardiniere vi aveva coltivato le piante più rare, le acute spade dell'iride, i bulbi spinosi dei cacti, le felci filiformi e arborescenti, i delicati e cascanti capelveneri, le tredescanzie pioventi, chiazze giallastre e calde di nasturzi, sassifraghe dai fiorellini rosei, orchidee dai gambi contorti e carnosi: e sugli angoli dei viali e nel bel mezzo del clivo macchie di cupe sabine, o di evonimi dal verde tenace, o una magnolia dalla foglia lucente, o un giovine abete dai bruni festoni che rigavano il fondo aperto dell'aria.

Nei luoghi meno in vista, dietro gli svolti dei cigli, il giardino nascondeva l'orto; le rose tée dai flessuosi gambi coprivano il fiorellino vile del fagiuolo e della patata, al viridario dei fiori tropicali si appoggiavano gli sterrati degli asparagi e dalla cicoria.

Mai l'utile s'era così bene mescolato al bello come in questa vigna del Signore, come soleva indicarla don Malachia, che con tutte le benedizioni di cui poteva disporre non aveva mai potuto salvare quattro rose dalla ruggine e un gambo di vite dalla crittogama in quel suo freddo orticello del Santuario.

Cresti era nel suo migliore elemento quando poteva parlare sui propri esemplari, delle forze benefiche della terra e del sole, la mamma e il babbo della vita. Dove trovare un meccanismo più bello e più sorprendente di questo che ti trasforma pochi nitrati in pane, in vino, in rose, in datteri, in zucchero, in medicine che salvano, in veleni che uccidono? E di questi prodotti arricchiamo, noi animali, i nostri tessuti, i fosfati delle nostre ossa, i globuli del nostro sangue, per cui la vita scorre calda e vigorosa nelle vene; e quando si muore, lasciamo alla terra in pio compenso della vita che ci ha dato la spoglia azotata che deve rinnovare altre vite, dar volo e canto ad altri animali.

Nè i miracoli della natura si arrestano qui. Eccovi del grano da cui io saprò cavar dell'amido: eccovi un papavero che vi stillerà la morfina, il riposo: eccovi la cicuta, la morte istantanea, in poche stille. La vita si mescola colla morte, o con quella che a noi sembra morte e che in fondo non è che una vita più ignota. In questa lenta e fatale circolazione di atomi nessuna energia si perde, cosicchè al ricominciare del ciclo sono in giuoco le stesse quantità di forze che erano in giuoco all'inizio; l'animale, dopo aver mangiato una certa quantità d'alimento vegetale non ha che da aspettare: dopo un certo tempo le sue materie stesse di rifiuto gli verranno ripresentate sotto forma di materie organiche nuove…

Cresti parlava con viva eloquenza, non nascondendo quel senso di materialismo filosofico che formava il fondo roccioso del suo carattere poco verde e fiorito al di sopra.—Cresti vuol dire—osservò Massimo—che un giorno o l'altro dovremo ritornare anche noi sotto forma di cavoli.

—Perchè no? io credo di essere stato già mangiato una volta da una capra…

—Speriamo invece di rifiorire in queste belle rose—osservò donna
Vincenzina, mentre se ne metteva nei capelli una stupenda che il
Cresti tolse da un cespuglio.

La signora Matilde chiese di poter ritornare, mentre Flora, la zia e Massimo, seguendo i passetti e i minuetti disuguali del loro ospite, discendevano verso una spianata divisa in molti quadratelli di terra coltivata a fragole straordinarie per quella stagione. Tra gli alberelli si vedevano rosseggiare grosse e appetitose.

—Questo è il mio pascolo—disse Flora—correndo avanti per un piccolo sentiero marginale, mentre donna Vincenzina e Massimo spaventati da quel diavolo di sole, che coceva il sasso, si fermavano all'ombra d'un vecchio pero.

—Venga di qua, Flora—cominciò a dire il povero ortolano, quando si trovò solo colla fanciulla nel riparto segregato delle fragole.

—Queste son più buone. Guardi: non sono fragole, ma bombe…—E siccome bisognava coglier l'occasione col suo gambo:—Provi—le disse—supponga di assaggiare il mio cuore.

Era un primo passo verso quella grande dichiarazione, che da un anno a questa parte non aveva ancora trovata la sua formola.

—Buonissima, squisitissima…—disse Flora colle labbra ancor dolci di quel rosolio.

—Che cosa? la fragola o il cuore?

La grammatica qui non andava forse molto d'accordo col pensiero; ma bisognava pure ch'egli cercasse di non lasciar morire un discorso che, se fosse caduto anche questa volta, non avrebbe forse saputo raccogliere in mille secoli.

—Che il suo cuore sia buono, caro Cresti, è un pezzo che lo so, e anche pochi giorni fa ne ho avuta la prova, quando la mamma mi disse che il Castelletto non è più dei Bagliani.

—La mamma ha fatto male a parlare.

—Oh perchè non vuol che si sappia che ci vuol bene?

—Perchè non voglio? che cosa non voglio? lei sa bene, cara Flora, che cosa sogno nella mia selvatica modestia…—e nel dir questo le sue mani tremavano nelle foglie.

Flora ch'era venuta al Pioppino col sereno proposito di mettere alla prova il suo cuore e di essere sincera anche con se stessa, dopo un istante di riflessione, rispose colla sua voce ferma e naturale:—Vorrei poter pagare in qualche modo questo debito di gratitudine, non perchè mi pesi d'essere sua debitrice, Cresti: anzi mi piace questo sentimento che mi obbliga a riconoscere la mia povertà e il mio nulla.

—Se lei è nulla, cara Flora—interruppe con un'argomentazione arruffata il povero innamorato—che cosa sono io che in suo paragone sono meno di nulla?

—No, Cresti, abbia pazienza—replicò Flora con una specie di severa benevolenza—ognuno ha nel mondo il suo valor assoluto e il suo valor relativo; meglio è darsi per quel che si vale. Lei sa che io sono una ragazza superba come Lucifero.

—Lucifero era un angelo.

—Ma la superbia l'ha perduto.

—Quando si conoscono i propri peccati, si è già sulla buona via per convenirsi.

—Ma ci vuol la grazia, Cresti.

—Se sapessi che a fare un pellegrinaggio alla Madonna del Soccorso ottenessi un miracolo, ci andrei a piedi nudi. Che mi consiglia di fare?

—La fede muove le montagne—disse tranquillamente la signorina del
Castelletto, che non voleva nè ingannare nè ingannarsi.

—E allora speriamo che la fede aiuti la speranza a compiere un atto di carità…—concluse con una complicata perorazione il buon Cresti, cercando la mano della fanciulla che non osò rifiutarla. Tra lui e Flora stendevasi ancora una nuvoletta, ma non era più la nuvola di prima. Il vento vi aveva fatto molti strappi, attraverso i quali pareva al nostro amico di veder come tanti pezzi di paradiso. Ma non si poteva, nè si doveva concludere un sì delicato affare, lì, tra le fragole, sotto quel sole che coceva la testa.

Rimasero intesi che tutti e due avrebbero fatto un pellegrinaggio alla Madonna del Soccorso, anche colle scarpe e senza corda al collo: poi si sarebbero trovati a comunicarsi sinceramente la loro ispirazione.

Lentamente, facendo colle fragole mazzetti, vennero verso il luogo dove Massimo e donna Vincenzina stavano seduti all'ombra del vecchio pero. Non avendo nulla a dirsi o per evitare di entrare in discorsi pericolosi, i due antichi fidanzati erano intenti a contar certe vele bianche che spinte dal buon vento di mezzodì uscivano una dopo l'altra dalla punta di Bellagio, di ritorno da Lecco, dirette verso Colico. Ne avevano già contate due, tre… quattro… pronunciando i numeri a voce alta, all'unissono, mentre il signor ambasciatore, posata la mano sulla manina morbida e grassoccia di donna Vincenzina, la teneva così prigioniera sull'erba fresca.

—Cinque!—esclamarono insieme, quando Flora si presentò col mazzetto delle fragole.

—O belle! come si chiama questa qualità?—chiese la zia, arrossendo anche lei come una fragola.

—Finora non hanno un nome speciale: è un mio prodotto—disse
Cresti.—Glielo faremo dare a Flora il nome.

—Quando saranno più mature—fu pronta a soggiungere la briccona con un sorriso di amabile compiacenza, che non dispiacque all'ortolano del Pioppino.

* * * * *

«Tutto mi persuade a credere che questa sarebbe la mia pace—scriveva Flora qualche giorno dopo a Elisa D'Avanzo, che aveva le confidenze del suo cuore—e tu mi dici sempre che alla felicità non si va che per la via della pace. Sento anch'io che gli anni passano senza frutto, l'uno più vecchio dell'altro e mi fa paura l'idea ch'io abbia a trovarmi un giorno nell'incapacità di provvedere a mia madre, e alla mia dignità. L'amico che tu conosci è buono, ricco di cuore, d'una devozione a tutta prova, d'una virtù molto superiore al mio orgoglio: e se io mi guardo nello specchio, non ho alcun motivo per aspettare le prince charmant

«Ma con tutto questo, stento a rinunciare al mio sogno, non mi pare che ancora sia morta tutta la mia speranza. Spesso mi assale il dubbio che una vita materialmente solida e felice non valga il piacere di un sogno che esca dalle misteriose profondità dell'anima nostra; e per poco che mi abbandoni ai ricordi, sto per dire che tutto ciò che di più tenero e bello ho goduto negli anni della mia giovinezza fu più sognato che vissuto. Chi sa? forse soltanto il sogno è vero: forse è tutto quanto rimarrà di noi anche quando dormiremo all'ombra dell'erba nostra. Il mondo si trasforma a piacer nostro attraverso ai colori del nostro pensiero e per quanto l'inverno nevichi ed imperversi di fuori, chi mi vieta d'avere in me stessa una primavera sempre verde? Ma non bisogna rompere questi soavi incanti con risoluzioni che una volta prese ti immobilizzano nella realtà.

«Molto male mi dicono di lui: molto male ne penso io stessa: ormai non c'è dubbio che l'ultima speranza è perduta e sciupata; che siamo giunti al bivio—io e lui—da dove ogni passo non può che allontanarci di più. Io scenderò nell'umida valle della mia desolata vecchiezza, mentre lui seguiterà a salire il monte della vita militante e trionfante; ma fin che resto libera potrò sempre guardare a lui anche da lontano. Egli non mi ama, nè potrà, nè vorrà amarmi mai: ma a me basta d'amare….

«Oh Dio, quasi sto per dire che mi basta d'averlo amato. Nè lui nè altri potranno togliermi questo bene che è tutto mio, che può essere il dolce viatico di tutti i miei giorni: e troppo stimo e amo me stessa per rassegnarmi a sostituire un'insipida menzogna al mio dolcissimo sogno. Ecco perchè esito a dir di sì al buon Cresti, per quanto le vostre ragioni siano tutte belle e persuasive….

«Ma intanto soffro in due maniere: e per quel che mi hanno fatto e per quel che non so fare. Qualche volta mi pare che la fede vacilli e provo oscuri sgomenti come chi si trovasse perduto sopra altissime creste, dove è tanto pericoloso il muoversi come il rimanere. Procuro di attaccarmi più che posso agli arbusti della vita e di leggere nelle coscienze di quest'umile gente che lavora e prega, il segreto della pace. Sono stata alle Regate, ho accettato un invito al Pioppino, e domani mi lascierò condurre da Regina all'alpe di Giosuè, dove si accenderanno i falò per la festa della Madonna. Quanto ti desidero, qui, mia cara Elisa! come sapresti consigliarmi e consolarmi colle parole che escono dall'esperienza di una vita così ricca e così cauta come la tua! Qui non ho nessuno con cui discorrere e dissipare, queste tristezze. La mamma, poverina, non vede che un bene e verso questo bene mi sospinge senza che io me ne accorga. Regina è spirito troppo semplice per intendere un problema complicato, fatto metà di immaginazione e metà di disperazione: nè la zia Vincenzina è donna da saper sostenere il mio coraggio, quando io lo perdessi del tutto, come dubito di perderlo in certi istanti di oscura malinconia, un'oscurità in cui mi par di vedere balenare dei pensieri rossastri….

«Sento che attraverso un momento pericoloso della mia vita, una specie di «passo del lupo» che ti fece così paura l'anno scorso, quando andammo lassù verso il Resegone. Sotto mugge un torrente che precipita in un baratro e devi passare sopra una vecchia trave mal ferma. Queste montanare si fanno il segno della croce e passan leste a occhi chiusi cariche le spalle di una gerla di fieno: noi cariche di troppi pensieri squilibrati, nè sappiamo chiudere gli occhi, nè osiamo credere al segno della croce…. E intanto l'abisso è lì che ci affascina e ci attira.»

XII.

Una gita in montagna.

Regina aveva preparata una gita all'alpe del Giosuè per fare una sorpresa ad Amedeo, che vi doveva accompagnare alcuni signori di Cadenabbia. Una zia del giovine barcaiolo, che aveva lassù un pascolo e alcune capanne, avrebbe dato alloggio e allestito un letto sulle foglie di faggio: e poichè la luna viaggiava verso il suo pieno, c'era da godere una notte incantevole nella pace di quei monti. Flora, che cercava volentieri le distrazioni che aiutano a riflettere, accettò di accompagnarla. Per rendere l'improvvisata più gustosa, Regina propose di andare tutte e due vestite come le pastorelle «bergamine» che vi tengono le mandrie nei mesi di estate, cioè con una gonnella corta di traliccio turchino, colla bustina di velluto nero e una pezzuola in testa di cotone rosso, allacciata sulla nuca colle cocche sporgenti. Flora aveva già indossato questo costume montanino nell'occasione d'una festa di beneficenza data a favore dell'asilo infantile. Lo si cercò, lo si tirò fuori dalla guardaroba con gioia anche della mamma, che vedeva volentieri tutte le occasioni che aiutassero a portar fuori la figliuola da' suoi pensieri. Regina indossò la gonnella della Nunziata, si accomodò una specie di zendado in capo e ci mise di suo la faccia tonda e rubiconda e i fianchi solidi di una vera montanara.

Quando Bortolo, che si era offerto come guida, venne al Castelletto sul far della sera, fece i suoi complimenti alla signorina, che in quel vestito semplice da pastorella gli parve la vera beata Giannetta della Madonna di Caravaggio.

—Ho preso con me un canestro con qualche provvigione di bocca, a buon conto, per non piombare sulla povera Maddalena come un volo di corvi affamati. L'aria dei monti è aguzza come una lesina e non fa mai danno aver con sè del pan bianco e del formaggio. Più che latte e polenta e acqua fresca l'alpe non dà… Amedeo non immagina certo che arriveremo prima di lui, perchè la strada dalla Cadenabbia fa un giro, mentre noi taglieremo per i sentieri: e poi i signori amano viaggiare con comodo.

Prima che il sole fosse scomparso del tutto dietro i monti, la brigatella uscì dalla strada dell'orto, e infilato il viottolo del castello, che si arrampica e passa sopra le case del paese, si trovò sul sentiero che va all'alpe. Regina camminava avanti, col suo passo di capra, Flora nel mezzo, e Bortolo che aveva qualche annetto di più, alla retroguardia, col suo canestro sul braccio e il lungo bastone in mano.

La strada uscì presto dai muricciuoli che cingono le piccole vigne, e cominciò a serpeggiare sotto l'ombra già densa dei castagni, che lasciavano vedere attraverso alle foglie il chiarore del cielo ancora soffuso della luce del crepuscolo. Usciti anche dal bosco, il viottolo divenne subito irto e sassoso su per il fianco del monte fino a un primo balzo o terrazzo naturale, da dove l'occhio poteva dominare tutto il bacino del lago, che pareva sprofondato in una valle.

Nella luce dimessa del tramonto s'impiccolivano e si rattristavano i paesi e le ville: morivano già fioche le voci e le squille delle campane portate lontano dal corso più veloce del vento. Nitido il cielo era sul capo, d'un candore profondo, in cui biancheggiavano le prime stelle: e a queste parevano rispondere i primi lumi, che folgoreggiavano nelle tremule acque del lago.

Regina dal cuor contento, dopo aver intonato alcune canzonette, presa dall'affanno del salire e più ancora dal raccoglimento quasi religioso della luce morente, si arrestò ad aspettare il babbo accanto ad una rozza croce, dove intonò l'Angelus.

Flora rispose alla preghiera a voce alta, come se volesse farsi sentire e sentire la sua voce in quel grande spazio diffuso.

Di mano in mano che si andava su, lontani dalle cose solite e urtanti, il suo cuore provava un senso quasi di leggerezza e di liberazione. Avrebbe voluto andar sempre verso una meta altissima e lontana, che la portasse fuori da ogni triste pensiero. Il suo cuore aveva bisogno non soltanto di pace, ma di un vero lavacro di purificazione che distemprasse e sciogliesse i germi dell'odio e dei cupi rancori. Il male per la prima volta l'aveva urtata e offesa colla sua mano ruvida e caliginosa e come tutte le nature candide sentiva la vergogna e il ribrezzo di non essere senza macchie. Lassù, in quell'aria, in quel cielo purissimo, lontanissima dai contatti indecenti della realtà, Flora sentiva quasi risorgere la sua buona innocenza infantile, quando è così facile credere a tutto quello che emana dal cuore. Oh se avesse potuto andar sempre verso quelle lucidissime stelle che la guardavano!

Quando svoltarono in una valle più interna, cominciò a ondeggiare sulle piante e sulle creste una penombra vaga e confusa uniformemente sparsa, che si stringeva sempre più in se stessa, mentre dal fondo saliva una frescura umidiccia che ammolliva le foglie. Regina volle che la signorina si mettesse uno scialle di lana sulle spalle.

Lasciato il viottolo, che tendeva a sprofondarsi verso il torrente, presero a battere un sentiero appena segnato sul pelo dell'erba, nel mezzo d'una prateria in forte pendenza. Qui erano gli ultimi e piccioli campi di segale e di colza, chiusi da stecconati di legno, dopo i quali la stradina procedeva tra basse siepi fino a un gruppo di capanne basse dal tetto di lavagna, che parevano appiattarsi sotto la misteriosa protezione di un gruppo di piante gigantesche.

Era l'alpe detta del Boss, dove pascolava una mandra sparsa per i prati e che non si vedeva più per l'aria già fatta oscura: ma venivano da tutte le parti i suoni rotti delle campanelle, intonate agli accordi di una musica in cui cantano senza stonare le cose più disparate.

Flora, che amava la voce delle cose, mentre Bortolo s'era fermato a cangiar quattro parole coi pastori, andò a sedere in disparte sopra alcuni tronchi rovesciati e appoggiata la testa al palmo della mano, seguiva mentalmente la linea del paesaggio, colle casette scure che mandavano i tetti fino al suolo, umiliate sotto le ramificazioni ampie e bizzarramente frondose delle piante, che ricamavano il cielo bianchiccio strisciato da un'ultima venatura sanguigna. Dentro all'armonia sparsa e mescolata delle campanelle risuona una voce continua e profonda di acque correnti, di vento che fugge carico del buon odore del fieno. La giovenca chiama il torello dal fondo del prato, la capra si querela sulla roccia da cui ti guarda cogli occhi gialli: guizzano nei fondi umidi come spilli d'oro le lucciole: esce dalle stalle il morto tonfo delle cose misto al comando della voce umana. E voci ed ombre e lumi vagano lentamente nell'oscurità che si addensa, si raccolgono, si fanno fievoli al venir della notte silenziosa, che versa rugiada sulle erbe e sogni nelle menti degli uomini.

* * * * *

Mentre Flora si lasciava trascinare a queste poesie, nel rumor vago e fuggevole credette di udire un più distinto suono di campanelli, misto a un bisbiglio di voci e di squilli di corni, che si avvicinavano a poco a poco: e subito dopo vide sbucare dalla strada bassa della valle un baglior vagolante, come di lampioncini a vento, che si agitassero nell'aria, e tra l'ombra e le luci guizzare molte persone, che si avvicinavano insieme al frastuono crescente.

Regina venne a dire:—Son qui, son quei signori di Cadenabbia. Stiamo ben nascoste, che Amedeo non ci abbia a conoscere.

La bella compagnia si accostò, salendo pel viottolo come una mascherata. Davanti erano due uomini con lanterne chiare di carta attaccate a un bastone, che precedevano un asinello vestito e bardato come un principe. E sull'asinello era una signorina vestita di bianco come una beduina. Seguivano altre lanterne d'un colore giallastro, che accompagnavano un'altra signora pure a cavallo d'una bestia ornata di piume rosse e di campanelli.

Era questa la baronessa, imbacuccata anch'essa come una beduina. A piedi seguivano il barone, il commendatore, il banchiere svizzero, e altri giovani signori che si perdevano nell'ombra e non si facevano sentire che per un frequente strombettare nei corni da caccia che portavano al collo, a cui rispondevano altri corni più lontani, dove ondeggiavano altri lumi col resto della compagnia in ritardo. Flora non conosceva nessuno di questi eleganti viaggiatori notturni che giunti davanti alle case del Boss, si fermarono in crocchio ad aspettare chi stava più indietro.

Sotto le grandi piante quel dondolare di lumi variopinti, quel rimescolarsi di colori, quel ridere allegro di gente allegra, quel tintinnare festoso di sonagliere, quello schiamazzar di corni, offriva uno spettacolo magico e pittoresco di fiera e di festa carnevalesca, che rallegrò gli spiriti alquanto sonnolenti della nostra patetica contessina. Dal posto dove s'erano nascoste, le ragazze videro Amedeo, che pareva il capo della masnada, parlare a lungo coi pastori, e quando gli accordi furono presi, la compagnia si mosse verso un prato declinante a sinistra fino a una spianata prospiciente il lago, dov'era stato preparata un'alta catasta per un solenne falò, che doveva essere veduto, e per il luogo e per il concorso dato dall'albergo, a cento miglie lontano.

Le nostre due pastorelle lasciarono passare la comitiva ed esse poi per un sentiero dietro le case riuscirono sulla spianata, a destra della catasta, nel momento che due uomini inginocchiati mettevano il fuoco nella paglia e soffiavano colla bocca nella fiamma.

Cominciò a svolgersi un gran fumo, che spinse la bella compagnia a cercar miglior posto verso il luogo dove Flora e Regina stavano nascoste. Il Bersi per poco non veniva a piantar il suo lampione sotto il castano, dove si appiattavano le nostre due vaghe ninfe. Fu per entrambe un argomento di risa questo fuggi fuggi. Flora si dichiarò subito innamorata del bell'asinello bardato come un principe e se non fosse stato per rispetto alla bella beduina, che gli stava sopra, sarebbe riuscita a carezzargli le orecchie.

La fiamma della paglia non morse così subito alla legna alquanto verde del faggio e dei querciuoli e alle stramaglie fresche che addobbavano l'alta piramide su cui era stata conficcata la vetta d'un pino comune; ma nella nuvola fumosa che il vento andava dispiegando come una fascia cinericcia non tardarono a guizzar avide lingue di fuoco, che crepitavano con un rumor secco, penetrando nelle fibre dei tronchi.

Le fiamme alquanto trattenute dal fumo e dal verde del frascame, uscendo dalla base, cominciarono a lambire i fianchi della piramide, a scalarne l'altezza, a prender un vigore interno, a incidere con punte di fuoco i tronchi, i rami, le decorazioni di pino, finchè la vampa la vinse sul fumo e con un fremito vigoroso avviluppò tutta la catasta, rischiarando col suo baglior fantastico il verde smeraldo del prato, il masso del monte, le case dell'alpe svegliate al di sotto delle gigantesche ramificazioni, da cui fuggivan gli uccelli spaventati.

Nell'accensione libera di quella gran vampa s'illuminò pure (e fu un quadro non meno fantastico e bello) la compagnia schierata in disparte, le signore sulle cavalcature bardate, i signori nei loro eleganti costumi alpini, gli uomini dell'alpe che contemplavano con compiacenza e con un raccoglimento quasi devoto la sacra fiamma accesa in onore della Madonna e a cui per la corona dei monti in giro rispondevano altre fiamme, che accendevano altre fiamme nei profondissimi e freddi silenzi del lago, immobile come una lastra di piombo.

La fascia di fumo, dopo esser montata alta nel cielo si lasciò piegare dal vento come un pennacchio, si disperse allargandosi, scendendo verso l'oscuro vallone, che nel contrasto pareva fatto ancor più nero e pauroso; e intanto era una meraviglia il vedere come alle lingue serpentine bianche e purpuree con fuggenti anime azzurre nel mezzo succedesse a poco a poco un braciere di rubini ardenti, che cascavano fiaccandosi, mettendo in vista altri tesori più intimi e più fosforescenti, un vero incanto degli occhi, che faceva pensare ai misteriosi ripostigli delle fate e ai sogni irraggiungibili della bellezza.

Tutti si specchiavano meravigliati e assorti in questo mucchio di gemme accese, tra cui spiccavano come degli occhi ardenti e curiosi; tutti, tranne Flora, che non vedeva più nulla, non sentiva più nulla. Al sorgere impetuoso della vampa ella aveva riconosciuto Ezio, che ritto alle staffe della superba baronessa ne accoglieva le tenere espansioni, appoggiando, di mano in mano che l'ombra tornava a coprirli, la testa alla mano che essa gli abbandonava. Flora che era lì a due passi, spettatrice non invitata, sentì il cuore farsi duro come un pezzo di pietra. S'era lusingata, venendo a questa gita notturna di lasciare a basso ogni pensiero cattivo e di trovare nella solitudine dei monti un sentimento buono di perdono e di riscatto: ed ecco invece, come una malvagia evocazione, uscir di mezzo ai bagliori fantastici dell'incendio l'oltraggioso castigo della sua vita, l'ingiuria viva di quella donna trionfante sulle rovine del suo ideale. Fu buona fortuna che l'avvilimento da cui fu subito presa le impedisse di correre verso quella donna e di gridare una brutta parola; ma quando, consumato l'ultimo tizzone non rimase che un focolare di cenere e carboni, quando vide la lieta brigata muoversi per procedere verso l'alpe di Giosuè, dove era la meta della gita, essa persuase Regina ad accompagnarsi a quei signori, e si mise quasi sull'orme della coppia innamorata, suscitando le proteste della sua compagna, a cui pareva un po' troppo pericolosa l'avventura.

Ma così potè assistere, coperta dall'ombra, al momento in cui, giunta davanti alla capanna dell'albergo, la bella baronessa, scioltasi dallo sciamma in cui s'era avviluppata contro la brezza notturna, si abbandonò per discendere dalla cavalcatura nelle braccia del giovine, che la tenne un istante sul petto.

—È orribile!—mormorò tra i denti stretti, portando una mano alla bocca come per voglia di mordere. E infatti se essa misurava la colpa di quella donna al patimento che ne provava, doveva sembrarle un delitto esecrabile quel che per gli altri non era che un dei soliti amori di passatempo. Nella sua innocenza del male, nell'atto di conoscerlo, se ne sgomentava come il bambino che balza esterrefatto di mezzo al suo sogno al comparir di un bieco fantasma, che non esiste se non nella sua immaginazione. Ma non aveva essa innalzato il suo edificio di speranze al di là del vero? Non aveva essa creduto troppo al suo sogno?

—Torniamo indietro, signorina: il babbo cercherà di noi—andava replicando Regina.

—Aspetta, vediamo che è bello…—rispose Flora, trattenendola per la gonnella.

Nessuno per fortuna si accorse di queste due pastorelle che adocchiavano nell'ombra. Soltanto una volta una delle due signorine russe, sopraggiungendo alle loro spalle, chiese a Flora in buon italiano:—Come vi chiamate, cara?

La contessina Polony avrebbe voluto rispondere: Vendetta, esecrazione… ma la buona Regina la strappò per la mano e la trascinò via.

Il sentiero, che dalle capanne dell'albergo mena alle casette bianche della zia Maddalena, scende per un tratto fino a una sorgente che gorgoglia tra i sassi all'ombra e risale un altro tratto fino al colmo della prateria, battuta dal chiaro tremulo della luna che faceva luccicar l'erba.

Bortolo, che aveva presa un'altra strada, stava già discorrendo colla Maddalena, quando le due giovani sopraggiunsero. La vecchietta che non si aspettava questa visita fu tutta in tripudio: ma quando seppe chi era la bergamina che accompagnava Regina cominciò a lamentarsi che non l'avessero avvisata a tempo, perchè avrebbe fatto trovare un materasso, una coperta di lana, un po' di salame cotto; e intanto invitava la compagnia a entrare nel suo umile tugurio.

Quando le quattro persone ebbero preso posto sugli sgabelli, non ci fu più luogo per nessuno in quel bugigattolo, reso nero dal fumo, che un lumino scarso riempiva più di puzzo che di luce. Le travi gregge, oblique, logorate dal tempo e dall'uso s'incrociavano in un angolo a cui si appoggiava la pietra del focolare. Il fumo, dopo aver vagato a tingere le pareti, si risolveva a uscire per l'apertura d'un finestrino, che lasciava vedere attraverso alle lavagne del tetto la luce delle stelle.

Una piccola madia, fatta lustra dalle mani che vi eran passate sopra, un paiolo, quattro piatti di peltro, quattro scodelle di terra, quattro cucchiai di stagno formavano tutto l'arredamento di quell'antro, che serviva a un tempo di cucina e di sala di conversazione ai pastori che passavano lassù la stagione del pascolo.

Bortolo fu incaricato dalla Maddalena di stendere della paglia nuova e qualche poco di stramaglia pulita in una «baita» vicina, che serviva spesso di alloggio ai forestieri e agli alpinisti che capitavano lassù di proposito o sviati. E intanto la zia mandò Regina a sciacquare il paiolo al torrente, perchè voleva scaldare due mezzine di latte e preparar loro un po' di cena prima di mandarle a dormire.

La vecchietta, non più alta dell'usciolino della sua capanna, pareva essa pure un travicello affumicato, stretta come era o indurita ne' suoi vestiti senza pieghe e senza colore. Soltanto la faccia era ancor mobile e gli occhi in quel volto solcato da mille rughe concentriche mettevan fuori un'anima ancor giovanile e viva come l'acqua che stilla da un ruvido tufo.

—Se lei mi cerca una chicchera di caffè, cara figliuola mia, sarei imbarazzata a contentarla—disse a Flora che stava immobile ad asciugare i piedi davanti alla pietra del camino—Acqua fresca, latte fresco, polenta calda e castagne fin che ne vuole e anche dei caciolini di capra, se ne ha voglia: ma in compenso di quel che ci manca, qui non bazzica mai il dottore e non si sa che cosa sia la malinconia che fa dolere la testa ai signori. Dovrebbe lasciar giù tutto e venir a stare con noi tre o quattro mesi: vedrebbe queste braccia diventar belle e grasse—e la donna stringeva nella mano l'avambraccio della signorina come se andasse in cerca di polpa.—E non avrebbe questa ciera lunga e spaventata come se avesse visto il lupo. Ci ha già l'amoroso?

—Perchè?—chiese Flora con un atto quasi sdegnoso.

—Quando le ragazze non sono allegre, gatta ci cova. Ci son passata anch'io cinquantanni fa: ma poi le cose vanno a posto e addio buon tempo!

Bortolo entrò con un fascio di legna minuta. Regina riportò il paiolo coll'acqua della fonte: la fiamma fu suscitata e il tugurio si riempì d'una luce d'oro che ridestò tutte le mosche appiccicate ai travi. La rugiada presa e la frescura della notte rendevano piacevole anche quella vampata in cui presto cominciò a muggire il latte.

—Amedeo non tarderà a picchiare all'uscio—disse Regina—Non può far dormire gli asini in compagnia di quelle belle signore. Zitto… non vi pare di sentire un suono di campanelli?

Stettero un istante ad ascoltare e veramente un tintinnio di campanelli, a cui si mescolava una voce d'uomo, veniva su per il sentiero della sorgente.

—Nascondiamo la testa nei grembiuli e voi, babbo, voltatevi di là—disse Regina, avvolgendo la testa di Flora e la propria.

—Zi' Maddalena, siete ancora lì?—gridò la voce di Amedeo di fuori.

—Chi comanda?—chiese alla sua volta la zia Maddalena, che si divertiva allo scherzo come a' suoi tempi migliori.

—Son Amedeo con due amici. Li meno in stalla.

—Sei tu, Deo? menali e vien subito che ti dò una bella cosa…—Voi fatevi costà—disse alle ragazze—e vediam se vi conosce. Voi, Bortolo, fingete di rimestare nel paiolo.

Due minuti dopo Amedeo ritornò fischiando.

—Come state, zi' Maddalena? cent'anni che non vengo a trovarvi e voi non scendete mai.

—Ho a fare, Deo. Entra. Ci ho qui della gente venuta ieri da Bergamo.

—Da Bergamo? buona sera alla compagnia—disse Amedeo, chinando il capo per poter infilare l'usciolino.

—Sì, da Bergamo. Son due figliuole di quest'uomo venute a cercar marito all'alpe del Giosuè.

—Fate la burla a dir che son di Bergamo. Questa che ride sotto il grembiule non è di Bergamo. Questi è Bortolo e questa è… so io chi è: e se vuol maritarsi all'alpe del Giosuè, buona padrona. Io ho di là alle capanne dell'albergo tre grazie di Dio…

—Voglion giusto pigliar voi… quelle là…—fece la Regina, scoprendo il capo, tra le matte risa di zia Maddalena e di Bortolo.

—Voi non state male vestita in quella maniera—disse Amedeo, arrossendo un poco di gioia—e fu un bel pensiero il vostro d'esser venuti. Ma chi vedo? anche la signorina venuta a piedi per questi sassi? e voi, Bortolo, tenete mano al sacco? bravi! se il maggiordomo dell'albergo mantiene la promessa, ora vi porto da fare un brindisi in compagnia.

—Voi forse immaginate che vi faccia dormire nella stessa baita—entrò a dire la zia Maddalena, facendosi tra i due promessi sposi e guardando in faccia ora all'uno ora all'altra con una espressione di soddisfatta allegrezza.—Niente affatto: finchè il sor curato non avrà detta la sua, voi non direte la vostra.

—È venuto anche il signor Ezio—disse bonariamente Amedeo a Flora, che fatta rossa in viso dal calor vivo della fiamma, potè nascondere il suo interno patimento.—E pare che non perda il suo tempo colla bella cantante, un pezzo di donna che mi ha stancato due asini…—Risero tutti a questa facezia, tranne Flora che fissò gli occhi tristi nella brace.

In mezzine di terra fu versato il latte, mentre Bortolo toglieva dal canestro i cartocci e il pane.

Amedeo uscì a prendere la bottiglia che gli aveva promesso il maggiordomo. Ciascuno mangiò secondo il suo appetito; ma l'aria frizzante e la lunga camminata non dissero nulla a Flora, che solo per cortesia e per non parere selvatica in mezzo a gente così buona, trangugiò a stento una goccia di latte.

Sentendosi quasi soffocare in quel basso tugurio, si mise a sedere sulla porta da dove l'occhio correva sulla prateria, che il raggio della luna scoloriva in un verde pallido e molle. Nella conca, oltre il torrentello, nereggiavano le capanne dell'albergo, da cui venivano schiamazzi e risate allegre con un frequente pizzicare di mandolini. A un tratto s'intese una voce chiara ed educata di donna cantare con comica vivacità la canzonetta del Funiculì funiculà.. una voce da teatro, distesa, che in quel vasto silenzio alpestre correva a riempire la valle e a destare gli echi addormentati del monte.

Flora rispose al brindisi di Amedeo, bevendo un sorso di vin bianco in una pulita ciotola di legno: (la zia Maddalena non aveva altra cristalleria) e quando Bortolo cominciò a pisolare, mostrò anch'essa il desiderio di stendere le gambe stanche sulla paglia. La vecchia accompagnò le ragazze su per una scaluccia aperta, che metteva in un fienile esposto alla luce della luna e le lasciò colla buona notte.

Regina preparò due tane nel giaciglio, spiegò una coperta di lana e fattosi un covo, si addormentò presto sulla sua felicità.

Anche Flora si distese e si rannicchiò nella paglia e cercò di sprofondarsi, di annientarsi nel suo giaciglio, invocò il sonno, il riposo, l'oblio, chiuse gli occhi, ma non potè dormire.

Non le giovava di richiamare tutte le vecchie ragioni che l'avevano persuasa a rinunciare a quel che essa credeva un diritto del suo cuore, ma che non era in fondo che un audace desiderio del suo orgoglio. Non aveva già fatto capire alla mamma, a Cresti, e ad altri che essa era morta a questo passato? non le giovava nemmeno l'inventare ragioni nuove o ingegnosi sofismi per dimostrare a sè stessa che nulla era mutato nel destino antico della sua vita e che il soffrire, come faceva lei, poteva parere ormai a ogni persona ragionevole una debolezza ridicola d'un orgoglio non meno ridicolo; ma che servono le dimostrazioni a un cuore che non vuole sentirle? Al contatto crudele del male il suo cuore era arrivato a un tal punto di sofferenza che non l'avrebbe spaventata nemmeno l'idea di morir lì, nella paglia, quella notte stessa, come una mendicante a cui si è rifiutato per crudeltà un misero tozzo di pane.

Nella quiete assoluta della solitudine alpestre le pareva di sentir martellare il suo povero cuore così dolorosamente che più d'una volta si pose a sedere sulla paglia come per cercare un sollievo: poi sentendo che là dentro le mancava il respiro, scivolando adagino presso Regina, che dormiva con una lenta pesantezza, spinse l'usciolino e venne a sedersi sulla scaletta di legno, provando nella freschezza dell'aria notturna un subito ristoro.

La luna alta nel mezzo del cielo, col disco nitido e vivo diffondeva su per le vette sassose e per le pieghe aspre dei monti la sua luce, che attenua le linee più pesanti in una leggiera trasparenza quasi di cose che si sognano. Il paesaggio dell'alpe pareva palpitare come animato dai segreti spiriti della natura. Una punta rocciosa, in fondo, forse il Legnone, resa diafana dal tocco dei raggi, si alzava come un'aspirazione al cielo blando e casto, senza una nuvola, seguita a poca distanza da altre vette minori, che avevano nel tremolìo molle dell'aria e della luce una trepidazione di cose vive: spettacolo bello e sacro da strappar la preghiera a chi non avesse avuta la morte al posto della fede.

Le casette sparse, coi tetti bagnati d'una luce così bianca che pareva neve, versavan l'ombra sul verde prato e parevano anch'esse addormentate in un pensoso raccoglimento. Tratto tratto si svegliava una campanella con due tocchi sonnolenti, a cui rispondeva da lungi il belato pauroso d'una capra. Sottili fischi uscivan dall'erba, ma sui fuggevoli suoni incombeva il gran silenzio dell'ora notturna, un silenzio che pareva piovere anch'esso dalle remote scaturigini dell'infinito.

È l'ora sacra in cui pare che l'anima resa più diafana riceva nel profondo silenzio delle sue acque il riflesso delle cose invisibili che passano e s'increspano all'alito degli spiriti che non possono più nè morire nè dormire.

È l'ora in cui i desideri sepolti bussano al cuore delle fanciulle che vegliano e i sogni fanno ridere i bambini che dormono.

La notte serena versa le sue rugiade anche sui fiori del male, assopisce il rimorso indomabile, ristora le speranze affrante, rinnova i voti traditi. Quando più dormono le cose fuori di noi e come sottili profumi si sprigionano le più recondite memorie di vite che ci aspettano e ronzano intorno a noi sensazioni di oscuri mondi ignoti che ignorano il nostro sole, i nostri uccelli, le nostre rose, i nostri dolori, dove da cause più sottili derivano vite più delicate e fragili.

Il luccichìo del torrente che serpeggiava in mezzo alle erbe folte della prateria risvegliò a un tratto in Flora la sensazione fisica d'una lunga e acre arsura che la tormentava da un pezzo, confusamente percepita, ma non riconosciuta nell'oscurità del suo patimento morale. Si mosse, discese i pochi scalini spezzati, e battendo il sentiero per cui era venuta nel salire, si avviò verso la sorgente da cui quella striscia lucente d'acqua che serpeggiava nell'erba era alimentata.

Quando vide la sua persona riflessa sul terreno, nella gonnella corta, colle due cocche sporgenti del suo zendado di mandriana, invidiò l'ombra sua e stette a contemplare quel che avrebbe potuto essere, se Dio l'avesse fatta nascere in una di quelle capanne brune che toccano coi tetti la terra. Che giova alzarsi se mancano le ali al volo? umile creatura, nella terra è la tua felicità.

Prima di giungere alla sorgente entrò in una macchia di esili pioppi, che spandevano la loro ombra sottile e tremolante sul greto chiazzato del torrente: ma il luogo non era così oscuro ch'ella non potesse discernere anche nell'ombra il filo dell'acqua che usciva dalla bocca d'un canale di quercia e versavasi in una barba di spume tra i ciottoloni e le felci del solco. Scese fino al canale, vi appoggiò la bocca riarsa e bevette a lungo di quell'acqua sincera che veniva dal cuor della montagna. Poi si voltò a contemplare la luna che dietro il ricamo delle mobili piante pareva navigare verso un polo lontano.

Stette un istante inerte ad ascoltare il bisbiglio dell'acqua che rompeva tra i sassi e che nel silenzio vasto della valle pareva raccontare le sommesse storie della sua grotta oscura e meravigliosa, e avrebbe dovuto poi tornare sopra i suoi passi, se una forza non meno irresistibile di quella che trascina le nuvole nel cielo, non l'avesse condotta a proseguire oltre il boschetto, verso le capanne nere, che dormivano nell'ombra, o piuttosto verso la ragione della sua tristezza.

Essa non avrebbe saputo dire se in quel pauroso desiderio che la moveva fosse più la speranza d'incontrarsi in Ezio o la paura; se, vedendolo, per caso, uscire da una di quelle capanne sarebbe corsa a lui, a stringerlo nelle braccia, a redimerlo da una selvaggia seduzione o se invece sarebbe corsa a rimpiattarsi come una timida fiera dei boschi; ma non cessava per questo di dirigersi a quella volta, e già le capanne chiuse e silenziose eran lì a pochi passi, già ne rasentava l'ombra, quando le parve di udire un rumore, come un frascare vicino.

Si ritrasse dietro una siepe di spino che cingeva uno di quei casolari.

Qualcuno veniva alla sua volta: qualcuno entrava nel recinto stesso che chiudeva il casolare deserto e andava a sedersi sulla soglia d'un usciolino chiuso, dov'erano alcuni grossi tronchi rovesciati, nell'ombra del piovente del tetto.

Non era lui… ma una donna, la baronessa… la baronessa che, non potendo forse riposare sul giaciglio insolito del suo letto di montagna, veniva a far della poesia al chiaro di luna.

Il cuore di Flora insorse in un impeto d'ira, ma non ebbe quasi il tempo di formolare un pensiero che da un ciglione, a cui si appoggiava il muro della capanna, saltò sul prato un giovine…

Flora celata dalla siepe si trovò caduta sulle ginocchia come se a un tratto le fossero tolte le forze della vita, le si ghiacciò il cuore, le si mozzò il respiro. Sentiva che essa non poteva restar lì, invocava mentalmente da Dio l'aiuto di sorgere, di fuggire: ma non poteva reggersi.

Finalmente con un atto di estrema violenza se la comandò questa forza e la trovò: si alzò, si ritrasse con precauzione, aggrappandosi agli arbusti per non ricadere.

Nessuno saprebbe dire come avvenisse, come nessuno sa perchè un fulmine si accende e l'altro no. C'eran delle piastre di selce sparse sul terreno. Flora si chinò, se ne trovò in mano una che fischiò nell'aria come soleva farle fischiare alla riva, quando faceva il giuoco del rimbalzello a fior di acqua… e fuggì mentre uno straziante grido di donna rompeva il silenzio della notte. L'aveva colpita!

XIII.

Convalescenza.

Seguirono alle emozioni di quella notte giorni di febbre cocente e di delirio, che tennero in pena l'animo del dottore, il quale non sapeva a che cosa pensare, se a una febbre infettiva di carattere maligno o a una congestione cerebrale: e invece, quando nessuno se lo aspettava, il male si dissipò da sè, lasciando indietro una grave prostrazione di forze e una straordinaria tranquillità morale inesplicabile in quel carattere rivoluzionario.

Era discesa dai monti colla febbre in corpo e si pensò che la fatica del viaggio, il sole preso nel ritorno, il latte della zia Maddalena e la quantità d'acqua trangugiata per spegnere l'arsura avessero prodotto questo male: e Flora lasciò che credessero al sole, all'acqua, al latte della zia Maddalena. Essa vedeva bene da dove era venuta la sua febbre.

Tuttavia nella debolezza grande in cui era caduta le pareva di trovare in fondo a' suoi mali una pace nuova, non priva di qualche conforto, come se la febbre avesse abbruciata anche l'idea maligna che l'aveva fatta soffrire. Non era stato male ch'ella avesse potuto vedere co' suoi occhi la verità: e non era male che la sua vita si costituisse nella verità.

Mentre il dottore parlava alla mamma di crisi, di flogosi del sangue, di sovraeccitazione nervosa, di macchie epatiche, essa compiacevasi d'aver finito di soffrire. Strappata l'ultima illusione, non aveva che da aspettare che la ferita si rimarginasse da sè. Per chi l'aveva fatta soffrir tanto e inutilmente non rimaneva in lei più che una immensa compassione: a quella donna non osava nemmen discendere col pensiero. La figlia del colonello Polony, la contessina del Castelletto, la nipotina della donna, che aveva con un colpo di pugnale vendicata un'ingiuria, s'era avvilita fin troppo a credere che la sua felicità potesse essere contrastata da questi volgari intrugli di amori melodrammatici celebrati al raggio di luna. La nausea è un male che libera spesso da altri mali.

Ad avviarla e a guidarla su questa buona strada di pensieri modesti e ragionevoli giovò non poco la parola dolce e misurata di Elisa D'Avanzo, la buona amica che al primo telegramma della signora Matilde era corsa a sedersi accanto al letto della malata. Con Flora s'erano conosciute durante le vacanze, che Elisa D'Avanzo veniva a passare tutti gli anni sul lago: e quantunque questa fosse di parecchi anni più innanzi e d'indole grave, quasi austera, Flora aveva trovato in lei un'interprete intelligente che l'aiutava mirabilmente a comprendere sè stessa. L'amicizia non è in fondo che la fortuna di trovare in altri la parte che ci manca. In questa funzione integrale Elisa D'Avanzo rappresentava per Flora Polony quella virtù riflessiva, che non abbondava nell'indole della più giovane, troppo facile a credere agli impeti del cuore. Poco era il tempo che le due amiche vivevano insieme, perchè le condizioni ristrette e l'ufficio d'insegnante non permettevano alla D'Avanzo che un breve soggiorno sul lago tra il settembre e l'ottobre; ma la buona relazione continuava nelle copiose lettere che Flora mandava a Torino tutto l'anno, specialmente nelle lunghe e vuote giornate d'inverno, in cui pare che ogni vita morale si ritiri dalla campagna per rifugiarsi nei grandi centri. Erano lunghe confessioni, sfoghi innocenti, confidenze illimitate, nelle quali Flora amava mettere a nudo il suo cuore per il piacere di contemplarlo; erano sunti di letture fatte, consigli chiesti, pensieri trascritti dai libri, pagine intere della sua vita e di sensazioni che nascevano spesso e morivano sul foglio stesso che le raccoglieva.

Elisa D'Avanzo era a parte di quel segreto che la fanciulla non aveva mai osato confessare molto apertamente nemmeno a se stessa; nè si era maravigliata che un'illusione fondata sull'egoismo altrui dovesse cadere un giorno o l'altro come una baracca mal costruita nella sabbia. Essa era venuta subito, anticipando il suo arrivo, a raccogliere le rovine di questa illusione e ora sforzavasi di costruire con quel che si poteva salvare un edificio più modesto, ma più solido per il bene della povera Flora.

Elisa D'Avanzo aveva sofferto la parte sua nella vita, perchè potesse parlare con qualche autorità: ma più che i dolori conosceva della vita quelle spinose necessità e quei nudi bisogni, che sdegnano la pietà e che vivono giornalmente della nostra carne viva.

Da quasi vent'anni era insegnante nelle scuole comunali di Torino, costretta a mantenere una povera sorella scema che non aveva altro aiuto. Per quanto esaurita dal lavoro, conservava ancora al di sotto del logoramento fisico della persona magra e leggera, i tratti di una sana e delicata bellezza, vivificata dalla luce di due grandi occhi pieni di pensieri e sempre attenti alle cose buone. Vestita quasi sempre di nero o con pochi ornamenti vedovili, essa portava da dieci anni il lutto all'unico amore della sua vita, perchè si considerava veramente la vedova dell'uomo che l'aveva amata, che aveva promesso di sposarla e che a ventisei anni era morto vittima di una infezione cadaverica sul punto in cui stava per ottenere una cattedra di fisiologia all'università.

Colla morte di Annibale Perrone la scienza ebbe a rimpiangere una forte speranza spenta troppo presto per l'onore della patria. Amici, colleghi, discepoli, corpi scientifici, riviste italiane e straniere ripeterono per un anno l'elogi che segue ai valorosi e benemeriti cittadini; un busto di marmo fu innalzato nel cimitero dov'è sepolto… ma ad altre cose ebbe poi a pensare il mondo. Altri uomini, altri studi, altri maestri, altri ideali sorsero a far dimenticare l'opera di un trapassato, come l'erba cresce sull'erba segata dalla falce del villano; ma dopo dieci anni la donna era ancor viva al suo dolore. Il mondo si rinnova e dimentica: la donna che ha amato bene una volta, vive e muore nel suo amore. Crollano le lapidi e i monumenti attaccati ai muri: ma una memoria che sia sepolta nel cuore di una donna è un albero sempre verde che mette ogni anno una radice di più. Così Annibale Perrone, che nessuno ricordava più, continuava a vivere delle luminose speranze della giovinezza nel modesto cuore d'una povera maestra elementare, che all'educazione dei figli del popolo dava tutto quel che non era morto in lei, in compenso della pace che il lavoro le aveva procurato.

Per Flora fu una vera medicina la compagnia della cara amica, che, senza bisogno di interrogarla, seppe rispondere con carità e con prudenza ai gemiti di quel povero cuore lacerato.

—No, no—le andava dicendo Elisa, nei momenti in cui vedeva la malata più disposta ad ascoltarla—tu non puoi sacrificare il tuo avvenire, i tuoi pensieri, i tuoi doveri al culto di un uomo che non ti ama e che non puoi stimare. Se egli ha potuto suscitare in te un'illusione, non fu che un raffinamento del suo egoismo, perchè volle cogliere in te un fiorellino modesto dal profumo delicato e ornarsene per un'ora l'occhiello; ma non tardò a farti capire che si è subito pentito di quest'atto d'imprudente poesia. Per tutto l'oro del mondo egli non sacrificherebbe un giorno della sua libertà e un solo dei suoi capricci alla perpetua felicità di una donna che lo vuole tutto per sè. Il nostro modo di amare, cara Flora, non è tutto piacevole perchè coll'amor nostro noi diamo tutte noi stesse e per sempre. Ma questi signori più che la donna amano le donne: o almeno non ci considerano se non come carte che servono a fare il giuoco e che si cambiano ad ogni partita. Tu, nell'ingenuità tua, non potevi immaginare che il mondo fosse così; ma è forse bene che il caso t'abbia aperti gli occhi. Ogni tua violenza farebbe peggio. Più si sente incalzato da te, più ti si ribella e provocherà le occasioni per dimostrarti che non intende sacrificarti nulla, nè un risentimento, nè una vendetta, nè una seduzione. Più cattivo lo renderesti quel giorno che tu ti presentassi come creditrice. Nulla è più odioso quanto un creditore che non si può pagare. Sicchè per il tuo meglio, se proprio ti pare di avergli voluto bene e se ti duole di sciupar del tutto una immagine che ti fu cara, credo che ti convenga rinunciare tranquillamente a lui, e riprendere invece quei modesti doveri che tu hai verso tua madre e verso te stessa. Vedi me. Quando ho dovuto per forza rinunciare alla felicità, mi son rifugiata ne' miei doveri, come mi sarei rifugiata in una chiesa per salvarmi da un acquazzone, E così il mio sacrificio invece di restare morta radice nel suo egoismo, fruttò a me e agli altri, se non una felicità migliore, certamente un riposo non inutile e qualche beneficio.

Flora ascoltava attentamente e ringraziava cogli occhi teneri l'amica del bene che le faceva colle sue parole.

Un'altra volta il discorso cadde sulle grandi obbligazioni che sua madre aveva verso il signor Cresti del Pioppino e sull'avvenire incerto che avrebbero incontrato tutt'e due, se per non voler più aumentare queste obbigazioni, Flora avesse persuasa sua madre a lasciare il Castelletto e a seguirla in una grande città in cerca di lavoro e di pane. Anche su questo punto Elisa D'Avanzo aveva le idee chiare e positive di chi ha vissuta la sua esperienza.

—Vivere in una grande città oggi è un negozio arduo e faticoso per chi vi è nato, per chi vi ha parenti, amici, clientela, avviamento naturale; ma a chi arriva nuovo la grande città si apre come un deserto inesplorato; la piccola come un sepolcro. Tu vai in città a chiedere il tuo pezzo di pane; ma nessuno ha mai pensato che tu avessi diritto di averne: anzi molti si meraviglieranno che tu possa osar tanto e venir da lontano apposta per portar via un poco di quel pane che basta appena a chi c'è: molti se ne sgomentano; molti stringono i pugni e digrignano i denti.

Vincere colla forza la concorrenza di chi aspira al tuo medesimo pezzo di pane non sempre si riesce: perchè più abile della forza è l'astuzia: e di tutte più ancora la malignità. Onde i buoni in questa gara son già vinti prima di entrare. Ma date pure eguali condizioni, il vincere non riesce facile nemmeno a chi fin da fanciullo si preparò l'animo alla lotta e per tutti gli anni della sua giovinezza non fece che addestrarsi nell'esercizio di questa lotta, rompere, per dir così, la volontà a tutte le ripugnanze, fortificarsi contro gli assalti dei più cupi avvilimenti. Ma chi non ha mai lavorato o imparò l'arte sua solamente come un diletto della vita, se anche l'ingegno l'assiste, non può essere sicuro di non smarrirsi, di non stancarsi, di non avvilirsi, di non trasformare il suo stesso lavoro in un acuto strumento di tortura e di cader vittima della sua stessa energia.

—E allora—diceva la buona amica—che sarebbe di tua madre?

—La povertà è cosa assai triste—soggiungeva malinconicamente col tono di chi sa quel che significa contrastare giornalmente colla sorte avara e cogli intrattabili bisogni.—La povertà è cosa triste per tutti, anche per chi vi è nato in mezzo e non conosce altra sorte; ma per una fanciulla bella e gentile, che non voglia rinunciare al suo prezioso orgoglio, l'essere povera è una condizione insopportabile.

La gente fa ai poveri una colpa persino di quella stessa dignità che nei ricchi è stimata come un pregio del carattere; e io ho sentito accusare di alterigia certe povere donne, che preferivano una goccia del loro magro caffè fatto in casa, alla grassa abbondanza d'una minestra offerta per nulla da una cucina economica. Il povero ha sempre torto d'essere povero e di offendere col suo spettacolo gli occhi beati di chi lo vede; ha torto di essere seccante, quando chiede, e arrischia di offendere il beato egoismo della gente felice anche quando si ostina a non chiedere. Al povero è difficile perfin d'esprimere la sua riconoscenza, o perchè dice troppo o perchè dice troppo poco; ma più per la ragione che il ben ricevere non è più facile che il ben dare.

Chi poi può paragonare la povertà sopravvenuta a una perduta agiatezza ed è nella condizione dolorosa di dover continuamente paragonare quel che è a quel che era, quel che aveva prima a quel che non ha più, condanna sè stesso ad un supplizio, che è paragonabile soltanto allo strazio che farebbero due cavalli che tirassero un misero corpo in due versi opposti: tra le memorie e i disinganni, tra il passato e il presente Io strazio rompe la vita.

Ora tu hai qui sull'uscio—conchiudeva la giudiziosa amica—chi ti offre amore, amor vero, non fiamma di paglia, tranquillità d'animo, ricchezza con decoro: è un uomo schietto che tu non potrai non amare, quando potrai più da vicino conoscere il suo cuore e misurare il valore della sua virtù nascosta. Non è il biondo cavaliere della leggenda che passa nei sogni della giovinetta bionda: ma tu non sei romantica e sai quel che valgono i cavalieri di ventura.

L'uomo che io ho amato più di mio padre e più di mia madre non era bello: nè mai mi son chiesta s'egli lo fosse o se era un male che non lo fosse. Era il dottor Perrone che aveva guarita mia madre, era il bravo professore, amato da' suoi allievi, era la gloria della scienza e bastò perchè a me paresse più bello d'un dio. Sento che l'amerei dell'istesso amore anche se egli mi comparisse davanti coi capelli bianchi, già vecchio cadente. Consacrarsi al valore di un uomo è qualche cosa di più attraente che non amarlo per la sua gioventù e per la sua bellezza. Perciò ti ripeto che tu fai male a non incoraggiare il signor Cresti. Sarebbe per te il miglior modo per guarire del tutto da una febbre non buona, che non vien tutta dal cuore…—

Flora arrossì: gli occhi le si riempirono di lagrime di pentimento.—Forse, sì, forse avete ragione; io devo però meritarmi quest'amore e fargli un posto degno nel mio cuore. Avete ragione, non vi può esser nulla di buono in questa febbre d'odio e di gelosia che consuma la parte migliore di me. Dite intanto al buon Cresti che venga a trovarmi.—

* * * * *

Quando il solitario del Pioppino, incoraggiato da tutte le patti, scese al Castelletto a far visita all'illustre inferma si consolò tutto nel vedersi accolto con un sorriso di tenera bontà.

La malata ancor ravvolta negli scialli, con in testa una delle cuffiette della mamma, che faceva brillare i riccioli dei capelli sull'orlo della fronte, coi colori attenuati della convalescenza, stava nel seggiolone di mamà, nel vano della finestra, dove il sole batteva, mettendo nel salotto un lieto e giallognolo tepore.

La mamma era in cucina a preparare la seconda minestra della convalescenza, in cui era stato concesso di lasciar cadere un fegatino di pollo: Elisa era uscita per la sua solita passeggiata mattutina, che doveva riattivare un appetito da lunghi mesi inerte: Flora nel vano della finestra, fissi gli occhi a due nuvolette vaganti nel cielo come fiocchi di lana, si abbandonava con un molle piacer fisico alla sua dolce stanchezza, appoggiando la testa al dorso della poltrona, correndo dietro col pensiero ai rumori che venivano dal villaggio e allo sciacquìo dell'onda che gorgogliava ai piedi della casa: voci e suoni che si mescolavano a visioni e a memorie di cose lontane, cadute da un pezzo in dimenticanza.

La mente fatta più docile e meno impedita dal vigore della resistenza fisica si abbandonava con più indulgenza a ripensare le cose passate e a considerare con un senso di maggior benevolenza il destino della vita. Il bene, andava persuadendosi, è nella moderazione dei desideri e non si riposa mai così bene come nella propria bontà. E come il suo corpo godeva del tepore del sole e l'appetito invocava come un gran bene la piccola scodella di minestra, silmilmente nella sua convalescenza morale essa augurava al suo spirito la guarigione che fa godere d'ogni minimo bene, e quella sana volontà naturale che dà sapore ad ogni modesta fortuna.

Era così assorta, in contemplazione d'un farfallone che, svolazzando, urtava nel vetro, ostinato anche lui contro l'impossibile, quando Beniamino Cresti entrò.

—E così, Flora? va bene, sento….

Flora, che non l'aveva sentito entrare, piegò la testa e vide il signoretto del Pioppino con un enorme mazzo di rose gialle in mano, le più belle rose di quella qualità che fossero sul lago.

—O Cresti, buon dì. Grazie, sto bene davvero. Son per me queste rose?

—S'intende: le ho colte apposta.

—Come si chiamano?

—Rose rêve d'or….

—Come son belle! me le lasci veder bene.

Cresti lasciò cadere il grosso mazzo sciolto in grembo alla fanciulla, che rispose con un piccolo grido di gioia.

—Hanno un profumo inebriante: o è forse la mia debolezza che me lo fa sentire?

—Il profumo è l'anima dei fiori—sentenziò l'amico, che da qualche tempo andava spigolando in un florilegio di bei pensieri; e per far la sentenza più rotonda e più significante, chinandosi sulla fanciulla, che pareva sprofondata nel seggiolone della mamma, soggiunse:—E il sorriso è il profumo dell'anima.

—Ma ci son dei profumi acri che fan pensare più alle spine che non ai fiori.

—Dunque, proprio bene? sentiamo un pò….—Cresti le prese il polso, trasse l'orologio d'oro e misurò le pulsazioni sul tic tic dei minuti secondi—Polsetto un pò debole ancora, ma regolare: segno che il cuore è in ordine.

—Domani potrò uscire in giardino. Ma sieda, Cresti.

—Ho premura—si scusò egli—son venuto soltanto per far la mia visita medica e anche per chiedere un consiglio.

—A me?

—Sì, un consiglio d'arte.

Cresti che pareva già sulle spine, fatto un mezzo giro intorno alla tavola, tornò presso la poltrona, trascinandosi dietro una sedia; ma si accontentò di appoggiarvisi colle braccia.

—Sa che ho comperato il Ravellino….—riprese in tono semplice, fissando lo sguardo al di là dei vetri verso la riva, dove si poteva scorgere la piccola villa.

—È affare fatto? benissimo.

—Bersi mi stava alle costole e io ho detto: Cosa fatta capo ha.

—Ha fatto bene—disse lentamente Flora, portando alla bocca una rosa, su cui tenne fisse le labbra.

—Per me ne ho fin troppo del mio vecchio Pioppino, ma capisco che non a tutti possa piacere un luogo così solitario, lontano dal lago, ficcato in una crepa di montagna. Al Ravellino avremo la nostra barchetta…

Cresti si arrestò, sentendo che parlava in plurale; socchiuse un poco gli occhi e aspettò che altri finisse un discorso che non osava andar avanti da sè.

—Avremo la nostra barchetta… ma il Ravellino è in un disordine orribile. Bisognerà che ci spenda molto denaro per ripulirlo e per togliere tutto quel che c'è di barocco e cattivo gusto. Avrò quindi bisogno di molti consigli.

—Verremo a vedere, consiglieremo…—disse lentamente, con dolcezza, Flora, secondando con benevolenza il pensiero del suo buon amico, mentre coll'orlo delle labbra andava mordendo e sfogliando la bella rosa.

Cresti si appoggiò allo schienale, distese un braccio sulla sponda della poltrona e con una intonazione in cui tremolava il suo povero cuore riconoscente, soggiunse:

—Sicuro, vorrei far restaurare una bella camera grande in stile del Rinascimento con un bel soffitto a rosoni dipinti: e poi anche il giardino ha bisogno di mille adattamenti. Quel Bersi era un ostrogoto… Un artista ha posto di guazzare fin che vuole: e io faccio conto sul buon gusto degli amici.

—Grazie. Metteremo fuori tutta la nostra dottrina artistica.

—E poi c'è ancora una cosa…—soggiunse l'amico, che tirava lentamente il pensiero come se temesse che, rompendosi il filo, l'animo dovesse precipitare in un pozzo.—Ravellino è un nome che non dice nulla; troppe baldorie vi hanno fatto in questi anni quei famosi scapestrati: e quando sia lavato e purificato, bisognerà battezzarlo con un nome un po' poetico.

—È giusto—disse Flora.

—Ho scritto qui alcuni nomi—riprese, mentre levava con mano tremante dal portafogli un cartoncino; e balbettando per l'estrema commozione:—Cioè… veramente ne ho scritto uno solo; anzi o sarà questo o non sarà nulla. Ma non posso scriverlo sul.. sul frontispizio, se prima non ho la debita autorizzazione.

—Dalla prefettura?—chiese ridendo dietro il fascio di rose la contessina.

—Eh… già… forse anche dalla prefettura, ma prima ancora ci vuole un'altra autorizzazione. Ecco: io le lascio questo cartoncino in una busta, Flora. Non dica nulla a nessuno, ma ci pensi e mi sappia dire schiettamente il suo parere… No, non lo guardi adesso.

Flora aveva già letto sul cartoncino: Villa Flora.

—Lei non mi deve dare la risposta nè oggi, nè domani, nè dopo: potrà anche non darmela mai e non cesseremo per questo d'essere buoni amici.

Egli aveva ripreso la piccola mano della signorina e se la teneva stretta nelle sue. Flora sentì gli occhi intenerirsi davanti a questa devozione così pietosa, così tenera, così umile e prima di ritirare la mano strinse quella del vecchio amico con un lungo indugio di benevolenza.

—Scriveremo…—balbettò essa, guardandolo cogli occhi molli.

Il pover'uomo, che non si aspettava tanto, fu per piegare un ginocchio in terra. Si limitò ad appoggiare la testa al dorsale del seggiolone fino a toccare coll'orlo delle labbra i nastrali della cuffietta. Ma parendogli che la casa si rovesciasse col tetto nel lago, fuggì senza manco dire addio. Nel corridoio s'incontrò nella signora Matilde che veniva colla minestrina in mano. Le fece alcuni segni colle mani, senza riuscire a farsi capire; finalmente la baciò in fronte e scappò via. Sulla porta di strada dette proprio nella signorina d'Avanzo, che tornava dalla passeggiata: fece anche a a lei alcuni segni, baciò anche lei in fronte e corse verso il Pioppino nella speranza d'incontrare a mezza via il suo caro Massimo. Una grande beatitudine istupidiva il suo cuore e non capiva perchè egli seguitasse a tenere alla bocca la mano chiusa come se stringesse una moneta preziosa. Su quella mano ancor calda della muta promessa non cessava dall'imprimere baci.

E intanto non restava dal fuggire, come se la sua felicità gonfia di vento lo portasse in aria. Camminò un bel pezzo verso la strada lacuale; passò oltre, senza vederla, la strada del Pioppino: si arrampicò per un viottolo, che metteva in un altro, scese per la strada d'un torrente, saltò rive e scarpe di campi e di vigne, sempre stringendo in mano il suo prezioso pensiero, e non si arrestò, se non quando la schiena del monte gli si rizzò erta e minacciosa davanti. Sentendosi stracco, affannato, colle ossa dislogate, si lasciò cadere sopra uno strato d'erba ancor molle di rugiada e lasciò che le lacrime non mai sparse durante la sua vita colassero tutte in una volta.

XIV.

Tra zio e nipote.

Le giornate di Ezio non avevano più regola. A casa non lo si vedeva quasi più o vi passava appena il tempo di togliersi un vestito e di mettersene un altro, di cambiare un paio di scarpe, di far volare in aria qualche cosa con grande spavento della povera Bernarda, che non arrivava a tempo a contentarlo. Poi scompariva di nuovo, per ricomparire dopo tre o quattro giorni come un luminello riflesso da uno specchiotto lontano.

Lo specchietto era a Cadenabbia.

Col pretesto di frequenti gite, di scampagnate e di colazioni in comitiva egli era sempre con lei o accanto a lei; e siccome la prudenza non era la virtù principale della bella baronessa, e amore è cieco anche perchè non abbia a vedere i pericoli, ne venne fuori un lieto pettegolezzo, per non dire uno scandalo, che finì coll'impensierire gli amici. Il Bersi ne parlò al Cresti che ne discorse con Massimo, perchè vedesse d'intervenire colla sua autorità di zio e di uomo saggio. Questi provò a scrivergli, e in tre righe serie, da uomo serio che sa di compiere un dovere, gli chiese un abboccamento per cose, gli diceva: «che riguardano il tuo onore e la tua pace».

Ezio capì il latino: e dopo aver nicchiato alquanto, non osò rifiutare al caro zio, tornato fresco dall'America, la consolazione di recitare la sua parte di padre nobile: e per aver un terreno neutro, su cui ciascuno fosse padrone delle sue idee, fissò egli stesso un bell'incontro all'albergo Bazzoni a Tremezzo con una letterina umoristica, che finiva così: «Gravi o non gravi che siano le cose che hai a dirmi, è inteso che la colazione la paghi tu».

Zio e nipote furono precisi all'abboccamento: e poichè la giornata era bella e tiepida, piuttosto che rinchiudersi in una sala, preferirono sedersi a una tavola sulla terrazza che prospetta il lago all'ombra fitta d'un pergolato, che faceva il luogo segregato e fresco.

Massimo, che sentiva tutta la delicatezza della sua missione diplomatica e che temeva di rompere prima di toccare, fece di tutto per essere fin dal principio tenero, affettuoso, espansivo; prese il ragazzo sotto il braccio, si fece ragazzo con lui e rimproverandolo amorevolmente, gli disse:—Che ti abbiamo fatto noi poveri vecchi che non ti si vede più?

Ezio, che senza mai essere stato nè in Bolivia nè in Venezuela, credeva di conoscere anche lui la sua diplomazia, stringendo tra le due mani il panciotto bianco del suo caro zio ambasciatore, rispose:—Non si è mai meno padroni di sè stessi come quando non si ha nulla a fare. Ma vedo che tu hai indossato il gilet delle grandi circostanze. Che c'è di nuovo? è vero che Cresti prende moglie? Non si parla d'altro sul lago: e si dice anche che quell'altro animale poco ragionevole, che risponde al nome di Bersi, gli abbia venduto il Ravellino: una bella trappola. Conta, conta.

Si misero a tavola e mentre una bella ragazza si affrettava a stendere la tovaglia, il giovane che temeva di perdere la parola, continuò sempre con un'intonazione tra il tenero e il burlesco:—Però avete ragione di lamentarvi di me e bisognerà che io faccia qualche cosa per contentarvi. Intanto, se permetti, facciam dire a questa bella ragazza quel che si potrebbe mangiare, perchè mi sento vuoto come la canna d'un fucile sparato. Bevi vin toscano, zio Massimo? qui è eccellente.

—Ordina quel che vuoi…

In poche parole s'intesero. Quando il piatto del salame fu portato in tavola e che il vino fu trovato buono, lo zio sentì ch'era arrivato il momento d'intonare l'antifona:—Raccontami un po' il gran nulla a fare che porta via tutto il tuo tempo. Che diavolo fai a Cadenabbia?

—Si fa di tutto per non annoiarci, zio.

—Alla tua età non si dovrebbe aver paura della noia.

—La noia è come il veleno della vipera: guai se ci lasciamo cogliere dal sonno!

—E per fuggire al fumo tu vai ad abbrustolire nelle braci—arrischiò il buon zio, che aveva sempre una delicata paura di offendere la irritabile suscettibilità del giovane.

—Mi sono assicurato contro i danni delle scottature—riprese con gaiezza il nipote che, quando si trattava di fuggire, possedeva l'agilità del gatto.

—Se tu ti diverti, non so che cosa dire: sei nel tuo diritto. Ma ho paura che tu prenda troppo sul serio il tuo piacere…—Un altro passo era fatto, per quanto il cortese diplomatico andasse col piede di piombo.

—Troppo sul serio, no—ribattè Ezio canzonando—perchè di serio al mondo non c'è che la morte; ma si procura di non lasciar scappare le buone occasioni. Chi sa quante volte ti sei pentito anche tu, mio amabile pedagogo, di aver lasciato scappare una lepre che ti passò sotto il naso. Se l'Italia non avesse lasciato scappare le buone occasioni….

—Lascia stare l'Italia che di cattive figure ne ha fatte fin troppo—fu pronto a interrompere lo zio.—Tu parli di piaceri e quando si hanno ventiquattro anni è assurdo che si abbia a discorrere di teologia; ma non ci sono soltanto piaceri a questo mondo.

—Lo so: ma i dispiaceri vengono da sè senza bisogno che uno vada a cercarli. Intanto procuro di sfruttare più che posso i vantaggi della mia età.

—Volevo dire che ogni età accanto a' suoi piaceri ha i doveri suoi, mio caro—disse lo zio con uno stile eguale e freddo come un protocollo.

—Eccoti arrivato a parlare della mia laurea—fu lesto e furbo a continuare il giovine vice-ammiraglio che sapeva con rara abilità schivare i colpi di vento.—Non è vero che tu mi hai invitato a colazione per questo? Ebbene, mio vecchio sentimentale, ti assicuro che ci penso sempre a quella benedetta laurea come a una ragazza che ho l'obbligo di sposare. E la sposerò se tu mi dai tempo. Quod differtur non aufertur. Dillo alla mia matrigna che ti ha incaricato di farmi questo discorso. Ci penso. Se non sarà questo autunno, sarà a Pasqua: se non sarà a Torino andremo a pigliarla a Genova o a Napoli dove la piglian tutti, ma sento che di quà devo passare. È una promessa che ho fatto al povero babbo e la voglio mantenere. Se quest'inverno vieni a stare un poco con noi, vedrai che Aristotile d'un nipote! e tu mi devi aiutare anche a pubblicare quelle care memorie che devono onorare il nome di mio padre: e questo te lo dico sul serio, vè, da uomo d'onore.

Il giovine parlava con tanta e così sincera convinzione che lo zio Massimo, stendendogli la mano al di sopra della tavola, credette giunto il momento propizio di conquistarlo:—Bravo!—gli disse—e allora fa anche il resto.

—Che cosa devo fare ancora?

—Lasciar quella donna che ti perde.

Ezio ritirò la mano che stava per offrire e abbandonandosi sulla sedia, disse con ironico sorriso:—Tu non mi avrai invitato a colazione per farmi mangiare un piatto indigesto, Se questo è il motivo del nostro abboccamento, fa conto che sia finito.

—Ezio—disse lo zio Massimo, asciugandosi i baffi col tovagliolo—non si è viaggiato mezzo mondo senza fare qualche esperienza.

—Ma è anche una bella cosa che ognuno faccia la sua esperienza da sè.

—Non c'è nulla di più noioso che di far delle prediche. Se insisto su questo argomento, è perchè ti vogliamo bene, Ezio.

—E se mi volete bene che gusto avete di annoiarmi? Guarda, tu mi fai scappare l'appetito.

—È in giuoco il tuo avvenire, Ezio.

—So difendermi da me.

—Si vede—soggiunse lo zio, sorridendo amaramente—Questa donna ti ha accecato.

—Ebbene, che giova dissimulare? prese a dire colla testa alta il giovine e in tono imperioso di spavalderia.—L'amo e mi ama: è la cosa più semplice del mondo.

—È la più indegna di te—fu pronto a soggiungere lo zio con una intonazione austera che Ezio non si aspettava di sentire da quell'uomo blando, vestito di cerimonie. Massimo Bagliani era di quegli uomini timidi, che nel fitto d'una mischia si fanno avanti per i primi.

—Ora hai detta una brutta parola, amico mio—disse lentamente Ezio, impallidendo un poco.

—Ebbene la ripeto:—la più indegna di te.

—Sei stato giovine, tu?—

—Io?—e il dabben uomo non seppe nascondere un'emozione che gl'imporporò la testa.—Credo di essere stato giovine in un tempo, quando l'essere giovani voleva dire qualche cosa di più che il far correre una barca. E sarei anche morto volentieri ai miei ventiquattr'anni, se mi fosse toccata una palla nello stomaco. Tu faresti lo stesso, son certo, se i tempi avessero bisogno del tuo sangue: è dunque inutile che tu mi tiri il discorso su queste sciocchezze.

Ezio arrossì lui questa volta.

Seguì un momento in silenzio penoso per tutt'e due le parti. Il giovine Bagliani pareva irrigidito in un senso di cupo dispetto, e mentre il signor commendatore non cessava di pulirsi nervosamente col tovagliolo i baffi e la bocca, il nipote faceva saltellare la lama del coltello sull'orlo del piatto.

Fu Ezio il primo a uscir da questa noiosa reticenza:—Forse ti hanno male informato, il mio caro zio: o forse hai di me una idea sbagliata. So da chi hai ricevuta l'imbeccata. Donna Vincenzina tutte le volte che vede naufragare un suo vecchio ideale si prende dei grandi pensieri per la salute dell'anima mia.

—Tu intendi parlare della tua seconda madre, quando dici donna Vincenzina?—sorse a dire il severo inquisitore, che alla freddezza caustica del giovine sentiva di dover opporre un risentimento quasi personale:—Io non so di quale ideale tu intenda parlare: ma son certo che quella donna che tu nomini in un modo così poco decoroso non può che desiderare il tuo bene: e noi in questo suo desiderio siamo tutti solidali con lei. Cresti mi ha sempre scritto che essa ti ama come un suo vero figliuolo e fino a cinque minuti fa non c'era nulla che ti autorizzasse a credere il contrario. Essa non desidera che una cosa sola…. che tu faccia onore al nome di suo marito.

—Ora la pigli troppo alta—balbettò Ezio che si sentiva dominato da quel modo lento e preciso di argomentazione.—Quando avrò bisogno d'un buon avvocato non avrò molta strada da fare.

—Non la piglio troppo alta, ragazzo mio—ribattè Massimo con uno tono alquanto arruffato, che tradiva il turbamento di un spirito che non sapeva dominare se stesso. Non c'è nessun motivo che tu attribuisca alla tua matrigna delle basse intenzioni per giustificare i torti che tu hai verso di lei e verso te stesso.

—Essa non potrebbe trovare un più zelante difensore—uscì a dire il giovinotto con un fare di monelleria con cui cercò di coprire la sua disfatta—Ed è naturale.

—Che cosa è naturale?—interrogò l'uomo offeso nel suo più intimo affetto.

—Nulla—troncò secco il giovine.—Ti pare che questi discorsi possano far digerire una cattiva colazione? non sarebbe meglio che noi ordinassimo due caffè con due bicchierini di cognac? ho promesso ad alcuni amici d'essere a San Giovanni e possiamo dire come alla Camera che l'incidente è esaurito.

—Si, è meglio. Mi avvilirei a chiedere spiegazioni a un ragazzo che non sa quel che si dice.

Ezio capì che dallo zio commendatore e ambasciatore della Bolivia stava per uscire il capitano d'artiglieria d'altri tempi: e non volendo ritirarsi colla peggio, si alzò, distaccò il suo bel cappellino di paglia dal pergolato ed accostandosi al signor zio con un portamento più spavaldo che contegnoso, credette secondo l'indole sua presuntuosa di farla finita del tutto con quattro di quelle parole enigmatiche che possono far intendere tutto quel che si vuole.

—Caro zio—gli disse—quando tu mi hai fatto l'onore di chiedere la mia ospitalità, dopo non so quanti anni di assenza, io non ti ho chiesto se ti riconduceva un sentimento di rispetto alla memoria d'un defunto, o un pentimento o una curiosità o quale altra memoria de' tuoi ventiquattro anni. So di averti ricevuto bene, con discrezione, con rispetto. Non invoco per me che un egual trattamento di tolleranza e di libertà…. E con ciò grazie della colazione….—E gravemente stese la mano per congedarsi.

Massimo Bagliani non rispose, non si mosse, ma coll'occhio rimpicciolito, con un tremito nervoso addosso che scoteva tutto il suo grosso corpo d'uomo lento e ipocondriaco, fece capire che non aveva più nulla a dire. Ma non volle stringere la mano che il giovine gli aveva stesa.

Ezio si carezzò con un atto d'irritazione i piccoli baffi, mosse qualche passo intorno alla tavola, esitò un istante tra il bene e il male; ma come sempre, anche questa volta vinse il diavolo peggiore. Levò il portafogli e cavato un biglietto da cinque lire lo buttò sul suo piatto e se ne andò. C'era da pagar lautamente quel che aveva mangiato coll'aggiunta d'una buona mancia per la bella ragazza.

Massimo, il povero zio Massimo, rimase lì sotto il peso dell'oltraggio, tutto tremante, colla testa appoggiata ai palmi. Improvvisamente gli parve che il cielo si rannuvolasse: ma capì che un pugno di lacrime gli faceva gli occhi grossi. Una brutta frase si presentò in quell'oscuro turbamento, ma non osò pronunciarla per rispetto ai morti e ai vivi. «Il figlio è degno del padre» avrebbe voluto dire: ma ebbe compassione di tutt'e due.

XV.

Tra il marito e… l'altro.

Il barone Samuele Hospenthal che un potage troppo sugoso aveva reso più disgustato e più svogliato del solito, da una settimana non usciva dalla sua camera se non per muovere quei dugento o trecento passi cadenzati, che gli erano necessari per digerire la sua acqua di Vichy. Il resto della giornata lo passava rinchiuso a scorrere una quantità di riviste e di giornali inglesi e tedeschi, a cui mescolava qualche avventuroso romanzo di Rudyard Kipling, il suo ultimo autore prediletto.

Alla rapida decadenza della sua giovinezza fisica egli sapeva opporre uno spirito resistente, instancabile, invincibile davanti a uno scopo, fosse questo l'impianto di una nuova banca o il piacere di battere un cavallo in una sfida di corsa o quello più modesto di dare agli amici una colazione superiore alle solite.

Quando ebbe conosciuta la bella Ersilia Batacchi la prima volta a Cannes in un Casino-Concetto, la sua prima idea era stata di far di lei una moglie della mano sinistra: ma la resistenza passiva di lei e quella più cauta del sor Paoleto lo persuase a sposarla secondo la legge civile e a presentarla al suo mondo misto di uomini d'affari, di grandi uomini e di oscuri agenti di cambio, di artisti e di vagabondi internazionali, in mezzo a cui le signore passavano quasi senza vedersi. «Libera coscienza in fedeltà d'amore» poteva essere il motto della famiglia. Il contratto era stato pari dalle due parti: egli aveva portato i suoi milioni, essa la sua vistosa bellezza: egli una tristezza fondamentale su cui a stento correva qualche sorriso di compiacenza e di critica bonaria: essa una giovialità senza fine, che avrebbe rallegrata una sinagoga: egli un'esistenza minuziosa che minacciava di triturare la sua vita: essa una risoluzione pronta e capricciosa, che travolgeva come un torrente furioso i progetti di suo marito. Ma giova dire che in questa volontà così diversa dalla sua il barone trovasse qualche vantaggio, perchè difficilmente osava contrastrare a sua moglie anche quando il muoversi rappresentava per lui una passività o una inquietitudine.

La baronessa poco si faceva vedere nei giorni in cui suo marito stava rinchiuso in camera. Veniva e restava con lui qualche mezz'ora al mattino, qualche mezz'ora dopo colazione, qualche minuto la sera, ma gli obbediva volentieri se le diceva di non lasciar soli gli amici. La malattia di suo marito era di quelle che guariscono più presto quanto meno si secca il malato: nè ci poteva essere rimorso da parte sua dal momento che Samuele desiderava di rimaner solo anche per sbrigare un'enorme quantità di corrispondenza, che gli correva dietro di posta in posta come uno sciame di mosche a un cavallo accaldato.

Per spedir telegrammi, per impastar francobolli sulle buste, per mandare a ricevere vaglia postali eragli di sufficiente aiuto il sor Paoleto suo suocero, un ometto svelto e discreto che sapeva tacere, quando vedeva l'acqua di Vichy più torbida, e sapeva in un altro momento raccontare mille storie, aneddoti e reminiscenze della sua vita di teatro e riportare i piccoli pettegolezzi d'albergo, di cui l'illustre genero si dilettava nei momenti di lingua meno sporca.

In ricompensa di questi servigi il barone gli regalava di tanto in tanto sotto forma di gratificazione un pezzo di venti lire in oro col patto che non dicesse nulla a Ersilia, che avrebbe voluto tenere il vecchietto goloso e dissipatello più a stecchetto; ma anche questa piccola frode rendeva il regaluccio più saporito tanto a chi dava quanto a chi riceveva. Il pezzo d'oro barattato secondo il corso del cambio fruttava un altro piccolo guadagno, che aggiungeva al piacere del dono il gusto più squisito della speculazione. I cinquanta, i sessanta, i sessantacinque centesimi che a seconda dell'aggio il vecchietto guadagnava, gli erano quasi più gustosi che non le venti lire del suo pezzo d'oro: e non minore era la sua felicità di quella che fosse la gioia un po' patetica del suo illustre genero, quando con due righe di telegramma guadagnava alle Borse di Parigi e di Amburgo le sessanta o le centomila lire sulle oscillazioni dei valori. Il che dovrebbe ancora una volta dimostrare che la miglior felicità, come la miglior scarpa, è quella che va bene al piede di chi la porta.

* * * * *

Fra le molte lettere che il sor Paoleto portò in camera una di queste mattine in cui il barone rimase ritirato, l'occhio strologato dell'affarista ne sceverò una d'una scrittura poco commerciale, chiusa in una busta profumata, color carne, su cui svolazzava un piccione d'argento entro i ghirigori azzurri d'un'elle maiuscola.

Vecchio frequentatore di alberghi e di maisons garnies, non del tutto refrattario a qualche umile distrazione, il banchiere fiutò nell'acuto profumo di sapone Windsor una di quelle seduzioni, che per chi si lascia prendere si risolvono, alla fine, in un conto da pagare aux ordres de madame. Mise in disparte la letterina e quando ebbe pazientemente percorsa tutta la corrispondenza utile, mentre il segretario tornava per la seconda volta alla posta, gettò un'occhiata svogliata anche al piccione svolazzante, aprì la letterina galante dall'acuto profumo di sapone e credette di decifrare in un ghirigoro sotto una mezza dozzina di righe non troppo solide nell'ortografia il nome di Liana, un nome di guerra che probabilmente minacciava guerra a qualcuno.

La lettera diceva: «Caro Barone, il mondo ride di te che sei uomo di troppa buona fede e di sublime confidenza. Se vuoi vedere come la tua bella moglie t'inganna con un falso amico traddittore trovati la mattina tra le dieci e le undici alla Pasticceria Omoboni di fianco al Coiffeur.»

Samuele Hospenthal, uomo riflessivo e filosofo quanto è necessario per non dare alle cose del mondo più peso che non abbiano naturalmente, sulle prime prese la cosa in ridere e credette di vedere in questa letterina lo sfogo d'una gelosia e d'una vendetta di donna; diversamente che poteva importare a Liana che la moglie d'un banchiere di passaggio andasse a mangiare delle sfogliate tra le dieci e le undici nella bottega d'un pasticciere? Evidentemente un senso d'odio contro il falso traddittore aveva messa la penna in mano alla misteriosa donna dal piccione svolazzante.

Chi poteva essere il falso amico traddittore?

Eran presto contati sulle dita i suoi amici: ma si guardò bene dal fermarsi a far delle indagini. Nella sua esperienza di uomo pratico e positivo il barone credeva di conoscere sua moglie più di chiunque, quando diceva di fidarsi più del temperamento che della virtù di una donna.

La virtù come ogni meccanismo morale, è suscettibile di composizione o di scomposizione, e, simile a un orologio in mano a un ragazzo, di rado la virtù nell'opinione di una donna segna l'ora giusta. All'incontro il temperamento è il metallo stesso del meccanismo, che non si muta se non si distrugge. Ersilia era vana, desiderosa di piacere e amava provocare gli adoratori per quell'ambizione che nella sua antica povertà le aveva insegnato a provocare gli applausi del pubblico: ma era troppo scarsa di cuore e di immaginazione per accendere una passione in casa sua e per sacrificare la sua felicità agli intrighi d'un romanzetto d'amore. Troppo attaccata ai vantaggi della sua ricca posizione sociale, era troppo egoista per non essere abbastanza savia: ed era appunto perchè la sapeva virtuosa per interesse, che suo marito le permetteva di concedere agli adoratori tutte le frangie e tutti i frastagli della sua civetteria. Purchè fosse salvo il suo diritto, nel suo ipocondriaco egoismo non vedeva mal volentieri che gli amici lo sollevassero qualche volta del peso di far divertire una donna insaziabile di passatempi, come su una festa da ballo uno stanco ballerino cede volentieri a' suoi compagni una dama troppo pesante. Questi patti di reciproca tolleranza, se non erano stati esplicitamente discussi, si osservavano ormai da troppo tempo, perchè una delle due parti avesse a non trovarli utili e legittimi.

La bella Ersilia sapeva che, se fosse venuta meno agli obblighi suoi con scandalo e incomodo di suo marito, non aveva più a sperar grazia presso di lui. Conosceva troppo bene l'ostinazione morale di quel filosofo per arrischiarsi ad un giuoco così pericoloso. La divisione assoluta, la perdita d'ogni diritto d'assegno per lei e per suo padre era ciò che l'avrebbe aspettata al di là d'un tradimento.

Ma se il sistema aveva dei vantaggi per le due parti contraenti, riusciva qualche volta pericoloso agli ingenui, che, poco esperti di economia domestica e di bilanci compensatori, si fidavano alle apparenze e cedevano all'esca d'una passione. Per un pelo il Bersi fu per abbruciarsi le ali alla fiamma di questa candela più luminosa che ardente; e ora si sentiva in obbligo di avvertirne Ezio Bagliani dalle ali più leggiere. Ma pare che questa volta il giuoco di far saltare il fuoco nelle mani finisse col danno dei giocatori.

Da parte di Ezio c'era già stato un precedente pericoloso a Nizza. L'incauto intervento della gelosa Liana, la scenata ai giardini pubblici, l'animo presuntuoso, caldo, prepotente del giovine, fecero sì ch'egli, entrato nella partita quasi per passatempo, si sentisse impegnato seriamente nel cuore e nell'onore. In lei il puntiglio di vincerla sopra una rivale, la giovinezza dell'amante, un senso di amor proprio e di curiosità insoddisfatta la condussero questa volta più in là di quel che era utile e nello stesso tempo onesto.

Al punto in cui erano arrivate le cose nè egli, come s'è visto, sapeva arrendersi ai buoni consigli della prudenza, nè essa sapeva resistere alla forza della passione. Acqua lenta, placida, trasparente, contenta di riflettere in pace le cose, una volta che s'era avviata per la china sentiva con terrore la forza del gorgo che l'attirava; ma non vi poteva più contrastare. A molte donne fantastiche questo finire in spume nelle vertigini di un abisso piace più che lo stagnare inerti nella placida palude della virtù casalinga. Essa avrebbe voluto andar fino all'orlo della cascata e poi tornare indietro; ma non si urta colle leggi della gravità.

Ecco perchè il mondo, ossia la poca gente che stava a pigliare il fresco nelle poltrone, cominciò a ridere, a pigliare scandalo e gusto tutte le volte che la strana baronessa andava a comperare marrons glacés alla pasticceria Omoboni e a scegliere saponi e cosmetici dal vicino Coiffeur.

* * * * *

Il barone avrebbe finito col gettare nel cestino il roseo biglietto, se il bisogno di riflettere non l'avesse trattenuto a sofisticare sul caso. Gli capitava spesso d'essere infelice per troppa riflessione, che è il castigo di chi pensa bene.

Sonò il campanello e alla cameriera che accorse domandò se la signora era in camera.

—Nossignore, è uscita mezz'ora fa—rispose la ragazza.

Eran le dieci e mezzo all'orologio del caminetto. Che una signora esca al mattino, sola, senza una necessità, da un albergo, senza avvertire, poteva essere una cosa poco naturale. Ma la giornata era così bella….

—Ha detto quando ritorna?

—Nossignore.

—Esce tutte le mattino a quest'ora?—avrebbe voluto domandare ancora, ma o gli parve di chiedere troppo a una cameriera o lo trattenne lo sgomento di saper troppe cose in una volta.

—Va bene—e licenziata la ragazza, tornò a passeggiare per la stanza. Ma poco dopo gli parve che non ci fosse aria abbastanza e uscì per discendere in giardino. Ai piedi della scala s'incontrò in Bühler che passeggiava nell'atrio in compagnia del commendatore Zuccani. Li schivò, uscendo da un'altra porta sulla piazza dell'albergo, dove rimase un pò di tempo a strologare l'aria, incerto su quel che doveva fare di sè.

Finalmente seguendo il primo impulso, si mise lentamente per il viale di acacie che costeggia il lago e lo risalì di malavoglia, giocherellando con una sottile bacchettina sui sassolini del terreno. Andò così fino a uno dei capi del paese dove tra le molte botteguccie del solito olivo lavorato e del solito corallo di Napoli svolazzava sopra una tenda rossa la scritta in grandi parole bianche: Pasticceria Omoboni.

Nella bottega arredata con qualche gusto cittadinesco non c'era in quell'ora che un vecchio signore esotico seduto davanti a un bicchierino di cognac in compagnia di una bellissima giovine, vestita con una estrema eleganza in chiaro, che rosicchiava con grazioso appetito un piatto di pasticcini usciti allora dal forno.

Se il barone avesse avuto occhi per vedere qualche cosa al di là de' suoi pensieri, avrebbe notato che al suo entrare la bella giovine s'era scossa con un moto quasi involontario. Sedette anche lui sulla soglia del caffeuccio, all'ombra della tenda rossa in un posto da dove poteva coll'occhio correre per tutta la strada fin oltre l'albergo e per tutto il viale del lago. Tutte le botteguccie splendevano in fila nella chiara e aperta luce del sole: tra le altre, sull'angolo d'una vecchia casa sporgente sopra una viuzza laterale, luccicava in grosse parole d'oro la scritta Coiffeur. Le indicazioni erano precise.

La mattina era lucida, arieggiata e preludiava a una di quelle giornate di lieti colori, di molli godimenti signorili, di feste deliziose, che il lago di Como offre così volentieri a chi ha tempo e denaro da spendere.

Per un senso di sincera rettitudine verso sè stesso il barone confessò che non era venuto nè per fare la spia, nè per dar la caccia a nessuno e molto meno per il gusto di tormentare sè stesso. Egli era troppo epicureo nel suo animo freddo e metodico per andare in traccia di dolori inutili sopra gl'indizi malfidi d'una lettera anonima, molto più che nella sua languidezza fisica cominciava a sentire che le brighe e le gelosie d'amore non valgono gl'interessi di quel capitale che una bella donna tien impegnato o morto.

Mentre col cucchiaino andava rimestando nella chicchera un caffè mezzo freddo, che non aveva voglia di farsi bere, correva di pensiero in pensiero, di ipotesi in ipotesi fino ad immaginare che cosa avrebbe dovuto fare nel caso che Ersilia avesse mancato indegnamente al suo contratto. Non gli pareva ch'egli dovesse dare in ismanie, perdere l'equilibrio della vita e molto meno dar spettacolo, come un attore tragico, del suo furore e della sua vendetta.

Per il suo spirito aritmetico, che secondo la teoria del Bentham suo filosofo prediletto, metteva il bene nell'utile, Ersilia cominciava a rappresentare una passività nel bilancio della sua vita e in questo disavanzo il suo stomaco non era il meno danneggiato de' creditori. E allora piuttosto che andare incontro agli svantaggi d'un fallimento, la più semplice della contabilità insegna a venir presto a un concordato prima che le liti e gli avvocati abbiano a consumare quel che si può meglio impiegare in economie.

La figlia del sor Paoleto, che egli aveva sposato per assicurarsi un sano godimento, non meritava il sacrificio di tutta la sua vita e di quei grandi interessi ch'egli andava fabbricando nel mondo; forse conveniva sfruttar anche quest'accidente e liquidare in una composizione amichevole i danni emergenti e i lucri cessanti….

Stava seguendo il filo d'una logica di cui era tessuta per nove decimi la stoffa del suo sentimento, quando, a scompaginare le somme, vide comparire non dalla bottega del Coiffeur, ma da una porticina contigua, Ezio Bagliani, che, attraversata la strada, venne a cercar l'ombra delle acacie, e due minuti dopo sua moglie usciva dalla bottega, senza ch'egli l'avesse vista entrare in tutto il tempo ch'era rimasto sulla soglia della pasticceria. Attraversò anch'essa la strada dove, fingendo d'incontrarsi per caso, si salutarono……

Il barone, prima ancora che il ragioniere di casa consultasse i registri della convenienza, si mosse. Un gran buio sì fece a un tratto nel suo cervello e i numeri scritti col gesso scomparvero sul fondo della tavola nera. I sottilissimi fili logici, che legavano l'uomo ai pioli del suo egoismo, non valsero a trattenere il gigante che si risvegliò in lui in quel momento e che gli diede il senso d'una forza terribile. Mai s'era sentito così violento in vita sua, tranne una volta a Nizza, quando si accorse che un conte ungherese gli rubava sul giuoco con carte false. Gli parve di vacillare su un terreno insidioso e malfermo: anzi tale fu la confusione de' suoi sensi, che non si accorse che la bella coppia s'era incontrata in quella de' suoi amici Bühler e Zuccani, che scendevano anch'essi lungo il viale. Egli sopraggiunse quinto non previsto. La baronessa, arrossendo, cercò di coprire un improvviso turbamento coll'esclamare:

—Oh ecco il mio gran malato… Hai fatto bene a uscir con questo bel tempo…

—Permetti una parola, Bagliani?—disse con voce gelida senza turbarsi il barone, invitando il giovine a seguirlo in disparte, mentre Ersilia si attaccava, come se cercasse una protezione, al braccio robusto di Bühler.

Per quanto Samuele Hospenthal mantenesse al di fuori una meravigliosa imperturbabilità e parlasse umile e discreto, come se proponesse un affare, con tutto ciò gli amici, ai quali non era ignoto quel che sì poteva dire il segreto di pulcinella, videro o intuirono che il marito chiedeva una di quelle spiegazioni che gli amanti non sono in grado di dare.

Unico segno di risentimento di quell'uomo corretto come una somma giusta era un picchiare nervoso della bacchettina sul tronco della vicina pianta.

Il giovane sosteneva il noioso interrogatorio con un viso duro, provocante, in cui passavano dei guizzi ironici.

Fu un colloquio breve, di due minuti che parvero una eternità a Ersilia, la quale andava stringendo e quasi graffiando il braccio del buon banchiere di Zurigo. Questi interrogò cogli occhi il commendator Zuccani, che, non sapendo che pesci pigliare e non volendo impacciarsi di cose che uscivano dal suo dicastero, prese a pulire le lenti degli occhiali.

—Non toccarmi—disse repentinamente con voce quasi sguaiata il giovine Bagliani, alzando una mano contro la bacchettina che il barone gli faceva vibrare sopra la testa.—Guai se mi tocchi!—e prima ancora che il barone avesse idea di nuocere, il temperamento del giovane la vinse sulle ragioni della prudenza, perchè a un tratto fu visto strappar di mano all'avversario, romper la bacchettina e buttargliene in viso i mozziconi.

—Ecco quel che rispondo—disse il disgraziato trascinato o dalla sua superbia, o da un falso giudizio che convenga, quando più si ha torto, sopraffare colla violenza le ragioni dell'avversario. Il temperamento monotono e remissivo del barone potè forse fargli credere in un vantaggio che la violenza non ha sempre sopra la resistenza.

Il barone gli fu coi pugni sulla testa. Accorse il commendatore, mentre Ignazio Bühler trascinava via Ersilia, che non aveva saputo trattenere un grido. Già alcuni passanti si eran voltati e stavano a vedere…

—Allora sarà necessario vederci altrove—disse quasi umilmente il barone, che non potendo impallidire s'era fatto giallo.

—Dove vuoi, quando vuoi, come vuoi…—rispose con fredda cortesia il giovine spavaldo, e fatto un inchino, se ne andò svelto per la sua strada, cioè per quella che aveva davanti.

Il barone si accompagnò al commendatore che gli si pose ai fianchi, in un rispettoso silenzio per tutto il tempo che occorse a misurare tre volte innanzi e indietro il viale delle acacie.

Quando all'orgasmo e ai giallori della bile sottentrò il giudizio e la visione delle cose, il barone aprì la bocca e col tono di chi invita un camerata a una partita a domino, disse al suo vicino:

—Commendatore, posso far conto anche sopra di lei?

—Ella mi onora, barone—disse colla sua cantilena il meridionale segretario generale, alzando la barba.

Se Bühler accetta, non desidero di meglio che di essere assistito da lor due. Essi hanno vista l'offesa, intendono, forse sanno anche quel che non posso dire. Non desidero che due cose: far presto e senza rumore.

—Forse sarà bene che ella non ritorni all'albergo in questo stato d'eccitazione—si arrischiò di consigliare l'illustre personaggio, pensando alla povera signora, a cui da ventiquattro ore andava facendo un poco la corte.

—Ci ho già pensato. Prenderò questo battello che sta per arrivare e andrò a far colazione a Bellagio, dove resterò a vostra disposizione. Ella intanto, commendatore, mi renderà un primo favore, se dirà a mio nome a quella signora che vada direttamente a Milano con suo padre in attesa de' miei ordini. Non bisogna dar spettacolo di sè alla gente: e, ripeto, più presto che si può, nel miglior modo che si può.

Quando il battello ebbe gettate le corde, il barone, stringendo la mano del commendatore, gli disse con sorridente tristezza:

Scusate, cari amici: sono piccole avventure di viaggio.

—Sul ponte s'incontrò di nuovo nel vecchio esotico e nella bella giovine vestita di chiaro, che lo carezzava dolcemente cogli occhi; ma Hospenthal aveva l'itterizia ne' suoi.

Ezio intanto era corso in cerca del Bersi e insieme mandarono un telegramma ad Andreino Lulli.

Poichè si era venuti ai ferri corti voleva amici fidati, discreti, gentiluomini provati, che non gli lasciassero fare una cattiva figura.

XVI.

Il duello.

Il temporale rumoreggiava da una mezz'ora nelle alte valli, quando, cessato un poco il vento che faceva stridere le frasche, cominciò a cadere nella chiusa oscurità della notte un'acqua torbida e grossa, che riempì ben presto i solchi, i viottoli, le incavature del monte e prese a correre e a inondare le strade più basse. Ogni qual tratto un lampo vermiglio s'accendeva nelle lontane regioni del cielo e faceva passare un guizzo, come un'idea luminosa, nell'anima oscura della notte; e a quel bagliore uscivano per un istante le creste, le rive, le case, il fondo livido del lago; poi l'oscurità ripiombava in una nerezza più fitta, più chiusa, più profonda in cui il tuono non cessava mai dal brontolare. Era però un temporale più rumoroso che cattivo, che nelle stesse sue furie faceva sentire, come, una volta sfogati i risentimenti d'una giornata calda ed afosa, avrebbe lasciato il tempo più bello di prima. I lavoratori dei campi, che vedevano la terra farsi già dura e spaccarsi in screpolature aride e sitibonde, sentivano con piacere stramazzare questo stroscio refrigerante di pioggia sopra i campi e sopra gli orti, saltare e gorgogliare nei canali e sui tetti delle case, ristorare le fatiche di tutti, come se in ogni goccia di quel diluvio scendesse dal cielo in terra una piccola benedizione; e allentando i corpi nei loro giacigli, dopo aver alzato un poco la testa per ascoltare se in mezzo all'acqua non saltasse qualche cosa di cattivo, cedevano più dolcemente al sonno.

La furia della pioggia non era ancora cessata, quando il Cresti, che girava per la sua casa ad assicurare usci e finestre, credette di sentir sonare il campanello del cancelletto di strada.

—Chi sarà con questo diavolo di tempo?—disse tra sè, aprendo un poco una finestra meno esposta alla sferza della pioggia; e stette lì ad ascoltare se era un'immaginazione o uno scherzo del vento. Il campanello risuonò ancor più forte.

—Chi è?—gridò, sporgendo il capo e gettando la voce verso la strada, per vincere il frastuono della pioggia.

—Mi manda il signor Ezio con una lettera—rispose una voce mezzo affogata.

—Ezio?—si chiese con un'intonazione di meraviglia come se dicesse:—l'imperatore della China?—e senza poter immaginare di che cosa potesse aver bisogno il signor Ezio in quel momento, con quel tempo, ma presentendo qualche cosa di poco allegro, scese sotto il portico, scelse tra molte ombrelle una assai grande e massiccia di tela rossa, e accesa la candela d'un lanternino a vetri, si fece coraggio e prese a discendere tra le due siepi di mortella per il viale che spicciava acqua da tutti i sassolini.

La luce del lanternino, che riempiva la cupola dell'ombrellone, sbatteva vermiglia sulla faccia e sulle mani e mandava l'ombra nera di due gambette sull'arena lucida del viale tutto chiazzato di fossatelle di acqua: e un'ombra più larga e spampanata passava sotto gli alberi di frutta come quella d'un immenso fungo proiettato da una gigantesca lanterna magica.

—Che cosa c'è Amedeo? una disgrazia?—chiese quando ebbe ravvisato l'uomo che, rannicchiato anche lui sotto una rustica ombrella dalle ossa dislogate stava attaccato colle mani alle sbarre del cancelletto, che gli offriva l'illusorio riparo di due magri pilastri ritti senza tetto.

—È per il signor ambasciatore. Il signor Ezio mi ha raccomandato di consegnarla subito stasera, ma c'è voluto del bello a trovare il Pioppino con questo buio.

—Qualche cosa di male?

—Ho paura di sì. È partito, credo per la Svizzera. A Tremezzo si dice si abbia a battere in duello.

—Venite dentro.

—No, torno subito, mentre son già bagnato, a pigliare il resto.

—Buona notte, povero Amedeo.—E lottando di nuovo contro il vento, che cominciava a pulir qualche stella e che minacciava di portar lui e l'ombrello nelle nuvole, il Cresti, risalì a saltucci il viale e, grondante come un pesce venne a cercar rifugio sotto l'atrio. Che fare di quella lettera molle anch'essa come una pezza? Massimo s'era già chiuso in camera da un'ora e cullato dal rumore della pioggia, che persuade il sonno, dormiva così placidamente ch'era peccato guastargli la notte per i capricci d'un moscardino che andava a battersi per chi? per la donna d'un altro: vergogna! e questo dopo le belle amabilità che il caro nipote aveva risposto al caro zio in un colloquio quasi degno di storia. Il povero Massimo, dopo quel malaugurato incontro con Ezio a Tremezzo, non aveva mangiato per tre dì, come se le amabilità del caro nipote degno figlio d'un uomo duro ed egoista gli fossero rimaste sullo stomaco. E se ora il signor Ezio Bagliani affogava, che cosa voleva da loro? che corressero con quel tempo in piena notte a gettargli una corda per trarlo a riva? Era meglio lasciarlo dormire l'amato zio e aspettare la luce del dì. Il Cresti pensava giusto. Zio e nipote non si eran più visti, nè Massimo si sentiva disposto a correre in cerca d'un giovinotto, anzi d'un ragazzaccio, che l'aveva stupidamente, bambinescamente oltraggiato nei suoi più nobili pensieri. Per non correre il pericolo d'imbattersi in lui e per non aver l'aria di mendicare un'ospitalità ch'egli non voleva più accettare, non si era lasciato più vedere a Villa Serena, tanto che laggiù non sapevano che cosa pensare. Cioè, donna Vincenzina, temendo di aver mancato in qualche cosa, in pena per sè e per lui, non osando mandare a chiedere al Pioppino, fece domandare al Castelletto se sapevano qualche notizia: e quando tornarono a dire che stavano tutti bene sentì crescere la sua tristezza. Si domandava se per caso ella non si fosse mostrata troppo poco indulgente con un vecchio amico e nello stesso tempo cominciò a dubitare d'essere stata troppo indulgente fino al punto di mettere il vecchio amico in qualche perplessità: nè ora avrebbe voluto mostrar di desiderarlo troppo e nemmeno rattristarlo con un atto di fredda trascuranza. Per quanto antica sia questa giurisprudenza dell'amore, che si sappia, non pare ancora compilato un prontuario che risponda a tutti i casi: e per quanto uno vada col piede di piombo, arrischia sempre di dare un cattivo consiglio, specialmente a sè stesso.

Prima che il sole dipingesse in rosa le cime biancheggianti delle montagne, che l'uragano della notte lasciava spruzzate di neve, il Cresti ricevette un altro biglietto di Erminio Bersi, che gli scriveva:

«Ezio e il barone si batteranno domani alla pistola—il biglietto era stato scritto la sera prima—a condizioni piuttosto gravi che non fu possibile evitare. Per vostra norma l'indirizzo è Lugano per Villa Elvetica. Manderò subito un telegramma al Pioppino se sarà necessario.»

—Cioè, se occorrerà di aggiustare una testa rotta commentò —acerbamente il Cresti, che per regola generale non sentiva mai una —grande compassione per chi va a cercare i suoi guai col lanternino —come si cercano le lumache. In questo caso particolare poi, in cui —era in giuoco la riputazione d'un pericoloso rivale, non sarebbe —stato uomo, se non avesse sfruttato a suo vantaggio la cavalleresca —avventura. Se un rimasuglio di rimpianto restava ancora nel cuore di —Flora, questo duello veniva opportuno a dimostrare che i tempi della —cavalleria nobile e generosa sono scomparsi da un pezzo. I giovani —campioni si battono ancora qualche volta per le belle, ma lo fanno —per necessità; per esempio, per non lasciarsi infilzare dai mariti —gelosi. E in quanto alle belle Angeliche di questi nuovi paladini —potrebbero essere anche loro balie. Che ne sanno dell'ideale questi —gaudenti giovinotti? (continuava nel suo umor sarcastico il —misantropo del Pioppino). Se non possono aver l'amore a buon —mercato, c'è sempre un buon amico che fa le spese. Così godono e —invecchiano questi furbi: e quando gli acciacchi cominciano a farsi —sentire, prima che la macchina irrugginisca del tutto, procurano di —rifarsi una seconda giovinezza legale, collo sposare qualche ingenua —ragazza provinciale, che insieme all'ignoranza dell'anima porti in —dote un sacco di denari. L'idealismo è poco, ma il ragioniere di —casa trova che l'operazione accomoda meravigliosamente le partite —sconnesse, rimette in equilibrio il bilancio domestico e augura al —suo padrone un erede che gli somigli.

Ecco la vera poesia pratica della vita, che non ha nulla a che fare con quella vaporosa poesia del cuore che fa sognare le ragazze belle e povere, che hanno la testa piena di letture, le dita piene di musica e lo spirito pieno di coraggio.

Il buon Cresti metteva in questi suoi segreti brontolamenti un sentimento alquanto involuto in cui lottavano confusamente mescolati e il piacer d'aver avuto ragione e il rancore contro gli avventurieri della felicità e dell'amore, che guastano il cuore delle ragazze. Vecchio idealista non avvizzito del tutto nel suo bozzolo, anzi presso a mettere le ali d'una nuova speranza, si avviava a riconoscere che una certa legge di equilibrio c'è nel mondo, la quale somiglia e rasenta qualche volta la giustizia.

Prima di entrare a discorrere con Massimo mandò un ragazzo con un biglietto a Regina per sapere da lei se la notizia del duello era già arrivata al Castelletto. La pregava di far in modo che le signore non sapessero nulla, se si era ancora in tempo a nascondere la verità: più tardi sarebbe venuto lui. Verso le sette bussò alla camera di Massimo.

Questi era ancora a letto, immerso nella descrizione della battaglia di Waterloo, nella tiepida tranquillità delle coltri, che abbracciavano dolcemente la sua pigrizia; e quando vide entrare l'amico, capì che un pensiero doloroso gli attraversava la fronte.

—To', leggi e vedi quel che significa essere giovani senza giudìzio.
È il tuo amabile nipote che scrive.

Massimo prese la lettera, si rizzò un poco a sedere sul letto, e corse su queste parole:

«Caro zio, parto stasera per Lugano, dove dovrò avere una partita d'onore col barone. Cose che capitano ai vivi! procura che a Villa Serena non si sappia nulla o ritarda la notizia fin che è possibile. L'amico Bersi, nel caso d'una disgrazia sa quel che deve fare. Se, come non credo, non tornassi subito, ho lasciato per te, mio burbero benefico, una lunga lettera in camera di papà. Perdona al tuo Ezio.»

—Ecco, ecco, ecco…—uscì a dire il povero zio, agitando la lettera in aria.—Ho detto io che si doveva venire a questa! benedetto figliuolo, se mi avesse ascoltato. Ora non si è più in tempo a impedire nulla.

—Che cosa vorresti impedire? non possiamo volargli dietro. Del resto se l'è cercata.

—No, no, non possiamo star qui a far nulla, caro Cresti—disse l'amico.—Vediamo se siamo ancora in tempo… Lugano non è in fin del mondo.

—Si potrà andar a sentire… Intanto che tu ti vesti, faccio una scappata a Cadenabbia, dove si saprà qualche cosa. Il direttore dell'albergo potrà mettere a nostra disposizione una carrozza con due buoni cavalli se non saremo più in tempo a prendere la ferrovia di Menaggio. Bersi ha promesso di telegrafare: e forse, mentre parliamo, è già tutto finito colla pace di tutti.

—No, no, va a sentire, Cresti. Io ti raggiungo subito.

Mentre l'amico scendeva a corsa le scale, il buon zio ambasciatore, a cui la notizia aveva fatto battere il cuore in un modo straordinario, nel raccogliere i vestiti sul letto, andava sospirando:—L'ho veduta come in uno specchio. Mi avesse ascoltato! Che ci posso fare ora?…—

L'ultima frase della lettera: «Perdona al tuo Ezio» aveva d'un tratto disarmato i risentimenti d'un uomo, che a differenza di molti altri, più che le baruffe dell'amor proprio, amava di voler bene e di farsi voler bene.

Dopo una lunga vita sterile e vagabonda sentiva il bisogno di qualcuno che gli occupasse il cuore: e poichè c'era al mondo un ragazzo simpatico e ardito, che portava il suo nome, che non aveva che a chiedere il suo affetto, avrebbe voluto che Ezio corrispondesse con altrettanta confidenza. Per questa disposizione s'era commosso fino alle lacrime il giorno che l'avevano ricevuto a Villa Serena con tanta amorevolezza: e per questa disposizione aveva sofferto le pene dell'inferno nel vedersi a un tratto respinto, quasi oltraggiato da quel figliuolo. Ma ora che la mala passione aveva tirato il castigo, il cuore dell'uomo si sentì giovine, indulgente, tratto dalla sua stessa esperienza a compiangere nel povero ragazzo questa nostra povera vita, che tra i mali è una pagliuzza raggirata da un turbine.

Non conosceva le condizioni del duello: ma un duello alla pistola è sempre una partita seria. E c'era di mezzo una donna, la più irragionevole delle ragioni, ma la più difficile a confutare. Se i padrini non avevano potuto far accettare altre armi, era segno che gli animi erano troppo eccitati da una parte e dall'altra. Povero Ezio! già dalle sue parole spirava quel cattivo presentimento che galoppa sempre una mezza giornata davanti al cattivo destino.

Massimo pensava anche a donna Vincenzina, che doveva, poveretta, provare anche questa. Quasi restava incerto fra i due partiti, se era meglio correr dietro al giovine o rimanere presso la madrina: se andar lui e far restar Cresti: se partir subito o aspettare prima il telegramma.

In queste esitanze, l'uomo di sua natura già troppo meticoloso, restava immobile colla roba in mano, nel mezzo della camera, cogli orecchi aperti a tutti i rumori della casa, pronto a trasalire ad ogni colpo di campanello, imbarazzato a compiere quel solito cerimoniale del vestirsi, che turba le donne che hanno pochi pensieri e gli uomini che ne hanno troppi.

Il Cresti arrivò a Cadenabbia sul punto stesso che il fattorino usciva dalla Posta con un telegramma per lui.

—Date qua—disse, strappando quasi di mano all'uomo il foglietto. E tornò su' suoi passi, senza leggere. Invece di svoltare sulla strada ripida del Pioppino, tirò diritto coll'idea sottintesa di portare la notizia al Castelletto. Ma quale notizia? l'aveva in pugno e non osava guardare. E non osava, per paura che fosse troppo paurosa, mentre non osava augurarla nemmeno troppo lieta. Come potesse essere o troppo brutta o troppo bella questa notizia, non avrebbe saputo dire, perchè quando sono in zuffa interessi contrarii, non convien mai aver idee troppo chiare.—Si vede che il duello ha avuto luogo nelle primo ore. Bersi ha telegrafato subito e così potremo risparmiare una corsa inutile con questo caldo.

E mentre, seguendo la spinta d'un primo pensiero buono e generoso, correva verso il Castelletto, un secondo pensiero sbucando come un cane, che da una siepe esce contro un altro, lo arrestò di botto coi piedi nella polvere.

—Ma se egli è sano, salvo e glorioso, non c'è ragione che tu vada a raccontare a queste donne il nuovo trionfo di don Chisciotte. Le donne s'esaltano all'idea delle audaci imprese e c'è a scommettere che, circonfuso dell'aureola del pericolo corso, il signor Ezio abbia a ritornare più bello e più caro di prima. Flora non avea ancor detta l'ultima parola e in questo momento psicologico della sua vita non era prudente turbarne il giudizio col racconto d'un episodio epico in cui Ezio arrischiava di fare la figura d'un eroe. Flora non era più saggia delle altre donne, tutte più o meno romantiche, nel giudicare del valore di un uomo; anzi c'era a dubitare che un'avventura cavalleresca compiuta nel rimbombo delle armi avesse ad esaltare il suo spirito fantastico, imbevuto di pregiudizi rivoluzionari e di poesia polacca.

Ecco perchè il nostro umile coltivatore di cavoli, che non aveva mai sparato pistole, se non contro pipistrelli, s'era fermato coi piedi nella polvere della strada, esitante su quel che conveniva fare; finalmente scoprì che prima di fare o di non fare conveniva leggere il telegramma: e colle mani che tremavano per la troppa emozione aprì il dispaccio, si assicurò le lenti sul naso….

«Ezio ferito gravemente forse mortalmente alla testa. Venite subito tutti.»

* * * * *

—Ferito gravemente, forse mortalmente….. oh Dio mio!—uscì a dire con voce alta e dolente il buon amico, che si credette quasi punito della sua stessa malevolenza. Oh non era possibile una sì grande disgrazia; no, no: egli non aveva desiderato questo male. Nè c'era a lusingarsi che il Bersi esagerasse. Non era della sua indole e non si esagera mai nel peggio in queste circostanze. Come poteva recare questa notizia a Massimo? come avvertirne di punto in bianco queste povere donne? davanti alla crudele verità veniva meno ogni piccola invidia, ogni sofisma; e le stesse ragioni logiche, che si vantavano poco fa d'aver preveduto il male, si vergognavano ora d'essere state così buone sibille.

Cresti non aveva desiderato quel male, e ora il suo cuore buono e generoso temeva soltanto di non aver la forza di rammaricarsene abbastanza; ma aveva fatto troppi passi sulla via della gelosia e del disprezzo, perchè nella sua squisita delicatezza morale non avesse a provare un brivido di rimorso. Il godere del male altrui è già per sè una specie di complicità. Così amaro è il sapore di certe ragioni, quando ritornano in gola nei momenti del castigo, che uno si pente di essere stato troppo logico come di uno scongiuro fatto al destino. Forse questo spiega come il volgo attribuisca all'astrologo una responsabilità nei mali ch'egli ha il torto di prevedere e come la sapienza che si vanta d'aver sempre ragione sia tanto odiata nel mondo.

Riavutosi dal primo colpo, però colla testa ancora intronata, prese a salire col passo rotto e pesante la strada del Pioppino, che mai gli si era presentata così ripida.

O povera gente!—andava rimpiangendo impaurito all'idea dello spavento che doveva recare a Massimo, a donna Vincenzina e a quelle povere signore del Castelletto.

—O povero figliuolo!—soggiungeva, correndo col pensiero a immaginare Ezio buttato là su un letto, colla testa in sangue, forse agonizzante, forse già morto.—O noi imbecilli!—finì col dire nel suo amaro disgusto, vedendo con quanta facilità gli uomini buttino via la felicità che la natura mette loro davanti, la giovinezza, la salute, la pace, la ricchezza, l'amore, l'amicizia, l'aria, il sole, per correre dietro alle melensaggini d'una fantasia sbrigliata.

Che mancava a Ezio perchè fosse l'uomo più beato del mondo? non l'ingegno, che fa intendere il valore delle cose, non la salute che dà la forza di goderle, non i denari che pagano le spese: non gli mancavano intorno affetti, amicizie, tenerezze, che son la cornice d'oro, più bella, non di raro, del quadro.

Per poco ch'egli avesse stesa la mano, il mondo era suo; ma nossignori! nessuno vorrà essere quel che natura lo fa, ma il desiderio di quel che non si può avere ucciderà sempre la volontà che non si contenta. Bisognava proprio ch'egli andasse a rompersi il capo per una baronessa di princisbecco, per un ex cantante di provincia, per una donna d'altri, nè fresca, nè rugiadosa, anzi discretamente sciupata, e scioccherella. E pazienza si fosse trattato di amore, di quell'amore che non lascia tempo a riflettere; ma tutti sappiamo di che cosa son fatti questi pasticci che il mondo chiama amori di contrabbando e che i romanzieri, che non li assaggiano, amano spacciare coi colori più falsi della loro immaginazione. Per un grano di simpatia son due grani di concupiscenza diluita in un secchio d'acqua sporca di tutte le falsità d'una vita oziosa e senza sapore. Mettici un po' di spirito di avventura, un pizzico d'amor proprio e di gusto del pericolo e bevi tiepido senza sete. L'effetto finale è quasi sempre un tedio infinito, la nausea dell'amore, quando non è l'odio per la donna, un odio che avvelena per sempre il fondo della vita.

Cresti predicava ancora dentro di sè, soffermandosi di tratto in tratto a prendere forza come se portasse su un sacco di malanni, quando si trovò faccia a faccia con Massimo, che era uscito impaziente per venirgli incontro.

—E così?—chiese paurosamente l'amico.

—E così… ecco—rispose l'altro con una voce cupa, presentandogli il telegramma.

Massimo vide tremare le parole sotto gli occhi e dovette appoggiarsi colla mano al muro per non cadere sulla strada.

—Bisogna partir subito…—balbettò costui, quando potò ricuperare un filo di voce.

—Prima bisogna avvertire donna Vincenzina: non possiamo partire senza di lei.

—Andiamoci insieme—confermò Massimo colla voce strozzata.

—Mentre io entro in casa a dar qualche ordine e a prendere un po' di denaro, tu vai a fissare una barca. Ogni momento è prezioso.

Massimo rimasto solo continuò la discesa, ma ad ogni passo credeva di precipitare in una buca. Non per questo, non per assistere a questi dolori aveva attraversato il mare dopo dodici anni di esilio. Ma non mai come in questo momento aveva sentito che il suo posto era presso quella donna.

* * * * *

Flora dopo una notte dolce e riposata s'era alzata più presto del solito e, lasciando entrar l'aria nella stanza, prese a rileggere il principio d'una lettera che da due giorni stava preparando per Cresti.

Essa gli aveva promesso una risposta nè poteva ormai tardar più senza tener il povero amico sulle spine. La riflessione che la vita non è fatta di sogni, la morte delle antiche illusioni, i consigli della buona Elisa e il desiderio di accontentare la povera mamma avevano finito col farle parere non soltanto ragionevole, ma una vera fortuna per lei l'offerta di un uomo che vantava già tanti titoli di gratitudine e di benevolenza.

Il suo cuore non credeva dunque di mentire, quando diceva a Cresti in frase alla buona:

«Mi pare, mio buon amico, che io le abbia sempre voluto bene: e rispondendo sempre alla sua generosa richiesta, non dovrei che sottolineare questa parola bene, che un nuovo sentimento di gratitudine rende ancora più sacra. Come posso dubitare della mia felicità se io avrò ai fianchi una guida così tenera e così prudente? Io ho troppo vissuto nella nebbia dei vani idealismi, credendo che la vita si potesse fabbricare nelle nuvole: e ho inutilmente sofferto e fatto inutilmente soffrire, mentre la vita è cosa vera, più dolorosa che buona, per cui non bastano sempre le forze del cuore, se non sono confortate dalle ragioni della prudenza. Fidandomi in Lei, mio vecchio amico, sento che io rientro nel vero e mi colloco nella migliore condizione per compiere il mio dovere che ho forse troppo confuso fin qui colla mia volontà».

Rileggendo queste righe, che contenevano una felice argomentazione, la fanciulla vedeva quasi dissiparsi l'ultima nebbia d'un dubbio che la tratteneva dal credere troppo alla sua sincerità.

Non chiedeva più se amava l'uomo che la cercava in isposa: ma sentiva che il suo dovere era di amarlo e ch'egli meritava d'essere amato. Forse era un sofisma del suo spirito, che credeva di risolvere un problema coprendolo con un altro; ma in quest'abbaglio cascano incoscientemente anche i logici più consumati senz'aver le ragioni secondarie che potevano scusare la nostra Flora.

Questa, se paragonava quel che era stata finora a quel che poteva diventare sposando Cresti, la sua stanzuccia dai mattoni screpolati, alla bella villetta che dalla finestra vedeva biancheggiare nell'ombra fredda dell'altra riva: se ricordava i giorni delle lunghe tristezze invernali, quando il gran freddo che scrolla le finestre par che insulti alla poca legna che langue nel caminetto, doveva riconoscere che l'offerta di Cresti scendeva sopra di lei come una benedizione.

Un senso di quiete e il presentimento di una consolazione non priva di orgoglio dilatava il suo cuore. Forse parlava forte, senza che ella sapesse distinguere questa voce dalle altre, anche un risentimento contro un destino troppo avaro e crudele e una certa irritazione di amor proprio offeso, che è sempre nel fondo della tazza in cui precipita un amore che si guasta. Se altri non l'aveva creduta degna d'una grazia, ecco il buon Cresti che la invitava a salire i gradini di un trono… Colla pace dello spirito, col bene compiuto per sè e per gli altri, coll'adempimento di un dovere reso ormai necessario, era la dignità d'una vita signorile, senza della quale non intendeva che vi possa essere una grande elevazione. Non c'è bellezza senza eleganza, non c'è eleganza senza gioia, non c'è gioia senza dominio. Chi è servo dei propri bisogni non può regnare nemmeno sopra di sè stesso.

Ogni donna dovrebbe essere regina, com'è regina la femmina dell'alveare. Ma i tempi snaturati vanno apprestando troppi doveri rudi e logoranti alle mani delicate delle figlie della terra, troppo pesanti responsabilità alle tenere spalle, e disseccando le aiuole, isteriliscono i giardini della vita. Quella malinconica scienza economica che insegna che si può cavare un bastone anche da un cespo di rose, mette a usura anche le tenere grazie femminili per cavarne strumenti di lavoro, e trasforma l'aereo pizzo di Fiandra e di Venezia in un volgare strofinaccio. Questo era lo spavento di Flora tutte le volte che si affacciava alla porta del suo vuoto avvenire o che discuteva con sè stessa il rischio di dover guadagnarsi il pane per sè e per la mamma con un lavoro miseramente mendicato e miseramente eseguito colle dita fredde e stanche. Non soltanto la lettera di risposta a Cresti le parve buona e sincera, ma volle levarsi anche le ombre d'un ultimo rimorso con una serie di interrogazioni, a cui lasciava a lui la responsabilità di rispondere.

Riprese la penna e continuò:—«Sarò io capace di farla felice, amico Cresti, o non sono io una ragazza troppo leggera, svolazzante, rivoluzionaria, intinta un poco di anarchia come i miei capelli?… (Eran le solite facezie del buon amico del Pioppino)…. E non crederà il mondo che io ceda, più alle lusinghe dell'onore che mi fanno, e meno a un santo dovere del cuore?…

* * * * *

A questo punto Flora si alzò in preda a una strana agitazione e corse alla finestra a chiudere le persiane contro il sole che entrava sfolgorante: e in quello stesso punto in un modo che aveva della veemenza squillarono i campanelli della porta di strada. Stando dietro le spie delle persiane, potè vedere, senza essere veduta, il Cresti che s'incontrava con Regina e fermavasi a mostrarle un telegramma e a discorrere con lei in una maniera concitata, mettendo fuori delle piccole parole, che afferrava e stringeva in aria colle mani.

Regina una volta si coprì gli occhi colle mani e corse in casa, mentre il Cresti pareva voler ritornare verso la porta: ma fatti quattro passi, veniva di nuovo verso la casa per ripetere a Elisa d'Avanzo il suo gran discorso serrato, pieno di segni che parevano minaccie. Di lì a poco Regina li raggiunse, precedendo la mamma che aveva un viso slavato, e che alle prime parole del Cresti si lasciò cadere sulla panchina.

—Che è accaduto, o voi?—domandò improvvisamente Flora, buttando all'infuori le due persiane, che suonarono come due colpi di pistola. E tutti trasalirono a quella voce.

—Chi è che sta male? Chi è che è morto?—Vedendo che non sapevano rispondere, scese a volo. Sulla scala s'incontrò nella Nunziata, che ebbe a pronunciare confusamente le parole di Ezio, duello, signora maritata, come le aveva raccolte nella bottega del fornaio.

—Che cosa è stato? un duello? un duello per causa di quella donna? o grave? dov'è? l'hanno ucciso?—

S'erano radunati nello stretto corridoio della scala, all'appoggiatoio della quale Flora stava attaccata per non cadere. Alle troppe domande rispondeva crudelmente l'imbarazzo e il silenzio dei presenti. Fu il Cresti che uscì finalmente a dire:—Nessuno è morto: solamente una ferita leggera…

—Il vostro spavento dice di più: no. Ezio è in pericolo… Datemi quel telegramma che avete ricevuto…

—È inutile: è un duello come se ne danno tanti, o Dio…—ripetè il
Oresti.

—Datemi quel telegramma…—balbettò la fanciulla con tono oppresso e con un tremito delle labbra, che disegnò sulla sua bocca un brutto sorriso.

Il Cresti esitava: ma Flora gli si avventò contro e gridò:—Allora è segno che l'hanno ucciso…

—No, per bacco! ecco qua… è un caso un po' grave… ma, ma…

Flora, tolto di mano a Cresti il dispaccio, corse avidamente cogli occhi sulle parole.

—Voi mi condurrete là…

—Dove?

—Là, da lui.

—Questo poi no—oppose con burbera energia il Cresti.

—Oh, oh… perchè no?—chiese essa con voce alterata, in cui suonava un non so che di aggressivo.—Chi è che non vuole?

—Io… noi tutti… credo…—rispose l'amico, cercando umilmente l'adesione delle donne. Dove c'è sangue, non o il posto delle ragazze.

—Certamente—approvò la mamma.

—E chi me lo impedirà se io ci voglio andare?—strillò con una mossa tragica di tutta la persona, minacciando coll'occhio corrucciato e con una mano chiusa il povero Cresti, che stava lì umilmente sicuro del suo pensiero.

—Noi tutti, perchè vogliamo bene a tutti e due.

—Io non sono più malata.

—Ma egli ha bisogno di pace.

—Ma egli mi chiama… Oh Dio… non sentite che egli mi chiama?—E come se veramente sentisse una voce venir da lontano, allibì, stralunò gli occhi, si agitò con una mossa bizzarra e sconnessa, tanto che Regina ed Elisa se la presero in mezzo per impedire che fuggisse di casa.

—Andrò senza di voi, prima di voi, cattive, lasciatemi andare… Non sentite? oh Dio… è proprio la sua voce…—Andava ripetendo, mentre con risoluta energia le due amiche la tenevano ferma. Il Cresti si consultò rapidamente colla mamma e credendo far opera di legittima autorità, con voce grave e paterna:—Oh andiamo, Flora, queste sono sciocchezze—le disse.—Non è a questo modo che si parla colla mamma…

—Sono nel mio diritto—protestò la fanciulla delirante.

—Qui non è questione di diritto, ma di obbedienza, di carità e di buon senso…

—Taccia lei che non c'entra…—fu l'aspra risposta della fanciulla, che un brutto assalto di nervi buttò come irrigidita sugli ultimi gradini della scala. Alle parole succedette un rantolo, quasi un gorgoglìo della voce morente; poi nulla. Il corpo come roba morta fu portato e disteso sul vecchio canapè.

Il povero Cresti come un uomo fulminato, stette un istante senza capire: poi al primo risveglio di lei, come se sentisse il bruciore di un'atroce ferita, se ne fuggì, attraversò il giardino, che gli parve diventato tutto nero e se ne tornò a Villa Serena, dove sapeva d'essere aspettato, senza vedere nè la strada, nè le case nè la gente, che lo guardava con pietosa curiosità.

La voce del grave duello era già corsa nei paeselli di Mezzegra e di Porlezza, dove Ezio e le sue prodezze erano abbastanza conosciute. La buona gente, che al di fuori dei propri bisogni non comprende troppe cose, ne discorreva sugli usci come d'un caso incredibile, non necessario, che non si osa credere. Ma come avviene delle notizie che corrono, davano già per certo che il giovane fosse stato ammazzato dal marito con tre colpi di pistola in una camera presso la pasticceria di Cadenabbia. Si voleva da alcuni che il feroce marito avesse uccisa anche la donna.

All'oscura emozione che lo acciecava il povero nostro amico oltraggiato seppe opporre un volere violento, e un impeto di tanta collera e di tanto orgoglio che vinse ogni altro pensiero e potè essere di conforto agli amici.

XVII.

Un triste viaggio.

Portato dal soffio di questo suo grosso affanno si trovò senz'accorgersi a Villa Serena, dove incontrò donna Vincenzina in giardino con Massimo, mentre i barcaiuoli preparavano la gondola. La vecchia Bernarda, il giardiniere, i servitori atterriti, immobili sui gradini della casa, non avevano voce per augurare un buon viaggio qualunque a quella povera gente. Una grande ombra pesava sul verde e sulla casa, che parevan fatti per le gioie perpetue della vita.

Il viaggio fu rapido, triste, senza parole. La ferrovia di Menaggio li condusse prima a Porlezza, scavalcando il monte, e di là s'imbarcarono sul battello per Lugano. Il lago era quel dì d'un azzurro verde senza una ruga; e scendeva dai dossi delle montagne, che lo serrano come una pietra preziosa, il soffio caldo e alacre delle ore calde che asciugano i prati.

Ma nè donna Vincenzina aveva occhi per vedere, nè Massimo aveva parole per distrarla. In quanto a Cresti era come un uomo schiacciato tra due dolori, il suo e quello degli amici.

Egli si era illuso che Ezio potesse essere morto nel cuore di Flora: ma era invece a credere che il colpo di pistola del barone lo avesse fatto improvvisamente risuscitare. Ma se era male augurar male, non era bene nemmeno pensar troppo a sè in un momento in cui la vita d'un povero ragazzo pendeva attaccata a un filo sopra un abisso.

Massimo, che nelle forti trepidazioni perdeva di vista i contorni delle cose, durante il mesto viaggio non fece che asciugarsi la testa sudata e cercare la mano di donna Vincenzina per stringergliela e per farle sentire che doveva contare fino ai più estremi casi sulla pietà, sull'aiuto, e sulla devozione d'un vecchio amico.

Essa era pallidissima, quantunque il caldo le accendesse un poco le sporgenze del viso. Gli occhi grandi e sereni tratto tratto si riempivano di lagrime, che essa raccoglieva nel finissimo fazzoletto dolcemente profumato. Nel gran cappello di paglia a tesa floscia e cascante il suo volto di fanciulla buona e obbediente si rimpiccioliva con vantaggio, talchè Massimo avrebbe potuto in certi istanti non ricordarsi più che eran passati dodici anni dal giorno che il Ministro della guerra l'aveva improvvisamente richiamato sotto le armi: ma se pur ne sentiva il misterioso fascino, non osava goderne in sì triste momento. Nel sentirsi a lei così vicino e così utile, il suo cuore riposava in una compiacenza tutta paterna, che sarebbe scomparsa se avesse potuto definirla.

Allo sbarco del battello trovarono il Bersi, che stava ad aspettarli con ansietà.

—Dunque?—chiese affannosamente donna Vincenzina per la prima, andandogli incontro.

—Coraggio, non c'è più pericolo…—esclamò con un respiro di sollievo il Bersi.

E i nuovi arrivati trassero anche loro quel fiato, che da tre ore pesava loro sul cuore. Massimo cercò un'altra volta la mano di donna Vincenzina, mormorando:—C'è una provvidenza.

—È salvo? sarebbe stato troppo orribile ve'…—pronunciò con brusca franchezza il Cresti, lieto di sentir anche il suo cuore libero e contento. E come se si sentisse salvo anche lui dopo un passo scabroso, da questo momento fu il più agile e il più ciarliero.

—Non c'è pericolo, ma intendiamoci, il caso è sempre grave—continuò il Bersi, mentre faceva segno a una carrozza a due cavalli di avvicinarsi.

—Dove si va?

—Mezz'ora fuori di città a una villa che potremo tenere a nostra disposizione fin che sarà necessario. Per ora l'infermo non è trasportabile.

—Dove si sono battuti?

—In una villa in vendita.

—Lo avete fatto una bella réclame—conchiuse il Cresti, che sentiva arrivata l'ora di agitar l'aria e di far coraggio anche a Massimo, che pareva asfissiato.

—In mezzo alla sua disgrazia, Ezio ebbe la fortuna che fosse da ieri arrivato all'Hôtel Excelsior un famoso chirurgo dell'esercito russo, che gli levò il proiettile senza farlo troppo soffrire.

—Dove fu ferito?—chiese il Cresti, socchiudendo gli occhi quasi per non voler vedere la risposta.

—La palla entrò di qui e s'infossò qui—il Bersi, che la scossa morale faceva parer più vecchio di dieci anni, segnò coll'indice l'osso frontale sopra l'occhio sinistro e col pollice il lobo posteriore.

—Madonna, Madonna!—pianse donna Vincenzina, premendo le dita delle mani sugli occhi.

—Ringraziamo Dio che non sia stato peggio—mormorò Massimo, posando e dimenticando la sua mano pesante sul ginocchio di lei.

—E il barone?—chiese il Cresti.

—Si comportò con perfetta cortesia, nè volle partire, se non quando seppe che l'operazione era riuscita bene.

—E com'è lo spirito del povero ragazzo?

—Buono. Ride, scherza, fuma. Ha sopportato l'operazione con mirabile fortezza.

—Senza cloroformio?

—Il dottore non trovò prudente di servirsene in vista della gran perdita di sangue che aveva già indebolito il soggetto. Ora ha raccomandato un assoluto riposo, un'oscurità perfetta per tutto il tempo che sarà necessario, sian quindici, sian venti giorni: ma grazie al cielo non è più questione che di pazienza. Ezio dovrà forse cangiare un poco di pettinatura.

—Mi persuado sempre più che l'uomo è il meno furbo degli animali—commentò sogghignando il filosofo del Pioppino, mentre la carrozza attaccava al passo la strada dei colli, che si arrampica tra ville e giardini.

—Non far il Catone, vecchio selvatico—protestò il Bersi. Cerca d'innamorarti anche tu seriamente d'una donna, e se sarà necessario, ti batterai anche tu come l'ultimo degli imbecilli.—

La risposta andò a colpire un cuore malato. Cresti crollò un poco il capo, e sentendo d'arrossire, volse la faccia verso lo sfondo sottoposto, in cui andava spiegandosi la bella cittadina nell'arco azzurro del lago.

Poco dopo, la carrozza, svoltando tra i pilastri d'un ricco cancello dalle lande dorate, penetrava nelle dense ombre d'un giardino principesco, per cui si saliva a una villa, che aveva già una storia di avventure galanti, di fallimenti, di suicidi e di duelli.

Rifabbricata cinquant'anni indietro da un negoziante tedesco sulle rovine d'un collegio di monache, era caduta ultimamente nelle mani di un cantante, che vi aveva ospitato più d'una vagabonda bellezza mimico-danzante. Morto il cantante di febbre gialla al Perù, i creditori vi avevano sloggiata l'ultima ninfa, sequestrando casa e mobili in attesa di qualche principe che ne volesse vivificare la leggenda: e intanto l'Hôtel Excelsior se ne serviva come di una dépendance per piccole partite di caccia, per pranzi sociali e offriva le placide ombre ospitali anche a coloro che avessero una briga da comporre con due colpi di pistola o necessità di farsi un occhiello nel ventre. Essendo il duello severamente proibito dalla legge della Confederazione, i danni, se ce n'erano, restavano a carico dei signori avventori.

L'Hôtel, a richiesta, poteva però offrire il medico e i mezzi di trasporto senza aumento sur le prix des consommations.

Il luogo era veramente bello e delizioso. Dal viale principale, che si svolgeva come un nastro largo e lento nella selva, distaccavansi molti sentieruzzi, che or salivano in rampe e scalinate a più alti passi, ora parevano precipitare e nascondersi in vallette folte d'erba, popolate di statue nel fresco mormorìo d'acque cascanti. Il viale metteva a una spianata, dall'alto della quale l'occhio correva libero sulla stesa del lago e sulla scena dei monti davanti a una palazzina, che in un arzigogolato stile gotico-francese, più che la nobiltà d'un edificio spirava l'odore d'un grosso pasticcio di zucchero tostato. Ma se la linea non era bella, il soggiornarvi doveva avere mille incanti per quel poco che si poteva vedere dal lato dove giaceva il ferito.

Il sequestro vi aveva imprigionato non soltanto il grosso dei mobili, ma anche le piccole raffinatezze della ninfa saltellante, che vi aveva passato le ultime estati e che forse sognava di ballarvi le ultime contraddanze della vita.

Al rumore che fecero le ruote sulla sabbia, uscì dalla casa don Andreino Lulli, a cui il trambusto di quella sciagurata spedizione, l'affanno di molte ore di ansia, la paura e le cure prestate al paziente durante la terribile operazione non avevano fatto perdere la contenance.

Per quanto scosso e reso bianco come una candela, quando seppe dai telegrammi del cavalier Cresti che sarebbe venuta anche donna Vincenzina, procurò di andarle davanti con un vestito non troppo voyant: un tutto grigio con cravatta mauve gli parve una mezza condoléance, che doveva esprimere e riassumere abbastanza bene il lieto e il triste della situazione. Colla faccia patita e quasi cerea, rigido e stecchito nel collare alto che gl'incastrava il mento tra due trincetti di moda, strinse la mano di donna Vincenzina tra le sue, tutte ossa e nervi, con due forti scosse, una di compatimento, l'altra d'incoraggiamento.

Quand'ebbe riconosciuto il cavalier Cresti lo pregò di presentarlo al commendatore Bagliani.—Tout va comme sur des roulettes…. non c'è febbre; ma abbiamo un e…eoe di più.—La debolezza dell'erre non stava mica male alla costituzione magra, sottile, allungata e di trasparenza aristocratica di don Andreino Lulli. Se per necessità di professione o per ambizione di popolarità avesse dovuto agitare davanti alla folla i grandi principii della libertà, della rivoluzione, dei diritti popolari e di tutte quelle altre cose di cui l'erre è l'elemento più forte e più articolato, o se, in più modesta condizione avesse dovuto bestemmiare Cristo e i sacramenti per far andare un magro ronzino, certamente quel suo difetto avrebbe potuto nuocere al risultato delle cose: ma per discorrere in una questione di sport e di cravatte non stava male quel non so che di rotto e di strofinato che si strisciava ne' suoi discorsi, inzuccherati di bons mots e di amabilità sempre pronte e rispettose.

Sentendosi quasi obbligato a fare gli onori di casa, don Andreino precedette i nuovi arrivati per un atrio a vetri sino ad un salotto semichiuso pieno di mobili coperti, dove il maggiordomo dell'albergo si mise ai loro ordini. Intanto il giovine conte andava ad annunciare delicatamente al ferito la presenza dei parenti. L'ordine medico era la massima quiete e la più assoluta oscurità: ma una stretta di mano e una carezza da parte de' suoi non avrebbero potuto che fargli bene, povero figliuolo.

Tornò a riprendere gli ospiti, e passando leggermente per la gran sala del biliardo, non rischiarata che dalla luce della porta, entrarono in una stanza d'angolo posta verso il lato più fresco, dove Ezio giaceva in una grande oscurità col capo fasciato da un grosso turbante insanguinato.

—O cari, cari…—pronunciò con voce molle e ridente l'infermo, allungando le braccia fuori dal letto.

—Sai gli ordini—disse don Andreino assumendo quel tono alto e imperativo che usava nel comandare un cotillon.—Sai gli ordini: silenzio e immobilità. Noi siamo qui tutti per te nulla ti può mancare, ma il dottore ha parlato chiaro: «attenti all'emorragia.» Dunque, se ci vuoi bene, obbedienza, coraggio e rassegnazione.

Che bagolon!—disse sottovoce Ezio con quello spirito caustico che era quasi l'aroma del suo carattere.—Non vedo nessuno ma vi sento.—Stese la mano a donna Vincenzina, dicendo:—Grazie, grazie!—E riconosciuto alla voce lo zio, gli disse:—Crepi l'astrologo!—E quando gli dissero che c'era anche Cresti, gli domandò:—Come vanno i conigli?—

Don Andreino, fedele alla consegna ricevuta, volle che uscissero presto presto dalla camera, di cui socchiuse anche la porta e pose in sentinella una vecchia donna che aveva assunta come infermiera.

Ripreso il discorso col maggiordomo, si accordarono intorno ai modi di rimanere alla villa, finchè il malato fosse in grado di ritornare a casa; e fu stabilito che donna Vincenzina e Massimo avrebbero occupato il quartierino a terreno nell'angolo verso il boschetto delle magnolie, don Andreino avrebbe piantato un letto da campo nella sala del biliardo per esser pronto alle chiamate dell'infermo: per la cucina, l'albergo avrebbe provveduto nel miglior modo e col minore disturbo dei signori.

Meno necessario risultò il Cresti, che accettò volentieri di tornar subito lo stesso giorno a portar le notizie al Castelletto dov'erano rimaste altre anime in pene. E con il Cresti partì anche il Bersi, che da parecchi giorni non vedeva la sposina. Mentre scendevano insieme a piedi per il viale ombroso, commentando il doloroso accidente, il Bersi condusse il compagno a visitare il campo della battaglia dove aveva avuto luogo lo scontro, un praticello segregato da due parti dall'alto muro di cinta, che vi faceva angolo, da un terzo lato dal fianco roccioso del colle e chiuso sul davanti da una fitta siepe di agrifoglio. Il vecchio negoziante tedesco vi aveva avuto il suo giuoco dei birilli; ma l'erba era cresciuta sul terreno, l'ombra era diventata più fitta in mezzo ai grandi alberi.

—Ecco, si sono battuti qui, stamattina, alle sei—disse il Bersi, precedendo il Cresti nel chiuso campicello.—Si era fatto di tutto, da parte di noi padrini per veder di ridurre lo scontro ai minimi termini, o, se era possibile di appianare la vertenza con quattro righe di verbale, ma pare che Ezio non si sentisse di fare certe dichiarazioni e una volta esclusa l'arme da taglio, perchè il barone non vede più in là del suo naso, non restava che la pistola: due colpi in aria alla americana colle novantanove probabilità che lo spavento fosse tutto degli uccelli.

Il barone, che non è un guerriero romano, avrebbe accettata volentieri una soluzione diplomatica, purchè fosse salva la sua dignità maritale: e nemmeno Ezio una gran voglia di ammazzare e di farsi ammazzare non se la sentiva. Nè l'uno nè l'altro portarono il cuore sul terreno. Si può battersi e anche morire per una donna, ma non per la tenera figlia del sor Paoleto, un'ideale che pesa a occhio e croce una settantina di chilogrammi: ma queste ragioni non si possono dire al colto pubblico e non si possono scrivere in un verbale. Per quanto il barone consideri sua moglie come un mobile decorativo della sua casa, per quanto gli affari della Italo-Elvetica siano per avviarsi bene e abbiano bisogno di tutta l'attività del suo cattivo stomaco, tuttavia non poteva dimenticare che nel banchiere c'è anche il marito; che l'offesa era stata pubblica, che la gente ne parla, che non si può per il credito stesso della ditta, lasciar credere ai clienti che si speculi sulle acquiescenze: e quindi bisognava battersi…. ma è così facile battersi, per modo di dire… Se non che, quei due suoi padrini, quel tedesco e quel napoletano, presero la cosa troppo sul serio e vennero sul terreno come se andassero ad una messa cantata.

Col codice dell'Angelini alla mano e in nome della correttezza cavalleresca questi due ostinati don Chisciotti della Mancia contrastarono tutti gli sforzi, con cui io e Lolò, cercammo di alleggerire le condizioni dello scontro. Più cocciuto fu il napoletano, che messo in suggezione dal compagno svizzero, trattò la cosa come se fosse in giuoco l'onore stesso della patria e come se quei quattro inglesi che pigliano il fresco a Cadenabbia rappresentassero l'Europa.

Per poco non mi accapigliavo con questo ignorante ostinato che faceva piovere le sue massime dall'alto, come se per ammazzarsi sia necessario ricorrere alla metafisica: e allora si avrebbero avute due teste rotte invece di una sola. Ezio fu calmo, sorridente per quanto avesse un po' di febbre addosso. Il barone fu un po' ridicolo con quel suo fare impacciato, con quegli occhi bigi che non distinguevano la pistola dal suo astuccio. Domandò il permesso di tenersi il panciotto, con la scusa che l'aria gli porta i reumi: e, sul panciotto sì, sul panciotto no, s'intavolò tra Lulli e il napoletano una quistione accademica, in cui credo sia stato citato anche Omero e Senofonte. Poi ci fu un'altra piccola bega anche per gli occhialetti, se si potevano permettere; ma finalmente, contati i passi…. Ma anche qui nacque una contestazione. Le gambe del commendator Zuccani sono più lunghe delle mie, la bellezza di dieci centimetri: e Lulli ha un passetto che è la metà del mio. Chi doveva contare i passi? capisci che nove o dieci centimetri di più o di meno per passo, sopra un percorso di trenta o di quaranta metri, fanno una differenza molto sensibile, specialmente quando uno dei combattenti è miope di primo grado.

Dopo un gran misurare di gambe, finalmente trovammo una gamba media nel buon svizzero di Zurigo, che cercò di abbondare nella misura col suo bel passo di scavalca montagne. Come vedi, il luogo non poteva essere più adatto. Non pare la valletta descritta dal Tasso nel famoso duello di Argante e Tancredi? Il barone, che dovette proprio levarsi il panciotto e che perdeva bretelle da ogni parte, prima di prender posto votò il fondo della sua bottiglia di Wichy; quindi i due avversari sorteggiarono ciascuno una pistola carica, e si lasciarono collocare ai relativi posti, voltandosi le spalle. Il povero barone era livido come un panereccio, ma a forza di ostinazione morale si sostenne bene. Ezio sogghignava… Io contai a voce alta uno, due… al tre si voltarono, spararono immediatamente senza mirare. La palla di Ezio andò a conficcarsi qui nel tronco di questo faggio due spanne sopra la testa del barone: quella del miope dalle bretelle cascanti si fermò nella testa di Ezio, che senza gettare un grido venne a cader correndo nel mezzo del prato.—

Il Bersi si arrestò un istante per indicare all'amico il luogo preciso:—Uno spruzzo sottile di sangue si sparse sul verde dell'erba, che abbiamo fatto segar subito per non lasciar noie agli azionisti dell'albergo. Convien dire però che le cose furono condotte con molta prudenza, perchè non si è visto nè un gendarme nè un ispettore federale.

Il barone potè partire senza seccature, lasciando i suoi biglietti da visita: a me nessuno domandò nulla: un vero ideale di paese libero.—

Il Cresti, dopo aver sogghignato un pezzetto e riassunte le sue osservazioni con una nervosa contorsione di spalle uscì a dire come morale della favola:—Poco fa, ho detto, che l'uomo è il meno furbo degli animali: ho sbagliato. Dovevo dire, la più bestia.—

XVIII.

Pentimento.

Il Cresti arrivava al Castelletto ch'era già notte fatta. Di mano in mano che si avvicinava alla casa delle Polony andava crescendo in lui il dolore della ferita, che durante il giorno e le scosse della battaglia pareva assopito.

Era partito, anzi fuggito, davanti a una ruvida domanda:—Che c'entra lei?—e ritornava col puntiglio di dimostrare che intendeva non entrarci per nulla, nè per il passato nè per l'avvenire, nè per debiti nè per crediti, e di lasciare a ciascuno la sua libertà di dire e di fare quel che credeva suo diritto. Era un gran colpo per un uomo che si era pasciuto di così lunghe speranze: ma è inutile far conto sopra le nespole che non vogliono maturare nemmeno sulla paglia: c'è da far stridere i denti e null'altro.

Stava per mettere la mano sul martello della porta, quando si sentì stringere il braccio. Era Flora, che, seduta nell'oscurità, aspettava da tre ore che da Lugano arrivasse qualche notizia. Riconobbe subito il passo dell'amico e infilando il braccio nel suo, lo accompagnò in casa.

—E così?

—Tutto bene: niente di grave: umore allegro, ma un assoluto bisogno di quiete e di silenzio.—

Vennero incontro le altre donne col lume e tutte si rallegrarono delle buone notizie. Flora, un po' più pallida del solito, si mostrò tuttavia perfettamente tranquilla, guarita e persuasa. Pregò Cresti di sedere, di riposare, di prendere qualche cosa, almeno un caffè: ma il signor cavaliere col pretesto che le sue donne l'aspettavano a casa, Dio sa con quanta ansietà, chiese subito licenza e senza accettare nemmeno un bicchier d'acqua, si ritirò da una casa in cui non aveva, a parer suo, più alcun diritto di entrare.

Non era una vendetta, ma una legittima difesa. Promise di mandare altre notizie di mano in mano che arrivassero, e augurando la buona notte a tutti, senza guardare in viso a nessuno, ritrovò al buio la strada del Pioppino, e rientrò nella sua solitudine, dopo una lunga e perfida giornata, come un capitano, che dopo una tremenda disfatta, pianta le tende in qualche luogo sicuro. La stanchezza fisica gli procacciò subito un tal sonno che potè dormire tutta la notte.

Dormiva ancora, quando l'Angiolina gli portò il caffè in camera la mattina verso le sette.

Insieme al caffè sul vassoio c'era una lettera che un ragazzo aveva portato poco prima… una lettera di Flora.

Ne riconobbe subito la scrittura larga ed energica sulla busta di carta verde: ma non osò aprirla subito.

Dopo che ebbe lentamente sorseggiato il suo caffè amaro, alzando la voce come se parlasse a qualcuno un po' sordo, disse:—Eccomi a lei, signorina. Immagino quel che mi deve dire.—

Immaginava: ma le sue mani secche ed abbrustolite dal sole tremavano tanto nel toccar la lettera, che dovette aspettare che passasse anche questa morbosità. Passò lentamente: tornò la ragione e poichè quando un dente fa male, è meglio strapparlo se non c'è altro rimedio, con una curiosità coraggiosa corse cogli occhi sulla lettera e vide…. ch'erano due, l'una nell'altra: e quest'altra non era finita, ossia finiva con dei punti sospensivi come se fosse stata bruscamente interrotta.

Nella letterina accompagnatoria la contessina Polony diceva:

«Caro Cresti, mi dicono che stamattina io ho pronunciato parole dure e scortesi contro il migliore de' miei amici: e devo pur credere, perchè non posso dubitare de' testimoni. Ma io non ho coscienza di nulla, glielo giuro, mio buon amico. Quando mi hanno richiamata ai sensi, tornai in me stessa come chi si sveglia da un sogno grave e fastidioso, di cui conserva l'impressione e lo spavento, ma non ricorda più i particolari. Flora, sveglia nella sua coscienza, non avrebbe mai osato dire una parola cattiva al suo buon Cresti, all'amico di casa, al benefattore, proprio in un momento in cui stava scrivendo la lettera che chiudo in questa. Non è tutta la risposta che le dovevo e non trovo opportuno questo momento per darla: forse nemmeno lei la vorrebbe da me in queste condizioni: ma glie la mando come un documento per dimostrarle, mio tenero amico, che se una parola cattiva è uscita da questa bocca, non è Flora che l'ha detta, ma una febbre o una suggestione misteriosa, che mi tolse ogni responsabilità. Non saprei spiegar tutto adesso; ma certamente io ho attraversata un'ora pericolosa della mia vita, come la Sonnambula del dramma, che a fosco cielo e a notte bruna, scende per il ponticello del molino.

«Amico, benefattore mio, cancelli quell'ora dalla sua memoria e mi renda tutta intera la sua cara amicizia. Se mi abbandonano i migliori, che potrò fare sola nel mondo, forse in balìa di cattivi spiriti? Ora mi par di star bene. Il cuore è tranquillo e non desidera che pace. Gliela offro e gliela chiedo con umiltà; abbia compassione di questa povera rivoluzionaria».

* * * * *

Cresti lesse due volte questa lettera: rilesse tre volte l'altra: le mescolò per leggerle insieme, commentò l'una coll'altra, traendo da tutte due la convinzione che Flora era sincera, che il passato non era tutto morto in lei, ma che non aveva più ragione di vivere, che bisognava veramente aver compassione di lei, volerle bene, aiutarla, aspettare che il frutto maturasse da sè. Nè Ezio, in qualunque modo la brutta storia andasse a finire, poteva risorgere per Flora, nè questa nel suo orgoglio poteva rassegnarsi a raccogliere le briciole di una scandalosa cronaca. Se il giovinotto usciva dell'avventura colla testa accomodata, più di prima l'avrebbe legato a quella donna un sentimento di solidarietà, che è quasi sempre castigo degli amanti. Messa alla porta dal marito, non restava ad Ersilia Baracchi altro rifugio che la fedeltà dell'amico che l'aveva compromessa. Per quanto ingenua e inesperta delle cose della vita, Flora aveva troppo ingegno, per non sentire, a cuore riposato, la forza di questa ragione ed era naturale che il buon Cresti, il povero Cresti, il vecchio ortolano del Pioppino, con tutti i suoi difetti, con tutte le sue stravaganze dovesse parere un miracolo di rettitudine in confronto di questi grossi fallimenti e di queste avarie morali. C'era dunque a sperare che il senso logico la vincesse sopra le irragionevolezze della fantasia, cioè che Flora in compenso di quella pace che invocava con tanta umiltà, avesse a offrire forse con orgoglio il suo amore.

L'uomo dubbioso e timoroso stette a lungo nel tepore delle coltri a contemplare e a covare il suo sogno, procurando di sceverare quel che di più sincero poteva essere nel sentimento di Flora da quel che vi poteva introdurre il dispetto, l'interesse, la necessità, la debolezza della donna; e finì col concludere che il mondo è di chi se lo conquista: che invalido capitano è colui, che potendo occupare una buona posizione mentre il nemico dorme, aspetta che il nemico si svegli: che poichè Flora invocava da lui pace e perdono, sarebbe stata una vana crudeltà rispondere con dei puntigli e con delle musonerie.

Saltò dal letto, e fatta una toeletta sommaria sedette a preparare un bollettino di guerra; ma ebbe un grande arzigogolare colla penna prima di infilare una parola. Provò due o tre fogli con frasi che gli parevano sempre troppo banali per sonar bene nel grandioso proclama che doveva riassumere le speranze, i sospiri, le ansie, i tremiti, le aspirazioni e le vertigini della sua vita. Finalmente decise di pigliar la strada più corta che non è sempre la più faticosa. Levata da una scatola una carta da visita, la completò così:

BENIAMINO CRESTI

avverte la rivoluzionaria che verrà stamattina a far colazione al Castelletto. Al melone ci pensa lui.

* * * * *

Qualche giorno dopo corse la voce che la signorina del Castelletto avrebbe sposato il cavallier Cresti del Pioppino. Le nozze si sarebbero fatte, nulla intervenendo in contrario, ai primi di ottobre, e la luna di miele gli sposi l'avrebbero passata al Ravellino, trasformato in villa Flora.

Per quanto prevista, la notizia piacque a tutti e diede motivo a
Bortolo di dire:—Oh, oh! l'anguilla trovò il pescatore.—

FINE DELLA PARTE PRIMA.

PARTE SECONDA.

I.

I coniugi Hospenthal.

Dopo la brutta scena sulla strada di Cadenabbia, Ersilia aveva dovuto fare di necessita virtù, raccogliere in fretta le sue robe più necessario e farsi portare in una barchetta di nascosto al vicino Tremezzo per prendere il battello di mezzodì senza dar conti a nessuno. Suo padre che l'accompagnava non cessava di ripetere:—Te l'avea dito, benedeta!

Gli ordini del barone erano stati precisi, perentori. Non cercassero di commoverlo, badassero a non comparigli davanti, perchè sentiva una gran voglia di schiaffeggiarli tutti e due: andassero a Milano in attesa di ordini ulteriori. Egli avrebbe fatto in modo che non avessero a morir di fame, ma non calcolassero più oltre sulla sua dabbenaggine e sulla sua misericordia. Ogni pazienza ha un fine.

Convenne obbedire nella speranza che la tempesta passasse a poco a poco anche questa volta, come erano passata molte altre.

Il barone non era stoffa da tiranno, ma vedendosi così oltraggiosamente tradito, il suo primo movimento fu quello d'un uomo semplice e primitivo, quasi direi d'un animale offeso che risponde coll'impeto naturale dell'istinto e della gelosia. Sotto la prima eccitazione egli s'era lasciato trascinare a una provocazione, a un gesto, che forse oltrepassarono le sue intenzioni; e ciò rese più gravi le circostanze e portò alle armi. Ma ultimo e languido discendente d'una antica stirpe di banchieri e di uomini d'affari, che avevano sempre coltivate le sedentarie arti della speculazione pratica e positiva, Samuele Hospenthal non era uomo nato per far l'Orlando furioso. Troppo forte parlava in lui il senso logico delle cose, che tra mille ragioni sa sciegliere la più solida, cioè quella che contiene tutte le altre: e troppo bene vedeva quel che sia la commedia umana per desiderare l'onore di ammazzare e molto meno quello più discutibile di farsi ammazzare in un mondo in cui la vita è tutto e la morte un cattivo affare. Ma una volta in ballo, ben doveva ballare; un duello non rimedia, ma placa; non giustifica, ma soddisfa: non restituisce l'onore, ma rinforza l'orgoglio: non fa un eroe, ma impedisce che un uomo si avvilisca del tutto.

Anche Ersilia sulle prime non aveva creduto che le cose dovessero andare fino alle estreme conseguenze: e se alle prime ingiunzioni obbedì prontamente e si ritirò sottomessa, non era tanto una paura che avesse di lui e de' suoi furori, quanto un'astuzia per disarmarlo più presto, facendogli sentire l'incomodo della sua solitudine.

Venne a Milano, dove non rimase che il tempo di riempire il baule e dopo aver scritto quattro righe supplichevoli, andò a nascondere la sua umiliazione in una casa di campagna presso Vigevano, dove il barone aveva dei fondi umidi. Il vecchio Baracchi, che in queste circostanze era il Talleyrand della situazione diplomatica, rimase a Milano più stordito che impaurito di questo brusco avvenimento, che sperava potesse finire in un lieto embrassons nous… Ma quando arrivò la notizia che il barone si doveva battere e battersi alla pistola, il sor Paoleto cominciò a capire che questa volta il caso era più serio.

«Battersi?—pensava—un uomo come Sam battersi, e alla pistola? a che scopo? valeva la pena di far colpi in aria per una quistione ch'era meglio mettere a dormire? e non avrebbe potuto l'adirato genero provvedere al suo onore, se proprio ci teneva tanto, con qualche altro ripiego meno drammatico e alla sua età, via, anche meno ridicolo? Un uomo di quarantacinque anni, mezzo invalido, che scende in campo contro un giovinotto di ventiquattro per una quistione di donna, aveva tutta l'aria allampanata di un barone di Monchausen in pantofole, a cui tutti dovessero augurare la mala fortuna, mentre si sarebbe provveduto così bene, se si fosse partiti tutti insieme per un bel viaggetto, per luoghi ignoti, dove non potessero arrivare le ciarle dei quattro gatti, a cui si attribuisce l'onore di rappresentare il mondo. Si era tanto parlato di un viaggio in Svezia, Norvegia e capo Nord che al sor Paoleto pareva un errore imperdonabile, da parte del barone suo genero, di non aver saputo cogliere il momento per sottrarre la povera Ersilia alle tentazioni. Un duello invece, se nove volte su dieci riesce bene, capita la volta che le paga tutte: e se il povero Sam, miope come una formica, si pigliava una palla nello stomaco chi ci guadagnava Dio benedeto? Lui no, perchè non c'è nulla di più stupido come barattare una rendita di cento mila lire con un funerale di prima classe. Non ci guadagnava la povera Ersilia, che restava compromessa per tutta la vita: e molto meno ci guadagnava l'altro bel giovinetto, che probabilmente aveva creduto di scherzare. E poi prima di morire bisognerebbe almeno fare un piccolo testamento: e c'era a temere che il barone in un momento di esaltazione mentale avesse piuttosto distrutte le buone intenzioni del suo cuore per lasciar parlare unicamente i risentimenti dell'uomo oltraggiato».

Queste apprensioni, questi sospetti non potevano lasciar quieto un uomo così tenero della sua prole come il sor Paoleto. Violando la consegna, fece una corsa sul lago per vedere d'impedire una catastrofe: ma il barone era già partito e non si sapeva per dove. Il pensiero della figliuola rimasta a Vigevano, in aria cattiva con tutto il caldo d'agosto, lo richiamò indietro e s'incontrò con lei alla stazione di Milano. Ersilia, coll'aiuto segreto del Bersi, era stata avvertita da un telegramma che si dovevano battere: sperava che suo padre avesse a portare qualche migliore notizia.

—Si devono battere, lo so, ma non so dove… Forse si son già battuti…

—Si ammazzeranno?

Perchè si devono ammazzare, benedeta? i duelli non si fanno mica per ammazzarsi, cara mia. Non è mai morto nessuno di questa malattia. Pim, pum, un po' di polvere negli occhi della gente, l'onore è salvo, e embrasson nous…—

Belle parole, degne di quell'amoroso padre, ma Ersilia ne fu atterrita.

—Si batteranno alla pistola?—L'idea che questi due uomini fossero per uccidersi per colpa sua, la sgomentò siffattamente, che per poco non cadeva in deliquio sui gradini della stazione. Il Bersi nel telegramma aveva taciuto la gravità e le condizioni dello scontro, che suo padre aveva creduto di attenuare con quel suo pim pum…

—O Dio, o Madonna, io muoio…—

Il babbo fu appena in tempo a sostenerla e a ricoverarla in una piccola sala del buffet, dove fece portare subito un'acqua di tutto cedro ben calda e un bicchierino di cognac. Ci volle tutto un fazzoletto di bucato per asciugare le lagrime di un'infelice creatura che si stemperava in un dolore disperato. Ersilia si accusava, si condannava, si accasciava, si scomponeva i capelli colle mani al pensiero che forse uno di quei poveretti fosse già morto per lei. A suo marito essa voleva bene sinceramente, riconosceva volentieri il gran bene che aveva ricevuto da lui: avrebbe voluto dimostrargli che un capriccio d'un'ora non guasta la fedeltà del cuore: avrebbe voluto correre, precipitarsi fra i due combattenti, ricevere essa i due colpi come la moglie del Padrone delle Ferriere…

—Tu mi devi condurre là—proruppe, quando potè porre un freno a' suoi singhiozzi.

—Là, dove? hanno detto che andavano in Svizzera, ma la Svizzera è grande, angiolo mio. E se andassimo a casa dove a quest'ora possono essere arrivate delle notizie? Sam ci deve pur scrivere…—E fatta accostare una vettura di piazza, ordinò al cocchiere di tornare in via del Gesù.

Sulla porta trovarono il fattorino del telegrafo. Ersilia strappò di mano al ragazzo il foglietto giallo, l'aperse con furia nervosa e lesse a voce alta:—Sano e salvo. Bagliani alquanto ferito. Arrivo alle tre.—Il telegramma era diretto al suo segretario, che sentì subito sotto le quattro parole una buona disposizione da parte dell'adirato genero.

—Ho detto io che tutto andava a finire in niente? Pim, pum, un po' di polvere in aria e poi: «Sano e salvo, l'altro alquanto ferito.» Ma sarà cosa da nulla, una scalfittura.—

Ersilia stette un istante col telegramma in mano in un'attonita sospensione, in cui non mancava un senso di contentezza. Poichè il duello doveva avere un esito doloroso per qualcuno, meglio così…—pareva che le dicesse il cuore.

—Dio, Dio, non sapevo che si potesse soffrir tanto a questo mondo!—

Mai forse era stata così sincera come in questa esclamazione. Oscillando sempre incerta nella sua debolezza morale, tra la inconsapevolezza del suo fallo e una tenerezza esaltata per i due poveretti ch'essa aveva scagliato l'un contro l'altro, si martirizzava in un supplizio di accuse e di giustificazioni: si pentiva con un sgomento più di paura che di persuasione: piangeva senza capire essa stessa che significato avessero le sue lagrime. Soffriva insomma davanti a questa dura contrarietà della sua vita come una bambina che dopo essere stata distratta tutto il tempo della scuola si vede costretta dalla mamma severa a ripetere un quesito astruso d'aritmetica, che è sicura di non capire anche se glielo danno risolto. Le idee di bene e di male erano così liquefatte nel suo spirito di bambina maleavvezza che era un pretendere troppo il volere che ella separasse l'un dall'altro o scoprisse qualche verità nel dolore che la faceva soffrire.

Questo solo le risultava, che mai le era parso di voler bene a suo marito come in questo momento. Guai se non le avesse perdonato! non avrebbe potuto resistere nella sua disperazione.

—Egli non immagina che tu sia qui, e sarà bene che per il primo momento ti faccia desiderare, povareta! Se dice che arriva, è perchè ha delle buone intenzioni; e in verità adesso, che è tutto finito bene, sarebbe assurdo mantenere dei rancori, e amareggiare questi pochi anni che abbiamo da stare al mondo. Anche lui non o senza torti, lo sa bene. Quando ti ha sposata, sapeva bene che tu non eri una mammalucca e che potevi essere sua figliuola. La colpa è anche sua se ti lascia esposta. Non puoi sempre vivere di acqua di Wichy, povareta, come vive lui: e poichè tutto è finito con un «alquanto ferito» stiamo allegri e ringraziamo la Provvidenza che non sia avvenuto di peggio. E non pensare a quell'altro, che tra due o tre giorni starà benone. Alla sua età si è come gli scarabei. Puoi tenerli infilzati un mese su uno spillo che non muoiono mica ve'…… Sicuro che non lo devi più vedere: oh sì, sarebbe troppo sfacciato, se osasse comparirti davanti. Tu devi ora tutti i riguardi al povero Sam: gli devi mostrare che gli vuoi bene, che sei pentita sinceramente, fargli qualche carezza, povero figliuolo: e vedrai che ti regalerà qualche cosa. Non gli dico che sei a Milano: tienti nascosta e non uscire se non quando te lo dico io.

Mezz'ora dopo il sor Paoleto riceveva nelle sue braccia l'amato genero, che arrivava da Como, fresco e quasi ringiovanito, come se uscisse allora da una cura ricostituente. Parlava ne' suoi occhi un nuovo piacere, quasi un nuovo coraggio, che se non si sentiva padron di casa, aveva la soddisfazione di chi gode un bell'appartamento, di cui ha pagata regolarmente la pigione. Per la prima volta da che era andato vicino a un pericolo mortale sentiva il piacere della vita, come se avesse ereditato inaspettatamente il diritto e il piacere di vivere. Gli spasimi di tre giorni d'agonia, le scosse date al freddo tronco della sua vita intirizzita, avevano mosso in lui una nuova linfa, che prometteva una fioritura di affetti più naturali e più disinteressati.

Si lasciò abbracciare dal vecchio suocero, si lasciò condurre da lui fino alla vettura, lasciò ch'egli parlasse e si congratulasse: non ritirò la mano ch'egli volle baciare e quando gli parve di aver vinta la grande emozione del primo incontro, domandò con voce, in cui tremava una timida emozione:—Dov'è lei?

—Lei… lei, è a Vigevano. Piange, si dispera e fu lì per morire. Avete esagerato, ecco: ma tutto è bene quel che finisce bene. Hai pranzato, Sam?—

Il barone si accorse di aver fame. Dal momento che i padrini l'avevano condotto via dal campo di battaglia con tutta la sua pelle intatta, sentiva con piacere un'esigenza di nutrizione che da molti anni non parlava più nel flaccido sacco del suo stomaco ipercloridato. L'offerta del suocero lo toccò come un piccante aperitivo.

—Dove mi meni?

—Dobbiamo fermarci al Rebecchino? c'è una cucina sana.

—Mi metto nelle tue mani. Mentre dò una capatina in Borsa, puoi scendere e ordinare una costoletta.

—Con un risottino bianco…—

Quando la carrozza ebbe passata la barriera daziaria, il padre che non si era mai sentito tanto padre come in quel momento, cercò la mano delicata del suo carissimo genero e lasciando cadere due lagrime, che da un pezzo stagnavano nell'angolo degli occhi, provò a supplicare:—E di', Sam, non la vuoi proprio vedere quella poverina? me la vuoi proprio far morire? Se io ti dicessi che vuol bene a te più che a tutti?

—S'è visto…,—brontolò il barone, diluendo l'amarezza della risposta in un sorriso che non potè essere del tutto ironico.

—Anche i santi sentono le tentazioni e si starebbe freschi noi poveri peccatori, se Dio non dimenticasse volentieri i nostri peccati.

—Sai che ti ho proibito di parlarmi di Dio e del tuo clarinetto….
Non son cose che si possono risolvere in una carrozza. Ora vado in
Borsa, poi torno al Rebecchino e ti dirò quello che avrai a fare; ma
non voglio essere seccato.

—Il vino lo preferisci bianco, Sam?—disse il vecchietto, mentre scendeva alla porta dell'albergo.

Mentre la carrozza, continuando la sua corsa, portava il barone al palazzo della Borsa, il sor Paoleto scriveva due righe nell'ufficio dell'albergo e le faceva spedire in via del Gesù. Vedendo il direttore, gli disse:—Il barone Hospenthal verrà qui a pranzo colla sua signora. Vorrei un salottino solo per noi.—

Il nome del barone non era ignoto al Rebecchino e le cose furono combinate in modo da accontentare lo stomaco più schifiltoso. Brodo liscio in principio: costoletta ai ferri con risottino bianco poco cotto: un quarto di dindo lessato e un fritto di pesce persico senza maionnese. In quanto al vino, dopo una breve discussione il sor Paoleto si fermò su un Monte Orobio secco, profumato, un vero tesoro nazionale che se fosse francese, gl'inglesi pagherebbero venti lire la bottiglia.

Ersilia arrivò cinque minuti prima che il barone tornasse dalla Borsa, il tempo necessario perchè il padre diplomatico la mettesse a parte delle cose.

—Gli ho detto che tu non eri a Milano. Se devo giudicare dall'umore, direi che anche questa volta non è mal disposto. Ma vuole delle promesse, è nel suo diritto e tu glie le devi fare solenni e mantenerle poi. È buono, povero Sam; è peccato disgustarlo. Devi anche riflettere che gli anni passano per tutti e due, senza contar me che sono già un fico secco e che, quando tu me l'avessi disgustato per l'ultima volta, si potrebbe andar a sonar la chitarra per le piazze.

Cinque minuti dopo i coniugi Hospenthal erano nelle braccia l'uno dell'altro. Essa avviluppò così improvvisamente il suo Sam nelle sue moine, lo intenerì così bene colle sue lacrime e co' suoi baci, che il furore già non troppo armato del barone si lasciò disarmare del tutto. Egli aveva bisogno di essere soggiogato. Se a quel tesoro di carezze e di tenerezze non osava rinunciare senza patimento prima, quando si sentiva più svogliato e malato, meno sentiva di potervi rinunciare ora che provava il gusto di vivere come non aveva provato mai.

—Bene, bravi: ecco tutto finito….—conchiuse il sor Paoleto.—Non lasciamo venir freddo il brodo.

II.

Nelle tenebre.

La giornata era stata caldissima anche per i prigionieri di Villa Elvetica, che tra ansie e speranze e con una pazienza da santi avevano potuto persuadere Ezio a rimanere a letto tutti gli otto giorni trascorsi dopo il loro arrivo; otto giorni ch'eran parsi otto secoli.

Il giovine, che si sentiva abbruciare nella sua cameruccia, protestava di continuo di non voler più rimanere col capo fasciato nel ghiaccio, al buio come un uccello di muda, tuffato nell'aceto, nel cloroformio, nell'acido fenico; e non ci voleva che l'autorità scientifica del medico e forse un resto di buon senso, ancor vivo nel malato per trattenere il giovine da un atto di follia.

Il caldo portò anche a lui una grande stanchezza e quel giorno aveva dormito a lungo d'un sonno tranquillo; talchè Massimo persuase don Andreino a prendere mezza giornata di svago e a scendere in città.

Il povero Lolò era stato per l'amico, il più devoto e il più paziente degli infermieri. Una suora di carità non avrebbe potuto sacrificarsi di più. Di notte dormiva presso la soglia in un lettuccio, pronto ad ogni chiamata: di giorno, tranne l'ora dei pasti e della toeletta, non si allontanava mai dall'infermo. Libero del suo tempo, don Andreino era persuaso che non avrebbe potuto impiegarlo meglio che in quest'opera doverosa di carità e di amicizia: ma era un mistero anche per lui dove attingesse la forza fisica per resistere agli strapazzi e alle inquietudini del più insofferente degli infermi.

Quel giorno, una domenica, accettò volentieri il suo congedo e scese in città in un perfetto vestito tutto bianco, che era in piena armonia coi trentadue gradi di caldo che infocavano le strade e le case.

Massimo e Vincenzina rimasero soli a pranzo. Questo fu servito in un salottino che dava sulla vista del lago e rimasti soli, dopo il caffè, i due vecchi innamorati si trovarono immersi nelle vecchie memorie prima che avessero il tempo di guardarsene: e discorrendo, i loro spiriti continuavano ad avvicinarsi con quel senso di curiosa trepidazione con cui si ripassa da un luogo ove si è corso un mortale pericolo.

—Forse facciamo male a rimescolare queste foglie secche, Vincenzina: ma c'è un punto enigmatico in questo nostro passato che non so ancora a quale dei due abbia fatto più torto.

—Dite quale.

—Perchè non avete resistito di più a vostro padre il giorno che vi obbligò a rompere la vostra fede? perchè non mi avete scritto che volevano far violenza al vostro cuore? Sarei accorso, vi avrei aiutato in qualche modo. Forse non avreste sposato un uomo ricco….

—Cattivo!—interruppe essa, guardandolo con aria di rimprovero.—Perchè dite queste cose?

—Perchè ora le possiamo dire senza soffrire, come si raccontano le storie dell'Antico Testamento. Io non avrei potuto offrirvi una grande protezione, ma si sarebbe combattuto insieme.

—Questo non era possibile.

—Ecco quel che mi ha fatto più soffrire. Voi non avete avuto abbastanza fede in me.

—No, Massimo; tra me e voi… ma perchè volete farmi parlare? che giova risuscitare queste cose morte? io non ho potuto non sposare vostro fratello, ecco tutto: così ha voluto mio padre.

—Vostro padre avrà avuto dei torti, ma non fu mai un tiranno. Amabile egoista, questo sì, ma non tiranno.

—Amabile egoista—avete trovata la giusta definizione; ma egli ha sbagliato e io ho pagato, ecco tutto. Perchè volete farmi parlare di più?

—Perchè vorrei persuadere me stesso che non sono stato troppo vile e che non ho meritato il mio castigo.

—Chi fu più castigato di noi due, Massimo?—chiese donna Vincenzina, sollevando i suoi grandi occhi umidi.

Egli pure respingendo una leggera onda di tristezza, che minacciava di travolgerlo:—Sta bene—disse—siamo stati castigati entrambi: ma perchè mantenere fra noi due un mistero? non sarebbe più bello che i nostri cuori si vedessero innocenti anche a traverso alla nostra sventura? perchè volete ch'io dubiti fino alla morte ora di me, ora di voi? Se i morti hanno avuto dei torti, a noi non manca ora la pazienza di perdonarli.

Donna Vincenzina esitò ancora un istante come se finisse di consultare il suo cuore: poi riprese:

—Ci son delle ragioni sacre che comandano il silenzio…—

—Se credete che io non meriti ancora la vostra confidenza…—

Ma essa lo interruppe di nuovo per dirgli:—Devo accusare il mio povero babbo, capite? Che valore avrebbe il mio sacrificio se io lo facessi scontare a un povero morto a prezzo di vergogna? Se ho creduto utile di tacere, quando ero più giovine, quando ero bella, quando avevo qualche diritto di ribellarmi al mio destino, come potrei ora pentirmi del bene che ho fatto, senza commettere quasi un delitto? Ma voi oggi non siete più semplicemente un amico di casa; troppo ho bisogno della vostra assistenza e della vostra stima perchè non abbia a considerarvi quasi come un mio fratello, a cui posso e devo consegnare le carte più preziose e i segreti più gelosi della mia vita. Se voi dovete far da padre a Ezio, se i nostri rapporti devono continuare nell'avvenire, è bene che non vi siano diffidenze, sospetti, recriminazioni tra noi. Solamente a questo patto credo di poter rompere un segreto che doveva morire con me. Mi sarete poi grato di questo sacrificio che vi faccio? e promettete che morirà con voi la confidenza che dopo dodici anni mi tolgo per la prima volta dal cuore? e che non me ne parlerete più? e che sarete più buono e più savio con me? Quel che io sto per dire a voi, non è conosciuto nemmeno da mia sorella, che ha creduto ad altre apparenze.

—E allora, mia cara…—disse il vecchio amico come se volesse rinunciare a questo privilegio; ma o egli non ebbe abbastanza prontezza per resistere alla sua curiosità o essa non ebbe abbastanza forza per respingere il suo bisogno di parlare.

—Voi vi ricordate, Massimo, che nostro padre era impiegato alla Tesoreria provinciale, in un posto di fiducia—riprese a dire frettolosamente senza mai levare gli occhi da terra.—Quando cominciò a sentire le strettezze del vivere, non volendo nella sua bontà, che alle sue figliuole avesse a mancare nulla, bisognoso egli stesso di vivere bene, troppo incosciente dei pericoli e delle responsabilità a cui andava incontro, il pover'uomo ebbe in più riprese ad abusare della fiducia de' suoi superiori: e una volta non potè rifondere una riserva di cassa. Fu una volta sola per una somma non troppo grande: ma fu scoperto. Egli aveva anche dei nemici: immaginate. Era il disonore, la rovina, un processo, la prigionia. Il suo capo l'aveva già denunciato al procuratore del Re, che era allora vostro fratello, Camillo Bagliani, e fu sotto il terrore di questa minaccia che il povero babbo…. Dio, che giorni!… mi prese in disparte e fece a me sola, la sua cara Vincenzina, la confessione del suo peccato. Piangendo, strappandosi i capelli, mi pregò di aiutarlo, di salvarlo… Come potevo fare?—Donna Vincenzina si arrestò un momento: poi seguitò, cercando di uscir più presto dalle spine di quel racconto:—Gli proposi di andar insieme dal procuratore del Re. Mi gettai a' suoi piedi e lo pregai con tutte le mie lagrime; anche in nome vostro, Massimo, di non far male al mio povero papà. L'austero magistrato parve commosso e promise che avrebbe fatto in modo che il deposito di riserva fosse immediatamente restituito per rendere regolare il rendiconto mensile: e anticipò del suo la somma. Non mancava che di arrestare l'istruttoria del processo: e anche in questo giovò l'opera di un uomo così autorevole. Una sera venne egli stesso in casa nostra a promettere il suo valido appoggio, ma poi… (qui la voce di Vincenzina tremò) pose una condizione ch'io non ho potuto rifiutare. Ecco perchè ho sposato vostro fratello. Era il minor male che potessi fare in quel momento…—

Con voce umile e fredda troncò quasi improvvisamente una confessione, che stentatamente aveva dovuto cavare dal cuore, sulla quale era corsa colle parole come se volesse abbreviare a sè e a chi l'ascoltava un inutile martirio. Con un sorriso d'indulgenza stese la mano a Massimo, che rimase inerte come un uomo che sia stato mortalmente ferito in qualche parte del corpo e resta un istante in piedi in attesa che la morte lo faccia stramazzare.

Non era difficile intendere che Camillo aveva contrattata vita per vita. Affascinato dalla molle e tenera bellezza di Vincenzina, che il destino gli aveva condotto ai piedi, uso, come tutti i forti, a creder suo tutto quanto cadeva nel dominio del suo egoismo, stese la mano sul bene di un fratello povero e ramingo: e se ne impadronì… ossia lo comperò col denaro che servì a coprire un furto.

Massimo, che ora si pentiva d'aver troppo voluto conoscere, dopo aver fatto forza sopra sè stesso, tirò una sedia accanto a quella di lei, sedette, cercò timidamente una sua mano ch'ella non gli seppe rifiutare, e parlandole con voce dimessa e carezzevole, le disse:—voi siete una santa.

—No, no, Massimo, protestò essa, ridendo, mentre le lagrime, a stento trattenute, scendevano a inondarle il viso.

—Sì, e io sono un piccolo cuore avaro e permaloso. Sento però quanto sia stato più doloroso per voi alzar la pietra di queste memorie sepolte: è un sacrificio di cui vi sarò sempre riconoscente, Vincenzina. Se io pronunciassi davanti a voi, così buona e così santa, una parola di rancore, non sarei degno di voi. Mi vergogno di non aver saputo trovare da me la ragione che ha ispirata e sostenuto il vostro sacrificio e di aver guardato più al mio che al vostro dolore. Aiutatemi a esser buono: devo dimenticare chi mi ha fatto un così grave male.

—Io credevo già di tenerlo il vostro perdono.

—Non a voi devo perdonare, capite: voi siete sempre per me un raggio luminoso.

—Ora mi fate la corte, Massimo—interruppe essa ridendo.

—Dite più semplicemente che vi amo ancora, oggi, coi capelli quasi bianchi come vi ho amata dodici anni fa. Forse che vi offende di sentirvelo dire?

—Perchè dovrei offendermi, caro Massimo?—si lasciò condurre a dire donna Vincenzina, in cui quelle dolci dichiarazioni schiudevano le misteriose fonti della tenerezza.—Come potrei non rallegrarmi di essere stata per voi qualche cosa di buono? anche voi lo foste per me. Non posso dire che il vostro pensiero mi abbia aiutata a compiere meglio quel difficile dovere che mi ero imposto: forse è più giusto che vi dica che ho fatto di tutto per dimenticarvi, per cacciarvi via come il diavolo e non ci son sempre riuscita, pare…—

Massimo si rallegrò di sentirsi paragonato al diavolo e stava per portare la mano piccola e morbida di lei alle labbra, quando risuonò nella quiete dell'aria, e precisamente dal lato dov'era la stanza del malato, un grido straziante, che parve la voce di Ezio.

Trasalirono entrambi, si mossero con quello spavento che si può immaginare e accorsero verso la stanza. Massimo arrivò primo, spinse l'uscio e trovò il malato in piedi semivestito, presso la finestra aperta. S'era levato le bende e le fasciature e stava così a capo nudo e raso, girando gli occhi nel vano, in cui agitava le mani.

—Cosa fai Ezio? sei impazzito? stare con quest'aria, in questa luce, mezzo nudo, nel tuo stato di debolezza?

—Vuoi sentirne una bella, zio Massimo?—cominciò a dire il giovane, sforzandosi di giocare d'ironia contro un mortale accasciamento. Vuoi vedere che son rimasto orbo come un fringuello?

—Cosa ti passa per la mente? torna in letto, sii buono.

—Orbo ti dico, se è vero che questa è una finestra aperta e non un armadio: orbo, se è vero che quest'aria calda vien dal giardino e non dalla bocca di un forno; orbo, se è vero che il mio naso sente un gran profumo di fiori e di piante resinose, mentre io non vedo una saetta. Avete un bell'ingannarmi, ma son tre giorni che nutro questo sospetto. Era troppo il buio, qua dentro. Non bastavano le imposte chiuse, le fasciature, le vostre ciarle, le fanfaluche della Russia a fare questo buio maledetto… Oh, oh: questa è la finestra aperta, queste sono le frasche della glicina: questo è l'odore del pino e dell'erba tagliata. Il naso c'è, zio Massimo, ma io non ci vedo un accidente, nulla vedo, come se fossi chiuso nella scatola d'un cappello. Che il barone mi abbia portato via gli occhi?—

Sentendo a questo punto entrare donna Vincenzina, drappeggiandosi alla meglio nelle coltri, che trascinava come un paludamento, le disse:—Guarda un po', madrina, quel che hanno fatto de' miei occhi. Se io ci avessi qui due capocchie, ci vedrei di più!

—Che cosa dici, figliuolo? i tuoi occhi son belli e sani come prima.

—Sani e belli, ma io non ci vedo. Vi giuro che non ci vedo—ripetè con più voce, alzando le braccia e brancicando nello spazio per afferrarsi alle cose.—Chiamate subito quell'animale di dottore che mi ha rovinato. Altro che guarigione: questa è la cassa da morto inchiodata e ribadita.

—Non dir così. Sarà lo stato di debolezza—disse lo zio.

—O il molto sangue perduto—aggiunse affannosamente la mamma.

—O uno scherzo della polvere da fuoco… commentò il giovane con acre ironia.

—E se ti rimettessi in letto?

—C'è Andreino?

—È uscito, non può tardar molto.

—Bene, non ditegli nulla. Chiudete ermeticamente la finestra in modo che non entri il minimo filo di luce e lasciate parlare a me:—Dreino, Lolò, dove sei tu?—cantarellò mentre cercava di raggiungere a tentoni il letto, annaspando come se giocasse a mosca cieca.

Quando, aiutato dallo zio, sentì il molle delle coltri, vi si rannicchiò, mentre Andreino entrava nella stanza.

Ezio sentì il suo passo prima che gli altri avessero il tempo di parlargli:—Dreino, vien qua: fa chiudere bene quella benedetta finestra. Mi è caduta la benda e ogni po' di luce mi abbaglia la vista.—

Andreino in buona fede corse a chiudere le imposte.—Più ancora, più ancora: non sto bene che nel buio. Chiudete anche l'uscio…—E quando sentì che tutto era sbarrato come una prigione, stese la mano all'astuccio dei zolfanelli, che stavano sul tavolino, e strofinando un cerino se lo tenne acceso davanti agli occhi come una candela, finchè non sentì la fiamma attaccargli la punta delle dita.

Fu un mezzo minuto di triste silenzio nella camera, mentre la fiamma rischiarava il volto dell'infermo, pallido, irrigidito nei tratti, in cui gli occhi fissi in una vitrea immobilità parevano aver perduta l'anima.

—Buona notte, sonatori: sono orbo!—e lasciò cadere pesantemente sul cuscino la testa che rimase come un pezzo di marmo.

—Tu ti spaventi per nulla, figliuolo.

—Ora sentiremo il medico.

—È un effetto della debolezza

—Sarà una paralisi momentanea.—

Così si affrettavano or l'uno or l'altro a consolarlo; ma Ezio, cantarellando sulle parole, respingeva le loro consolazioni con una insistenza disperata che stringeva il cuore.

—Vi dico che non c'è più stoppino. La palla del barone deve avere scassinato il meccanismo della luce elettrica e le cure di quel moscovita avranno fatto il resto.

—Dammi una sigaretta, Dreino! che bella sorpresa, Giovannino, restar orbo a ventiquattro anni!—

Scherzava coll'umore ferito, resistendo con ferocia di anima all'assalto della nera disperazione che lo ghermiva, come un superbo, che, vinto e conculcato dal nemico potente, lo oltraggia sogghignandogli in faccia.

Donna Vincenzina, sentendosi venir meno, si aggrappò alla sponda del letto e s'inginocchiò per soffocare contro la coltre un doloroso singulto. Massimo perdette un istante il senso delle cose, preso da una vertigine come se precipitasse da una torre. Soltanto Andreino Lulli fu calmo e ragionevole. Colla voce naturale e convinta disse:—Il medico ha già preveduto questo caso in seguito alla forte emorragia: non per nulla ti raccomandava la quiete, il silenzio e la perfetta oscurità: ma assicura che col rinnovarsi dei globuli rossi e col ritornare delle forze, tutto scomparirà come nebbia al sole.—

Don Andreino non aveva mai detto tante bugie, ma le disse così bene e con tanta naturalezza che i cuori si confortarono.

—E allora mandalo a chiamare questo fabbricatore di globuli rossi—disse Ezio, ricuperando un poco di quella speranza che galleggia sempre anche in mezzo alle più fiere tempeste. Nelle parole dell'amico egli aveva sentito abbastanza di quel verosimile, che in cento casi tiene il posto del vero, e quasi lo tien meglio.

* * * * *

Seguirono tristissimi giorni. Il medico, che aveva fama di uomo dotto, colpito dalla novità del fenomeno patologico, non osò pronunciare un giudizio. Il proiettile non era penetrato nel cranio, non aveva attraversato le cavità orbitali e quindi non poteva aver occasionata l'atrofia assoluta dei nervi ottici e prodotta l'abolizione totale della vista. Continuando nella cura del ghiaccio sulla fronte e nella quiete somma del soggetto, che pietosamente persuase ad aver fede nella parola della scienza, egli rimise un definitivo pronostico al giorno, in cui fosse sembrato utile alla famiglia di interrogare un consulente specialista. Subito fu fatto il nome del celebre dottor Dantelli di Torino, che il Cresti aveva conosciuto all'Università. Si scrisse subito a costui che venisse a Lugano, mentre Andreino telegrafava poche parole al Bersi. Arrivarono quasi insieme col cuore pieno di paurosi sospetti e si tenne una specie di consiglio di famiglia. Che si doveva fare? Cresti era partito senza dir nulla alle donne del Castelletto. Aveva lasciato solamente due righe per giustificare una momentanea assenza.

Il Bersi si offrì di partir per Torino con una lettera di Cresti per il dottor Dantelli, che avrebbe cercato di ricondurre con sè, non parendo il caso di perder tempo, sia per riparare subito al male se il male era riparabile, sia per recare al più presto a Ezio il conforto di una parola autorevole prima che la disperazione andasse alla testa del povero figliuolo.

Le cose furono così ben condotte, che in men di ventiquattro ore dopo, il dotto specialista, ornamento dell'Ateneo torinese, scendeva alla villa. Era un uomo di apparenza ancor giovane, dalla barba brizzolata, dal viso pallido, dall'aria pensosa e modesta degli uomini, che sanno quanto scarso sia il potere umano davanti alla grandezza smisurata dei mali.

In presenza dell'infermo la nuova diagnosi non si allontanò di molto da quella del dottor russo; il fenomeno si poteva interpretare come una interruzione momentanea dell'azione visiva prodotta da coaguli sanguigni. La quiete, la cura ricostituente e la fiducia nelle buone forze della natura dovevano confortare il malato a sperar bene; ma nel venir via in carrozza con Bersi, Cresti e Andreino, il dotto clinico non nascose qualche paura che il male potesse essere irreparabile.

—Cioè… cioè?…—esclamarono in coro con un senso di raccapriccio gli amici.

—Cioè ch'egli resti cieco per sempre.

—Cieco per sempre? a ventiquattro anni?—ripetè il povero Cresti con una voce fuggevole, in cui tremava la compassione.

—Il proiettile, passando sopra la cavità orbitale dell'occhio sinistro, ha offeso i vasi neuro-retinici e occasionato un gran disturbo di circuito. L'occhio destro è rimasto illeso; ma la cecità di questo può dipendere da quella che in gorgo medico si dice compiacenza simpatica o da un travaso di sangue che una diligente cura antisepsi potrebbe—chi sa?—far scomparire. Non escludo assolutamente che vi possa essere in giuoco una morbosità nervosa dipendente dalla eccezionale eccitabilità del soggetto: ma ad ogni modo, se gli volete bene, dovete far di tutto per prepararlo al peggio…

—Ezio—disse il Bersi, mordendosi le unghie—non è un ragazzo che possa rassegnarsi a una condanna di questa natura.

—Il meno che farà—aggiunse don Andreino—sarà di tirarsi un colpo di pistola nella testa.

—Io farei lo stesso—completò il misantropo del Pioppino.

—È religioso il vostro amico?—chiese il dottore.

Gli altri si guardarono in viso per chiedersi a vicenda una risposta di cui sentivano tutta la gravità. Ezio era religioso sì e no, come lo sono un po' tutti i giovani a seconda del tempo che fa. Andava a messa in campagna per non scandalizzare la povera gente e per non perdere l'amicizia dell'arciprete; ma, figlio di un razionalista ed educato alla scuola del lieto vivere, non si era mai posto probabilmente davanti il problema filosofico di una fede in qualche cosa di superiore,

—Io ho sempre visto—continuò colla, sua parola facile e serena il dottore—che dove non arriva la nostra scienza, arriva la religione. Tutti i giorni assisto a spettacoli edificanti di pazienza e di sacrificio in gente rozza, primitiva, in poveri contadini, in povere fantesche che perdono quasi senza piangere la vista degli occhi, perchè son sicuri di veder sempre qualche cosa ancora al di là delle tenebre. Voi, amici suoi, non dovete abbandonarlo, ma far appello a tutte le forze più nobili ed elevate del suo cuore: dovrete offrirgli la parte migliore di voi, prestargli la vostra fede, se ne avete.

—Se ne avete…—brontolò il Cresti, saltando per il primo dalla carrozza, mentre arrivavano sul piazzale della stazione. Dopo aver accompagnato il dottore fino al vagone, ritornarono a piedi alla villa, discorrendo malinconicamente di questa tremenda disgrazia, che nessuno sapeva augurare a sè senza provare un brivido di morte. Chi doveva dare a Ezio la tremenda notizia? e conveniva mantenere i parenti nell'illusione? e se la pazienza e la rassegnazione fossero mancate all'infermo?

Il Cresti per parte sua si domandava che cosa avrebbe dovuto dire alle donne del Castelletto e come avrebbe intesa questa notizia Flora. Non volendo scrivere, partì lo stesso giorno, in compagnia del Bersi. Entrambi sentivano quasi una smania nelle gambe di essere cento miglia lontani. Che catastrofe! che castigo! che disgrazia per la povera donna Vincenzina e anche per il povero Massimo, ch'era venuto dall'America apposta per assistere a queste torture!

Il solo Andreino, detto Lolò, rimase fedele a quel dovere di amicizia che si era imposto. Fuggire in quel momento gli sarebbe parsa una impolitesse anche rispetto a donna Vincenzina: ma non rimase su un letto di rose. Il malato, passato il primo istante di confidenza, ricadde in un abbattimento morale peggiore di prima, che fece saltar fuori qualche brivido di febbre. Tre dì e tre notti rimase così rovesciato sul letto senza parlare, senza gemere, come se la morte l'avesse già toccato colle sue mani di ghiaccio.

III

Una scappata

Per quanto il Cresti nascondesse a Flora la tristissima notizia, non fu difficile alla fanciulla di leggere sulla sua faccia e di capire dalle sue risposte imbarazzate e incoerenti che le cose a Villa Elvetica non erano così liscie come si voleva far credere. Anche la mamma aveva silenzi e reticenze piene di tristezze. Regina, che per mezzo di Amedeo era in grado di raccogliere le voci correnti, pareva imbarazzata a rispondere e lasciava morire freddamente il discorso. Flora capì che volevano nasconderle una brutta verità, ma non osò chiedere quel che non si voleva dire. Colse invece l'occasione d'una sua visita a Villa Serena e interrogò con abilità la vecchia Bernarda. Ma la donna non seppe dire se non che da Lugano avevan chiesto molta biancheria, che il signor Ezio aveva la febbre, che era stato chiamato un dottore famoso da Torino… e che intanto non si parlava di tornare.

La partenza di Elisa D'Avanzo le fece sentire ancor di più la solitudine e la tristezza del Castelletto, dove pesava continuamente un'aria di mistero. La stessa Nunziata andava ripetendo che essa non sapeva nulla; ma lo diceva in un modo così spaventato, povera donna, che faceva pensare alle più orribili cose. Flora cominciò a non dormire la notte. Era evidente che intorno a lei s'era fatto congiura di tacere: segno che Ezio correva un brutto quarto d'ora. Se non ci fosse stato nulla di male, perchè tanti misteri? perchè la mamma aveva così spesso gli occhi rossi? perchè non le lasciavano leggere le lettere che arrivavano da Lugano?

Il non dormire la notte accrebbe questo stato di vane apprensioni. Ezio poteva essere stato ucciso, ma Ezio era pur sempre vivo nel suo cuore. Il non poter parlare di lui colla gente non impediva che essa non ne parlasse con sè stessa; a poco a poco divenne questo il suo pensiero dominante, come una luce fissa accesa nel mezzo d'una grande oscurità.

Di notte balzava a sedere sul letto scossa ancora da quella voce che l'aveva chiamata la prima volta ch'era arrivato il doloroso telegramma, una voce lamentevole, ma chiara, che chiamava:—Flora… Flora.—Al punto che essa scendeva fino all'uscio e stava a sentire, se mai fosse la mamma che la chiamasse così.

Se avesse pregato che la conducessero per carità a vedere l'infermo, non poteva aspettarsi che una risposta.—A che pro? e con qual pretesto?—avrebbero detto:—Ezio aveva bisogno di quiete. Dacchè essa apparteneva a un altro uomo, meno ancora di prima poteva invocare le ragioni dell'amicizia e dell'umanità. Nè a chiedere quel che le sarebbe stato crudelmente negato si rassegnava più il suo orgoglio, che si sentiva già prigioniero e quasi incatenato dalle meschine convenzioni: e allora si domandò se non poteva andar senza permesso. Il viaggio non era lungo. Partendo la mattina, essa poteva essere di ritorno la sera stessa. Non aveva nulla a recare, nulla a chiedere, ma voleva soltanto vedere la verità, quella verità che fa tanto più paura quanto più si presenta vestita in panni non suoi.

Fece un breve studio sull'orario delle corse e vide che, partendo la mattina col battello delle sei da Cadenabbia, poteva essere a Lugano per le nove e di ritorno al Castelletto sull'imbrunire. Prese con sè una valigietta in cui pose un libro, un pezzo di pane e una tavoletta di cioccolata, ma si accorse di non aver denaro: nè volle chiederlo alla mamma. Scrisse un biglietto a Regina in cui la pregava di recarsi subito al Castelletto: «Dirai alla mamma che son partita per Lugano, ma tornerò stasera. Non stia in cattivi pensieri per me».

Uscì di casa poco prima delle cinque, mentre era ancora tutto quieto alla riva e nello strade, e si avviò verso Cadenabbia.

Quando fu davanti al fornaio, su cui aveva già fatto i suoi conti, entrò nella bottega e chiese in prestito al padrone dieci lire in piccoli biglietti.

—Dove va a quest'ora fresca, contessina?—chiese il padrone.

—Vado su verso Menaggio per alcune compere… C'è qui un ragazzo che voglia portare questo biglietto subito alla Regina di Bortolo?

—Ci deve andare per il pane.—

Camminando lesta, fu a Cadenabbia prima dell'approdo del battello. A Menaggio trovò pronto il treno e montò in un vagoncino di terza classe, dove non c'erano che tre o quattro guardie di finanza.

Si rincantucciò, si raccolse e per tutto il tempo che il treno sbuffò su per le rampe del monte, non tolse mai gli occhi dallo specchio fermo del lago, che si dilatava a' suoi piedi. La mattina era nitida, ma prometteva una giornata calda e senz'aria.

A Porlezza discese dal treno e risalì sul battello, prendendo posto fra le ceste e i colli che ingombravano la punta di prua. Fatti i conti, s'era accorta che le dieci lire erano scarse per viaggiare in prima classe: c'era quasi pericolo di non averne abbastanza per il ritorno. Ma a questo avrebbe provveduto la zia Vincenzina. Vicino a lei sedevano altre donne coi canestri sui ginocchi, si radunavano operai e pescatori, chiocciavano le galline nelle gabbie, i discorsi comuni della gente si mescolavano ai comandi del capitano e alle voci dei battellieri che gridavano le stazioni.

Seduta su di un fascio di grosse corde, sotto il suo cappelluccio schiacciato sulla testa colle tese rovesciate per assicurarlo contro il vento, Flora, sorpresa di sentirsi così tranquilla e convinta, come se andasse a compiere un dovere naturale, fissava il punto lontano dalla sua meta, affrettando col desiderio il momento d'arrivare.—La mamma—pensava—riceverà il mio biglietto prima di alzarsi. Stasera mi sgriderà, naturalmente, ma poi mi perdonerà. Perchè io sola non devo sapere quello che tutti sanno? Quando vedrò che l'opera mia è inutile, tornerò a casa, non ci penserò più, sposerò Cresti, farò tutto quello che vorranno.—

Pensare non è la parola precisa. Era piuttosto un passar rapido di immagini, d'impulsi, di sgomenti, di riflessioni, che viaggiavano con lei, ma di cui essa non era padrona.

Giunta a Lugano, quando fu dalla folla sospinta fin quasi nel mezzo della piazza del mercato, chiese a una fruttaiola la strada per andare a villa Elvetica.

La donna non aveva mai sentito nominare questa villa, ma una guardia di città insegnò alla signorina il modo di prendere il tramwai della stazione che l'avrebbe condotta a pochi passi dal luogo. Così fece. Tutto andava bene come se fosse guidato da una mano benevola.

Dieci minuti dopo, il conduttore le indicava la villa sopra un poggio in fondo a una salita battuta dal sole. Ringraziò, discese e prese la sua strada, provando ai primi passi un senso di debolezza: ma si ripigliò subito.

L'ora si faceva già calda e il bianco della strada riverberava già la vampa cocente di quel sole, che prometteva un'altra giornata di bel tempo. Il cancello della villa era aperto ed essa entrò liberamente sentendosi tutta consolata dalla freschezza delle ombre e dei viali oscuri che salivano alla casa. Una volta si fermò ad asciugarsi la fronte, per ricomporre i capelli scompigliati dal vento, accomodò il cappellino di paglia, che aveva perduto le sue penne e fattosi cuore, disse a sè stessa:—ora ci sono: botte non me ne daranno.—

E per non lasciarsi avvilire da quella debolezza che l'aveva presa alle gambe, provò a ridere di sè e dell'ombra sua che, allungandole sul terreno la persona stretta nel suo giubbetto leggero, e dilatando le tese del suo cappelline, le faceva la figura di un giovine prete lungo lungo. Veramente la scappata era più da studente biricchino che da teologo, e chissà? chissà che cosa avrebbero detto di lei a casa la mamma, il rigido Cresti, la beata Regina, la Nunziata… E che sorpresa per la zia Vincenzina di vederla arrivare in quel modo…. Ma comunque la volesse andare, adesso era qui, stava per rivederlo dopo un secolo che non lo rivedeva, gli avrebbe parlato, ed egli avrebbe dovuto almeno ringraziarla della sua carità. Oh non gli chiedeva nulla nulla; un «grazie» un «addio Flora…» un… «poverina che sei venuta con questo caldo…» e poi sarebbe tornata a casa tranquilla com'era venuta.

* * * * *

La villa era chiusa da tutte le parti, immersa in un silenzio di chiostro.

Provò a girarle intorno, in cerca di una porta d'ingresso, provò a scuotere e a battere nelle persiane; nessun segno di vita, nè di dentro nè di fuori.

Accostando l'orecchio alle persiane chiuse, non sentì che vi fosse anima viva. Sfette un istante avvilita senza sapere che cosa pensare. Che avesse sbagliata la casa? no, il nome di Villa Elvetica era scritto a lettere d'oro sul frontone; e le soprascritte e i telegrammi che aveva potuto consultare parlavano nettamente di una villa Elvetica sopra Lugano, a pochi passi dalla stazione. Dunque non ci poteva esser errore da parte sua, e bisognava piuttosto credere che fossero partiti tutti, o che Ezio… oh Dio!… che il povero Ezio fosse stato ucciso nel duello, e che le lettere e i telegrammi non fossero che un inganno pietoso dei parenti per preparare a poco a poco l'animo suo a ricevere la tremenda notizia.

Fu tanta la violenza persuasiva di questa supposizione che le mancarono le forze e si lasciò andare sui gradini della casa, tenendosi su a fatica colle mani aggrappate agli stipiti della porta. Se non perdette i sensi del tutto fu per forza di una volontà quasi irritata che comandò di resistere, di non smarrirsi in quel deserto, di opporre agli inganni la forza de' suoi diritti

Se Ezio era morto, perchè non doveva essa saperlo? se era morto l'ideale della sua vita, ben poteva ritenere finita anche per lei ogni ragione di essere e di soffrire. Se l'avevano ingannata, non solo era stata un'ingiustizia, ma una crudeltà; una inutile crudeltà che essa avrebbe dovuto far scontare a' suoi ingannatori.

A confermarla in questo odioso sospetto ritornavano in mente alcune circostanze.

Cresti era partito una prima volta coll'animo sollevato, ma era stato chiamato improvvisamente, mentre facevano venire da Torino un celebre dottore: da allora era incominciata quell'aria cupa di mistero, che faceva gli occhi rossi alla mamma, e confuse le risposte di Regina e delle altre donne….

No, no: era possibile ch'egli fosse già morto, che lo avessero sepolto in segreto senza che la sua Flora fosse stata chiamata a piangere sopra la sua bara? Non avrebbe mai più perdonato questo delitto, ma avrebbe vendicato in sè stessa l'oltraggio, lasciandosi morire di disperazione sulla fossa chiusa….

—Ezio—gridò non sapendo più resistere alle violenze di quel dolore acerbo, battendo colla testa e colle palme contro le gretole delle persiane che risuonarono nel silenzio del giardino….—Ezio!—gridò una seconda volta più forte, stringendosi i capelli—o mio povero Ezio, dimmi che non sei morto! oh Dio, non ingannatemi. O cattivi, pietà di questa poverina; aiuto, Madonna…—

E sentendo che lo spasimo più forte della resistenza stava per travolgerla in un torrente d'angoscia si accoccolò, si rannicchiò sul freddo sasso, appoggiò la testa alle braccia; e mentre non cessava di chiamare con voci alte e straziate il suo Ezio, pianse in uno scroscio di lagrime infinite.

* * * * *

Si ridestò dopo alcuni istanti al suono d'una voce che la chiamava: credette anzi di sentir pronunciare il suo nome e alzò la testa.

—Si sente male, poverina?—chiese la donna del giardiniere, mentre cercava di sollevarle la testa.

—Fatele odorare questo profumo—soggiungeva una voce più gentile: e fu appunto all'acuto effluvio d'un'essenza che Flora si ridestò, riconobbe il luogo, riprese coscienza di sè, del suo dolore, del suo pianto, ravvisò la donna e accanto a questa, seduta su una panca del giardino, un'altra donna pietosa, assai giovine e bella, che le parlava con soavità, compassionandola, e dava qualche segno di conoscerla.

Era forse questa signora, che aveva pronunciato poco prima il suo nome.

—Perdonate—cominciò a balbettare la poverina—sto meglio. Ero venuta a cercare di questi signori, voglio dire di quel giovane che fu ferito in duello. È morto? dite. È morto?

—No. Son partiti tutti fin da ieri mattina—disse la donna.

—Partiti?—esclamò Flora, rianimandosi.—Scusate, pensavo che fosse morto e ho provato un gran colpo di cuore. La sua ferita è guarita?

—Quasi guarita o almeno il dottore assicura che da questa parte non avrà più nulla a temere. Non so per il resto.

—Cioè?

—È forse una parente la signorina?

—Sono una sua lontana cugina. Dite pure: dovrò pur sapere come sono andate le cose.

—Si teme che il poverino abbia a rimaner cieco per tutta la vita.

—Cieco?!—gridò Flora, afferrando le mani della donna—Cieco?!—E lottando contro una specie d'interna incapacità a comprendere il senso doloroso delle cose, guardava negli occhi la donna per cercare la soluzione di un enigma che non si lasciava sciogliere.

Ma a poco a poco la verità si fece strada, La nozione del male si trasformò in una sensazione oscura che l'avvolse come una notte. Il giardino così pieno di sole sprofondò in una tenebra fitta come se la verità acida e velenosa, saltandole agli occhi, accecasse anche lei.

La giardiniera, vedendola vacillare di nuovo, la sorresse col braccio e cercò di rianimarla con delle buone parole, a cui Flora si sforzò di rispondere per non perdere del tutto una forza di resistenza di cui aveva ora più bisogno di prima.

—Cieco!—Ora sentiva tutta la grandezza di questa nuova sciagura, che non osava confrontare con quella che aveva temuto prima, per paura che, dovendo sceglier tra due terribili mali, il suo cuore avesse a ingannarsi. Piangeva Ezio come morto e glielo rendevano vivo, ma cieco: non sepolto morto nella terra, ma sepolto vivo nelle tenebre, Era una scoperta orribile, da togliere ogni virtù: ma dopo aver dissipato con un atto materiale delle mani la nebbia che le ingombrava la vista, tornò in sè stessa per non so qual forza riposta, si alzò e chiese con voce subitamente rinvigorita:—Sapete se essi intendevano di tornare a casa?

—Sentivo dire che il signor Ezio desiderava tornare: ma che volesse tornar subito non saprei dire.

—Grazie, buona donna; scusate se vi ho spaventata.—La fanciulla, appoggiandosi al braccio della giardiniera, si fece accompagnare un tratto per il viale fin verso il cancello; ma fatti alcuni passi, accortasi di non aver ringraziata e salutata la bella signora che l'aveva soccorsa e di cui teneva ancor stretta nella mano un'elegante fialetta di cristallo:—Quella buona signora….—disse voltandosi a cercarla cogli occhi. Ma la buona signora era già scomparsa.

—La conoscete?—chiese alla donna.

—Dev'essere una signora americana che sta all'Hôtel. È venuta anche lei due sere fa per la prima volta a chieder notizie del ferito e restò molto impressionata, quando il contino le diede la brutta notizia. Oggi è tornata per veder la villa, perchè spera che suo marito, un milionario americano, abbia a comprargliela. Dicono che non sia propriamente suo marito: ma per noi è lo stesso, purchè la villa si venda e si esca da questa melanconia. È peccato buttar via questa grazia di Dio: e anche mio marito potrebbe guadagnare qualche cosa di più che non a servire questi usurai dell'hôtel che non danno mai un soldo di mancia. Si sa, siam povera gente che vive di incerti e di piccoli proventi.—

In Flora, al sentir parlare di mancia, si rivegliò il senso di quel dovere civile che vuole che ogni servigietto abbia il suo compenso. Tolse dal magro portamonete una lira di carta italiana e offrendola modestamente alla donna le disse:—Pregate per quel poverino e un poco anche per me.

—Lo farò, bella ragazza; non avrebbe per caso moneta svizzera?

—Oh no…—esclamò la povera Flora, arrossendo, cercando inutilmente tra le poche lire stracciate che eran rimaste nel fondo.

—Fa nulla, pregherò lo stesso.

—E ringraziate per me la signora…—disse, affrettandosi verso le strada che scendeva in città.—

La donna dalla soglia del cancello la seguì un pezzo cogli occhi e quindi, pesando il barattolo di cristallo in una mano, la logora lira nell'altra, mentre tornava sui suoi passi, prese a dire:—Peccato davvero che resti cieco quel povero figliolo, quando ha la fortuna di farsi ben volere dalle donne, dalle bionde, dalle rosse, e forse anche dalle nere. Era forse meglio che morisse addirittura laggiù in quel prato, povero figliuolo!—E seguitando ne' suoi pensieri, mentre tornava in traccia della bella americana, almanaccava:—Questa rossa, pare una sartina o una maestrina di laggiù, e a giudicare dai capelli dev'essere un diavoletto intelligente, un'anima calda: e come piangeva! sento ancora il calore delle sue lagrimone sulla pelle delle mani. Peccato che il suo borsellino sia smilzo come un agone secco. Per una lira italiana e sporca io dovrei pregare per lui, per lei, e magari accompagnarli in paradiso. L'americana non ha bisogno delle mie orazioni e se devo giudicare dall'odore, è di quelle che pregano una volta sola in punto di morte, quando il diavolo si muove per portarle via. Questa boccettina—soggiunse, portando il buon odore al naso—par di cristallo fino e il collo par d'argento, guai se non avessimo di questi proventi in questi anni di miseria!—E se la mise in tasca.—Ora non mi resta che di conoscere la maritata, quella per cui il giovinotto arrischiò di farsi ammazzare. Dev'essere assai bella se l'ha pagata con un paio d'occhi, scartando la bionda e la rossa. Ma, ah povera me! che cosa serve la bellezza, se non hai gli occhi per vederla?—

Ridendo, crollando la testa sulle sue considerazioni, la donna, che aveva nei suoi giovani anni conosciuto il mondo, finì col conchiudere che bisognerebbe nascere due volte: la prima per imparare, la seconda per vivere.

IV.

Belvedere.

Ezio smanioso di tornare a casa sua, appena si sentì in grado di affrontare le noie del viaggio, fu come se avesse i carboni accesi sotto i piedi. Sperava che a cambiar aria, potesse rompersi quel sinistro augurio che gli pesava sul capo; ma non volle ritornare per la valle di Menaggio, temendo di ripassare troppo presto da luoghi ch'egli aveva ancora negli occhi. Mostrò invece il desiderio di scendere ad Argegno sul lago di Como a poca distanza da Villa Serena, attraversando il valico d'Intelvi. Lassù, a Lanzo e al Belvedere, era andato da giovinetto con suo padre e gli era rimasta la memoria come di siti incantevoli, d'aria frizzante e leggiera, di una luce trasparentissima, piena di azzurro. Deviando un poco, era facile raggiungere anche la vetta del Monte Generoso, famoso per la grandiosità delle sue vedute sopra la catena delle Alpi e delle prealpi, e più ancora per gli spettacoli quasi divini delle sue aurore. Si ricordava di aver passata una notte di settembre in compagnia di alcuni cacciatori, che dopo averlo condotto in mezzo ai boschi oscuri della valle di S. Fedele e di Casasco, avevano acceso un fuoco e fumato nelle pipe in attesa del sole. Quel bivacco luminoso nella gran selva dei castagni gli tornava spesso nella mente e aveva la virtù di accendere ancora una vampa di fuoco nel suo viso. E ricordava quando, avvolti negli scialli per difendersi dalla brezza acuta dell'alba, s'erano accovacciati in una specie di fossa a ridosso dell'ultimo dente, e di là aveva visto schiarirsi a poco a poco il cielo, prima in un colore opalino verso la somma volta, poi in striscie più calde all'orizzonte, in cui guizzavano delle pagliuzze d'oro, finchè un vivo braciere di fuoco purpureo venne a divampare sopra le vette e a tingere di sangue le pozze e i rigagnoli dei pascoli. Ricordava con una chiaroveggenza quasi dolorosa questo sublime spettacolo, in virtù di quella vista che non è negli occhi, e che va spesso più lontano, oltre i confini del senso. Sperava di ritrovare di nuovo lassù queste vive immagini a cui l'anima sua attaccava un'ultima speranza. Quasi se le prometteva come un premio alla sua costanza, con quell'ostinazione propria delle anime forti, che rifiutano di credere ai mali che le opprimono.

Non osava ancora ammettere che le sue pupille, così pronte poco prima, osassero disobbedire al cenno imperioso della sua volontà ancora così piena di luce e di cose. Non si scongiura un male se non ribellandosi. La rassegnazione, la più umile delle virtù, non è buona se non quando è necessaria.

Arrivarono all'Albergo del Belvedere sul far della notte, dopo un viaggio lento, melanconico, in cui quasi nessuno parlò. Soltanto don Andreino si sforzò di parer qualche volta di buon umore: ma i suoi discorsi, per quanto cercasse di farli parere spontanei, avevano nell'animo de' suoi compagni di viaggio quella falsa risonanza, che mandano le posate e i bicchieri a un pranzo che segue un triste funerale. Ezio, sentendosi le ossa affrante e lo spirito depresso, si mise subito a letto dopo aver persuaso Andreino a svegliarlo la mattina all'alba, perchè desiderava di assistere alla levata del sole. E quasi che in questa speranza trovasse il suo riposo, si addormentò subito.

Intanto che il contino prendeva alcuni accordi coll'albergatore, donna Vincenzina che il doloroso viaggio aveva stancata d'anima e di corpo, era andata a sedersi in un angolo del terrazzo che domina, dall'altezza di quasi mille metri, il lago di Lugano e stava fissa a contemplare ora le stelle che luccicavano nel fondo del cielo, ora i lumi della città sottoposta, collocata nella profonda oscurità dell'abisso.

Massimo la trovò immersa nelle lagrime.

Dopo una settimana di torture, sul momento di avvicinarsi a casa, essa sentiva tutta la grandezza della sventura che li aveva colpiti e cercava nel pianto un sollievo.

Massimo sedette accanto a lei, nell'angolo dove arrivava, diluita, la luce dei fanali e languivano gli ultimi rumori che uscivano dall'albergo.

—Abbiamo ragione di piangere—disse con voce soave e tremula il vecchio amico,—È una grande sventura e non vedo come, col suo temperamento autoritario e irritabile, Ezio possa sopportarla. Temo anch'io che in un momento di maggior avvilimento egli possa commettere uno sproposito. Colla sua è la vostra disgrazia, poverina. Quale sarà la vostra vita da ora innanzi? come potete legarvi per sempre, alla sorte di un cieco?

—Che cosa pensate, Massimo? che io possa abbandonare Ezio?

—Non posso pensare nulla di male di voi, sapete: ma temo che il sacrificio sia maggiore delle vostre forze.

—Io ho sempre amato Ezio come un figliuolo.

—È vero. Avesse egli corrisposto con altrettanto affetto! Ora che la sventura l'ha colpito così tremendamente, credete ch'egli saprà trovare quella ricchezza di cuore di cui voi avete bisogno? Già sacrificata una volta all'egoismo del padre….

—Vi proibisco di parlare, Massimo—fece donna Vincenzina, posando una mano sulla mano di lui.

Massimo chinò la testa e stette un istante in silenzio. Fu essa la prima a riprendere la parola dopo un lungo intervallo, durante il quale gli occhi avevano a lungo contemplata una stella.

—Voi che cosa mi consigliereste di fare?

—Una cosa semplicissima, Cenzina—disse Massimo con una tenerezza che ricordava nel suono e nelle parole un'antica famigliarità.—Che si sia in due a portare questa croce.

—Oh sì… io faccio affidamento sul vostro aiuto, Massimo—disse lentamente.

—Ma io potrei ripartire, capite? quando fossi vostro, tutto vostro,
Cenzina….—

Essa non rispose. Come se un improvviso malore l'assalisse posò la testa sul braccio appoggiato al balaustro di sasso e lasciò che il vecchio amico portasse la sua mano alle labbra. Ve la tenne un pezzo il vecchio amico e la bagnò di lagrime calde che uscivano dal vecchio cuore.

* * * * *

Fu il primo Ezio a svegliarsi e chiamò Andreino che dormiva in un letto accanto.

—Ho sentito sonar le tre all'orologio del corridoio. Aiutami a vestirmi: noi dobbiamo essere su qualche altura prima che il sole metta fuori le corna. Voglio respirare la brezza dell'alba, la buona brezza che sveglia gli uccelli e gli alberi: voglio lavarmi gli occhi nella rugiada e ricevere in viso il primo raggio di sole, riceverlo puro attraverso alla pura atmosfera.—

E su questa intonazione, in cui non avresti saputo discernere quanto di enfatico egli mettesse per sostenere i dolori del suo spirito, seguitò a discorrere finchè Andreino non fu pronto ad accompagnarlo.

—Ora sta zitto, perchè a quest'ora i cristiani dormono—gli disse il contino.

—È buio?

—Buio pesto. Appoggiati al mio braccio e sta attento a fare gli scalini che ti conto. Troveremo qui abbasso il portier che ci aspetta.

—Non lo voglio: andiamo soli, Andreino.

—Ma io non conosco queste strade.

—Non fa nulla. Menami fuori, all'aperto, in una di queste vicine alture. Ho bisogno di respirare un'aria alta. Poi ti dirò quel che dovrai fare. Tu mi vuoi bene, Andreino: tu sei stato per me in questi giorni più che una sorella.

—Oh senti, se non hai nulla di meglio da contarmi, lascia stare anche i complimenti. Eccoti invece un buon bastone di montagna che ti aiuterà a trovare la strada. È buio anche di fuori, come se si fosse in una cantina.

—È buio? è proprio buio? Oh com'è fresca l'aria qui fuori—esclamò il giovane, vagolando sul piazzale—questa vien dal lago. Che silenzio di chiesa! dormono tutti?

—Non sono ancora le quattro.

—È nuvolo?

—No, ci sono le stelle.

—Allora questa è rugiada….—disse Ezio, tenendo alto il viso.—Andiamo bene di qua?

—Ieri sera mi son fatto insegnare un sentiero che mena alla capannuccia detta des artistes: di là dicono che si domina tutta la valle.—

I due giovani cominciarono a salire per un viottolo spianato che s'internava con arte nelle fitte ombre d'un bosco di faggio. Già il biancore primo dell'alba andava rompendo il cielo dietro le creste e un primo alito di luce animava insieme alla brezza la trama degli alberi. Qualche frullo d'ala usciva all'avvicinarsi dei loro passi. Ezio camminava appoggiato pesantemente al braccio dell'amico: ma di tratto in tratto arrestavasi e alzando il bastone in atto di protesta gridava:—Sei sicuro che di quà si va bene? mi pare invece che si discenda nella valle.

—C'è quì un cartello colla freccia che insegna la strada.

—Dov'è questo cartello?

—L'abbiamo di poco passato.—

Si ripigliava il cammino. Ezio a un punto si distaccò dalla sua guida:—Voglio provare a camminare da me. La strada è molle come un tappeto. Direi che quasi comincio a veder qualche cosa. Di', non c'è lì in faccia una fontana con un cavallo che beve?

—Dove?—chiese Andreino imbarazzato.

—Lì, in mira al mio bastone. Un bel cavallo bianco.

—Ah sì… è una grossa rupe.

—C'è però qualche cosa di bianco.

—Sì, una macchia di granito.—Non c'era nulla: ma il giovine cercava di secondarne le allucinazioni per tenergli alto lo spirito.

Ripresa la strada e usciti dal bosco, cominciarono a montare sul bel sentiero che sale il dosso erboso del monte. Sentendo un mormorìo d'acqua, Ezio volle arrestarsi a bere. S'inginocchiò sull'erba, stese la mano al rigagnolo, bevette nei palmi di quell'acqua diaccia, se ne bagnò il viso, la testa, s'inebriò di quella freschezza.

Cominciava ad albeggiare. Le creste si colorivano di rosa: il cielo diventava sempre più turchino, il verde dei vecchi boschi, meno oscuro, più ridente il verde dei prati: rumori vaghi e indistinti uscivano dai cespugli, dalle piccole siepi: e più acuto si sollevava l'odore dei muschi e delle erbe selvatiche. Il fondo delle valli continuava a restare immerso in una fredda e nebulosa oscurità, mentre si andavano via via accendendo le vette più alte, dapprima le nevose che pigliavano una chiarezza rosea di carnagione viva, poi le altre ferrigne e taglienti, che si rinforzavano nella luce, più tardi ancora i greppi, i dirupi, che parevano scostarsi per lasciar adito all'incanto luminoso dei pascoli, coi casolari alpestri raggruppati in un lieto disordine. Uscivano di mano in mano dai fuggenti vapori, come da veli lacerati e scossi, gli spacchi dei laghi, movevansi le ondulazioni delle colline lontane, svegliavansi al tocco insinuante della luce i borghi fitti di case, ridevano i poveri villaggi adunati alle falde e un intimo affetto univa la terra, patria dei dolori e il cielo, patria delle serene speranze….

Ezio andava avanti, prudentemente, alzando la faccia contro la brezza, aspirando quei profumi, raccogliendo quei suoni, sentendo intorno a sè il ritorno del solo, indovinando colla fantasia la bellezza delle cose: ma un cerchio di ferro cingeva il suo capo.

—Ah….—fece una volta, aprendo la bocca a un grido, che morì soffocato dall'angoscia mortale.—A te lo posso dire, perchè sei un uomo ragionevole. O mi tiran fuori di questa cantina o la faccio finita….

—Perchè pensi a queste cose?

—Perchè non posso a meno di pensarle. Ti par possibile questa vita di fringuello in muda? Quando sentirai che mi son tirato un colpo nel cervello, dirai: Povero diavolo, s'è liberato.

—Non dovresti dirmele queste sciocchezze che mi fanno male—protestò
Andreino, facendo sentire nella voce un tremito di dolore.

—Sì, sì, hai ragione, povero Lolò, non dovrei dirle a te queste cose. Tu credi alla Provvidenza, tu… mentre io, in questo caso, proprio non so vedere che ci possa essere una ragione nel tormentare così un uomo come una bestia. Vien qua: dammi il braccio. Siam fuori del bosco? da qual parte è il lago? Sento che va diventando chiaro: sento che è bello qui intorno a me. Non è vero che le cime son accese come tanti falò?… Lascia che io mi sieda, qui, qui, in qualche sito: mettimi in faccia al sole. Lasciami qui solo. Non aver paura, Dreino, non mi farò del male: no, povero Lolò, vi ho già dato abbastanza noie, povera gente. Ho bisogno di star solo, un momento, per pensare al caso mio e a quel che devo fare di me…. Non immagini che pena sia sentir il sole sulla faccia e non vederlo: è una maledizione orrenda, ve', aver gli occhi, questi maledetti occhi impiombati. È una cosa ben crudele che un uomo sia condannato a questo supplizio. Tu non puoi immaginare quel che soffro: no. Nessuno al mondo può immaginare fin dove si può soffrire senza morire. È un'atrocità orribile, uno spasimo indescrivibile. È come l'esser sepolti vivi senza nemmeno la speranza di morir presto. È tutto il male del mondo concentrato nel cuore d'un uomo. O papà, o la mia povera mamma, se mi vedete, aiutatemi, fatemi morire!—

* * * * *

Steso bocconi, colle mani che raspavano la terra, il povero figliuolo lasciò uscire tutti i gridi e tutte le lagrime che da dieci giorni andava rinserrando nell'anima orgogliosa. C'era da commovere le pietre soltanto a vedere quella giovinezza schiantata nel suo fiore e a sentire quel suo dolore piangere così lamentosamente.

Andreino Lulli non seppe far altro che buttarsi a piangere anche lui sul povero suo amico. Lo carezzò, gli fece sentire il calore delle sue lagrime, lo strinse nelle braccia, lo baciò sul capo, sforzandosi di patire anche lui nella misura enorme del suo compagno, oltre la sua capacità.

Intanto il sole continuava a illuminare in una festa di colori le cime e scendeva a baciare col raggio le falde erbose popolate di pascoli. La brezza calava tra le valli, piegando gli steli rugiadosi dei fiori, recando lo scampanellare sparso degli armenti. In questi due giovani soffriva qualche cosa di più sensibile e forse di più forte della natura, qualche cosa di cui non avevano ancora la chiara coscienza, ma che sta nella vita come la scintilla nella pietra.

V.

Triste incontro.

La sera del giorno successivo i nostri viaggiatori arrivavano a Villa Serena. Andreino aveva mandato avanti un telegramma a Cresti che avvisò le persone di servizio e fece aprire la casa. Per evitare a Ezio il su e giù del battello a vapore, ad Argegno avevano presa una barca con due buoni rematori che in breve tempo li portarono alla punta del Barbianello, dove giunsero sull'ora d'uno splendido tramonto.

La vecchia Bernarda, che non aveva quasi più lagrime per piangere, quando vide dalla punta spuntare la barca e riconobbe le persone, come se vedesse venire non una barca ma un mortorio, esclamò:—Povero il mio Ezio! ha fatto bene la sua mamma a morire.—

Il Cresti, che passeggiava da un'ora coll'orologio in mano, inquieto, colla febbre indosso, al cenno che Andreino fece da lontano col fazzoletto, vide farsi oscura l'aria. Amedeo e il vecchio Giosuè, che spiavano dalla terrazza della darsena, si mossero dicendo:—Son qui.—

Cresti non aveva detto nulla al Castelletto di questo ritorno per risparmiare a quelle donne la tristezza del primo incontro. Le cose eran andate in modo che egli non sapeva nulla del viaggio di Flora a Lugano e credeva che la fanciulla ignorasse la disgrazia toccata ad Ezio. Ma Flora, alle prime mosse aveva saputo strappar la verità di bocca ad Amedeo che il Cresti volle condurre alla villa per avere un aiuto pronto e intelligente. Prima che la barca uscisse dal Barbianello, Flora era alla casa di Regina al torrente.—Accompagnami—le disse—non possono tardar molto. È inutile che mi facciate dei misteri. So tutto.—

Regina mormorò qualche parola di commiserazione e uscì con lei. Per non lasciarsi vedere da Cresti, che avrebbe potuto mandarle via, le due ragazze si trattennero in disparte dietro il casino svizzero, da dove, senza essere viste, potevano dominare il lago.

Flora era delle due la più tranquilla. Mentre Regina non poteva frenare le lagrime e cercava di soffocare i singhiozzi nell'angolo del suo grembiule, la figliuola del colonnello Polony guardava fissa innanzi a sè come forse aveva spiato suo padre dall'alto del poggio, cinque minuti prima di comandare l'ultimo assalto.

La barca approdò non alla darsena, ma alla riva aperta, a' piedi della scala. Andreino saltò per il primo a terra e porse la mano a donna Vincenzina. Cresti, Amedeo, Giosuè scesero loro incontro: ma nessuno seppe trovare la parola che valesse a rompere un silenzio così doloroso. Aiutato da Massimo e da Andreino, Ezio, che nel toccare la soglia di casa sua sentiva venire incontro tutte le belle cose della sua giovinezza, discese dalla barca, si fece dare il bastone e quando gli parve d'essere orientato, disse:—Lasciatemi, ora son pratico.—

E venendo avanti col passo misurato e cauto del cieco, raggiunse la rampa della scala, sentì sotto la mano il ruvido della cinta e cominciò a salire.

—Son fioriti gli oleandri—disse quando fu in cima, dove si fermò un istante colla faccia rivolta verso la stesa del lago di cui sentiva l'ampiezza aperta ed il mormorìo pieno di seduzioni. I parenti seguivano a pochi passi di distanza colla stanchezza di chi torna da una battaglia perduta. Cresti non vedeva gli scalini, tante erano le lacrime che gli velavano la luce.

* * * * *

Quando ebbe respirato un poco il soffio del vento, il cieco piegò verso il boschetto delle magnolie dove s'era avanzata ad aspettarlo Flora. Pallidissima, ma rigida e forte accanto al tronco di un albero a cui appoggiava la testa, la fanciulla addolorata guardava con occhi spasimanti.

Regina, nascosta fra gli alberi, s'era lasciata cadere in ginocchio e pregava a voce alta, perchè la Madonna desse a tutti la forza di sopportare quel gran male.

Ezio veniva abbastanza sicuro, guidato dal sentiero sabbioso che strideva sotto i suoi piedi nell'ombra già folta del viale che aveva per sfondo la luce del lago; quando, parendogli di udire una voce, si fermò, alzò il bastone come spada e domandò in modo di scherzosa esclamazione:—Chi va là?—

Flora non rispose, ma si precipitò verso di lui che si sentì chiuso nelle sue braccia. Egli sentì le sue labbra sulla fronte, sentì l'affanno della muta angoscia e credette per un istante che la morte più volte invocata venisse davvero non senza qualche conforto. Tutti si strinsero davanti a quella scena improvvisa in un sacro raccoglimento, come se in quei due giovani cuori vedessero soffrire tutta la natura umana.

Il silenzio che seguì per circa un minuto fu così religioso e profondo che la voce di Regina uscì come un mesto suffragio, come la preghiera del sacrificio.

—Vedi, Flora, come mi hanno conciato?—fu il primo a dire il poverino, che si sforzava di mantenere nello spirito e nella voce la pacatezza dell'antico elegante:—Addio, maschere, Flora! nemmeno Pomponio Labeone l'avrebbe prevista.—

Essa rispose con tutte le sue lacrime, che Ezio sentì cadere così spesse e così calde sul viso che, dimenticando sè stesso si fece a consolarla.—Povera Flora—disse commovendosi, mentre lasciava scorrere la mano tremante nel fitto dei folti capelli, come se cercasse con quella carezza di darle un segno dell'antica fratellanza:—Ti faccio piangere troppo, povero cuore. So che mi volevi bene, povera Flora, è un castigo grosso… ma ci vorrà molta pazienza. Ti conterò tutte le fandonie che mi hanno dato a bere in questi quindici giorni. Fu una cura di bugie: ma ora non c'è più dubbio. Sono orbo, orbo come una talpa. Però son contento di essere a casa mia… Dove siamo? dammi la mano, Flora, così… Questa è la porta di casa, ecco il primo gradino. Qui ci sarà la Bernarda, immagino, nascosta in qualche cantuccio. Dove sei tu? credi che non ti senta piangere, mia vecchia trottola?

—Son contenta di vederla, sor padron..—fece per dire la povera donna; ma le rughe del vecchio volto s'irrigidirono in una contrazione nervosa, quasi in una smorfia di pianto trattenuto.

VI

La grande battaglia,

Seguirono giorni di pena, di ansietà, di paura. Ezio mostravasi calmo, quasi rassegnato: ma non c'era da fidarsi. Don Andreino, scrivendone al Bersi, non nascondeva le sue preoccupazioni: «Se egli non me lo avesse già dato ad intendere a chiare parole, basta conoscere il carattere di Ezio per ritenere che un giorno o l'altro troverà un estremo rimedio a questa estrema sventura. Nessuno potrà impedirlo: quasi sto per dire poco cristianamente che non si oserebbe dargli torto.

«Ora sta sistemando le cose sue, vuol pagare i suoi debiti, ordinare le carte di suo padre, preparare un testamento. A sentirlo parlare con tanta freddezza ti fa gelo al cuore. Vi son parole di conforto per questi mali? io non ne so trovare.

«Anche mia zia, la marchesa di Villamare, è cieca da dieci anni: ma ce n'est pas la même chose. La marchesa ha settant'anni e dopo aver adoperato assai bene i suoi bellissimi occhi s'è data al buon Gesù. Ezio è un agnostista (uso la parola che il Brunetière adopera in un suo stupendo articolo della Revue des deux Mondes) e a ventiquattro anni non manca il coraggio di morire. Le gest est beau.»

La Bernarda ebbe presto motivo di persuadersi che questi sospetti non erano infondati.

Un giorno, mentre stava accomodando la biancheria, vide entrare nella stanza Ezio, che in pochi giorni aveva riacquistata la pratica della casa. Dopo aver toccato i vari cassetti dell'antico scrigno di mogano, fece scattare un battente e ne ritirò una cassetta di cuoio. Apri l'astuccio, palpò, carezzò colla punta delle dita le canne lucide e brunite delle pistole mollemente tuffate nella loro custodia di velluto, ne levò una piccola rivoltella di cui fece scattare rapidamente il grilletto….

La povera donna fu lì lì per corrergli addosso e strappargliela di mano, ma si trattenne, vedendo che il giovine rinchiudeva l'astuccio, collocava questo di nuovo nello stipo, ne ritirava la chiave, mormorando qualche parola secondo l'abitudine che aveva preso di parlare con sè stesso, quando sapeva di esser solo, quasi per un bisogno di ritrovare nel buio la sua personalità.

La vecchia domestica raccontò quel che aveva visto a donna Vincenzina, che ne parlò a Massimo e a Cresti. Che si doveva fare? mettere a fianco del giovine una persona che lo seguisse in tutti i passi non era possibile, perchè Ezio aveva dei momenti di cupa sofferenza in cui non voleva nessuno accanto a sè: e a questi succedevano ore di non meno cupa oppressione morale, durante le quali rimaneva disteso sul letto in una muta tetraggine che non sempre le lagrime riuscivano a rompere.

Se una vigilanza era possibile di giorno non era egualmente facile di notte, se anche si fosse trovata la persona capace di assumere un incarico così pericoloso.

Se ne parlò a lungo col Cresti, ma il signor Cresti aveva già troppi pensieri suoi, perchè potesse consigliare o sacrificarsi. Il matrimonio con Flora era stato fissato per la metà o per la fin d'ottobre e allo sposo stava a cuore che il Ravellino per quel tempo, lavato e ribattezzato in Villa Flora, fosse discretamente in ordine almeno nelle sue stanze principali.

La terribile disgrazia di Ezio aveva gettata un'ombra di cattivo augurio sulla felicità del solitario del Pioppino; ma alla fine bisognava che tutti si facessero ragione. Ezio non era mica un suo parente e bisognava anche dire che era andato a cercarla col lanternino. Giudicando dalle apparenze, anche Flora per la prima pareva persuasa di questa necessità. Tutto era possibile tranne il tornare indietro. Se il buon Dio avesse voluto con un miracolo ridonare la vista al cieco, Flora non poteva raccogliere l'eredità di uno scandalo. Tra lor due c'era oggi un orgoglio ferito che non si poteva più medicare, e l'orgoglio divide più della morte.

Così il buon Cresti procurava di far in modo che la logica non impedisse la sua felicità; la quale era veramente grande, saporita, luminosa. Finalmente gli pareva di aver trovata la parola lungamente cercata che spiegava l'enigma intorno a cui si era logorata la sua mente per tutti gli anni della vita. Tutte le parti dell'indovinello si schiarivano negli elementi parziali di quella parola che le riassumeva. Dite «amore» e la vita è la cosa più facile del mondo.

E Flora?

Flora viveva come una sonnambula. Quel suo povero cuore s'era quasi spezzato del tutto alla vista del cieco che veniva titubante, col viso alto e pallido, spento…. Quello non era più il suo Ezio, ma il cadavere di Ezio che camminava.

Un sacro orrore si era impadronito del suo spirito e andava continuamente scompigliando i suoi pensieri e i suoi affetti. Non sapeva più che cosa desiderare nè per sè nè per il disgraziato. Arrivavano momenti in cui non capiva nemmeno i ragionamenti più semplici e le dimostrazioni che la mamma andava ripetendo per la centesima volta.—È una grande disgrazia—diceva la signora Matilde alla figliuola—ma dal momento che egli non ha avuto occhi per te quando ci vedeva, non c'è motivo che tu perda ora i tuoi a piangere quel che non si può riparare. Ciascuno ha i suoi doveri nella vita, e come hai rinunciato a lui quando era felice e trionfante, devi per un motivo ben più nobile e santo rinunciare, a lui, ora che hai promesso il tuo cuore e la tua mano a un galantuomo che ti vuol bene. Cresti non ama veder questo tuo abbattimento. Per quanto grande sia la disgrazia di Ezio, tu non gli puoi giovare colle tue lagrime.

—Io non piango, mamma—diceva Flora.

—Non piangi, ma fai peggio. Non parli, non mangi, non capisci nulla.

—Dicono che egli si ucciderà.

—A Ezio non mancano le ragioni per vivere, se nella sua coscienza c'è ancora qualche cosa che non sia orgoglio e vanità. Ma comunque sia, o mia cara, che giova il tuo piangere?

—Io non piango mica, mamma.

—Che gli giova il tuo soffrire? egli deve essere contento di sapere che hai trovato in Cresti un onesto e sincero protettore. Settembre è quasi per finire e troppe cose abbiamo a preparare, perchè abbia a perdere il tuo tempo in questa malinconia senza rimedio.

—Tu hai ragione, mamma.—

Pareva persuasa di queste ragioni: ma scrivendone di lì ad pochi giorni a Elisa d'Avanzo essa tornava a girare ancora intorno alla sua dolorosa idea: «Dicono che se Ezio avesse la fede delle nostre madri e la nostra, troverebbe la forza di sopportare la sua sventura: e per invocarla questa fede la zia Vincenzina ha fatto celebrare un triduo alla Madonna del soccorso. Ci siamo andato ieri per la prima volta sull'albeggiare, e ho cercato di portare lassù quanto c'è di meno cattivo nell'anima mia. La buona Regina mi persuase ad accostarmi alla Santa Comunione e volentieri seguii i consigli di un'anima semplice per mettermi anch'io in quello stato di semplicità che provoca la grazia. Ho bisogno di tutti i soccorsi del cielo, mia cara, perchè questa povera testa non afferra più certe ragioni e non sa più che cosa credere e che cosa pensare. Che faccio io per salvare un'anima in pericolo? Ora egli parla di stabilirsi in un suo fondo del basso milanese, dove potrà, dice, attendere all'amministrazione delle cose sue, vivere in pace, solo, senza dar noia a nessuno: ma tutti sentiamo ch'egli cerca i mezzi per meglio ingannarci e che il suo viaggio sarà ben più lungo e più triste. E intanto mi parlano di nozze…»

La mamma se la vedeva spesso comparire in camera, di notte, pallida e agitata perchè diceva di aver udito un colpo nell'aria dalla parte di Villa Serena. Le prime volte che aveva tentato di varcare il cancello della villa dopo il suo incontro con Ezio, s'era sentita respingere da una forza invisibile. Il suo cuore era diventato un garbuglio di sentimenti, di desideri, di paure, di sgomenti, in cui non sapeva raccapezzarsi. Una specie di ripugnanza fisica urtava collo spirito avventuroso del suo carattere. Temeva di essere avara o crudele con un poverino così disgraziato, ma non vedeva in qual modo avrebbe potuto essere pietosa. Ora l'idea del suo matrimonio con Cresti le si presentava come un grottesco assurdo, ora rifugiavasi in questo destino con un senso di sollievo, cedendo volentieri al dovere, come chi approda su uno scoglio che salva da un naufragio.

Una mattina la zia Vincenzina le mandò a dire che aveva bisogno di parlarle. Venisse subito per una comunicazione urgente, ma non dicesse nulla per ora alla mamma.

Il giorno prima Ezio s'era fatto condurre dai barcaiuoli a Lezzeno in cerca di un vecchio notaio Morelli, che aveva goduto la fiducia del babbo, ed aveva avuto con lui un lungo colloquio.

Ora il notaio scriveva con riservatezza, per avvertire la signora Bagliani, che il giovine aveva dettato un vero testamento, come se fosse alla vigilia della morte. All'Istituto dei ciechi poveri di campagna aveva lasciato il grosso della sua sostanza, cioè le rendite del suo fondo di Brentana: una somma era destinata per la pubblicazione delle memorie di suo padre: venti mila lire come regalo di nozze a Flora Polony, oltre a molti altri ricordi e regali a parenti e ad amici.

Il buon notaio sentiva il dovere di rompere in questo caso i suggelli della circospezione professionale, perchè gli era parso di comprendere che il disgraziato giovine meditasse un sinistro proposito. Vedessero i parenti quel che si poteva fare per salvarlo.

La zia Vincenzina prima ancora di parlarne a Massimo e a Cresti, seguendo un segreto istinto del cuore, aveva voluto discorrerne a Flora, in cui sentiva una naturale alleata.

La fanciulla giunse alla Villa verso lo due, e dal vialetto dei carpini fece seguo alla Bernarda che corse ad avvertire la signora. La zia disceso subito e risalendo colla fanciulla il giardino, le diede a leggere la lettera del notaio e si consigliò con segreta ansietà su quel che si doveva fare.

Flora lesse e impallidì: però dopo un istante, senza smarrirsi, riprese:—Lasciami questa lettera, zia, gli parlerò io. Sì, sì, gli devo parlare. Non si può abbandonare un'anima che soffre. Non c'è nulla che vale più d'un'anima. Dov'è? andiamo subito da lui: forse ho già tardato troppo.—

* * * * *

Parlava ora con una calda animazione, senza tremiti, senza lacrime.

Il suo volto si era rianimato come sotto il riflesso d'una fiamma interiore, che fosse balzata all'improvviso dal suo cuore coperto di cenere, ma non spento. Dopo aver tentennato un pezzo tra oscuri viottoli, le pareva di vedere finalmente aprirsi una strada luminosa davanti a sè, la strada diritta che menava alla mèta, la sua strada, insomma!

—Non dirgli che ti ho parlato—soggiunse la zia Vincenzina—ma fingi d'essere venuta qui da te, a caso. Eccolo che esce ora in compagnia di suo zio. Va loro incontro e procura di scoprire i suoi pensieri. Noi vi raggiungeremo poi: oh si, dobbiamo combattere tutt'insieme questa grande battaglia. Va, e che la Madonna ci aiuti tutti, cara la mia figliuola!—

Flora andò incontro ai due che scendevano lentamente per il viale della darsena. Quando fu loro vicina cinque passi, fece un segno colla mano allo zio Massimo perchè tacesse e sentì Ezio che diceva;—No, no, miei cari. Io non voglio essere di carico a nessuno; la mia disgrazia non dev'essere la disgrazia di tutti. Per quanto non dubiti del vostro affetto e del vostro coraggio, penso che laggiù a Brentana, lontano dal mondo, mi sarà meno difficile rassegnarmi al mio destino.—

Il volto del giovine parve a Flora molto dimagrato. La barba bruna, che aveva dovuto lasciar crescere, faceva comparire ancor più pallida la tinta del suo viso, che nelle linee acute e corrette del profilo aveva un non so che di freddo e di marmoreo sotto la cornice nera d'un berretto d'astracan alla Russa, che gli copriva il capo e parte della lunga cicatrice.

L'immobilità degli occhi, oltre a dare a tutta l'espressione di quel viso affilato una rigidezza statuaria, versava sulla fisionomia, un dì così luminosa ed aperta, quasi un velo di triste oscurità. La voce già così balda e dominatrice, risonava come depressa in una lenta estenuazione piena di lacrime segrete e di rancori, che si manifestavano in bruschi scatti di tutta la persona e nel modo con cui agitava davanti a sè il bastone che gli serviva di guida. Vinto, prigioniero, incatenato nella sua sventura, il vincitore di ieri trascinava non umilmente la sua miseria: e non era difficile scorgere ch'egli pensava di procacciarsi una suprema rivincita, quasi quasi una vendetta, nell'estremo castigo che andava segretamente preparando a sè stesso.

—Ecco quà la nostra Flora—disse lo zio Massimo, quando la fanciulla con un gesto del capo ebbe acconsentito.

—Flora?—esclamò Ezio con una dolente cantilena—beato chi la può vedere! Credevo che mi aveste dimenticato voi altre del Castelletto. Anche Cresti non si vede quasi mai.

—Si teme di disturbare—mormorò la fanciulla.

—Vado a vedere se è arrivata la posta—interruppe lo zio, obbedendo ad un richiamo che donna Vincenzina gli fece da lontano.

* * * * *

Quando i due giovani sentirono di essere soli caddero e si indugiarono in un pensiero oscuro, che avvolse come una nube tutta la loro vita. Il silenzio che ne seguì parve a entrambi più pesante della pietra d'un sepolcro. Ezio sentì la necessità di uscirne per compassione di tutt'e due, per rispetto a sè e anche per quel senso orgoglioso di ribellione che non era ancor morto in lui e su cui andava facendo gli ultimi conti.

—Stanotte credo di aver avuta un po' di febbre e sento volentieri il caldo del sole—Riprese a dire, mentre sedeva sul muricciuolo di sponda, voltando le spalle ai raggi. Flora gli si fermò accanto, in piedi.

—Stavo dicendo a questo sant'uomo di mio zio che mi pare arrivato il momento di sistemare la nostra reciproca situazione. Oramai ho perduta ogni speranza ch'io possa ricuperare i miei occhi di prima. Se fosse, come volevan farmi credere, un fenomeno di debolezza nervosa, a quest'ora dovrei provare qualche miglioramento, mentre invece mi pare di scendere sempre più in un sotterraneo. È un po' dura, ve', Flora, ma è così…—E vinta anche questa amarezza, continuò, con una voce più rinvigorita:—Dunque ho pensato di farmi portare a Brentana.

—Fin laggiù?

—Per me ormai laggiù o quassù è lo stesso. Laggiù sentirò a cantare le rane.

—In quella tristezza? qui c'è chi ti vuol bene.

—Lo so; ma non posso pretendere che altri si sacrifichi per me. La mia madrina mi vuol bene, certo: e ora c'è anche questo sant'uomo dello zio Massimo, che si offre di stare con me: ma io non devo dimenticare che l'una ha già sacrificato alla mia casa forse più di quanto è giusto che una donna sacrifichi al suo dovere: e l'altro… non è alla sua età e con qualche vizio di cuore che si possono cambiare gusti e consuetudini…—E dopo aver fatto di nuovo un piccolo sforzo sopra sè stesso, come se saltasse una dolorosa idea intermedia, uscì a chiedere:—E il vostro matrimonio quando si fa? Sono un po' in collera con Cresti e un poco anche con te, Flora, perchè ho saputo di questo vostro matrimonio quasi per caso dalla Bernarda…—

Flora, saltando anch'essa con supremo sforzo alcune idee intermedie, troncò il discorso tedioso, uscendo a chiedere:—Non ti pare che qui l'aria sia troppo forte?—

Il vento di sud cominciava a muovere lo acque del lago, che luccicavano in infinite piccole increspature e a fremere nelle foglie degli antichi platani.

—Forse hai ragione. Dove siamo? Quando mi distraggo perdo facilmente la trebisonda del giardino, Dà il braccio a questo pover'orbetto.—

Flora stese la mano e strinse quella del giovine ancora irrigidita da un resto di febbre.

—Tu hai freddo—essa balbettò.

—Sempre, dacchè non vedo più il sole—rispose, appoggiandosi col peso alquanto inerte del corpo al braccio della fanciulla.

—O Ezio, tu devi aver molto coraggio…—prese a dire Flora carezzevolmente.

—Perchè? per chi? Flora?—chiese egli soffermandosi.

—Per te, per i tuoi, per noi tutti…

—So che mi volevi bene, povera Flora—si abbandonò a dire imprudentemente l'infermo, lasciandosi prendere e trascinare dall'onda di quella soave compassione ch'era venuto a cercarlo.—Mi hai perdonato, Flora, il male che ti ho fatto? Io non avrei attirato sopra di me e sopra di noi questo castigo, se avessi ascoltato i buoni suggerimenti del cuore.

—Non pensare al passato e a quel che non si può più fare—disse la fanciulla con animo sostenuto, persuasa di essere in quel momento quasi la voce di Dio:—Tu devi vivere, Ezio, non per ricordare quel che è scomparso, ma per quel che puoi fare ancora di bene: e nel bene che farai a te e agli altri troverai la forza di sopportare il male. Non devi credere di aver perduto tutto, fin che ti resta un cuore che ti vuol bene: e noi siam qui tutti intorno a te non di altro occupati che di volerti bene e di aiutarti a sopportare questa sventura. Quanto potrai vedere attraverso al nostro amore, lo vedrai come prima, forse più bello di prima. La luce non è soltanto negli occhi: anzi quella che viene dall'amore delle anime è forse più chiara. Noi ti aiuteremo a ricordare, a sperare, a credere. Non lasceremo spegnere le immagini della tua giovinezza, che invecchieranno meno presto per te che per noi, perchè tu le conserverai come un tesoro riposto e non le dissiperai in cose nuove. Qui conosci il paese: sai da dove spunta il sole e dove tramonta: conosci le piante e i fiori che ti circondano e ad ogni primavera sentirai nel profumo degli alberi ringiovanire la terra, rinverdire le siepi, rinnovarsi il piacere di vivere. E intanto noi ti leggeremo i libri più belli, ripiglieremo il nostro Beethoven in cui si può vedere tutto quello che si vuole: insomma tu vivrai di noi, qui, al Castelletto, al Pioppino, pigliando di noi soltanto quello che è più caro. E se sentiremo che ci sono altri infelici nel mondo, chi ti vieterà di ritrovare in essi la tua famiglia? Ma perchè ciò si possa fare, Ezio, è necessario che tu non ci nasconda nulla. Chi nasconde i suoi dolori comincia a disperare. Noi abbiamo troppi motivi per credere che tu c'inganni e stai preparandoci un tradimento. Ebbene, no, Ezio: tu non devi morire.

—Che cosa è il morire davanti a questo soffrire?

—No, Ezio, tu non devi morire per rispetto al tuo stesso dolore, che è più alto e più santo d'ogni rancore. L'anima è più forte della morte….

—Ma io, cara Flora, non ho più nulla a leggere in questo libro stracciato della mia vita.

—Ma puoi scrivere pagine nuove. Tu non puoi dire che la tua vita non valga nulla fin che non ne hai afferrato il significato ultimo; e meno ancora puoi dire che nulla valga la vita di là, se non hai finito di leggere questa, che comincia non quando si nasce, ma quando nasce la coscienza. Hai tu mai avuto tempo di pensare a queste cose, mentre ti divertivi e cercavi di affogare la coscienza nelle distrazioni? Forse è Dio che ha bisogno di te, Ezio, che non ha voluto perdere quel che tu gli devi e gli puoi dare: e se Dio ti vuole, inutilmente cerchi di sfuggirgli. Resta, resta dunque con noi a studiare e ad imparare tutto quello che è bello e utile di sapere: la morte verrà da sè naturalmente, a suo tempo, buona e pietosa come un sacro epilogo della nostra esperienza….

—Flora, chi ti mette in bocca queste parole?—esclamò il giovine infelice, arrestandosi e aggrappandosi più forte al braccio della fanciulla. Essa pure si scosse un poco meravigliata nell'inseguire l'eco di parole che non aveva mai nè pensate nè preparate. Chi aveva parlato in lei?

—Può essere che parli in te qualcuno a cui bisogna obbedire: ma nella morte dev'essere una gran pace, Flora.

—Ma tu lasceresti indietro un'inquietudine eterna. Tu non puoi uccidere in te tutti quelli che ti amano.—

Il tremito lagrimoso con cui Flora pronunciò queste parole disse a Ezio ch'egli non poteva morire senza ferir mortalmente anche il cuore di chi s'era fatto di lui un idolo. Egoista nel piacere, si accorse di non esserlo meno nel suo dolore: ma non volendo arrendersi tutto ad un tratto e confessare il suo torto, cercò ne' suoi stessi mali la sua giustificazione:—Ah tu non sai che significhi avere sulle spalle una testa chiusa e pesante come una palla di bronzo. Senti com'è fredda questa testa senza luce….—

Flora prese nella mani la testa che il giovine le porse e la strinse a lungo come se volesse col lungo contatto far entrare un poco di calore della sua anima. Vedendo che quasi stava per perdere i sensi, lo sorresse sotto il braccio e lo menò a sedere dietro una fitta siepe di sabine dov'erano alcuni sedili in un spazio erboso. Qui s'inginocchiò sull'erba e tratto il fazzoletto asciugò le piccole stille di sudore freddo che gli imperlavano la fronte e le lagrime che stillavano dagli occhi spenti, come se in essi si riaprisse una nuova fonte di commozione.

Rimasero così un gran pezzo in silenzio, nel segreto di quell'ombra in cui il vento che fuggiva tra gli alberi recava il profumo dei fiori misto all'umido odor del lago che ciangottava contro la ghiaia della riva vicina. Egli avrebbe voluto dire molte cose: ma una stretta convulsa gli serrava la voce nel petto pieno di dolori nervosi. Tremava tutto, agitando le mani sottili e bianche con cui cercava d'invocare pietà e compatimento. Eran troppe le cose che avrebbe voluto dire e più ancora quello che non avrebbe saputo dire e che sgorgavano nuove e impetuose dall'inesplorato fondo della sua coscienza.

Una volta la mano cadde sulla testa di Flora e vi si fermò nel fitto e caldo volume dei capelli.—O Flora, o mia povera Flora, che bene che mi fai. Tu mi scaldi la mano e il cuore. Resta, resta, tu sei il mio sole… Non ti ho mai veduta così bene come ti vedo ora. Come sei bella, Flora!

—Mi giuri che non ti farai del male?

—Sì per te, soltanto per te, lo giuro, Flora.

VII.

Verso la luce.

Una sera donna Vincenzina, sentendosi dei brividi nelle ossa, andò a letto più presto del solito. La notte i brividi divennero febbre, che crebbe sul mattino forte e ardente. Le sensazioni troppo violente dei giorni passati dovevano avere il loro contraccolpo nel suo temperamento non abituato alle fiere battaglie della vita.

Il dottore, chiamato d'urgenza, giudicò il caso non gravissimo; ma avvertì di stare in guardia contro i pericoli di una febbre infettiva.

Due giorni dopo si dichiarò il tifo, con tutti i suoi sintomi di coma e di delirio.

Non essendovi a Villa Serena una donna giovine che potesse assistere la malata, nè potendosi far molto conto sopra la povera Matilde e meno sulla vecchia Bernarda, Flora trovò che il suo posto era accanto al letto della zia, e nessuno osò contrastarla.. Per tre settimane, quanto durò il primo periodo del male, quasi non si tolse il vestito da dosso, ritrovando nella sua energia, non solo la forza di assistere la inferma ma anche quella di far andare la casa in modo che ognuno avesse il suo posto e il suo da fare. Massimo restò fin che gli parve di non essere d'impedimento: e fu un bene, perchè intorno a lui si raccolsero gli altri come intorno a un capo di famiglia.

In quest'improvviso sconcerto, nell'apprensione comune, Ezio dimenticò alquanto sè stesso e cercò di farsi dimenticare. E nell'alternativa di bene e di male, di speranze e di timori, che formavano la vita di quelle dolorose settimane, seguì un tempo di tregua salutare per lui e per tutti gli altri. Lo stesso Cresti che veniva sempre a chiedere notizie della malata non osava pensare alla sua felicità.

Per non essere d'imbarazzo Ezio usciva spesso a passeggiare solo per le stradine a lui note, ora verso la chiesa dove s'incontrava spesso coll'arciprete, ora verso il cimitero dov'erano sepolti i suoi cari, un cimitero romito e tranquillo in mezzo alle vigne; e vi restava volentieri seduto all'ombra del muricciuolo a leggere sè stesso.

Intorno a lui ronzavano i mosconi nel caldo odore dell'erba tagliata e messa a seccare. Frulli d'ala, cinguettii di passeri vagabondi e i colpi spessi delle coti sulle falci, portati dal vento e mescolati alle voci erranti del villaggio, gli facevano intorno un piccolo mondo, in cui sentiva mescolarsi la vita alla morte.

Poco lontano, colle teste quasi appoggiate al muricciuolo, ov'egli sedeva, dormivano suo padre e sua madre. Per poco ch'egli discendesse coll'occhio dell'anima sotto le zolle fiorite, ne rivedeva le care spoglie composte nell'eterno silenzio, immagini evidenti come non eran tornate mai davanti al suo occhio vivo, quando altre forze lo trascinavano ad altri pensieri. Ora fatto più chiaroveggente e più penetrante il suo spirito non si arrestava più alla superficie delle cose, ma come se una mano potente levasse il muro che separa il regno dei vivi da quello dei morti, vedeva allargarsi lo spazio in cui si muovono le cose.

Siam noi che ci sforziamo di alzare una barriera tra i vivi ed i morti; ma veramente la natura non sa dove gli uni finiscano e dove incominciano gli altri. Le cose vanno in una seguìta continuità trascinate dall'intimo spirito che le penetra, mormorando tra loro in un pensiero solo che le raccoglie, sommessa armonia che sfugge a chi ha l'orecchio pieno di frastuoni mondani, ma che le anime raccolte sentono passare insieme alle mille cose che scendono nel tempo. La morte non è che un principio. Essa è buona quando arriva a tempo come è buono il cadere d'un frutto maturo, da cui scendono alla terra nuovi semi: ma non tocca al tronco dell'albero scuotere da sè i suoi frutti.

Colui che aveva meditato il suicidio come la fine d'un triste viaggio, sentiva ora che il fiume scorre anche nelle tenebre verso un fine profondo che può essere anche un ritorno.

Ezio seduto all'ombra di quel muricciuolo cercava di richiamare coll'aiuto delle memorie il passato nel presente per rivivere le ore che aveva sbadatamente buttato via, ciascuna delle quali aveva dovuto contenere un sapore non gustato, un valore non apprezzato a tempo, scaduto per sempre, come quello delle vecchie monete che il contadino scopre in un angolo del suo campicello. L'avvenire non paga gl'interessi della vita se non a chi ha saputo ben impiegare il capitale del suo passato: ma può concedere un largo credito a una onesta speranza.

Vivere in una buona speranza è il miglior modo per consolidare l'avvenire nel presente, di dar consistenza al tempo che fugge, di far della vita l'espressione di qualche cosa.

Il cieco non sapeva capire che cosa fosse questa nuova speranza che veniva a sorreggerlo nel momento in cui tutte le forze stavano per abbandonarlo: non capiva nemmeno da dove venisse; ma ne sentiva il caldo raggio intorno al cuore come intorno al capo quello del sole ch'egli non poteva vedere.

Intanto non pensava più a morire,

—Non potresti uccidere in te, tutti quelli che ti amano—aveva detto Flora con ragione. Sì, triste è sopravvivere nel cuore altrui come un triste fantasma. La vita che viviamo in noi è troppo poca cosa in paragone a quella che ci lega agli altri. L'anello non si può strappare senza che tutta una catena di cuori si spezzi. E allora cercar la pace nella morte è un cercar il vantaggio suo nel castigo altrui, qualche cosa di più crudele e nel tempo stesso di più vile che il vivere a spese delle lagrime de' tuoi simili.

La morte che vien da Dio è invece cosa matura e buona, e nessuno dorme così bene come chi dorme benedetto nel cuore d'un fratello.

Flora aveva ragione. A lui pareva già di riposare in questa soave benevolenza piena di carità in cui avevano raccolta una povera anima ferita i suoi parenti, i suoi amici, i servi stessi della casa e le persone in mezzo a cui sentiva di passare, quando andava per le strade del paese. La povera madrina s'era ammalata di dolore, il buon zio Massimo non aveva voluto lasciar la sua casa: perfino quel piccolo uomo di Andreino aveva saputo compiere per lui meravigliosi atti di sacrificio e di coraggio: il Bersi, il buon Cresti…. tutti avevano avuto uno slancio di cuore per salvarlo dal naufragio. E Flora? che dire di questa tenera creatura, di quest'antica compagna della sua infanzia, che gli era venuta incontro nel momento più doloroso, quasi per impedire ch'egli cadesse affranto dai mali, e l'aveva rigenerato nel lavacro ardente di tutte le sue lagrime?

Da troppe parti ora si sentiva assediato e stretto perchè potesse ancora pensare a fuggire. Per tradire tante anime buone gli sarebbe abbisognata una forza ch'egli non possedeva più. Il vecchio egoista si sentiva un Sansone avvilito e disarmato.

* * * * *

Fuori della cinta del giardino continuava a salire nell'erta del monte una strada a scalinata che passando nell'ombra degli ulivi menava a una spianata molto verde e aperta dove spiegavasi la gran luce del cielo e del lago. Qui era anche una piccola grotta naturale rivestita di molte erbe e per la frescura del sito erano stati collocati alcuni sedili che invitavano a restare. Ezio imparò a contare i gradini che menavano fin lassù e una volta arrivato si compiaceva di rimanere a «contemplare» la larga distesa azzurra che dilagava davanti.

Non la vedeva propriamente con gli occhi, ma ne sentiva l'immensità in un non so che di più libero e di più arioso che circondava la sua persona.

Nella freschezza del vento sentiva un refrigerio anche al suo patimento col quale andava a poco a poco familiarizzandosi: e stupiva qualche volta di non sentirsi più così fieramente infelice. Si può amare il proprio dolore? può un'anima stanca riposare nel suo patimento come un viandante affranto dalle fatiche del viaggio trova riposo e sonno sopra un mucchio di spine? può fiorire il dolore come in mezzo alle nevi sboccia un cespuglietto di ellebori? doveva egli credere a una grazia invocata e intervenuta dall'alto o ritenere che nella vita e la fonte inesauribile di tutte le forze sempre fresche e sempre in moto come il mare?

Qualche volta portava lassù il violino che Flora aveva cavato dal polveroso astuccio e messogli nelle mani e si compiaceva di ritrovare le note dei vecchi esercizi sulle corde, evocando nell'oscura memoria frammenti di frasi melodiche che trovavano nel vecchio strumento un obbediente interprete. In breve, nella raccolta tensione del suo spirito, scoprì che le dita e l'archetto andavano agevolmente da sè in cerca di armonie nuove, di accenti sconosciuti, di voci che egli non aveva mai udito uscire dal cavo legno del suo strumento, quali forse non erano mai state scritte in nessun rigo di musica. Meravigliato inseguiva quelle note e quei gemiti in cui esalava il suo patimento e che avevano la virtù di farlo piangere.

Flora lo sorprese una volta in questa attitudine di ispirata mestizia.

—Tu ti fai bravo—gli disse.

—È sorprendente, Flora. Io comincio ora soltanto a capire che cosa è la musica. Ho sempre creduto che la musica fosse quella scritta sulla carta e mi accorgo invece che l'abbiamo in noi. Con un po' più di pratica meccanica spero di far dire al mio violino delle grandi cose. Capisco come Orfeo movesse le pietre e le piante; è una cosa divina, una cosa che fa quasi paura.

Flora, quando la zia cominciò ad aver meno bisogno di lei, saliva spesso alla grotta per riaccompagnare il cieco in una passeggiata attraverso ai campi, lungo le siepi e intanto raccoglieva un mazzetto di fiori per la sua malata.

Ezio imparò a «vedere i fiori nell'erba». Colla mano leggera toccava la riva erbosa e sceglieva la margherita e il bottone d'oro, il ranuncolo, il timo silvestre, la menta con una delicatezza prodigiosa di tocco.

—E dire che io son sempre stato un grande ignorante in fatto di botanica! e non c'è nulla di più bello di questi fiori naturali che la terra offre per nulla. Mi piacevan tanto quand'ero bambino e che venivo colla povera mamma a passeggiare sui monti. Me li ricordo quei bei fiori di allora… Li vedo tutti come tanti occhi che mi guardano con tenerezza infantile.—

Flora potè accompagnare il povero cieco in passeggiate sempre più lunghe per sentieri diversi nel fitto delle erbe di mano in mano che al venire avanti dell'ottobre anche la stagione si attenuava in una specie di tenera stanchezza.

Il sole entra con minor vampa nella trasparenza della vegetazione più rarefatta, in cui qualche foglia già rosseggiante nel verde accenna a un primo declinare dell'anno. Giornate non troppo lunghe animate da brezzoline settentrionali passano con luminosa freschezza sulle acque del lago, in cui i colori del cielo si smorzano in flutti che sembrano foglie di rose bianche. Le vette dei monti spruzzate dalle prime nevi ricevono al mattino la dipintura rosea del sole che ristora e stanno, se si può dire, quasi a ridere di gioia sotto il velo d'un cielo trasparente e senza fondo. Il rosso carmino delle aurore e dei tramonti urta e si mescola al bel verde smeraldo dei prati innaffiati ogni notte dalle larghe guazze e col grigio dell'acqua che sente già i tremiti paurosi dei venti freddi.

Contemplavano insieme questi spettacoli dagli alti gioghi, ove Ezio amava inerpicarsi o dagli aperti sagrati delle chiesuole sparse pel clivo, dove rimanevano a riposare. Ezio vedeva attraverso alle parole di Flora come dentro a cornici aperte per quella virtù di evocazione che suscita le luminose visioni dell'artista.

Una volta (era verso il tramonto di una giornata serena e mite) sentendo suonare una campanella, si lasciarono condurre dal bisbiglio e dal rumore degli zoccoletti a entrare in una di quelle cineserie che il sole bacia per ultime, mentre le case del villaggio si oscurano nella sera e si avvolgono nel fumo delle cene. Quattro muri chiudono un rozzo altare davanti a cui una povera lampada arde della fede di tanti cuori. La scienza non è mai salita fin lassù, e il dubbio, se mai vi passa stanco e perduto, si arresta volentieri a riposare sulla porta. Entrano le vecchie donne e i coloni che hanno finito di lavorare e quasi di vivere, insieme al rumore delle zoccolette che hanno corso tutto il giorno dietro alle capre: e a quell'unica fiamma d'olio che contrasta coll'ultimo raggio di sole, dietro a una voce che invita seguono le altre a rispondere il rosario in cui di umano e d'intelligibile non c'è che il sentimento che l'ispira. Poi quella stessa voce intona una litania e tutte le altre cantano, nell'ombra crescente, mentre al dondolare della lampada par che escano ombre ed immagini dal rozzo intonaco dei muri.

Ezio quella sera era in vena di cantare e provò a mescolare anche la sua alla voce delle donne e dei ragazzi. Non l'aveva mai fatto in vita sua, nemmeno da bambino le poche volte che la mamma l'aveva condotto in chiesa: più tardi aveva creduto che il cantare in chiesa fosse il teatro dei contadini che mescolano al profumo dell'incenso troppo odore di prossimo selvatico. Ma quella sera i suoi nervi affievoliti furono improvvisamente scossi da una soave pietà per tutte quelle anime che, sprigionandosi dai rozzi corpi, s'armonizzavano in una cantilena che per le finestre aperte usciva a spandersi per il cielo.

Tornarono a casa un po' tardi quel giorno, mentre già usciva qualche stella; e per tutta la strada non si dissero una parola.

* * * * *

Ai primi di ottobre ebbero luogo le fauste nozze di Amedeo e di Regina, alle quali Flora non potè assistere come aveva promesso. A stento trovò un quarto d'ora nella giornata per correre a salutare e baciare all'imbarcadero la sposa, che partiva per un breve viaggio di due giorni fino a Locarno e alla Madonna del Sasso, dove aveva promessa una «divozione». Erano alla riva Bortolo, Maria Giulia, la zia Maddalena, il parente dell'osteria del Gallo, dove s'era celebrato il modesto pranzetto, don Malachia che li aveva benedetti, gli amici barcaiuoli che avevano diviso con Amedeo i trionfi delle regate, le compagne della sposa e una piccola folla di gente del paese, che prendevano parte alla gioia di quei due ragazzi come se fosse la gioia di ciascuno e di tutti. Amedeo vestito di nuovo con una giacchetta di panno nero, su cui spiccava una lunga cravatta celeste, aveva l'aria imbarazzata e confusa di un monello colto sul fatto di una bricconeria, schivava gli occhi degli amici che tentavano di abbracciarlo, e per darsi un'attitudine seguitava a mordere ed accendere un bel sigaro nuovo che gli aveva regalato il signor Cresti in un elegante astuccio di cuoio. Regina in un vestito di pannino grigio su cui il suo bell'oro giallo faceva una stupenda figura con nulla in testa, e per tutto bagaglio uno scialle sul braccio e una valigetta in mano, si lasciava carezzare, baciare e stringere da tutte le donne, da tutte le ragazze che la invidiavano senza rancore. Era un pò pallida per le molte emozioni e per la stanchezza delle ultime giornate, ma gli occhi sereni e aperti lasciavano vedere fino in fondo la sua felicità resa sicura dall'inconsapevolezza e dalla piena fiducia nell'uomo a cui aveva detto di sì.

Nulla sarebbe stato più fuori di luogo e avrebbe fatta una più bella figura barbina di chi fosse venuto a citare a quei due figliuoli un aforisma sulla vanità delle cose e su la tristezza della vita. Oh sapevan ben essi che cosa fosse la vita, meglio di qualunque filosofo! una citazione amara e pessimista non avrebbe potuto intaccare tale felicità più che la punzecchiatura d'una mosca possa intaccare una statua di bronzo. La loro vita era così ben fusa e così ben colata negli affetti naturali che potevano senza timore affrontare le inclemenze dell'aria e le follie delle stagioni sicuri di acquistar nel tempo, che rode le macerie, anche uno smalto di più sicura bellezza. La natura non teme sofismi.

Mentre aspettava il battello che venisse a portarli via, Regina scorse in una lancetta la signorina Flora che fece un segnale col fazzoletto. Ai remi sedeva Ezio, il povero cieco, che destò un bisbiglio di compassione in tutti i presenti. La sposa si sciolse dalle compagne e scese a riva incontro alla contessina, che saltò a terra e se la prese tra le braccia.

Regina ebbe appena il tempo di nascondere la faccia nel seno della buona amica, perchè un improvviso colpo di pianto le schiantò il cuore.

—Taci, non piangere—le sussurrò Flora.—Non farti sentire, non farti vedere a piangere per me, non c'è ragione. Dio c'è per tutti, specialmente per i più infelici. Vedrai che Iddio mi aiuterà e preparerà anche a me qualche compenso. Tu non cessare di pregare per me, per lui… per tutti. Ho bisogno che Egli compia un miracolo e che mantenga in me la fede che muove le montagne, fa vedere i ciechi e camminare i morti. Guai se viene a mancare la fede a chi cammina sui flutti! si precipiterebbe tutti sul fondo. Pregherai?

—Sì, sì, tutte le volte che mi sentirò più contenta—disse Regina, asciugandosi di nascosto le lagrime.

—Grazie. Io godrò di ogni tua ora felice, Regina. Salutami il tuo Amedeo e digli che non ti rubi troppo. Avrò forse ancora molto bisogno di te….

—Anche lei presto, contessina, farà questo passo. Voglio metterle io, in capo, il velo di sposa.

—Chi sa? l'avvenire è nelle mani di Dio: e non le facciamo noi le strade per cui si cammina. Non meravigliarti se le cose andranno per un'altra strada.—

Regina cercò di scoprire negli occhi della contessina il segreto di queste parole: ma un improvviso squillo di cornetta avvertì che il battello era in vista. Le due giovani si baciarono ancora una volta sulle gote e si sciolsero senza poter pronunciare altre parole. Flora entrò nella lancetta che si distaccò lentamente dalla riva, mentre nuovi auguri e nuovi evviva salutavano i due sposi.

* * * * *

L'ottobre a un tratto si volse al piovoso, e, come accade spesso, la stagione precipitò verso l'inverno con giornate tristi e agitate da freddi venti di nord.

Il dottore fece intendere che il rimanere sul lago non poteva essere prudente per donna Vincenzina, che usciva da una grossa battaglia; e consigliò un lungo soggiorno in Riviera, dove anche Ezio avrebbe potuto trovare più conforto nella mitezza del clima.

Massimo approvò questo consiglio e si offerse di essere compagno e guida. La zia Vincenzina mise quasi per condizione che anche Flora l'accompagnasse. Era un premio che la sua infermiera s'era ben meritato; e non avrebbe fatto male manco a lei un mese di riposo dopo si grandi strapazzi. Ma bisognava ottenere l'approvazione del signor Cresti, dell'impaziente fidanzato, che vedevasi offeso nei suoi diritti per ogni minuto sottratto alla sua felicità.

Questa partenza, foss'anche per un mese solo, minacciava di ritardare ancora un matrimonio, che era già andato fin troppo per le lunghe tra mille dolorosi accidenti.

Ma la zia Vincenzina assunse sopra di sè l'incarico di scrivere al signor del Pioppino una bella lettera, a nome anche di Massimo, per implorare la desiderata grazia. Un mese di riposo in Riviera avrebbe restituita una sposa ancor più bella e robusta; e del resto chi impediva il signor Cresti di fare un paio di valigie e di partire anche lui in compagnia?

La zia lesse la lettera a Flora che s'incaricò di farla recapitare; e seguendo un suo segreto pensiero, colse questo pretesto per andare essa stessa in cerca del suo padrone e fidanzato, lassù al Pioppino.

VIII.

Verso le tenebre.

Pioveva a dirotto quando Cresti la vide venire per il viale delle mortelle sotto un piccolo ombrello, che riparava a stento la testa, colle gonnelle raccolte sui fianchi per difenderle contro i colpi di vento.

A tutta prima stentò a riconoscerla: poi disse correndole incontro:—Flora? al Pioppino con questo tempo?

—Proprio io. Mi son fidata un po' troppo del tempo e l'acquazzone mi ha colta a mezza via: ma d'altra parte non potevo tardare—soggiunse correndo a ripararsi sotto il portichetto, dove depose in un cantuccio l'ombrello grondante e scosse la pioggia dalle vesti.

—Entriamo in casa dove faremo una fiammata. Ma che idea con questo tempo?

—Avevo urgente bisogno di parlarle, Cresti.

—Sarei venuto io stesso abbasso.

—No, ho bisogno di parlarle qui, in casa sua, senza testimoni.

—O diavolo, un affar diplomatico—soggiunse lo sposo, offrendole il braccio e guidandola verso il salotto. Quando furon nell'andito, abbassando un poco la voce, riprese in tono carezzevole:—Non si era rimasti d'accordo di trattarci un po' più in confidenza? che cos'è questo lei, che imbroglia tanto tutt'e due?—

Flora rispose con un moto del capo e con un freddo sorriso: ma Cresti capì che per quanto cercasse di farsi forza, la fanciulla aveva lo spirito agitato.

Il fuoco fu presto acceso. Cresti accostò una poltrona e invitò la fanciulla ad asciugarsi i piedi. Flora si levò il cappello e accomodò un poco colle mani la testa scomposta.

—Dunque a che cosa devo attribuire questa visita straordinaria?

—Ora dirò. Ma prima mi dia la sua mano, me la dia da vecchio amico e mi prometta di essere buono.

—Quando fui cattivo con…. lei, signorina?—mormorò egli, piegando un poco la testa per cercare uno sguardo d'incoraggiamento: ma Flora guardava fissa nel fuoco.

—È forse necessario chiudere anche la porta?—chiese di lì a poco il padrone di casa, dopo aver ordinato all'Angiolina un caffè molto caldo.

—Non avremo bisogno di leticare.

—È però un grande discorso, da quel che vedo.

—Sì, grande. Avrei potuto scrivere, ma ho detto: «No, è meglio che vada io stessa e che gli parli.» La mamma non sa che son qui e non mi approverebbe se potesse indovinare perchè son venuta.—Flora lottò ancora un istante contro l'affanno che l'opprimeva, poi soggiunse:

—Ho una lettera della zia Vincenzina per lei, Cresti: veda—e gliela porse.

—Donna Vincenzina? in che cosa posso servirla?—E fattosi più presso la finestra per aver più luce, scorse lentamente i pochi periodi con cui si faceva appello alla sua indulgenza.

—Sta bene l'idea d'un soggiorno in Riviera; certamente farà bene a tutti. Sicuro che si rimanda ancora alle calende greche il nostro matrimonio, ma non vorrei aver l'aria di un tiranno. Che cosa pensa la mamma di questo progetto?

—Povera mamma! sento che io sono una cattiva figliuola per lei, come sono una cattiva amica per il mio buon Cresti, e una cattiva compagna per me stessa.

—Qualche volta sì—approvò con una punta di canzonatura il romito del Pioppino.—Ma veniamo al nostro caso. Per quanto il rimandare di qualche mese ancora quel che dovrebbe essere già fatto mi pesi un poco, tuttavia, per non dir di no alla zia, ci si potrebbe intendere.

Il Ravellino non è ancor pronto; ma sentiamo: ottobre, novembre…. bastano?—

Cresti tenne alzate le due dita aperte, agitandole nell'aria, poi riprese:—Possiamo far i conti almeno per la Madonna di dicembre?

—Non so!—rispose faticosamente la sposina senza togliere gli occhi dalla fiamma.

—Io non voglio, nè saprei essere un tiranno: ma ho pur bisogno di far i miei conti. Non parlo, s'intende, de' miei diritti e delle mie legittime impazienze; ma via, se la Riviera deve far bene anche a noi, giorno più giorno meno, non è quel che conta. Che cosa dice la mamma?

—Non sa nulla—rispose con tono asciutto e pauroso la signorina. Il segreto pensiero che l'aveva condotta a questo colloquio s'irrigidì quasi visibilmente nei tratti del suo volto pallido e stanco.

—Cioè…. intendiamoci—balbettò il pover'uomo che cominciava a non capire.—Questo viaggio sarebbe per caso un pretesto per… per…—

Flora si coprì gli occhi colla mano, in cui raccolse tutte le rughe della sua fronte dolente.

Cresti credette questa volta di capir troppo e s'impaurì. Che diavolo voleva dire questo improvviso scoraggiamento, questo parlar sibillino? Si smarrì, barcollò sulla sedia, si alzò, mosse un poco le mani in aria e chiese soffrendo:—Che c'è? non capisco… cioè temo di capir troppo. O Dio, Flora, m'inganno o è dunque vero, è dunque vero quel che io temo da un pezzo?

—Noi dobbiamo essere sinceri, Cresti: sì, noi dobbiamo essere forti e sinceri—ripigliò la signorina del Castelletto rianimandosi, alzandosi essa pure come per darsi quella forza di cui aveva bisogno.—Io non posso ingannare, nè Cresti vuol essere ingannato. Oggi sono troppo necessaria a quella povera gente, perchè possa pensare di abbandonarla.

—Io… non dico che si abbia ad abbandonare nessuno—balbettò il poverino—ma chiedo solo se Flora è venuta a portarmi la morte.

—Cresti, mio buon Cresti!—proruppe con un vivo abbandono di cuore la fanciulla, afferrando la mano inerte del povero amico, che si era oscurato tutto e quasi rattrappito nel suo tetro dolore.

—Oggi le cose son tutte mutate. Una grande disgrazia, un grande castigo ha colpito quel poverino. Dio non vuole che io l'abbandoni. Il mio posto è accanto a lui. Era scritto che io doveva essere per lui qualche cosa. Non potendo essere altro, sarò la sua infermiera, la sua guida. Devo vivere per aiutare lui a vivere: devo volere e vedere per lui: devo accompagnarlo fin dove Dio vorrà, per quella strada che Dio vorrà, consacrandomi a lui, tutta a lui che non vedrà più la luce del sole. Sento che l'anima sua è nella mia mano.—

La voce di Flora dapprima esitante s'era andata via via rinfrancando con un calore di convinzione che non poteva non ferire il suo timido amico. Dopo aver cercato invano due o tre volte di sorridere alle nobili declamazioni della signorina e a quel gesto con cui faceva vedere di stringere un'anima in pugno, uscì finalmente a dire con un tono tra l'amaro e il beffardo:

—Dio, già, già: è così comodo questo benedetto Iddio che è peccato non credergli…

—Egli parla attraverso il nostro cuore.

—Come in un fonografo… Eh via, è una commedia!—aggiunse con asprezza quel pover'uomo oltraggiato.—Ho diritto anch'io a qualche rispetto.—

Flora sentì alla sua volta il colpo degli oltraggi ch'egli le gettava in viso e si lasciò cadere sulla sedia.

Seguì un minuto di silenzio gelido, duro, pieno di oscure tristezze, durante il quale si fece sentire la pioggia battere contro ai vetri.

Fu ancora essa la prima a uscirne. L'uomo si sentiva così irrigidito nel male, che temeva quasi di dover spezzarsi e cadere in frantumi al minimo sforzo che avesse fatto per parlare. L'unica idea che gli andava al capo investendolo come una fiamma era quella che aveva già espresso colle parole: «Ho diritto anch'io a qualche rispetto…» Ma dai denti non usciva che un sibilo morto.

—C'è qualche cosa che è sempre più forte di noi, amico Cresti: e se il nome di Dio la offende in questo momento, ebbene la chiami pure fatalità: ma preferisco essere disprezzata e odiata piuttosto che avvilirmi ad ingannare la bontà d'un uomo giusto. Questa confessione non deve offenderla, Cresti, perchè ella sa che non è storia di ieri. Siam cresciuti quasi insieme, come fratello e sorella, Ezio ed io: insieme è cresciuta in me quell'affezione che ora si fa prepotentemente sentire e ch'è più forte di me e delle mie promesse. Avevo potuto rinunciare a lui quand'era superbo e felice: non posso abbandonarlo ora che è così misero. Amo il suo dolore. Io non ho cercato questi avvenimenti; lo sa: ero quasi superba d'aver rinunciato a lui; ma la fatalità fu più forte di noi tutti. Oggi quella pover'anima ha così bisogno di me che io non potrei essere d'altri senza rimorso e senza raccapriccio. È illogico? ebbene il mio buon Cresti non potrà accusarmi di egoismo e di grettezza di cuore. Sento tutto il male che faccio al mio vecchio amico: sento che non potrei in un modo peggiore ricompensare la sua devozione, il suo affetto: sento che per poco lo rendo il giuoco della mia volubilità: ma qui davanti a lui, nella sua casa, io non devo ragioni ad altri che a lui e non voglio essere quel che non sono.

Egli mi deve giudicare perchè appartengo più a lui che a me, ed egli conosce la storia del mio cuore più di quanto la conosco io stessa. So tutto il bene che perdo e non so a quale destino di miseri dolori mi consacro: ma oggi non posso abbandonarlo, no, senza esporre la sua anima debole e vacillante ai pericoli d'una nera disperazione. Dio mi ha messa nella mano un'anima e non posso allargare la mano. Un mio amico protettore mi offre amore, ricchezza, agiatezza, pace con decoro, per sempre: questo povero cieco non mi può offrire che tristezze. Per Cresti potevo essere più che una sorella, sarei stata una regina. Per Ezio… che cosa potrò essere? non so, non oso cercare. Non sarà Dio che parla attraverso al cuore, ma sento che una forza invincibile mi chiama a compiere questo dovere.

—Dovere?—mormorò con ironica meraviglia—non storpiamo i nomi più sacri.

—Il mio posto…

—E nell'assurdo.

—No, Cresti: nella sincerità.—

Era un'aspra sentenza in una dolce parola che veniva a cadergli sul capo. Illogico, assurdo o mostruoso, che valeva ormai contrastare a ciò che fatalmente era andato tanto avanti? Sincerità voleva dire partita perduta. Del resto, se tornava indietro col pensiero, quel che la signorina del Castelletto era venuta a dire non era interamente ignoto a lui che per molti anni aveva assistito al lungo e silenzioso aspettare di quell'amore. Più d'una volta aveva preso parte egli stesso ai dubbiosi dibattiti di quel cuore e aveva sofferto delle ingiurie che gli erano state fatte: ora non vedeva che avverarsi in un atto per lui mollificante, ma non imprevisto, le mille apprensioni, i mille oscuri sospetti, le segrete paure e le gelosie del suo stesso amore. Era dunque fatale che ciò avvenisse.

—E la mamma che dirà?—provò a chiedere.

Il colloquio fu interrotto dall'entrare di Angiolina che portava il caffè. Il padrone tolse di mano alla donna il servizio e colla minuzia dell'uomo ordinato e casalingo versò egli stesso il caffè e porse la chicchera alla signorina.

—Sediamoci, Flora—riprese a dire poco dopo sottovoce, mentre rimestava col cucchiaino nella sua chicchera.—Sediamo e lasciamo riposare un momento il cuore. Posso dire di avere sempre temuto questo istante doloroso, quantunque l'avessi più temuto che preveduto. Può essere che domani mi sembri la cosa più naturale del mondo e che l'assurdo sia io: e dovrà essere così, perchè non per nulla un uomo come son io ha potuto vegetare fin quasi a quarant'anni in una vita solitaria, scontrosa, senza scopo e senza corrispondenza di spirito. Io son stato assurdo quel dì che ho potuto credermi degno di qualche considerazione.

—Non dica questo—cercò di protestare Flora che sentiva lo strazio di quelle parole.—La nostra riconoscenza…

—Oh, la vostra riconoscenza non mi potrà mancare, lo so: anzi farete di tutto per pagarmela in lire soldi e quattrini.

—No, no, Cresti.

—Sì, sì, non vi mancheranno i mezzi per pagarmi e ve ne dovrò rilasciare ampia ricevuta, perchè non abbiate ad averne il più piccolo scrupolo. Così sarà fatta la volontà di Dio.—

La voce dell'uomo ferito rantolò, l'occhio addolorato si accese di una tenue fiamma d'orgoglio. Egli si mosse di nuovo come se scattasse da irti aculei, girò per la stanza lottando con tutto sè stesso, portando ora una mano ora l'altra alla bocca quasi per voglia di mordere, finchè voltando le spalle alla signorina Polony si fermò davanti ai vetri di una finestra vibrando in tutti i muscoli del suo piccolo corpo robusto, reso quasi cieco da un velo di lagrime morte che non sapeva più trattenere.

Flora ebbe pietà di quel gran dolore: ma non avendo più parole per consolarlo, nascose la testa fra le mani e stette così piangente in un'attitudine di umile colpevole.

Durante questo nuovo silenzio si sentì ancora la pioggia cruda battere contro i vetri e fremere sulle depresse foglie del giardino.

Le case a riva parevano agli occhi del povero Cresti sprofondate in una oscura lontananza, il cielo basso e ristretto, le cose tutte chiuse in una grigia tristezza.

E una grigia tristezza pioveva nel suo cuore. Qualche cosa di vitale si accorse che cominciava a venir meno in lui. Qualcuno già piangeva sul povero Cresti che una forza brutale trascinava a morire nel ridicolo e nell'umiliazione.

A sentir singhiozzare si voltò e vide Flora scossa dal pianto, che riempiva di lagrime il fazzoletto. Eran lagrime di sincera pietà per il male che era venuta a portare colle sue mani. Essa per la prima era la vittima delle cose. Qual colpa aveva lei se non poteva offrire un amore che non era mai nato? bisognava tener conto del suo coraggio, della sua sincerità; e perchè era venuta a deporre ai piedi di un vecchio amico la confessione del suo cuore, bisognava non negare un segno di riconoscimento a quell'atto di coraggiosa sincerità.

Non bisognava infine denudar troppo un vecchio e poco attraente amor proprio, non avvilir troppo un'antica dignità, non rimpicciolirsi troppo nelle proprie sconfitte. Cresti insomma davanti a quella bambina piangente si sentì ancora il più forte, forse perchè volle essere il più orgoglioso. Vecchio amico e protettore sentì che toccava a lui a dir la parola definitiva e si affrettò a cercarla.

—La mamma non sa nulla…. dunque….

—No.

—E non immagina nemmeno.

—Essa non vuol nemmeno che io accompagni la zia Vincenzina.

—Capisco che ella non possa approvare…. perchè… via…. quali sono i vostri progetti? ma io non voglio saper nulla di quello che non mi riguarda. Dirò solamente alla mamma le ragioni per le quali può parere utile che Flora accompagni la zia e resti per qualche mese in Riviera: le farò capire che potrei accompagnarvi o raggiungervi dopo qualche tempo e che intanto il nostro matrimonio si ritarda: va bene?—

E dopo un'altro istante di combattimento riprese:—Per ora mi pare inutile turbare la pace della povera mamma con delle spiegazioni che essa non capirebbe e che ci metterebbero tutti in un grave imbarazzo. E così anche alla gente si potrà dire che il matrimonio è rimandato a tempo indeterminato…. va bene?—a poco a poco potremo preparare la così detta opinione pubblica ad accettare i fatti compiuti. Tra noi due però resta inteso che fin d'ora tutto è…. (e compì il pensiero soffiando un poco sulle dita), mettiamo d'aver fatto un sogno…. va bene, Flora?—

E finì quasi ridendo.

—Amico mio, o come devo dire? mio protettore?—sorse a dire Flora ponendogli una mano sulla spalla—ero sicura, venendo qui, che avrei trovato indulgenza e soccorso. Nessuno al mondo—mi ero detto—mi darà ragione: ma Cresti sì. Lui solo mi aiuterà a compiere un pietoso dovere perchè Cresti è buono e mi ama come una sua figliuola.

—E allora chiamami papà—disse confusamente il vecchio amico, stringendo fra le tozze mani annerite dal sole la fulva testa di Flora, a cui accostò il viso contratto e lasciò che la grande battaglia degli spiriti combattenti passasse tutta. Flora aspettò che la battaglia finisse, poi portò le mani dell'amico alle labbra e le baciò più volte.

Non parlavano più, perchè erano arrivati a quel punto di elevazione in cui la più piccola parola può rompere la serenità del bene, come basta un sassolino a smuovere una rovina nei declivi delle altissime rupi.

Si strinsero tre o quattro volte le mani in segno muto di pace, di promessa e di alleanza. Cresti promise come potè di scendere la sera stessa al Castelletto a persuadere la mamma e a dimostrarle che un mese di Riviera avrebbe fatto bene a tutti: e accompagnò la fanciulla smarrita che non trovava più la via di uscire fino al principio del viale, mentre, cessata la pioggia, un raggio sparso di sole veniva a battere sulle grigie muraglie.

Il tuono fuggiva morendo lontano nelle alpi e dai rotti del nembo uscivano lembi di sereno, da cui veniva una fresca brezzolina a scuotere le frasche grondanti dei pergolati.

Flora si voltò una volta ancora a salutare colla mano quando fu al cancelletto e scomparve. Egli rispose colla mano e si lasciò andare sui gradini del portichetto come uomo affranto da una inesprimibile stanchezza.

Era fatale che ciò avvenisse. Non avrebbe saputo dire nè il come nè il quando, ma da un pezzo il cuore gli andava dicendo che egli seguitava a camminare per una strada sbagliata. Flora aveva per lui della buona amicizia, della stima, della riconoscenza, ma tutte queste cose messe insieme e condite dalla migliore volontà non bastano ancora a fare un boccone d'amore.

L'amore vien dal lievito dell'anima. L'amore va solo anche senza il corteo delle venerate virtù, va al tristo, al povero, al malato, al mendicante, allo storpio, al cieco: ma non c'è catena che possa trascinarlo per forza. Amore sale dove la sua natura ignea lo porta, abbrucia tanto il palazzo di marmo, come la capanna di paglia: ma tu non puoi suscitare una scintilla in un cuore di ghiaccio.

Si mosse, col corpo indolenzito, come se uscisse dalle verghe. Si trascinò verso casa, rientrò nel salotto dove morivano gli ultimi tizzoni della fiammata nella cenere. Il sole entrava per le finestre ancora sgocciolanti di piova: ma l'aria pareva fatta scura, i mobili rimpiccioliti. Sulla tavola, presso il servizio di caffè era rimasto un piccolo guanto che essa aveva dimenticato, un piccolo guanto ancor pieno della sua mano, ch'egli raccolse e strinse nel pugno, portò alla bocca per strozzarvi il singhiozzo mortale che gli usciva dal cuore.

Aveva fatto un sogno. Amen!

* * * * *

A villa Serena non rimase che la Bernarda a custodire la casa. A poco a poco i balconi e i terrazzi si spogliarono dei loro vasi, le barche vennero chiuse nella darsena, le palme rivestite di paglia e gli ultimi scarsi soli d'autunno morirono silenziosi sopra i muri tristi e desolati.

Nè più liete scesero le giornate al Castelletto dove la signora Matilde rimase sola senz'altra distrazione che qualche visita poco allegra del vecchio amico del Pioppino, che dopo aver implorato e concesso un congedo a Flora, si faceva un dovere di venire con qualche giornale in mano a leggere qualche fatterello di cronaca o sedeva ad attizzare i primi focherelli nel caminetto per combattere i brividi crescenti dell'aria.

Quando arrivava qualche lettera dalla Riviera, la signora Matilde che aveva già mille ragioni d'essere malcontenta:—Ecco—diceva amaramente—tutta la sua famiglia è là. Avrei creduto che Flora avesse più cuore per la sua mamma e per gli amici.

—Il cuore c'è, poverina… provava a risponder il vecchio misantropo, accatastando fuscellini su fuscellini nella cenere—ma il cuore non ha l'obbligo di ragionare.

—Ha l'obbligo d'esser giusto. Che posto è il suo in quella casa? di dama di compagnia? di suora di carità? d'infermiera? di serva? e intanto non pensa che a casa c'è la mamma mezza malata. Io non avrei dato questo permesso, caro Cresti: lei oggi ha diritto di comandare e di volere.

—Ci vuol pazienza…—seguitava a ripeter lui con aria rassegnata: ma tutti coloro che erano abituati a vederlo passare prima, svelto come una saetta, si meravigliavano che in poco tempo si fosse fatto così secco ed appassito, fin trasandato nei vestiti, lui sempre così pulito ed elegante.

—Sento che morirò di questo dispiacere—diceva qualche altra volta colla sua querula cantilena la malaticcia signora, che cominciava a veder buio nell'avvenire. Cresti, in faccia a lei, si mostrava paziente e disposto a rimandare il matrimonio a gennaio, o anche a primavera: ma non ci voleva una straordinaria penetrazione per vedere che la pazienza di Cresti avrebbe avuto un limite e che al tornar dell'inverno si sarebbe ricaduti in una tremenda tristezza. Flora era una testa romantica, di quelle che non si arrestano davanti a nessuna poesia e a nessuna stravaganza: ed era anche naturale che Ezio nel suo egoismo, rincrudito ora dal castigo, trovasse comodo e bello d'aver vicino un aiuto in una così cara infermiera. Suo padre aveva anche lui trovato comodo e bello sacrificare una ragazza ancor giovine a' suoi umori bisbetici, calpestando i diritti d'un fratello. Fin che ci saranno uomini ci saranno egoisti: ma Flora aveva altri doveri: nè poteva ora dimenticarli: nè avrebbe potuto sposare un cieco: nè poteva rimanere a lungo in questa posizione assurda. L'unica sua giustificazione erano i suoi capelli che dicevano una testa esaltata, com'era stato suo padre, com'era stata la nonna Celina, tutta gente che si sarebbe fatta ammazzare per una idea fissa.

—Peggio per noi che ne abbiamo troppe di idee….!—soggiungeva malinconicamente il vecchio amico.

Questi tristi discorsi non facevano che lasciar indietro tristezze sempre più oscure, che andavano crescendo coll'accorciarsi delle giornate, coll'allungarsi dei crepuscoli, coi freddi preludi dell'inverno, che sul lago si fa annunciare non di rado prima del dì dei Morti con piccole burrasche di pioggia e di neve.

Il Ravellino era stato bruscamente chiuso, i lavori interrotti, gli operai mandati via, la roba lasciata là accatastata sopra i mobili fuori di posto: ed era bene che le nebbie scendessero folte tra l'una e l'altra riva del lago a togliere fin la vista di quella casa in cui troppe illusioni morivano di freddo.

Dopo che Flora era perduta, Cresti non vedeva che ci fosse una ragione perchè il sole splendesse nel cielo. Quella ragazza aveva riempita dell'immagine sua tutti i contorni de' suoi pensieri. Far senza di lei era come togliere la luce a un quadro. Ecco perchè le cose perdevano intorno a lui ogni colore e i desideri cadevano fracidi come le foglie del suo giardino sotto le pioggie d'autunno. Il domani non prometteva nulla a un disgraziato che non aveva nulla da ricordare della sua vita… di questa povera vita, che dondola tra una memoria e una speranza.

Mentre negli altri anni, al venir meno dei giorni caldi il solerte giardiniere prendeva cura de' suoi vasi delicati, o riordinava le serre, copriva i palmizi, riponeva le uve mangiereccie, riempiva la legnaia e dava mano alle molte faccende che porta con sè il primo soffio freddo, questa volta lasciò che le cose andassero come volevano andare, non toccò nulla, non mutò nulla, non provvide a nulla.

Le sue giornate le passava seduto nel vano d'una finestra, colle mani strette intorno a un ginocchio, cogli occhi immobili sui vetri al di là dei quali non vedeva che una nebbia confusa, vuota di cose e di pensieri, come se cominciasse anche per lui una fatale cecità. Non riceveva più nessuno, non apriva la bocca nemmeno colle vecchie ragazze di casa che credevano di conoscere il motivo di quel mutamento, che inutilmente si sforzavano di distrarlo, di farlo mangiare, di provocarne le care impazienze, che per le donne rappresentavano un necessario tormento nella loro vita senza casi e senza varietà.

A implorare una grazia, le due zitelle facevano accendere tutte le sere la lampada alla cappelletta dell'Immacolata.

IX.

Fascio di lettere.

FLORA A ELISA D'AVANZO.

«Da una settimana siamo qui in un villino lungo la bella strada marina, che da Albenga va ad Alassio, un luogo solitario in mezzo al verde con un terrazzo che dà immediatamente sul mare, al quale si scende per un rozzo scalo tagliato nella roccia.

«Dalla mia finestra vedo a levante diradarsi l'azzurra linea degli Appennini, e a ponente un promontorio roccioso su cui domina un'antica chiesa in rovina.

«Alle nostre spalle in mezzo ai boschi d'olivi, di lecci, e a gruppi di pini o una serie di poggi sparsi di casolari e di ville. Davanti è il mare ampio quanto ne può bere l'occhio avido, il mare che batte e freme senza posa sulla spiaggia biancheggiante e contro gli scogli.

«È novembre: ma qui è primavera e par che tutto rinasca, l'anima e i fiori.

«Dalla villa staccasi una specie di molo naturale fatto di grossi massi anneriti dal tempo, sui quali vanno spesso i ragazzi dei pescatori a specchiarsi nell'acqua, quando la marea è più bassa, in cerca di conchiglie e di frutti di mare; e mentre scrivo vedo Ezio che va a raggiungere un sassolone sporgente a foggia di sedia curule, dove suol passare molte ore, solo, quasi prigioniero del mare, a capo nudo, sotto il raggio carezzevole del sole, colla faccia rivolta allo sconfinato specchio delle acque di cui sente i mobili bagliori balzellargli sul viso, esposto agli sbuffi delle brezze che gli portano ora gli acri odori del pesce, ora il profumo tiepido dei giardini, ora il fiato resinoso di un vicino cantiere di cui sentiamo i tonfi dei martelli sulle stive sonore misto al grido dei fanciulli che giocano sulla spiaggia.

«Qualche volta Ezio porta con sè fin a quel suo trono il violino e cerca di raccogliere i discorsi dell'onda, che ora mormora umile sulla sabbia, ora striscia lunga e faticosa, ora sospira gonfia o minaccia le pareti dello scoglio, fiera di segreti rancori.

«Il nostro povero cieco, nella oscura sua solitudine, impara a distinguere queste varie voci, a raccoglierne gl'intimi sensi che vengono dalle lontane luminosità dello spazio e dalle oscure profondità dell'abisso e dice che vuol un giorno comporre la gran Sinfonia del mare, che non fu ancora scritta.

«A queste emozioni esterne mescola le sue, abbandonandole al ritmo del flusso lasciandole cadere e portar via, obliandosi in questo vasto campo di forze combattenti come un soldato ferito, ma non a morte, che nel mite crepuscolo d'un giorno di battaglia si addormenta in un sogno di vittoria. Dal momento ch'egli potè vincere la disperazione con un atto di pazienza, spegnere l'ira nelle lagrime, indugiarsi in una speranza, Ezio non è più quello di prima. La feroce ribellione morale ha ceduto il posto ad una calma o per dir meglio, a una tristezza più tranquilla, a una volontà nuova di esser buono per meritarsi i benefici del proprio dolore.

«Mentre prima era così indifferente per tutto ciò che riguardava il male degli altri, ora dice che gli pare di sentire nella sua miseria tutte le spine delle miserie umane….

«Ma egli ha molto bisogno di noi: oh guai se gli mancassimo in quest'oscuro deserto in cui va brancolando in cerca d'una via! Ecco perchè, a dispetto di tutti i vostri rimproveri, non so pentirmi d'aver contribuito la parte mia a quest'opera di pacificazione e di salvezza morale. Per quanto la mia condotta possa parere ingrata ed egoista verso Cresti e verso mia madre, sento che il mio posto è qui accanto a lui, dove Dio mi ha posta.

«A Cresti non potrei dare un cuore, di cui non sono padrona, nè egli lo vorrebbe più. Mia madre non può voler da me più di quanto io possa fare.

«Questa mia breve assenza dal Castelletto deve aiutarci tutti a formarci una convinzione.

«E dopo?—tu mi domandi.—Dopo ciascuno riprenderà la sua posiziona naturale e sarà fatta la volontà di Dio. Il romanzo non avrà il lieto fine che piace ai buoni lettori, non avrà quel fine che doveva avere e che è nella struttura stessa delle cose di quaggiù. Può essere che io torni a bussare al tuo uscio per cercarti i mezzi di vivere e di rendere meno tristi gli ultimi anni di mia madre. Il lavoro oggi non mi fa più paura, e purchè Dio accolga il mio voto di rendere la pace a lui, sarei pronta a rinchiudermi anche in un monastero e a dare questa mia vita in sacrificio.

«Non potrò esser sua, lo so. Vedo troppo bene l'abisso che ci divide. Nè egli oserebbe chiedermi un'elemosina, nè io oserei oggi umiliarlo colla mia carità. Tra me e lui c'è troppo orgoglio ferito e una tenebra che non saprei attraversare senza paura. Ma come tu hai potuto essere fedele a un'ombra, lasciate ch'io resti fedele al mio sogno. Si sposa qualche cosa di più di un uomo, quando si sposa il suo ideale. Se, per un cuore che ama, è nulla la distanza che divide i vivi dai morti, e tu lo sai, io non devo temere nessun'altra distanza, se Ezio vivrà come ha sempre vissuto in questo piccolo cuore.

«Monaca o vestale, io ne avrò sempre abbastanza di questa fiamma: ed egli deve sapere che a questa fiamma potrà sempre accendere la lampada della sua vita.

«Lasciatemi dunque in pace e non vogliatemi condannare coi criteri borghesi che giudicano ogni vita umana come una calza che si mette sui ferri e che deve andar bene a un piede.

«Dopo sarà come prima: e forse meglio».

* * * * *

Qualche giorno più tardi, ripigliando la penna, scriveva di nuovo:

«Qui la nostra vita continua tranquilla con una stagione mite e serena.

«Abbiamo fatto una buona amicizia con una famiglia di signori americani, certi Jameson, che occupano una villa poco distante.

«Son due ragazze della mia età che viaggiano col loro padre, un dotto filosofo dell'università di Boston, che sta compiendo non so quali studi comparativi sui dialetti d'Italia. È gente assai a modo, che ama il nostro paese, che fa volentieri della musica: e spesso si fanno piccoli quartetti sotto la direzione d'un maestro che vien tre volte la settimana a dar lezione di violino a Ezio. Io siedo al pianoforte e ho una bella occasione per sciogliere lo scilinguagnuolo nel mio inglese che le amiche mie trovano quasi elegante. Anche Ezio fa grandi progressi, quantunque sia obbligato a imparare tutta la sua musica a memoria: ma superata la fatica, dice che egli si rende padrone delle sue note, che parlano e piangono con lui.

«Di tanto in tanto fa la sua comparsa nel piccolo golfo un yacht d'un altro ricco americano, amico dei Jameson, che soggiorna a san Remo, e che ci porta a fare delle piacevoli escursioni fino a Genova e alla Spezia.

«Per caso si chiama anch'esso «Morning star» Ezio si trova subito nel suo elemento e impara, nella varia distrazione e nella compagnia di persone così buone e intelligenti, l'arte preziosa di dimenticare quel che non serve più a nulla.

«Io resterò qui finchè la mamma verrà a prendermi, cioè non più tardi della metà di dicembre. Prima avrà luogo un avvenimento di cui ti dirò i graziosi particolari quando mi sarà permesso di farlo.

«Dopo non so quel che faremo, cioè, se torneremo al Castelletto o se resteremo qui tutto l'inverno, o se verremo a Torino a bussare al tuo uscio. Questa ultima sarebbe la mia proposta. Ho bisogno di lavorare per consolidarmi e per fortificarmi nella realtà. Sento che non mi manca nè il coraggio nè la fede: anzi, se devo essere sincera anche con me stessa, mi pare di aver trovato finalmente in me, la persona che prima era sempre fuori di casa. L'idea che potrei andar monaca ospitaliera o missionaria e stendere l'opera delle mie mani alle più lontane miserie mi esalta qualche volta con giubilo interiore come una poesia. Non sempre sono stata buona nella mia vita e ho bisogno di espiare qualche peccato d'inconsiderazione anche per la pace di chi ha creduto troppo in me. Ma non posso abbandonare mia madre. A lei devo rendere tutto quello che non le ho dato. Lavorando per lei, per rendere più agiata la mia vecchiezza, mi sembrerà di lavorare per il cielo. Tu mi devi aiutare. Cerca, cerca intorno a te una scuola, un'istituzione, una famiglia dove possa far fruttare quel poco che so.

«Tu, che hai potuto vivere così bene col tuo morto nel cuore potrai insegnare anche a me come si viva d'un dolce pensiero.

«Ora Ezio parla della eventualità ch'egli possa accompagnare questi signori americani in un lontano viaggio. Se don Andreino Lulli si lascia persuadere ad andare con lui, il viaggio potrebbe spingersi fino in America e durare parecchi mesi. Mi si parla anche d'una prodigiosa scoperta fatta di recente da uno scienziato di laggiù, certo dottor Gibbon, che guarisce di cecità coll'applicazione dei così detti raggi chimici. Le Riviste dei due mondi hanno discorso a lungo di questa meravigliosa terapia e può essere che anche questa volta la scienza trionfi della nostra incredulità e della crudeltà della natura. Se questo viaggio si farà, io l'accompagnerò col pensiero: ma nè i prodigi della scienza nè i miracoli di Dio potranno cambiare i nostri rapporti.

«Neque nubent!—è scritto sulla nostra bandiera, che procuriamo di tenere alta e asciutta al di sopra di questo mare agitato. Entrambi dobbiamo rispettare il nostro onesto orgoglio. Se un'umana dignità impedisce a lui di mendicare nel suo misero stato una limosina, un sentimento non meno dignitoso toglie a me di trasformare il padrone del mio cuore in un umile beneficato. Oltre il rispetto che devo a me stessa, mi salva il pensiero che deve un gran rispetto all'uomo innocente che ho condannato. Tu sai di chi parlo.

«Ti ha scritto ancora? ti ha confidato il mistero del suo cuore? povero Cresti; povero innocente! io non potrò mai trovare la parola che lo risani: ma digli che nel mio «convento» sarà sempre accesa una lampada anche per lui.

«Cresti mi ha insegnato a credere nella bontà degli uomini, una dottrina che ha così pochi maestri. Un uomo come lui ogni cento, e l'umanità non avrebbe bisogno di altri benefattori. Tu, che hai saputo consolare te stessa, saprai trovare anche per lui la parola che tocca e sana. Oh, non è colpa nostra se la bufera ci porta come le foglie d'autunno! E siamo foglie al vento tanto più leggere quanto più sottili e gracili sono le nostre radici nella terra. Ma la luce e il cielo ci attirano, cara Elisa…

«Ma io faccio delle eterne divagazioni come se fossimo in vacanza. Scrivo, scrivo, qualche volta senza capire io stessa quel che penso, colla furia di chi sta dipanando una grossa matassa, di cui si potrà fare poi quel che si vuole. Non ne avrai sgarbugliate mai di più difficili.

Ama la tua FLORA.

«P.S.—È arrivato stasera don Andreino irreprochable nel suo tout-de-même color «barbagliata» e pare che il viaggio per l'America sia deciso. Condurrebbero un cameriere che fu già altre volte a servire negli alberghi inglesi. Così tra il passato e l'avvenire metteremo la stesa delle acque. Il contino è sempre quel piccolo uomo inamidato che sai: ma non oso più ridere nè di lui, nè di altri, nè di nessuna cosa, dopo che ho visto quanta ricchezza di cuore può nascondersi sotto un plastron d'englisch fashion».

* * * * *

Verso la metà di novembre Massimo Bagliani scriveva a Matilde Polony:

Carissima amica,

«Dodici anni or sono, credo, un giorno di ottobre bello come una primavera, io Le scrivevo una di quelle lettere che segnano una data storica nella vita di un uomo. Se ne ricorda? aprendole tutto il mio cuore, La pregavo allora di sapermi dire quel che di me pensava sua sorella Vincenzina e come sarebbe stata accolta una mia timida e rispettosa domanda.

«Molte, troppe dolorose vicende passarono su quella mia lettera, che appartiene ormai ai palinsesti, ed è inutile che io rifaccia qui la storia del mio lungo esilio, de' miei dolori e dei rancori, che mi tennero per questi dodici anni quasi diviso dal mondo.

«Ma la Provvidenza, alla quale da vecchio mazziniano impenitente continuo a credere, volle che io ritornassi a rivedere il mio paese e la tomba, dirò così, in cui stavano rinchiuse le mie giovanili illusioni. Non tutti i fiori sono seccati su questa fossa, e ora non so più resistere a cogliere quel bene che mi è stato per una via quasi miracolosa conservato. Vincenzina le avrà scritto su questo argomento meglio che io non sappia fare con questa penna strapazzata dai protocolli. Era possibile non rivederci più e dimenticarci per sempre: non era nè umano nè giusto che potessimo incontrarci senza ritrovare in noi le antiche disposizioni.

«Tra me e Vincenzina non scendeva che un tenue velo di errori e di falsi giudizi che non fu difficile rimuovere. Una grande sciagura ci sospinse più animosamente verso quella meta alla quale saremmo arrivati per una strada forse più lunga: ma ora la nostra parola è detta e vogliamo che anche il mondo la sappia.

«A togliere qualche ultima titubanza entra il pensiero che solo a questo patto potremo essere utili a Ezio, il quale senza di noi resterebbe senza asilo e senza conforto: e il poverino non ha tardato a dimostrarci la sua compiacenza. Egli troverà nella nostra casa la sua casa, nel vecchio zio un nuovo babbo che desidera soltanto di voler bene a qualcuno. Così, dopo dodici anni, si compiranno i sacri voti, ma non è men buono un vino che è rimasto dodici anni sotto terra. Il vino poi non può che migliorare per una lunga sete. È un romanzetto? è un idillio? una farsa onesta e piacevole? Lasciamo dire: è sempre bello quello che si deve fare.

«Dunque ci sposeremo. Non saranno nozze segrete; ma vogliamo una formalità molto semplice alla presenza di pochi intimi, in qualche angolo alpestre di questa incantevole spiaggia, dove sorga un solitario campanile in mezzo a una macchia verde, dove un modesto servo di Dio funzioni in una logora stola.

«Ma Vincenzina non potrebbe far senza della sua madrina di dodici anni fa. Venga dunque al più presto, cara Matilde, e procuri di trascinare anche il nostro Cresti che ha avuto così gran parte in quest'episodio. È vero che è un po' malato? è vero che il suo matrimonio sarà ritardato fino alla primavera? Dalle poche righe ch'egli mi scrisse e dai silenzi di Flora ho paura che tra lor due ci sia una cattiva intesa. Venga e schiariremo le cose.

«Come Flora avrà scritto, Ezio partirà per un lungo viaggio di mare in compagnia di alcuni amici americani e di don Andreino Lulli. Se non troverà, come gli promettono, la luce, raccoglierà per via forza, salute, distrazioni e…. il desiderio di tornare».

ANDREINO LULLI A ERMINIO BERSI.

«Ti avevo promesso di mandarti qualche notizia del nostro disgraziato amico e son lieto di poterlo fare con inchiostro azzurro. Tout va pour le mieux dans le meilleur des mondes. Ho trovato Ezio di buon animo, sereno, pacificato, quasi sto per dire più bello ora che si è lasciato crescere una barba che gli dà l'aria d'un profeta. Chi abbia compiuto il miracolo non so. O bisogna credere alla mano di Dio, o bisogna ammettere che la vita abbia in sè stessa il pozzo delle sue consolazioni. Certo è che in questo miracolo è entrata per molta parte la carità amorosa di questa sua gente, specialmente della cara cuginetta dai capelli rossi, che ha voluto tutto dimenticare per essere la più devota delle infermiere, la più tenera delle sorelle. Su cento casi in cui la donna è la rovina d'un uomo può darsi un caso in cui l'uomo deve la sua salvezza a una donna. Pare che Ezio abbia sentito la medicina di queste carezze…. ed è per sfuggire a questo fascino che mise in campo l'idea d'un viaggio in America. Con me non ha toccato questo tasto, ma si capisce che non vuole essere per Flora nè una catena, nè un castigo. Il passato è irremediabile. Oltre a un orgoglio ferito c'è tra lor due un uomo…. che aspetta al Pioppino. Se nel passato Ezio non ha avuto occhi per vedere il bene che aveva vicino, questa non è una ragione perchè faccia valere oggi la sua sventura come un credito. Ezio è troppo superbo ancora per credere alla sua decadenza.

«Mamà e la nonna non volevano che io lo seguissi in così lungo viaggio: ma si son lasciate persuadere dallo zio, che mi ha dato buone lettere di raccomandazioni e dal cugino il marchese della Roncaglia, che ha impegnato dei capitali in una fabbrica di automobili e spera di trovare in me un non volgare commis voyageur. Bisogna pure che anch'io mi slanci nell'onda dei tempi e che faccia valere quel poco inglese che ho imparato dalla buona miss Multon. Il mondo, mi persuado sempre più, è di chi si muove: e poichè nessuna forza può fermare il destino, meglio è cercare di corrergli davanti.

«Sento che anche tu ti dai alla grande agricoltura e che pensi di migliorare il nostro cavallo friulano incrociandolo all'ungherese. È una trovata: e se al mio ritorno vorrai mettermi a parte dell'impresa, sarò lieto di concorrere nei limiti delle mie forze alla prosperità di questo ramo dell'industria nazionale.

«Gli automobili avranno un grande avvenire: ma un bel cavallo sarà sempre un bel cavallo.

«Il mio rispetto a donna Carolina a cui auguro eterna la luna di miele.

tuo DREINO.

«P.S. Sai chi ho visto di sfuggita da queste parti? ho cercato di non conoscerla, ma essa fece di tutto per tentarmi. Liana, la bella spagnuola dagli occhi grandi e vendicativi. Pare che abbia abbandonato il suo vecchio protettore e che sia diretta a Monte Carlo per tentarvi qualche altra fortuna».

REGINA A FLORA.

«Carissima signora Contessina,

«Poichè il suo ritorno al Castelletto da quel che sento sarà ancora ritardato, non voglio aspettare più oltre a darle le nostre notizie.

«Noi stiamo tutti bene grazie al Signore: e io sono proprio tutta felice. Il mio Amedeo non potrebbe essere più buono con me e sebbene d'inverno ci sia poco a fare e i guadagni siano scarsi, cerchiamo di far bastare quello che c'è.

«Ho ripreso la scoletta. Quest'anno è cresciuto il numero dei bambini che in questa nuova casa al torrente si trovano più al largo: e se Dio mi conserverà la salute spero di averne ancora di più l'anno venturo.

«La mamma vien spesso a trovarmi e mi tiene in ordine la casa: ma ogni domenica andiamo noi a desinare da loro.

«Amedeo aiuta un poco i giardinieri della Villa nei lavori delle serre e così ripara un poco ai danni della stagione morta. Per fortuna non ha vizi. Si figuri che non fuma più e ha smessa l'abitudine di dire certe parole di cattivo cristiano che mi davano dispiacere.

«Che il Signore ci benedica.

«Vedo di raro la sua signora mamma, ma so che sta benino. Anche il signor Cresti non scende quasi mai dal Pioppino. Pare che questi freddi gli abbiano procurata un po' d'influenza.

«Quando vedo dalla finestra villa Serena tutta chiusa, penso alla terribile disgrazia che li ha colpiti e non trascuro di recitare un'avemaria per quel povero signore che ne ha tanto bisogno.

«La Madonna gli darà fede e coraggio. Fiat, fiat! il signore sa sempre quel che fa.

«Mi scriva presto, cara signora contessina, e mi dica che lei è sana e contenta.

«Riceva un abbraccio dalla sua

Devot. REGINA.

BENIAMINO CRESTI A ELISA D'AVANZO.

«Una lampada sarà sempre accesa per me nel suo «convento»?

«Una lampada non è il sole, ma basta a rompere una grande oscurità.

«Grazie a tutte e due. Vedo che tutti i lumini che accendono nel campo santo non bastano a far vivere un morto, ma io devo pur credere alla fede altrui, se anche mi manca una fede mia. Ella, buon'amica, fa appello alla mia filosofia e cerca dimostrarmi che a sopportare i mali della vita è utile talvolta farsene una ragione. Ho creduto anch'io un pezzo a questo sofisma e nella mia selvaggia solitudine mi ero abituato a credere che un uomo non abbia bisogno del fiato di un altro uomo per vivere.

«Sì, io ero abbastanza sufficente a me stesso, finchè vivevo come Diogene in una botte. Ma Diogene ha in sè un cattivo compagno. Ora che ho bruciata la vecchia botte, non so più dove rintanarmi.

«Potrò credere a qualche altra cosa ora che non credo più in me stesso? Voi dite di sì e so che pregate per questo. Per quanto stenti ad ammettere che le preghiere facciano dei buchi nel cielo, siate benedette! Il profumo dell'incenso piace anche a chi non entra in chiesa. Pazienza! io non sono di quei malati che odiano il chirurgo che li ha fatti soffrire e benedico la mano che mi ha fatto un'amputazione necessaria: ma non so se un animale possa vivere senza cuore.

«In ogni modo tenete accese le vostre lampade: scrivetemi e parlatemi di tutto ciò che mi possa far bene».

X.

Amore e rimorso.

Ezio, fatto pratico dei luoghi, amava passeggiare solo lungo la bella strada litorale, soffermarsi davanti alle case dei pescatori che impararono a conoscerlo e aver pietà di lui, scendere qualche volta nelle loro barche e andar con loro alla pesca. Le donne e i ragazzetti lo circondavano con pietosa curiosità e amavano raccontargli la storia della loro vita non più varia di quella delle ostriche.

Qualche volta spingevasi oltre le ultime case del paese fino a uno scoglio, su cui sorgeva un modesto caffè detto dell'Aurora che dava con un terrazzo direttamente sul mare. La sora Cecchina, quando lo vedeva comparire, metteva a scaldare l'acqua del tè e mandavagli incontro Sabinetta, una sua bambina di undici anni, che aveva trovato nel signor Ezio il suo angelo ausiliario.

Sabinetta andava a scuola e non era delle ultime nel leggere e nello scrivere: ma c'era il terribile scoglio dell'aritmetica e dei quesiti ad risolvere, che eran cagione di pianti e di guai. Ezio aveva la pazienza di ascoltare questi piccoli corrucci e a poco a poco aiutava la bambina a dipanare le piccole matasse de' suoi conti col vinaio e col mercante d'olio.

In compenso voleva che ella gli facesse sentire qualche bella poesia del suo libro di lettura.

Sedevano a un tavolino sulla terrazza, alla brezza viva del mare, e mentre la mamma preparava il tè, Sabinetta declamava il suo Metastasio e il suo Parzanese colle modulazioni d'una piccola artista.

Nella voce argentina e nelle emozioni della fanciulla, che aveva graziette tutte sue, pareva a Ezio di vedere le movenze delicate d'un'anima e il suo cuore s'inteneriva d'un piacere quasi paterno. Tra le altre amava farle ripetere una lirica sulla Cecità, che il libro dava come tradotta dal tedesco:

    Me pur lontan la giovine
    Inquieta pupilla un dì traea;
    Sul mio capo le aeree
    Nubi, in un mar di luce, errar vedea.

    Pei campi fino all'ultimo
    Orizzonte scorrea lo sguardo anelo,
    Dove in azzurra linea
    Si confondono insiem la terra e il cielo…

    Or quegli anni fuggirono;
    Serena luce, ahimè perduta, addio!
    Nella più fitta tenebra
    S'è rinchiuso, per sempre, il guardo mio.

    Se me più non allietano
    I rai del dì, sovra il mio triste fato
    Non versate una lagrima:
    Gioje novelle ora gustar m'è dato.

    Io son siccome un reduce
    Da lochi estranei al suo paterno ostello;
    Non è, credete, l'intimo
    Mondo dell'altro esterior men bello.

    Come in Sacrario, l'anima
    Quanto di grato in lei scende, ritiene;
    Ciò che vale a commoverla,
    Internamente suo tosto diviene.

La ragazzina diceva questi versi colla dolce cantilena che le avevano insegnato a scuola e non sempre il suo pensiero penetrava nel senso delle cose: ma Ezio non ne restava meno commosso.

Un giorno egli tornava dall'Aurora, solo, col bastoncello in mano che gli apriva il passo, ripetendo a voce alta i versi

    «Io son siccome un reduce
    Da lochi estranei al suo paterno ostello»…

quando a un tratto gli parve di sentirsi chiamare per nome. Si fermò una prima volta dubbioso d'aver ben inteso. Un passo leggiero suonava accanto sulla terra asciutta del viale.

—Ezio…—mormorò ancora la voce di prima un po' meno paurosa. E questa volta sentì nello spazio la presenza d'una persona che non osava appressarsi.

—Chi mi chiama?

—Son io, Ezio: io, Liana…

—Ah!—fece il giovine, alzando meccanicamente il bastone in atto di difesa. E dopo esser rimasto alquanto perplesso, riprese:—Ebbene, che cosa vuoi? perchè ti metti sulla mia strada?

—Sai che ti ho voluto bene—riprese la voce dolente.

—O ti pare? fammi la carità, lasciami andare per la mia strada.

—Tu non sai quanto piangere faccio…

—Tu… piangi?

—O Ezio!—proruppe questa volta la voce piena di singhiozzi—perchè non sono morta io cento volte prima? perchè mi hai cacciata via?

—Io son cieco e sordo per te… Ma insomma che cosa vuoi?

—Il tuo perdono.

—Non so che cosa io debba perdonare a te. Tu non mi hai fatto alcun male…

—Sì sì, io sono stata tutta la colpa…

—Di che? o inutile che tu venga a farmi altre scene. Va per la tua strada; la mia è un'altra.—

E agitando il bastone, come per aprirsi una via, mosse qualche passo.

—Io mi rodo del mio rimorso. Ho bisogno del tuo perdono, Ezio. Son io che ti ha ridotto in questo stato, io donna maledetta…—

Il modo con cui la donna pronunciò queste parole fu di una veemenza così dolorosa e sincera, che il cieco fu arrestato da un sospetto:—Tu? che cosa hai fatto?

—Io ho scritto al barone.

—Tu?

—Vi ho denunciati come una spia.

—Tu?—balbettò con un lieve fremito d'ira.

—Ti amavo tanto Ezio…—proruppe di nuovo la ragazza, cercando di afferrare la mano del giovine.

—Ah!—esclamò egli, alzando le mani per non lasciarsele toccare—tu mi hai amato troppo, Liana.—E quando gli parve di aver dominato abbastanza il primo impeto di collera che aveva suscitato nel suo spirito quella improvvisa rivelazione, movendo qualche passo, le disse con voce soffocata e raccolta:—Ebbene, Dio ti perdoni, disgraziata.

—No, no: è il tuo perdono che voglio, Ezio; tu hai diritto di uccidermi. Son qui ai tuoi piedi, Ezio: non lasciarmi così…—Il giovine si sentì stretta la mano da due piccole mani ardenti e intralciata la via da una persona che s'era inginocchiata a' suoi piedi.

—Che cosa fai? una scena, qui, sulla pubblica strada?

—Tu devi pronunciare la mia sentenza, Dimmi che cosa devo fare per espiare il mio delitto. Lascia che io venga con te.

—Oh, va, va, che cosa dici?—riprese egli con asprezza, cercando di liberare la mano ch'essa teneva prigioniera?—Rispetta la mia disgrazia, ragazza.

—Voglio essere l'ultima delle tue serve.

—Va, sii quel che puoi essere e prega Dio che ti aiuti. Io non posso far nulla per te.—

E con un moto repentino e brusco si tolse da lei che rimase sul terreno a piangere colla faccia nella sabbia.

Ezio, che conosceva il carattere tragico della bella avventuriera, molto amica delle scene melodrammatiche, affrettò il passo per sottrarsi a un fastidioso senso di stizza, che per poco non gli fece alzare il bastone sopra le spalle d'una donna.

—Sciagurata!—mormorò tra i denti, ripensando all'antica scenata di Liana contro la baronessa nei pubblici giardini di Nizza.—Vipere, non donne…—tornò a dire, fermandosi con animo sdegnato su questa nuova confessione di lei, che chiariva un punto oscuro del triste episodio. Se il barone s'era trovato quella sciagurata mattina sopra i suoi passi, il merito era stato di questa donna perduta che… gli voleva bene.

Era giusto che il rimorso la rodesse: ma, disgraziato lui! per troppo poco egli aveva perduta la bella luce del sole!

XI.

Addio….

Nuovi pensieri gli fecero ben presto dimenticare questo episodio. Andreino aveva letto bene nell'intenzione che spingeva il suo disgraziato amico a intraprendere un viaggio lungo e forse avventuroso, pel quale mancavagli il lume dagli occhi, che è il piacere più vivo di chi va in cerca di nuovi orizzonti. Più che la speranza di ritrovare nei miracoli del dottor Gibbon la grazia della vista, lo menava lontano il pensiero di mettere tra lui e Flora un lungo intermezzo di silenzio, un impedimento materiale, uno spazio insuperabile, nel quale egli potesse svincolarsi e spogliarsi del nuovo fascino che la vicinanza di lei esercitava sul suo spirito stanco e bisognoso.

Ezio aveva paura della sua debolezza morale, la quale spesso si adagia a vivere della vita degli altri ed è non meno vorace nel suo parassitismo di quel che sia il più feroce egoismo.

Dal giorno che lo zio Massimo, leggendogli qualche malinconiosa lettera della zia Matilde, aveva richiamato la sua attenzione su questo nuovo pericolo e sugli obblighi che aspettavano Flora a casa sua e sui diritti che il vecchio amico del Pioppino vantava sopra di lei, era entrata nel suo cuore la convinzione che ora toccasse a lui il dovere di essere il più forte perchè non poteva rispettare in nessun miglior modo Flora, se non col restituirle la libertà d'essere fedele a' suoi doveri.

La sua sventura non gli dava altro diritto oltre a quello che si risolve nel meritare le lagrime dell'altrui compassione. Voler di più sarebbe stata nella sua meschinità fisica un'abbietta usurpazione, una violenza che avrebbe deturpata la santità del dovere.

Toccava a lui, toccava a lui essere non solo il più forte per conto suo, ma sorgere difensore non chiesto della naturale debolezza di lei, già inclinata al sacrificio, già trascinata da mille memorie, già fin troppo intenerita da troppe lagrime.

Poichè gli amici Jameson parlavano di voler essere per le feste di Natale nel seno delle loro famiglie, Ezio pensò di approfittare del loro replicato invito e affrettò con Andreina segretamente i preparativi del viaggio. Egli era persuaso che Flora l'avrebbe seguito col pensiero… ma ogni parola di addio non poteva essere tra lor due che uno strazio inutile o una volgare menzogna.

Il silenzio o l'eloquenza del sacrificio.

Il Morning Star, il grazioso yackt dell'amico americano era venuto a prendere i vicini Jameson per una gita notturna da farsi al chiaro di luna e a cielo stellato, una gita che doveva spingersi questa volta fin quasi alle coste di Marsiglia. Ezio e Andreino Lulli furono invitati a prendervi parte. Donna Vincenzina e Massimo, occupati nei preparativi del loro matrimonio si scusarono e approfittarono di quest'occasione per far una corsa a Genova a finir certe spese.

Flora rimase quel giorno sola a custodire la casa e a preparare la cena.

Dalla terrazza della villa si poteva vedere il Morning Star ancorato nella piccola baia: e se dalla sera si doveva arguire la notte, il viaggio di quei signori sarebbe stato delizioso. Col canocchiale Flora potè assistere all'imbarco degli amici quando salivano a bordo, mentre il sole cominciava a discendere dietro il promontorio, su cui l'antica chiesa diroccata sfolgorava in una gloria d'oro, versando nel seno tranquillo delle acque un tesoro infinito di gemme.

Poco dopo vide spuntare a bordo un primo lume e dalla finestrella della stiva accendersi il fuoco della macchina, mentre un leggero sibilo e un pennacchietto di fumo annunciavano la prossima partenza. Poi credette di veder sventolare qualche cosa di bianco, a cui ella rispose agitando il fazzoletto: e stette a seguire il corso del piccolo legno finchè, rimpicciolito, scomparve dietro la punta di terra,

Allora si ritirò dalla loggia mentre già cominciava a imbrunire: e per far venire l'ora in cui gli zii sarebbero tornati da Genova, accese le candele e sedette al pianoforte a evocare dalla tastiera reminiscenze musicali a cui mescolava le sue improvvisazioni come scaturivano naturalmente dalle dita.

Una tenera frase di Chopin, venuta da sè a frammischiarsi tra le note d'un confuso rondò, volse l'animo suo a un senso misterioso di malinconia, che richiamò immagini riposte di cose morte e lontane. Pensò alle tristi giornate del Castelletto, a sua madre, agli amici di laggiù: e intanto che le mani illanguidivano sugli avori, gli occhi si fissavano inerti alla fiamma della candela.

—Signorina, un lettera per lei—disse la cameriera entrando—l'ha portata una ragazzina.

Era una soprascritta grande, di mano inesperta, una vera scrittura di bambina di scuola. Chi poteva essere? Aprì la carta, e lesse nella prima riga: «Scrivo… colla manina di Sabinetta.»

Corse a vedere in fondo al foglio. Era lui, Ezio. Che aveva a dirle? purchè le aveva fatto scrivere? Il cuore ebbe un primo sussulto. Capì subito e le mani le caddero un istante sui ginocchi. Stette così cogli occhi chiusi, finchè le parve che la breve vertigine fosse passata, poi mormorò:—Doveva esser così.—

* * * * *

La lettera, scritta sotto la dettatura di Ezio dalla manina di Sabinetta, continuava: «Quando riceverai questa mia, io sarò già lontano da te, lontano per non tornare troppo presto. Sbarcheremo forse a Marsiglia io e Andreino, da dove c'imbarcheremo più tardi sopra un piroscafo della Navigazione francese. Gli amici Jameson ci raggiungeranno per la via di Genova a Barcellona o a Gibilterra, per compiere insieme il viaggio fino a New York. Addio, Flora..

«Ho creduto utile andarmene così, insalutato hospite, per non essere obbligato a ringraziarti. Lo zio Massimo che è a parte della congiura ti dirà quel che è inutile che io ti scriva. Addio, Flora…

«Starò lontano forse due, forse tre o quattro mesi, ma non tornerò se non quando mi sentirò ben sicuro di me stesso, più fermo in quella persuasione che dev'essere d'ora in poi il fondamento della mia vita.

«Pomponio Labeone non sa trovare le belle frasi; ma non può andarsene senz'invocare anche da lontano la benedizione di Flora, che dev'essere come il fascio di luce che lo accompagni attraverso a questo deserto di tenebre.

«Tu sai perchè vivo, sai perchè parto, sai quel che sono e quel che posso essere, perchè tutto quello che resta in me di non morto non è che l'opera delle tue mani: ma l'uomo non paga il suo Creatore.

«Parto adunque tuo debitore nella cara idea che io non potrò mai pagarti del tutto, che ti dovrò sempre qualche cosa e che dovrò vivere fin che tu potrai vantare qualche credito sopra di me.

«Addio, Flora…

«Troverò quel che mi promettono al di là dell'Atlantico? La luce del sole, tu dicesti una volta, non è che un raggio di una luce più universale che penetra gli spiriti delle cose: in questa luce potrò sempre trovare me stesso.

«Addio, Flora. Fa che io abbia presto a Barcellona o a Gibilterra la tua assoluzione e la notizia che tu hai ripreso a camminare serenamente per il tuo sentiero, lieta di te stessa. Tu mi insegnasti a tenere asciutta, sopra i flutti amari, la bandiera del dovere.

«Baciami caramente la mamma e stringi per me due volte la mano al tuo
Cresti.

«Addio, Flora… Addio, Flora… Addio, Flora!

EZIO».

* * * * *

Doveva esser così!

Dal momento che essi non potevano camminare sulla medesima strada, era bene che si dividessero prima che la forza morale della loro resistenza li abbandonasse.

Ezio aveva risparmiato con questa specie di fuga clandestina un'ora di inutili spasimi e di dubbiezze; ma il cuore della donna non poteva rimanere impassibile davanti all'ultima parola di un lungo dramma, che aveva riempiuto or bene or male tutti gli anni della sua vita.

Tutto ciò che finisce, anche un grande dolore, lascia dietro di sè una specie di vuoto in cui pare che l'anima si sprofondi. Ma per Flora finiva con questa scena tutto il dramma della sua giovinezza e cominciava la stagione in cui non si aspetta più nulla.

Era bene che tutto fosse finito con dignità, con ragionevolezza, colla coscienza d'aver voluto il bene; ma la sbiadita bandiera del suo dovere sventolava sopra una grande rovina.

Sentendosi soffocare da un improvviso senso di scoraggiamento, uscì di nuovo sulla terrazza e corse coll'occhio verso la punta del promontorio, dietro il quale era scomparso il piccolo legno.

In quel momento una stella cadente attraversò lo spazio e parve spegnersi nelle acque.

Ah sì: la tela cadeva sopra un dramma assai triste e inconcludente. Ezio, fuggendo davanti a lei, per timore di intralciare la via de' suoi doveri, aveva inconsapevolmente portato con sè la ragione del suo sacrificio. Nè essa poteva tornare indietro a dar la vita a speranze deluse, nè poteva continuare a fabbricarsi delle illusioni. Con parole crude si dovrebbe dire che essa non poteva restituire a Cresti l'elemosina che Ezio sdegnava di ricevere.

Nessun epilogo poteva essere più triste; ma la storia dei nostri mali non è mai ragionevole. Era a sperare che il tempo rinnovasse in lei nuovi desideri di bene; ma intanto non poteva proibire a sè stessa di piangere.

Le lagrime scendevano mute e calde, mentre gli occhi cercavano le stelle nel cielo.

La notte si faceva sempre più oscura su quel mare oscuro, che nella sua placidità conteneva la forza di tante tempeste.

Piangeva ancora in silenzio, quando le parve di sentire parlare nel giardino. Credendo che fossero gli zii di ritorno, si asciugò in fretta gli occhi e il volto e cercò di raccogliere tutte le forze di cui aveva bisogno in quel momento.

—Venga avanti, signora—diceva la cameriera, precedendo col lume una signora imbacuccata in una mantiglia pesante da viaggio, col volto coperto da un fitto velo.

—Signorina!—chiamò la ragazza, entrando nel salotto.

—Chi è?—chiese Flora, fissando gli occhi sulla signora forestiera.

—Sono io—disse questa, levandosi il velo dal viso.

—La mamma, la mia mamma?—gridò Flora allargando le braccia.—Oh sei tu?—e se la strinse e vi si appoggiò tutta. Aveva bisogno di chi la sorreggesse.

—M'hanno scritto che potevi aver bisogno di me e son partita subito.

—Sì, sì: ora non vivo che per te, mamma.—

XII.

Le nozze.

San Benedetto è un villaggio o gruppo di case, che non si trova su tutte le carte geografiche, ma noi vi possiamo andare per una discreta strada carrozzabile, che sale lentamente in tre o quattro giravolte sulla spalla del monte, ora aperta alla luce turchina che vien dal cielo e dal mare, ora rinchiusa tra muricciuoli, ville, giardini e macchie di lauro e di aranci.

Nel mezzo delle trenta o quaranta casupole che formano il paese sorge una modesta badia che fu già dei padri benedettini, con un campanile tozzo in pietra scura, rosicchiato dai secoli, non privo di qualche ornamento da cui parlano ancora dei vecchi tempi tre campanelle, quelle stesse che chiamavano i frati a compieta.

Il sagrato verde, che dà come un terrazzo sulla prospettiva del mare, è ombreggiato da antiche piante e il resto del villaggio son viuzze oscure, anguste, spesso senza uscita, nido di povere donne e di marinai in riposo, che vi attendono tranquillamente la volontà di Dio.

Per quella strada, il vespro d'una mite giornata sui primi di dicembre, saliva al passo una carrozza chiusa, tirata da due cavalli, che riempivano coi loro corpi quasi tutto lo spazio disponibile. Saliva adagio, fermandosi ai punti più ripidi, trottando un poco dove il clivo facevasi più dolce, finchè sboccata sul piazzaletto verde faceva un giro intorno a una pianta per fermarsi davanti alla porta della chiesa.

Il sagrestano, che stava in vedetta stringendo nella mano la berretta di lana, aperse la portiera della carrozza e s'inchinò a un signore piuttosto grassotto vestito di scuro che discese per il primo. Dopo di lui discesero due signore velate che entrarono subito in chiesa, dopo essersi guardate intorno con aria quasi di sospetto; ma sul sagrato non ci erano che due o tre fanciulli e qualche vecchio che fumava la pipa nella rubiconda luce del tramonto.

Il sagrestano avvicinò di nuovo i battenti, lasciando penetrare in chiesa solo uno spiraglio di luce, che saliva fino all'altare e per quella via luminosa precedette la compagnia.

—Il prete—disse in uno stretto dialetto ligure—finisce di mangiare un pesce e vien subito.—

Le due signore velate si raccolsero e s'inginocchiarono su un banco, su cui era stato disteso un drappo rosso, e si immersero in una calda preghiera. Massimo Bagliani intanto (il signore piuttosto grasso vestito di scuro) mentre il prete finiva di mangiare il suo pesce, si mosse per la chiesa come chi non sa dominare una nervosa inquietudine: tornò fin verso la porta a specchiarsi nel gran tramonto che metteva nell'ombra raccolta della navata una striscia sanguigna.

È sempre bello quello che si deve fare…—Era stato questo il suo motto eccitatore, ma ora che stava per sposare e far sua per sempre la donna così lungamente amata, per la quale aveva tanto sognato e sofferto, temeva anche lui la realtà che gravita spesso sui pensieri nostri come una pietra troppo pesante. Avrebbe voluto sentirsi più tranquillo e trovare in sè stesso un maggiore convincimento e un più sereno spirito di pace: ma il cuore debole temeva la troppa felicità. Un nodo, che pareva fatto da un pugno di lagrime, lo strozzava, lì, alla gola, e l'assaliva l'avvilimento che piglia il giovinetto sulla soglia del suo primo incontro d'amore.

I quarant'anni non gli servivano a nulla, nemmeno di contrappeso alla paura: nulla significava la neve che il tempo aveva lasciato cadere in piccole striscie sulle tempie; sul punto d'impadronirsi di quella creatura che gli era sempre sfuggita, Massimo Bagliani, temendo di rompere un delizioso incanto e di essere incapace della sua felicità, stava in guardia per non sfigurare troppo davanti a sè stesso.

La signora Matilde, che era venuta ad incoraggiare i buoni propositi, assisteva la sorella in questo nuovo passo della vita. Si sperava di avere anche il buon Cresti come testimonio, ma il vecchio brontolone si era scusato col pretesto di cento mali e di una grande pigrizia.

Bisognò contentarsi di due umili testimoni presi sul sito, cioè un vecchio pescatore e il procaccia postale, che aspettavano nella casa del prete d'essere chiamati.

Intanto il sagrestano continuò ad accendere i lumi dell'altare, adagio adagio, per dar tempo al prete di finire il suo pesce, mentre il sole, piegando dietro la curva del monte, lasciava indietro un cielo terso come un cristallo in cui cominciava a uscire qualche stella.

Quando le candele furono accese e che nella cresciuta oscurità dell'abside uscì alla loro luce il modesto splendore dell'altare, Massimo fatto un virile proposito, si accostò con passo sicuro alle due donne, mentre dall'usciolino della sagrestia veniva fuori un prete umile e tozzo dalla faccia rugosa come quella di un pescatore, che dopo essersi rispettosamente inchinato agli illustrissimi signori, fece un cenno ai due uomini che venivano dietro e che si collocarono come sentinelle ai lati dell'altare.

Matilde incoraggiò un'ultima volta la sorella che si mosse e andò a inginocchiarsi sul gradino.

Il prete lesse nel libro latino le promesse e le profezie che la Chiesa riserva agli sposi: le mani si congiunsero sotto la protezione della sacra stola e il vecchio amore pianse come un fanciullo.

* * * * *

Tornarono ch'era già buio. Nell'attraversare il paese la carrozza dovette mettersi al passo per non urtare in una grossa folla di gente, che si adunava presso il casino della Sanità.

—Che c'è—chiese Massimo al cocchiere, sporgendo la testa dalla finestra.

—Hanno pescato una donna….

La carrozza riprese la sua corsa e cinque minuti dopo gli sposi scendevano alla villa illuminata.

Intanto presso il casino della Sanità era un accorrere di guardie di finanza, di carabinieri, di autorità comunali intorno al cadavere di una giovine donna che alcuni pescatori avevano tirato poco prima alla riva. Il medico comunale aveva dichiarato che non c'era più nulla a fare. Seduto davanti a un tavolino, al lume di una povera candela un commissario di pubblica sicurezza scriveva un breve verbale del fatto, raccogliendo le testimonianze dei pescatori, del sindaco, delle guardie.

—Nessuno di voi conosce questa creatura?—

Qualcuno ebbe a dire d'aver visto tre ore prima di sera correre lungo il molo una giovine signora che all'aspetto pareva forestiera.

—Nelle tasche si è trovato un portafoglio con qualche biglietto….—disse il brigadiere.

—Che cosa c'è scritto?—chiese il commissario,

—Liana….

—Liana? è il nome d'una pianta.

—Sì, d'una pianta che s'attacca….—commentò il segretario comunale, che si piccava di possedere qualche nozione di storia naturale.

XIII.

Rose gialle.

Il giorno di Natale fu preceduto da una larga nevicata. I monti tutti bianchi stringevano coi loro fianchi coperti d'ermellino il lago scuro che aveva l'immobilità del piombo.

Rigida era l'aria sotto il cielo opaco e carico.

Amedeo e Regina erano stati invitati a passar la festa in casa del babbo, alla fattoria, e vi si trovarono a mettere i piedi sotto la tavola oltre a Maria Giulia, la madre di Amedeo, e alla zia Maddalena, qualche vecchio parente abbandonato e don Malachia della Madonna del Soccorso, che in quella sua solitudine a mezza montagna non aveva nessuno con cui rompere un augurio.

Gli sposi, che avevano verso il signor Cresti qualche dovere di riconoscenza, insistettero tanto finchè promise di lasciarsi vedere anche lui a prendere il caffè e ad assaggiare una fetta di torta in compagnia. Che cosa voleva fare lassù in quella fredda solitudine del Pioppino?

Era la prima volta che il Cresti passava le feste di Natale solo soletto. Gli altri anni aveva sempre accettato volentieri l'invito di questo o di quello. L'ultima volta s'era lasciato tirare volentieri al Castelletto da quelle signore…. Ma questa volta cento mila malanni l'avevano persuaso a non uscire dal suo nido di piccione selvatico.

Oltre a un languore inesplicabile e a una grande debolezza di gambe si era sviluppata un'affezione di fegato, che dava al suo volto il colore della tristezza. Non mangiava quasi più, quantunque le due ragazze facessero di tutto per stuzzicargli l'appetito con cosuccie tenere e saporite. Però l'umore dell'uomo non era cattivo.—Anzi è fin troppo buono—dicevano le due donne—ci fa quasi paura.

Il pensiero di dare dispiacere ai giovani sposi l'aveva indotto ad accettare l'invito e a scendere alla villa sul far della notte, quando gl'invitati eran già arrivati all'arrosto. Fu accolto con molti segni di gioia. Don Malachia, che stava bagnando il becco in un eccellente barolo gli andò incontro col bicchiere in mano; ma Regina volle aver l'onore di farlo sedere tra lei e Amedeo, mentre il vecchio Bortolo metteva un altro ceppo di castagno sul camino dell'ampia cucina, che si riscaldò e si ravvivò tutta d'una nuova fiamma scoppiettante.

Regina non era mai stata forse così bella come quella sera, quantunque soffrisse un poco, dolcemente, per l'affanno d'una prima maternità: ma i colori un poco stanchi e attenuati conferivano al suo volto di barcaiola una gentilezza e una mollezza quasi signorile. Gli occhi brillavano d'un'interna felicità, che non sapeva sempre nascondersi e sfuggiva dalle mani dell'istintivo pudore come un uccellino che batte le ali nelle mani d'un fanciullo.

Amedeo s'era messa indosso la blusa turchina delle Regate colle filettature bianche e in vita la fascia a rete con cui Regina aveva avviluppato il suo cuore.

L'amore di questi due figliuoli continuava a essere la cosa più semplice del mondo: e beati loro che non avevano ancora imparata l'arte inutile di complicarlo. Essi avrebbero potuto dimostrare che vero e unico creatore di bene è l'affetto, l'affetto naturale che scorre quieto, ma inesauribile, a portare i freschi ruscelli della vita, mentre la passione o è fiamma che dissecca o è un torrentaccio rovinoso che assorda, strascina, devasta; ma per dimostrar questa verità avrebbero dovuto studiar tutte quelle cose inutili che guastano quell'unica necessaria. Essi eran felici appunto perchè non sapevano di che cosa era fatta la loro felicità.

Alla torta si aggiunsero le castagne fumanti che Maria Giulia scodellò nella tafferia di legno. Al vecchio barolo si mescolò un nebbiolo dolce spumante; al ceppo fu aggiunta una manata di sterpi secchi e resinosi che fecero scoppiettare il camino come una fortezza.

Il nostro Cresti accettò e assaggiò qualche cosa, prese parte al brindisi che si fece in onore del futuro erede, applaudì a certi versi in dialetto rustico che don Malachia recitò sul tema: Che cosa è Amore.

Eran versi scritti da un antico compagno di scuola del prete, morto all'ospedale dopo una vita agitata di congiure, di combattimenti e di studi che gli avevano procurata qualche celebrità sui giornali di un tempo. Amore in quei versi di schietta vena vernacola era definito un angelo, un demonio, una furia, una carezza, un sospiro, una croce, una delizia, un fiato di Dio. La rima semplice e naturale che risonava con un accento di ironica malinconia sulle labbra del vecchio prete fece ridere la brigata: ma strinse un poco il cuore malato del nostro amico. Quella stessa mattina aveva ricevuta una lettera della signora Matilde da Torino in cui gli faceva gli auguri per le feste e gli dava qualche notizia dei parenti. Massimo era ancora a Parigi; Ezio in viaggio per l'America; Flora aveva cominciato le sue lezioni; tutti speravano che si sarebbe lasciato vedere anche lui qualche volta o a Torino o in Riviera.

Ma egli si sentiva malato, molto malato…. Mai il suo spirito era stato così pesante, così vuoto di volontà, così ottuso in tutti i suoi sensi.

L'idea che un nuovo anno stava per cominciare e che avrebbe dovuto stendere la sua povera vita sul tempo come sopra una croce gli faceva parer bella l'idea di chiudere gli occhi per sempre e di sottrarsi per sempre alle sensazioni. Della morte non poteva avere un concetto molto chiaro nemmen lui come nessun filosofo osa dire di averlo: ma credeva che i morti riposano senza desideri e questo era già per lui un soave invito. La bufera aveva schiantata la vecchia pianta, che dopo aver perduto a poco a poco le sue foglie, stava per irrigidirsi del tutto ai venti gelidi dell'inverno.

Questo freddo sentiva spesso scorrere come un'acquolina gelata nella midolla delle ossa, e lo sentì in un modo straordinario quella sera di Natale quando, uscito dalla casa riscaldata di Bortolo, si trovò sulla via esposto ai colpi della brezza notturna coi piedi nella neve. Era nevicato durante il giorno, ma ora il cielo ripulito da un vento asciutto del nord lasciava vedere le stelle, che parevano rimpicciolite e anch'esse tremanti di freddo.

Costeggiò il giardino delle ville silenziose, passò sotto i portici del paese tutto deserto, quantunque dalle finestre e dagli archi delle botteghe uscissero i bagliori o i rumori delle cene. Passò oltre, fuori delle case, rimbacuccato in un vecchio tabarro, toccò la chiesa parrocchiale e cominciò lentamente la salita che mena al Pioppino.

Sonarono in quell'istante le undici al campanile della chiesa.

Prese a salire per la strada e per la scalinata che biancheggiavano in mezzo ai muretti, soffermandosi ogni qual tratto per raccogliere insieme alle fonte i pensieri dispersi. Avrebbe detto che il nebbiolo spumante del vecchio Bortolo gli fosse andato alla testa, tanta era la confusione di idee e l'oscurità mentale da cui si sentiva quasi coperto.

Quel prete l'aveva fatto ridere colla sua frottola d'Amore, di cui ora ritornava a sonargli nell'orecchio il ritornello:

    Amor d'Amor l'è pader,
    Amor l'è el cap di lader…

Chi si fida, guai! esso vi porta sempre via qualche cosa, o la ragione, o il cuore, o la pace, o il sonno, quando non vi porta via tutta la vita.

Aveva un bell'aiutarsi colle ragioni positive del buon senso e con quelle ineluttabili della necessità; ma da quel dì che Flora era stata perduta, la vita s'era smontata come una chitarra dalle corde rotte. Egli aveva creduto in principio che il sacrificio potesse avere in fondo qualche dolcezza e che un amore potesse trasformarsi in un altro come si muta il vino, mutandolo di botte: ma il miracolo della trasformazione tardava troppo a compiersi e c'era a temere che il suo vecchio vin buono s'alterasse in un corrosivo e velenoso aceto.

Si fermò ancora una volta per ascoltare una voce vicina a lui che ripeteva:

Amor l'è el cap di lader…

Chi aveva parlato così forte? non c'era nessuno sulla strada che saliva sempre più incassata nei muri. Forse quel benedetto nebbiolo…

Allo svolto del muro spuntò la cappelletta dell'Immacolata, innanzi alla quale ardeva la lampada che le due vecchie ragazze facevano accendere quando avevano una grazia speciale da domandare alla Madonna. Da qualche tempo l'olio era consacrato a invocare la salute del povero padrone malandato nelle gambe: e Cresti sapeva anche questo.

Al comparire di quel bagliore rossiccio che, battendo sul muro, veniva a cadere e a morire sulla strada bianca di neve, il vecchio cuore accartocciato si dilatò come sotto il soffio d'una tenera commozione.

Quelle vecchie povere ragazze, a cui l'Amore non aveva mai detto nulla, amavano lui come si ama un figliuolo. In quella lampada ardeva lo spirito di una tenerezza femminile, quasi materna: e si sarebbe detto che anche la pallida Madonna, meschinamente dipinta sul muro, si commovesse in un raggio di bellezza al tremare della fiamma.

Cresti era stato in sua vita un tranquillo miscredente, pel quale la vita non aveva valore se non in quanto è fenomeno di consumazione. Tollerante e rispettoso delle illusioni altrui, egli si era tenuto pago a questa discreta persuasione che c'è vita fin che c'è olio nella lucerna; ma dacchè Flora gli aveva stracciato il cuore, al cospetto del suo dolore, andava dubitando che nella fiamma possa entrare qualche cosa di più sottile e di sensibile che non si compera alla bottega e che crepita e vibra nel fuoco stesso che alimenta.

Non soltanto olio ardeva nella lampada che le due ragazze avevan fatto accendere per lui… ma la luce veniva dalla fede di due cuori addolorati come il suo, una fede che penetra il mondo e alimenta—forse—tutto ciò che splende negli occhi degli uomini e sugli altari di Dio.

La scintilla che si sprigiona dalle pietre battute è ancora questo spirito che pare assiderato nel sasso, ma che, evocato, va dalla selce a riscaldare la povera cenere dei freddi pensieri…

Qualcuno andava ripetendo accanto a lui queste sue riflessioni con voce così netta, che a un tratto si fermò per guardarsi intorno e per cercare chi veniva dietro di lui. Per un momento pensò che fosse don Malachia che tornasse anche lui per la medesima strada al Santuario. Ma non c'era nessuno. Non cessò per questo la sua meraviglia, anzi crebbe quando scorse ai piedi della cappelletta, dove diluivasi sulla neve ammucchiata la luce rossigna della lampada, un bel mazzo di rose gialle fiorite, di quelle belle rose rêve d'or che egli aveva regalate il Flora il primo giorno della sua convalescenza.

Come potessero fiorire delle rose in quel mucchio di neve era un miracolo inesplicabile. Che la Madonnina le avesse fatte sbocciare al calore della lampada? che le due donne le avessero segretamente coltivate e messo lì per invocare un divino soccorso?

Era un miracolo inesplicabile…

Provò a toccar colla mano il meraviglioso cespuglio e vide ch'eran rose vive e vere spuntate lì nel mucchio della neve come un pensiero di fede che esca da un'anima intirizzita…

La mattina chi passò per primo presso la cappelletta trovò il povero signor Beniamino Cresti morto sulla strada colle mani distese al mucchio di neve. La lampada sul finire mandava gli ultimi guizzi, lottando cogli splendori d'una nitida alba d'inverno.

FINE.

INDICE

Prefazione di Gaetano Negri.

PARTE PRIMA.

      I. Due vecchi amici pag. 9
     II. Due amici giovani » 25
    III. Studi severi » 37
     IV. La saetta » 63
      V. L'incontro » 73
     VI. Una visita » 92
    VII. Colpo di mitraglia » 105
   VIII. Triste ebbrezza di cattivo vino » 116
     IX. Una benedizione » 129
      X. Le regate » 142
     XI. Fiori e fragole » 162
    XII. Una gita in montagna » 178
   XIII. Convalescenza » 199
    XIV. Tra zio e nipote » 215
     XV. Tra il marito e… l'altro » 225
    XVI. Il duello » 240
   XVII. Un triste viaggio » 262
  XVIII. Pentimento » 275

PARTE SECONDA.

      I. I coniugi Hospenthal pag. 285
     II. Nelle tenebre » 296
    III. Una scappata » 312
     IV. Belvedere » 325
      V. Triste incontro » 335
     VI. La grande battaglia » 340
    VII. Verso la luce » 356
   VIII. Verso le tenebre » 371
     IX. Fascio di lettere » 388
      X. Amore e rimorso » 403
     XI. Addio » 409
    XII. Le nozze » 417
   XIII. Rose gialle » 423

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