The Project Gutenberg eBook of Il Quadriregio

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Title: Il Quadriregio

Author: Federico Frezzi

Annotator: Enrico Filippini

Release date: December 7, 2008 [eBook #27433]

Language: Italian

Credits: Produced by Claudio Paganelli and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (Images generously made available by Editore Laterza and the Biblioteca Italiana at http://www.bibliotecaitaliana.it/ScrittoriItalia)

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SCRITTORI D'ITALIA

F. FREZZI
IL QUADRIREGIO

FEDERICO FREZZI

IL QUADRIREGIO

A CURA

DI
ENRICO FILIPPINI

BARI

GIUS. LATERZA & FIGLI

TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI

1914

PROPRIETÁ LETTERARIA

MAGGIO MCMXIV—38615

LIBRO PRIMO

DEL REGNO D'AMORE

p. 3

CAPITOLO I

Come all'autore apparve Cupido, e questi lo condusse nel regno di Diana, ove a' preghi del medesimo ferí la ninfa Filena.

        La dea, che 'l terzo ciel volvendo move,
        avea concorde seco ogni pianeto
        congiunta al Sole ed al suo padre Iove.

        La sua influenza tutto 'l mondo lieto
    5 esser faceva e d'aspetto benegno,
        da caldo e freddo e da venti quieto.

        E Febo il viso chiaro avea nel segno,
        che fu sortito in cielo ai duo fratelli,
        ond'ebbe Leda d'uovo il ventre pregno,

   10 E tutti i prati e tutti gli arboscelli
        eran fronduti, ed amorosi canti
        con dolci melodie facean gli uccelli.

        E giá il cor de' giovinetti amanti
        destava Amore e 'l raggio della stella,
   15 che 'l sol vagheggia or drieto ed or davanti,

        quando il mio petto di fiamma novella
        acceso fu, onde angoscioso grido
        ad Amor mossi con questa favella:

        —Se tu se' cosa viva, o gran Cupido,
   20 come si dice, e figlio di colei,
        ch'amore accese tra Enea e Dido;

        se tu se' un del numer delli dèi,
        e se tu porti le saette accese,
        esaudisci alquanto i desir miei.
p. 4
   25 I' priego te che mi facci palese
        la forma tua e 'l tuo benigno aspetto,
        il qual si dice ch'è tanto cortese.—

        Appena questo priego avea io detto,
        quand'egli apparve a me fresco e giocondo
   30 in un giardino, ov'io stava soletto,

        di mirto coronato el capo biondo,
        in forma pueril con sí bel viso,
        che mai piú bel fu visto in questo mondo.

        I' creso arei che su del paradiso
   35 fosse il suo aspetto: tanto era sovrano;
        se non che, quando a lui mirai fiso,

        vidi ch'avea un arco ornato in mano,
        col quale Achille ed Ercole percosse,
        e mai, quando saetta, getta invano.

   40 Sopra le vestimenta ornate e rosse
        di penne tanto adorne avea duo ali,
        che cosí belle mai uccel non mosse.

        Nella faretra al fianco avea gli strali
        d'oro e di piombo e di doppia potenza,
   45 colli qua' fere a dèi ed a mortali.

        Quando ch'i'l vidi avanti a mia presenza,
        m'inginocchiai e, come a mio signore,
        li feci onore e fe'li riverenza,

        dicendo a lui:—O gentilesco Amore,
   50 se a venire al priego mio se' mosso,
        colla tua forza e col tuo gran valore

        aiuta me, il quale hai sí percosso
        e sí infiammato col tuo sacro foco,
        ch'io, lasso me! piú sofferir non posso.—

   55 Allor rispose, sorridendo un poco:
        —Dall'alto seggio mio i' son venuto
        mosso a piatá del tuo piatoso invoco.

        Degno è ch'io ti soccorra e diati aiuto,
        da che ferventemente tu mi chiame,
   60 e ch'io sovvenga al cor, ch'i' ho feruto.
p. 5
        Sappi che in oriente è un reame
        tra lochi inculti e tra ombrosi boschi,
        ch'è pien di ninfe d'amorose dame.

        E quelle selve e quelli lochi foschi
   65 son governati dalla dea Diana,
        la qual voglio che veggi e la conoschi.

        E benché sia la via molto lontana
        e sia scogliosa e sia di molta asprezza,
        io la farò parer soave e piana.

   70 Io son l'Amor, che dono ogni fortezza
        ne' gravi affanni e, mentre altrui affatico,
        gli fo la pena portar con dolcezza.

        In questo regno, del quale io ti dico,
        è una ninfa chiamata Filena
   75 con bell'aspetto e con volto pudico.

        La selva è ben di mille ninfe piena;
        ma dea Diana, quando va alla caccia,
        piú presso questa che null'altra mena.

        Costei sí bella e con pudica faccia
   80 io ferirò per te d'un dardo d'oro,
        quantunque io creda che a Diana spiaccia.

        Tu vedra' delle ninfe il sacro coro
        insieme con Diana lor maestra,
        e belle sí, ch'i', Amor, me n'innamoro.

   85 E portan l'arco fier nella sinestra,
        ed al comando della lor signora
        cacciando van per la contrada alpestra.

        —O dio Cupido, tanto m'innamora,
        —risposi a lui—il ben che m'hai promesso,
   90 che al venire mi pare un anno ogn'ora.—

        Allor si mosse, ed io andai con esso;
        alfin venimmo per la lunga via
        in un boschetto, ch'avea un piano appresso.

        La dea Diana a caso fatta avía
   95 una gran caccia e dalla parte opposta
        con piú di mille ninfe in giú venía.
p. 6
        E discendeano al pian su d'una costa
        inverso una fontana d'acqua pura,
        qual era in mezzo della valle posta,

  100 non fatta ad arte, ma sol per natura;
        ed era d'acqua chiara e sí abbondante,
        che un fiumicel facea 'n quella pianura.

        E poi ch'al fonte funno tutte quante,
        corseno a rinfrescarsi alle chiare onde,
  105 ponendo in elle le mani e le piante.

        Ed alcun'altre stavan su le sponde
        del fiumicello; e delli fiori còlti
        facean grillande alle sue trecce bionde.

        Ed alcun'altre specchiavan lor volti
  110 nelle chiare acque, ed altre su pel prato
        givan danzando per que' lochi incolti.

        Cupido, ed io con lui, stava in aguato
        dentro al boschetto, e ben vedevam quelle,
        ed elle noi non vedean d'alcun lato.

  115 Poscia ben cento di quelle donzelle
        sciolson le trecce della lor regina,
        le trecce bionde mai viste sí belle.

        Sí come tra' vapor, su la mattina,
        ne mostra i suoi capelli il chiaro Apollo,
  120 e nella sera quando al mar dechina;

        cosí Diana avea capelli al collo,
        cosí splendea ed era bella tanto,
        che a vagheggiarla mai l'occhio è satollo.

        E poi ch'ell'ebbon fatta festa alquanto,
  125 tennon silenzio tutte, se non due,
        che alla sua loda comincionno un canto.

        Delle due cantatrici l'una fue
        Filena bella, che m'avea promessa
        il dolce Amor con le parole sue.

  130 E quando egli mi disse:—Quella è essa,—
        pensa s'io m'infiammai, che la speranza
        tanto piú accende quanto piú s'appressa.
p. 7
        Ond'io all'Amor:—Se quella a me per 'manza
        hai conceduta, percuoti col dardo
  135 costei, che in beltá ogn'altra avanza.

        Ahi quanto piace a me quando la sguardo!
        E cosa desiata, se si aspetta,
        tanto piú affligge quanto piú vien tardo.—

        Allor Cupido scelse una saetta
  140 ed infocolla e posela nell'arco
        per saettare a quella giovinetta.

        E come cacciator si pone al varco
        tacito e lieto, aspettando la fera,
        e sta in aguato col balestro carco;

  145 tal fe' Cupido e la saetta fiera
        poscia scoccò, e, inver' Filena mossa,
        il manto sol toccò lenta e leggera.

        Quando le ninfe sentir la percossa
        e nostra insidia a lor fu manifesta,
  150 tutte fuggir con tutta la lor possa.

        Sí come i cervi fan nella foresta,
        quando sono assaliti, o' capriuoli,
        se cani o altra fera li molesta,

        che vanno a schiera, e alcun dispersi e soli,
  155 e per paura corron tanto forte,
        che pare a chi li vede ch'ognun voli;

        cosí le ninfe timidette e smorte
        fuggiro insieme, ed alcuna smarrita,
        quando si furon di Cupido accorte.

  160 Filena bella non sería fuggita,
        se non che la sua dea la man gli porse:
        tanto pel colpo ell'era sbegottita.

        L'Amore, ed io con lui, al fonte corse,
        dove le sacre ninfe eran sedute,
  165 quando la polsa insino a lor trascorse.

        Io non trovai se non ch'eran cadute
        alle due cantatrici le grillande
        de' belli fior, che in testa avieno avute.
p. 8
        Però a Cupido dissi:—Ov'è la grande
  170 virtú dell'arco tuo, che tanto puote?
        E 'l fuoco ov'è, che tanto incendio spande?

        Se l'arco tuo giammai invan percuote,
        perché ingannato m'hai colle promesse,
        che m'han condutto in le selve remote?—

  175 Non potei far che questo io non dicesse
        col volto irato, e piú mi mosse ad ira
        che del mio scorno parve ch'ei ridesse.

        Poscia rispose:—Ov'io posi la mira,
        quivi percossi, e quivi il colpo giunse
  180 dell'arco mio, che mai invan si tira.—

E quel che segue, col parlar, soggiunse.

p. 9

CAPITOLO II

Nel quale l'Amore prova per molti esempli che nessuno può far resistenza a lui ed alle sue saette.

        —Né ciel, né mar, né aer mai, né terra
        potêro al foco mio far resistenza,
        né all'arco dur, che mai ferendo egli erra.

        Dall'alta sede della sua eccellenza
    5 fatt'ho discender piú fiate Iove
        colle saette della mia potenza.

        E lui mutai in cigno ed anco in bove,
        ed in altre figur bugiarde e false,
        senza mostrar le mie ultime prove.

   10 Nettunno freddo in mar tra l'acque salse
        accese tanto il mio fuoco sacrato,
        che l'Oceáno estinguer non gli valse.

        Ma come fortemente innamorato
        della fiera Medusa, che a lui piacque,
   15 e di cui 'l viso tanto gli fu grato,

        gridava:—Io ardo tra le gelid'acque;—
        perché ammortar non potea in sé l'ardore
        mercé chiamando, a me soggetto giacque.

        Pluton d'inferno, ove non fu ma' amore,
   20 infiammai tanto col mio caldo foco,
        che 'l feci innamorar col mio valore.

        Proserpina, che stava in balli e gioco,
        fei che rapío e feila far regina
        del tristo inferno e dell'opaco loco.

   25 A Febo l'arte della medicina
        niente valse contra l'arco mio,
        né sapienza, né virtú divina;
p. 10
        ché, bench' e' fosse saggio e fosse dio,
        correndo il feci andar dietro a colei,
   30 la qual nel bello allòr si convertío.

        Ahi quanti sono stati quelli dèi,
        ch'i' ho feriti, e quante le persone,
        ch'i' ho domate con li dardi miei!

        Ercole forte, che vinse il lione
   35 e che all'idra sette teste estinse,
        Cerbero prese e mozzòe Gerione;

        in scambio della spada poi si cinse
        la rocca e 'l fuso per la bella Iole:
        tanto la fiamma e mia saetta il vinse.

   40 Per piú piacer, di fiori e di viole,
        esperta all'elmo, adornava sua testa,
        come dalle donzelle far si suole.

        Tosto vedrai e tosto manifesta
        sará a te in effetto la percossa,
   45 ch'io fe' a Filena al sommo della vesta,

        che gli ha passato giá la carne e l'ossa;
        è giá intrato il caldo alle midolle
        e giunto al core, ov'egli ha maggior possa.—

        E poi mi fe' sguardar su verso il colle
   50 ad una naida, che venia alla 'ngiúe,
        alla quale io parlai com'ello volle;

        ché quando insino a noi venuta fue,
        la domandai:—Perché a quest'acqua amena
        venuta se'? E, dimmi, chi se' tue?

   55 —Una ninfa gentil ditta Filena
        smarrita ha qui una bella grillanda
        —rispose quella—e di questo ha gran pena.

        E perché io la ritrovi ella mi manda,
        e disse a me:—Io vidi un giovinetto,
   60 che corse lí, e però ne 'l dimanda.—

        Ed anco d'altre cose ella m'ha detto:
        saresti tu colui, che loda tanto,
        che parve a lei di sí benigno aspetto?—
p. 11
        Cupido inver' di me sorrise alquanto,
   65 quasi dicendo:—Or vedi la promessa
        e la percossa, ch'io gli diei sul manto.—

        E come chi da compagni si cessa,
        perché parlar vuol tacito e quieto,
        mi cessai solo per parlar con essa.

   70 —Naida mia—diss'io,—or mi fa' lieto:
        dimmi dov'è Filena, se tu 'l sai,
        e se tu hai da lei alcun segreto.

        —Rifa chiamata sono e seguitai
        —rispose quella—giá la dea Diana,
   75 e fui nel suo cospetto accetta assai.

        Ma una volta in una parte strana
        fece una caccia in uno aspro paese,
        ed io cacciando andai molto lontana.

        Trovai un centauro, e per forza mi prese:
   80 oh lassa me, ch'i' non ebbi potere
        contra sua forza usar le mie difese!

        Però Diana non vuol sostenere
        ch'io vada piú con lei, ed hammi posta
        che in guardia un fiumicel debba tenere.

   85 Io era lí, di lá dall'altra costa,
        quando le ninfe con la smorta faccia
        vidi fuggire, e nulla facean sosta,

        sí come cervi che son messi in caccia,
        quando dietro il lion va seguitando,
   90 o altra fiera fuggendo l'impaccia.

        Ed io della cagion facea 'l domando
        del fuggir loro, e Diana non vòlse
        darme risposta insino allora quando

        tutte le ninfe sue ella raccolse.
   95 Allor mi disse:—Qui mi fa fuggire
        Cupido falso e sue infocate polse.

        Ma io farò querela al sommo sire,
        ché 'l regno mio piú volte a tradimento
        con falsitá venuto egli è a assalire.—
p. 12
  100 Poi cercò tutte e solo il vestimento
        trovò a Filena, ch'era alquanto acceso,
        il qual con l'acqua crese avere spento.

        Ma giá quel foco sacro era disceso
        dentro nel sangue, sí come s'accende
  105 un picciol foco nella stoppa appreso.

        Il dí seguente, quando il sol risplende,
        Diana prese le saette cónte;
        ed ogni ninfa ancor suo arco prende,

        però che seppon che di lá dal monte
  110 era di cervi venuta una schiera
        a beverarsi ad una bella fonte.

        Filena non andò, ma rimasta era,
        ché di non poter ir prese la scusa
        ancor pel colpo della polsa fiera.

  115 E per la fiamma, ch'ella avea rinchiusa
        drento nel cor, faceva la donzella
        come un ferito cervio di fare usa,

        il qual non trova loco; e cosí ella
        or si adornava di fioretti belli
  120 la testa sua, come sposa novella,

        or sospirava ed or li suoi capelli
        mostrava al sole e gli occhi, duo zaffiri,
        poscia specchiava ne' chiar fiumicelli.

        Per tanti segni e per tanti sospiri
  125 io, ch'era giá di queste cose esperta,
        conobbi dell'amor li gran martíri.

        —Dimmi, Filena, e non tener coperta
        la fiamma tua:—chiamandola da parte:—
        per tanti segni—dissi—io ne son certa.—

  130 Rispose dopo assai lagrime sparte:
        —Ahi lassa me! Amor d'un dardo d'oro
        ferita m'ha con forza e con sua arte.

        Però non ho seguito il sacro coro
        di mie sorelle, sol perché m'aiuti:
  135 se non mi aiuti, o Rifa, oimè ch'io moro!—
p. 13
        Poscia che i suo' martíri ebbi saputi,
        venni per aiutarla e son discesa
        non per grillanda o per fiori perduti.—

        Quando quest'ambasciata io ebbi intesa,
  140 risponder voleva io:—La mente mia
        è piú di lei ch'ella di me accesa;—

        se non che quella naida n'andó via,
        ed in poc'ora trascorse il viaggio
        insino al loco ond'ella venne pria.

  145 Ond'io all'Amor:—Se se' possente e saggio,
        ora il vegg'io e priego, a me perdona,
        se del tuo arco dissi mai oltraggio.—

        Tempo era quasi presso in su la nona,
        ed io pregava che andassimo ratto,
  150 colui che a gir ratto ogni altro sprona,

        dicendo:—Quando è l'ora, è il tempo adatto;
        se poi s'indugia e perdesi quel punto,
        spesse volte l'effetto non vien fatto.—

        Poscia ch'io fui all'altro colle giunto,
  155 vidi Filena lá dal fiumicello,
        di cui l'Amor m'avea il cor trapunto.

        Di fiori adorno avea lo capo bello;
        e perché il fiume correa giuso al basso,
        però discesi ed appressaime ad ello.

  160 Quando per gire a lei io movea il passo
        per entro il fiume, udii sonare un corno,
        il qual mi tolse allora ogni mio spasso.

        Filena disse:—La dea fa ritorno;
        oimè, fuggi via tosto;—e poi levosse
  165 i fior, de' quali il capo avea adorno.

        Ed incontra alle ninfe ella si mosse,
        le qua' tornavan liete con le prede;
        ed indi anche Cupido me rimosse,

        dicendo a me:—Se Diana ti vede,
  170 come Acteon, quando da lei fu visto,
        trasmutar ti fará da capo a piede.—
p. 14
        Come colui che crede fare acquisto
        di quel che piú desia, e viengli invano,
        cosí io me scornai e feime tristo.

  175 E lagrimando ingavicchiai la mano,
        e risguardava la nobile 'manza
        da un boschetto non molto lontano.

        Oh credula anco e fallace speranza,
        confortatrice all'uom nelle gran pene,
  180 che, mentre perdi, acquistar hai fidanza!

        Ancor nel core mi dicea la spene:
        —Anco avverrá che Filena rimagna,
        se a Diana partir gli conviene.—

        Poi volle andar la dea alla montagna;
        e per non gire, io credo, mille prece
  185 fece Filena e Rifa sua compagna.

        Ella non assentí, ma gir le fece
        amendue seco, e Filena lo sguardo
        volse a me, andando, volte piú di diece;

e, mentre andava in su, mi gittò un dardo.

p. 15

CAPITOLO III

L'autore vien tradito da un satiro, mentre cerca Filena, che, aspramente da Diana punita, in quercia si trasmuta.

        Il dardo, che gittò, da me si colse,
        che, quando il balestrò, venne sí ritto
        e tanto appresso a me quant'ella vòlse.

        «Io amo te—occulto ivi era scritto:—
    5 l'Amor, che ferí Febo di Parnaso,
        ferito m'ha li panni e 'l cor trafitto».

        Cupido a me:—Per me non è rimaso
        che tu non abbi avuto il tuo desire;
        ma questo impedimento è stato a caso.

   10 Cercando omai per lei ti convien gire.—
        E quando io a lui rispondere volía,
        fuggí volando e non mi volle udire.

        —O falso Amor—diss'io,—o scorta mia,
        perché mi lassi? or dove prendi il volo?
   15 perché mi lassi senza compagnia?—

        Vedendomi rimaso cosí solo,
        passai il fiume insino all'altra banda
        e fui sul prato e su quel verde suolo,

        ov'io vidi Filena lieta e blanda,
   20 quando coll'occhio mi soffiò nel foco,
        che amore accende e che Cupido manda.

        E sospirando dissi:—Oh dolce loco,
        mentre Filena vi tenne le piante!—
        E poscia che 'l basciai e piansi un poco,

   25 per la via ch'ell'er'ita, andai su avante,
        cercando tutti i balzi ed ogni valle
        e scogli e schegge intorno tutte quante.
p. 16
        E giá Atalante dietro le sue spalle
        posto avea Febo e facea il giorno nero;
   30 ed io pur oltre per lo duro calle,

        senza riposo; e solo avea il pensiero
        a ritrovarla per la selva oscura,
        piena di spine senz'alcun sentiero.

        Se sol di notte non avea paura,
   35 Amor è quel che da fortezza altrui
        nelle fatiche e l'animo assicura.

        Tra l'aspre selve e tra li boschi bui
        tutta la notte andai cercando intorno
        insin che in un vallon venuto fui.

   40 E quasi su nel cominciar del giorno
        trovai un mostro, maladetta fera,
        coll'arco in mano, e avea al petto un corno.

        Il petto e 'l volto suo tutto d'uomo era,
        il dosso avea caprin fino alla coda,
   45 con quattro piedi e colla pelle nera.

        Un satiro era questo pien di froda:
        e satir detti son malvagi e falsi,
        che fanno inganni con lusinghe e loda.

        E fauni ancora stan tra quelli balsi
   50 ed hanno umani i petti ed anco i volti;
        l'altro è bovino, e vanno nudi e scalsi.

        E semicervi ancora vi son molti,
        ingannatori ed animal perversi,
        pur ch'altri con lor usi e che gli ascolti.

   55 Dal satir, che scontrai, con dolci versi
        sí lusingato fui e sí sottratto,
        che tutto il mio amor gli discopersi.

        Ché quando vidi un mostro cosí fatto,
        in man per mia difesa presi il dardo,
   60 che la bella Filena a me avíe tratto.

        Ed egli il riconobbe al primo sguardo
        ch'io l'avea dalla ninfa di Diana;
        onde parlò come falso e bugiardo:
p. 17
        —Onde vien' tu in questa selva strana?
   65 Di', che ti move e, dimmi, qual è il fine,
        pel qual tu vai per questa via lontana?—

        Ed io a lui:—Tra cespi e dure spine
        smarrito vo, ed or son qui venuto
        come chi va, né sa dove cammine.

   70 Ma tu, che se' mezz'uomo e mezzo bruto,
        mi fai maravegliar quando io ti guato,
        ché sí fatto uom non fu giammai veduto.

        —Io fui pur uom—rispose—innamorato
        di dea Diana, e vagheggiaila ognora,
   75 e da lei 'n questa forma fui mutato;

        ch'ella pregò lo dio, ch'altru' innamora,
        che a ciò rimediasse, e me percosse
        del dardo ch'è di piombo e disamora.

        Questo ogni amor mi tolse e via rimosse;
   80 e però quella dea a me permette
        ch'i' possa gire a lei unque ella fosse.

        Insieme vo con le sue giovinette
        fra questi monti, insieme con lor coglio
        li fior, che stanno in su le verdi erbette.

   85 A chiunque è innamorato anche ho cordoglio,
        che ricordo le pene, ch'io provai
        del falso Amor, del quale ancor mi doglio.

        E se tu mi dirai dove tu vai,
        forse t'aiuterò, se mi richiedi
   90 e se sei saggio e secreto il terrai.—

        O vano amor, oh quanto ratto credi
        quel che vorresti! Alle parole udite
        ed al modo del dir fede gli diedi.

        Ed io a lui:—Per queste vie smarrite
   95 cercando vo le ninfe, ov'elle stanno:
        prego, se 'l sai, me diche ove son ite.—

        Rispose ancor con falsitá ed inganno:
        —Elle sonno ite in un lontan paese,
        al qual non potrest'ir per grave aflanno.
p. 18
  100 Ma, se tu ami, perché nol palese
        a me, che sai che ho provato l'arme
        del fier Cupido e le saette accese?

        —Satiro mio—diss'io,—se puoi aitarme,
        io te 'l dirò, se prima tu mi giuri
  105 tener credenza e ch'io possa fidarme.

        —Perché non di', perché non t'assecuri?
        —rispose il falso.—Or non sai tu che io
        di piombo e d'òr sentito ho i dardi duri?

        Io ti prometto e giuro innanzi a Dio
  110 di tenerti secreto e d'aiutarte
        e conducer la ninfa al tuo desio.—

        Cosí mi disse con malizia ed arte;
        ond'io m'apersi e dissi con gran pena:
        —Vo cercando una ninfa in ogni parte,

  115 bella e gentile, chiamata Filena;
        per ritrovarla entrai per questo bosco;
        la sua beltá dirieto a lei mi mena.

        Tra questi spin, che son piú amar che tòsco,
        soletto per parlargli io mi son messo,
  120 ché piú piacente cosa io non conosco.

        —Ed io farò—diss'ei—quel ch'i' ho promesso;
        ch'io anderò co' mie' veloci piei
        ove la ninfa sta molto da cesso.

        Ma perché essa creda a' detti miei,
  125 il dardo, che hai in man, mi dá' per segno,
        perché segretamente il mostri a lei.

        Con mie parole e mio usato ingegno
        farò ch'ella verrá in un bosco sola,
        e tu girai a lei quand'i' rivegno.—

  130 Io gli die' 'l dardo per questa parola,
        ed ei ghignò alquanto e poi saltando
        andò veloce come uccel che vola.

        Forse sei ore avea aspettato, quando
        io vidi Rifa mia fida messaggia,
  135 e quando a lei fui presso, io la domando:
p. 19
        —Dov'è Filena bella, onesta e saggia?
        Per lei cercato ho il bosco in ogni canto,
        e gito in ogni scheggia, in ogni piaggia.—

        Ella rispose con singolti e pianto:
  140 —Piú non appar la misera tapina;
        come tu contra lei errato hai tanto?

        Quella biforme bestia, ch'è caprina,
        dianzi venne a noi, correndo in fretta,
        'nanti alle ninfe ed alla lor regina,

  145 e mostrò lor lo dardo over saetta,
        che balestrò Filena a te dal monte,
        e la scrittura «Io t'amo» è tutta letta.

        Per la vergogna ella abbassò la fronte,
        e dea Diana, a grand'ira commota
  150 contra Filena, stante a braccia gionte,

        gli die' dell'arco in testa e nella gota;
        e poiché l'ebbe dispogliata nuda,
        disse alle ninfe:—Ognuna la percota.—

        Allor ciascuna verso lei fu cruda.
  155 Ridea colui che fatto avie l'accusa,
        quel reo biforme maladetto Iuda.

        Poscia cosí spogliata e sí confusa
        ad una quercia grande fu congiunta,
        che sempre debba stare ivi rinchiusa.

  160 E quivi vive e sta quasi defunta;
        e mille volte fu percossa ancora
        drento alla pianta; e quando ella è trapunta,

        ad ogni colpo n'esce il sangue fuora
        e l'arbor bagna; e quando il colpo giunge,
  165 grida piangendo:—Omè, omè, m'accora!—

        Udito io questo, ambe le mani e l'ugne
        mi diedi al volto e tenni basso il viso
        e non parlai, che il gran dolor, che pugne,

        parlar non lassa, quand'ha 'l cor conquiso.
  170 Poscia, sfogati gli occhi lagrimosi,
        con voce fioca e col parlar preciso,

sí come or seguirá, io gli risposi.

p. 20

CAPITOLO IV

Lamento dell'autore sopra la perduta Filena: promessa di piú bella ninfa fattagli da Cupido.

        —Oimè, oimè, o Rifa mia fedele,
        come ha permesso la fortuna e Dio
        che sia avvenuto un caso sí crudele?

        Trovai quel mostro maladetto e rio
    5 nella boscaglia in sul levar del sole;
        ed e' mi domandò del cammin mio.

        Oh lasso me! con sue dolci parole
        ei m'ha tradito: or vada, ch'io nol giunga
        e non l'occida, a lunge quanto vuole.—

   10 Driada disse:—Il falso è sí alla lunga,
        che 'nvan per queste selve t'affatichi
        che mai per te insino a lui s'aggiunga.

        —O Rifa mia, io prego che mi dichi
        dov'è la quercia, dove sta unita
   15 Filena mia coi begli occhi pudichi,

        e, da che io non gli parlai in vita,
        la vegga morta e le mie braccia avvolti
        a quella pianta, dove sta impedita.—

        Mossesi allor con pianti e con singolti,
   20 ed io con lei per l'aspero cammino
        di quelli boschi e di que' lochi incolti,

        insin che giunsi all'arbore tapino;
        non alto giá, ma era lato tanto,
        quanto in la selva è lato un alto pino.

   25 Io corsi ad abbracciarlo con gran pianto,
        e dissi:—O ninfa mia, prego, se pui,
        prego che mi rispondi e parli alquanto.
p. 21
        Oh lasso me! ché a te cagione io fui
        di questa morte; ché quel traditore
   30 nefando mostro ha tradito amendui.

        Alli miei prieghi ti ferí l'Amore
        dell'infelice colpo alla gonnella,
        che passò tanto acceso poi nel core.

        Prego, perdona a me, Filena bella:
   35 perché non parli? perché non rispondi?
        Prego, se puoi, alquanto a me favella.

        Questa novella pianta e queste frondi
        e questi rami io credo che sian fatti
        delli tuoi membri e tuoi capelli biondi.—

   40 Poiché mille sospiri io ebbi tratti
        e mille volte e piú la chiama' invano
        con pianti e voci ed amorosi atti,

        a quelle frasche stesi sú la mano
        e della vetta un ramuscel ne colsi:
   45 allora ella gridò:—Oimè! fa' piano.—

        E sangue vivo uscí, ond'io el tolsi,
        sí come quando egli esce d'una vena;
        ond'io raddoppiai il pianto e sí mi dolsi:

        —Perdona a me, perdona a me, Filena.—
   50 Poi maladissi il falso dio Cupido,
        che lei e me condotto avea a tal pena,

        dicendo:—Se piú mai di lui mi fido,
        perir poss'io, e se al suo consiglio,
        seguendo il passo suo, mai piú mi guido.—

   55 Quando questo io dicea, con lieto ciglio
        Cupido apparve con bel vestimento
        broccato ad oro nel campo vermiglio;

        e disse a me:—Perché questo lamento
        di me fai tu? Non è la colpa mia,
   60 se altri a te ha fatto tradimento.

        Anche è stato tuo error e tua follia,
        da che tu rivelasti il tuo secreto
        al mostro, che trovasti nella via.
p. 22
        Pon' fin omai, pon' fin a tanto fleto,
   65 ché d'altra ninfa di maggiore stima,
        se mi vorrai seguir, ti farò lieto.—

        Ed io, mirando l'arbore alla cima,
        dissi:—Piú bella non fu mai veduta;
        questa l'ultima sia, che fu la prima.—

   70 Ed egli a me:—Della cosa perduta
        non curar piú; e tanto ti sia duro,
        quanto se mai tu non l'avessi avuta.—

        Ed io dicendo pur:—Venir non curo,—
        della faretra fuor un dardo trasse,
   75 ch'era di piombo pallido ed oscuro,

        e parve ch'e' nel petto me 'l gittasse;
        e perché quello fa che amor si sfaccia,
        fece che piú Filena io non amasse.

        Allor risposi a lui con lieta faccia:
   80 —Voglio venire e voglio seguitarte
        ed esser presto a ciò che vuoi ch'io faccia.—

        Ed egli disse:—Qua a destra parte
        sta una valle tra la gran foresta,
        che diece miglia di qui si diparte.

   85 Lí debbe dea Diana far la festa
        per la sua madre, come fa ogni anno,
        e la dea Iuno a venirvi ha richiesta,

        sí ch'ella e le sue ninfe vi verranno,
        che son sí belle, che, a rispetto a quelle,
   90 queste di Diana silvestre parranno.

        Tu vederai venir quelle donzelle
        tutte vaghette, adorne ed amorose,
        incoronate di splendenti stelle.—

        E poi si mosse tra le vie spinose,
   95 tanto ch'e' mi condusse su nel monte,
        ond'io vedea la valle, e lí mi pose.

        In mezzo la pianura era una fonte
        sí piena d'acqua, che n'usciva un rivo,
        nel qual le ninfe si specchian la fronte.
p. 23
  100 E 'n mezzo la pianura, ch'io descrivo,
        era una quercia smisurata e grande
        e sempre verde quanto verde olivo;

        e li suo' rami in quella valle spande,
        li quai son tutti di rosso corallo,
  105 ed ha zaffiri in loco delle giande.

        E tutto il fusto è come un chiar cristallo,
        e sotto terra ha tutte sue radice,
        come si crede, del piú fin metallo.

        Per farlo adorno e mostrarlo felice
  110 vi cantan tra le fronde mille uccelli,
        e lodi di Diana ciascun dice.

        Sul verde prato tra' fioretti belli
        vidi migliaia di ninfe ire a spasso
        con le grillande in sui biondi capelli:

  115 e per le coste giú scendere abbasso
        fauni vidi e satiri e silvani,
        che alla festa al pian movean il passo.

        Dietro son bestie ed hanno visi umani;
        e son chiamati dèi di quelli monti
  120 e di quegli alpi sí scogliosi e strani.

        E naide v'eran le dèe delle fonti,
        e driadi v'eran le dèe delle piante,
        che hanno i membri agli arbori congionti.

        Con le grillande vennon tutte quante
  125 giú nella valle a far festa a Diana;
        e poi che funno a lei venute avante,

        s'enginocchioron su la valle piana;
        e fengli offerta sí come a signora,
        e cantando dicean:—O dea sovrana,

  130 benedetta sii tu in ciascun'ora,
        e benedetti li fonti e li boschi,
        dentro alli quai tua deitá dimora.

        Le fère venenose e c'hanno toschi
        non vengan nelli lochi dove stai,
  135 né cosa, che dispiaccia, mai conoschi.
p. 24
        Tu facesti smembrar con doglie e guai
        il trasmutato in cervio Atteone
        con la potenzia grande, che tu hai;

        ché delle ninfe le nude persone
  140 corse a vedere tra le chiarite acque,
        benché fortuna ne fosse cagione.

        Ippolito gentil, quando a te piacque,
        tornar facesti in vita dalla morte
        con quelle membra, con le quali ei nacque.—

  145 E quando ell'ebbon lor offerte pórte,
        anco alle ninfe fenno riverenza,
        sí come a servi principal di corte.

        E dilungate dalla lor presenza
        tennono nella valle estremo loco,
  150 come conviensi a lor bassa semenza.

        Giá era il tempo che la festa e 'l gioco
        far si dovea e Diana fe' segno
        a due sue ninfe, a lei distanti poco,

        che chiamasser Iunon dall'alto regno,
  155 che scendesse alla festa omai a sua posta
        col coro delle ninfe alto e benegno.

        Come fa 'n cor colui, al qual è imposta
        l'antifona per dir, che prima inchina,
        poi a cantar la voce tien disposta;

  160 cosí fên quelle due a sua regina,
        che s'inchinonno prima al suo comando,
        poi, tenendo la faccia al ciel supina,

encomincionno a dir cosí cantando.

p. 25

CAPITOLO V

Dell'avvenimento di Giunone invitata alla festa di Diana.

        —O regina del cielo, o alta Iuno,
        moglie e sorella del superno Iove,
        che l'aer rassereni e failo bruno,

        Diana prega te che venghi dove
    5 ella fa festa e con le belle dame
        del nobil regno tuo qui ti ritrove.

        Il nostro dir, benché da lungi chiame,
        noi sappiam ben che l'odi dall'altezza
        del monte Olimpo, dov'è il tuo reame.—

   10 Queste parole con tanta dolcezza
        cantôn due ninfe, Pallia e Lisbena,
        ch'anco, quando il ricordo, io n'ho vaghezza.

        Né mai cantò sí ben la Filomena,
        né per addormentare in mar Ulisse
   15 cantò sí dolcemente la Sirena.

        Iuno, per dimostrar ch'ella l'udisse,
        mandò un lustro e sin a lor discese
        come balen che subito venisse.

        Le ninfe di Diana inver'il paese,
   20 onde venne quel lustro, stavan vòlte,
        con gli occhi rimirando e stando intese.

        Ed ecco come il raggio spesse volte
        pare una via, che 'nsino a terra cada
        fuor delle nubi, ove non son sí folte,

   25 cosí da alto ingiú si fe' una strada
        dal loco, onde Iunon dovea venire,
        lucida e stesa insin quella contrada.
p. 26
        Poi, come il chiaro Febo suol uscire
        fuori dell'orizzonte la mattina,
   30 cosí vidi io per la strada apparire

        un nobil carro, e suso una regina
        con corona di stelle e sí splendente,
        come tra li mortal cosa divina.

        E quanto piú e piú venía presente
   35 agli occhi miei, tanto parea piú adorno,
        maraviglioso il carro e piú eccellente.

        E mille ninfe avea intorno intorno
        con corone di stelle in su la testa,
        lucenti al sole ancor nel mezzogiorno.

   40 E d'oro e celestina avean la vesta,
        e cantando dicíen:—Viva Iunone!—
        con suoni, balli, gioia e con gran festa.

        Il carro ad ogni rota avea un grifone,
        pappagalli e pavon con belle penne
   45 intorno e sopra; e tre 'n ogni cantone.

        Poscia che 'l plaustro giú nel pian pervenne,
        Diana il carro suo fe' venir anco,
        che gran bellezza ancora in sé contenne,

        di drappi adorno e d'ogni uccello bianco:
   50 mai vide Roma carro trionfante,
        quant'era questo bel, né vedrá unquanco.

        Con piú di mille ninfe a lei davante
        ella si mosse incontra a fare onore
        alla regina, moglie al gran Tonante.

   55 E poiché fu ballato ben due ore,
        le ninfe di Iunon l'altre invitâro
        a voler concertar con lor valore,

        dicendo:—Acciò che ben si mostri chiaro
        chi usa meglio l'arco o voi o noi,
   60 se a voi piace, a noi anco sia caro.

        Di vostre ninfe due eleggete voi;
        e noi due altre; e chi trarrá piú dritto,
        da dea Iunon sia coronata poi.—
p. 27
        Alle dèe piacque cosí fatto ditto;
   65 e dea Diana una corona pose
        nell'aer alta a lor per segno fitto,

        fatta di fiori e pietre preziose.
        Per parte di Iunon, celeste dea,
        vennono due ardite e valorose.

   70 Una fu Ursenna e l'altra fu Lippea,
        a me promessa, bella giovinetta;
        ma che foss'ella, io ancora nol sapea.

        A lei diede Iunone una saetta
        e l'arco eburneo bello ed inorato:
   75 tanto era grata a lei e tanto accetta.

        A campo incontra uscîr dall'altro lato
        Lisbena e Pallia; e queste due son quelle,
        che, 'nvitando Iunone, avean cantato.

        E patto fên tra lor quelle donzelle
   80 di trar tre volte; e chi piú ritto manda,
        dé' coronarsi le sue trecce belle.

        Pallia trasse prima alla grillanda,
        coll'arco dirizzando a lei lo strale;
        ma ello dechinò a destra banda.

   85 Poi trasse Ursenna; e ferío altrettale,
        sí che fu giudicato d'este due
        che fosse il colpo loro ognuno eguale.

        Lisbena a saettar la terza fue
        e die' sí ritto, che quasi toccata
   90 fu la grillanda nelle frondi sue.

        Lippea trasse la quarta fiata
        e ritto tanto, che toccò una fronde,
        che cadde in terra dal colpo levata.

        Le sue compagne si fenno gioconde,
   95 perché credetton che dentro passasse;
        ma spesso il fatto al creder non risponde.

        Pallia poi un'altra volta trasse,
        prima pregando la sua dea Diana
        che 'l dardo alla corona dirizzasse.
p. 28
  100 Ma la saetta tratta andò lontana
        dalla grillanda forse quattro dita,
        sí che la prece e la spene fu vana.

        Lippea bella giá s'era ammannita,
        e, dopo lei, col suo duro arco scocca
  105 una saetta leggiadra e polita.

        Da lei fu un poco la grillanda tócca,
        non dalla punta, ma sol dalla penna,
        c'ha la saetta appresso della cocca.

        E, dopo questa poscia, trasse Ursenna,
  110 Lisbena poi; e giá secondo il patto
        due volte ognuna avea tratto a vicenna.

        Ognuna ancora avea a fare un tratto;
        e Pallia pria, per aver la corona,
        vòlta a Diana con riverente atto

  115 disse:—Se mai, o dea, la mia persona
        servito ha te con arco e con faretra,
        a questo colpo la grillanda dona.—

        Poscia a misura, come un geomètra,
        nella corona sí forte percosse,
  120 che ne fe' d'ella sbalzare una pietra.

        Nel centro avrebbe dato, se non fosse
        che Iuno in quella fe' venire un vento,
        che 'l dardo alquanto dal segno rimosse.

        Ursenna, lieta d'esto impedimento,
  125 prese la mira per voler poi trare,
        col core e con lo sguardo ben attento.

        Non die' nel mezzo, ov'ella credea dare;
        ma la toccò e commossela alquanto,
        ma non però che la fêsse voltare.

  130 Ora in due era omai rimaso il vanto
        della battaglia e della gran contesa;
        e queste eran pregate da ogni canto.

        —Fa', o Lisbena, che vinchi l'impresa
        e getta sí, che non abbiam vergogna,
  135 con l'arco al segno e con la mente intesa.
p. 29
        —Soccorri, o dea Diana, or che bisogna
        —disse Lisbena,—e se lo mio quadrello
        tu fai che dentro alla grillanda io pogna,

        offerta farò a te d'un bianco agnello,
  140 di bianchi gigli e bianchi fior coperto,
        e d'un bel cervio a Febo tuo fratello.

        Egli è signor e dio e mastro esperto
        di trar con l'arco: egli ferí Fetonte,
        il quale un gran paese avea deserto.—

  145 Lippea ancora al ciel con le man gionte
        a dio Cupido insú alzava il volto,
        che stava meco ascosto a piè del monte.

        —Derizza il dardo mio, ti priego molto,
        o dio d'amor, sí come tu percoti
  150 col dardo che nel cor a tanti è còlto.—

        Poich'ebbon fatti molti e grandi voti
        e che pregato avean con gran desire,
        mostrando gli atti e' sembianti devoti,

        trasse Lisbena, a cui toccò il ferire;
  155 e 'l dardo dentro alla grillanda colse
        in un de' lati e torta la fe' gire.

        In quel che la corona si rivolse,
        gittò Lippea nella circonferenza;
        e 'l dardo trapassolla e lí si folse.

  160 Ora tra lor comincia grande intenza,
        ché l'una e l'altra la grillanda vuole,
        credendo ognuna aver giusta sentenza;

e diceano a Diana este parole.

p. 30

CAPITOLO VI

Della caccia del cervo per la gara della ghirlanda tra Lisbena e Lippea.

        —O dea Diana, o figlia di Latona,
        discerna tua prudenza e tuo gran senno
        chi di noi due debbia aver la corona.—

        Diana, udito questo, fece cenno
    5 che l'una e l'altra andasse a dea Iunone
        con riverenza; ed elle cosí fenno.

        Lisbena in pria, che crede aver ragione,
        umilemente abbassa le ginocchia;
        e mosse po' a Iunon questo sermone:

   10 —O del gran Iove mogliera e sirocchia,
        mira l'onor della mia compagnia,
        mira se ho ragione, e bene adocchia.

        Io trassi alla corona alquanto pria;
        e poi Lippea; ma non trasse ad ora,
   15 ché giá pel colpo ell'era fatta mia.—

        Lippea incontro a questo dicea ancora:
        —O alta Iuno, a cui il sommo impero
        ha dato Iove, e sei con lui signora,

        se ben si mira qui a quel ch'è vero,
   20 Lisbena e le compagne vedran forse
        che 'l colpo suo non fu ritto e sincero,

        che diede alla grillanda e sí la torse,
        perocché la toccòe; ed io, in quel mentro
        ch'ella voltòe, la mia saetta porse

   25 un poco dopo lei e ferii dentro,
        e con tanta misura al segno diedi,
        che la mia polsa andò per mezzo il centro.
p. 31
        Però ti prego pel carro ove siedi
        e per l'amor che porti all'alto Iove,
   30 che la corona bella a me concedi.

        Se 'l priego mio, signora, non ti move,
        movati il sacro cor, che teco viene:
        che abbiam perduto non si dica altrove.—

        Iunon rispose:—A Diana appartiene
   35 giudicar questo e che la pace pogna
        tra te e Lisbena; e cosí si conviene.—

        Diana a questo:—Ancor pugnar bisogna
        un'altra volta; e la qual parte vince,
        abbia l'onore, e l'altra la vergogna.

   40 Un cervio sta non molto lontan quince
        con corni grandi, e 'l dosso ha tutto bianco,
        se non c'ha i piè macchiati come lince.

        Questo in la selva è stato sempre franco,
        ché mai non lo lasciai morder dai cani,
   45 né da persona mai ferire unquanco.

        Io manderò miei fauni e miei silvani,
        che menin questo cervio su nel prato,
        e sia lasciato in mezzo a questi piani.

        E tu, o Lippea, li porrai da un lato
   50 con le tue ninfe e con le tue compagne,
        con quante e quali e come a te sia grato.

        Lisbena ancor per piani e per montagne
        porrá le ninfe mie dall'altra parte;
        e se addivien che il cervio tu guadagne,

   55 piaccia a Iunon volere incoronarte.
        Ma se le ninfe mie vincon la caccia
        o per ingegno o per forza di Marte,

        anco Lisbena incoronar gli piaccia,
        non per lei tanto, ma per le sorelle,
   60 che per vergogna stan con rossa faccia.—

        Le ninfe di Iunon gentili e belle
        si mostrôn d'accettar volonterose
        con arditi atti e con pronte favelle.
p. 32
        Allor Diana a sei silvani impose
   65 che menassero il cervio; ed ei menôllo
        su delle ripe e delle vie scogliose,

        con una fun legato intorno al collo;
        poi fu lasciato sciolto presso al fonte,
        ch'era sacrato alla suora d'Apollo.

   70 —Su su, sorelle, circondate il monte
        —dicea Lippea,—e prendete la costa
        con archi e spiedi coll'acute ponte.

        Ognuna attenta sia nella sua posta:
        co' can correnti dietro alli cespogli,
   75 come chi sta in aguato, stia nascosta.

        E tu, Tirena, va' 'ntorno a li scogli
        con cento ninfe: sai ch'io mi confido
        in tua virtú; però mostrar la vogli.

        Sí come io accenno o col mio corno grido,
   80 cosí con quelle cento mi soccorre,
        co' cani alani e col tuo arco fido.

        Perché, se 'l cervio suso al monte corre,
        di lá dall'altra valle non trapassi,
        lassú, Ipodria, tu ti vogli porre

   85 e con ducento ninfe prendi i passi:
        con can mastini e con cani levrieri
        fa' che lo pigli e che passar nol lassi.

        Or ora essere accorte è ben mestieri;
        acciò che onore abbia la nostra dea,
   90 mostriam la forza de' nostri archi fieri.—

        Non men Lisbena ancora disponea
        la schiera sua e facevala forte
        con modi e con parol, ch'ella dicea.

        —Sorelle, ora conviene essere accorte;
   95 ora convien mostrar nostro valore;
        ch'altri che noi di caccia onor non porte.

        Ora si vederá chi porta amore
        a dea Diana e se siete valente,
        sí che di questa caccia abbiamo onore.
p. 33
  100 O Lisna bella mia, va' prestamente
        sopra del monte e circonda la cima
        con cento ninfe: e state bene attente.

        Credo che 'l cervio lí correrá prima:
        abbiate cani e spiedi, ché non varchi
  105 di lá dal monte verso la valle ima.

        Chi per la costa discorra cogli archi,
        chi di lanciotto e chi di duro spiedo,
        quando fia l'ora, la sua mano incarchi.

        Alconia, te per principal richiedo,
  110 che stii con cento ninfe in su la piaggia;
        ché 'l cervio lí verrá, sí come io credo.—

        Quando ordinata fu la schiera saggia,
        e fu ognuna nel loco che vòlse
        quella di Iuno e della dea selvaggia,

  115 la bella Iris i gran cani sciolse
        d'intorno al cervio abbaianti e feroci;
        ed ei fuggí e ver' Diana volse.

        Le ninfe sue alzôn liete le voci,
        gridando fortemente:—Ad esso, ad esso
  120 con le saette e coi passi veloci.—

        Le lor verrette scoccavano spesso;
        e 'l cervio corre e su lo monte sale;
        e dietro i can correndo vanno appresso.

        E poi che giunto fu nel piano equale,
  125 passato arebbe il monte, se non fosse
        che Lisna bella gli die' d'uno strale.

        Allora quello addietro alquanto mosse,
        ed un fier can mastin gli prese il volto,
        e Marsa ninfa d'un dardo il percosse.

  130 Per questo il cervio, alla man destra vòlto,
        ver' quelle di Iunon fece l'andata;
        e questo a Lisna bella increbbe molto.

        Ipodria bella, tutta rallegrata:
        —Fa'—disse,—o Iuno, che vinciam la festa;
  135 dá' or questa vittoria a tua brigata.
p. 34
        L'aspere ninfe della dea foresta
        non l'han saputo aver, ma s'è fuggito:
        però è degno che perdan l'inchiesta.—

        Quando quel cervio presso a lei fu ito,
  140 d'un fiero dardo gli passò la spalla,
        tal che egli a terra cadde giú ferito.

        Come che gente alcuna volta balla
        per la vittoria, che giá aver si spera,
        e poi si scorna se l'effetto falla;

  145 cosí fên quelle, ché Lisbena, ch'era
        dall'altra parte, disse:—Abbi memoria,
        o dea Diana, della nostra schiera:

        fa' che le ninfe tue abbian la gloria
        di questa caccia, acciò che non sia ditto
  150 ch'altri che tu ne' boschi abbia vittoria.—

        Per questo il cervio si levò su ritto;
        ché quelle di Iunon non eran corse
        insino a lui, ma sol l'avean trafitto.

        Poi per la costa giú correndo corse
  155 per gire al fonte, che stava a rimpetto;
        ma Lisna, quando di questo s'accorse,

        un legno attraversò 'n un passo stretto
        lá onde convenía ch'egli passasse;
        e quel correndo vi percosse il petto.

  160 Lisbena in quello d'un dardo gli trasse
        nel fianco manco e passò l'altro canto,
        onde convenne che 'l cervio cascasse.

        L'aspere ninfe s'allegraron tanto,
        quanto si possa dir, ognuna certa
  165 che d'aver vinto si potea dar vanto.

        Tagliôn la testa, e di bei fior coperta
        portavanla a Diana, e lei fe' segno
        che a dea Iunon ne facessero offerta.

        Ella accettò con aspetto benegno:
  170 Lippea e le compagne il volto basso
        tenean d'ira e di vergogna pregno,

ché 'l lor pensier era venuto in casso.

p. 35

CAPITOLO VII

Come la ninfa Lippea fu coronata della ghirlanda, che avea vinta.

        Per questo Lippea bella è disdegnosa;
        e perché vinta gli parea a ragione
        quella grillanda tanto preziosa,

        andò piangendo all'alta dea Iunone,
    5 dicendo a lei:—Perché le paraninfe,
        che vengon dietro a te, cosí abbandone?

        Queste silvestre e queste rozze ninfe
        di dea Diana, tra' boschi assuete
        e tra li scogli e valli e tra le linfe,

   10 perché han vinto il cervo, stanno liete
        e stan superbe e fan di noi dispregio
        con beffe e riso e con parol secrete.

        Perché a me, che son del tuo collegio,
        la mia vinta corona mi si nega?
   15 Io 'l dico per l'onor e non pel pregio.

        Se il pregio mio, regina, non ti piega,
        mover ti debbe la mia compagnia:
        vedi che ognuna per me te ne prega.—

        Iunon alquanto a ciò sorrise pria,
   20 e poi benigna a lei la man distese,
        dicendo:—Usar convien qui cortesia.

        Dacché Diana tien questo paese,
        e noi venimmo ad onorar sua festa,
        ben è che 'nverso lei io sia cortese.

   25 La tua vittoria a tutte è manifesta,
        e tutte veggon ch'è tua la grillanda
        e che l'emula tua perde la 'nchiesta.
p. 36
        Ma va' a Diana ed a lei la domanda:
        cosí a me piace e voglio che si faccia
   30 da te e dall'altra ciò ch'ella comanda.—

        Allora andò con reverente faccia
        e disse a lei:—O figlia di Latona,
        con reverenza io prego che ti piaccia

        che mi sia data la vinta corona;
   35 tu sai, Diana, che secondo il patto
        debbe esser mia, e ragion me la dona.—

        La dea rispose a lei con benigno atto:
        —D'allora in qua, Lippea, bene ti vòlsi,
        che festi alla grillanda sí bel tratto.

   40 Del cervio la vittoria io ti tolsi;
        quand'egli cadde, io gli rendei la lena,
        e su levato alle mie ninfe il volsi,

        ché di perder le vidi aver gran pena;
        ond'i', a pietá commossa, alla lor parte
   45 il feci andar a prego di Lisbena.

        Né questo feci per ingiuriarte,
        ma perché scaccia invidia e serva amore
        sempre l'onor che insieme si comparte.—

        E poi la 'ncoronò con grande onore
   50 e nel carro la pose seco appresso,
        con la grillanda di tanto valore.

        Iunon, che stava non molto da cesso,
        diede a Lisbena un arco d'unicorno
        per premio della caccia a lei promesso,

   55 tutto smaltato d'un bianc'osso eborno,
        e d'una pelle d'orso un bel carcasso
        fulcito tutto d'oro intorno intorno.

        Diana intanto il carro a passo a passo
        mosse verso Iunon; e, giunta a lei,
   60 riverenza gli fe' col capo basso,

        dicendo:—O gran regina delli dèi,
        Lippea, che sta meco qui presente,
        tanto m'è grata e piace agli occhi miei,
p. 37
        che, se a te piace ed ella me 'l consente,
   65 prego che facci che meco rimagna
        insino all'altra festa rivegnente

        e non sia grave a lei nostra montagna;
        ché meco la terrò non come ancella,
        ma come mia carissima compagna.—

   70 La dea assentío ed anche Lippea bella;
        e l'altre ninfe ne fenno allegrezza,
        mostrando ognuno insieme esser sorella.

        E tutto il loco s'empí di dolcezza,
        di canti e balli su nel verde prato,
   75 il quale ha ben sei miglia di larghezza.

        Cupido, ed io con lui, stava occultato;
        e dalle dèe sí poco er'io distante,
        ch'io intendea lor parlar da ogni lato,

        quando l'Amor mi disse:—Tutte quante
   80 le ninfe hai viste; or, dimmi, qual tu vuoi?
        a qual ti piace piú esser amante?—

        E detto questo, d'un de' dardi suoi
        d'oro ed acceso mi percosse il petto,
        e beffeggiando se ne rise poi.

   85 Ed io a lui:—Il grato e bello aspetto
        della gentil Lippea tanto eccede,
        che nulla paion l'altre a lei rispetto.

        Ma perché non è esperta, non s'avvede
        ch'io l'ami e che di lei m'abbi ferito,
   90 e la mia pena occulta ella non crede.

        Per quella fé, con la qual t'ho seguito,
        ferisci ancora lei, perché s'avveggia
        quant'ha valore in sé l'arco tuo ardito.—

        Cupido rise come chi beffeggia;
   95 cosí ridendo da me disparío
        sí come un'ombra o cosa che vaneggia.

        —Ove ne vai—diss'io,—o falso dio?
        perché mi lassi? Or veggio ben ch'è folle
        chi pone in te speranza ovver desio.—
p. 38
  100 In questo, come mia fortuna volle,
        una schiera di cervi giú emerse
        e discese nel pian suso dal colle.

        Le ninfe tutte per la valle sperse
        cursono a far la caccia per lo piano
  105 per vari lochi e vie aspre e diverse.

        Lippea coll'arco bello, ch'avea in mano,
        seguí un cervio, ch'andò verso il monte
        e passò a lato a me poco lontano.

        Sola soletta e con le voglie pronte
  110 gli andava dietro su tra il bosco incolto,
        ferendo lui con le saette cónte.

        Ed io, che stava lí in quel loco occolto,
        per ritrovarla dietro a lei mi mossi,
        e tra le frondi del boschetto folto

  115 due miglia o quasi cred'io andato fossi,
        ch'io la trovai, e la fiera avea morta,
        in prima dato a lei mille percossi.

        E quand'ella di me si fo accorta,
        lassò il cervio e misesi a fuggire
  120 su verso il monte timidetta e smorta.

        E dietro a lei io comincia' a dire:
        —O ninfa bella, io prego, alquanto ascolta,
        prego che mie parole vogli udire.—

        Come il cacciato cervio si rivolta
  125 sol per veder se il seguitan li cani,
        cosí ella facea alcuna volta.

        E poi fuggía tra quelli boschi strani,
        ed io seguíala tra le acute spine,
        che mi strappavan le gambe e le mani.

  130 —Perché fuggendo sí ratto cammine?—
        diceva io a lei.—Io prego che ti guardi
        che tra li boschi e scogli non ruine.

        Deh! perché non ti volti e non mi sguardi?
        Di te ferito m'ha, o cara gioia,
  135 il falso Amor co' suoi orati dardi.
p. 39
        Se tu non m'hai pietá, non ti sia noia
        almen ch'io t'ami; e questo sol domando,
        se tu non vuoi ch'io manchi ovver ch'io muoia.

        Io prego il sacro Amor ch'io veggia il quando
  140 ferisca te e costrengati tanto,
        che sii, com'io, soggetta al suo comando.—

        Quand'ella questo udí, si volse alquanto
        e disse, vòlta a me, alzando il grido:
        —Mai si potrá Amor di me dar vanto.

  145 Tutta la forza del crudel Cupido
        metto a dispetto e le saette e 'l foco,
        ed anco alla battaglia io lo disfido

        ch'egli abbia possa a innamorarmi un poco,
        e del vano arco, il qual portare egli usa,
  150 secura io me ne vo in ogni loco.

        Il petto mio trasmutato ha Medusa
        contro l'Amor in sasso e 'n dura pietra,
        ed a piacergli ha ogni porta chiusa,

        sí che suoi dardi e sua vile faretra
  155 niente curo; e bench'egli mi fera,
        il colpo suo mia carne non penètra.—

        E perché ogni ninfa è piú leggera
        assai che l'uomo, da me dipartisse,
        correndo come veltro ovver pantera,

160 e 'nsin che fu a Diana, non s'affisse.

p. 40

CAPITOLO VIII

Come Cupido, irato con la ninfa Lippea, la ferí d'una saetta d'oro.

        Io era solo e scornato rimaso,
        quando scontrai in quella via smarrita
        Cupido, come andasse quindi a caso.

        E disse a me:—Lippea ov'è fuggita,
    5 che m'ha sfidato e mette me a dispetto?
        Ma converrá che da me sia punita,

        ch'io gli trapasserò il core e il petto
        con un acceso dardo delli miei;
        e farla a te soggetta io ti prometto.

   10 Io, che ho domato Iove ed altri dèi
        con la potenza della mia saetta,
        non vincerò, non domerò costei?—

        Quando egli disse voler far vendetta,
        pensa, lettore, s'io mi feci lieto,
   15 da che affermava a me farla soggetta.

        Egli si mosse, ed io gli andai dirieto;
        e sempre per la costa andò all'ingiúe
        tra 'l duro bosco e l'aspero spineto.

        Quando presso alla valle giunto fue,
   20 vidi io Lippea che guidava il ballo
        'nanti alle dèe con le compagne sue.

        L'arco suo dur, che mai ferisce in fallo,
        prese Cupido, e d'uno stral gli diede
        a venti braccia forse d'intervallo

   25 sol nelli panni e giú appresso il piede;
        ché se a lor desse in petto o molto forte,
        sí come a' viri ed agli dèi e' fiede,
p. 41
        perché ad amar le ninfe non son scorte,
        pel grande incendio del sacrato foco
   30 verrebbon meno e caderebbon morte.

        Il caldo cominciò a poco a poco
        passargli al cor con l'infocato dardo;
        e giá ferita non trovava loco.

        Lippea allora a me alzò lo sguardo
   35 e con gli occhi mirommi, con li quali
        tanto m'accese il cor, ch'ancora io ardo.

        L'Amor, movendo poi le splendide ali,
        per man menommi insino alla fontana,
        menacciando anco con suoi duri strali.

   40 Di me s'avvide allora dea Diana
        e disse irata e con acerbo volto:
        —Or che fa qui quella persona strana?—

        Lo dio Cupido meco s'era folto,
        ma non veduto; ch'egli alla sua posta
   45 si può manifestare e farsi occolto.

        Egli mi disse:—Fa', fa' la risposta.—
        Onde io andai, e riverente e chino
        mi posi al carro suo appresso e a costa.

        E dissi a lei:—Mio caso e mio destino,
   50 o dea, m'ha qui condotto nel tuo regno
        per uno errante ed aspero cammino.

        Forse Dio il fe' che alla tua festa vegno:
        per lui ti prego, o alma dea selvaggia,
        che non mi scacci e che non m'abbi a sdegno.

   55 E prego te che una grazia io aggia:
        che come starvi Ippolito a te piacque,
        cosí possa io tra questa turba gaggia.—

        E come chi consente, ella si tacque:
        cosí sospeso e dubbioso rimasi
   60 e tornai a Cupido presso all'acque.

        Il carro della dea ben venti pasi
        dal fonte, a mio parere, era distante,
        e 'l sol calato all'orizzonte o quasi,
p. 42
        quando con vergognoso e bel sembiante
   65 venne Lippea inverso il fiumicello,
        ond'io andai dicendo a lei davante:

        —O ninfa mia gentil col viso bello,
        deh! non t'incresca e non aver temenza
        se io, che tanto t'amo, ti favello.

   70 Perché pur fuggi e pur fai resistenza
        a quell'Amor, ch'anco li dèi percote
        con le saette della sua potenza?—

        Sí come onesta donna, che non puote
        soffrir lascivo sguardo, sottomette
   75 e abbassa gli occhi e fa rosse le gote:

        cosí fece ella alle parole dette,
        che abbassò il viso e diventò vermiglia
        e lagrimò e le parol tacette.

        —Mostra i zaffiri, c'hai sotto le ciglia
   80 —dissi,—o Lippea, ed alza sú la vista,
        che alle dèe del ciel si rassomiglia.—

        Sfogando il pianto:—Oimè, misera, trista!
        Oimè!—diss'ella.—Io ho tanto tormento:
        Amor non vuol che a lui io piú resista.

   85 Se mai il dispettai, io me ne pento;
        se mai il gran Cupido io ebbi a vile,
        dico «mia colpa» e dico «me ne mento».

        Con la potenza dell'orato astile
        di mie parole folli ora mi paga
   90 e col foco, che al cor va sí sottile.

        Ma io il prego o che il dardo ritraga,
        che m'ha ferito il cor, o che mi uccida,
        sí che la morte risani la piaga.—

        Ed io a lei:—Cupido fu mia guida
   95 insino a te, ed egli mi promise
        donarti a me con sua parola fida.—

        Udito questo, il viso sottomise;
        poi disse sospirando e con vergogna:
        —Perché, quando ferí, e' non mi uccise?
p. 43
  100 —Da che egli vuole, e questo esser bisogna
        —diss'io a lei,—io prego che mi dichi
        se tu se' mia, e non mi dir menzogna.—

        Come la sposa, cui pudor fatichi,
        cosí un «sí» de' labbri gli uscí fuore
  105 pur con vergogna e con atti pudichi.

        Il viso bianco di smorto colore
        prima dipinse e poscia si fe' rosso
        de' due color, che fuor dimostra Amore.

        Poi disse:—Oimè, oimè che piú non posso
  110 celar l'amor!—E questo ella dicendo,
        cadea, se non che io gli tenni il dosso.

        Soggiunse poi:—Amor, a te mi rendo:
        non trova l'arco tuo difesa o scudo;
        però invan contra te mi difendo.—

  115 Poi disse a me:—O amoroso drudo,
        io prego te, da che Amor mi ti dona,
        che contra me non sie cotanto crudo,

        che tu mi lievi la bella corona,
        che io porto in testa e la qual io mi vinsi,
  120 e che mai non mi lasci per persona.—

        Io gliel promisi e per fede gli strinsi
        la bianca mano e con le braccia stese
        il capo bianco e 'l collo ancor gli avvinsi.

        Contro l'amor non fe' poi piú difese
  125 la bella ninfa e mostrossi sicura,
        pur con vergogna ed onestá cortese.

        Cercando andammo per quella pianura,
        e poi salimmo ad alto suso al monte,
        in tanto che la notte si fe' oscura.

  130 Era giá Febo sotto l'orizzonte
        ben venti gradi, ed ella mi condusse
        in un bel prato, ov'era un bello fonte.

        Ed in quel loco tanto vi rilusse
        la chiara luna, che per quella valle
  135 ogni fiore io vedea qual e' si fusse.
p. 44
        Di fiori e di viol vermiglie e gialle
        la bella ninfa tutto mi coprío;
        e poi sul prato mi posai le spalle.

        E quando all'oriente in pria apparío
  140 il chiaro sol, trovai che n'era andata,
        e posto un sasso scritto al capo mio,

        nel qual dicea: «Sappi ch'io son tornata
        a dea Iunone, alla regina mia;
        che colle mie compagne io sia trovata.

  145 Tu sai che dea Iunone, andando via,
        di lassarmi a Diana ell'ha promesso
        che con lei io rimanga in compagnia.

        In questo tempo che star m'è concesso,
        staremo ed anderem come a noi piace,
  150 cercando e boschi e balzi e scogli spesso.

        Fatti con Dio e tieni occulto e tace;
        e prego che a vedermi torni tosto,
        ché solo in veder te 'l mio core ha pace».

        Oh lasso! a Invidia nulla è mai nascosto,
  155 c'ha mille orecchie la malvagia e rea,
        e l'occhio suo in mille lochi è posto.

        Questa n'andò all'una e all'altra dea,
        dicendo:—Or non sapete ch'una dama
        qui delle vostre, chiamata Lippea,

  160 il giovinetto qui venuto ell'ama
        col core e coll'amor tanto fervente,
        che sol per lui di rimaner ha brama?—

E, detto questo, sparí prestamente.

p. 45

CAPITOLO IX

Come la ninfa Lippea si duole che le convien partire.

        Letto ch'io ebbi ciò che nel sasso era,
        io mi partii e dentro uno spineto
        mi posi a stare ascoso insino a sera,

        acciò che il nostro amor fosse segreto.
    5 Presso all'occaso ed io scendea la costa
        e per veder Lippea andava lieto.

        Ed una driada disse:—Fa', fa' sosta—
        forte gridando, ond'io maravigliai
        e 'nsin che giunse a me, non fei risposta.

   10 Quando fu a me, ed io la domandai.
        —Non sai—rispose—ciò ch'è intervenuto,
        e Lippea quanti per te sostien guai?

        L'amor tra te e lei stato è saputo,
        e conven che si parta: oh sé infelice,
   15 ché contra questo nullo trova aiuto!

        Io son sua driada e giá fui sua nutrice:
        l'amor, che porta a te, m'ha rivelato,
        ed ogni suo segreto ella mi dice.

        Se saper vuoi il fatto come è stato,
   20 la Invidia, che sempre il mal rapporta,
        che mille ha orecchie ed occhi in ogni lato,

        disse a Iunone:—Or non ti se' tu accorta
        che Lippea ama il vago giovinetto,
        che venne qui e tanto amor gli porta?—

   25 Poscia sparío, quando questo ebbe detto
        la rea, che ha mille occhi e tutto vede
        e mille orecchie e tosco ha dentro al petto.
p. 46
        Ah Invidia iniqua, quanto a te si crede!
        e perciò volentier tu se' udita,
   30 perché troppo al mal dir si dona fede.

        A Lippea detto fu che ammannita
        stesse ad andarne nel seguente giorno,
        quando Iunon volea far sua partita.

        Pel gran dolor e per lo grave scorno
   35 d'amaro pianto si bagnò le gote,
        e smorto diventò suo viso adorno.

        E per non far di fuor le fiamme note,
        che Amor le aveva acceso dentro al core
        coll'arco dur, che mai invan percote,

   40 pigliava scusa pianger per l'amore,
        ch'ella portava alla Diana dea
        e alle sue ninfe come a care suore.

        —Sorelle mie—dicea,—perché credea
        rimanermi con voi, però 'l cuor piagne
   45 che dipartir mi fa la 'Nvidia rea.

        E non sará che mai 'l mio pianto stagne:
        tanto è l'amor, oh lassa me tapina,
        ch'io conceputo ho qui, o mie compagne.—

        Poscia andò a Iuno e disse:—O mia regina,
   50 per darmi infamia e darmi vitupero,
        l'Invidia con sua lingua serpentina

        detto ha cosí; ma s'ella dice il vero,
        io cada morta, o s'io assento all'arme
        di dio Cupido o mai n'ebbi pensiero.

   55 Quando deliberasti, o dea, lassarme,
        concepii amore a tutte, ed or mi dole
        se io le lascio e altrove puoi menarme.—

        Iunon rispose a lei brevi parole:
        —Voglio che vegni e, quando il carro parte
   60 crai, sii la prima sul levar del sole.—

        Poscia che mille lacrime ebbe sparte,
        dicea fra sé dolente ed angosciosa:
        —Come farò? oimè! 'l cor mio si sparte.—
p. 47
        Come va 'l cervio, a cui giá venenosa
   65 è giunta la saetta, e move il corso
        or qua or lá, e insin che muor non posa:

        cosí ed ella per aver soccorso
        giva ad ognuna, e poscia lacrimando
        deliberò a Diana aver ricorso.

   70 E disse:—O dea, tu facesti il domando
        ch'io rimanessi, e Iuno fu contenta;
        ed io anche assentii per suo comando.

        Ed ora pare a me ch'ella si penta,
        non so perché: e se fia mia partenza,
   75 convien che gran dolor mio cor ne senta,

        perché tu, dea, a me benivoglienza
        hai dimostrata, e Pallia e Lisbena
        e l'altre, con ch'i' ho fatto permanenza.

        Però partir da loro a me è gran pena,
   80 ch'io amo ognuna come mia sorella,
        e sopra tutte te, o dea serena.

        Però, ti prego, alquanto tu favella
        a dea Iunon ch'io stia sino alla festa,
        che ogni anno, come sai, si rinovella.—

   85 Rispose a lei Diana:—Manifesta
        tu fai te stessa: or sappi che colei,
        di cui è sospetto, non è ben onesta.

        Vanne con la signora delli dèi;
        ché s'ella mi dicesse ch'io v'andassi,
   90 sí come a Iove, a lei ubbidirei.—

        Per la vergogna tenne gli occhi bassi
        la misera e pensava tutt'i modi
        per rimanere e che nessun ne lassi.

        O Amor folle, che sí forte annodi
   95 l'amante con l'amato e sí li leghi,
        che dentro consumando li corrodi!

        Quando si vide non valer li prieghi,
        giva ansiando come fa la cagna,
        a cui veder li suoi figliuol si neghi.
p. 48
  100 E lasciò tutte e sol me per compagna
        seco menòe; e salse tanto ad erto,
        ch'ella pervenne in una gran montagna.

        Alquanto andammo lí per un deserto:
        alfin venimmo in quel prato fiorito,
  105 ov'ella te di fiori avea coperto.

        Ella gittossi dov'eri dormito;
        e cominciò a dir con pianto amaro:
        —O dolce sposo mio, dove se' ito?

        dove se' ora, o mio amico caro?
  110 Oh ti vedessi 'nanti ch'io mi parta,
        da che contra il partir non ho riparo!—

        Poi ch'ebbe pianto lí ben una quarta
        d'una gross'ora, su in un sasso scrisse
        col dardo suo, come chi scrive in carta.

  115 E lí lo pose e poi indi partisse;
        e per veder te, credo, mille volte
        giú per la piaggia mirando s'affisse.

        Iunon le ninfe sue avea raccolte,
        e perché Lippea sola v'era manco,
  120 mandat'avea a trovarla ninfe molte.

        La piaggia tutta non avea scesa anco,
        che fu trovata e menata a Iunone
        coll'animo ansioso e tanto stanco.

        Non valse a dir che sdegno era cagione
  125 del suo assentarsi, che creso era piúe
        a Invidia il falso, ch'a lei 'l ver sermone,

        che non la fêsse dalle ninfe sue
        battere prima, e poscia l'ha mandata
        stretta e legata al monte Olimpo in súe.

  130 Nel suo partir m'impose esta ambasciata,
        la qual t'ho detta; e disse:—Dilli quanto
        da lui mi parto afflitta e sconsolata.—

        Tanto negli occhi m'abbondava il pianto,
        quando la driada questo mi proferse,
  135 che non risposi per lo pianger tanto.
p. 49
        Ma per le vie tant'aspere e perverse
        con lei andai insino alla pianura,
        ove Lippea di be' fior mi coperse.

        E ratto corsi a legger la scrittura,
  140 la quale avea scolpita su nel sasso,
        quand'ella fece la partenza dura.

        Ella dicea: «Perduto ho il bello spasso,
        ch'io avea, vedendo te, o dolce drudo:
        partir conviemmi, ed io il mio cor ti lasso.

  145 Troppo Cupido a me è stato crudo:
        egli, ch'io non ti veggia, t'ha nascoso,
        e di te m'ha ferito a petto nudo.

        Fátti con Dio, o mio primaio sposo
        ed ultimo anco: oimè, che non ho spene
  150 di rivederti mai, né aver riposo!

        Ché quel reame, che Iunon si tiene,
        è alto tanto e posto sí lontano,
        che mai nessun mortal tanto su vene».

        Letto ch'io ebbi quel tra me pian piano,
  155 volsi alla driada il lacrimoso volto,
        il qual io mi percossi con la mano,

        dicendo:—Il mio conforto chi l'ha tolto?
        Or dove se', Lippea ninfa mia?
        O dolce amore, in quanto duol se' vòlto!

  160 Driada, dimmi se c'è modo o via
        o che io la giunga, o s'egli c'è speranza
        ch'io venga ove Iunone ha signoria.

        —Il correr delle ninfe ogni altro avanza
        —rispose quella;—e 'l regno di dea Iuno
  165 è tanto ad alto ed ha sí gran distanza,

        che non vi puote andar mortale alcuno.—
        Cosí mi disse e poi si mosse a corsa,
        d'ogni sperar lasciandomi digiuno,

e se n'andò correndo piú che un'orsa.

p. 50

CAPITOLO X

Nel quale l'Amore discorre delle varie impressioni dell'aere con l'autore, a cui da Venere vien promessa la ninfa Ilbina.

        Oh Speranza vivace e sempre verde!
        Se ogni cosa all'uom toglie fortuna,
        ella sempre rimane e mai si perde.

        Questa soletto al lume della luna
    5 mi mise tra li boschi e tra li rovi
        con gran fatica e senza posa alcuna.

        Dicea fra me:—Ben converrá ch'io provi
        ogni mio ingegno e cerchi ogni paese,
        che Lippea bella mia ninfa ritrovi.—

   10 E giá cercando er'ito ben un mese
        per l'aspro bosco e per la selva amara,
        quando Cupido a me si fe' palese.

        E come quando Febo si rischiara,
        perché la nube grossa s'assuttiglia,
   15 che prima ostava alla sua faccia chiara;

        cosí una luce splendida e vermiglia
        mi die' nel volto; e, mentre l'occhio innalzo,
        per veder meglio aguzzando le ciglia,

        io vidi lui, che stava su in un balzo
   20 e disse a me:—Ricòrdati che tue
        giá tante volte m'hai chiamato falzo.

        Però t'ho tolto l'allegrezze tue;
        ma io prometto a te di ristorarte,
        se falso e traditor non mi di' piúe.

   25 Ma sappi prima che forza né arte
        al regno di Iunon giammai perviene:
        tant'ello dalla terra si disparte;
p. 51
        ché 'l regno, il quale Saturnia mantiene,
        è posto in aere su nel freddo loco,
   30 onde la pioggia e la grandine viene.

        Lí non riscalda la spera del foco,
        che non riscalda in giú tanto da cesso,
        né anco il sol niente o molto poco;

        ché 'l raggio del gran Febo in giú riflesso
   35 non riscalda da lungi o molto oblico,
        ma ben dappresso è riflesso in se stesso.

        E quando a questo loco, ch'io ti dico,
        il vapor di quaggiú salendo giugne,
        ratto che sente il freddo a sé nemico,

   40 in sé si strigne ed in sé si congiugne
        e fassi nube; e, quand'egli è costretto,
        si fa la pioggia, perché l'acqua smugne.

        Ma nella state quel vapor, che ho detto,
        ha molto in sé del terrestro vapore
   45 sulfureo e secco e d'ogni umido netto.

        E questo, quando sente l'umidore,
        sí come fa all'acqua la calcina,
        s'accende, e con gran rabbia n'esce fuore

        quindi il baleno e 'l tuon con gran ruina.
   50 E di questo vapor Vulcano a Iove
        fa tre saette nella sua fucina.

        Che se ben miri quanto è piú forte ove
        sta sulfurea fiamma inclusa ed arda,
        tanto piú furiosa ella si move,

   55 sí come apparir può nella bombarda,
        ché poca fiamma accesa tanto vale,
        che tuona e rompe ed esce fuor gagliarda;

        perché la state vieppiú alto sale
        del chiaro Febo il suo riflesso raggio,
   60 e risal meno obliquo e piú eguale.

        Però questo vapor, che pria dett'aggio,
        conven che 'l sole il lieve in piú altura
        a farlo nube in piú alto viaggio.
p. 52
        Ov'ei trova adunata piú freddura,
   65 ivi si stringe, e l'acqua da lui scossa
        grandine fassi: sí 'l ghiaccio la 'ndura.

        Ma, perché nell'inverno non ha possa
        il sol, che tanto insú il vapor lieve,
        'nanti ch'assai insú faccia sua mossa,

   70 ancor non fatto nube si fa neve;
        e raro e sperso fatto ghiaccio cade,
        come bambace in terra, lieve lieve.

        A cosí alte e sí fredde contrade
        da che salir non puoi, qui a te venni,
   75 ché di tanta fatica io t'ho pietade.—

        E, detto questo, con parole e cenni
        mi fece scender giú per una scheggia;
        e, quando in un bel prato giú pervenni,

        io vidi ninfe; e ciò, ch'occhio vagheggia
   80 mai di bellezza, risplendeva in loro:
        tanto ognuna era bella e tanto egreggia.

        Parean venute dal superno coro
        quaggiú nel mondo, creatur celeste
        use con Iove in l'alto concistoro.

   85 Quando mi viddon, fuggîr ratte e preste
        alquanto a lungi e poi voltôn lor volti,
        me risguardando tacite e modeste.

        —Io prego—dissi—che da voi si ascolti
        di questa mia venuta la cagione,
   90 che m'ha condutto in questi boschi incolti.

        Cercando vo il regno di Iunone:
        da che fortuna m'ha condutto a voi,
        prego vostra pietá non m'abbandone.

        —Al regno di Iunone andar non puoi
   95 —mi rispose una,—ché sí in alto è posto,
        che montar non potresti insino a loi.—

        E quando questo a me ebbon risposto,
        passâro un monte e sí ratto fuggîro,
        che appena il vento si movea sí tosto.
p. 53
  100 Ed io dirieto a lor, con gran suspiro,
        presi la costa e salsi il monte ratto;
        e quando giú nell'altra valle miro,

        io vidi l'arco di Iunon lí fatto
        ed alto in aere, il qual per segno diede
  105 Dio a Noè, con lui facendo il Patto.

        E come re ovver regina siede
        nell'alto tron, cosí su quel si pose
        Venus vestita d'òr da capo a piede,

        con la corona di mirto e di rose,
  110 con lieta faccia ed aspetto sí bello,
        piú che mai dèe ovver novelle spose.

        Cupido allor volar come un uccello
        vidi per l'aere; e credo sí veloce
        Cillen non corse mai, né tanto snello.

  115 Venus mi disse in questo ad alta voce:
        —O giovin, c'hai montata insú la costa,
        spronato dall'amor caldo e feroce,

        la bella ninfa, che a te fe' risposta,
        da me e dal mio figlio a te è sortita,
  120 che l'abbi a tuo voler ed a tua posta.

        Fa' che tu passi qua, dov'è fuggita
        nell'altra valle, e tanto lí rimagne,
        che da Cupido per te sia ferita.—

        Per questo io trapassai l'aspre montagne,
  125 tanto ch'io la trovai nell'altro piano,
        che stava a coglier fior con le compagne.

        Cupido lí non molto da lontano
        di quella bella ninfa mi ferío
        d'una saetta d'oro, ch'avea in mano.

  130 Però io con ingegno e con desio
        m'appressa' a loro e dissi:—O ninfe belle,
        in questo loco sí silvestre e rio

        per consigliarmi alcuna mi favelle:
        deh! non v'incresca che alquanto qui stia,
  135 stancato tra le selve amare e felle.—
p. 54
        La ninfa, che risposto m'avea pria:
        —O giovin—disse,—non abbiam temenza,
        né anco incresce a noi tua compagnia.

        Ma noi Minerva, dea di sapienza,
  140 aspettiam qui; e da noi qui s'aspetta
        con lo gran carro della sua eccellenza;

        ché qui tra noi è una giovinetta,
        che vuoi menare al suo regno felice,
        la qual tra le sue ninfe ha per sé eletta;

  145 e non sappiam di qual di noi si dice.
        Noi non voramo, quando ella discende,
        che alcun uomo con noi trovasse quice.

        Per quella cortesia, che 'n te risplende,
        ti prego che di qui ti parti alquanto,
  150 ché tua presenza sospette ne rende.

        —O ninfa, veder te m'è grato tanto
        —risposi a lei—e tanto a te mi lego,
        che io non posso andar in alcun canto.

        Ma io a me stesso la mia voglia niego
  155 contra mia voglia ed al partire assento,
        da che ti piace: tanto può 'l tuo priego.

        E, da che io mi parto con tormento,
        dimmi chi se'; e quando qui ritorno,
        prego, del tuo parlar fammi contento.—

  160 Per la vergogna arrosciò il viso adorno,
        e ch'io non fossi udito ella temea:
        però ella mirava intorno intorno.

        Poscia rispose:—Io nacqui giá 'n Alfea,
        Ilbina ho nome e tra li duri scogli
  165 vo seguitando la selvaggia dea.

Piú non ti dico: omai partir ti vogli.—

p. 55

CAPITOLO XI

Come la dea Minerva discese e seco menò Ilbina ninfa.

        Io me n'andai in un boschetto alpestro,
        distante a quelle ninfe, a mio parere,
        ben quasi una gettata di balestro,

        sí ch'io poteva udire e ben vedere
    5 tutti lor atti e tutte lor parole,
        ed aspettando mi stava a sedere.

        Ed ecco, come quando il chiaro sole
        tra le men folte nubi sparge il raggio,
        che quasi strada in cielo apparir sòle,

   10 cosí da cielo ingiú si fe' un viaggio;
        e la via lattea, che pel caldo s'arse,
        piú che quella in splendor non ha vantaggio.

        Le ninfe tutte alla strada voltârse;
        e come quando rischiara l'aurora,
   15 cosí lucente in cielo un carro apparse.

        E poco stando io vidi una signora
        splendente quanto il sol su la mattina,
        quando dell'orizzonte egli esce fòra,

        incoronata come la regina,
   20 che venne a Salomon dal loco d'Austro
        per udire e saper la sua dottrina.

        Quando piú presso ingiú si fece il plaustro,
        lo scudo cristallin gli vidi in mano,
        lucente quanto al sol nullo alabastro.

   25 Ed era sí scolpito e sí sovrano,
        che tanto adorno nol fece ad Achille,
        per preghi della madre, dio Vulcano.
p. 56
        Appresso al carro stavan le sue ancille,
        inclite ninfe, intorno a coro a coro,
   30 ed ogni coro in sé n'ha piú di mille.

        Non ebbe piú splendor, né piú lavoro
        il carro, a cui Fetòn lasciò lo freno,
        quando trasse i corsier dal cammin loro.

        Vedendo lo splendor tanto sereno,
   35 l'alpestre ninfe stavan ginocchioni
        con reverenza sul basso terreno.

        Quando discesa fu con canti e suoni
        la dea Minerva e che fu posto fine
        a tanti balli ed a tante canzoni,

   40 le ninfe alpestre riverenti e chine
        dissono:—O dea, qual vorrai che vegna
        di noi e che al tuo regno al ciel cammine?—

        Rispose ella:—Di voi ognuna è degna;
        ma ora eleggo Ilbina e voglio questa,
   45 che venga meco ove da me si regna.—

        E, detto questo, con canti e con festa
        la coronò d'alloro e poi d'uliva,
        e di fin òr gli fe' vestir la vesta.

        Poi per la strada, che da ciel deriva,
   50 la menò seco pel cammin ad erto,
        forte a salire ad uom mortal, che viva.

        Io, che m'era occultato in quel deserto
        tra dure spine e pungenti cespogli,
        il viso alzai di lacrime coperto.

   55 —Perché, o Palla, Ilbina mia mi togli?
        —dissi piangendo;—e perché a questa volta
        d'Ilbina, o dio Cupido, ancor m'addogli?—

        E fuora uscii e con fatica molta
        per la celeste strada insú mi mossi
   60 dietro alla ninfa, la qual m'era tolta.

        E ben un miglio cred'io andato fossi,
        che la dea Venus si chinò a pietade:
        tanto con li miei preghi io la commossi.
p. 57
        Nell'aere apparse con grande beltade;
   65 poi scese al carro con faccia proterva,
        il qual saliva le splendenti strade.

        —Non senza gran cagione, o dea Minerva
        —disse Venus,—io vengo tra la schiera,
        che segue te e tuo comando osserva,

   70 ché insino al cielo, ove il gran Iove impera,
        d'un vago giovinetto è giunto il grido,
        che sempre ha 'n me sperato e sempre spera.

        Ed io ed anche il mio figliuol Cupido
        una ninfa, ch'è qui, gli abbiam promessa,
   75 sí come a nostro caro amico e fido.

        E se tu vuoi sapere quale è essa,
        Ilbina ha nome, che la dea Diana
        la mandò a te ed halla a te concessa.

        E perché la mia spen non fosse vana,
   80 Iunon la confermò e fe' che scese
        Iris, sua nuncia, presso una fontana.

        Acciò che mie parol sien meglio intese,
        mira colui che sal su per la via:
        il mio figliuol colui d'Ilbina accese.

   85 Costui è quel, di cui prego che sia
        la detta ninfa; ed egli è quel che fue
        dato da Iuno a lei per compagnia.

        Vedi che move ratto i passi insúe
        e per la costa omai è tanto stanco,
   90 che a pena dietro a te può seguir piúe.—

        Minerva, vòlta verso il destro fianco,
        mi rimirò; ed io era da lunge
        tre gettar di balestro o poco manco.

        Come che 'l servo se medesmo punge,
   95 che è visto ed aspettato dal signorso,
        che affretta i passi insin che a lui aggiunge;

        cosí fec'io insin ch'io ebbi corso
        al carro, ove Ciprigna s'era posta,
        che mi aspettava per darmi soccorso.
p. 58
  100 Come persona a compiacer disposta
        a chi la prega, cosí Palla fece
        a Citarea benigna risposta:

        —Se a Iunone, a cui imperar lece,
        io ho rispetto ed a te che 'l domandi,
  105 che puoi dir: «Voglio», e fai cotanta prece,

        io mi contento far ciò che comandi;
        ma chiama Ilbina e vedi se consente
        innanti che 'l mio carro piú su andi.—

        Come donzella, che tra molta gente
  110 si dé' sposar, ed ègli detto:—Vuoi
        per tuo marito costui qui presente?—

        che, vergognando, abbassa gli occhi suoi;
        cosí Ilbina si fe' vergognosa,
        parlando questo le dèe amendoi.

  115 Però gli disse Venere amorosa:
        —O ninfa, che tra l'altre piú elette
        piú bella se' e piú pari graziosa,

        perché della vergogna sottomette
        il tuo bel volto? perché hai temenza
  120 del mio parlar, che gran ben ti promette?

        Vien' su nel carro di tanta eccellenza:
        io ti voglio parlar quassú da presso:
        vien' su avanti alla nostra presenza.—

        Come la zita col volto sommesso
  125 va per la via e move il passo raro,
        tal andò al carro e poi montò su in esso.

        Mentre salea, io vidi un foco chiaro,
        che gli abbruciò l'estremitá del panno,
        ond'ella mise un gran suspiro amaro.

  130 Quando s'avvide Palla dello 'nganno
        e che conobbe il foco, il fumo e 'l segno
        del sospirar, che fe' con tanto affanno,

        si volse a Citarea con grande sdegno:
        —Come se' tanto ardita, o rea e falza,
  135 tradir le ninfe, che son del mio regno?
p. 59
        Nata nel mare giú tra l'acqua salza,
        de li membri pudendi, e tra le schiume,
        qual è quella superbia, che t'innalza?

        Madre e maestra d'ogni rio costume,
  140 pártite e vanne al regno tuo, lá dove
        ogni tuo atto è vano e torna in fume.

        Tu lodi il tuo figliuol, che ferí Iove;
        ma non fu il vero: Iove anche è diverso
        da quel che il cielo ed ogni effetto move.

  145 Quel sommo re, che regge l'universo,
        porta odio a te e 'l tuo figliuol descaccia,
        sí come falso amor, rio e perverso.—

        Come chi scorna, ch'abbassa la faccia
        e mormorando seco il capo scuote,
  150 mostrando irato e con segni minaccia;

        cosí Ciprigna con le rosse gote
        partíssi quindi ed al figliuol ricorse,
        come chi sé vendicar ben non puote.

        E giá ad Ilbina sarebbon trascorse
  155 le fiamme e 'l sacro foco insino al core,
        se non che Palla il suo scudo gli porse,

        che ha tanta virtú, tanto valore,
        che ogni fiamma di Cupido ammorta,
        ogni atto turpe ed ogni folle amore.

  160 E questo scudo, che Minerva porta,
        è di cristallo e 'l capo gorgoneo
        ha sú scolpito di Medusa morta,

vinta per forza e ingegno di Perseo.

p. 60

CAPITOLO XII

Come la dea Minerva racconta all'autore l'eccellenza del suo reame.

        Con miglior labbia poscia a me rivolta
        la dea Minerva splendida e serena,
        mi disse:—Attento mie parole ascolta.

        Se vuoi lassar Cupido, che ti mena
    5 tra' duri scogli dell'aspro deserto
        con tanti inganni e con cotanta pena,

        e vuoi salir la strada suso ad erto,
        meco venendo all'alto mio reame,
        chiuso agli stolti ed alli saggi aperto,

   10 io ti farò amar dalle mie dame,
        che fanno i lor amanti esser felici,
        e te faran beato, se tu l'ame.

        Le ninfe di Diana servitrici,
        rispetto a quelle, ti parran villane,
   15 incolte, indotte, zotiche e mendíci.

        O ben dell'aspre selve, o cose vane,
        tanto veloce lo tempo vi toglie,
        che come d'ombra nulla ne rimane!

        Non posson contentar l'umane voglie,
   20 che 'n sé non hanno esistente bontade,
        e 'l ciel le logra, mentre sopra voglie.

        E, perché il ciel voltando sempre rade,
        quel che fu nuovo riveste l'antico;
        però le cose belle si fan lade.

   25 E, perché meglio intendi ciò ch'io dico,
        vien' su nel carro mio, che alla 'nsú monta,
        tra l'esercito mio saggio e pudico.—
p. 61
        Io salsi il carro e nella prima gionta
        io dissi:—O dea Minerva alta e benegna,
   30 del regno tuo alquanto mi racconta.

        E dimmi qual è 'l modo ch'io vi vegna
        e dove sta e chi 'l regge e nutríca,
        e della sua beltá ancor m'insegna.

        —Al regno mio, del qual vuoi ch'io ti dica
   35 —rispose quella—e vuoi ch'io ti dimostri,
        non vi si può salir senza fatica;

        ché nel cammino stanno sette mostri
        con lor satelli ad impedir la strada,
        che l'uom non giunga a' miei beati chiostri.

   40 E chi losinga acciò che a lei non vada,
        chi fa paura e chi occulta il laccio,
        che impacci altrui o che dentro vi cada.

        E s'alcun vince e trapassa ogni impaccio,
        lassati i mostri, trova una pianura.
   45 ove non caldo è mai troppo, né ghiaccio.

        Chi su per l'erbe di quella verzura
        s'ingegna sempre di salire avante,
        del regno mio poi trova sette mura.

        E ogni muro dall'altro è piú distante
   50 che cento miglia, e dentro alla sua mèta
        un regno tien di ninfe oneste e sante.

        Ed una donna umíle e mansueta,
        a chiunque sale, il sacro uscio disserra
        benignamente e mai a nullo il vieta.

   55 Ma pria conven che l'uom basci la terra:
        allora quella ratto apre la porta
        e va con lui; se no, 'l cammin egli erra.

        Tra quelli regni dietro a questa scorta
        chi entra trova le muse elicone,
   60 ed ognuna gli applaude e lo conforta.

        Con lieti balli e soavi canzone
        il menano a diletto su pel monte,
        facendo melodia dolce e consone.
p. 62
        Pervengon poi al pegaseo fonte,
   65 ove i poeti bevon la sacra onda;
        e poi d'alloro inghirlandan la fronte.

        All'altro giro, che vieppiú circonda,
        va poi chi prega la guida che 'l mene,
        e dietro a' passi suoi sempre seconda.

   70 Sette reine, nobili camene,
        che dienno alli gran saggi le mamille,
        di latte di scienza tanto piene,

        si trovan lí e nitide e tranquille
        mostran sette scienze, ovver sett'arti,
   75 con dolce dire e con soavi stille.

        Altra regina trovi, se ti parti,
        che splende quanto il sol nel mezzogiorno,
        quando ha li raggi meno obbliqui o sparti.

        Quella regina è tutta intorno intorno
   80 fulcita d'occhi assai vieppiú che Argo
        ed ha del sole il nobil viso adorno.

        Con tutti gli occhi il regno lungo e largo
        ella contempla e rende tanta luce,
        ché quivi non può 'l viso aver letargo.

   85 La scorta saggia altrove anco conduce,
        dov'è l'altra regina sí modesta,
        ch'ogni costume e senno in lei riluce.

        Fabricio e Scipion nutricò questa.
        Ella è che ad ogni troppo pone il freno
   90 ed è negli atti e nel parlare onesta.

        Altra reina è anco dentro al seno
        d'esto mio regno, di tanta fortezza,
        che a nulla violenza mai vien meno.

        Né mai menacce, né losinghe apprezza;
   95 né fortuito caso mai la piega;
        né muta faccia a doglia, né a dolcezza:

        il piombo solo è che la vince e spiega
        sí come il diamante, e cosí face
        di questa dea chi umilmente la prega.
p. 63
  100 Da questo regno sí alto e capace
        la guida sale alla nobile Astrea,
        che con Saturno resse il mondo in pace.

        Ma, poiché fu la gente fatta rea
        e l'avarizia resse il mondo male,
  105 ritornò al cielo, ov'ella è fatta dea.

        Al nobil mio reame poi si sale,
        ove si trovan tre altre reine,
        ognuna in nobiltá a me eguale.

        Con queste tre sí alte e sí divine
  110 contemplo Dio, che regge l'universo,
        principio d'ogni cosa, mezzo e fine.

        Il regno mio è fatto a questo verso,
        com'io t'ho detto: or di' se vuoi venire
        o per le selve errando andar disperso.—

  115 Io era pronto e giá volea dire:
        —Io voglio, o dea, seguire il tuo consiglio
        e dietro a' piedi tuoi sempre vo' ire.—

        Ma, quando in aer su alzai il ciglio,
        vidi Venus, la quale una donzella
  120 mi mostrò lieta e Cupido suo figlio,

        non vista mai al mio parer sí bella;
        e cenno mi facían che su non gisse,
        ché fermamente mi darebbon quella.

        E parve che Cupido mi ferisse
  125 di piombo e d'oro; e con quelle due polse
        fece che allora non mi dipartisse.

        Quella del piombo il buon amor mi tolse,
        ch'avea d'Ilbina, e con quella dell'oro,
        oh lasso me! che a boschi anco mi volse.

  130 Per questo non seguii quel sacro coro;
        per questo lascia' io la compagnia,
        che mi menava all'alto concistoro.

        Risposi a Palla:—O dea, la possa mia
        non si confida e forse non può tanto
  135 che vinca i mostri e saglia sí gran via.—
p. 64
        Cosí discesi di quel plaustro santo
        e giú nell'aspre selve ritornai
        intra le spine e punto d'ogni canto.

        Ratto ch'io giunsi, Venere trovai,
  140 che mi aspettava in una valle piana,
        sí bella quanto si mostrasse mai.

        Di mirto e rose e d'erba ambrosiana
        portava su la testa tre corone
        e faccia avea di dea e non umana.

  145 Ella mi disse:—Or di': per qual cagione
        volevi lasciar me e 'l mio figlio anco
        o per Minerva o per muse elicone?

        Se sí poco salendo fosti stanco,
        se tu fossi ito per quelle erte vie,
  150 saresti, andando insú, venuto manco.

        Ma, se verrai nelle contrade mie,
        le ninfe del mio regno al tuo desio
        saran condescendenti e preste e pie.

        E quella ninfa, ch'io e 'l figliuol mio
  155 t'abbiam mostrata, ancor te la prometto;
        e mezzo e guida a ciò ti sarò io.

        —O Citarea—diss'io,—a te soggetto
        sempre son stato ed anco al tuo Cupido,
        sperando aver da voi alcun diletto;

  160 onde per tue parole mi confido
        la bella ninfa aver, che mi mostrasti,
        e, ciò sperando, dietro a te mi guido

per questi lochi sí spinosi e guasti.—

p. 65

CAPITOLO XIII

Come l'autore trova una ninfa chiamata Taura, la quale gli rende ragione di molti fenomeni.

        Appena eravamo iti un miglio e mezzo,
        ch'io vidi in una valle una donzella
        sotto una quercia, che si stava al rezzo.

        Io andai a lei e dissi:—O ninfa bella,
    5 di qual reame se'? O dolce dama,
        deh, fammi cortesia di tua favella,

        e dimmi il nome tuo come si chiama.
        Cosí soletta senza compagnia
        aspetti tu alcun, che forse t'ama?—

   10 Ella si volse e riverenzia pria
        fece alla dea; e poi cosí rispose
        alle parol della domanda mia.

        —Del van Cupido saette amorose
        giammai sentii; ed egli mi dispiace
   15 e suoi costumi e sue caduche cose.

        Dall'alto regno, che a Vulcan soggiace,
        son io venuta all'ombra a mio diletto,
        ché starsi al fresco alle sue ninfe piace.

        Se vuoi saper come il mio nome è detto,
   20 Taura son chiamata e qui dimoro
        a questo orezzo e nullo amante aspetto.

        E spesso l'altre ninfe del mio coro
        vengono qui e vanno quinci a spasso
        con vestimenti e con corone d'oro.

   25 Ma tu chi se' e dove movi il passo?—
        Ed io risposi:—L'amor m'ha condutto
        per questo loco faticoso e lasso.
p. 66
        Chi sono e donde vengo a dirti il tutto
        sarebbe lungo: io gusto ora l'amaro,
   30 sperando di fatica dolce frutto.

        Se la dea assente, io prego, fammi chiaro:
        o ninfa bella, volentier domando,
        perché io so poco e domandando imparo.

        Però, mentr'io sto teco dimorando,
   35 dimmi del regno, che Vulcan nutríca
        sotto il suo freno e sotto il suo comando.

        Il tuo dolce parlare anche mi dica
        del loco ov'egli sta, s'egli ti done
        che piú dell'altre ninfe a lui sie amica.

   40 Cupido giá del regno di Iunone
        assai mi disse con suo parlar breve,
        e della grandin disse la cagione

        e delle nubi e pioggia e della neve
        e delli tuoni, e disse del baleno,
   45 ch'anco a' giganti è timoroso e greve.

        Ma non mi disse ben espresso e appieno
        come si fa la sube e la cometa
        e la stella che corre e poi vien meno.—

        Allor la ninfa con la vista lieta
   50 rispose:—In pria conven che le parole,
        le qua' disse Cupido, io ti ripeta.

        Ciò, che non scalda il foco ovvero il sole,
        conven che da sé venga in gran freddezza,
        come natura e filosòfia vuole.

   55 Però nell'aer sopra a tanta altezza,
        dove non scalda il raggio che 'nsú riede,
        e ove il foco non scalda a piú bassezza,

        sta 'l regno freddo che Iunon possede:
        li duo vapori, acquatico e terrestro,
   60 lí si fan nube, sí come si vede.

        E 'l vapor terreo e secco è da sé presto
        ad accendersi ratto, purché senta
        l'umido intorno, a sé opposto e molesto.
p. 67
        Sí come la calcina, che diventa
   65 focosa all'acqua e fuor manda il calore,
        che prima parea fredda e quasi spenta;

        cosí levato 'nsú il doppio vapore,
        l'acquatico si stringe e quindi piove,
        perché quivi è compresso dal freddore.

   70 Il terreo allor si aduna e si commove
        dentro alla nube, e quel moto l'accende:
        è la fiamma rinchiusa in stretto, dove

        con grave tuon la densa nube fende,
        e spesse volte la saetta scaccia
   75 col balenar, che subito risplende;

        il balenar vien subito alla faccia;
        ché presto l'occhio può veder la luce,
        se opaco o grande spazio non l'impaccia.

        Ma 'l tuon, che seco il balenar produce,
   80 l'orecchia dalla lunga nol può udire,
        se l'aer seco a lui non lo conduce.

        E ben che 'l foco sia atto a salire,
        niente meno ingiú la nube spande,
        che 'l freddo denso insú non lassa ire.

   85 Or, se saper tu vuoi quel che domande,
        dirò pria della stella, che nel cielo
        permuta loco e par correndo ell'ande.

        Se 'l vapor terreo passa l'aer gielo,
        sottile e secco è ad ardere disposto
   90 piú che la stoppa a lume di candelo.

        Quand'egli vien lassú, dove sta posto
        il regno di Vulcan, l'accende il foco
        nel primo capo, e la fiamma tantosto

        per lui trascorre e non a poco a poco,
   95 ma ratto e presto; e la fiamma corrente
        pare una stella che tramuti loco.

        E fa un fregio sú chiaro e lucente
        per la via che trascorre, ed in un tratto
        poscia vien meno e non appar niente.
p. 68
  100 E se 'l vapor è di materia fatto
        che sia grossa e viscosa e sulfuresca,
        non atta a consumarsi molto ratto,

        quando ha passata la contrada fresca,
        va su infin che l'aer caldo trova,
  105 e lá s'accende come a fiamma l'ésca.

        E pare un trave acceso che si mova:
        questo è la sube, e spesso ha la figura
        o di colonna o di altra cosa nova.

        E se 'l vapor, che 'l sol lieva in altura,
  110 è grosso e secco e molto denso e spesso
        e di materia a consumarsi dura,

        quando egli giunge sú al foco appresso,
        s'accende quella parte che 'n pria monta,
        e quella fiamma scende giú per esso

  115 in quella parte che non è ancor gionta,
        ma sta giú verso l'aere distesa
        lunga e nelle sue parti ben congionta.

        Allor la parte ch'è nel foco accesa,
        pare una stella, e l'altra la sua chioma,
  120 cioè la parte nell'aer distesa.

        E però questa «cometa» si noma,
        quasi «comata», e chi ben questo mira,
        dato fu a lei il suo proprio idioma.

        Se saper vuoi perché il sol non tira
  125 piú 'nsú 'l detto vapor, poiché è focoso,
        ma secondando il primo moto gira,

        sappi che ogni cosa ha 'l suo riposo
        nel proprio loco, come hai giá udito,
        e, se si parte quindi, va a ritroso.

  130 E però quel vapor, quando è ignito,
        sta dentro fermo presso a quella spera,
        la quale è d'ogni lieve il proprio sito.

        E sappi ancor che tanto la lumiera
        dura della cometa e tanto è vista,
  135 quanto dura il vapor e sua matèra;
p. 69
        ché mai la fiamma può veder la vista
        o la luce del foco per se sola,
        s'ella non è con altro corpo mista.—

        Tacette poscia dopo esta parola;
  140 ond'io a lei risposi:—Ammiro alquanto
        come s'accende il vapor che 'nsú vola.

        Ed anco ammiro come può esser tanto,
        che se ne faccia vento e pioggia ancora
        e l'altre cose dette nel tuo canto.—

  145 Sub brevitá questo rispose allora:
        —Pensa del cibo dentro al corpo umano,
        quando è indigesto e quando egli evapóra:

        il qual, quando è cacciato fuor dell'ano,
        s'infiammeria come trita vernice,
  150 se si scontrasse in acceso vulcano.

        Cosí il vapor, che sú 'l mio canto dice,
        s'infiamma giunto nell'aere acceso
        e d'ogni impressione è la radice.—

        Cupido, quando a questo io stava atteso,
  155 venía per l'aere quasi uccel veloce
        colle saette in mano e l'arco teso.

        —O Taura—chiamò ad alta voce,—
        tu proverai che piú 'l mio foco infiamma
        che quel del tuo Vulcano, e che piú coce.

  160 Ei l'ha provato, e sallo la mia mamma.—
        Cosí dicendo, un colpo tal gli porse
        col dardo acceso di sacrata fiamma,

        che trapassolla e insino a me trascorse;
        e tanto m'infiammò quella saetta,
  165 ch'io grida' aiuto, e l'Amor non soccorse.

        Taura bella, di dolor costretta,
        gridò al ciel:—Vulcano, ora m'aita,
        e del crudele Amor fammi vendetta.—

E, detto questo, cadé tramortita.

p. 70

CAPITOLO XIV

Come Cupido fece battaglia con Vulcano e come a prego di Venere
Giove discese dal cielo e pose pace fra loro.

        Parve che quella voce andasse al cielo,
        ché venne con un tuon un gran baleno
        a lei sopra la faccia e 'l petto anelo.

        E nel dir «miserere» ed anche in meno
    5 l'aere si turbò e féssi fosco,
        il quale pria era chiaro e sereno.

        E ben mille ciclopi fuor d'un bosco
        io vidi uscir e fuor delli gran monti,
        alti, che tanto abeti io non conosco.

   10 Questi hanno sol un occhio in le lor fronti,
        fabbri di Iove e duri nelle braccia,
        crudel, nelle battaglie arditi e pronti.

        Poi tra le nubi con irata faccia
        e con tempesta apparve il gran Vulcano
   15 co' tuon, co' quali a' giganti minaccia.

        E tre saette avea nella sua mano;
        cosí discese giú con sí gran grido,
        ch'egli facea tremar tutto quel piano.

        —Dov'è—dicea,—dov'è 'l crudel Cupido?
   20 Dove se' ito, traditor bugiardo?
        Vieni, ché alla battaglia io ti disfido.

        Ahi, gran prodezze mostrarsi gagliardo
        contra una ninfa, a cu' il petto hai ferito
        sí crudelmente col tuo crudo dardo!

   25 Ma, se tu se' sí grande e sí ardito,
        perché non vieni, o nato d'adultèro,
        in campo alla battaglia, ov'io t'invito?—
p. 71
        Cupido, in questo, superbo ed altèro
        vidi venir volando, e mai uccello
   30 corse alla preda sí ratto e leggero.

        Ed a Vulcan:—Ritorna a Mongibello,
        sciancato, storto e dal ciel messo in bando:
        ritorna alla fucina ed al martello.

        Il dardo orato mio, il qual io mando,
   35 tu proverai; e, se ti giunge addosso,
        tu griderai a me:—Mercé domando.—

        Poi scoccò 'l dardo, ed arebbel percosso,
        se non ch'e' si gittò alla supina:
        per questo il colpo andò da lui rimosso.

   40 Su ratto si levò e con ruina
        il folgore gittò, il qual la spada
        corrode e nulla fa alla vagina,

        ch'ello è fiamma sottile e fa che vada
        dentro alli pori e ciò che non ha poro,
   45 cosí disfá, come il sol la rugiada.

        Questo di piombo le saette e d'oro
        fuse nella faretra, e smunse e róse
        ciò che v'avea di metallin lavoro.

        Quando Cupido le polse penose
   50 volle trar fuor per trarre un'altra volta,
        nulla trovò, mentre sú la man pose.

        Onde ei, scornato e con furia molta:
        —Io ho l'altr'arme—disse—e 'l foco sacro:
        quest'arme a me da te mai non fia tolta.—

   55 Cosí dicendo, furibondo ed acro
        corse in Vulcano e sí gl'incese il mento,
        che 'l volto d'ogni barba li fe' macro.

        E, di questa vendetta non contento,
        col foco s'avventò nelli ciclopi;
   60 e, poi che 'l capo incese a piú di cento:

        —Tornate alle caverne come topi
        —diceva a lor,—tornate, o turba inerte,
        o falsi e vili e neri quanto etiòpi.—
p. 72
        Vulcano, in questo, sú a braccia aperte,
   65 fuggendo, salse al regno di Iunone,
        ove il vapore in saette converte.

        Ma dietro a lui, leggier come un falcone,
        andò Cupido, e mai corse sí ratto
        dall'arco suo scoccato verrettone.

   70 E disse a lui:—Vulcan, non verrá fatto
        l'avviso tuo: farò che le saette
        far non potrai per me a questo tratto.—

        Cosí dicendo, tutte nubi umette
        'sciuccòe col foco e tanto consumolle,
   75 che 'ntorno al caldo l'umido non stette;

        ché, quando è consumato l'umor molle,
        accendersi non può 'l secco vapore,
        sí che Vulcan non fece quel ch'e' volle.

        Per questo cominciò con gran rumore
   80 a gridar forte, chiamando difese
        contra Cupido, stimol dell'amore.

        Allora Venus sue braccia distese
        al cielo e disse con parol divote
        al sommo Iove, tanto ch'e' la 'ntese:

   85 —Guarda il vecchio marito, che non puote
        piú difensarsi contro il mio figliuolo:
        vedi ch'e' l'ha percosso e che 'l percote.

        Tu sai che, quando il giganteo stuolo
        volle pigliar il cielo e discacciarte,
   90 piú che null'altro t'aiutò ei solo.

        E fece le saette con sua arte:
        con quelle, o Iove, tu gettasti a terra
        li gran giganti con le membra sparte.—

        In men che alcun non apre gli occhi o serra,
   95 vidi Iove discender giú 'n quel loco,
        ove Cupido a Vulcan facea guerra.

        —Cessa—disse al fanciullo—il sacro foco;
        Amor, se pensi quanto l'hai feruto,
        tu dirai ch'egli è troppo, e non è poco.
p. 73
  100 E s'egli avesse a te ferir voluto,
        come potea, nella tua persona,
        nullo al suo colpo aver potevi aiuto.—

        A questa voce del signor che tona,
        cessò il foco Cupido e reverente
  105 disse al padrigno:—O padre, a me perdona.—

        Nulla cosa a sdegnarsi è piú fervente
        che 'l buon Amore, e nulla cosa ancora
        si placa e torna piú leggeramente.

        Posta la pace, si partí allora
  110 colle sue ninfe Iove e suoi satelli,
        de' quali il regno suo in ciel s'onora.

        Ma pria la vita a Taura, ed i capelli
        rendé a Vulcano, che parea un menno,
        ed a Cupido i dardi orati e snelli.

  115 Poiché i duo guerreggianti pace fenno,
        Vulcan disse all'Amor:—Perché sí rio
        ver' me se' stato e con sí poco senno?

        Se non che, quando a te saetta' io,
        trassi come a figliuol, non a figliastro:
  120 tu non scampavi mai dal colpo mio.

        E provato averesti ch'io so' il mastro
        di saettar e che non si può opporre
        a me mai scudo, unguento ovver impiastro.

        Io son che getto a terra le gran torre
  125 e li gran monti, e che soccorsi a Iove,
        quando i giganti vòlsonli 'l ciel tôrre.

        Della saetta mia, quando si move,
        i grandi effetti e le varie ferite,
        nulla è filosofia che le ritrove.—

  130 Rise Cupido alle parole udite
        e fe' come fa alcun, che par ch'assenta
        a quel che non è ver, per non far lite.

        E, come aquila fa, quando s'avventa
        alla sua preda rapace e feroce,
  135 ch'ali non batte, perché non si senta;
p. 74
        cosí ciascuno ingiú venne veloce
        alla dea Venus. Benigna l'accolse
        e poi a Vulcan proferse questa voce:

        —Assai, marito mio, il cor mi dolse,
  140 quando tu fulminasti il dolce figlio
        e che guastasti le su' orate polse.

        Ma piú mi dolse che la barba e 'l ciglio
        egli arse a te e che con tanta asprezza
        nell'aer su ti pose a tal periglio.

  145 Or della doglia io sento gran dolcezza,
        da che tra voi è la concordia posta,
        la qual prego che duri con fermezza.—

        Vulcan non fece a lei altra risposta
        se non che con l'Amor volea la pace;
  150 ché la sua sposa, che gli stava a costa,

        piú 'l riscaldò che 'l foco, ov'egli giace,
        e, se non pel figliastro, facea forse
        cosa ch'è turpe e con beltá si tace.

        Per questo si partí e su ricorse
  155 al regno suo; e Taura sua partita
        fece una seco, onde gran duol mi morse.

        Però a Cupido:—Amore, ora m'aita:
        tu sai che 'l colpo insino a me pervenne,
        allor che Taura fu da te ferita.—

  160 Egli ridendo mosse le sue penne,
        e fuggí via l'Amor senza leanza
        ed alla piaga mia non mi sovvenne.

        Venus a me:—Assai piú bella 'manza,
        —disse—nel regno mio ti doneraggio.—
  165 Però, al conforto di tanta speranza,

la seguitai per l'aspero viaggio.

p. 75

CAPITOLO XV

Come l'autore trova una ninfa di Cerere, chiamata Panfia, la quale gli conta il reame di Eolo, dio delli venti.

        L'amor con la speranza è sí soave,
        che fa parer altrui dolce e leggera
        la cosa faticosa e da sé grave;

        ché sempre mai, quando l'animo spera
    5 aver il premio della sua fatica,
        piglia l'impresa con la lieta ciera.

        Questa tra spine e tra pungente ortica
        menava lieto me per duro calle:
        tanto quella promessa a me fu amica;

   10 quando vidi una ninfa in una valle,
        che cogliea fiori, e suoi biondi capelli
        di color d'oro avea sparsi alle spalle.

        —A quella che lí coglie i fiori belli
        —diss'io a Venus—volentieri irei,
   15 se piace a te che alquanto gli favelli.—

        La dea consentí ai desii miei;
        ond'io andai, e, quando gli fui appresso,
        queste parole dirizzai a lei:

        —O ninfa bella, mentre a me è concesso
   20 ch'io parli teco, prego, a me rispondi:
        chi se' e questo loco a chi è commesso?—

        Allor, rispersa de' capelli biondi,
        inver' di me alzò la lieta testa,
        e poi rispose con gli occhi giocondi:

   25 25—Eolo regna qui 'n questa foresta,
        che regge i venti ed halli tutti quanti
        sotto il suo freno e sotto sua potèsta;
p. 76
        ché, quando contra il ciel funno i giganti,
        seguîro il padre, e le colpe paterne
   30 spesso tornano a' figli in duri pianti.

        Però gl'inchiuse Dio tra le caverne,
        ed Eolo diede a lor, che gli apre e serra
        e che sotto suo impero li governe.

        Se ciò non fosse, l'aere e la terra
   35 subbissarieno ed in ogni contrada
        farian grande ruina e grande guerra.

        Panfia ho nome, e la dea della biada
        alla figlia Proserpina mi manda;
        e spesse volte vuol che a lei io vada.

   40 E coglio questi fior, ch'una grillanda
        gli vo' portar, ché delli fior che colse
        gli sovvien anco, e però me 'n domanda,

        quando Cupido con sue fiere polse
        ferí 'l disamorato infernal Pluto,
   45 allor ch'a Ceres la figliola tolse.

        Ma tu chi se' e come se' venuto
        cosí soletto in questa valle alpestra?
        Vai vagabondo o hai 'l cammin perduto?—

        Ed io a lei:—Venus è mia maestra;
   50 seco mi guida al loco, ov'ella regna,
        e per darmi conforto ella mi addestra.

        Ed ha concesso a me ch'io a te vegna;
        o ninfa bella, prego mi contenti;
        e quel che ti domando, ora m'insegna.

   55 Dimmi ove stanno e donde son li venti,
        ché, quando scendi all'infernal regina,
        io credo che li veghi e che li senti.—

        Ed ella a me:—Perché ratta e festina
        Ceres mi manda, per fretta non posso
   60 appien de' venti darti la dottrina.

        Ma sappi che la terra dentro al dosso
        ha gran caverne, meati e gran grotte,
        ove li venti stanno in vapor grosso.
p. 77
        Tra quei meati e quelle rupi rotte
   65 diventa quel vapor sottile e raro,
        quando di sopra al dí cresce la notte;

        ché, quando un loco a sé prende un contraro,
        l'altro contraro prende un loco opposto,
        e quanto posson tengon loco varo.

   70 E però, quando è ito il fin d'agosto,
        e che 'l dí manca e fassi qui il verno,
        allor che il sole in bassi segni è posto,

        nelle caverne, ch'Eolo ha 'n governo,
        s'inchiude il caldo. E di ciò dán certezza
   75 l'acque che stanno nell'alvo materno,

        che hanno il verno alquanto di caldezza,
        come si vede e come appare al senso;
        la state hanno sotterra piú freddezza.

        Sí che 'l vapor, in prima grosso e denso,
   80 convien che s'assuttigli e sparso cresca
        il verno, riscaldato ovvero accenso.

        Però dall'arto loco cerca ond'esca:
        cosí per le fissure e pori esala,
        e 'l sole il tira insino all'aura fresca.

   85 Lí ripercosso, poscia all'ingiú cala
        e fassi vento, e, dove luna il tira
        ovver Saturno, quivi move l'ala.

        Il vapor che rimane e che si aggira
        nel ventre della terra, perché appieno
   90 non può uscir del loco, ond'egli spira,

        ritorna addietro in fondo giú nel seno
        dell'alma terra; e però innanzi alquanto
        che sia il tremoto, ogni vento vien meno.

        E poi ritorna e con impeto tanto,
   95 venendo insieme, la terra percote,
        che la fa almen tremare in alcun canto.

        Questo è 'l tremoto, e voglio ch'ancor note
        che 'l vapor caldo inchiuso ha tal valore,
        che nulla cosa ritener il puote.
p. 78
  100 Se fusse un monte qual tu vuoi maggiore,
        tutto d'acciaio dentro alla montagna,
        per mille parti ne uscirebbe fore.

        Cosí il vapor inchiuso in la castagna
        o in altra cosa, quando è riscaldato,
  105 convien che n'esca e quel che 'l tiene infragna.

        Io ho veduto giá ch'egli ha levato
        del loco un monte e fatta un'apertura
        sopra la terra con sí grande iato,

        che 'l re d'inferno avuta ha gran paura
  110 che non discenda insin laggiú il raggio
        e non illustri la sua patria oscura.

        E dico a te che anco veduto aggio
        Eolo re temere alcuna volta,
        quand'apre i monti e dá a' venti il viaggio.

  115 Egli escono con furia ed ira molta,
        quasi lioni o Cerbero feroce,
        quando si vide la catena sciolta.

        E discorrendo van per ogni foce;
        e, se si scontran due venti inimici,
  120 il turbo fanno, il qual cotanto nòce.

        Quest'è che gitta a terra li edifici
        con gran ruina e percuote li tetti,
        e svelle gli arbor dalle lor radici.—

        E giá poneva fine alli suoi detti,
  125 se non ch'io dissi:—Deh! di' se la luce
        del sol fa nell'inferno alcuni effetti.—

        Allor rispose:—Il sol, ch'è primo duce
        di ciò che nasce, pietre preziose,
        oro ed argento di laggiú produce.

  130 Ver è che Pluto tutte queste cose
        dona alla sposa sua, la quale è figlia
        di quella che l'andata a me impose.

        Io dirò a te una gran maraviglia:
        che d'oro mi mostrò un sí gran monte,
  135 che'ntorno gira piú di diece miglia.—
p. 79
        E disse:—Io prego, quando lassú monte,
        che tu nol dichi agli uomini del mondo
        e d'esta mia ricchezza non racconte;

        ché son sí avari, che 'nsin quaggiú al fondo
  140 ei cavarieno a rubbar il tesoro,
        il qual m'è dato in sorte e qui nascondo;

        e son sí ghiotti e cupidi dell'oro,
        che giá han cavato ingiú trecento braccia:
        che non vengan quaggiú temo di loro.—

  145 E, detto questo, con la lieta faccia,
        ridendo, inchinò alquanto e disse:—Addio;—
        e poi n'andò come chi fretta avaccia.

        Alla mia scorta allora torna' io;
        e seguitaila insin all'oceáno
  150 per un viaggio molto aspero e rio.

        Nettuno a noi col suo tridente in mano
        venne risperso di marine schiume,
        sí che sua barba e 'l capo parea cano.

        Con lui vennon le ninfe d'ogni fiume,
  155 delle quali al presente non ne narro,
        ché 'n altra parte il contará il volume.

        Nettuno poi ne pose sul suo carro
        e solcòe 'l mar; e li mostri marini
        facean, mirando noi, al plaustro sbarro.

  160 Triton sonava, e li lieti delfini
        givan saltando sopra l'onde chiare,
        che soglion di fortuna esser divini.

        Poiché mostrato m'ebbe tutto il mare
        e che dell'acque la cagion mi disse,
  165 perché sotto son dolci e sopra amare,

        in terra ne posò e lí s'affisse,
        e fe' ballar per festa le sue dame:
        e poi dicendo:—Addio,—da noi partisse.

Allor Venus andò al suo reame.

p. 80

CAPITOLO XVI

Del reame di Venere, e come le ninfe del medesimo reame dispiacquero all'autore, perché usavano atti disonesti d'amore; onde Venere il menò a ninfe piú oneste, ma piú piene d'inganno.

        Chi di Venus ben vuol saper il regno
        com'è disposto, sguardi pure agli atti;
        ché ogni balla si conosce al segno.

        Come gli uomini sonno dentro fatti,
    5 nell'opera di fuor si manifesta:
        quella è che mostra i saggi ed anco i matti.

        Poiché passata avemmo una foresta,
        io vidi il regno suo piú oltra un poco
        e gente vidi quivi in gioia e festa.

   10 Ed in quel regno quasi in ogni loco
        eran distinte ninfe a sorte a sorte
        in balli e canti ed in solazzi e gioco.

        Quando si funno di Ciprigna accorte:
        —Ecco la nostra dea—dissono alquante,—
   15 che torna a suo reame ed a sua corte.—

        Ben mille ninfe allor venneno avante,
        di rose coronate e fior vermigli,
        vestite a bianco dal collo alle piante.

        E de' loro occhi e dell'alzar de' cigli
   20 Cupido fatto avea le sue saette
        e l'ésca, con la qual gli amanti pigli;

        ché quelle vaghe e belle giovinette
        con que' sembianti moveano lo sguardo,
        che fa la 'manza che assentir promette.

   25 Non era lí mestier pregar che 'l dardo
        traesse dio Cupido a far ferita
        o ch'egli al suo venir non fosse tardo;
p. 81
        ch'ognuna mi parea che senza invita,
        solo al mirar e ad un picciol cenno,
   30 che nella vista sua mi dicesse:—Ita.—

        Poiché diversi balli quivi fenno
        'nanti a Ciprigna con canti esquisiti
        e misurati suon con arte e senno,

        io vidi dame e vidi ermafroditi,
   35 uomini e donne insieme, venir nudi,
        ove natura vuol che sien vestiti.

        Al viso con le man mi feci scudi
        per non vedergli; ond'ella:—Perché gli occhi
        —mi disse—colle man cosí ti chiudi?—

   40 Risposi a lei che gli atti turpi e sciocchi
        e ciò che vuol natura che sia occolto,
        enorme par che 'n pubblico s'adocchi.

        Ed ella a me:—Un luoco dista molto,
        ove tengo mie ninfe tanto oneste,
   45 che, solo udendo amor, le arroscia il volto;

        talché, quando Diana fa sue feste
        o va alla caccia tra luochi selvaggi,
        spesso vuole che alcuna io gli ne preste.

        Li sta la ninfa, la qual voglio ch'aggi,
   50 la qual, perché non gissi, io ti mostrai
        a lato a me tra gli splendenti raggi.—

        Partissi allora, ed io la seguitai
        insino a quelle, e di tant'eccellenza
        Natura ninfe non formò giammai.

   55 Né Fiandra, né Roma, ovver Fiorenza,
        né leggiadria giammai che di Francia esca,
        mostrâro ninfe di tant'apparenza.

        D'una di quelle Amor mi fece l'ésca
        ad ingannarmi, e fui preso sí come
   60 uccello o all'amo pesce che si pesca.

        Venere Ionia la chiamò per nome.
        Allor dall'altre venne la donzella
        con la grillanda su le bionde chiome.
p. 82
        E, come va per via sposa novella
   65 a passi rari e porta gli occhi bassi
        con faccia vergognosa e non favella,

        cosí la falsa moveva li passi
        per ingannarmi e, quando mi fu appresso,
        mi riguardò; ond'io gran sospir trassi.

   70 Venere disse a lei:—Io ho promesso
        a questo giovinetto che ti guide:
        a lui ti diedi ed or ti dono ad esso.—

        Sí come putta che piangendo ride
        per ingannar, cosí bagnò la faccia,
   75 dicendo:—O sacra dea, a cui mi fide?

        In prima, o Iove, occidermi ti piaccia;
        in prima, o Citarea, voglio morire,
        che alcun uomo mi tenga tra le braccia.—

        E per podermi ancor meglio tradire,
   80 'sciuccava gli occhi a sé con li suoi panni,
        nel cor mostrando doglia e gran martire.

        Chi creso arebbe che cotanti inganni
        e tanta falsitá adoperasse
        ninfa, che non parea di quindici anni?

   85 Io pregava Cupido che tirasse
        contro di lei omai il suo fiero arco
        e che al mio voler la soggiogasse.

        Ed io il vidi col balestro carco
        nell'aer suso in uno splendor chiaro,
   90 e ferirla mostrò con gran rammarco.

        Non fe' all'Amor la ninfa piú riparo,
        ma il capo biondo sul mio petto pose
        e che io l'abbracciassi mostrò caro.

        Allor Venus di rosse e bianche rose
   95 a lei ed anco a me risperse il petto;
        e poi sparí come ombra e si nascose.

        Quand'ella vide me seco soletto,
        cosí mirava intorno con sospiri
        come persona, quand'ella ha sospetto.
p. 83
  100 —Perché, o ninfa mia, intorno miri?
        —diss'io a lei.—Deh! alza gli occhi belli,
        che hai nel viso, quasi duo zaffiri.

        Perché stai timorosa e non favelli?—
        Allor alzò la faccia a me e parlommi,
  105 'sciuccando gli occhi a sé co' suoi capelli.

        —Pel sommo Iove e per li dèi piú sommi
        per l'aere e 'l cielo, il qual nostr'amor vede,
        pel duro dardo il qual gittato fommi,

        ti prego, amante, che mi dia la fede
  110 che non m'inganni e che vogli esser mio,
        da ch'io son tua e Venus mi ti diede.

        Or ti dirò perché ho sospetto io:
        qui stan centauri e fauni incestuosi,
        turpi in ogni atto scostumato e rio.

  115 E stanno tra le selve qui nascosi,
        e qui la 'Nvidia maledetta anco usa
        con sue tre lingue e denti venenosi.

        Ed io temo lor biasmo e loro accusa;
        però pavento, e sai che colpa occolta
  120 innante ai numi e al mondo ha mezza scusa.

        Però, acciò che teco non sia còlta,
        prego che la partenza non sia dura
        a te, né anco a me per questa volta.—

        Un monte mi mostrò e:—Su l'altura
  125 —mi disse sta un boschetto; io lí verraggio
        a te, quando la notte sará oscura.—

        E, perché 'l suo consiglio parve saggio,
        io me partii; ma prima li die' il giuro
        d'amarla sempremai con buon coraggio.

  130 Ed ella del venir mi fe' sicuro.
        Cosí n'andai; e, quando al loco fui
        colla speranza del venir futuro,

        dissi pregando:—O Febo, i corsier tui
        movi veloci verso l'occidente,
  135 perché piú ratto questo dí s'abbui.
p. 84
        E tu, Atlante, il ciel piú prestamente
        movi coll'alte braccia e grandi e forti,
        perché la notte giunga all'oriente.

        O cerchio obliquo, che i pianeti porti,
  140 fa' sí che entri il sole in Capricorno,
        che sia la notte lunga e il dí raccorti,

        acciò che tosto passi questo giorno
        e venga Ionia, che venire aspetta,
        quando sia notte, meco a far soggiorno.

  145 Io benedico il foco e la saetta,
        o dio Cupido, col qual m'hai ferito;
        e la tua madre ancor sia benedetta,

        che, quando con Minerva insú er' ito,
        per me avvocò ed ella mi ritorse;
  150 ed ella ha fatto ch'ancor t'ho seguíto.

        E qui al suo reame ella mi scorse
        ed hammi data Ionia, e che a me vegna
        n'aggio speranza senza nessun forse,

e spero in te e 'n lei che mi sovvegna.—

p. 85

CAPITOLO XVII

Dove si tratta dell'inganno, che fu fatto all'autore dalla ninfa Ionia.

        E giá il chiaro sol sí calato era,
        che nell'altro emisperio a quello opposto
        faceva aurora e quivi prima sera.

        E, per meglio vedere, io m'era posto
    5 alto in un sasso e lí cogli occhi attenti
        stava sperando che venisse tosto.

        Intanto fûn del sole i raggi spenti;
        e giá 'l cielo mostrava ogni sua stella,
        e non sentéa se no' 'l soffiar de' venti.

   10 —Quando verrai, o Ionia ninfa bella?
        —dicea fra me;—perché tanta dimora?
        Qual sará la cagion che sí tarda ella?—

        Qual va cercando l'angosciosa tora,
        a cui il figlio o la figliola è tolta,
   15 che soffia e cerca e mugghia ad ora ad ora,

        e poi si folce e coll'orecchie ascolta;
        tal facea io, ed alquanto la spene
        dalla sua gran fermezza s'era vòlta.

        Queste son le saette e dure pene,
   20 che balestra agli amanti il folle Amore;
        ché se speranza o tarda o in fallo viene,

        quanto sperava, tanto ha poi dolore;
        ché sempre volontá s'affligge tanto,
        quanto a quel che gli è tolto avea fervore.

   25 Io cercai per quel bosco in ogni canto
        insino al primo sonno e chiamai forte,
        aggirando quel loco tutto quanto,
p. 86
        come fe' Enea alla suprema sorte
        cercando della misera Creusa,
   30 rimasa in Troia dentro delle porte.

        Eco tapina, che vive rinchiusa
        tra le spelonche, mi dava risposta
        al fin della parol, come far usa.

        Per ritrovarla scesi poi la costa,
   35 e driada trovai su nel sentiero,
        che a guardar le ninfe ivi era posta.

        —Deh dimmi, driada, prego, e dimmi il vero,
        se delle ninfe ve ne manca alcuna,
        o se 'l numero loro è tutto intero.

   40 —Quando la notte ieri si fe' bruna
        —rispose quella,—Ionia n'andò via,
        e non era levata ancor la luna.—

        E disse a me che cenno fatto avía
        la dea Ciprigna, acciò ch'andasse a lei
   45 cosí soletta senza compagnia.

        —Ma io, o giovin, volentier saprei
        perché tu ne domandi ed a quest'otta
        come vai quinci, e dimmi che far déi.—

        Risposi:—Iersera, quando il dí s'annotta,
   50 io vidi lei; ond'io maravigliai
        che sí soletta andar s'era condotta;

        ch'i' so che in questo loco stanno assai
        centauri e fauni, e so che qui ed altrove
        sono alle ninfe infesti sempremai.

   55 Io temo, o driada, che alcun non la trove
        e, sol da questo mosso, quaggiú vegno:
        questo a venir di notte qui mi move.

        —Se Citarea, la dea di questo regno
        —rispose quella—volle ch'ella gisse
   60 ed acciò ch'ella andasse gli fe' segno,

        nullo saría centauro che ardisse,
        né che potesse impedirgli l'andata,
        la qual i fati e la dea gli prescrisse.
p. 87
        Ma, se questo non è e fie trovata,
   65 null'altra cosa, credo, la ripara
        che non sia presa e che non sia sforzata.—

        Ahi, quanto esta risposta mi fu amara,
        credendo fermamente fosse presa!
        E questa opinion mi parea chiara;

   70 ond'io risalsi insú tutta la scesa,
        che avíe fatta, e giunsi su nel piano,
        ove aspettato avíe con spene accesa.

        Io dicea meco:—O ninfa, alla cui mano
        or se' venuta? O vaga giovinetta,
   75 qual fauno t'ha scontrata o qual silvano?

        Questa è, Cupido, tua crudel saetta,
        e grave pena è la tua fiamma dura,
        se tardi o togli quel che spene aspetta.

        E l'altra è gelosia e la paura,
   80 che, perché la bellezza troppo s'ama,
        però in nulla parte è mai secura.—

        Cosí andai chiamando quella dama,
        come colui che una persona sola
        vuol che lo 'ntenda e timoroso chiama,

   85 che dice ratto e parla nella gola;
        e tal i' la chiamai ben mille volte,
        qual Eco rende 'l suon della parola.

        Tant'eran giá del ciel le rote vòlte,
        che Aurora giá mostrava sua quadriga,
   90 e giá Titon gli avea le trecce sciolte,

        quando pel pianto e per la gran fatiga
        convenne che giú in terra io mi colcasse,
        e piú per lei cercar non mi diei briga.

        In questo parve a me che in me entrasse
   95 il sonno, che ristora e che riposa
        a' mortali le membra stanche e lasse.

        Mentr'io dorméa, apparve a me, amorosa
        e piena di splendor, la bella Ilbina,
        in apparenza piú che umana cosa.
p. 88
  100 —Lévate su,—mi disse,—ch'è mattina:
        Cupido tante volte t'ha tradito,
        egli e la madre sua, che è qui reina.

        Sappi che a Ionia il petto egli ha ferito
        d'un dardo oscuro ed impiombato e smorto,
  105 che 'l venir suo a te ha impedito.

        L'amor, che avea a te, in lei è morto;
        e ad un fauno vile, rozzo e negro
        l'han data per amante e per conforto:

        colui del suo bel viso ora sta allegro.
  110 E perché queste cose, c'ho racconte,
        le sappi appieno e tutto il fatto intègro,

        quand'ella a te venía quassú nel monte,
        perché piacesse a te piú la sua vista,
        di rose s'adornò il capo e il fronte.

  115 Cupido allor d'una saetta trista
        ed impiombata dentro al cor gli diede,
        colla qual fa ch'all'amor si resista:

        questa ogni amor gli tolse ed ogni fede
        a te promessa. E poi con l'altro astile,
  120 il quale è d'òr, da cui amor procede,

        sí come l'ésca el foco del focile,
        cosí accese lei; e poi mostrògli
        un fauno bovin, cornuto e vile.

        Però ti prego che seguir non vogli
  125 questo Cupido e che non vogli ire
        piú tra le selve e tra li duri scogli.

        Se al regno di Minerva vuo' venire,
        lassú l'animo tuo sará contento,
        lassú trova la voglia ogni desire.—

  130 Poscia sparí; e 'l sonno mio fu spento,
        e giú di terra mi levai sú erto,
        ché 'l letto mio fu 'l duro pavimento.

        E per voler di questo esser ben certo,
        sí come il bracco va cercando a caccia,
  135 cosí cercando andava io quel diserto;
p. 89
        e trovai Ionia stare intra le braccia
        del fauno duro ed abbracciargli il seno.
        Ond'io con grande voce e gran minaccia

        corsi ver' lor, di furia e d'ira pieno;
  140 ond'elli, spaventati, fuggîr presti.
        Ma, perché Ionia potea correr meno,

        rimase addietro; ond'io:—Ché non t'arresti?
        perché fuggi cosí, o mala putta?
        Son queste tue parole ed atti onesti?

  145 Tu m'hai fatto aspettar la notte tutta
        ed hai lasciato me sol per restarte
        con un mostro cornuto e fèra brutta.—

        E, perché del fuggir le ninfe han l'arte
        e son veloci, sen fuggí sí ratto,
  150 che non la giunsi mai in nulla parte.

        Allor meco pensai ch'io era matto
        seguitar piú Cupido, ch'è fallace
        nelle promesse ed infedel nel fatto.

        Con voce irata ed animo audace
  155 queste parole contra Amor profersi,
        volendo seco guerra e mai piú pace,

sí come si contiene in questi versi.

p. 90

CAPITOLO XVIII

Dove si tratta del reggimento della casa de' Trinci e della cittá di Foligno.

        —O vano e rio e traditor Cupido,
        nelle promesse iniquo ed infedele,
        morto sia io, se piú di te mi fido!

        Che tu non se' piatoso, ma crudele,
    5 e come falso il tosco amaro ascondi
        nella dolcezza d'un poco di mèle.

        Perché, o falso e rio, non ti confondi
        aver tradito me, che li miei passi
        seguíto han dietro a' tuoi sempre secondi?

   10 e tra li scogli e tra li duri sassi
        condotto m'hai, con tue promesse ladre,
        tra lochi montuosi e lochi bassi?

        Non è venusta dea tua falsa madre;
        anche è pellice obbrobriosa e sozza,
   15 nemica a tutte l'opere liggiadre.

        Io prego che la lingua gli sia mozza
        a chi ti chiama e chiamerá mai dio;
        ché chiunque il dice, mente per la strozza.—

        Quando queste invettive dicea io,
   20 una dea venne innante a mia presenza,
        saggia ed onesta, coll'aspetto pio.

        «Io son nel ciel la quarta intelligenza—
        avea nel manto e nella fronte scritto:—
        Minerva manda me, dea di scienza».

   25 E bench'io avessi el cuor cotanto afflitto,
        quand'io la vidi presso me venire,
        m'inginocchiai, ché prima stava io ritto.
p. 91
        Benignamente a me cominciò a dire:
        —Dimmi, per qual cagion tu ti lamenti?
   30 Chi t'ha condotto in sí fatto martíre?—

        Ed io a lei:—Li falsi tradimenti
        del rio Cupido lamentar mi fanno:
        egli m'ha indutto in cotanti tormenti.

        E se saper tu vuoi il mio affanno,
   35 ed egli ed una ninfa m'han tradito,
        usando meco falsitá ed inganno.

        S'io fossi con Minerva insú salito
        nel regno suo, ella mi promettea
        il ben, il qual contenta ogni appetito.

   40 Ed io lassai l'andar con quella dea
        per l'amor di Cupido, e tornai vòlto
        nella ruina d'esta selva rea.—

        Rispose quella con benigno volto:
        —Minerva a te mi manda ed anco Ilbina,
   45 ch'io ti tragga del cammino stolto.

        Degno è chi dietro al folle Amor cammina
        e chi nel suo voler fonda sua voglia,
        che cada in precipizio ed in ruina.

        Tu stesso se' cagion della tua doglia,
   50 da che sapei che donna ha per usanza
        ch'ella si volta e move come foglia.

        Ahi, quanto è stolto chi pone speranza
        in cosa vana! ché, quando si fida,
        quand'ella manca, ancor egli ha mancanza.

   55 Non sai che 'l folle Amor sempre si guida
        dietro a Concupiscenzia, e di lei è figlio
        quei che coll'arco l'amador disfida?

        E questo, se non ha el mio consiglio,
        convien che erri e come cieco vada
   60 smarrito per le selve in gran periglio.

        Ma, se tu vuoi tornar in tua contrada,
        séguita me, ed io sarò tua scorta;
        e riporrotti nella dritta strada.—
p. 92
        Da quella selva tanto errante e storta
   65 mi pose nella via, la qual conduce
        dov'è della virtú la prima porta.

        Ivi parlommi e disse la mia luce:
        —Per questa via ritroverai Topino,
        che ad onta il trapassò il grande duce.

   70 E dietro al tuo signor movi il cammino
        (per U e go, e per quel nominollo,
        ch'a Pier fu nel papato piú vicino).

        A lui e a' suoi passati il grande Apollo
        diede per segno due mezzi destrieri
   75 con redini vermiglie intorno al collo,

        in campo bianco, a teste vòlte, e neri;
        ed a' suoi descendenti il fiero Marte
        per gran virtú promesso ha fargli interi.

        Come si trova nell'antiche carte,
   80 di Tros di Troia un suo nepote scese,
        detto anche Tros e venne in quella parte

        ad abitare in quel nobil paese,
        ove il Topino e la Timia corre:
        tanto l'amor di quel bel loco il prese.

   85 E Troia dal suo nome fece porre,
        chiamato or Trieve, ché antico idioma
        si rinovella e mutando trascorre,

        tanto che Persia Perugia si noma,
        e Spello in prima fu chiamato Specchio:
   90 cosí un vocabol su nell'altro toma.

        E questo Tros poi in quel tempo vecchio,
        Flamminea pose al nome della stella,
        che a battaglie influir non ha parecchio.

        Flamminea chiamò la cittá bella,
   95 ché «flammeo» è chiamato Marte fèro:
        cosí l'astrologia ancor l'appella;

        ché Marte avea promesso far intero
        il segno de' cavalli in campo bianco:
        però cosí nomarla ebbe pensiero.
p. 93
  100 La cittá il nome e 'l loco mutò anco;
        e fo Flamminea Foligno nomata,
        perché l'antichitá sempre vien manco.

        Ed in quel loco anch'è la strada lata,
        la via Flamminea ed or detta Fiammegna:
  105 cosí da' patriotti ora è chiamata.

        Da questo Tros vien la progenie degna
        de' troian Trinci, ed indi è casa Trincia,
        che anco ivi dimora ed ivi regna.

        E costui anco tutta la provincia
  110 Asia cosí chiamò dall'Asia grande,
        com'uom che nuovo regno a far comincia.

        E, se certezza di questo domande,
        quivi è 'l monte Soprasia cosí detto,
        che sopra a quella patria piú si spande.

  115 Da questo scese il prence, a cui subbietto
        amor t'ha fatto e l'influenzia mia,
        quando prima spirò nel tuo intelletto.

        Come andò Paulo alla man d'Anania,
        al magnanimo torna, che detto aggio,
  120 ove mai porte serra cortesia.—

        Andai al mio signor cortese e saggio;
        e come alcun domanda ond'altri vène,
        cosí mi domandò del mio viaggio.

        Risposi a lui:—Seguíto ho vana spene
  125 del rio Cupido, ed egli mi condosse
        tra selve e boschi con acerbe pene.

        Ivi saría smarrito, se non fosse
        che una donna venne a me davanti,
        ed ella a te tornar anco mi mosse.—

  130 E poscia che gl'inganni tutti quanti
        gli dissi di Cupido, e come foi
        con lui tra' boschi per diversi canti,

        di dea Minerva gli ragionai poi
        e come m'invitò e fui richiesto
  135 ch'andassi seco alli reami suoi,
p. 94
        e che Cupido, quando vide questo,
        egli e la madre sua mi fecer segno,
        tal ch'io tornai al bosco sí molesto.

        Rispose a questo quel signor benegno:
  140 —Come l'animo tuo tanto sofferse
        non seguitar Minerva all'alto regno,

        da che ella t'invitò e ti proferse
        il carro suo eccellente e di splendore,
        e d'essere tua guida anco s'offerse?

  145 Non sai che ogni senno e buon valore
        vien dal suo regno e che da lei procede
        ciò che per probitá s'acquista onore?

        Prego, se mai a me avesti fede,
        che questo regno tu vadi cercando;
  150 ché poi io vi verrò, s'ella il concede.—

        Che risponder dovea a tal domando
        se non:—Farò, signor, ciò che m'hai imposto,
        ché ogni priego tuo a me è comando?—

        E, perch'egli ad andarvi era disposto,
  155 questo, a cercar di quel regno felice,
        mi diede piú fervor ad andar tosto,

nel tempo che 'l seguente libro dice.

LIBRO SECONDO

DEL REGNO DI SATANASSO

p. 97

CAPITOLO I

Come la dea Pallade appare all'autore e gli descrive la sedia e signoria di Satanasso.

        Febo la notte addovagliava al giorno
        ed era in compagnia col dolce segno,
        che prima fa di fiori il mondo adorno,

        quando a cercar mi misi il nobil regno
    5 di dea Palla Minerva, per comando
        d'un mio signor magnanimo e benegno.

        E come alcun che parla seco, quando
        va pel cammin soletto, faceva io,
        e questo dicea meco ragionando:

   10 —O alto re, monarca, o sommo Dio,
        non vedi tu che 'l mondo va sí male
        e quanto egli è perverso e fatto rio?

        Non vedi il vizio che la virtú assale?
        E da che questo da te si comporta,
   15 o tu nol vedi o dell'uom non ti cale.

        Giá l'avarizia ha ogni pietá morta
        ed ogni parentela ed ogni fede:
        il vizio alla virtú serra ogni porta.

        Non vedi che superbia sotto il piede
   20 tien la giustizia e con orgoglio e pompe
        s'è posta armata su nella sua sede?

        Non vedi tu che la lussuria rompe
        le leggi di natura e che 'l corrotto
        quel di novella etá poscia corrompe?
p. 98
   25 Signor e Dio, se Abraam o Lotto
        in Sodoma e Gomorra tu non trovi,
        cioè nel mondo a tanto mal condotto,

        perché tu 'l foco e 'l zolfo giú non piovi?
        e se tu odi tante a te biasteme,
   30 perché a fulminar Vulcan non movi?

        perché tu non disfai il crudel seme,
        peggior che Licaon e che i giganti,
        se non che lor fortezze son piú sceme?—

        Minerva in questo venne a me davanti,
   35 e non la conoscea che fosse quella;
        ed una dea pareva alli sembianti.

        Come che saggia e vergine donzella,
        d'oliva e d'òr portava due corone,
        talché mai 'mperator l'ebbe sí bella.

   40 Scolpito avea l'orribile Gorgone
        nel bello scudo, ch'ella ha cristallino,
        il quale porta e contro i mostri oppone.

        Quando a lei fui e reverente e chino,
        ella mi disse:—Dove andar intende
   45 l'animo tuo per questo aspro cammino?—

        Risposi a lei:—Tra belli monti scende
        Topino in Umbria, ed in quel bel paese,
        sinché al Tevere l'acqua e il nome rende,

        regna un signor magnanimo e cortese:
   50 egli mi manda a cercar un reame,
        al qual Minerva m'invitò e richiese.

        Ma, perché allor Cupido di tre dame
        colle saette sue m'avea invaghito,
        con quali e' fa che fortemente s'ame,

   55 non accettai da quella dea l'invito,
        ma dietro al folle amor con molti affanni,
        sí come cieco, andato son smarrito.

        Or ch'io mi so' avveduto de' suo' inganni
        e che ogni cosa si può dir niente,
   60 la qual vien men per correre degli anni,
p. 99
        che non andai con Palla il cor si pente;
        e 'l detto mio signore anco sen duole,
        ch'io non fu' al suo comando ubbidiente.

        Però mi ha detto in espresse parole
   65 ch'io cerchi infin che truovi ov'ella regna,
        ch'egli al suo regno poi venir vi vuole.

        Però ti prego, donzella benegna,
        o tu m'insegna il loco, ove la trovi,
        o di guidarmi infino a lei ti degna.

   70 E s'al mio basso prego non ti movi,
        mòvati quel signor, il qual mi manda,
        e li congiunti suoi antichi e nuovi.—

        Minerva, poiché 'ntese mia dimanda,
        sorrise alquanto e fece lieta cèra,
   75 mostrando faccia dilettosa e blanda.

        Rispose poi:—Virtú e fede vera
        del prince, che tu dici, e suoi passati,
        e che ne' figli e nepoti si spera,

        lui e suo' amici a me fatt'han sí grati,
   80 ch'io son venuta a te, e son colei
        che t'invitai a' mie' regni beati.—

        Allora la conobber gli occhi miei,
        ond'io m'inginocchiai e mia persona
        prostrai in terra innanti alli suoi pièi,

   85 dicendo:—O dea Minerva, a me perdona,
        s'io te lassai e seguitai Cupido
        per la via ria e abbandonai la buona.

        E quella fiamma, che fe' errar giá Dido,
        Ercole e Febo, innanzi a te mi scuse
   90 e 'l pentimento, pel qual piango e grido.—

        Allor porse la mano e sí la puse
        benignamente in su la mia man destra
        e poscia in questo modo mi rispuse:

        —Da che Cupido e la sua via alpestra
   95 non vuoi piú seguitar, io acconsento
        menarti meco ed esser tua maestra.
p. 100
        Ma dimmi prima se tu se' contento
        combatter contra i mostri ed esser forte,
        che nel viaggio dánno impedimento.—

  100 Risposi:—O sacra dea, piú mi conforte
        che Adriana Teseo, quando il fe' saggio
        scampar del laberinto e della morte.

        Pensa se del venir gran voglia io aggio,
        quando cosí soletto mi son mosso
  105 a cercar te per questo aspro viaggio.

        Tu sai la mia virtú e quant'io posso;
        e, s'ella è poca, io spero aver ardire,
        se io mi guiderò dietro il tuo dosso.

        Ma prego, o sacra dea, mi vogli dire
  110 qual è 'l cammino e prego che mi mostri
        chi sta in quel viaggio ad impedire.

        —Il primo e principal di tutti i mostri
        —rispose—è Satanasso ed ha 'l governo
        del mortal mondo e delli regni vostri.

  115 Giá piú tempo è ch'egli uscí for d'inferno,
        e prese questo mondo a gran furore
        e ciò che muta tempo, o state o verno.

        Nel primo clima sta come signore
        colli giganti, ed un delle sue braccia
  120 piú che nullo di loro è assai maggiore

        Tu vederai il suo busto e la sua faccia,
        e gloriarsi e dir che 'l mondo vince,
        e giá la sua superbia al ciel menaccia.

        E con lo scettro in mano il mondan prince
  125 in mezzo il mondo siede triunfante,
        come signore e re delle province.

        E sua cittá ha fatta somigliante
        al vero inferno e li vizi egli tiene,
        la morte e le miserie tutte quante.

  130 E perché questo tu lo sappi bene,
        convien che tu discendi in quel profondo,
        onde ciò che si parte, alla 'nsú vene.
p. 101
        Visto lo primo cerchio e poi il secondo,
        l'anime afflitte e gli altri cerchi ancora,
  135 ritornerem tu e io quassú nel mondo.

        Il regno di Satán cercherai allora
        e la sua gran cittá e l'alto seggio
        anche vedrai e chi con lui dimora.

        Or, perché 'l mondo va di male in peggio,
  140 se ben pensi chi 'l guida, da te stesso
        chiaro il vedrai sí com'io chiaro il veggio.

        Tu ragionavi, a me venendo adesso,
        ond'è che 'l mondo è sí di vizi pieno
        e perché tanto mal da Dio è permesso.

  145 Or sappi ben che Dio ha dato il freno
        a voi di voi; e se non fosse questo,
        libero arbitrio in voi sarebbe meno.

        E voglio ancor che ti sia manifesto
        che vostra carne, le piú volte, volta
  150 vostra ragion dal segno d'atto onesto.

        E perché al vizio è prona gente molta,
        Satáno vince; e questa è la sementa
        e la zizania sua mala ricolta.

        Vince anco le piú volte quando tenta,
  155 ché 'n mille modi torcer vostra nave
        puote dal porto ritto, ove si avventa;

        ché correre a vertú sempre par grave
        a vostra carne, la qual sempre incíta
        a quel che par al senso piú soave.

  160 Facciamo omai di qui nostra partita:
        il tempo è breve, ed è distante il loco,
        ov'è d'andar al ciel prima salita.

        —Minerva mia, te primamente invoco,
        e poi le muse, che dell'acqua chiara
  165 del fonte pegaseo mi diate un poco.—

        Cosí risposi e poi:—Or mi dichiara
        di questo che mi dá gran maraviglia:
        tu sai che domandando l'uomo impara.
p. 102
        Quando fu che Satán e sua famiglia
  170 lasciò di sé e de' suoi l'inferno vòto
        e venne su, ove si more e figlia?

Vorrei saper ancor, ché non mi è noto, s'egli è signor di tutti quegli effetti, che influisce il cielo ovver suo moto.—

175 Allora mi rispose in questi detti.

p. 103

CAPITOLO II

Come l'autore narra a Minerva che e' si confida vincere Satanasso e suoi vizi.

        —Vergine saggia e bella il cielo adorna,
        di cui Virgilio poetando scrisse:
        «Nova progenie in terra dal ciel torna».

        Resse giá 'l mondo, e sí la gente visse
    5 sotto lei in pace, che l'etá dell'oro
        el secol giusto e beato si disse.

        La terra allora senza alcun lavoro
        dava li frutti e non facea mai spine;
        né anco al giogo si domava il toro.

   10 Non erano divisi per confine
        ancor li campi, e nullo per guadagno
        cercava le contrade pellegrine.

        Ognuno era fratello, ognun compagno;
        ed era tant'amor, tanta pietade,
   15 ch'a una fonte bevea il lupo e l'agno.

        Non eran lance, non erano spade;
        non era ancor la pecunia peggiore
        che 'l guerreggiante ferro piú fiade.

        La Invidia, vedendo tanto amore,
   20 di questo bene a sé generò pene,
        e d'esto gaudio a sé diede dolore:

        con quella doglia che a lei si convene,
        andò in inferno, ed alli vizi dice
        quanta pace avea il mondo e quanto bene.

   25 E l'Avarizia, d'ogni mal radice,
        seco ne trasse e menolla su in terra
        per conturbar quello stato felice.
p. 104
        Vennon con lei la Crudeltá e la Guerra,
        l'Inganno e Froda e la Malizia tanta,
   30 che ha guasto 'l mondo e fa che cotanto erra.

        Presa ch'ebbe la terra tutta quanta,
        non gli bastò, e 'l mar ebbe assalito
        la rea radice d'ogni mala pianta.

        Quando Nettuno vide l'uomo ardito
   35 cercar il mare e non temer tempesta
        e di solcarlo e gir per ogni lito,

        trasse di fuor del mar la bianca testa
        e 'l suo tridente, ed ebbe gran pavento,
        dicendo:—Oimè! Che novitá è questa?

   40 Come ha trovato l'uom tanto argomento,
        che passa il mar e non teme dell'onde,
        e va e vien a vela ad ogni vento?—

        Come cosa nociva si nasconde
        che non si trove, però che si teme
   45 che, se si trova, gran mal ne seconde;

        cosí Natura de' denari il seme
        pose e nascose nel regno di Pluto,
        perché la gente non turbasse insieme.

        Ma l'amor dell'aver tanto cresciuto
   50 sfondò la terra e 'l gran Pluto infernale
        robbò, gridante lui, chiamando aiuto.

        Questo fu poi cagion di maggior male,
        ché ruppe amor e legge ed ogni patto,
        e fe' il figliolo al padre disleale.

   55 Vedendo Astrea il mondo esser disfatto
        e 'l viver santo, e guasto il giusto regno
        dal mostro reo, che fu d'inferno tratto,

        lassò la terra prava a grande sdegno,
        sí come indegna della sua presenza,
   60 e tornò al ciel, ov'ella è fatta segno.

        Allor li vizi senza resistenza
        uscîro di comun da Mongibello
        col loro ardire e con la lor potenza.
p. 105
        E come quei che han preso alcun castello,
   65 gridan:—Brigata, sú! il castello è nostro!—
        per veder se si leva alcun ribello;

        cosí, usciti dall'infernal chiostro,
        Satan e i suoi questo mondo pigliâro:
        allor d'inferno uscí il primo mostro.

   70 E sua superba sede collocâro
        in mezzo il mondo, dov'è il primo clima,
        onde l'un polo e l'altro vede chiaro.

        Lá sta la via che al regno mio sublima,
        su per la qual nessun può mai venire,
   75 se colui non combatte e vince in prima.

        Lí stanno i vizi sol per impedire
        che verso il cielo alcun insú non saglia
        con grandi orgogli ed onte e con ardire.

        Chi come Circe la mente gli abbaglia,
   80 chi canta dolce piú che la sirena,
        e chi menaccia e chi dá gran battaglia.

        Di mille se un passa e anco appena,
        viene in contrada di splendor sereno,
        di belli fiori e dolci canti piena.

   85 Ed in quel pian sí chiaro e tanto ameno
        stanno quei ch'ebbon fama di virtute,
        benché battesmo e fede avesson meno:

        ché non vuol l'alto Dio che sien perdute
        le prodezze in inferno, e senza fede
   90 vuol che null'abbia l'eternal salute.

        Chi, oltre andando, piú suso procede,
        trova nel gran giardin quattro donzelle:
        oh beato chi l'ode e chi le vede!

        Tre altre piú divine e vieppiú belle
   95 ne stan piú su, e con queste sto io,
        accompagnata da quelle sorelle.

        Ed in quel loco bel vagheggio Dio,
        e veggio il primo artista nel suo esemplo
        tra le bellezze del suo lavorio.
p. 106
  100 Poi vo piú alto ed entro nel gran templo
        del sommo Iove, e con la mente mia
        a faccia a faccia il Creator contemplo.

        Anche domandi quanta signoria
        ha Satanasso; ed, a ciò dichiararte,
  105 convien con fondamento sappi in pria

        che Dio è primo prince in ogni parte
        sempre e di tutto, ed a' primi motori
        la sua virtú comunica e comparte.

        E questi dopo lui sonno signori
  110 di tutte quelle cose, che 'l ciel move,
        perché de' cieli son governatori.

        Adunque ciò che da influenzia piove,
        o che fa 'l tempo, cioè state o verno,
        ovver natura delle cose nòve,

  115 tutto procede dal moto superno;
        e la virtú vien da' motor primai,
        a cui de' cieli Dio dato ha 'l governo.

        Piú che gli altri motor Satán assai
        ha di potenza, e da lui esser mossa
  120 puote ogni spera ed influir suoi rai.

        E se ogni cosa natural è scossa
        dai ciel, che viene in terra, or puoi sapere
        quant'ella è grande e ampia la sua possa.

        E, poiché colpa gli fe' l'ali nere,
  125 Dio spesse volte l'operar gli toglie,
        sí come in Iobbe si poteo vedere.

        Vero è che a certe cose egli lo scioglie,
        ché vuol che sia signor sopra la gente
        che segue la sua legge e le sue voglie.

  130 E tu lo proverai s'egli è possente
        coi vizi suoi ed anco s'egli stanca
        la carne vostra, quando a lui consente.

        Ma non temere e l'animo rinfranca;
        reduci i grandi esempli alla memoria,
  135 ché fortezza incorona, se non manca.
p. 107
        Nella battaglia s'acquista vittoria.
        Nessun mai per fuggir o per riposo
        venne in altezza, fama ovver in gloria.

        E, se il cammino è duro o faticoso,
  140 pensa del fine e pensa qual sia il frutto
        fra te medesmo saggio e virtuoso.—

        Allor allor alla briga condutto
        stato essere vorria: tanta speranza
        mi die' il suo dir e rinfrancòme tutto.

  145 E però dissi con grande baldanza:
        —Andiam, ché nullo mostro pel sentiero
        di potermi impedire avrá possanza.

        —Non ti fidar di te, né sie altèro
        —rispose,—ché colui è piú da lunge,
  150 che stima esser piú appresso nel pensiero.

        Nessun giammai a buon termine giunge,
        se del gir poco o del tornar addietro
        non fa a sé gli spron, con che si punge.

        Perché di sé presunse il gran san Pietro,
  155 cadde, da vento piccolo commosso,
        non come ferma pietra, ma di vetro.—

        Quando udii questo, di vergogna rosso
        sí diventai, che dissi per scusarme:
        —Minerva, senza te niente posso.

  160 Perché spero da te la possa e l'arme
        —diss'io,—credo cosí esser difeso,
        se dietro a te ti degni di guidarme.—

Allor si mosse, quando m'ebbe inteso.

p. 108

CAPITOLO III

Come l'autore mediante la dea Minerva ritornò dell'inferno, dove era disceso.

        Denanti a me andava la mia guida,
        e poi io dietro per una via stretta,
        seguendo lei come mia scorta fida.

        Andando come alcun che non sospetta,
    5 subitamente un gran tuon mi percosse,
        sí come Iove il fa, quando saetta.

        E questo il sentimento mi rimosse,
        tanto ch'io caddi quand'egli mi colse,
        sí come un corpo che senz'alma fosse.

   10 Dal punto che li sensi il tuon mi tolse,
        insin che 'n me tornai, una gross'ora,
        al mio parer, di tempo il ciel rivolse;

        ché, quando io caddi, veniva l'aurora,
        e giá toccava l'orizzonte il sole;
   15 e poscia il vidi un mezzo segno fuora.

        Su mi levai senza far piú parole,
        cogli occhi intorno stupido mirando,
        sí come l'epilentico far suole.

        Dicea fra me:—Oh Dio! or come e quando
   20 son qui venuto?—e stava pauroso.
        Dov'è Minerva, ch'andai seguitando?

        Sotto qual parte del ciel io mi poso?
        Sto sotto il Cancro, o sto io sotto l'Orse
        con quelli che han sei mesi il sol nascoso?—

   25 Cosí, mirando intorno, alfin m'accorse
        che mi guardava e stava a destra banda
        la saggia donna, che la via mi scorse.
p. 109
        A me parlando senza mia domanda,
        mostrò due vie, e disse:—D'este due
   30 prendi qual vuoi, ed a tuo piacer anda.

        Questa, ch'è arta e che mena alla 'nsúe,
        è nel principio molto aspera e forte,
        ma poi nel fine ha le dolcezze sue.

        Quest'altra, che tu ve', che ha sette porte
   35 e che è lata e mena giuso al basso,
        è dolce in prima e poi mena alla morte.—

        Oh semplicetto me, ignorante e lasso!
        Presi la via, che all'ingiú conduce,
        perché piú lieve mi parea al passo.

   40 E nell'entrata è ver che quivi è luce;
        ma, perch'è scura quanto piú giú mena,
        andai poi come un cieco senza duce.

        Cosí, privato di luce serena,
        io giunsi in poco tempo insino al centro,
   45 onde nullo esce senza forza e pena.

        Quando mi vidi condutto lí entro,
        dicea tra me:—Come son qui venuto
        in questo fondo, ove io cosí m'inventro?

        —Non cercar ora come se' caduto
   50 —disse Minerva dalla lungi alquanto,—
        ma pensa uscirne e che a ciò abbi aiuto;

        ché 'ngiú andando sei disceso tanto,
        che piú che 'n testo loco non si scende,
        e chi n'uscisse sal da ogni canto.

   55 —Io prego, o dea, il braccio a me distende
        —diss'io,—ché uscirne m'affatico invano,
        se tu con la tua destra non m'apprende.—

        Allor dea Palla stese a me la mano
        e di quel fondo, dove io m'era messo,
   60 mi trasse su, tirandomi pian piano.

        Quand'io fui ito un miglio su da cesso
        dal loco, che Satán lassato ha vòto,
        trovai Cocito e 'l laco suo da presso.
p. 110
        E, perché questo laco è piú remoto
   65 da ogni caldo di sole e di foco,
        piú fredda cosa non ha 'l mondo toto.

        E tutto il freddo e ghiaccio, ch'è 'n quel loco,
        ove la tramontana fa 'l zenitte,
        rispetto a quello par niente o poco.

   70 De' traditori l'anime confitte
        vid'io nel ghiaccio, che Iuda e Caino
        seguiron giá con fatti e parol fitte.

        E, perché in poco tempo gran cammino
        avea a far, di lí la dea mi trasse
   75 inverso a un monte, a quel laco vicino.

        Per una grotta volle ch'io andasse
        dentro fra 'l monte, e sette miglia suso
        per la via oscura e con le gambe lasse.

        Quant'io vedrei con ciascun occhio chiuso,
   80 tanto vedea lí con l'occhio aperto,
        insin che uscimmo fuor per un pertuso.

        Quand'io fui giunto su nel monte ad erto,
        l'anime vidi di chi Dio biastema,
        in un gran piano di fumo coperto.

   85 Ancor, pensando, al cor me ne vien téma,
        ché io vedea a tutti arder la bocca,
        e tutti quanti avean la lingua scema.

        E come spesso la grandine fiocca,
        sí caggion sopra lor saette accese,
   90 e non invan, ch'ognuna ad alcun tocca.

        Satáno trasse fuor d'esto paese,
        sí come Palla disse, i gran giganti,
        quando co' vizi suoi il mondo prese.

        Vero è che lí ne stanno ancora alquanti
   95 distesi in terra e con caten legati,
        sí che non son nel mondo tutti quanti.

        Io vidi lor quando son fulminati,
        che biastimavan la virtú eterna,
        superbi, altèri e con li volti irati.
p. 111
  100 Poi ne partimmo e per una caverna
        intrammo un monte, e tanto la dea salse,
        che fummo insú la terza valle inferna.

        Chiunque con fatti e con parole false
        inganna altrui con doli ovver con frode,
  105 quivi ha lo scotto con amare salse;

        ché strascinati son dietro alle code
        in forma di cavalli da' dimòni,
        e chiunque corre piú, quello è piú prode.

        E sopra quelli stan cogli speroni
  110 altri dimòni, e tra le pietre dure
        strascinan l'alme supine e bocconi.

        E quivi del mal peso e di misure
        si fa vendetta e d'ogn'infedel arte,
        de' giochi, d'arcarie e di man fure.

  115 La dea mi disse:—Andiamo in altra parte,
        ché 'n poco tempo al cerchio d'Acheronte
        di piaggia in piaggia a me convien menarte.—

        Allor intrammo per un alto monte,
        sempre montando, ed al sommo salito
  120 vidi gran valle, quando alzai la fronte.

        Il vizio contro natura è punito
        acerbamente in quella valle piana;
        lí sta in tormento ciascun sodomito.

        Questi omicidi della spezie umana
  125 l'amor, che figlia e fa congiunti insieme,
        spreggiano e gittan come cosa vana.

        Sopra esti destruttor dell'uman seme
        il foco e 'l zolfo puzzolente piove,
        e dentro al fuso rame ancor si geme.

  130 Salimmo poi nel quinto cerchio, dove
        li sette vizi avevan giá le case,
        anzi che gisson dell'inferno altrove.

        Ell'eran grandi e vacue rimase,
        sí come a Roma sono le ruine
  135 delle anticaglie con le mura pase:
p. 112
        sordide tutte e piene di fuline,
        deserte dentro e con le mura rotte,
        piene di rovi, d'ortiche e di spine.

        La dea a me:—Lá dentro in quelle grotte
  140 stava Cerbero giá rabbioso cane
        con tre bocche latranti aperte e ghiotte.—

        Per una intrammo di quelle gran tane,
        sinché le male bolge ebbi salite:
        alfine uscimmo in contrade lontane,

  145 ove trovammo la cittá di Dite
        con le mura di foco intorno intorno,
        con le torri alte e con le case igníte.

        Ogni casa parea ardente forno.
        Vedea i demòni colle acerbe viste,
  150 che lí per manegoldi fan soggiorno.

        Io vidi tormentar l'anime triste;
        e secondo le colpe, che han commesse,
        cosí conven che lí doglia s'acquiste.

        Io vidi molte per mezzo esser fesse
  155 con dure seghe, ed alcune co' denti
        mordevan sé, lacerando se stesse.

        E questo è 'l duol che piú gli fa dolenti,
        il verme della stizza, e maggior gridi
        fa trarre a lor che tutti altri tormenti.

  160 Vidi i rattori e vidi gli omicidi
        tagliare a pezzi e le lor membra crude
        rifar, e poi tagliarle ancor gli vidi.

        Io farò come quel che 'l dir conchiude.
        Sappi, lettor, che 'l Iudice del tutto,
  165 che vede il core, il vizio e la virtude,

        non vuol mai che 'l ben far non abbia frutto
        d'onore e di letizia, e non vuol mai
        che 'l male alfin non partorisca lutto

con piena e con tormento di gran guai.

p. 113

CAPITOLO IV

Dove trattasi del limbo e del peccato originale.

        Uscito er'io della cittá del foco
        dietro a mia scorta, ch'andai seguitando;
        e, poi che insú andato fui un poco,

        la domandai e dissi:—Dimmi quando
    5 noi perverremo ove Satán dimora,
        che dica questo inferno al suo comando.—

        Ed ella a me:—Insú andando ancora,
        convien che noi passiam duo altri cerchi,
        'nanzi che d'esto inferno usciamo fòra.

   10 Il limbo è 'l primo che convien che cerchi;
        un altro poi convien che ne trapassi,
        'nanzi che su nel mondo tu soverchi.—

        Ben sette miglia insú movemmo i passi,
        e trovammo una porta, ov'era scritto
   15 nell'arco suo, ch'avea di smorti sassi:

        «In questo limbo, ovvero in questo Egitto,
        è pena privativa e sol di danno,
        e nullo senso in questo loco è afflitto.

        Dentro è la gran prigion di quel tiranno,
   20 che tenne giá gli amici da Dio eletti
        e vinse Adamo a tradimento e inganno».

        Per legger questi detti io mi ristetti
        presso alla porta lí, ch'era serrata;
        e, poich'io gli ebbi intesi e tutti letti,

   25 Minerva con la man chiese l'entrata.
        Non so chi fusse il portinar cortese,
        che ratto aprio e diedene l'andata.
p. 114
        Quand'io fui dentro, vidi un bel paese,
        di fiori e d'arboscelli e d'erbe adorno,
   30 sí come Tauro fa nel suo bel mese.

        Ma qual è luce al cominciar del giorno,
        tal era quivi; e per mezzo la valle
        eran fantini ed anche intorno intorno,

        che su per le viol vermiglie e gialle
   35 givano a spasso, e alcuni dietro ai grilli,
        dietro agli uccelli e dietro alle farfalle.

        Ed una schiera, ch'eran piú di milli,
        vedendo noi, insieme si ristâro
        ed ammirârno timidi e tranquilli.

   40 —O fanciulletti, a cui ritorna amaro
        il peccato d'Adamo, ed a cui costa
        il non aver baptismo tanto caro,

        al mio domando fatemi risposta:
        perché iustizia per altrui offesa
   45 vostra innocenzia in questo loco ha posta?—

        Quando questa parola ebbono intesa,
        suspiron tutti con dolor, che viene
        di mezzo il cor, che gran doglia appalesa.

        Poi un di loro a me:—Se noti bene,
   50 io ti dichiarerò, sí come estimo,
        perché giustizia qui chiusi ne tiene.

        Quando Dio fece il nostro padre primo,
        gl'impeti rei ovver concupiscenza
        non volle fusse in suo corporal limo.

   55 E questo grande dono ed eccellenza
        ebbe per grazia e non giá per natura,
        e sol tenendo a Dio obbedienza.

        E cosí l'alma sua splendente e pura
        Egli creò e di iustizia santa,
   60 formata alla sua immago e sua figura;

        ma di questa eccellenza e grazia tanta,
        il Creator iustamente privollo,
        quando la vile e testé nata pianta
p. 115
        incontra al suo Fattor alzò lo collo,
   65 ed a subgestion del mal serpente
        volle saper quanto sa il primo Apollo.

        E, perché non fu a Dio obbediente,
        a lui la carne diventò rubella
        contra lo spirto e legge della mente.

   70 Benché sia l'alma da sé pura e bella,
        niente meno quand'ella il corpo avviva,
        per due cagion diventa brutta e fella.

        Prima è che nasce di iustizia priva;
        l'altra è che quand'ell'è al corpo unita,
   75 nella bruttezza sua si fa cattiva;

        ché vorrebbe ire al bene ed è impedita
        dal corpo, collo qual ella sta insieme,
        ed al mal far la tira ed anche invita.

        Questa bruttura va di seme in seme
   80 in tutti quelli che nascon d'Adamo,
        ch'ogni uman corpo da quel primo geme.

        Per questo infetti in questo loco stiamo
        dannati pel peccato originale,
        ché 'l mal della radice è in ogni ramo.

   85 Oh lassi noi, ché l'acqua baptismale,
        per la qual l'uomo a Dio figliol rinasce,
        sanati arebbe noi da questo male!

        Se non che noi dal ventre e dalle fasce
        di nostre mamme la morte ne tolse
   90 e menonne quaggiú tra queste ambasce.—

        Ciascun di loro al ciel la faccia volse,
        al suon d'este parol, con sí gran pianti,
        che facean pianger me: sí me ne dolse.

        Addomandato arei di loro alquanti
   95 di quai parenti stati eran figlioli,
        se non che ratto mi sparîr dinanti.

        Parecchie miglia poi andammo soli,
        sinché trovammo grandissima rupe,
        alta vieppiú che nullo uccello voli,
p. 116
  100 ch'avea le sue caverne oscure e cupe,
        sí come quando è sí buia la notte,
        che par che gli occhi riguardando occúpe.

        Trovammo lí sette gran porte rotte,
        tutte di rame, e di ferro il verchione,
  105 le qua' serravan giá quelle gran grotte.

        Palla mi disse:—Qui 'n questa pregione
        il drago Satanasso giá ritenne
        l'anime circumcise, elette e buone,

        sinché 'l Figliol di Dio su dal ciel venne
  110 e per la colpa delli suoi amici
        pagò il bando e la morte sostenne.

        Allor ardito e con splendor felici
        venne quaggiú vittorioso e forte
        contra Satán e gli altri suoi nemici,

  115 e disse a lor:—Levate via le porte:
        traete fuor la mia turba fedele,
        che menar voglio alla celeste corte.—

        Allor Satán, omicida crudele,
        a lui s'oppose e cominciò la guerra,
  120 come giá fece contra san Michele.

        Puse le rene lá dove se serra;
        ma Cristo lui e 'l catarcion d'acciaio
        e queste porte allor gettò a terra.

        Quando in la grotta entrò 'l lucido raio,
  125 Adamo disse:—Questo è lo splendore,
        che mi spirò in faccia da primaio.

        Venuto se', aspettato Signore:
        dal petto, dalle mani e dalle piante
        il sangue hai dato in prezzo del mio errore.—

  130 L'anime a lui amiche tutte quante
        trasse del limbo l'alto Emanuél,
        vittorioso lieto e triunfante.

        Adamo ed Eva e 'l lor figliolo Abél,
        Seth e Noè, che fece la santa arca,
  135 Abraám, Isac e ancora Israél
p. 117
        e Moisés e ciascun patriarca
        e David re e tutti li profeti
        menò al cielo, ov'è 'l primo Monarca.—

        Ed io a lei:—Li saggi e li poeti
  140 sonno egli qui? e gli antichi romani?
        o sonno in lochi piú felici e lieti?—

        Ella rispose:—In questi prati vani
        non son cotesti, che lor alti ingegni,
        come giá dissi, han lochi piú soprani.

  145 Virtú e fama loro ha fatti degni
        a star con Marte ed a star con le muse
        e con Apollo in piú splendenti regni.—

        Poscia la man deritta alla mia puse,
        trassemi per la porta, onde mi mise;
  150 e, ratto ch'io fui fuora, ella si chiuse.

Cosí dal tristo limbo mi divise.

p. 118

CAPITOLO V

Come l'autore trova certe anime, che stavano penando presso al limbo.

        Appresso al limbo, intorno e in ogni canto
        son gran montagne selvagge e spinose
        ed aspre sí, che mai le vidi tanto.

        Ed anime stan lí, che van penose
    5 intorno errando per quel loco incolto
        tra rovi e spin, che mai producon rose.

        E, perch'è quivi l'aer grosso e folto,
        io non scorgea alcun, bench'io mirasse,
        tanto che 'l conoscesse ben nel volto.

   10 Però Minerva assentí ch'io andasse
        ivi tra lor e, se trovava alcuno
        conosciuto da me, ch'io gli parlasse.

        Allor me misi tra quell'aer bruno
        e tra gli sterpi, ed acuto mirai,
   15 tanto che l'occhio mio ne conobbe uno.

        —O anima gentil, che tanto amai,
        'nanzi che 'l corpo ti lassasse sola,
        perché tra questi lochi asperi stai?

        Son qui i compagni della prima scola?
   20 è qui Arnoldo ed Agnolo da Riete?
        Potrei parlar ed udir lor parola?—

        Rispose a me con sembianze non liete:
        —Accorso e gli altri due, che tu m'hai detti,
        son fuor d'inferno in piú alta quiete.

   25 Tra questi asperi luochi siam ristretti
        quei che tu vedi, e tra montagna oscura,
        ché su del mondo non uscimmo netti;
p. 119
        ché l'etá pueril, ch'è da sé pura,
        ora è dal mondo rio cosí corrotta,
   30 ch'è piena di malizia e di bruttura,

        ed in tutti que' vizi è mastra e dotta,
        che la natura a quell'etá occulta,
        e senza possa col desío n'è ghiotta.

        'Nanzi che alcun di noi all'etá adulta
   35 venuto fusse, ordinò l'alto Dio
        che nostra carne su fusse sepulta.

        Se tratti non ne avesse il Signor pio
        di quella vita breve e che sta in forsi,
        tanto ne arebbe infetti il mondo rio;

   40 ché noi saremmo in maggior colpe corsi,
        e poi puniti in piú acerbo loco
        e da piú pena in questo inferno morsi.

        Per la montagna ingiú scendendo un poco,
        i figli stan di quelle ree contrade,
   45 sovra li qual Dio piovve solfo e foco.

        Se fussono venuti a piena etade,
        sarebbon in piú colpa ed in piú duolo:
        adunque dar lor morte fu pietade.

        E lí con loro sta 'l picciol figliolo,
   50 che Gregor dice che nel sen paterno,
        Dio biastimando, lasciò 'l corpo solo.

        In piú penoso loco sta in inferno
        chiunque a far male alcuno induce o tira
        o non corrige, quando egli ha 'l governo.

   55 Quel loco è lí e quel padre martíra,
        a cu' il figliol co' denti troncò il naso,
        ascondendo nel bascio la iusta ira.—

        Io credo che sarei con lui rimaso,
        se non che Palla:—Assai—disse—hai veduto:
   60 vedi che 'l sole omai giunge all'occaso.

        Sotto i piè nostri è giá Schiron venuto:
        vedi che 'l tempo corre e non si folce
        e non s'acquista mai, quand'è perduto.—
p. 120
        Quanto con lui lo star mi parve dolce,
   65 tanto da lui partir mi fu amaro;
        quand'ella disse:—Al venir ti soffolce.—

        Quivi lassai il mio amico caro,
        figliol di Senso, il perugin Batista,
        che 'l mondo il fece infetto, ch'era chiaro.

   70 Di gran piatá avea carca la vista,
        quando Palla mi disse:—Perché 'l viso
        porti tu basso? Or che dolor t'attrista?—

        Ed io a lei:—Perciò che m'hai diviso
        da colui con ch'i' stava, o sacra dea,
   75 e 'l suo dolce parlar anche hai reciso.

        In chiaro e bel latino a me dicea
        che Dio la morte acerba altrui permette,
        perché innocenza non diventi rea.—

        Ella rispose:—E perché sian subiette
   80 a lei tutte l'etadi e da' mortali
        in ogni loco ed ogni ora s'aspette;

        e perché son cresciuti tanto i mali,
        che al vizioso sol peccar non basta,
        se nel suo vizio molti non fa eguali.

   85 Come il fermento corrompe la pasta,
        e l'altre poma un sol fracido melo,
        cosí la prima etá l'altra poi guasta.

        Questa è l'iniquitá e 'l grande scelo
        far rio altrui e sé tanto peggiore,
   90 quanto s'appressa piú al canuto pelo.

        Però provvede Dio che alcun si more
        in quell'etá, che non è d'anni piena,
        perché malizia non gl'imbrutti il core.

        E forsi che il morir tolle la pena,
   95 ché destinata morte è forse impiastro
        ad altri mali, a che fortuna il mena.

        State contenti a ciò, che fa quel Mastro,
        che regge il mondo e sa il come e 'l quando
        e dispon voi sí come in cielo ogni astro.—
p. 121
  100 Poscia tacette, ed io gli fei domando
        dicendo:—O dea, un dubbio, il qual or penso,
        la mente mia non vede, in lui pensando:

        come il dimòn, che non ha corpo o senso,
        dal foco corporal ovver dal ghiaccio
  105 in questo inferno puote esser offenso?—

        Ed ella a me:—A molti ha dato impaccio
        il dubbio, il qual il tuo parlar mi dice:
        ma io dichiarerò quel che ne saccio.

        Sappi ch'amor è la prima radice
  110 d'ogni allegrezza, e l'odio è fundamento
        di ciò che attrista ovver che fa infelice.

        Però alcun voler, quand'è retento
        d'andar a quel ch'egli ama o che si toglia,
        quanto piú l'ama, tanto ha piú tormento.

  115 Sappi ancor ben che quanto piú alla voglia
        è odioso quel che la ritiene,
        tanto piú se n'affligge e piú n'ha doglia.

        Se queste mie premesse noti bene,
        comprenderai il foco, onde si duole
  120 il dimonio in inferno e le sue pene,

        ché non puote ir dov'ama e dove vòle,
        e vedesi in prigione e fatto sozzo,
        libero prima e piú bello che 'l sole.

        E' stava in cielo, ed ora sta nel pozzo
  125 di tutto il mondo e vede ogni suo velle
        ed ogni suo desio essergli mozzo.

        Come superbo, estima che le stelle
        reggere debbia ed essere il sovrano,
        fatto e creato tra le cose belle.

  130 E, bench'egli dal ghiaccio e da Vulcano
        sensualmente non possa esser leso,
        perché da lui è ogni senso strano,

        niente meno dal corpo egli è offeso,
        perché a quel corpo, ch'era a lui subietto,
  135 ora subiace e sta dentro a lui preso.
p. 122
        E non è maggior onta ovver dispetto,
        che da quel servo, ch'è avuto in balía,
        esser signoreggiato ovver costretto.

        E se per arte di nigromanzia
  140 il demòn si costrenge ed è legato,
        ben lo pò far piú alta signoria.

        E perché in ogni modo, in ogni lato
        e' cerca di fuggir, quinci argumenta
        che dal corpo, ove sta, egli è penato.

  145 Nell'aer sopra lí, dove diventa
        folgore lo vapor, molti ne stanno
        e molti fra la gente, ove si tenta.

        Ma nell'ultimo dí dell'ultim'anno
        tutti in inferno seranno serrati,
  150 nel gran supplicio dell'eterno affanno.—

        Noi eravamo insú tanto montati,
        che, nove miglia piú andando sopre,
        suso nel mondo seriamo allitati,

perché quel loco solo un cerchio il copre.

p. 123

CAPITOLO VI

Come l'autore, uscito dall'inferno, venne nel mondo nell'emisfero di Satan.

        Non è nella riviera genovese,
        ovver tra gli Alpi freddi della Magna,
        né trovariasi mai 'n altro paese

        aspera tanto e repente montagna,
    5 quant'una, che trovammo sí alpestra,
        che fe' maravigliar la mia compagna.

        Mirando intorno, io vidi una finestra
        a piè del monte con questa scrittura,
        la qual legger mi fe' la mia maestra:

   10 «Voi, che salir volete su all'altura
        e che volete uscir di questo fondo,
        intrate dentro questa buca oscura.

        Qui è la via che mena suso al mondo:
        chi salir vuol, convien che pria qui entre
   15 e saglia poi, girando suso a tondo».

        Minerva poi mi mise dentro al ventre
        del duro monte, e forse un miglio er' ito,
        che dietro a lei insú salendo, mentre

        io venni manco, caddi tramortito
   20 e ratto al ciel, sí come Ganimede
        quando Tonante fu da lui servito.

        Lí mostrato mi fu come procede
        da Dio l'anima nostra, allora quando
        al corpo organizzato la concede.

   25 Infundendola Dio 'nsieme e creando,
        non di materia, ma celeste forma,
        l'unisce al corpo e dona al suo comando.
p. 124
        Poi torna' in me com'uom che prima dorma;
        e, su levato, presi il dur viaggio
   30 dietro alla dea, de' piè seguendo l'orma.

        Sei miglia er' ito, quando vidi il raggio
        del chiaro sole scender d'una buca;
        onde Minerva a me col parlar saggio:

        —Insin lassú convien che ti conduca
   35 e per quel foro ti convien uscire,
        se vuoi vedere il sole e che a te luca.—

        Allor piú ratto cominciai a salire,
        ché di veder il sole avea disio;
        ed ella mi spronava col suo dire.

   40 Ma dicea meco:—Or come potrò io
        caper pel foro di quel sasso fesso,
        che non è una spanna, al parer mio?

        E, quando fui a quel pertuso appresso,
        vi pontai 'l capo per la voglia presta,
   45 tanto che un poco fòra l'ebbi messo.

        E poscia ne cavai tutta la testa;
        poi la persona mia sospinsi tanto,
        ch'io n'uscii nudo senz'alcuna vesta.

        E caddi in terra con omèi e pianto;
   50 e quando prima il miser occhio aperse,
        vidi una vecchia brutta starmi a canto.

        Questa le membra nude mi coperse;
        poi, come donna riputando dice,
        queste parole inver' di me proferse:

   55 55—Io son la Povertá, prima nutrice,
        che l'uom ricevo colle membra nude,
        quand'egli arriva nel mondo infelice.

        E quando gli occhi a lui la morte chiude,
        vo con lui alla fossa e lí rimagno,
   60 ove l'altre person si mostran Iude.

        E mentre in vita con lui m'accompagno,
        sí impazientemente mi sopporta,
        che fa di me sempre querela e lagno.
p. 125
        Niente reca, quando al mondo apporta;
   65 e fatica e timore è la sua vita;
        ed al partir niente se ne porta.

        Allor conoscer può nella partita
        che 'l vostro essere umano è come un sogno,
        e sogno par la parte che n'è ita.

   70 Sí come l'òr, ch'è falso e di mal cogno,
        vanisce al foco, vostra vita manca;
        e ciò ch'è falso manca nel bisogno.—

        Poi levai sú la mia persona stanca,
        e la vecchia tacette e poi disparve;
   75 ond'io gli occhi voltai dalla man manca.

        Mentr'io mirava, una cosa m'apparve
        mirabil sí, che, a volerla narrare,
        le mie parol mi paion levi e parve.

        Vidi un gigante giovine cantare,
   80 bello e membruto e col leuto in mano,
        e lieto lieto cominciò a ballare

        e coglier fiori su pel lordo piano;
        e poi mi parve che s'inghirlandasse
        di quelli fiori come garzon vano.

   85 Ed una rota grande, che voltasse
        di sopra a lui, e, quando ella si volve,
        parea che a poco a poco il consumasse.

        Come di neve statua si risolve,
        quando sta al sole, cosí a poco a poco
   90 si disfece e di poi diventò polve.

        Quasi fenice antica, che nel foco
        arde se stessa e poi delle penne arse
        un'altra nasce nuova ed in suo loco,

        cosí di quella polve un altro apparse
   95 giovin gigante e inghirlandò le chiome,
        sotto la rota ancora a consumarse.

        Costui addomandai come avea nome,
        ed anche dissi a lui ch'io avea brama
        di quel disfar saper il quale e 'l come.
p. 126
  100 Rispose:—Il nome mio come si chiama
        non posso dir, ché da me fu negletto
        quell'operar, che, morto, vive in fama.

        Io con mill'altri e piú sto qui subietto
        a questa rota, che di sopra volta,
  105 che muta a parte a parte in noi l'aspetto;

        ché della vita breve avemmo molta,
        e negligenti andammo a passo lento
        sino all'estremo, dove ne fu tolta.

        Però ha fatto Dio che in anni cento
  110 nessun vive di noi piú di mezz'ora,
        e l'altro tempo in polve giaccia spento.

        E questa pena ha l'uom nel mondo ancora;
        che, mentre il ciel a lui si volve intorno,
        a parte a parte conven ch'egli mora.

  115 Cosí a morte corre in ogni giorno
        mosso dal tempo, che volando passa
        e, poich'è ito, non fa mai ritorno.

        E quella dea, che scrive il tempo e cassa
        il cammin tutto dell'etá compiuta,
  120 un delli mille trapassar non lassa.

        Il cielo è quella rota che trasmuta
        tutte l'etadi della vita breve
        e che la testa bionda fa canuta.—

        Poi, come si disfá al sol la neve,
  125 cosí, parlando, colui si disfece,
        o come cera che 'l caldo riceve.

        Minerva allor di lí partir mi fece;
        ed io a lei:—Da che parlar non posso
        piú con colui, rispondi a me in sua vece.

  130 Se 'l cielo sopra noi non fosse mosso,
        lo stare ei fermo sarebbe cagione
        ch'ogni operar quaggiú fosse rimosso?—

        Ed ella a me:—Quest'altra gran quistione
        richiede piú il dir aperto e sciolto,
  135 che non è questo, e piú lungo sermone.
p. 127
        Il tempo e 'l ciel, che sopra voi è vòlto,
        è una cosa, e, non voltando il cielo,
        ciò che da tempo pende, saria tolto:

        fatica, fame, sete, caldo e gelo,
  140 e ciò che segue al moto alterativo,
        morte e vecchiezza col canuto pelo.

        E, non voltando, l'uomo saria vivo
        e volontá e la virtú, che 'ntende,
        ed ogni senso arebbe piú giulivo.

  145 Qui quel che disse l'agnol, si comprende,
        quando iurò per l'alto Dio vivente:
        «Mai non sará piú tempo, ovver calende,

        ed ogni verbo avrá solo il presente,
        e cesserá il preterito e 'l futuro,
  150 e ciò, che or corre, sará permanente»;

e nell'Apocalisse è questo iuro.—

p. 128

CAPITOLO VII

Dove trattasi del regno d'Acheronte.

        Miglia' di mostri piú oltre trovai,
        i quai bench'io li narri e li racconte,
        appena a me si crederá giammai.

        Anime vidi al lito d'Acheronte,
    5 ch'avean sette persone e sette facce;
        e queste su in un ventre eran congionte.

        Pensa sette uomin, che l'un l'altro abbracce
        dietro alle reni e con sette man manche,
        con sette destre ed altrettante bracce.

   10 Ed avean sol un ventre e sol due anche
        e sol due gambe e sol un umbillico:
        sí fatti mostri non son trovati anche.

        E ciascun delli visi, i quali io dico,
        quant'era piú appresso a quel davante,
   15 piú giovin era e dietro piú antico,

        sí che la prima faccia era d'infante
        or ora nato, e l'altra puerile,
        d'adolescente il terzo avea sembiante,

        giovine il quarto, il quinto era virile,
   20 il sesto di canuti era cosperso,
        e l'ultimo un vecchiaccio tristo e vile.

        Miglia' di mostri fatti a questo verso
        stavano a lato di quell'acqua bruna,
        per passar l'onde del lago perverso,

   25 il qual avea assai maggior fortuna,
        che mai Carribdi, Scilla o l'Oceáno,
        quando ha reflusso o quando volta luna.
p. 129
        Vidi Caròn non molto da lontano
        con una nave, in mezzo la tempesta,
   30 che conducea con un gran remo in mano.

        E ciascun occhio, ch'egli avea in testa,
        parea come di notte una lumiera
        o un falò, quando si fa per festa.

        Quand'egli fu appresso alla riviera
   35 un mezzo miglio quasi o poco manco,
        scòrsi sua faccia grande, guizza e nera.

        Egli avea il capo di canuti bianco,
        il manto addosso rappezzato ed unto;
        e volto sí crudel non vidi unquanco.

   40 Non era ancor a quell'anime giunto,
        quando gridò:—O dal materno vaso
        mandati a me nel doloroso punto,

        per ogni avversitá, per ogni caso
        vi menerò tra la palude negra
   45 incerti della vita e dell'occaso.

        Pochi verran di voi all'etá intègra;
        spesso la vita alli mortali io tollo,
        quand'ella è piú secura e piú allegra.—

        Dava col remo suo tra testa e 'l collo
   50 a' mostri, che mettea dentro alla cocca;
        e forte percotea chi facea crollo.

        Poscia rivolto a me, colla gran bocca
        gridò:—Or giunto se', o tu, che vivi,
        venuto qui come persona sciocca.—

   55 Minerva a lui:—Costui convien ch'arrivi
        all'altra ripa sotto i remi tui,
        'nanzi che morte della vita il privi.

        —Su la mia nave non verrete vui
        —rispose a noi con ira e con disdegno,—
   60 ché altre volte giá ingannato fui.

        Un trasse Cerber fuor del nostro regno,
        l'altro la moglie; or simil forza temo:
        però voi non verrete sul mio legno.—
p. 130
        Minerva a lui:—Io chiedo ora il tuo remo,
   65 ch'io vo' menar costui, o vecchio lordo,
        da questo basso al mio regno supremo.

        Lassame andar, consumator ingordo,
        ché a te non è subietta quella vita,
        per la qual vive uom sempre per ricordo.—

   70 Ratto ch'egli ebbe esta parola udita,
        si vergognò ed abbassò le ciglia,
        e senza piú parlar ne die' la ita.

        Navigato avevam ben giá due miglia,
        ed io mi volsi addietro, e vidi ancora
   75 venuta alla rivera altra famiglia,

        solcando noi per quella morta gora,
        con gran tempesta tra le morte schiume,
        col vento non da poppa, ma da prora.

        Sí come il falso argento torna in fume
   80 nel ceneraccio, che fa l'alchimista,
        o cera che al foco si consume;

        cosí a' mostri la lor prima vista
        vidi mancare ed anche la seconda,
        come cosa non stata o non mai vista.

   85 E poi la terza colla testa bionda,
        la quarta e poi la quinta venne meno,
        navigando oltra per quell'acqua immonda;

        mancò poi il sesto di canuti pieno;
        sicché di lor rimase un sol vecchiaccio:
   90 non sette piú, ma un tutti pariéno.

        La nave a riva avea a venir avaccio,
        quand'io addomandai un gran vecchione,
        che stava a lato a me a braccio a braccio.

        E dissi a lui:—Perché 'l demòn Carone
   95 sí vi disfá? e perché, navigando,
        sei parti ha tolte alle vostre persone?—

        Rispose:—Quel Signor, che 'l come e 'l quando
        sa della morte e la vita concede
        non mai a patti, ma al suo comando,
p. 131
  100 nel mondo sú lunga vita ne diede;
        e fummo negligenti alla virtude
        e ratti a far le cose brutte e fède.

        Però menar ne fa per la palude,
        e nella ripa esto crudel pirata
  105 la vita a noi vecchiacci ancora chiude.

        E quando addietro la nave è tornata
        e mena quei che stan dall'altro canto,
        in quel rifatti siamo un'altra fiata.

        E ritornamo a quella riva intanto,
  110 ove pria fummo; e lí da noi s'aspetta
        anche 'l nocchier con pena e con gran pianto.

        Questa è da Dio a noi giusta vendetta,
        da che a ben far nostra vita fu tarda,
        che sempre a morte nostra vita metta.

  115 La Morte non è mai all'uom bugiarda,
        ché lo minaccia in viso e fallo accorto;
        ma egli chiude gli occhi e non si guarda.

        E, benché l'uom si vegga giunto al porto
        degli anni suoi, è sí ne' vizi involto,
  120 che prima il viver che 'l mal fare è scòrto.

        In quell'etá, che fa canuto il volto,
        alcun nell'operar tanto è difforme,
        ch'e' non par vecchio, ma fanciullo stolto.

        Ed io lassú, dove si mangia e dorme,
  125 fui giá Del Bruno chiamato Francesco
        e fiorentin lascivo vecchio enorme.

        Qui sta, (or poni un «vo» di dietro al «vesco»,)
        Pier d'Alborea, che 'n tre vescovati,
        secco negli anni, nel peccar fu fresco.—

  130 Noi eravamo al porto giá appressati;
        e tutti vennon men su nella riva,
        sí come un'ombra ed uomin non mai stati.

        Io scesi in terra con la scorta diva,
        ed ella disse a me:—Se ben pon' mente,
  135 la vita umana non si può dir viva;
p. 132
        ché solo solo un punto è nel presente,
        e nel futur non è ed anco è 'ncerta,
        e del passato in lei non è niente.

        E, perché questa cosa ti sia esperta,
  140 pensa che un oro puro a parte a parte
        a poco a poco in piombo si converta.

        Se un venisse a te a domandarte,
        tu non potresti dir che quel fusse oro,
        da che dall'esser òr sempre si parte.

  145 Cosí è la vita di tutti coloro,
        che 'l tempo mena a morte; e chi ben mira,
        non dirá mai:—Io vivo,—ma—Io moro;—

        ché, mentre il cielo sopra voi si gira,
        logra la vita, ed è cagion quel moto
  150 del caso e qualitá che a morte tira.—

        In questo ad ira Caròn fu commoto
        e gridò forte:—Questa simil pena
        ha l'uom; ma, come a cieco, non gli è noto;

        ché 'l ciel fa il tempo, quel nocchier che mena
  155 l'uom navigando d'una in altra etade
        sino alla ripa, ov'è l'ultima cena.

        Dal tempo ha 'l corpo ogni infermitade;
        e ciò, che è nel mondo all'uom molesto,
        sí vien dal cielo o da natura cade.—

160 Poi si partí Caròn fiero e rubesto.

p. 133

CAPITOLO VIII

Dove trattasi della pena del gigante Tizio e quello ch'e' significhi.

        Caròn la nave irato addietro mosse
        e Palla opposta a lui mosse le piante;
        e quasi un miglio credo andato fosse,

        che trovammo giacere un gran gigante
    5 legato in terra e dietro resupino,
        e sopra lui un gran vóltore stante,

        che 'l becco torto avea come un uncino:
        il petto gli smembrava il grande uccello
        con grave doglia al misero tapino.

   10 —Minerva mia—diss'io,—che mostro è quello,
        a cui il fegato dal vóltore è roso
        tanto, che poco n'è rimaso d'ello?—

        Perché «mostro» il nomai, gli fu noioso,
        al mio parer; però la testa grande
   15 alzò, parlando irato e desdegnoso.

        E disse:—O tu, che qui di me domande,
        Tizio son io, a cui 'l fegato pasce
        questo avoltore e tutto il giorno prande.

        E poi la notte in petto mi rinasce
   20 e fassi preda allo bramoso rostro:
        queste pene sostengo e queste ambasce.

        Simile a me, che m'hai chiamato «mostro»,
        in ciascun uomo è la parte mortale;
        e che questo sia vero, io tel dimostro.

   25 Come vóltore, il caldo naturale
        l'umido radicale in voi divora,
        poi rinasce del cibo, ma non tale,
p. 134
        però che sempre la lega peggiora;
        oltre la gioventú putrido fasse;
   30 per questo l'uomo invecchia e discolora.

        Se 'l cielo sopra voi non si voltasse,
        non averebbe il detto uccello il pasto,
        né converria che cibo il ristorasse.

        E se a me il petto è roso e guasto,
   35 la notte integramente lo risaldo;
        sí che io in sempiterno vivo e basto.

        Ma quel ch'è in voi consumato dal caldo,
        se si rifá per prandio ovver per cena,
        non sempre è sí perfetto, né sí saldo.

   40 E questo alla vecchiezza e morte mena,
        e fame e sete; sí che vostro stato
        vien meno ed ha a questa simil pena.—

        Io non risposi, quand'ebbe parlato,
        ché non volle Minerva; ond'ei la testa
   45 ripose risupina insú quel prato.

        Trovammo poi in una gran foresta,
        quant'un gigante grande, la Vecchiezza
        tra molta gente dolorosa e mesta.

        Ell'era guizza e piena di gravezza,
   50 magra, canuta e senza nessun dente,
        poggiata ad un baston per debilezza.

        Dirieto a lei veniva una gran gente,
        che parevano vivi, ognun coniunto
        inseme con un morto puzzolente.

   55 Cosí erano uniti a punto a punto,
        sí come san Macario e san Bordone,
        quand'un viveva e l'altro era defunto.

        Quand'io considerai cotal passione
        esser coniunti i vivi colli morti:
   60 —Oimè!—diss'io,—oh quanta afflizione!—

        La vecchia mi guatò con gli occhi torti
        e dissemi:—Se mai nel mondo riedi
        dietro a colei che t'ha li passi scorti,
p. 135
        simile a quella pena, che tu vedi,
   65 lí troverai e le person penose.
        Ma, perché forse questo a me non credi,

        sappi che 'l mondo nomina le cose
        non per diritto, ma per lo traverso:
        però le veritá gli son nascose.

   70 Quando l'uom nasce nel mondo perverso,
        che a vivere incomincia usate dire;
        ma questo dir dal ver tutto è diverso,

        però ch'allora incomincia a morire;
        e, perché insieme insieme vive e more,
   75 col vivo il morto è lí anco l'unire.

        Tutti gli anni, li mesi e tutte l'ore
        che son passate, e ciò c'ha 'l tempo scemo,
        nell'uomo è morto ed è di vita fuore.

        Oh quanto è stolto quel, che 'l «ben faremo»
   80 conduce insino al serrar delle porte
        e 'l ben poi principiar in sull'estremo!

        Queste alme son dannate a cotal sorte,
        perché nel mondo non fûr le lor vite
        vive nell'operar, ma pigre e morte.

   85 E, se ben miri, son qui ben punite,
        ché vive dalli morti hanno tormenti,
        e come morte a morti sono unite.—

        Quando ebbe detto delli negligenti,
        piú oltre mi mostrò quivi dappresso
   90 l'Infermitá, che facean gran lamenti.

        E disse:—Su nel mondo vanno spesso;
        non può fare Ipocráte ed Avicenna
        che 'l corpo uman non sia da loro oppresso.—

        Non poteria giammai scriverlo penna
   95 la schiera grande che io vidi de' Morbi,
        che fere all'uom, o che ferir gli accenna.

        Quivi eran zoppi, monchi, sordi e orbi;
        quivi era il Mal podagrico e di fianco,
        quivi la Frenesia cogli occhi torbi.
p. 136
  100 Quivi il Dolor gridante e non mai stanco,
        quivi il Catarro con la gran cianfarda;
        l'Asma, la Polmonia quivi eran anco.

        L'Idropisia quivi era grave e tarda,
        di tutte Febbri quel piano era pieno,
  105 quivi quel Mal che par che la carne arda.

        Sí d'ammirazione io venni meno,
        ch'arei laudato l'error d'Origene,
        se non che Fede a me tirò il freno.

        Dice che l'alma, che nel corpo viene,
  110 è un dimonio, il qual Iddio rinchiude
        dentro alla carne sol per dargli pene.

        E però il corpo umano è fatto incude
        di tutti i colpi che 'l mondo saetta,
        perché di sua superbia si denude.

  115 —Sta' fermo su la Fede, ch'è perfetta,—
        disse Minerva, che, senza mio sermo,
        vedea l'opinion, ch'i' avea concetta.

        Ed io a lei:—Perché nel corpo infermo,
        subietto al cielo e brutto e tanto vile,
  120 che tanto o poco piú è vile un vermo,

        l'anima nostra, ch'è tanto gentile,
        Dio la rinchiude ed in lui la trasfonde?
        Trovò piú miser loco o sozzo o vile,

        ove materia in nulla corrisponde
  125 alla sua forma? E però maraviglio
        che l'anima del corpo si circonde.—

        Come si schiara il padre verso il figlio,
        che si rallegra quando egli ha ben detto,
        cosí la dea ver' me rallegrò il ciglio.

  130 E disse:—Se 'l volere e lo 'ntelletto
        con vostra carne fosse insieme unito,
        il vostro arbitrio saria al ciel subietto.

        E s'egli fosse dal cielo impedito,
        non ritrarria la carne, che rimove
  135 spesse fiate dal vano appetito;
p. 137
        ché, se lo corpo all'obietto si move
        e 'l voler vostro fusse uno con lui,
        fren non sarebbe a ritirarlo altrove.

        Questo è principio per provare a vui
  140 che puote l'anima aver subsistenza,
        forniti che ha 'l corpo i giorni sui.—

        Io anche dissi:—O dea di sapienza,
        se 'l ciel mi tira, ed io tirato vado,
        mosso dal corso ovver dall'influenza,

  145 dunque che biasmo avrò, se fo alcun lado?
        O che loda e che onor io debbo avere,
        s'io surgo al bene o s'io nel mal non cado?—

        Ed ella a me:—Il ciel 'n voi ha potere
        solo nel corpo, e s'e' al mal corresse,
  150 il vostro velle il puote ritenere.

        Se prava ancor complessione avesse
        da tempo o loco o da suoi genitori,
        esser potrebbe ch'al mal si movesse;

        perché, secondo che 'n voi son gli umori,
  155 cosí si move il carnal desidèro
        ad ire, invidie, ad odii ed amori.

        Ma volontá in voi ha 'l sommo impero
        di ciascun senso umano, e può guidarlo
        e soggiogarlo ad ogni ministero.

  160 Dunque l'arbitrio, del qual io ti parlo,
        perché guida il timon di tutto il legno
        e può a scoglio ed a porto drizzarlo,

        di biasmo e loda egli diventa degno,
        secondo che va ritto o che devia
  165 dal dritto porto ovver dal dritto segno.—

Poscia di quindi noi andammo via.

p. 138

CAPITOLO IX

Come l'autore trova la Morte, la quale parla acerbamente contro i mortali.

        —Le rote delli ciel tanto son vòlte
        —disse Minerva,—che, da che venisti,
        tre ore della vita t'hanno tolte.

        La vita e 'l tempo, se tu ben udisti,
    5 son una cosa; e quanto dell'un perde,
        tanto perdi dell'altro e tanto acquisti.

        Convien omai che tu cammini inver' de
        colei, la quale a ciò che nasce è fine,
        e che fa secco ciò che pria fu verde.

   10 Non col passo dei piè te gli avvicine
        o meno o piú, ma di sopra li cieli
        voltati fan che tu ver' lei cammine.

        —Con tanta oscuritá il dir mi veli
        —risposi a lei,—che ben io non l'intendo
   15 qual fine è questo, se tu non riveli.

        Per quel che tu m'hai detto, ben comprendo
        che giá tre ore mia vita è scemata,
        mentre noi queste cose andiam vedendo.—

        Ed ella a me:—Stolto è colui che guata
   20 solo alla vita e non rimira il porto,
        al qual fa ogni dí una giornata.

        In questa valle, nella qual t'ho scorto,
        vedrai la Morte—Palla mi sobiunse;—
        però fa' che, passando, tu sie accorto.—

   25 Sí gran timore allora al cor mi giunse,
        quand'io udii dover veder la Morte,
        che ancor mi punge: tanto allor mi punse.
p. 139
        E le mie guance diventonno smorte,
        ché 'l sangue si restrinse tutto al core,
   30 come natura fa, perché 'l conforte.

        Però la dea a me:—Perc'hai timore
        di quella cosa, che convien che sia
        e debbesi aspettar in tutte l'ore?

        Dato è il quando e l'ordine e la via
   35 del pervenire al termine giá posto:
        né fia la morte piú tarda, né in pria.

        E, se non sai se egli è tardo o tosto
        della tua vita il tuo ultimo punto,
        star déi ognora accorto e ben disposto.

   40 Acciò che tu non sia improvviso giunto,
        propon' che il tempo incerto, che ti resta,
        sia tutto giá presente ovver consunto.

        Il tempo logra a voi la mortal festa;
        e le tre Parche tessono alla voglia
   45 di quel Signor, che a tempo ve la presta.

        E, quando Morte di quella vi spoglia,
        rimane in voi ciò che non gli è subietto:
        però l'alma non sente mortal doglia;

        ché vostra volontá e l'intelletto
   50 e tutto quel che 'n voi non è brutale,
        subsiste piú vivace e piú perfetto.

        In terra torna il corpo animale,
        e l'alma, ch'è dal ciel, su al ciel riede,
        ciascun al suo principio originale.—

   55 Gran passion gran conforto richiede;
        però Minerva alla mia gran paura
        questa monizion lunga mi diede.

        Com'uom che va per la via non sicura,
        che mira e tace pel sospetto grande,
   60 cosí, temendo, intorno io ponea cura.

        E però Palla a me:—Mentre tu ande
        inverso a quella, a cui pervenir déi,
        perché pur temi e di lei non domande?—
p. 140
        Ond'io risposi:—Volontier saprei
   65 quant'ella sta ancor a noi da cesso,
        innanti ch'io pervenga insino a lei.—

        Ed ella a me:—A voi non è concesso
        del cammin vostro di saper il quanto;
        ma ella in ogni loco è molto appresso;

   70 ch'ella discorre ed è veloce tanto
        per questa valle, per la qual tu vai,
        che in ciascun punto ell'è in ogni canto.—

        Per questo piú acuto allor mirai
        e vidi lei in un caval sedere
   75 negro e veloce piú che nessun mai.

        Avea le guance guizze, magre e nere:
        crudel la vista e sí oscura e buia,
        ch'io chiusi gli occhi per non la vedere.

        E perché ogni uomo volontier s'attuia
   80 gli occhi per non vederla, tanto è brutta,
        per ciò ella va occulta come fuia.

        —Mia—sí dicea,—mia è la gente tutta:
        quanta n'è nata e nascerá al mondo,
        destruggerò e l'altra ho giá destrutta.

   85 Quando alcun crede star sano e giocondo,
        io l'assalisco, e quanto è piú gagliardo,
        piú tosto al mio voler lo mando al fondo.

        Imperatori o re non ho in riguardo;
        a' miseri, che stanno in pena acerba,
   90 mando mie' morbi, ed a lor io vo tardo.

        Ciò che nasce nel mondo, a me si serba,
        e che ha carne e corpo, cresce e vive:
        tutto fia mio insino all'ultim'erba.—

        Di molti morti io vidi poscia quive
   95 sí grande strage, che rispetto a quella
        nullo poeta sí grande la scrive;

        non quella che riempiè i moggi d'anella,
        non quella che la peste fe' in Egina,
        né quella, della qual Lucan favella.
p. 141
  100 Di quelli morti tra la gran rovina
        un si levò, che solo il cuoio e l'osse
        avea e verminose le intestina.

        E disse:—Poiché noi siam nelle fosse,
        son nostri alunni e compagni li vermi.
  105 Oh fine oscuro delle umane posse!

        E, perché questo io meglio vel confermi,
        guatate i corpi fracidi di noi:
        per me' vedergli, alquanto state fermi.

        Quali ora siete voi, ed io giá foi:
  110 e quale io sono, tutti torneranno
        que' che son nati e che nasceran poi.

        In questo loco papi meco stanno,
        imperatori, re e cardinali;
        né piú che gli altri qui potenzia hanno,

  115 perché all'estremo tutti quanti equali
        ne fa la morte, ai ben felici atroce,
        e tarda e dolce agl'infelici mali.

        Oh lasso me! L'indugio quanto nòce!
        E quel, che si dé' fare, averlo fatto,
  120 oh quanto acquista del tempo veloce!

        Io perdei Pisa e poi Lucca in un tratto;
        e questo il fe' la mia pigrizia sola,
        ché non soccorsi, com'io potea, ratto.

        Io fui giá Uguccion dalla Fagiola.—
  125 Poi come morto ricadde supino,
        ratto ch'egli ebbe detto esta parola.

        Io ingavicchiai le mani, e 'l viso chino
        tenea: per questo il cor sí m'invilío,
        ch'io non curava piú del mio cammino.

  130 Ma quella, che guidava il passo mio,
        disse:—Che hai, che stai ammirativo
        e, come pria, venir non hai disio?

        Non sapei tu che ombra è 'l corpo vivo,
        e che trapassa e fugge come un vento,
  135 e cibo a' vermi è poi, di vita privo?
p. 142
        Se tu non vuoi, morendo, essere spento,
        cammina sí, che quella vita cresca,
        che 'l ciel non logra col suo movimento.—

        Come infingardo, a cui l'andar incresca,
  140 e, perché vada ratto, alcun gli grida,
        ch'allor s'affretta e li passi rinfresca;

        cosí fec'io al dir della mia guida,
        tanto ch'io trapassai il regno afflitto
        del rio pirata e crudele omicida.

  145 E dietro alla mia dea andando io dritto,
        pervenni in loco, ove trovai una porta;
        e quel che seguirá quivi era scritto,

il qual io lessi ed anco la mia scorta.

p. 143

CAPITOLO X

Dove l'autore discorre delle pene, che l'uomo dá a se stesso per false opinioni.

        «Voi, che salite al secondo reame,
        intrate qui per questa porta inferna,
        che sempre aperto tiene il suo serrame.

        Dentro ve fa la via una caverna,
    5 la qual salendo sette miglia gira,
        ove nulla è che chiaro occhio discerna.

        Questa conduce al loco, ove martíra
        l'uomo se stesso, e di sé fa vendetta,
        e fassi il colpo, onde piange e sospira».

   10 Vista che avemmo la scrittura e letta,
        intrammo la caverna alla man destra
        per una via oscura ed anco stretta.

        Ma dietro all'orme della mia maestra
        io sempre andai, e per un sasso fesso
   15 uscimmo fòra, a guisa di finestra.

        E su nell'aere, alquanto a noi appresso,
        vidi una donna alata trasmutarse
        in diverse figure spesso spesso.

        Grande come gigante prima apparse;
   20 poi piccola si fece e lieta e trista;
        giovine e vecchia poi la vidi farse.

        —Chi se'—gridai,—che piú cambi la vista,
        che Acchilogo, e nullo essere vero
        par che 'n te sia, ovver che 'n te persista?

   25 —La Falsa Opinion son del pensiero
        —disse volando,—e questo loco tegno,
        ov'io dimostro il bianco per lo nero.
p. 144
        Qui sta la Fantasia, qui sta lo Sdegno,
        Speranza, Amor, Timor e Alterezza,
   30 Sospizion, 'Resia sta in questo regno.

        Io fo povero alcun nella ricchezza
        e fo la povertá allegra tanto,
        ch'alcun la porta e nulla n'ha gravezza;

        sí come avvien che 'n povertá alquanto
   35 equal son due, e l'un non se ne cura,
        e l'altro si lamenta e fa gran pianto.

        Se da sé fosse quella soma dura,
        alli due pazienti equal sería,
        se l'operante è di simil natura.—

   40 L'Opinion, ovver la Fantasia,
        per l'aer se n'andò, movendo l'ale,
        e mutava sembianti tuttavia.

        —Quella è la grave peste e 'l grave male
        —disse Minerva a me;—quella è cagione
   45 di molto duol, che l'uom nel mondo assale.

        S'alcuno è ricco, e la sua opinione
        a questa veritá gli contradice,
        egli se stesso in povertá ripone.

        Nessun può esser in stato felice,
   50 se a quello non concorre il suo parere,
        come concorre al frutto sua radice.

        Come la frenesia, che fa vedere
        un per un altro, e 'l vin, quando ubbriaca
        non lassa ben vedere le cose vere;

   55 cosí tre passion, che son la ra'ca
        di tutti i vizi: il troppo amore e spene
        e 'l timor anco all'uom la mente opaca.

        Per queste tre, quando son troppe, avviene
        che si disvia ed erra l'intelletto,
   60 tanto che 'l ver non può conoscer bene:

        come alcun che ha il palato infetto,
        che gusta il dolce, e pargli che sia amaro
        e giudica in contrario il proprio obbietto.
p. 145
        Altramente il superbo ovver l'avaro
   65 estima alcuna cosa, ed altramente
        l'animo buono e di vertú preclaro.

        E secondo l'etá cosí la gente
        credon le cose, ed altramente estima
        chi porta l'odio che chi d'amor sente.

   70 La puerizia ovver l'etade prima
        errando crede che solazzo e gioco
        tra tutti i ben sovran tenga la cima.

        E, poiché quell'etá tramuta loco,
        dietro all'amor ne va l'adolescenza,
   75 e i ludi giá passati estima poco.

        Nell'etá terza, c'ha piú conoscenza,
        reputa i giochi e l'amor esser vano,
        e solo estima onore ed eccellenza.

        Poi nella quarta etá dal capo cano
   80 s'avvede ch'ogni etá era ingannata,
        e pone all'avarizia allor la mano.

        Se, quando è su la morte, addietro guata,
        il cammin della vita, il qual è ito,
        gli pare un'ombra o cosa non mai stata.

   85 Svegliasi quando del mondo è partito,
        e vede ciò c'ha tempo esser menzogna,
        rispetto all'eternal, che è infinito.

        Sí come spesso avvien, quando alcun sogna,
        che, mentre dorme, gli par manifesto
   90 aver dell'oro in man quanto bisogna,

        e, quando torna in sé e ch'egli è desto,
        e' qui si scorna e dice nel suo core:
        —Oimè! oimè! perché non fu ver questo?—

        cosí l'anima umana, quando è fuore
   95 della sua carne, allor ella comprende
        che il mondo è sogno, e conosce il suo errore.

        Iti eravamo omai quanto si stende
        quell'ampia valle, e noi trovammo un colle,
        che ben duo miglia su da alto pende.
p. 146
  100 Minerva salse il monte e poscia volle
        che dietro a lei seguissi le vestige,
        se non voleva andar sí come uom folle.

        Quand'io fu' in cima, vidi il lago Stige,
        fatto alla forma ch'io l'avea veduto
  105 giú nell'inferno in ogni sua effige.

        Io era insino al lito suo venuto,
        e per mirar fermai i passi mei,
        per la gran nebbia risguardando acuto.

        —Questa negra palude, che tu véi,
  110 è quella, per cui iura il sommo Iove
        —disse Minerva—e iuran gli altri dèi.

        Ciò che cade da cielo, ovver che piove,
        ciò che dall'aere o su dal foco cade,
        e ciò che l'acqua sé purgando move,

  115 si aduna qui da tutte le contrade:
        ogni sozzura ed ogni sucidume,
        tutta la marcia delle cose frade.—

        Per penetrar la nebbia e 'l folto fume,
        facea cogli occhi miei lo sguardo aguzzo,
  120 come fa alcun, quand'egli ha poco lume.

        Quanto piú m'appressava, maggior puzzo
        senteva al naso e tanto n'era offenso,
        che soffiando io facea dell'aere spruzzo.

        Tutta la timiama ovver l'incenso,
  125 che mai d'Arabia ovver d'Assiria venne,
        non mitigaría quel fetore immenso.

        Lí eran l'arpie con pallide penne,
        con facce umane, storte, irate e guerce,
        fetenti sí, che 'l naso nol sostenne.

  130 Facean lamenti su le smorte querce,
        e 'l misero Fineo mangiava sotto
        vivande, ch'eran di lor sterco lerce.

        Una di lor mi disse questo motto:
        —O tu, che questo inferno passi vivo,
  135 dietro alli passi di Palla condotto,
p. 147
        perché ti atturi il naso e mostri schivo?
        Tu sai che l'uomo nel vostro emispero
        piú di noi non è netto ovver giulivo:

        ché egli è un sacco pien di vittupèro,
  140 e tra gli altri animal che son nel mondo,
        vuole in nettarsi maggior ministero.

        Tu sai ch'e' per la cima e per lo fondo
        e dello corpo suo per nove fori
        sparge il fastidio, piú che noi immondo.

  145 Al sucidume e suoi corrotti umori
        per delicanza concorron le mosche,
        sí come l'api sopra belli fiori.

        —Trapassa ratto este contrade fosche
        —disse a me Palla—e non gli far risposta:
  150 basta che l'abbi viste e le conosche.—

        Allora mi partii senza far sosta
        e vieppiú oltre una gente trovai,
        ch'avean la soma in la lor testa posta,

la qual convien che portin sempremai.

p. 148

CAPITOLO XI

Dove si tratta della pena di Sisifo.

        Noi pervenimmo in una gran foresta,
        ove gente trovai, ch'ognuno un sasso
        avea per soma su nella sua testa.

        Per una piaggia insú moveano il passo,
    5 e, giunti al monte, poi scendeano al piano,
        e poi risalian su laggiú da basso.

        Venir ver' noi non molto da lontano
        un'alma carca vidi d'un gigante
        maggior sei volte e piú d'un corpo umano.

   10 Io dissi a lei, quand'io gli fui davante:
        —Dimmi chi se', che porti sí gran soma,
        ch'appena portería un elefante.

        —Sisifo son, che 'l gran poeta noma,
        —disse. E poi giunse:—A voi mortali è posta
   15 soma maggior ch'a me, e piú vi doma.

        E perché meglio intendi mia risposta
        e che tu sappi ben ch'io non agogno,
        a quel, che ora dirò, l'orecchio accosta.

        Il timor della morte e del bisogno,
   20 amor e speme a voi pon maggior pesi,
        che non fa l'enco, quando appare in sogno.—

        E, perché questo dir non ben compresi,
        dissi a Minerva:—O dea, questo sermone
        ben non intendo, se non l'appalesi.—

   25 Ed ella a me:—Quel Signor, che dispone
        e regge il tutto, a chiunque al mondo nasce
        della sua soma sua gravezza pone.
p. 149
        Con pena prima sta dentro alle fasce
        e col sudor di colei che 'l nutríca,
   30 e di colui che poi, vivendo, il pasce.

        Poi che cresciuti son, chi s'affatica
        dietro all'aratro e la terra rivolta,
        ché non produca spine ovver ortica;

        chi con paura e con fatica molta
   35 giunge, cercando il mare, alla vecchiezza,
        sepolto dentro a' pesci alcuna volta;

        chi mercatanta per aver ricchezza,
        e quel, che con fatica egli rauna,
        a chi pervenga nulla n'ha certezza;

   40 et tamen senza sonno e posa alcuna
        la voglia sempre ha fame e mai non s'empie
        ed al piú pasto, piú riman digiuna;

        chi segue Marte e le sue opere empie
        facendo sé centauro biforme,
   45 armato a ferro indosso e nelle tempie;

        chi mangia a posta altrui e vegghia e dorme
        sol per aver il rimorchiato pasto,
        e va subietto dietro all'altrui orme;

        chi, per sanar all'uom il membro guasto,
   50 Ippocrate si fa; e chi legista
        per vender le parole e far contrasto.—

        Quand'ella dicea questo, alzai la vista
        inverso il monte e vidi un'altra gente,
        ch'avea la soma di splendor sofista.

   55 —Chi son color che 'l carco hanno splendente?
        —diss'io a Minerva.—Saria forse quello,
        perché si porti piú leggeramente?—

        Ed ella a me:—Perché 'l peso sia bello,
        non è però che egli sia piú lieve,
   60 né dá a colui, che 'l porta, men flagello;

        ché una libra di penne è tanto greve,
        non piú, né men quant'una libra d'oro
        al dosso che la porta e la riceve.
p. 150
        E se saper tu vuoi chi son coloro,
   65 son quelli, dalli quai si signoreggia,
        e però 'l peso han con sí bel lavoro.

        Come la bestia, che ben somereggia,
        va piú adornata ed ha miglior prebende
        ed è onorata di freno e di streggia;

   70 cosí han quelli il peso che risplende,
        ma sotto quel colore sta nascosto
        la soma greve, che la mente offende.

        Per questo giá gridò Cesare Agosto:
        —Quando sará ch'io scarchi i pesi gravi
   75 del pondo imperial, sopra me posto?—

        Gridò Gregorio che 'l manto e le chiavi
        ed ogni reggimento ha tanto pondo,
        che gli altri sonno a rispetto soavi.

        Ahi! quanti credon su nel mortal mondo
   80 alcun aver in poppa il prosper vento,
        e sé averlo in prora e non secondo!

        Che se colui, il qual credon contento,
        dicesse quant'è afflitta la sua voglia,
        direbbon sé aver minor tormento.

   85 Ahi! quanti son che sguardano alla invoglia
        della gran soma, a cui se lo somiere
        dicesse il suo gran peso e la gran doglia,

        piglierian le lor some volentiere,
        come minori e di piú lieve affanno,
   90 piú atte al loro dosso e piú leggiere!

        Ahi! quanti son che or a basso stanno,
        che 'n terra con la soma caderiéno
        del signorile scettro e primo scanno!

        Quanti son ricchi ed in stato sereno,
   95 che, della povertá portando il peso,
        la forza e la vertú lor verria meno!

        Saul in terra morto andò disteso,
        portando la soma alta e con bei fregi,
        che, stando a basso pria, non era offeso.
p. 151
  100 Chi sta in alto, il basso non dispregi;
        e chi sta al basso ed ha la soma oscura,
        non abbia invidia a prenci ed a gran regi.—

        E poscia ad altri molti io posi cura,
        ch'ognun sopra la soma era premuto
  105 da circumstanti suoi per fargli iniura.

        Udii gridar indarno:—Aiuto! aiuto!—
        con pianti e con sospir; ma la pietade
        ivi era sorda a chi non era muto.

        Ed uno a noi gridò:—Guai a chi cade!
  110 ché, bench'abbia abbondanza di consigli,
        non però trova chi aiutarlo bade.—

        La dea rispose:—O tu, che sí bisbigli,
        perché al caso tuo cordoglio porto,
        t'adiuterò, se 'l mio consiglio pigli.

  115 Se vuoi alla gran soma alcun conforto,
        pensa di quei che portan maggior carchi
        che non hai tu, e portanli piú a torto.

        E guarda ben che l'amor non ti carchi,
        e la spene e 'l timor se ti dán pena,
  120 degno è che sol di te tu ti rammarchi.—

        Poich'ebbe esto consiglio, un'ora appena
        egli era stato, e quivi un fanciul venne
        con bella faccia e di letizia piena.

        Due ali adorne avea di belle penne
  125 piú che paone, ed in mano avea l'arco,
        dal qual Achille giá 'l colpo sostenne.

        Costui gli pose sopra tanto carco,
        mostrando il dolce e celando l'amaro,
        che 'l fece pianger con pianto e rammarco.

  130 Poi venne un altro, che tutto contraro
        era a quel primo in tutte sue fattezze,
        col viso negro quanto il primo chiaro.

        Questo gli pose ancor molte gravezze,
        poi venne innanti a noi una donna anco
  135 col riso in bocca e piena d'allegrezze.
p. 152
        E, benché egli fusse lasso e stanco,
        con altri pesi ancor gli carcò il dosso.
        Allora disse:—Oimè! che vengo manco.—

        Mentre diceva:—Oimè! che piú non posso
  140 portar tante gravezze,—e' cadde in terra,
        fiaccandosi la testa ed anche ogni osso.

        —Io fui da Lucca e detto Forteguerra
        —diss'egli a noi:—a far la grande impresa
        m'indusse spem, che fa che spesso uom erra.

  145 Ella mi fece far la molta spesa
        e posemi l'incarco della parte,
        che sempre a chi n'è capo troppo pesa.

        —Nulla averebbe potuto gravarte
        —diss'io a lui,—se tu alla scorta mia
  150 creduto avessi in tutto ovver in parte.

        Ma, s'e' ti piace, volentier vorria
        che mi contassi le doglie penose,
        che la speranza pone in questa via.—

        Ond'egli, sospirando, mi rispose:
  155 —Sappi che la fallace e vana spene
        principalmente si fonda in due cose.

        O ella aspetta scemarsi le pene,
        ch'ella sostien, o desiando sguarda
        poter avere alcuno amato bene.

  160 Se l'una e l'altra d'este due si tarda,
        ovver che manchi, l'animo tormenta;
        ma affligge molto piú, quand'è bugiarda.

        Benché tante fiate a noi ne menta,
        come hai provato, ancor se gli dá fede:
  165 tanto con le losinghe altrui contenta;

        che 'l miser'uomo sempre ratto crede
        quel che desia; ma quel, ch'egli ha 'n temenza,
        non crede si rimova, se nol vede.—

Poi piú non disse; e femmo indi partenza.

p. 153

CAPITOLO XII

Dove l'autore parla di Flegias e della pena, che cagiona il timore.

        Dietro a Minerva cento passi o quasi
        su salsi un monte e pervenni alla cima
        a veder quei che temon tutti i casi.

        Lí era un piano, e, quando mirai prima,
    5 vidi una strada insino all'altra sponda
        lunga due miglia, quanto alla mia stima,

        ch'era diamètro nella valle tonda:
        quivi saper può bene il geomètra
        quanto quel piano intorno a sé circonda.

   10 Ne' semicerchi della valle tetra
        anime vidi di fuor della strada,
        la qual lastreco avea di nera pietra.

        Ed ognuna dell'alme in alto bada
        un grande sasso, che cader minaccia
   15 tanto, che par che tosto in capo cada.

        Per questo alzata insú tengon la faccia,
        temendo che non cada con ruina
        il sasso a lor in testa e che gli sfaccia.

        Ahi, quanto punge del timor la spina!
   20 e quanto affligge il core il mal futuro,
        che l'uomo aspetta e quasi lo indovina!

        Pensa, lettor, se stessi sotto un muro,
        che fosse per cadere, o sotto un tetto,
        e se 'l dovervi stare fosse duro!

   25 Pensa se avessi un uom incontra 'l petto
        coll'arco teso e fuggir non potessi,
        ed ei dicesse:—Tosto ti saetto!—
p. 154
        Cosí han questi, di paura oppressi,
        gli archi di contra e però stan tremanti
   30 che sassi e dardi non percuota ad essi.

        Per dar lor piú timor, al volto innanti
        discorrono i Mal sogni e 'l Mal presaggio,
        l'upupa, il gufo e 'l corvo con lor canti.

        Su per la strada era il nostro viaggio,
   35 e trovai Fleias ch'era qui il primaio
        del gran timor con pallido visaggio.

        —O Fleias,—dissi io,—che a tanto guaio
        se' posto qui e tremi vieppiú forte
        che 'l vecchio can nel freddo di gennaio,

   40 Apollo ha posto te a cotal sorte
        per tua superbia e di te fa vendetta,
        che 'n sempiterno questo tremor porte.

        Assai è minor pena a chi suspetta
        solo in un punto ricever il duolo,
   45 che sempre temer l'arco e la saetta;

        ché 'l timor seco mena grande stuolo
        d'assalitori, ed ognuno il cor punge:
        adunque è meglio aver un colpo solo.

        Per darti piú timore ancor s'aggiunge
   50 all'arco il sasso, e temi che non caggia
        e non ti fiacchi il capo, quando giunge.

        —Nel mondo, ove tu sal' di piaggia in piaggia
        —rispose,—proverai simil doglienza,
        se vi pervieni colla scorta saggia.

   55 Lí vederai tu il don di provvidenza
        farsi una lima che se stessa rode,
        di mille casi avversi c'ha 'n temenza.

        E vedrai le ricchezze non far prode:
        tanto di povertá il timore affligge,
   60 che 'l possessor di lor lieto non gode.

        Che giova all'uom la vita, se l'effigge
        dell'orribile morte ognor l'accora
        e sempre di paura lo trafigge?
p. 155
        L'affaticato cibo, che ristora,
   65 mentre si mangia, infermitá e sospiri
        menaccia al proprio corpo, che 'l divora.

        Se suso inverso il ciel ancor tu miri,
        menaccia a te il Giudice di sopra,
        se gli fai cosa, per la qual s'adiri.

   70 La terra, che convien che ancora il copra,
        e giú l'interno ancor gli fa paura,
        sí come punitor di sua mal'opra.

        Se a destro ed a sinistro si pon cura,
        vede che ogni vizio quivi offende,
   75 e teme a' suoi coniunti ogni sciagura.—

        Ahi quanto di vergogna il viso accende,
        quando alcun riprendente è poi ripreso
        di quel medesmo, del qual e' riprende!

        Cosí io feci, quando l'ebbi inteso;
   80 e però dissi:—Prego mi perdoni,
        se, Fleias, col mio dir t'avessi offeso.

        —O tu, ch'andi la strada e che ragioni
        e dietro a dea Minerva movi i passi,
        vedendo d'esto inferno le magioni:

   85 —cosí gridò un de' miseri lassi
        e poi subiunse:—io prego che tu torche
        verso me il viso, innanti che tu passi.—

        Io mi voltai e vidi un su le forche
        col capo chino tanto, che le guancia
   90 a lui toccava quasi una dell'orche.

        —Morte e paura io posi in la bilancia
        —subiunse,—e poi la morte col capestro
        elessi a me per men pungente lancia.

        Troppo temendo in me il caso sinestro,
   95 me stesso uccisi: io son Architofelle,
        che fui nel consigliar sí gran maestro.

        Meco sta qui Saúl, re d'Israelle,
        e quei roman, che sol timor gli strinse
        e non vertú a spogliarsi la pelle.—
p. 156
  100 Alquanto inver' di lui li passi pinse
        sol per parlarli; ma la dea non volle
        ch'io parlassi a colui, che sé estinse;

        ché, se fortuna il ben temporal tolle,
        non lieva però mai d'alcun la spene,
  105 s'egli da se medesmo non è folle.

        —Tu vederai, se tu ammiri bene,
        non tremar nullo, ch'abbia sé ucciso:
        risguarda, ed io dirò onde ciò viene.—

        Però io riguardai con l'occhio fiso;
  110 poi, vòlto a lei, diss'io:—Perché non trema
        qualunque dalla vita ha sé diviso?—

        Ed ella a me:—Quando la spen si scema
        tanto in alcun, che niente rimane,
        colui non ha amor, né anco téma;

  115 ché le paure e l'allegrezze umane
        procedon da speranza e dall'amore,
        che porta l'uomo a vostre cose vane.

        Però, se tutto, amor e spene, more,
        mor la letizia, che da lor procede,
  120 e la paura, e sol ha poi il dolore.

        Il qual il disperato fuggir crede,
        fuggendo sé, e uccide allor se stesso
        con crudeltá, credendo far mercede.

        E, se speranza non avesse appresso
  125 il fren d'alcun timor, cresceria tanto,
        che faria stolto per lo troppo eccesso.

        Cosí il timor, se seco non ha accanto
        dolcezza di speranza, tanto teme
        e tanto vien in doglia ed in gran pianto,

  130 che nol sostiene e sé di morte oppreme;
        ch'ogni timor all'uomo è sí a noia,
        che piú tosto vuol morte che lui inseme.

        Nulla allegrezza e nulla cara gioia
        è tanto dolce, che rispetto a quella
  135 non sia piú amaro all'uom temer che moia.
p. 157
        E tu sai ben che l'Etica favella
        che 'l timor troppo nullo portar puote:
        tanto la mente e l'animo flagella.

        E da qui il timor van, se tu ben note,
  140 in mille modi il suo balestro scocca
        nel mondo all'uom e l'animo percuote;

        tanto che giá come presente tocca
        quel che non è e forse fia niente,
        e giá piangere fa la mente sciocca.

  145 Se a questo e a quel ch'io dissi ben pon' mente,
        nulla pena è maggior che star in forse
        di quel che spiace e che pò far dolente.

        Ognun ch'al van timor ben si soccorse,
        spregia la morte e sol teme il Monarca,
  150 che 'l tempo breve e la vita ne porse:

cosí senza timor secur si varca.—

p. 158

CAPITOLO XIII

Come l'autore vede la Fortuna.

        Per l'aspero cammin di quella valle
        eravamo iti, al mio parer, un miglio,
        lasciando il van timor dietro alle spalle,

        quando per veder meglio alzai lo ciglio
    5 e dalla lunga la Fortuna io vide
        mirabil sí, ch'ancor me 'n maraviglio.

        Minerva a me:—Se ti losinga o ride,
        e s'ella mostra a te il viso giocondo,
        fa' ch'allor ben ti guardi e non ti fide.

   10 Quella è che molti inganna in questo mondo
        col rider suo e spesso alcun inalza
        per abbassarlo e farlo ire al fondo.

        Guarda la faccia sua quant'ella è falza
        e che di chiara in torba la trasmuta,
   15 quando da alto alcuno in terra sbalza.—

        Quando da presso poi l'ebbi veduta,
        conobbi quant'è grande quella donna,
        quant'è sinistra e quanto alcuno adiuta.

        Era maggior che non fu mai colonna,
   20 e sol dinanti avea capelli in testa,
        e d'oro fin dinanti avea la gonna.

        Ma dietro calva, e dietro avea la vesta
        tutta stracciata, ed era di quel panno,
        che vedoa porta in dosso, quando è mesta.

   25 Ghignando con un riso pien d'inganno,
        volgea con una man sette gran rote,
        che come spere in questo mondo stanno.
p. 159
        La quarta er'alta insino onde percote
        con le saette Iove, ove il vapore,
   30 dal gel costretto, da sé l'acqua scuote.

        La terza d'ogni lato era minore,
        e le seconde poi minor che quelle;
        e minime eran poi quelle di fuore.

        Nella metá le ruote paralelle,
   35 dico nella metá, ch'alla 'nsú monta,
        erano orate e preziose e belle.

        Ma l'altra parte, quando su è gionta,
        giú vien calando a quella donna dietro;
        quanto piú cala, piú del mal s'impronta

   40 e fassi oscura; e da quel lato tetro
        descender vidi molti a capo basso
        con gran lamento e doloroso metro.

        Poiché caduti son con gran fracasso,
        ogni amico li fugge e li dispregia:
   45 chi li sospinge e chi lor dá del sasso.

        Ma alli salenti dalla parte egregia
        ognun si mostra amico ne' sembianti:
        chi li losinga e chi di loda 'i fregia.

        Come da due nel carro triunfanti
   50 mescolato era il dolce con l'amaro,
        usando inver' di lor contrari canti,

        cosí su ad alto e giuso due cantâro
        nel colmo delle rote e due di sotto,
        un d'allegrezza e l'altro del contraro.

   55 La dea Minerva giá m'avea condotto
        sino alla donna, che voltava il giro:
        allor parlò, che pria non facea motto.

        E disse:—Io, che a basso e ad alto tiro
        le sette rote, son la dea Fortuna
   60 e solo a quei dinanti lieta miro.

        Nullo su ad alto aggia fermezza alcuna
        in me di securtá ovver fidanza,
        ch'io mostro faccia chiara, e quando bruna.
p. 160
        E nullo a basso perda la speranza
   65 tutta di me, ché spesso io son la scala
        di poner in ricchezza e gran possanza.

        Ma vegga ben ognun, anzi ch'e' sala,
        che non si lagni poi, né faccia grido,
        se 'l mando a quella parte che 'ngiú cala;

   70 ché, quando si lamenta, ed io mi rido;
        e se me chiama cruda, ed io lui pazzo,
        che 'n tanta sicurtá faceva il nido.

        E questo è 'l gioco mio e 'l mio solazzo,
        atterrar quel dalla parte suprema,
   75 ed esaltare un vestito di lazzo.

        Se falsa alcun mi chiama e mi biastema,
        io non me 'n curo, e lamentevol voce
        dell'allegrezze mie niente scema.—

        Io riguardai la rota piú veloce,
   80 di cui il cerchio quasi terra tocca;
        e lí stava uno a gran tormento e croce.

        E quando sotto va l'anima sciocca,
        tra 'l duro suolo e la rota s'accoglie,
        e gli strascina il ventre giú e la bocca.

   85 —Colui che su e giú ha tante doglie,
        è Ission ed ha tal penitenza,
        ché volle a Iove giá toglier la moglie;

        ché la sposa di Dio sua Provvidenza
        procacciò di veder col suo intelletto,
   90 sí come vano colla sua scienza.

        Saper si puote bene alcuno effetto,
        quand'è futuro, nella sua cagione,
        come puoi nella Fisica aver letto.

        Ma quel che vuol Fortuna e Dio dispone,
   95 se Dio non lo rivela, mai si vede
        da intelletto creato o per ragione.

        Or mira quel che su nel colmo siede
        del terzo cerchio e piú salir non pò,
        che cosí ride e securo esser crede.
p. 161
  100 Quegli è il milanese Barnabò;
        ma tosto mostrerá Fortuna il gioco,
        com'ella sòle e s'apparecchia mò.

        L'altro, che sale dietro a lui un poco,
        è suo nipote, il qual del reggimento
  105 il caccerá e sederá in suo loco.

        E quanto ad una cifra cresce il cento,
        cotanto accrescerá il biscion lombardo
        e di Toscana fie in parte contento;

        se non che 'l giglio roscio, c'ha lo sguardo
  110 sempre a sua libertá, contro lui opposto
        fará che 'l suo pensier verrá bugiardo.

        Nella seconda rota in cima è posto
        Cola Renzo tribuno, ed è salito
        nel colmo, ond'altra volta fu deposto.

  115 Ma stato è troppo folle e troppo ardito,
        c'ha presa la milizia su nel sangue
        de' principi roman tanto gradito,

        per che Colonna ed altri ancor ne langue;
        ma tosto Roma a lui trarrá il veleno,
  120 c'ha nella lingua il malizioso angue.

        Nel primo cerchio, che si volge meno,
        stanno li duci che si mutan spesso:
        però da ogni parte n'è sí pieno.

        E quel, che sale al sommo ed è sí presso,
  125 tre volte a quella ruota gira intorno,
        e su e giú tre volte será messo.

        Egli è chiamato Antoniotto Adorno:
        Genova bella, nella quale è nato,
        metterá ne' malanni e nel mal giorno.

  130 Nel quinto cerchio lá dall'altro lato
        regina sta magnifica Ioanna
        col capo di Sicilia incoronato.

        Ma la Fortuna, che ridendo inganna,
        mostrerá a lei ed a quel che sal poi,
  135 che chi in lei fida, sta in baston di canna.
p. 162
        Del sesto cerchio se tu saper vuoi,
        lí sonno posti i novelli Caini,
        consumatori de' fratelli suoi,

        quei Della Scala spiatati Mastini
  140 e piú crudeli che rabbioso cane;
        ma tosto abbasso calaranno chini.

        Dall'altra rota, che di lí rimane,
        Ioanni dell'Agnello fará il salto,
        mutando il fasto e le sembianze vane.

  145 E proverá quant'è duro lo smalto
        del suol di Lucca, quando la percossa
        egli averá, cadendo su da alto.

        Romperagli quel caso l'anche e l'ossa;
        ed in un punto le terre, ch'egli ha,
  150 e Pisa del suo iugo sará scossa;

ed ei saprá s'è duro: e ben gli sta.

p. 163

CAPITOLO XIV

Dove trattasi della pena, che dá l'Amore, quando ha il vero fondamento.

        Poscia salendo un monte ruinoso,
        noi ci partimmo ed, in un pian saliti,
        trovammo altro martír molto penoso.

        Uomin vedemmo insieme molto uniti,
    5 come di molti corpi un si facesse;
        ma i volti eran distinti e dispartiti.

        Pensa, lettore, un mostro che avesse
        un grande busto, e, bench'egli foss'uno,
        un collo molti capi contenesse.

   10 Vero è che lor color o bianco o bruno
        e lor gionture e lor lineamenti
        aperti si parean in ciascheduno.

        Lí stan dimoni e con spade taglienti
        dividon quelli, e, quando alcun si parte,
   15 li capi piangon tutti e son dolenti.

        Non credo che spargesse giammai Marte
        cotanto sangue; né fo mai battaglia
        di tai ferite, né si legge in carte.

        Non vale qui lo scudo ovver la maglia;
   20 ché la iustizia dá le gran percosse,
        ed ei fatt'han le spade, che li taglia.

        Vidi un dimonio, che irato si mosse
        ed un recise intorno in ogni canto,
        sí ch'e' rimase come un fusto fosse.

   25 Un capo sol rimase e con gran pianto
        a me si volse e disse:—O tu, che mena
        seco Minerva, a me risguarda alquanto.
p. 164
        Vedi l'amor quanto a noi torna in pena
        E tanto affliggon piú le parentele,
   30 quanto pria strinson con maggior catena.

        Ahi, quanto a' vivi torna amaro il mèle
        del dolce amor de' figli e de' congiunti,
        quando gli uccide la morte crudele!

        Diece figliuoli in salda etade giunti,
   35 nove nepoti ebb'io ed un fratello,
        e poi li vidi in un mese defunti.

        Com'io, che 'n questo inferno ti favello,
        intorno intorno son cosí tagliato
        e, perché troppo amai, ho tal flagello;

   40 cosí interviene all'uom, quando l'amato
        figlio o fratel gli è tolto, e piú tormenta,
        quanto piú forte è coniunto e legato.

        La casa, onde fui io, è tutta spenta;
        fui da Perugia, di santo Ercolano,
   45 e de' Vencioli la prima somenta.—

        Per la piatá ingavicchiai la mano,
        e volea dar risposta a sue parole;
        ma e' sparío sí come un corpo vano.

        Ond'io dissi alla dea:—Se tanto duole
   50 la cosa amata, quand'altrui si toglie,
        ben è stolto colui ch'ama e ben vuole.

        Se non voglio d'amor sentir le doglie,
        non posso avere al cor migliore scudo,
        se non che d'ogni amore mi dispoglie.

   55 E, se questo facessi, saría crudo;
        ché, se non amo le persone note,
        sarei di caritá e di piatá nudo.

        Né anco il posso far, ché mal si pote
        ben rifrenar a che natura inclina:
   60 tanto a quel corso son le cose mote.

        —Tra tutte l'altre cose la piú fina
        —disse Minerva a me—è 'l dolce amore,
        se dal ver fundamento non declina.
p. 165
        Ma, se nel fundamento sta l'errore,
   65 quanto piú l'edifizio cresce o sale,
        tanto fa piú ruina e duol maggiore.

        Fundamento è che quanto alcun ben vale,
        tanto si stimi e tanto amore accenda,
        quant'egli ha di bontá e men di male.

   70 E, s'egli è ben che d'altro ben dependa,
        non s'ami quasi per sé esistente,
        se vuoi che, quando è tolto, non t'offenda.

        Fundamento è che quel, ch'è dipendente,
        non s'ami come fermo e per sé stante,
   75 ch'ei da se sol non ha essere niente;

        ché 'l Creator le cose tutte quante
        fe' di niente, e, s'egli le lassasse,
        niente tornerian come che innante.

        Adunque come il servo, che estimasse
   80 essere sue le cose del signorso
        e come proprie sue cosí le amasse,

        se poi gli fusson tolte, saría morso
        di gran dolore ed avería li duoli
        per quell'error, nel qual è in prima corso;

   85 cosí fanno li padri de' figliuoli,
        e de' coniunti li mondani stolti,
        che gli estimano stanti e per se soli.

        E 'l giusto Iobbe de' figliuoli adolti,
        quando fûr morti, fe' questa risposta:
   90 —Dio me gli diede e Dio me gli ha ritolti.—

        Tu mi dicesti nella tua proposta:
        —A nullo, amando, voglio avere affetto,
        dacché, perduto, tanto amaro costa.—

        Io dico ch'abbi amor, ma sia perfetto
   95 e temperato sí, che, se 'l divide
        o Dio od altro, non t'affligga il petto.—

        Ed io a lei:—Maestra, che mi guide,
        dimostra a me ancora un altro vero,
        ch'è sí oscur, che mai mia mente il vide.
p. 166
  100 Tu di' che volontá ha 'l summo impero
        di nostra barca e che regge il timone
        di tutti i sensi e 'l carnal desidèro.

        S'egli è cosí, or dimmi qual cagione
        piú volte vince questa volontade,
  105 che non pò far quel che vuol la ragione,

        che par contrario alla sua nobiltade,
        poiché libero arbitrio gli è concesso,
        sí che 'l sí e 'l no sia in sua libertade.

        Io so d'alcun c'ha 'l piede in amor messo
  110 e non ha forza a poterlo ritrare:
        tanto Amor puote e vince per eccesso.

        Ben so che ogni cosa debbo amare
        in quanto è buona, e solo in Dio è buona;
        e, benché 'l sappia, io non lo posso fare.—

  115 Ed ella a me:—Vostra natura è prona
        agl'impeti de' sensi, e, se v'indura
        per molta usanza e troppo s'abbandona,

        allora l'uso converte natura,
        sí che ragion non può guidare il freno
  120 del desiderio bene a dirittura.

        Di diecemila uno ed ancor meno
        si trova, che co' sensi non s'accorde
        in tutto o in parte col voler terreno.

        L'amor vi può legar con quattro corde:
  125 la prima è di Cupido la gran fiamma,
        l'altra è di cupidigia e voglie ingorde,

        poi de coniunti, figli, padre e mamma,
        e 'l quarto amor d'amici ed è sí poco,
        quanto rispetto a mille è una dramma.

  130 Or sappi di Cupido che 'l gran foco
        e l'amor de' coniunti tanto lega
        e l'amor della borsa e d'ampio loco,

        ch'è molto forte che ragion il rega,
        se gran virtú non rompe il gran legame,
  135 che tanto forte inver' l'amato piega.
p. 167
        E, benché Dio ne dica ch'ognun l'ame,
        ciascuna d'este fun sí forte tiene,
        ch'a lui non lascia ir, benché vi chiame.

        E perciò nel Vangelio si contiene
  140 che amiate Dio col core e colla forza,
        sí come il primo e piú sovrano bene.

        E, se avvien ch'altro amore vi torza,
        rompete quella fun, ch'altrove tira
        colla vertú, che giammai non s'ammorza.

  145 Siate come Sanson, commosso ad ira,
        quando li fe' la moglie il grave laccio,
        cioè l'amor carnal, a chi ben mira.

        E cosí, Dio amando senza impaccio,
        colla virtú che sta nelli capelli
  150 e non sta nella carne ovver nel braccio,

d'amor carnal non si senton fragelli.—

p. 168

CAPITOLO XV

Come l'autore riconosce la cittá di Dite in questo mondo, e quindi trova Circe, la quale trasmuta gli uomini.

        Nel terzo regno su per quella piaggia
        noi devenimmo, ed, alzando le ciglia,
        sí come piacque alla mia scorta saggia,

        vidi di Dite la cittá vermiglia,
    5 di mille miglia intorno, ed in figura
        a Dite dell'inferno s'assomiglia.

        Di ferro ardente avea le grandi mura,
        a ogni cento piè avea una torre,
        con guardian, che mi facea paura.

   10 Attorno delle mura un fiume corre,
        ardente piú che non è il fuso rame,
        quando in campana per canal trascorre.

        Bolliva piú assai che 'l Bollicame,
        e, perché ferve, però Flegetonte
   15 il suo vocabol convien che si chiame.

        Dalla ripa alla porta era per ponte
        attraversato e steso un sottil filo,
        pel qual chi in Dite va, convien che monte.

        Non fe' sí sottil riga giammai stilo,
   20 né filò sí sottil giammai aragna,
        com'è la via che mena in quell'asilo.

        Su per quel fil sottil la mia compagna
        prima si mosse, e, poiché un passo diede,
        disse che andassi dietro a sue calcagna.

   25 Io non andai, ma tenni fermo il piede,
        dicendo a lei:—Non verrò, perché temo,
        ché non son io legger quanto tu crede.—
p. 169
        Cosí, standomi fermo su l'estremo
        di quella ripa, dicea:—Non verraggio,
   30 se noi per altra via non anderemo.—

        Palla, per rifrancare a me il coraggio,
        tre volte lá e qua 'l filo trascorse,
        come colui ch'assecura il viaggio.

        E, poiché la sua man alla mia porse,
   35 resposi:—Io vegno, da che piú ti piace;
        ma forte temo e del cader so' in forse.—

        Su per lo fil piú sottil che bambace
        io passai Flegetonte e sua mal'onda,
        ch'ardea di sotto piú che una fornace.

   40 Quando giunse Minerva all'altra sponda,
        ella chiamò come chi chiama forte
        un che sia lunge e vòl che gli risponda.

        E disse:—Aprite a noi queste gran porte,
        ché siam discesi nel maligno piano
   45 per veder Pluto, il tempio e la sua corte.—

        Risposto fu:—Il vostro passo è vano:
        nullo entrar puote, s'e' non porta seco
        o presente o denar nella sua mano.—

        La dea subiunse:—Me' che denar reco:
   50 però apri a noi tosto, o portinaio,
        a me ed a costui, il qual è meco.—

        Mamon, che tra coloro era il primaio,
        la gran porta di Dite in fretta aperse,
        ratto ch'udí nominar il denaio.

   55 Ma, quando vide poi che nulla offerse,
        con grande sdegno ne guardò in tortoni,
        e poscia irato este parol proferse:

        —Or dimmi dove son questi gran doni,
        che di' ch'arrechi, o donna, e ch'a noi porti,
   60 che piú che li denar di' che son buoni.

        Ma entrasi cosí nelle gran corti?
        Uscite fuora e ritornate addietro
        tu e costui, a cui ha' i passi scorti.
p. 170
        —Da tal Signor il mio andar impetro
   65 —disse Minerva,—ch'io non ho temenza,
        quantunque mostri a noi il volto tetro.

        E 'l don, che reco meco, è la scienza,
        che non si perde mai quand'io la insegno:
        però piú che null'oro è di eccellenza.

   70 Palla son io, che a questo loco vegno,
        e son dell'arme, d'arti e di scolari
        prima maestra e forma d'ogni ingegno.—

        Mamon rispose:—Chiunque vuol, impari,
        ché la scienza qui non è di pregio,
   75 e nulla vale a rispetto ai denari.

        Ma, se veder volete il gran collegio
        del nostro Pluto, andate alla man destra,
        e 'l mio consiglio non abbiate a spregio.—

        Minerva a lui:—Ognun male ammaestra,
   80 se pria no' impara; e mal guida saría
        chiunque non sa il cammin, pel quale addestra.—

        Cosí dicendo, non prese la via,
        ch'egli avea detto, ma salí s'un'erta,
        che ben due miglia d'un monte pendía.

   85 Nell'altra valle selvaggia e deserta
        Circe trovai, la maladetta maga,
        che fa che l'uomo in bestia si converta.

        Con gli occhi putti e con la faccia vaga
        losinga altrui e con ridente grifo,
   90 acciò che l'alme a sue malíe attraga.

        Nella sinistra man tenea un cifo,
        il qual empiè di sí brutto veneno,
        che ancor, pensando, me ne viene schifo.

        Io vidi un uomo, a cui lo porse pieno,
   95 diavolo farsi, quand'ella gliel diede,
        a membro a membro e l'uman venir meno.

        In piè di cigno in prima mutò il piede
        e poi le gambe, e poi d'un babbuino
        mise la coda e 'l membro ove si siede.
p. 171
  100 Il ventre fe' squamoso e serpentino,
        e negro il petto piú che gelso mézzo,
        le man pelose e l'ugne quasi uncino.

        Mentre si trasmutava a pezzo a pezzo,
        mise due ali assai piú ner che corvo;
  105 cornuto il capo e 'l viso fe' d'un ghezzo.

        La bocca fe' d'un porco, il naso córvo:
        cosí dimon si fece a poco a poco
        cogli occhi rosci e collo sguardo torvo.

        Per tutti i nove fòr gittava foco;
  110 ma nella bocca egli era acceso piue
        che una fiamma, in che soffiasse coco.

        Mentr'i' ammirava, ancor ne vidi due
        del maladetto cifo abbeverarne;
        e l'un diventò lupo, e l'altro bue.

  115 Io vidi molti poscia trasmutarne
        in cani e volpi ed in leoni ed orsi,
        e draghi farsi dall'umana carne.

        Per tutti i lochi, ch'io avea trascorsi,
        non stetti cosa a veder tanto vaga
  120 quanto che questa, quand'io me n'accorsi.

        —Ahi, gente fatta alla divina imago
        —disse Minerva,—perché 'n te trasmuti
        la bella effigie in lupo ovver in drago?

        Perché visson giá questi come bruti,
  125 a lor Iustizia questa pena rende,
        che li sembianti umani abbian perduti;

        ché non è uom, se 'l vizio tanto apprende,
        che non conosce il male e non ha pena
        e non vergogna e téma, quando offende;

  130 ché Dio ha posta in voi luce serena,
        che fa che il mal da prima si conosca,
        e vergogna e timor dá, che 'l raffrena.

        Ma, quando alcun tanto il peccato attosca,
        che non vergogna e che non ha timore,
  135 segno è che quella luce in lui è fosca.
p. 172
        E questo mena poi in piú errore,
        ch'e' piace a se medesmo quando pecca,
        e del mal suo s'allegra e dell'angore.

        Ogni bontá umana allor è secca,
  140 che loda il vizio per virtude vera,
        e piacegli chi uccide, robba e mecca.

        E, se in tal vizio indura e persevèra,
        allora 'n lui 'l peccar si fa necesse,
        e di emendarsi al tutto si dispera.

  145 Sappi anco che non toglie l'uman esse
        il male, al qual fragilitá conduce,
        né da ignoranza le colpe commesse;

        ché tutta non oscuran quella luce,
        che Dio ha posto in voi, della ragione,
  150 che téma, duolo e vergogna produce.

        Quel che vedesti, che si fe' demòne
        e fe' l'aspetto tanto brutto e rio,
        fu spoletino e detto Servagnone:

        ladro, assassin, biastimator di Dio
  155 e dispettoso d'ogni cosa bona
        e nemico ad ogni atto onesto e pio.

        L'altro s'assomigliò a Licaona,
        il terzo al mostro posto nel Labrinto,
        che uomo e toro fu 'n una persona.

  160 Né l'un né l'altro ben era distinto:
        or puoi saper di lor qual fu il peccato,
        che 'n lor l'aspetto umano ha tutto estinto,

e perché 'n bestia ciascuno è mutato.—

p. 173

CAPITOLO XVI

Delle tre Furie infernali e delli tradimenti mondani.

        Nullo, se non Iddio, conosce il cuore,
        e vede ogni palese ed ogni occolto;
        ma l'uom pò iudicar sol quel di fòre.

        Però chi estima altrui secondo il volto
    5 ovver nell'apparenza che fuor vede,
        spesse volte gli avvien ch'egli erra molto.

        E per questo intervien ch'è poca fede
        e che gli antichi ed ognun ch'è ben saggio,
        si guarda piú, e meno ad altri crede.

   10 Io era ancor nel loco che detto aggio,
        ove sta Circe nella valle trista,
        che 'n bestia sa mutar l'uman visaggio.

        Lí era gente piú piacente in vista
        che nullo albergator nel proprio albergo
   15 o mala putta di losinghe artista.

        E mentre dietro a dea Minerva pergo,
        ella mi disse:—Fa' che qui ti guardi,
        e fa' che sempre tu mi venghi a tergo.

        Se tu per mezzo del mio scudo sguardi,
   20 tu vederai pel mio cristallin vetro
        i cor di tutti questi esser bugiardi.—

        Onde, sguardando ed a lei stando dietro,
        io vidi ciò ch'a me prima era oscuro;
        e forte mi fia a dirlo in questo metro.

   25 Per queste rime mie, lettor, ti giuro
        che alcun di quelli dentro era un serpente
        e nella vista fuor pareva uom puro.
p. 174
        Ed alcun altro, quando posi mente,
        di fuor pareva pur un sant'Antonio
   30 e dentro un lupo rapace e mordente.

        Agnol di fòre, e dentro era un demonio
        alcun di quei, quando li vedea nudi:
        se dico il ver, Dio mi sia testimonio.

        —O sacra dea, che tanto ben mi scudi
   35 —diss'io a lei:—oh quanto tradimento!
        quanti Gani stan qui e quanti Iudi!

        Sí come ad Amasa giá prese il mento
        Ioab e disse a lui:—Salve, fratello!—
        mentre l'uccise con pena e tormento;

   40 cosí sotto al sembiante blando e bello
        molti di questi nascondon l'inganno,
        che portan dentro al cor malvagio e fello.—

        Ed ella a me:—Quando risurgeranno
        questi cotal dalla falsa apparenza,
   45 la vista, che han dentro, prenderanno;

        ché Dio ha dato lor questa sentenza,
        che forma umana da lor non si pigli,
        da che han mutata in bestia lor semenza.

        Or mira in alto ed alza su li cigli.—
   50 Ond'io li alzai e vidi le tre Furie
        col volto irato e cogli occhi vermigli.

        Figura avean di donna, a cui iniurie
        un'altra donna pel tolto marito,
        quando si turba che con lei lussurie.

   55 Col viso irato, crudele ed ardito
        strigneano i denti e strabuzzavan gli occhi
        inverso me, menacciando col dito.

        —Regina mia—diss'io,—or non adocchi
        che di paura io vengo tutto manco
   60 e tremanmi le gambe e li ginocchi?—

        Ed ella a me:—Sta' forte e col cor franco,
        e non temer niente i lor fragelli,
        mentre hai lo scudo mio e staimi a fianco.
p. 175
        Quella che di scorzoni ha li capelli,
   65 Megera ha nome, crudeltá dell'ira:
        vedi c'ha tutti i peli a serpentelli.

        Aletto è l'altra, che 'n torton ti mira,
        che ha tanti serpi d'intorno alle tempie,
        e nasce di colei ch'al ben sospira.

   70 L'altra, c'ha le sembianze tanto scempie,
        è quella falsa crudeltá, che nacque
        del mostro che di cibo mai non s'empie.

        Ella gridò, ch'al mio parer gli spiacque
        ch'io dicessi:—Cosí venne Medusa
   75 per l'amor di colui che regge l'acque.

        Tesifone, costui a faccia chiusa
        vedrá il Gorgon: or t'è venuto in fallo
        che 'l faccia pietra, sí come e' far usa.—

        Per mezzo del mio scudo del cristallo
   80 vedrai quel mostro, ed io a viso nudo
        veder nol curo; ed ella il perché sallo.—

        Io stavo a prova ben dietro allo scudo,
        quando apparve Medusa, il crudel mostro,
        superbo, orrendo, dispettoso e crudo;

   85 e sopra quelli di quel tristo chiostro
        sol con lo sguardo un tal veneno asperse,
        ch'era piú ner che non fu mai inchiostro.

        Allor tutti pigliôn forme diverse
        dentro alla mente, e secondo le colpe
   90 cotal figure avean nel cor submerse.

        Alcun si fe' leon ed alcun volpe,
        alcun dimonio, alcun lupo rapace;
        ma tutti avían di fuore umane polpe.

        —O sacra dea, chi è colui che pace
   95 mostra nel volto e par soave e piano,
        e dentro al cor come un diavol giace?—

        Ed ella a me:—È Iacopo d'Appiano.
        Molti son qui de' traditor di Pisa;
        ma egli sopra tutti è il piú sovrano.
p. 176
  100 'Nanti che fusse l'anima divisa
        dal corpo suo, tal era nel pensiero;
        però è trasmutato in questa guisa.

        Egli tradí il nobil messer Piero
        de' Gambacorti e fe' dei figli preda,
  105 mentre a lor si mostrava amico vero.

        E lasciò dopo lui l'avaro ereda
        colui che fe' la bella Pisa schiava
        e per dinar la die', che si posseda.

        E quel secondo, in cui tossico e bava
  110 sparse Medusa e venenolli il petto,
        e c'ha la mente dentro tanto prava,

        fu re di Cipri, chiamato Iacchetto.
        Al suo fratel maggior diede la morte,
        mentre a riposo giaceva nel letto,

  115 cioè al re Pietro magnanimo e forte,
        che 'n Alessandria giá mise la 'nsegna
        dentr'alla piazza e vinse le sue porte.

        Quel terzo, c'ha la faccia sí benegna
        e dentro è tutto quanto serpentino
  120 e c'ha la mente di venen sí pregna,

        fu Della Scala e fu crudel Mastino.
        Il suo fratel maggior uccise pria
        e poi fu del minor ancor Caino.

        Morto il primaio, ed ei sen fuggí via
  125 per la paura, ed allor di Verona
        l'altro fratel pigliò la signoria.

        Mandò pel fratricida e a lui perdona;
        e tanto amore inver' di lui accese,
        che la bacchetta signoril li dona.

  130 Costui il donator ligato prese
        e stretto el fece mettere in prigione:
        cosí fu grato a chi fu a lui cortese.

        E poi 'n quell'ora ch'ognun si dispone
        in su l'estremo, e contrito e confesso
  135 si rende a Dio con gran divozione,
p. 177
        costui mandò il dispiatato messo,
        e fe' mozzare al suo fratel la testa,
        e di vederla contentò se stesso.

        Or fu mai crudeltá maggior che questa?
  140 Non quella ch'a Tieste fece Atreo,
        quando i figli mangiar gli die' per festa;

        non quella di Nettunno e di Teseo;
        ch'ognun di questi, a chi ponesse cura,
        iniuria il fece cosí esser reo.

  145 Ma costui non offesa, non iniura,
        non la cagion, per che fu morto Remo,
        che pria bagnò di sangue l'alte mura.

        Ma sol si fece d'ogni piatá scemo,
        ché dopo lui 'l fratello non regnasse:
  150 per questo il fe' morir su nell'estremo.

        O doppio fratricida, se tu lasse
        la doppia prole, il tuo paterno esempio
        degno è ch'ancor da lor si seguitasse;

        ché l'uno uccise l'altro crudo ed empio,
  155 e della Scala fu l'ultima feccia,
        che sen fuggí del veronese tempio

dietro a colei che solo in fronte ha treccia.

p. 178

CAPITOLO XVII

Come l'autore vede il tempio di Plutone.

        Continuando per la gran foresta
        io vidi il tempio di Pluton da cesso,
        presso ad un'acqua, che avea gran tempesta.

        E, quando giunto fui insino ad esso,
    5 vidi ch'era fundato in sulla rena
        di quel gran fiume, che li corre appresso.

        Io forte ammiraria che non sel mena
        quel gran torrente: tanto forte corre,
        quando tra' vento e quando egli è 'n gran piena,

   10 non fusse che quel tempio ha una torre,
        che su la pietra viva sta fundata:
        però quell'acqua non la pò via tôrre.

        Quando Minerva fu in sull'intrata,
        mi die' la mano; e, quando dentro fummo,
   15 ratto dal portinar fu domandata:

        —O voi ch'entrate qui, adorate il Nummo?—
        La dea rispose:—Certo adoro Deo;
        ché fuor di lui ogni altra cosa è fummo.—

        Similemente anche risposi eo,
   20 perché mi ricordai della risposta,
        che fe' san Paulo dentro al Coliseo.

        Io vidi su in una sede posta
        seder Plutone e poscia Radamanto,
        Minos ed Eaco star dall'altra costa.

   25 Ben mille poi sedíen dall'altro canto
        nel crudel tempio, formato al contrario
        a quel che fece Cristo umile e santo;

        ché in quel di Cristo il pover volontario
        era il piú ricco, ed umiltá fa grande,
   30 sí come apparve in Pietro, suo vicario.
p. 179
        In questo, in cui avarizia si spande,
        quell'è maggior che piú aver possede,
        e quel si fa che regga e che comande.

        Iustizia, caritá e ferma fede
   35 fundâr quest'altro, e 'l sangue e dura morte,
        che die' 'l martirio dietro al primo erede.

        Però sta fermo ed anco è tanto forte,
        che nol vincon Satán e tutti i suoi,
        né posson contro lui l'infernal porte.

   40 In mezzo a quel collegio venne poi
        un mostro armato in forma tanto brutta,
        che, pur pensando, ancor par che mi nòi.

        La faccia umana avea di mala putta
        e tutto il busto in forma serpentina;
   45 ed ella d'oro era coperta tutta.

        Sotto suoi piè teneva una regina
        tanto formosa, che la sua beltade
        non parea cosa umana, ma divina.

        E colla coda armata di tre spade
   50 la percoteva tanto asperamente,
        che ogni gran crudel n'aría piatade.

        —Quel c'ha la faccia umana ed è serpente
        —disse Minerva,—della belva nacque,
        che diede ad Eva il cibo fraudulente.—

   55 Poi, rimirando, sí come a lei piacque,
        io vidi l'idol Nummo del talento,
        che stava presso alle tempestose acque.

        E credi a me, lettor, ché non ti mento,
        che da Pluto e da' suoi era onorato
   60 vieppiú che Dio assai per ognun cento.

        Plutone in prima a lui inginocchiato,
        poi tutti gli altri gli offersero un core,
        il don che al sommo Dio saría piú grato.

        E come Ignazio «Iesú Salvatore»,
   65 cosí tra quelli cori io vidi scritto
        «denar», «denar», «denar» dentro e di fuore.
p. 180
        La vergine, a cu' il petto avea trafitto
        colla sua coda armata il mostro fello,
        menata fu all'idol quivi ritto.

   70 E come Pirro innanzi al tristo avello
        del padre Achille uccise Polisena,
        stando ella mansueta come agnello;

        cosí la fèra con dispregio e pena
        sacrificò la verginetta pura,
   75 spargendo quivi il sangue d'ogni vena.

        Ed ella intorno intorno ponea cura
        a' circumstanti per aver difese,
        e nullo la subvenne in tanta iniura.

        Un angel venne ed in braccio la prese,
   80 dicendo:—La donzella ch'è qui morta,
        è viva in ciel, onde prima discese.—

        E poscia verso la celeste porta
        con lei in braccio mosse il santo volo,
        come falcon che 'nsú la preda porta.

   85 Il mostro, che del drago fu figliuolo,
        inver' la gente, ch'era quivi, corse,
        blando leccando alcun come cagnolo.

        Ed alcun altro crudelmente morse
        prima col dente acuto e venenoso,
   90 poi con la coda, che come uncin torse.

        Nel tempio, a quel di Dio fatto a ritroso,
        Proserpina era reina infernale,
        adulterata spesso dal suo sposo;

        ché, non guardando chi, come, né quale,
   95 purch'al marito suo si dica:—Io pago,—
        la 'spone ad adulterio e ad ogni male.

        E presso al fiume su in un gran drago,
        che diece colli avea e diece teste,
        stava a seder coll'occhio putto e vago.

  100 Il vestimento suo, il qual ei veste,
        di purpura era, e teneva il piè manco
        dentro nell'acqua di sí gran tempeste.
p. 181
        Poi in un cifo ben pulito e bianco
        vidi ch'e' bebbe sangue e inebriosse
  105 piú che briaco, ch'io vedesse unquanco.

        In questo il mostro inver' di noi si mosse;
        e diece teste mison sette corni;
        e fieramente l'un l'altro percosse.

        Quando será, o putta, che tu torni
  110 al primo stato, alla tua madre antica,
        nel prato, ove coglievi i fiori adorni?

        Tu giá vivesti nel mondo pudica,
        e Luna in cielo e ne' boschi Diana
        innanzi ch'a Pluton tu fussi amica,

  115 allora quando in ogni cosa vana
        davi del calcio, e quando eri tenuta
        come regina e non come puttana.

        Poscia che quella donna ebbi veduta,
        Minerva di quel tempio rio mi trasse
  120 per quella porta, ond'ella era venuta.

        E su per una via volle che andasse,
        ove demòni stavan con uncini,
        con reti e lacci, ch'alcun ve cascasse.

        —O dea—diss'io,—qual via vuoi che cammini?
  125 Or chi será colui, che quinci vada,
        che in alcun d'esti lacci non ruini?—

        Ed ella a me:—Per mezzo della strada
        chi va e non declina a nulla parte,
        securo va che ne' lacci non cada.

  130 E, perché qui bisogna senno e arte,
        il fren ti metterò; e, s'io ti meno,
        non temer mai che possi illaquearte.—

        Cosí dicendo, ella mi mise un freno;
        poscia mi mise nell'aspro viaggio,
  135 ch'era d'uncini e lacci e reti pieno.

        Quando io vi penso, ancor paura n'aggio
        di que' dimòni e di que' lacci tesi,
        ne' quai cade ciascun che non è saggio.
p. 182
        Da ogni parte io vidi molti presi,
  140 fra' quai conobbi messer Gualterotto;
        e vennemi piatá quando lo 'ntesi.

        E' disse a me:—Perché da me fu rotto
        nel mondo ogni statuto e li decreti,
        però tra questi uncini io son condotto.

  145 Leggi iustiniane e que' de' preti
        non usa il mondo se non per guadagno:
        però lassú son fatte come reti.

        Come rompe il moscon la tela al ragno,
        e non la mosca, cosí gli uomin grandi
  150 straccian le leggi e danvi del calcagno.—

        Poi disse:—Or satisfa' a' miei domandi:
        dimmi s'è ver che li pisan sian schiavi,
        e de' Lanfranchi miei, mentre tu andi.—

        Ed io a lui:—Le signorie soavi
  155 non si conoscon mai dalli subietti,
        se non poscia ch'e' provan le piú gravi.

        Sappi ch'i tuoi pisan son sí costretti
        sotto quel giogo, che 'l dinar lor mise,
        che i Gambacorti sono or benedetti.

  160 Poscia che 'l traditor d'Appiano uccise
        messer Pier Gambacorti e i figlioli anchi
        a tradimento e piangendo ne rise

        ed uccise anche i primi de' Lanfranchi,
        egli vendette la cittá d'Alfea,
  165 sí che li tuoi pisani or non son franchi.—

        Tanto m'avea menato oltre la dea
        continuando per l'aspero calle,
        che, se piú detto avesse, io non l'odea.

        Quando noi fummo in una lunga valle,
  170 la dea Minerva allor mi trasse il camo,
        che m'avea posto in bocca e sulle spalle.

        E, quando un altro monte salivamo,
        vidi color che dietro son cavalli,
        e son dinanzi nepoti di Adamo,

175 avvolti di serpenti verdi e gialli.

p. 183

CAPITOLO XVIII

Dove si tratta delli centauri.

        Quando giunsi nel monte suso ad alto,
        mirai la valle, maledetta chiostra,
        ove i centauri stanno a far l'assalto.

        Come soldati, quando fan la mostra,
    5 spronando lor cavalli, van gagliardi,
        o come cavalier che vanno a giostra;

        cosí i centauri lí con archi e dardi
        descorron per la valle a mille, a cento,
        veloci piú che tigri o leopardi.

   10 Palla scendea la costa a passo lento:
        e 'l sesto miglio avea a scender forse,
        quand'io ebbi timore e gran pavento;

        ché 'l maggior de' centauri sí s'accorse
        di noi che scendevamo, e presto e fiero
   15 con ben mille de' suoi, venendo, corse.

        Non si mosse corsier mai sí leggiero,
        né capriolo ovver corrente cervo,
        com'ei correva superbo ed altiero

        coll'arco teso in man. Ed in sul nervo
   20 egli avea giá una saetta posta;
        e, giunto, disse col parlar protervo:

        —Fermate i passi e fate la risposta:
        con qual licenza qui, con qual valore
        ardite voi di scendere la costa,

   25 senza licenza del nostro signore,
        che 'n mezzo il mondo siede triunfante,
        come re principale e imperadore?
p. 184
        A te saettarei, che vien dinante,
        se non che allo scudo mi rassembre
   30 amica di Perseo ed al sembiante.—

        La dea rispose:—O animal bimembre,
        a cui ha dato forza il fiero Marte,
        e con cui 'l sol sta in mezzo di novembre,

        l'onor dell'arme è anco mio in parte.
   35 Io son Bellona, che costui scorgo,
        che do nelle battaglie ingegno ed arte.

        Veder lo puoi, se bene sguardi il Gorgo,
        ch'io porto nel mio scudo de cristallo,
        che per difesa innante al petto porgo.—

   40 Chiron, che inseme è uomo e cavallo,
        udito questo, gli fe' reverenza,
        e féla far a ciascun suo vassallo.

        Allora io scesi giú senza temenza
        ivi fra loro; e, poi ch'io vi fui giunto,
   45 uomini vidi stare a gran sentenza;

        ché da' centauri a lor bevuto e smunto
        era lo sangue da tutte le vene,
        quanto ve n'era insin ch'era consunto.

        E, quando è vòto, che piú non ne viene,
   50 e' son compressi e messi allo strettoio,
        e trattogli ogni umor con guai e pene.

        Io vidi alcun solo aver l'ossa e 'l cuoio,
        e volergli esser anche il sangue tratto,
        gridando lui:—Oimè, oimè, ch'io muoio!—

   55 Tra lor iustizia ha posto questo patto:
        che poscia son lasciati insin che cresce
        in loro il sangue e l'umor sia rifatto,

        e poi ripresi, ed anco quanto n'esce
        lor tolto è 'l sangue, e, poiché son bevuti,
   60 restretti sonno e messi alle soppresce.

        Fra quegli spirti magri e desvenuti
        Minerva, andando, tanto mi condusse,
        che tra quei duoli pungenti ed acuti
p. 185
        io trovai 'l Laberinto; e ch'ello fusse
   65 nol conoscea, se non ch'io vidi dentro
        quel che del toro Pasife produsse.

        Egli mugghiava fortemente, e, mentro
        stav'io a vederlo e ad udir i lamenti,
        che l'anime facean nel cieco centro,

   70 venían tre alme a quelli gran tormenti
        belle e membrute, pien di sangue e grasse,
        ma nella vista angosciose e dolenti.

        Come leon, che allegro e crudo fasse,
        vista la preda, e mostra maggior ira,
   75 non altramente Nesso inver' lor trasse,

        il quale amò la bella Deianira.
        Trasse il centauro che nutrí Achille,
        e come sanguesuga il sangue tira.

        Trasse Medon ed Imbro e piú di mille;
   80 ed ognun le succhiava quanto puote,
        come cagnol che succhia le mammille.

        Poscia che l'alme fûn del sangue vòte,
        divennon magre, ed ognuna si fece
        qual è la fame indosso e nelle gote.

   85 Diss'io:—O spirti, se parlar vi lece,
        chi foste e perché sète sí destrutti?
        per qual iustizia o colpa o in qual vece?

        —Capitan di campagna fummo tutti
        —rispose l'uno,—e qui per un cammino
   90 venuti a queste pene e a questi lutti.

        Ed io, che parlo a te, sono Ambrosino,
        figliuol di Barnabò, del gran lombardo,
        e sol qui tra costor io fui latino.

        L'altro, ch'è qui, è Annichin Mongardo;
   95 fra Moriale è 'l terzo; e questa asprezza
        abbiam, ch'ognun fu crudo e fu bugiardo.

        E molt'erra chi crede aver fermezza
        fede d'uom d'arme ovver di meretrice,
        da che 'l denaio a suo piacer la spezza.
p. 186
  100 Se ben attendi al mio parlar che dice,
        vedrai ch'amor e fede mal si fonda,
        quando l'utilitate ha per radice.

        Perché alla colpa la pena risponda,
        noi siam succhiati, che smongemmo altrui,
  105 quando noi fummo in la vita gioconda.

        Se tra li vivi perverrete vui,
        dite a color che vanno a saccomanno,
        che faccian sí ch'e' non vengan fra nui.

        Dite a Ioanni Aguto il nostro affanno,
  110 a Ioan d'Azzo, agli altri compagnoni,
        che per centauri su nel mondo stanno,

        che la lor crudeltá li fa pregioni,
        ed e' si fan la corda che li mena,
        ove stan questi del sangue ghiottoni.—

  115 Ed io a lui:—Ai miseri c'han pena,
        avervi compagnia, o n'han diletto,
        o veramente alquanto il duol raffrena.

        Però mi di' perché hai tu suspetto
        che alcun non venga qui in questa soglia,
  120 ché non intendo ben perché l'hai detto.—

        Ed egli a me:—Non per ben ch'io lor voglia,
        ma come su in ciel di piú consorti
        è piú letizia, qui è maggior doglia.—

        Poi, perché funno allo strettoio attorti,
  125 per quella afflizion piú non mi disse;
        onde n'andammo tra' centauri forti.

        E poco er'ita Palla, che s'affisse;
        e trovammo un gran mostro, in cui coloro
        curson cogli archi, e ciascuno el trafisse.

  130 Sí come fa il leon che prende il toro,
        che 'l morde e per la fretta nol manduca,
        ma succhia il sangue dove ha fatto il foro,

        ovver come fa l'orso, quando suca
        il favo mèl; cosí facean ad asto,
  135 succhiando il sangue a quel per ogni buca.
p. 187
        —Diomede son io, che son sí guasto—
        —diss'egli a me,—che giá gli uomini vivi
        diedi a' cavalli miei per biada e pasto.

        Se tu nel tuo emispero mai arrivi,
  140 prego che di lassú da te si dica
        (ed a chi nol puoi dir, fa' che lo scrivi)

        che chi degli altru' affanni ovver fatica
        pasce cavalli o altra cosa vana,
        e chi, robbando, sua vita nutríca,

  145 sará menato in questa valle strana,
        ove stan questi del sangue assetiti
        vieppiú che 'l cervio alla viva fontana.—

        Poscia che avemmo i suoi sermoni uditi,
        Minerva verso un monte la via prese,
  150 nel qual senz'ali mai saremmo iti;

        ch'avea le ripe sue tanto distese,
        che, secondo che disse la mia scorta,
        nullo mai vi salí ovver descese.

        Vero è che giú ai piè era una porta,
  155 la quale aveva scritto su l'usciale
        queste parole in una pietra smorta:

        «Chi vuol montare insú, di qui si sale;
        e suso sta in una gran pianura
        il gran Satán altiero e triunfale».

Allora intrammo quella porta scura.

p. 188

CAPITOLO XIX

Come l'autore trova Satan trionfante nel suo reame.

        Dentro la porta su per una grotta
        fu la via nostra insin in co' del monte
        con poca luce, come quando annotta.

        Quando fui su e ch'io alzai la fronte,
    5 vidi Satáno star vittorioso,
        ove risponde il deritto orizzonte.

        Credea vedere un mostro dispettoso,
        credea vedere un guasto e tristo regno,
        e vidil triunfante e glorioso.

   10 Egli era grande, bello e sí benegno,
        avea l'aspetto di tanta maièsta,
        che d'ogni riverenza parea degno.

        E tre belle corone avea in testa:
        lieta la faccia e ridenti le ciglia,
   15 e con lo scettro in man di gran podèsta.

        E, benché alto fusse ben tre miglia,
        le sue fattezze rispondean sí equali
        e sí a misura, ch'era maraviglia.

        Dietro alle spalle sue avea sei ali
   20 di penne sí adorne e sí lucenti,
        che Cupido e Cilleno non l'han tali.

        Ed avea intorno a sé di molte genti,
        che facean festa, e questi tutti quanti
        al suo comando presti ed obbedienti.

   25 Ma i primi e principal eran giganti
        con orgogliosi fasti e con gran corti,
        con presti servidor, che avean innanti.
p. 189
        Alla guardia di questi arditi e forti
        erano quei che son viri e cavalli,
   30 con li lor capitani saggi e accorti.

        Su per li prati ancor vermigli e gialli
        andavan donzellette e belle dame
        con melodie soavi e dolci balli.

        Quand'io stava a mirar tanto reame
   35 e vedea il gran Satán nell'alto seggio,
        sí bello ed obbedito pur ch'e' chiame,

        io dissi:—O Palla, or che è quel ch'io veggio?
        Giá calo ad adorarlo li ginocchi:
        tanto egli è bello, e grande il suo colleggio.—

   40 Ed ella a me:—O figlio mio, se adocchi
        per mezzo del cristallo del mio scudo
        —allor mel diede ed io mel posi agli occhi,—

        tu vederai il vero aperto e nudo,
        e non ti curerai dell'apparenza,
   45 alla qual mira l'ignorante e rudo.

        Ché chi è saggio risguarda all'essenza,
        ché su in quella sta fundato il vero,
        e non si muta ed ha ferma scienza.—

        Allor mirai e vidi Satan nero
   50 cogli occhi accesi piú che mai carbone
        e non benigno, ma crudele e fèro.

        E vidi quelle sue belle corone,
        che prima mi parean di tanta stima,
        ch'ognuna s'era fatta un fier dragone.

   55 E li capelli biondi, ch'avea prima,
        s'eran fatti serpenti, ed ognun grosso
        e lungo insino al petto su da cima.

        E cosí gli altri peli, ch'avea indosso;
        ma quelli della barba e quei del ciglio,
   60 mordendo, el trasforavan sin all'osso.

        Le braccia grandi e l'ugne coll'artiglio
        avea maggior che nulla torre paia;
        e le man fure e preste a dar di piglio;
p. 190
        e di scorpion la coda e la ventraia;
   65 nell'ano e presso al membro che l'uom cela
        di ceraste n'avea mille migliaia.

        Argo non ebbe mai sí grande vela,
        né altra nave, come l'ali sue,
        né mai tessuta fu sí grande tela;

   70 ma non atte a volar troppo alla 'nsue,
        se non come l'uccello infermo e stanco,
        che tenta volar alto e cade ingiue.

        Serpentin era il piè deritto e 'l manco;
        e diece draghi maggior che balena
   75 faceano a lui il seggio e 'l tristo banco.

        E questo a Satanasso è maggior pena:
        che sempre insú volar s'ingegna e bada,
        e la gravezza sua a terra el mena.

        E Dio permette ben che alla 'nsú vada;
   80 ché, quanto piú volando in alto monta,
        tanto convien che piú da alto cada.

        Io 'l vidi in piè levar con faccia pronta
        dall'alto seggio suo, e con orgoglio
        udii ch'e' disse:—O Dio, alla tua onta

   85 sopra gli astri del cielo or salir voglio:
        io intendo prender l'uno e l'altro polo
        al tuo dispetto, ed ora il ciel ti toglio.—

        Cosí dicendo, alla 'nsú prese il volo:
        ben diece miglia insú s'era condotto,
   90 quando 'l vidi calar al terren sòlo

        a trabocconi e col capo di sotto,
        e come un monte fece gran ruina.
        E, poiché 'n terra fu col capo rotto,

        la faccia verso il ciel volse supina,
   95 e fe' le fiche a Dio 'l superbo vermo
        e biastimò la Maiestá divina.

        Poi si levò sí come fusse infermo,
        e verso il suo gran seggio mosse il passo
        con mormorio e dispettoso sermo.
p. 191
  100 E lí a seder se puse fiacco e lasso;
        e menacciava Dio, alzando il mento,
        che fe' che 'l suo volar li venne in casso.

        Quando 'l vidi cadere, io fui contento,
        perché conobbi che quanto piú sale,
  105 tanto egli ha piú ruina e piú tormento.

        Tenendo io 'l bello scudo per occhiale,
        vidi i neri giganti e lor palazzi,
        pieni d'invidia, d'ira e d'ogni male.

        Vidi mutati in pianti lor solazzi
  110 e che smongono altrui e sono smonti
        dalli centauri e dalli lor regazzi.

        Vidi che li gran sassi e li gran monti
        conducean sopra sé per far la torre,
        sopra la qual da loro al ciel si monti.

  115 Sí come, quando vòlsono il ciel tôrre,
        che pusono Ossa sopra il gran Peloro,
        talché Iove gridò:—Vulcan, soccorre!—

        cosí in quel pian s'ingegnan far coloro;
        ma, perché la lor possa non seconda,
  120 ritorna sempre invano il lor lavoro.

        Ed ogni volta che la voglia abbonda
        piú che la possa, avvien che mal viaggio
        faccia l'impresa e che 'l fattor confonda.

        Però colui che è prudente e saggio,
  125 perché l'impresa non gli torni invano,
        fa che la possa sempre abbia vantaggio.

        Elli facean le torri nel gran piano,
        e chi portava sassi e chi la malta,
        chi ordinava e chi facea con mano.

  130 Io vidi una di quelle andar sú alta
        sin dove del vapor fa pioggia il gelo,
        tal ch'io dicea fra me:—Giá 'l cielo assalta;—

        quando Iove percosse su da cielo
        con un gran tuono, e la torre e 'l gigante
  135 mandò a terra il fulgoroso telo.
p. 192
        Per parlarli, ver' lui mossi le piante
        e dissi:—Chi se' tu, caduto a terra
        di sí gran torre col capo dinante?

        —Io son Fialte, e fui nella gran guerra
  140 —rispose,—che facemmo contra Dio,
        che le saette contra noi disserra.

        Cosí le grandi imprese e 'l lavorio
        fanno il gran signor sí com'io feci,
        e poi caggiono a terra sí com'io.

  145 Cadde Alessandro, il gigante de' greci,
        cadde Priamo e cadde la gran Troia,
        che combattuta fu per anni dieci.

        Cadde Pompeo e Scipio, la gran gioia
        dell'alta Roma e Cesare ed Agosto,
  150 Dario e Assuero con pena e con noia.—

        Io averia al suo detto risposto,
        se non che a me apparve un altro obietto,
        al qual lo sguardo mio mi venne posto.

        Io vidi che Satán di mezzo al petto
  155 un serpentello con tre lingue scelse,
        che parea pien di tosco maladetto.

        Tra' giganti el gittò quando lo svelse;
        ed egli il suo venen tra loro sparse,
        ch'era piú ner che non son mézze gelse.

  160 Allora ogni gigante un drago farse
        cominciò dentro; e, l'uman quindi tolto,
        e' fuor nel viso sí com'uomo apparse.

        Ma non si può giammai tenere occolto
        amor, né invidia o colpa ch'aggia il core,
  165 che non appaia alquanto su nel volto.

        L'imago dentro cominciò di fuore
        appalesarsi e mostrarsi in la faccia;
        e questo fe' tra lor guerra e romore.

        Sí come quando il mar prima ha bonaccia
  170 e poi si turba e tutto in sé ribolle,
        e l'acque, che son sotto, sopra caccia,
p. 193
        e pare ogni onda grande quanto un colle,
        quando la luna solo il fratel mira,
        e tutto il lume suo a noi ne tolle;

  175 cosí facean color commossi ad ira,
        e davansi fra sé li colpi gravi,
        e con grand'onte l'un l'altro martíra.

        Non fecer mai abeti sí gran travi,
        come eran le lor lance lunghe e grosse,
  180 né mai sí grandi legni portôn navi.

        Pensa, lettor, che quei c'hanno gran posse,
        dánno gran colpi, e cosí anche credi
        che, quando coglie, han piú gravi percosse.

        E poscia a maggior fatti io mossi i piedi;
        e, poco andato, tanto mi stancai,
  185 ch'a riposarmi giú in terra mi diedi,

insin ch'apparson li raggi primai.

LIBRO TERZO

DEL REGNO DE' VIZI.

p. 197

CAPITOLO I

Come l'autore fu a battaglia con Satanasso e, umiliandosi, lo vinse.

        Dell'orizzonte il sole era giá fuora,
        e, per aver la lena, io m'era assiso
        come chi stanco a riposar dimora.

        E, risguardando, tenea in alto il viso,
    5 perché ammirava il superbo arrogante,
        che fu ribello a Dio in paradiso,

        quando la dea a me su venne avante:
        —Or ti bisogna assai esser gagliardo
        ed usar le tue forze tutte quante.

   10 —Minerva mia, a cui sto i' a riguardo,
        che di guidarmi dietro a te ti degni
        al loco, ov'io d'andar di desio ardo,

        prego che m'addottrini e che m'insegni
        quai sonno i mostri, che tengon la strada,
   15 che l'uom non saglia a' tuoi beati regni.

        Da che convien che alla battaglia vada,
        dammi fortezza e dammi la dottrina
        ch'io non sia preso e che vinto non cada.—

        Rispose a questo a me quella regina:
   20 —Quando il gran mostro su vorrá levarte,
        e tu col capo sempre ingiú declina.

        Questa fie la vittoria, e questa è l'arte,
        con che si vince sua superbia ardita:
        va', ché, se vuoi, potrai da lui aitarte.—
p. 198
   25 Andai, quando la dea ebb'io udita,
        come colui che a duello combatte
        o per dar morte o per perder la vita.

        Quale Davíd incontra a Goliatte,
        gigante grande, ed egli era fantino
   30 e non avea all'armi le membra atte;

        tal pareva io, quando presi il cammino
        contra Satán, se non ch'a lui rispetto
        ben mille volte er'io piú piccolino.

        Quand'io fui presso e contra al suo cospetto,
   35 e' s'adirò da che m'ebbe veduto,
        e mostrò grande sdegno e gran dispetto.

        Io saría morto e del timor caduto,
        se non che Palla con voce e con cenni
        mi rinfrancava il cor e dava aiuto.

   40 Andai piú innanti e insino a lui pervenni,
        e del piè il dito, piú ch'un trave grosso,
        colle mia braccia avvinchiato gli tenni.

        Allora a stizza vieppiú fu commosso,
        e le gran braccia stese con grand'ira,
   45 e 'nsú tirommi, tenendomi il dosso.

        A questo gridò Palla:—A terra mira;
        pensa ch'a darti morte egli t'afferra,
        e per gittarti a basso insú ti tira.

        Fa' come Anteo, e vincerai la guerra,
   50 che tante volte le forze francava,
        quante toccava la sua madre terra.—

        Come colui che se medesmo aggrava,
        che tien le membra come fosson morte,
        cosí fec'io, quando insú mi levava.

   55 Mirabil cosa! Allora i' fui sí forte,
        che gli feci abbassare ingiú le braccia,
        e giú mi pose con le mani sporte.

        Le reni in terra, insú tenea la faccia;
        e con ingegno e forza e con li morsi
   60 facea com'uom che volentier si slaccia.
p. 199
        Cosí le dita sue da me distorsi,
        che m'avean preso; e sí me dilungai,
        che cento passi e piú a lunga corsi.

        Quando sei spenta, ancor potenzia hai,
   65 o gran superbia! Per questo fui preso,
        ché d'esto scampo io me ne gloriai.

        Chinossi allora, tutto d'ira acceso,
        il crudel mostro, e con la man feroce
        volea levarmi nell'aer sospeso.

   70 Allor gridò la dea ad alta voce:
        —Abbassa a terra!—Ed i' a terra mi diede
        col ventre e il volto e colle braccia in croce.

        Cosí prostrato, entrai di sotto al piede
        del gran superbo, col qual chiude il calle,
   75 il qual senza battaglia mai concede.

        Per questo a terra giú diede le spalle
        e nel pian cadde con sí gran fracasso,
        che tremar fece tutta quella valle.

        Quando vidi caduto Satanasso
   80 cosí prostrato, io misi la mia testa
        ed intrai su la via per l'arto passo.

        Come alli vincitor si fa gran festa,
        tal fece a me la scorta onesta e saggia:
        poscia si mosse insú veloce e presta.

   85 Prese la via per la pendente piaggia
        e disse:—Vieni e sempre alla 'nsú sali,
        ed alla 'ngiú nullo tuo passo caggia.—

        Mentr'io movea alla 'nsú del desio l'ali,
        ed io sentii a me gravar le penne
   90 da una che dicea:—Vo' che giú cali.—

        La mia persona abbracciata mi tenne,
        tirandomi alla 'ngiú con tale scossa,
        ch'appena ritto il piede mi sostenne.

        E del salir sí mi tolse la possa,
   95 che, andando insú, io non potea seguire
        la scorta, che a guidarmi s'era mossa.
p. 200
        Dietro alla guida insú volea pur gire,
        ed ella mi tirava seco ingiue
        e suso meco non volea venire.

  100 Cosí insieme luttando amendue,
        ella tirando ingiú ed io insú lei,
        sí mi stancava, ch'io non potea piue.

        —Oimè!—dicea fra me—chi è costei,
        che ha le voglie sí lascive e pronte,
  105 che vuol menarmi ov'io gir non vorrei?—

        La dea salito avea molto del monte,
        e, vòlta a me, gridò:—Perché non vieni?
        perché ristai? perché quassú non monte?

        Cotesta donna, che ti sta alle reni
  110 pensa che è muliere, e tu se' viro;
        però vergogna t'è, se la sostieni.—

        Allor con gran fatica e gran sospiro,
        usai mie forze e camminai fin dove
        Palla aspettava col suo dolce miro.

  115 Sí come sotto il giogo tira il bove
        con tutta la sua possa il grosso trave,
        che, punto dallo stimolo, si move;

        cosí tirai insú la donna grave
        dietro a Minerva per quell'arta via
  120 contra la forza di sue voglie prave.

        E quanto a poco a poco io piú salía,
        tanto piú la gravezza venía manco
        di quella che me 'ngiú tirava pria.

        Alla mia scorta appena era giunto anco,
  125 quando di lei nulla sentia fatiga,
        e fui leggero e niente era stanco.

        —Chi è colei che dá qui tanta briga
        —diss'io a Palla,—e fa che l'uom s'arreste
        e, giú tirando i passi, altrui intriga?

  130 —Parte è in voi angelica e celeste
        —rispose quella,—e fa che si cammine
        per sua natura a tutte cose oneste.
p. 201
        E questa ha sempre le voglie divine:
        della fatica presente non cura,
  135 sol che conduca altrui poscia a buon fine.

        L'altra è parte brutale, vile e oscura;
        e questa guarda al diletto presente
        e per buon fin non sostien cosa dura.

        Questa è l'ancilla mal obbediente,
  140 questa è la mala e repugnante legge
        a quella c'ha Dio posta in vostra mente.

        Come il signor, che ben sua casa regge,
        la fante e la mogliera, ch'è provosa,
        battendola e privandola, corregge;

  145 cosí costei alla ragion ritrosa
        ed arrogante, superba e proterva,
        batter conviensi e dargli poca posa:

allor verrá subietta come serva.

p. 202

CAPITOLO II

Delle cagioni onde viene la superbia, e come ella è vizio principale.

        Una giornata inverso l'oriente
        salía la strada, ed al merizo è vòlta
        poi anche una giornata similmente.

        Poi inver' la parte, ove lo sol s'occolta,
    5 gira altrettanto a modo che le scale
        si fan nel campanile alcuna volta;

        poi verso il corno anche altrettanto sale.
        Cosí per sette giri insú si monta
        al regno glorioso ed immortale.

   10 Su questa via quando Palla fu gionta,
        mostrò a me quant'ella insú sublima,
        piú bella assai che qui 'l dir non racconta.

        E questa via, che noi salimmo in prima,
        è stretta ed erta e quanto piú su viene,
   15 tanto è piú larga e piana inver' la cima.

        In mezzo al gir, che ho detto, si contiene
        la trista valle, ove sua signoria
        co' suoi giganti Satanasso tiene.

        Alquanti insú con noi venían per via;
   20 ma eran pochi rispetto agli assai
        d'un'altra gente, che alla 'ngiú venía.

        Insú andando, il viso mio voltai,
        e vidi insú levato il gran superbo
        ed a seder, come prima, el trovai.

   25 Ahi! quanto si mostrava a me acerbo
        e quanto egli pareva d'ira pieno,
        io nol potrei giammai spiegar con verbo.
p. 203
        Intorno intorno spargeva il veneno;
        e i suoi irsuti peli eran serpenti,
   30 ch'a lui mordeano il volto, il collo e 'l seno.

        Ed ei le labbra si mordea co' denti,
        come fa alcun che se medesmo turba;
        e con tre bocche soffiava tre venti,

        i quali andavan dietro a quella turba
   35 che 'ngiú venía, e percotea lor tempie,
        come il vento Austro, quando il mar conturba.

        Quasi vessica che di vento s'empie,
        cosí quel vento infiava le lor teste
        e le lor viste dispettose ed empie.

   40 Poich'eran fatte assai maggior che ceste,
        sí come lucciol spargean le parole
        e di quelle fregiavan le lor veste.

        E, come nuovo arnese mostrar sòle,
        a farsi fama, il nuovo mercatante,
   45 quasi invitando chi comperar vòle;

        cosí mostravan certe merci sante,
        e 'l vento, che dal mostro si deriva,
        soffiando, le portava tutte quante.

        Io ammirando dissi:—O Palla, o diva,
   50 deh, dimmi, che dimostran queste cose?
        Che io 'l sappia e che altrui lo scriva.

        —Questi tre venti—a me la dea rispose—
        sonno il fomento e sonno la cagione,
        perché le genti son superbiose.

   55 Il primo vento è della nazione,
        per la qual molti mostrano eccellenza
        e voglion soprastar l'altre persone.

        Ma questa loda è sol della semenza,
        onde è disceso, ché virtú s'apprezza
   60 appo li saggi e vera sapienza.

        L'altro vento, che soffia, è la ricchezza
        la qual, se megliorasse il possessore
        e seco avesse la vera fermezza,
p. 204
        meritarebbe loda ed anco onore;
   65 ma, perché le piú volte il buon fa rio,
        enfia qui il capo e poco ha di valore.

        Se il terzo vento saper hai desio,
        è quel che toglie il grazioso dono,
        che ne dá la natura ed anche Dio.

   70 Benché da sé sia prezioso e buono,
        vostre virtudi se ne porta il vento,
        quando da Dio conosciute non sono.

        —Da che di questo—dissi—m'hai contento,
        dimmi, perché 'l superbo è tanto grande,
   75 e perché enfia e fregia il vestimento?

        —Il ragionar che fai, mentre tu ande
        —rispose quella—per questa salita,
        mi piace, ed io farò quel che domande.

        Superbia è grande, che è la prima ardita
   80 contra la mental legge e la divina,
        e prima fa che non sia obbedita.

        A tutti gli altri vizi ella cammina
        e va dinanti e fagli a Dio ribelli
        e fa che la sua legge ognun declina:

   85 però è maggior tra' vizi falsi e felli.
        Or ti dirò, e fa' che tu ben odi,
        perché si fregia e gonfia li cervelli.

        Superbia puote essere in tre modi,
        sí come si dimostra dalla Musa,
   90 la qual hai letta e che tu tanto lodi.

        Prima è superbia nella mente inchiusa:
        questa odia li maggior, questa presume
        pomposa, ingrata ed obbedir recusa.

        Ed a' difetti suoi non vede lume
   95 e pon mente agli altrui ed è perversa,
        iniuriosa e con altier costume,

        con suoi equali, con li qual conversa,
        discorde ed arrogante; e lor dispregia
        ed onteggiando li minori avversa.
p. 205
  100 L'altra è in bocca, quando ella si pregia,
        vantando con parole e con iattanza,
        che son le lucciol, delle qual si fregia.

        L'altra è ne' fatti a dimostrar che avanza;
        ed alcun questo mostra in santitade,
  105 come gl'ipocriti hanno per usanza.

        Nella scienza alcuno o in beltade
        mostra eccellenza, e chi in adorno manto,
        chi ne' conviti o in altra vanitade.

        E questo vizio or è cresciuto tanto,
  110 che nella mensa e nel vestir non puote,
        piú che 'l vassallo, il signor darsi vanto.

        Ora superbia fa le borse vòte
        all'avarizia, e Venere e la gola,
        ne' servi, in ornamenti e nelle dote.

  115 Cesar, del qual cotanta fama vola,
        prodigo fu chiamato nel convito,
        perché die' piú ch'una vivanda sola.

        Ora la vanitá, non l'appetito,
        e la superbia gran vivande chiede
  120 e 'l banco d'oro e d'argento fornito.

        Ed ha Mercurio, Orfeo e Ganimede,
        che serva e suoni e che quell'altro mesca
        innanti a Iove, mentre a mensa siede.

        O farisei, il mio dir non v'incresca,
  125 ché non vi tocca e non vi s'apparecchia
        con sumpti e fasti il letto ed anche l'ésca.

        Il mondo, che nel vostro far si specchia,
        per vostro esemplo lassa questo vizio,
        sí che la lunga usanza non s'invecchia.

  130 A questo diede esemplo il buon Fabrizio,
        che moderava giá 'l triunfo a Roma,
        e Scipion scusoe quasi ogni offizio.

        Ora messere e maestro si noma,
        sol che tre fave egli abbia nel tamburo,
  135 che risuonin parole a soma a soma.—
p. 206
        Ben mille poi trovai nel cammin duro,
        ch'avíen del viso infiata sí la pelle,
        che ciascun occhio in lor facea oscuro.

        Io dissi ad uno:—I' prego che favelle,
  140 e di' chi fusti e perché tu non vedi
        la terra e 'l cielo e l'altre cose belle.—

        Rispose:—Se del nome mi richiedi,
        detto fui Alardo e fui 'n Parigi artista
        e tanto a vanitá ivi mi diedi,

  145 ch'io curai solo a parer buon sofista;
        e cosí fen quest'altri, che stan meco:
        però a ciascuno è qui tolta la vista,

ché 'n sapienza ognun fu vano e cieco.—

p. 207

CAPITOLO III

Dichiaransi gli effetti della superbia.

        Il vento, quale spira Satanasso,
        gonfia le teste e poscia in alto mena
        e poi da alto fa cadere a basso.

        Sí come il vento fa la vela piena,
    5 io vidi fare a tre la testa grossa
        ed ire in alto e poi cader con pena.

        E nel cadere ebbon sí gran percossa,
        che Simon mago non die' tal crepaccio,
        quand'egli si fiaccò il cervello e l'ossa.

   10 —Io, che cosí caduto in terra giaccio
        —disse un di lor,—son quel superbo Sesto,
        che a Lucrezia diede tanto impaccio,

        quand'io gli maculai il letto onesto;
        onde caddi io e 'l mio padre Tarquino
   15 per tanta offesa e per cotanto incesto.

        E l'altro qui caduto a capo chino
        chiamato fu Nabucodonosorre,
        che a sé attribuí l'onor divino.

        Il terzo è quel che fece la gran torre
   20 giá di Babel e chiamato Nembrotte,
        che volle contra Dio rimedio porre.

        E cento volte noi tra 'l dí e la notte
        innalza il vento, che 'n testa percuote;
        e poi cadiam con l'ossa fiacche e rotte.

   25 Qui anche sta il novello nipote
        e 'l sesto prete grande, a cui del regno
        gonfia anche il vento la testa e le gote.
p. 208
        E quand'è divenuto grosso e pregno,
        cade da alto e gran fiacco riceve,
   30 sí come noi e sí com'egli è degno.

        In lui apparve ben quant'egli è grieve
        la signoria e dispettosa e dura
        d'alcun villan, che da basso si lieve.—

        Tanto i' avea preso, andando, dell'altura,
   35 che vidi aver Satán, quand'io mi volse,
        la faccia sua ver' noi a derittura.

        Allor soffiò, e quel vento mi colse
        e nella fronte sí forte percosse,
        che ogni forza di salir mi tolse.

   40 Io sería in giú tornato, se non fosse
        che gridò Palla:—Giú 'n terra ti poni,
        se vuoi che 'l vento il capo non t'ingrosse.—

        Però mi posi in terra in ginocchioni,
        il petto e 'l viso umiliai di botto,
   45 e cosí insú mi mossi in groppoloni.

        Quando la dea mi vide esser condotto
        in tanta altura, ch'ella vide stare
        il gran Satán ai nostri piedi sotto,

        su ritto ed erto mi fece levare.
   50 Allor d'un dubbio, ch'io avea concetto,
        cosí lei cominciai a domandare:

        —Come poteo il mostro maladetto
        desiderar a Dio esser equale,
        ch'esser non puote e nol cape intelletto?

   55 Ché 'l desiderio sempre move l'ale
        dietro all'obietto dalla mente appreso,
        e questo nulla mente apprender vale.—

        La dea rispose, quando m'ebbe inteso:
        —In due superbie offese il Creatore
   60 il rio Satán, e quelle io t'appaleso.

        Se, sol per sua bontá, alcun signore
        levasse un servo giú da basso limo
        e ponessel in stato e grande onore,
p. 209
        ed ei dicesse fra se stesso:—Io stimo
   65 meritar piú che quel che m'ha donato,
        per mia bontá, ed esser piú sublimo;—

        costui sería superbo e sería ingrato.
        In questo modo enfiò Satan le ciglia
        contra colui che allor l'avea creato.

   70 E da che 'l servo in possa s'assomiglia
        al suo signor, quant'egli, al parer mio,
        piú di dominio e d'eccellenzia piglia;

        cosí fec'egli, che innalzò il disio
        ad aver possa a far quelle due cose,
   75 le qua' solo a sé serba il sommo Dio,

        cioè creare e le cose nascose
        saper, che sonno occulte nel futuro:
        per questo il gran superbo a Dio s'oppose.

        Alla tua mente omai non è oscuro
   80 come il vil verme volle assomigliarse
        al primo Ben supremo, eterno e puro.

        Dunque superbia prima è reputarse
        d'aver il ben da sé e ch'a lui vegna
        per sua bontá o per suo ben guidarse.

   85 E cresce poi che si reputa degna
        di maggior fatti: allor presume e pensa
        com'ella a' suoi maggiori equal pervegna.

        Per questo poi incorre in piú offensa;
        c'ha invidia a' grandi ingrata e sconoscente
   90 del don, che 'l suo maggiore a lei dispensa.

        Anche non è a lor obbediente,
        ché li dispregia e non cura lor legge;
        e questo di piú male è poi semente,

        ch'ella s'adira, s'altri la corregge,
   95 e sta proterva e 'l peccato difende,
        odia chi l'ammonisce e chi la regge.

        Per questo poi in altro mal descende,
        ché non medica il male, il ben non ode;
        cosí mai a sanitá atta si rende.
p. 210
  100 E, perché è pomposa, ama le lode;
        sí come il foco s'avviva da' venti,
        cosí se ne esalta ella e se ne gode.

        Di mille vizi da lei discendenti
        comprender pòi che nascon d'esto seme,
  105 se nella mente tua ben argumenti.

        Perché la gente ben vivesse inseme,
        fe' Dio la fede e fe' le parentele;
        e la superbia l'una e l'altra oppreme,

        ch'ella, a chi la fa grande, è infedele,
  110 fa parte tra compagni e lor divide,
        e ne' coniunti è spietata e crudele.

        Romul per questo il suo fratello uccide:
        nullo mai grande un altro grande appresso
        senz'odio o invidia vederá, né vide.

  115 Il dispiatato sangue, il grande eccesso
        delli fratelli qui non si ricorda,
        da che tra li maggiori avviene spesso.

        Se ben la citra, Italia, non s'accorda
        della tua gente, or pensa la cagione,
  120 la qual fa in te discordante ogni corda.

        Sostenne giá Pompeo e Scipione
        star nella barca e non guidare il temo
        e star nel campo sotto altrui bastone.

        Ma nelle barche tue esser supremo
  125 vuol ciascheduno ed esser soprastante
        chi servir deggia nel vogar del remo.

        Per questo le tue membra tutte quante
        han odio insieme, e per questo è mestiero
        che 'l capo signoreggino le piante.

  130 Per questo il grande teme e regge altèro,
        e quello che sta a basso, nel cor porta
        quel che superbia figlia nel pensiero.

        Indi diventa la iustizia morta
        nel mal punire e nel premiare il bene:
  135 però la nave tua va cosí torta.
p. 211
        O dea Iunon, perché tarda e non viene
        tra cotal gente un Lico crudo e diro,
        da che politico ordin non sostiene?

        Perché non regge tra li serpi un tiro?
  140 perché non regge nelle selve un ranno,
        che gli arbori consumi a giro a giro?

        L'altre province sotto un capo stanno;
        ma per le parti tue e per le sètte,
        piú che nell'idra in te capi si fanno,

  145 ch'un ne rammorti, e rinasconne sette.
        Ma un verrá, che convien che ti dome,
        e che le genti tue tenga subbiette:

e tiro e ranno sia in fatti e nome.—

p. 212

CAPITOLO IV

Ove trattasi del vizio dell'invidia e della sua natura.

        Condutti avea giá Febo li cavalli
        alla pastura sotto l'Oceáno
        e giá mostrava i crin vermigli e gialli,

        quando Palla mi die' lo scudo in mano,
    5 dicendo:—Questo la notte fa luce
        e 'l corpo opaco fa parer diafáno.—

        Poi l'altra piaggia salse la mia duce;
        e lí trovai una gran porta aperta,
        che al vizio dell'Invidia ci conduce.

   10 Forse tre miglia avea salita l'erta,
        quando la vidi star nella sua corte
        inordinata, confusa e diserta.

        Era giganta e con le guance smorte,
        con molte lingue ed ognuna puntuta,
   15 e suoi capelli eran di serpi attorte.

        Non fu saetta mai cotanto acuta,
        quant'ella in ogni lingua avea un coltello;
        e tossico parea quel ch'ella sputa.

        Duo ner diavoli avea dentro al cervello;
   20 e, benché 'l corpo e 'l capo avesse opaco,
        col bello scudo io vedea dentro ad ello.

        Nel core un vermicello e piú giú un draco
        vidi, ch'aveva dentro alle 'ntestina,
        e avea la coda aguzza piú ch'un aco.

   25 La pelle umana avea e serpentina,
        unita una con l'altra e inseme mista,
        e di cigno li piè, con che cammina.
p. 213
        Sempre pallida sta e sempre trista;
        ma, quando vede il male over che l'ode,
   30 alquanto ride e rallegra la vista.

        Di vipera è la carne ch'ella rode;
        e ben è ver che mangia carne umana;
        ma solo quando pute, gli fa prode.

        Però la carne, ch'è pulita e sana,
   35 prima la imbrutta, corrompe e disquarcia,
        e, quando pute, nel ventre la 'ntana.

        E come mosca è avida alla marcia,
        cosí è ella ghiotta di bruttura:
        di questo il ventre e la bocca rinfarcia.

   40 Quando a sí brutta cosa io ponea cura,
        gli uscí un dimon di bocca quatto quatto
        e tra le genti andò come chi fura.

        E del venen, che di lei avea tratto,
        mise all'orecchie a quelli e parol disse;
   45 e poi, ov'era pria, ritornò ratto.

        Parve che quel venen al cor corrisse;
        come licor che per condotto vada,
        mi parve che alle man poi riuscisse.

        Nel core un drago, ed in man si fe' spada
   50 puntuta quant'un ago e sí tagliente,
        quanto rasoio suttilmente rada.

        Il drago, che nel cor occultamente
        era rinchiuso, le man furiose
        fece ad ognun de tutta quella gente.

   55 Io vidi poi molt'anime ulcerose,
        piene di schianze siccome il mendíco,
        che alla porta del ricco invan si pose.

        In questo uscí, 'n men tempo ch'io non dico,
        l'altro diavolo come un traditore,
   60 che nuocer vuole, mostrandosi amico.

        Trasse l'Invidia allor tre lingue fòre
        sí lunghe, che un'asta all'altra posta,
        al mio parer, non sarebbe maggiore.
p. 214
        Ed alla gente, che gli stava a costa,
   65 mostrava quelle schianze ovver la rogna,
        con tre gran lingue scoprendo ogni crosta.

        E, come fa il ghiotton che si vergogna,
        che mira qua e lá, perché suspetta
        ch'altri a sua ghiottonia mente non pogna;

   70 cosí facea la belva maladetta,
        che ritirò le tre lingue nefande,
        quando quel che percote se n'addetta.

        Oh, detestanda bocca, a cui vivande
        son maculare il bene e farlo poco,
   75 e palesare il male e farlo grande!

        Poi vidi con tempesta e con gran foco
        uscir di fuor di lei il gran dragone
        ed assalir la gente di quel loco.

        E, come in Colco fece giá Iasone,
   80 cosí un dimonio a lui li denti trasse,
        grandi e puntuti quanto uno spuntone.

        E 'n terra arò, perché li seminasse.
        Nacqueno allor del maladetto seme,
        come che pianta a poco a poco fasse,

   85 uomini armati ed uccisersi inseme;
        e tanto sangue fu in quel loco sparto,
        ch'ancor, pensando, la mia mente teme.

        Allora il verme, ch'era il mostro quarto,
        gli rose il core, ond'ella si ritorse
   90 come la donna, quando è presso al parto.

        E, poiché dentro al petto egli a lei morse,
        diventò grande e fessi un basalisco,
        e sú sin alla bocca li trascorse.

        Ancor dentro nel cor ne contremisco,
   95 pensando ch'egli uccide chiunque sguarda:
        però vedi, lettor, s'io stetti a risco.

        Non fe' sí gran tempesta mai bombarda,
        quanto fec'egli, quando fuor uscío,
        venendo a me con la crista gagliarda.
p. 215
  100 Ma, quando vide sé in lo scudo mio,
        perché lo sguardo suo è che uccide,
        lí si specchiò e subito morío.

        Quando l'Invidia morto il figliol vide,
        le man si morse con sospiri e pianto,
  105 con gran singolti, voci ed alte gride.

        Allor inver' di lei mi feci alquanto,
        dicendo:—O brutta e maladetta fèra,
        o crudeltá, che 'l mondo guasti tanto,

        nel bel giardin di sempre primavera
  110 tu da primaio insidiosa intrasti
        con falsitá e con bugiarda céra;

        i primi nostri, vergognosi e casti,
        servi facesti di concupiscenza;
        e i gran doni di Dio però fûr guasti.

  115 Non ti ritenne poi l'alta innocenza
        del iusto Abel, ch'era il primaio buono,
        nato nel mondo d'umana semenza.

        Né che 'n quel punto egli facea il dono
        d'offerta a Dio: allora piú feroce
  120 tu l'uccidesti senza alcun perdono;

        per che gridoe la terra ad alta voce
        per lo sangue innocente; e cosí fece
        per l'altro, il qual tu occidesti in croce.

        Le man fraterne armasti nella nece
  125 del bel Iosef, ed a ciò consentire
        facesti i suoi fratelli tutti e diece.

        Non avesti piatá del gran martíre
        dell'etá puerile e del lamento
        del vecchio padre, che volea morire,

  130 quando del figlio vide il vestimento
        tinto di sangue; e tu, o fèra cruda,
        stavi ridente e col volto contento.

        Ahi, belva trista e d'ogni piatá nuda!
        A te Pilato, sol per saziarte,
  135 dimostrò il Re giá tradito da Iuda,
p. 216
        tinto di sangue e con le vene sparte.
        Per recarti a piatá, disse:—Ecco l'Uomo
        fragellato nel corpo e in ogni parte.—

        Ma tu, crudele, allora festi como
  140 cane alla preda, che l'ira il trafigge,
        o come l'orso, quando vede il pomo;

        ché allor gridasti:—Tolle, crucifigge;—
        e niente ti mosse, o dispiatata,
        in tanta maiestá l'umile effigge.

  145 Superbia è la tua madre, onde se' nata;
        e 'l timor vile è quel che ti notríca,
        ed anco è 'l padre, dal qual se' creata.

        Però d'ogni virtú tu se' nemica,
        mentre vuoi esser tu la piú eccellente
  150 e che di te meglio d'altri si dica.

        Odio tu porti a quel ch'è piú splendente,
        s'e' tua virtú ecclissa o falla meno
        come il lume maggior il men lucente.

        Allor nel core ti nasce il veneno
  155 inver' di quello, e cerchi che s'estingua
        quello splendor ch'è piú del tuo sereno.

        E col rancor del core e colla lingua
        giammai non posi e colli denti stracci
        la carne umana marcia che t'impingua,

160 insidiando con occulti lacci.—

p. 217

CAPITOLO V

Di tre spezie d'Invidia e di Cerbero, dal quale l'autore fu assalito.

        Mentr'io dicea, ed ella strignea i denti
        irata verso me ed era morsa
        da' suoi capelli, ch'erano serpenti.

        E giá Minerva avea la via trascorsa,
    5 al mio parer, un gittar di balestro,
        ond'io per giunger lei mi mossi a corsa.

        Però partimmi e pel cammin alpestro
        sí ratto andai, ch'io fui appresso a lei
        come scolar che va dietro al maestro.

   10 Ed ella a me:—Li figli, che li piei
        seguitan d'esta belva e 'l suo calcagno,
        se vuoi sapere, or nota i detti miei.

        Sappi che, quando alcun, sol per guadagno
        o altro bene, d'invidia s'accende
   15 contra il vicino artista ovver compagno,

        questo ha alcuna scusa, s'egli offende;
        ché sempre alla cagion, che 'l bene scema,
        alcuna invidia ovver rancor si stende.

        Ma, se la volontá la gran postema
   20 ha dell'invidia senza essere lesa,
        e senza pro e senza alcuna téma,

        cotale invidia non può aver difesa;
        ché sol malizia ha quel rancor commosso
        senza esser adontata ovver offesa:

   25 sí come il can che non può roder l'osso,
        che, quando vede ch'altro cane il rode,
        con impeto, abbaiando, gli va addosso.
p. 218
        E questo non fa ei che gli sia prode;
        ma sol malizia el fa esser nemico,
   30 talché si duol di quel ch'altri si gode.

        Cotal invidia il vizioso antico,
        sí come è scritto, alli giovani porta,
        in quel che senza posa egli è inico.

        La terza invidia, che chiude ogni porta
   35 della piatá nell'uomo e che è segno
        ch'ogni luce mentale in lui sia morta,

        è quella c'ha il cor tanto malegno,
        che del dono, che dá Dio ovver natura,
        concepisce odio ed anche n'ha disdegno

   40 ché, quando è bona alcuna creatura
        e pò far pro ed offesa non reca,
        nulla scusa ha colui che gli ha rancura.

        Dunque sola malizia è che l'acceca
        e move a invidia; e tal colpa di rado
   45 riceve grazia della sua botteca.—

        Cosí Minerva a me di grado in grado
        li membri dell'invidia mi descrisse
        e quel ch'è piú difforme dal men lado.

        E piú detto averebbe; ma s'affisse,
   50 perché trovammo in terra una catena
        maggior che da Vulcan giammai uscisse;

        la qual era sí grande, che appena
        l'averebbon portata due cameli,
        se l'avesseno avuta in su la schiena.

   55 —Cerbero, che ha a serpenti tutti i peli
        —disse a me Palla,—d'esta fu legato
        nelle tre gole, c'ha tanto crudeli,

        quand'egli dal fort'Ercol fu menato
        nel mondo su, come menar si sòle
   60 un fero toro a forza e suo mal grato.

        Giunto che fu presso ove luce il sole,
        perché negli occhi il raggio gli percosse,
        forte latrò con tutte e tre le gole.
p. 219
        E con tal forza addietro ingiú si mosse,
   65 che avería tratto seco il forte Alcide
        inver' l'inferno, credo, se non fosse

        ch'egli sguardò le braccia ardite e fide
        del buon Teseo, ed egli li sobvenne,
        quando alla 'ngiú cosí calar lo vide.

   70 Cerber, tirato, su nel mondo venne,
        forte latrando con tutti e tre i musi,
        perché la mazza d'Ercole sostenne.

        Poi che fu su, tenne gli occhi suoi chiusi
        ché sempre il raggio lucido è noioso
   75 agli occhi infermi ed alle tenebre usi.

        Quando morí il grand'Ercol virtuoso,
        ché la camicia la vita li tolse,
        tinta del sangue che era venenoso,

        quel can malvagio allora si disciolse,
   80 ché colli denti esta catena rose;
        e libero fuggí dovunque vòlse.

        L'Invidia allor quiritta questa pose
        in questo loco, ch'a lei è subietto;
        ed halla qui tra l'altre infernal cose.—

   85 Minerva appena a me questo avea detto,
        ch'io cominciai udire il trino abbaio
        di Cerber, cane orrendo e maladetto.

        E come un gran rumor, che da primaio
        confuso pare e, quanto s'avvicina,
   90 tanto egli par piú vero ed anco maio,

        cosí facea del can la gran ruina.
        E po' el vidi venir con tre gran bocche,
        correndo giú per quella piaggia china.

        —Guarda—disse la dea,—che non ti tocche;
   95 ché, s'e' la bava addosso altrui attacca,
        mestier non è che mai piú cibo imbocche.—

        Le fiere gole, con che 'l cibo insacca,
        quando latrava, parean tre gran tane,
        vermiglie come sangue e come lacca.
p. 220
  100 Minerva avea il mele ed avea il pane;
        e fenne un misto ed al mostro gittollo:
        allor tacette quel rabbioso cane

        e, per piú averne, ratto stese il collo
        e ventiloe la coda ed alzò 'l mento
  105 come il mastin, quando non è satollo.

        Mentr'egli, per piú averne, stava attento,
        la dea accennò ch'io prendessi la via;
        ond'io quatto su andai a passo lento.

        Quando Cerber s'avvide ch'io fuggía,
  110 mi risguardò e poi scosse la testa
        e con tre gole borbottò in pria.

        Poscia corse ver' me con gran tempesta,
        come alla preda affamato lione,
        quando adirato sta nella foresta.

  115 —Fa', fa' che ratto a lui lo scudo oppone
        —gridò Minerva,—se non vuoi morire,
        ov'è scolpito l'orribil Gorgone.—

        Il gran periglio dá maggior ardire,
        se non dispera; ed io lo scudo opposi,
  120 quando su contra me il vidi venire.

        Egli lo morse coi denti rabbiosi;
        poi li ritrasse a sé, perché s'avvide
        che al cristallo non eran noiosi.

        Allor gridai:—O Palla, che mi guide,
  125 perché tu a questa volta m'hai lasciato?
        perché tu a me medesmo sol mi fide?—

        Per questo corse e posemise a lato,
        dicendo a me:—Perché 'l timor t'assale,
        da che natura ed io t'abbiamo armato?

  130 Per questa piaggia, per la qual tu sale,
        se tu non lassi l'arme da te stesso,
        nulla nuocerti può over far male.—

        Quando questo dicea, ed ivi appresso
        in terra vidi guasto un corpo umano,
  135 mezzo corroso e con lo petto fesso.
p. 221
        Ed era senza piedi e senza mano
        sí come un corpo ch'a' lupi rimagna,
        e brutto e lacerato a brano a brano.

        Di simil corpi, lí 'n quella campagna,
  140 cosí disfatti, n'era un grand'acervo,
        il qual mi demostrò la mia compagna.

        Quel primo, ch'io trovai, disse:—Io fui servo
        giá d'Atteon e fui 'l primo che 'l morsi,
        quando mi parve trasmutato in cervo.

  145 Ma poi, quando fui qui, ed io m'accorsi
        ch'io fui il cane e ch'egli era uomo vero;
        ma per la 'nvidia l'intelletto torsi.

        E noi, che stiamo in questo cimitero,
        siam cosí rosi, ché rodemmo altrui
  150 con lingua e fatti e dentro nel pensiero.

        Quel grande invidioso è qui tra nui,
        che volle a sé che un occhio si traesse,
        perché al compagno sen traesson dui:

ed anco ha doglia, quando 'l ben vedesse.—

p. 222

CAPITOLO VI

Dichiarasi come l'invidia si oppone alla virtú.

        Mentr'io admirando stava stupefatto,
        vidi quegli uomin guasti rifar sani
        e nelli membri interi ed in ogni atto.

        E poi vidi venir ben mille cani,
    5 latrando contra loro inseme in frotta,
        mordaci e grandi piú che cani alani.

        Come in la mandra fa la lupa ghiotta,
        che morde e guasta ed anco uccide e strozza;
        cosí facean quei can di quegli allotta.

   10 Quale rimane ai lupi alcuna rozza,
        cosí li vidi rosi, e sí rimasi
        e cogli occhi cavati e lingua mozza,

        e senza mani e piedi e senza nasi,
        e sviscerati e le budella sparte,
   15 e col cor dentro roso e petti spasi.

        Io vidi un, ch'era guasto in ogni parte;
        al qual io dissi:—Prego che mi dichi
        chi fusti, e vogli a me appalesarte.

        —Io fui al tempo de' romani antichi
   20 —rispose quello,—che Roma a ragione
        visse in virtú e cogli atti pudichi.

        Fui con molt'altri contra Scipione:
        ah, invidia, nemica di virtude!
        ah, invidia, ch'a bontá sempre t'oppone!

   25 Non valse a lui mostrar le membra nude
        pien di ferite in ragion delle spese,
        che richiesono a lui le lingue crude.
p. 223
        Non valse a lui mostrar che ne difese;
        e che, s'egli non fosse, dir non valse,
   30 sarian le roman case state incese;

        ché, quando per virtú in gloria salse,
        allor l'Invidia, per tirarlo a basso,
        contro lui mosse mille lingue false.

        Ond'egli fuor di Roma mosse il passo,
   35 dicendo:—O madre ingrata al figliol pio,
        o patria invidiosa, ora ti lasso:

        tu non possederai il corpo mio.
        Ed io, che parlo, fu' il primo tra quelli,
        ché invidia contro lui mi fe' sí rio.

   40 Però son posto qui alli fragelli,
        che tu hai visti, e invidia ne tormenta
        in quello che ne fe' malvagi e felli.

        Iustizia fa ch'ognun di noi diventa
        san nelli membri, e cosí fa rifarne
   45 almen nel mese delle volte trenta.

        E, come noi mangiammo l'altrui carne
        sí come cani, e cosí per vendetta
        da invidiosi can fa divorarne.—

        E giá la dea insú n'andava in fretta,
   50 ond'io partimmi e non gli fei risposta;
        e, mentr'io andava per la strada incerta,

        trova' una fossa occulta in la via posta,
        e senza voglia mia il piè vi posi,
        e caddi in terra alla sinistra costa.

   55 Subito mille cani, ivi nascosi,
        vennon contro di me con grandi gridi
        e colli denti di cani rabbiosi.

        Ahi, quanto io ammirai, quando li vidi!
        Ed anco ebbi timor di lor concorso,
   60 quando disseno:—Preso è; uccidi, uccidi!—

        Sí come il can quando è percosso e morso,
        ch'ogni altro can gli abbaia e fagli guerra,
        quando grida per doglia o per soccorso,
p. 224
        cosí la Invidia fa, quand'altri è 'n terra;
   65 e quando vede alcun condutto al laccio,
        manifesta il venen che dentro serra.

        Io m'ingegnai di terra levar 'vaccio.
        Mirabil cosa! Quand'io fui levato,
        ognun fuggío e nessun mi die' impaccio.

   70 E giá, salendo, io era tanto andato,
        che giunsi all'altra spiaggia inver' ponente,
        ove Avarizia tiene el principato.

        Ivi trovai fuggire una gran gente,
        con sí gran furia, che l'un dava inciampo
   75 nell'altro per fuggir velocemente.

        Sí come quando in rotta è messo un campo,
        che par ch'ognun disperso si dilegue
        tra spini e fiumi e monti in loro scampo,

        e con la spada il vincitor li segue,
   80 forte correndo, e spesso avvien ch'un solo
        mille giá messi in fuga ne persegue;

        cosí fuggendo andava quello stuolo,
        tra 'l qual conobbi Bencio da Fiorenza,
        che fu di Giorgio Benci giá figliuolo.

   85 Io dissi a lui:—Un poco sussistenza
        prego che facci e che di dir ti piaccia
        perché fuggite voi, per qual temenza.—

        Rispose, andando e voltando la faccia:
        —Donna sta qui, per cui fuggiam sí forte:
   90 ella col suo timor ne mette in caccia.

        In questa piaggia tien la brutta corte
        ed è chiamata trista Povertade,
        spiacente tanto, ch'appena è piú Morte.

        Per mezzo delle spine e delle spade
   95 noi la fuggiamo per ogni periglio,
        per mezzo a' fiumi e per l'aspre contrade.—

        Allor per veder quella alzai il ciglio
        e dalla lunga vidi quella vecchia,
        ch'è ostetrice prima ad ogni figlio.
p. 225
  100 Avea i peli canuti ad ogni orecchia;
        è dispiacente sí, che a lei appena
        la Morte in displicenzia s'apparecchia.

        Malanconia e fame seco mena;
        e per suoi damigelli avea gaglioffi;
  105 e di miseria la sua corte è piena.

        E barattieri ha seco e brulli e loffi
        e quelli a cui non fa bisogno punga,
        e nudi che sospiran con gran soffi.

        Per questo van fuggendo tanto a lunga,
  110 e la fatica mai non li fa stanchi:
        tanto han timor che costei non li giunga.

        Il loco, ove fuggíano, io mirai anchi
        e vidi l'altra corte, dove vanno,
        ove lor pare alquanto esser piú franchi.

  115 Lí stava una regina in alto scanno
        ed era grande in forma gigantea,
        e vestita era d'oro e non di panno.

        E, benché fosse adorna come dea,
        nientemeno avea volto lupardo
  120 e la sua vista traditrice e rea.

        Mentr' i' a vederla ben drizzai lo sguardo,
        io vidi cosa, ch'il creder vien meno;
        ma io 'l dirò, e non sarò bugiardo.

        Vidi che della poppa del suo seno
  125 lattava e nutricava un piccol drago;
        ma ben parea a me pien di veneno.

        Mentre el suggea desideroso e vago,
        da quel, ch'egli era pria, si fe' piú grande
        che un grosso trave rispetto d'un ago.

  130 Allor richiede aver maggior vivande,
        ché tutto il latte, che la madre stilla,
        non basta al grande iato, ch'egli spande.

        Però, affamato, prende la mammilla
        e cava il sangue, e quel convien che suchi;
  135 e, perché è poco, il venen disfavilla.
p. 226
        —Convien che ad altra preda ti conduchi
        —disse colei:—o figlio, io non ti basto,
        da che hai piú fame quanto piú manduchi.—

        Allora il drago, per aver il pasto,
  140 tra quelle genti rapace si mosse,
        come fa il lupo tra le mandre el guasto.

        E, non sguardando qualunque si fosse,
        or questo or quel divora e 'l sangue beve
        colli suoi denti e coll'ultime posse.

  145 E, s'egli cresce al pasto che riceve,
        e quanto cresce, tanto ha piú appetito,
        convien ch'ogni gran cibo a lui sia breve.

        Vidi poi il drago crudele ed ardito
        venir ver' me con sí grande tempesta,
  150 che di paura io sarei tramortito,

        non fusse che Minerva presta presta
        a me soccorse, e tra lui e me si mise,
        e, quando venne, gli tagliò la testa.

        Mirabil cosa! Sette ne rimise,
  155 e tutte e sette quelle teste nuove
        anco la dea gli tagliò e ricise.

        Nacquene in lui ancor quarantanove;
        e fu quell'idra, giá morta da Alcide,
        quando nel mondo fece le gran prove.

  160 Quando dea Palla di questo s'avvide,
        che ogni capo ne rimette sette,
        quantunque volte la spada il ricide,

        non con quell'arme piú gli resistette,
        ma disse a me:—Qui è bisogno il foco:
  165 quest'è quell'arme ch'a morte lo mette.—

        Descender vidi allora su 'n quel loco
        una gran fiamma, e quel serpente estinse
        e féllo come pria diventar poco.

In questo modo la mia scorta el vinse.

p. 227

CAPITOLO VII

Ove trattasi del vizio dell'avarizia.

        Io stava ancora a quel dragone attento,
        a cui, mangiando, fame cresce tanto,
        quanto a sei cifre crescerebbe un cento,

        quando la dea mi disse:—Or mira alquanto
    5 a quella lupa cruda, che ha la 'nvoglia
        sí preziosa e sí adorno il manto.

        Ben converrá che, quando ella si spoglia,
        la sua bruttura ed i figliol dimostri,
        che parturisce sua bramosa voglia.—

   10 Allor mirai e vidi cinque mostri,
        quand'ella si spogliò il bel mantello,
        ch'avean diversi volti e vari rostri.

        Il primo avea il viso umano e bello;
        e quanto piú venía verso la coda,
   15 tanto era serpentino e rio e fello.

        Minerva disse a me:—Quella è la Froda,
        che guastò il vero amore e vera fede,
        che fa temer che l'un l'altro non proda.

        Quell'altro mostro, che dietro procede,
   20 che ha faccia umana e lingua tripartita
        e che trascina il petto e non sta in piede,

        è quella biscia maladetta ardita,
        che nacque prima del drago crudele,
        che diede morte, promettendo vita.

   25 Il terzo mostro, che ha in bocca il mèle
        e porta nella man la spada nuda
        nascosa dietro, sol perché la cele,
p. 228
        è quel dimon, ch'entrò nel cor di Giuda,
        quando col bascio il gran Signor tradío
   30 per l'appetito della lupa cruda.

        Il quarto mostro, piú malvagio e rio,
        è quel che 'l secol d'oro e l'etá lieta
        conturbò prima con dir «tuo» e «mio».

        E 'l coltel sanguinoso e la moneta
   35 vedi che porta, ed è pien di veneno,
        fiero e rapace senza nulla pietá.—

        Poi tanti mostri parturío del seno
        e tanto brutti la bramosa lupa,
        ch'a numerargli ognun ne verría meno.

   40 —Ella è nel ventre tanto grande e cupa
        —disse Minerva,—e mena a tanti lacci,
        ch'ogni intelletto grande e legge occúpa.

        Perché nel fundamento ben lo sacci,
        attendi ch'avarizia è voglia accesa
   45 di conservar o ch'acquistar procacci.

        Se ad acquistar questa voglia fa impresa,
        sta in faticosa cura e sempre in moto
        e sempre al pasto con la mente attesa;

        ché sempremai 'l voler, quand'è rimoto
   50 da quel ch'egli desia, si move e corre,
        insin ch'è pien, se gli par esser vòto.

        E, perch'empier non puossi e fame tôrre
        giammai l'avaro e bramoso appetito,
        salvo al desio non voglia termin porre,

   55 per questo avvien che quanto piú è ito
        oltra, acquistando, tanto s'affatica:
        però tal cura cresce in infinito.

        E quanto vien piú verso l'etá antica,
        tanto piú cresce e per amor del pasto
   60 ogni altro amor disprezza ed inimica.

        Quinci escon i gran mal, che 'l mondo han guasto;
        ché, quando questa brama non s'affrena,
        sforzando, ruba altrui con onte ed asto
p. 229
        Questa è che al furto ed alle forche mena
   65 e fa l'usura e barattier ricetta;
        questa è d'inganni e di menzogne piena.

        Questa fa che 'l figliol la morte aspetta
        del vivo padre, e, per esser ereda,
        spesse fiate a lui la morte affretta.

   70 Questa è che assassina, uccide e preda,
        dispregia Dio, all'uom è traditrice,
        e meretrica ed in molt'atti è feda.

        Questa è 'l mal seme e questa è la radice
        d'ogni altro mal; ché di lei uscir puote
   75 ogni altro vizio, sí come si dice.

        L'altra avarizia ancor, se tu ben note,
        è voglia accesa a conservare in arca;
        e questa fa cadere in molte mote.

        Questa è troppo tenace e troppo parca;
   80 ed è senza piatá e non sobviene,
        se il bisognoso chiede o si rammarca.

        Deh, dimmi, avar, che giovan l'arche piene,
        se l'Avarizia sí ti tien la mano,
        che a te, né ad altri non ne puoi far bene?

   85 E forse lasserai erede estrano,
        che non vorresti, e forse sará alcuno,
        che dir potrai:—Ho conservato invano.—

        Or non sai tu ch'ogni ben è comuno
        nel gran bisogno e che nell'ampia mensa
   90 parte ci ha 'l nudo povero e digiuno?

        Ma ciò ch'avanza o che mal si dispensa,
        il bisognoso può dir che gli è tolto
        e la indigenza iniustamente offensa.—

        Quando tutto il processo ebbi raccolto,
   95 i' dissi a lei:—Non ho bene compreso
        un detto, che 'l pensier mi grava molto.

        Tu di' che la Menzogna, s'io l'ho inteso,
        è figlia della lupa iniqua e ria,
        che dopo il pasto ha piú 'l disio acceso.
p. 230
  100 Or come è questo, dacché nacque in pria
        del petto invidioso del serpente,
        ch'è menzonaio e padre di bugia?—

        Ed ella a me:—Non è inconveniente
        ch'un atto rio di piú radici nasca,
  105 com'io ti mostrerò apertamente.

        Tu sai che fura alcun, perché si pasca;
        ed alcun fura per la voglia sola,
        che ha d'esser ricco, e per mettere in tasca.

        Tu vedi ben che l'uno e l'altro imbola,
  110 ed un di questi da avarizia è mosso,
        e l'altro el move il vizio della gola.

        Perché tal dubbio sia da te rimosso,
        dirò dove virtú e 'l mal si fonda;
        e chiaro tel dirò quantunque posso.

  115 Non vien dal fior, né anco dalla fronda,
        s'egli è amaro e vizioso il frutto,
        ma da la raica e 'l ramo, onde seconda.

        E cosí l'atto, s'egli è bello o brutto;
        e, s'egli ha 'n sé bontá ovver malizia,
  120 vien dalla volontá, ond'è produtto;

        ché 'l voler, intendendo, el fine inizia
        e sa 'l perché e 'l modo, e l'ordin guida;
        ed ella fa il fin buono ed anche 'l vizia.

        Onde, se alcun per bene un uomo uccida,
  125 servando l'ordin iusto, cotal atto
        non faría lui colpevole omicida.

        Il tempo è poco: omai andiam piú ratto.—
        Ond'io mi mossi; e forse eravamo iti
        quant'un grosso balestro avesse tratto,

  130 ch'io risguardai agli oppositi liti
        e vidi il mostro opposito e distante
        a la lupa rapace e suo' appetiti.

        Le mani avea forate tutte quante,
        i piedi avea di gallo e la gran cresta,
  135 e d'uomo il volto e tutto altro sembiante.
p. 231
        Genti eran seco, che facean gran festa;
        ed egli stava in mezzo grasso e croio;
        poi si spogliò e donò a lor la vesta.

        Poi, poco stando, ed ei prese un rasoio
  140 e scorticossi, e poi le ven si punse;
        e donò a quelle genti il proprio cuoio

        e poscia il sangue, che da sé desmunse.
        Alfin e' diventò come Eco trista,
        ch'ancor risponde e d'amor si consunse.

  145 La dea a me:—L'immago, che hai vista,
        del prodigo è, c'ha suoi atti contrari
        a quella lupa, che bramando acquista.

        Egli non cura robba, né denari;
        dissipa e fonde e li suoi ben ruina.
  150 Quest'altra aduna e tien con modi avari.

        Il liberal per mezzo a lor cammina:
        cosí ogni virtú giammai non erra,
        s'ella alle parti estreme non declina.

        Da un lato l'avaro a lei fa guerra,
  155 amando troppo l'oro e per eccesso;
        dall'altro quel che mai la borsa serra:

        ché la pecunia e l'altro ben, concesso
        all'uso umano, egli ama tanto poco,
        che non mira ond'è e quanto e come spesso:

160 però oppositi stanno in questo loco.—

p. 232

CAPITOLO VIII

Dove si ragiona del vizio dell'avarizia

        Un gran torrente, poi, polito e chiaro
        trovammo in quella via, che gira in tondo,
        ove pena sostien chiunque fu avaro.

        E presso al fiume, ov'egli è piú profondo,
    5 vidi del miser Cadmo le figliuole
        con brocche in mano; e nessuna avea fondo.

        E, quando alcuna empire l'idria vòle,
        perché 'l lor vaso è sfondato di sotto,
        quanto sú metton, giú convien che scóle.

   10 E sempre stan con l'appetito ghiotto,
        affaticate, che credono empire,
        quando che sia, ognuna il vaso rotto.

        Migliaia vidi posti a tal martíre,
        che di quel fiume stanno su la rupe,
   15 ed un di loro a me cominciò a dire:

        —Sí come noi le voglie rotte e cupe
        nel mondo avemmo e sempremai bramose
        piú che mai cagne ovver che magre lupe,

        cosí iustizia qui 'n pena ne pose,
   20 che sitibondi stiamo appresso all'onda
        dell'acque sí abbondanti e copiose.—

        Poscia una donna vidi in sulla sponda
        come un gigante e col vestire adorno,
        con bella faccia e con la treccia bionda.

   25 Dinanti a lei ed anche intorno intorno
        stavano molti, ch'eran piú assititi
        che Orlando, quando alfin sonò 'l corno.
p. 233
        E, benché siano al fiume in sulli liti,
        non mai però verun dell'acque toglie,
   30 ché dal voler di Dio sonno impediti.

        La bella donna di quell'acqua coglie
        con diligenza, con una gran brocca,
        per saziar le lor bramose voglie,

        ed a quell'alme la trasfonde in bocca;
   35 ma la lor sete tanto piú s'accende,
        quanto piú acqua in gola lor trabocca.

        Ella mi disse:—O tu, che vivo ascende
        e contemplando vai questo reame,
        la pena di costoro alquanto attende.

   40 Benché 'l poeta Copia mi chiame,
        nientemen mia acqua mai fa spenta
        la sete a questi e loro ardenti brame.

        Or pensa la lor pena se tormenta,
        da che l'arsura lor mai non s'estingue,
   45 né, quantunque acqua beva, si contenta.

        Però qui stanno ianti colle lingue,
        come sta il can che ha corso, e con gran folla
        corrono a me, che la lor sete impingue.

        —O voglia ingorda e cupa mai satolla,
   50 a cui la sete maladetta cresce,
        quanta piú acqua del mio fiume ingolla,

        qual tutta l'acqua, che nutríca pesce,
        non saziaría e non faría dir:—Basta,—
        né quanta n'entra in mare ovver che n'esce:

   55 nel mondo, onde mi mena la dea casta
        —risposi a Copia,—non è questa sete,
        al mio parer, cotanto ingrata e vasta.—

        La donna a me:—Lassú non conoscete,
        rispetto a quell'arsura che martíra,
   60 quant'è poca quell'acqua, che bevete.

        La millesima parte, chi ben mira,
        quando:—Vorrei—si dice, o:—Se avesse!
        non si chiede del ben, che l'uomo disira.
p. 234
        Sí come 'l ricco chiese che daesse
   65 un gocciol d'acqua Lazzaro col dito,
        che la sua lingua tanto non ardesse,

        tal chiede l'uom rispetto all'appetito;
        colui ch'empirsi d'un gocciol si fida,
        di tutto il fiume mio non sería empíto.

   70 Qui sta Pigmalion, e qui sta Mida,
        che di far oro col tatto a Dio chiese,
        e per tal don di sé fu omicida.

        Ancora chiedon con le voglie accese:
        a lor, né ad altri mai potei dar tanto,
   75 ch'elli dicesson ch'io fussi cortese.—

        Rispose a questo un ch'era quivi accanto:
        —Pensa se io, a cui non dái niente,
        mi debbo lamentar e far gran pianto.—

        E mentre che per questo io posi mente,
   80 egli mi disse:—Io son preite Antióco,
        e son dannato qui tra questa gente.

        Idropico giammai, fabbro, né cuoco
        non ebbon sí gran sete; e sempre chiedo
        che questa donna mi dia bere un poco.

   85 Maggior dolor non è, sí com'io credo,
        che di eccellenza aver gran desidèro
        o di ricchezza o d'ira o d'atto fedo;

        ché, se quel ch'uom disia non viene invero,
        l'animo affligge, e, se inver venisse,
   90 ha sempre mancamento e non è intero.—

        Risponder gli volea, quand'esto disse;
        ma per la folla e per la grande stretta
        convenne ch'io sospinto addietro gisse,

        però che quella gente maladetta
   95 fanno gran calca, ed insieme s'oppreme
        ciascun, che l'acqua in prima a lui si metta.

        Per questo poi turbar li vidi inseme,
        sí come quei fratelli fên la guerra,
        in Tebe nati dal serpentin seme,
p. 235
  100 e come nel teatro alla gran terra
        ne' giuochi salii dispiatati e crudi,
        sí come dice Seneca e non erra,

        stavano disarmati senza scudi
        li condannati, chiusi in poco spazio,
  105 colli coltelli in mano, a petti nudi,

        e di lor carne facean tanto strazio,
        finché l'un l'altro crudelmente uccide,
        ch'ogni Erode crudel ne saria sazio.

        Quando cotanto mal l'occhio mio vide,
  110 dissi a Minerva:—Io prego mi contenti
        d'un dubbio, pria che piú in alto mi guide.

        Di tutti i cieli e di tutti elementi,
        se nell'Apocalisse io ben discerno,
        di tutti i regni e di tutti li venti

  115 commesso ha Dio agli angeli il governo
        sí come a motor primi e generali,
        sí che lor moto vien dal piú superno.

        Ora mi di': se li ben temporali
        sono commessi ad agnol che sia buono,
  120 da che son seme di cotanti mali?

        Ché, se penso l'origine, onde sono,
        cavati son d'inferno, ove natura
        nascosto avea cosí nocivo dono.

        Ed anco questo don, s'io pongo cura,
  125 tutte le volte nuoce a' possessori,
        se l'appetito a sé non pon misura.

        E Satanasso disse:—Se mi adori—
        quando nell'alto monte menò Cristo,
        —io ti darò e regni e grandi onori.—

  130 Adunque da lui è cotale acquisto:
        nullo guadagno grande e ratto viene,
        se non con froda o con rapina misto.

        Chiaro è lo testo che questo contiene,
        ché nell'Apocalisse chi ben cerca,
  135 questo testo e la chiosa vedrá bene.
p. 236
        Dice: «Qualunque per guadagno merca,
        convien che della bestia porti il segno»,
        come chi serve a Dio porta la cherca.

        E questa bestia, come fermo io tegno,
  140 è un diavolo; e la froda e la bugia
        il segno son del serpente malegno.

        Ed anco in ciò che fa, convien che sia
        Cristo simile al Padre e che ambedoi
        tengan un modo, un ordin e una via.

  145 Ma Cristo solo a' buon seguaci suoi,
        s'io ben estimo, commise ogni cosa
        alta e perfetta, e questo veder puoi.

        Del sangue suo la sua dotata sposa
        commise a Pietro e l'una e l'altra chiave,
  150 la qual d'aprir il ciel ora si posa.

        E quella dolce Madre, a cui disse:—Ave—
        giá Gabriello, diede al suo diletto,
        il qual amò con piú amor soave.

        Il nome suo commise al vaso eletto,
  155 che 'l predicasse tra 'l popul gentile,
        e che alla fede el facesse soggetto.

        Ma la pecunia, come cosa vile,
        commise a quel discepol, ch'era rio
        lupo rapace in mezzo al santo ovile.

  160 Questo ne dice Cristo, al parer mio,
        che nullo puote mai, sí come ei pone,
        a Mammona servir ed anco a Dio.

        Sí come alcuno espositor espone,
        delle divizie Mammona è ministro;
  165 sicch'egli alle divizie si prepone.—

        Quand'ebbi detto, il cammino a sinistro
        prese la dea ed alla mia proposta
        mi disse:—L'opra dimostra il maistro;—

e non mi volle dare altra risposta.

p. 237

CAPITOLO IX

Del vizio dell'accidia e delli suoi descendenti rami.

        Giá er'io gionto in su la piaggia quarta,
        ove l'Accidia sta ad impedire
        l'andar alla vertú per la via arta,

        quando la dea mi cominciò a dire:
    5 —Accidia è tedio ed un increscimento
        di far il bene ovvero a Dio servire;

        ché sempre a quella cosa si sta attento,
        che dá diletto ovver piacere al cuore,
        ed ogni altra è con pena e con istento;

   10 e tanto ogni vertú ha piú valore,
        quanto è prodotta con piú allegrezza
        e con maggior fervor di buon amore,

        ché amor ogni virtú pone in altezza,
        e tanto piace a Dio ed ègli accetto,
   15 che 'l ben, quanto ha d'amor, tanto l'apprezza;

        e come amor il ben fa piú perfetto,
        cosí l'accidia, ch'all'amor s'oppone,
        el fa essere vile e fallo infetto.

        E sappi che di questo è la cagione
   20 la sensualitá, che sempre è prona
        a ciò che contradice alla ragione;

        e se al ben far la volontá la sprona,
        vi va con tedio, se vertú assueta
        non l'ha domata pria e fatta buona.

   25 Ma, se corre a virtú gioconda e lieta,
        e spiace a lei ciò ch'a ragion dispiace,
        segno è ch'è buona, domata e quieta.—
p. 238
        Coll'occhio, poi, che meglio e piú vivace
        prende certezza e piú il ver conferma,
   30 vidi l'Accidia ed ogni suo sequace.

        Ell'era vecchia, magra, trista e 'nferma,
        e posta tra le spine e campi incolti,
        debile sí, che 'n piè non stava ferma.

        E mostri intorno intorno ell'avea molti,
   35 ch'avean orribil forma ed apparenza,
        e tutti malanconici ne' volti.

        —La prima sua figliola è Sonnolenza,
        che si distende ovver dorme o sbaviglia,
        quando di Dio si parla o di scienza;

   40 e, se di risi o giochi si bisbiglia,
        sta colle orecchie e sta cogli occhi attenta
        e vigilante e colle liete ciglia.

        L'altra è la Tepidezza pigra e lenta,
        in cui caldo d'amor sí poco serve,
   45 ch'adopra come fiamma quasi spenta;

        noiosa a chi l'aspetta ed a chi serve,
        non cura il tempo che veloce vola,
        né fa che, operando, si conserve.

        La Negligenza è la terza figliuola,
   50 che sempre indugia nel tempo veloce,
        gravata ancor d'accidiosa stola.

        Per lei gridò giá Curio ad alta voce
        al grande imperator che sempremai
        a cosa apparecchiata indugio nòce.

   55 Mentre lo 'ndugio va di crai in crai,
        il tempo manca e crescono gli affanni,
        e li novelli aggravan li primai.

        E, mentre Negligenza tra li panni
        e tra la spen del «ben farem» si siede,
   60 il tempo corre in sua ruina e danni.

        Il quarto mostro, che 'n giú move il piede,
        Mollizia è, nemica del costante,
        che alquanto sale e poscia addietro riede.
p. 239
        E, benché alla 'nsú mova le piante,
   65 quando egli avvien che trovi cosa dura,
        per debilezza torna e non va innante,

        e perde il palio, che sta su l'altura,
        che sol si dá a chi ben persevéra
        insino al fine e 'nsin che 'l cammin dura.

   70 E, perché ben conoschi questa fiera,
        de' suoi figliol dirò la radice anco,
        ond'ha origin questa brutta schiera.

        E sol perché in loro è scemo e manco
        il vigor dell'amor, e però avviene
   75 ch'ognun di loro è tristo, lento e stanco.

        Non è che mai da sé sia grave il bene,
        ma è la voglia ch'estima se stessa
        di non poter, e però nol sostiene.

        E l'altra figlia, ch'a lei piú s'appressa,
   80 Malizia ha nome, il mostro piú rubesto,
        che di pensar malfar giammai non cessa.

        E, perché questo a te sia manifesto,
        sappi che Accidia in la virtú ha tedio,
        e ciò ch'a ragion piace, a lei è molesto.

   85 E, perché a lei nel ben non piace sedio,
        anco su vi s'attrista ed ègli amaro,
        da lui si parte per trovar rimedio;

        e, per aver all'angoscia riparo,
        fugge dalla virtú, ch'a lei è noiosa,
   90 inverso il vizio, alla virtú contraro.

        Lasciato il bene, su nel mal si posa;
        ivi si pasce e diletta e s'impregna
        di questa figlia rea e maliziosa.—

        Dicendo questo a me la dea benegna,
   95 io vidi mover con veloci passi
        la vecchia pigra e trista, che lí regna.

        E li suoi mostri, che pria parean lassi,
        si mosson dietro a lei gagliardi e presti
        sí come giovin, che correndo spassi.
p. 240
  100 E non parean pigri, tristi e mesti,
        ma ratti e tosti e con facce gioconde,
        non sonnolenti, ma attenti e dèsti.

        Ed io, che non sapea la cagion onde
        questo avvenisse, dissi:—O dea, al fatto
  105 quel, che tu giá m'hai ditto, non risponde.

        Io veggio che costor van tutti ratto:
        adunque non è ver quel che si dice,
        ch'ognun di lor sia infermo, lento e sfatto.—

        Ed ella a me:—Questo non contradice
  110 a quel che ho detto, se ben tu riguardi,
        ch'amor d'ogni atto umano è la radice.

        Ora costor solleciti e gagliardi
        corron cogli appetiti inverso il male,
        e quando vanno al ben, van pigri e tardi;

  115 ché, come sai, la parte sensuale,
        se non si doma, al mal ratto si move
        e verso il ben par ch'abbia fiacche l'ale.—

        Poscia Minerva mi condusse dove,
        nel mezzo del cammin, trovai due vie;
  120 maravigliar mi fên le cose nòve,

        ché su nell'una dolci melodie
        gli angeli cantan, sí dolci canzone,
        ch'io me n'innamorai quando l'odíe.

        E come a Roma nel campo d'Agone
  125 il premio si mostrava ai forti atleti,
        d'ingrillandarli di belle corone;

        cosí quegli angiol colli volti lieti
        prometteano a chi sal, con dolce invito,
        di coronarli e di farli quieti.

  130 —Venite su—diceano—al gran convito
        del nostro Re e del celeste Agnello,
        che sol contentar può 'l vostro appetito.

        Su pel viaggio tutto onesto e bello
        venite al gran Signor, che su v'aspetta,
  135 e noi ognun di voi come fratello.
p. 241
        Su troverete ciò ch'all'uom diletta,
        su senza morte è sempiterna vita,
        su sta la securtá non mai suspetta.—

        Io mi credea che tutti a tanta invita
  140 salisseno correndo insú devoti,
        bench'assai dura fusse la salita.

        Ed io ne vidi pochi tardi e pioti
        e gravi andar sí come Idropisia
        e come infermi e d'ogni fervor vòti.

  145 Quando poi rimirai all'altra via,
        benché fusse lotosa e pien di spine,
        per quella quasi ognun ratto corría.

        E, perché su per quella ognun cammine,
        stavan demòni con coron d'ortiche,
  150 che conduceano altrui a mortal fine.

        Tra le punture e tra le gran fatiche
        andava ognun sollicito e giocondo
        e con gran festa alle cose impudiche.

        E, quand'io vidi i servitor del mondo
  155 servir senza gravezza e con disio
        e li serventi a Dio con tanto pondo:

        —Di questo il tipo—dissi nel cor mio—
        fu quando Iuda andò ratto e festíno
        a tradir quel che fu ver uomo e dio,

  160 e vigilante andò fin al mattino;
        e Pier nel ben non vegliò solo un'ora,
        ma stava dormiglioso a viso chino,

        quando Cristo gli disse:—Sta' su ed òra:
        non vedi Iuda tu, il qual non dorme,
  165 ma ratto corre al mal e non dimora?—

E questo esemplo al ver tutto è conforme.—

p. 242

CAPITOLO X

Del vizio dell'ira e delle sue specie.

        Noi divenimmo in su la quinta strada,
        e trovai sangue in ogni lato sparso,
        come in su l'erbe cade la rugiada.

        Ed ogni luogo ivi era guasto ed arso,
    5 sí come Erode, a gran furor commosso,
        arse le navi in la cittá di Tarso.

        Poi risguardai e vidi un fiume rosso,
        tutto di sangue e grande quanto il Reno,
        ed anco, al mio parer, era piú grosso.

   10 Ahi, quanto di stupor io venni meno,
        vedendo un fiume spumoso e fumante,
        di sangue uman sí grosso e tanto pieno!

        Sí come manca il cuor all'elefante,
        vedendo il sangue ovver liquor sanguigno,
   15 cosí mancava a me il core e le piante.

        Per l'argine del fiume sí maligno
        andai tanto, insino ch'io trovai
        tre belle donne col viso benigno.

        E vidi dietro a lor, quando mirai,
   20 tre gran diavoli sí orrendi e brutti,
        che sí deformi non fûn visti mai.

        Addosso alle tre donne intraron tutti
        e trasmutâro lor belle sembianze,
        e gli atti umani in lor furon destrutti.

   25 Quelle lor facce, pria benigne e manze,
        si fên crudeli e diventôn di cane,
        e di scorzon si fên le bionde danze.
p. 243
        Di coltei sanguinosi armôn le mane;
        e le gran serpi, ch'avean nelle teste,
   30 soffiavan gracilando come rane.

        Di ferro arruginato fên le veste
        e di ceraste fenno le cinture,
        col morso e col venen troppo moleste.

        Quand'io vidi mutar le lor figure,
   35 conobbi le tre Furie infernali,
        a sé ed anche altrui amare e dure.

        Di pipistrello avean le lor brutte ali,
        e 'l collo e 'l dosso avvolti di serpenti,
        con viste acerbe, crudeli e mortali.

   40 —Queste, che mordon se stesse co' denti,
        sonno dell'ira il vizio triforme:
        in cotal modo ell'usan tra le genti.

        Quella che nella vista è men difforme
        e che par men molesta in questo loco
   45 e che si desta e poi ratto si addorme,

        è l'Ira prima: è lieve e dura poco,
        sí come fiamma accesa nella stoppa
        tosto si lieva, e poi s'estingue il foco.

        E, benché nel durare non sia troppa,
   50 il colpo furioso, quando coglie,
        non fa men male a chi in quello s'intoppa.

        E questa tra le case si raccoglie
        e tra la turba pronta e garrizzaia
        e tra gli amici, il marito e la moglie.

   55 L'altr'Ira è dentro, e di fuor non abbaia,
        ma pensa far vendetta e non favella,
        sol perché l'ira di fuor non appaia.

        Questa è chiamata Ira amara e fella;
        cerca vendetta e nel cuor si richiude;
   60 e poscia alfin si placa e non flagella;

        ché, benché pensi le vendette crude,
        passando il tempo lungo, e l'ira passa
        e le man placa, pria di piatá nude.
p. 244
        E l'Ira terza mai vendetta lassa,
   65 rabbiosa nello cor, e sempre seve,
        insin ch'occide o, divorando, abbassa.

        Questa è detta Ira difficile e grieve;
        crudele e tirannesca ovver superba,
        che mai non posa, se 'l sangue non beve.

   70 Megera è questa con la vista acerba;
        di ratta occision non è contenta,
        ma per piú tormentar la vita serba.

        Ella si gode quando altrui tormenta:
        guarda quant'ha crudele e brutta faccia
   75 e che d'ogni piatá la cera ha spenta!—

        Io vidi l'Ira poi con crudel faccia;
        e fe' le fiche a Dio il mostro rio,
        stringendo i denti ed alzando le braccia.

        Mentre cosí faceva, ei partorío
   80 orrendi mostri e prima la Biastema
        col viso altèro e biastimante Dio.

        Ahi, creatura vil, di bontá scema,
        putrido verme e posto in gran bassezza,
        come biastemi la Vertú suprema?

   85 Ché, da che l'Ira sempre mai disprezza
        colui, con cui si turba, or pensa quince
        se pecchi, dispregiando tanta altezza.

        E, se ti levi contra il primo Prince,
        sol per tal atto diventi idolatra:
   90 tanto il furor e cecitá ti vince.

        —Quell'altro, che ha la faccia iniqua ed atra,
        è Sdegno inchiuso nella fantasia,
        il qual, quand'esce fuor, com'un can latra,

        e dice contumelia e villania
   95 ed avvilisce, obbrobri recitando
        con la rabbiosa voce e con follia.

        Il terzo mostro ancor brutto e nefando,
        Immania ha nome ed Inumanitade,
        ch'è come un cane o bestia, divorando.
p. 245
  100 Questo tra 'l sangue crudo e tra le spade
        prende diletto e, benché altri gridi,
        non ha misericordia, né pietade.

        Dall'ira escon battaglie ed omicidi,
        insulti, oltraggi, onte, risse e guerra,
  105 le grandi espulsion de' propri nidi.

        Se 'l detto mio attendi, che non erra,
        questa è che ha guasto il mondo e le gran ville
        e che li gran reami gitta a terra.

        Questa è ch'uccise Ettòr ed anche Achille,
  110 e che ha divisa Italia e che redusse
        Roma e Cartago in foco ed in faville.

        Quando Dio l'uomo da prima produsse,
        non l'armò giá di denti ovver d'artigli,
        sol perché pio e mansueto fusse.

  115 Ma 'l miser'uomo, purché ira il pigli,
        fèra crudel si fa, e nella vista
        par ben ch'ad un dimonio s'assomigli.

        E, se saper tu vuoi quanto s'attrista,
        quando Ira sua vendetta far non puote,
  120 e quanta doglia in se medesma acquista,

        ella si morde i labbri e si percote,
        e rompe e spezza e furiosa mira,
        e svelle a sé la barba dalle gote.

        E ciò che far non può la crudel Ira
  125 incontro altrui, adopera in se stessa
        e fassi preda a sé e si martíra.

        E, se la spen di far vendetta cessa
        o troppo tarda, allora questa fèra
        piange per la vendetta non concessa.

  130 Perché ben abbi la scienza intera,
        ira è disio d'alcun mal vindicarse,
        ch'alcun riceve e vendicarlo spera.

        Onde, se alcun vedesse iniuriarse
        da un grande eccellente ovver signore,
  135 ed ei non possa o speri d'aiutarse,
p. 246
        costui non move l'ira, ma furore,
        e questo è sol, ché gli manca la spene,
        ch'accende il sangue a stizza presso al core.

        E sappi ancora ch'ira solo avviene
  140 per mal che l'uom riceve iniustamente:
        però apparenza di iustizia tiene.

        Per questo avvien ch'ogni irato si pente,
        quando si vede a torto aver punito
        colui che non ha colpa ed è innocente.

  145 Ed, ogni volta ch'alcuno è impedito
        da quel che molto spera o far intende,
        se non è forte, è dall'ira assalito.

        E chiunque ha seco l'ira, parvipende
        colui che 'l turba; e, s'egli è parvipenso,
  150 questa è prima cagion che d'ira accende;

        ch'ognun diventa di furore accenso,
        ch'è dispregiato o che riceve oltraggio,
        se alto cor non spregia, quando è offenso.—

Poi seguitammo insú nostro viaggio.

p. 247

CAPITOLO XI

Trattasi della pena dell'ira.

        Insieme su andammo per la riva
        del crudel fiume; e non era ito molto,
        ch'io vidi il suo principio, onde deriva.

        Non fu giammai sí gran popul raccolto,
    5 quanto una gente, ch'io vidi in un piano,
        d'anime nude, quando alzai il volto.

        Ognun di loro avea la spada in mano;
        tra se medesmi facean la gran guerra,
        spargendo i membri in terra e 'l sangue umano.

   10 Ancora il cuore il pianto fuor disserra,
        quand'io ricordo i colpi delle spade
        e 'l sangue vivo, che correa per terra.

        E, quando cosí sparto in terra cade,
        trascorre a valle; e questa è la cagione
   15 che 'l fiume fa di tanta crudeltade.

        Da quella parte, dove il sol si pone,
        le Furie volar io vidi veloci,
        piú che alla preda mai nessun falcone,

        con spade sanguinose e con gran voci,
   20 con facce irate e con serpenti in testa,
        irsute in alto e tumide e feroci.

        Giammai si mosson venti a piú tempesta,
        quando il lor re a loro apre la gabbia,
        che li tien chiusi nella gran foresta,

   25 quanto le Furie si mosson con rabbia,
        cogli occhi accesi e toscosi serpenti,
        col fuoco in mano e con rabbiose labbia.
p. 248
        E, come a suon di tromba e di stormenti
        s'accende a piú furor la gran battaglia,
   30 cosí facean tra sé le crudel genti.

        Ognun perfora l'altro, smembra e taglia.
        Non viddon tanto sangue i miser prati
        dell'Affrica, di Troia e di Tessaglia.

        Tutti si son nemici e tutti irati;
   35 e nullo colpo lor mai fere indarno,
        ché son, se non di spade, disarmati.

        Pensando, ancor m'impallido e descarno,
        vedendo che del sangue de' tapini
        si facea il fiume vie maggior che l'Arno.

   40 Megera poi de' guelfi e ghibellini
        trasse le insegne fuor tutte resperse
        di sangue vivo e peli serpentini.

        E l'una contra l'altra andâro avverse,
        e tanto sangue su quel pian si sparse,
   45 che tutta quella terra sen coperse.

        Di questo il fiume vidi maggior farse:
        allor le Furie corson come l'oca
        dentro in quel fiume nel sangue a bagnarse.

        Ahi, cieca Italia, qual furor t'infoca
   50 tanto che 'n te medesma ti dividi,
        onde convien che manchi e che sie poca?

        Non guardi, o miseranda, che ti guidi
        dietro a due nomi strani e falsi e vani?
        che per questo ti sfai e i tuoi uccidi?

   55 Per questo i tuoi figliol sí come cani
        rissano insieme e fan le gran ruine,
        e i cittadini fai diventar strani.

        Non sapendo il principio ovvero 'l fine,
        l'offesa o il beneficio, prendi parte
   60 contra li tuoi e cittá pellegrine.

        Pel sangue effuso e per le membra sparte,
        li tuoi figlioli a' mal nati fratelli
        e te a Tebe è degno assomigliarte;
p. 249
        ché, allora allora nati, fûn ribelli
   65 tra se medesmi ed uccisonsi inseme,
        con dure lance e con crudi coltelli.

        Ma tu se' peggio che 'l serpentin seme,
        ch'elli, in cinque scemati, fên la pace,
        e tu la cacci quanto piú ti sceme.

   70 Sí come alcun, che, ascoltando, tace
        e che attende e mostrasi contento,
        udendo il ver ch'agazza e che gli piace,

        cosí stett'io; e poscia piú di cento
        corsono addosso ad un con gran corruccio
   75 e ferito il lasciôn in gran tormento.

        Ed egli, vòlto a me:—Io son Uguccio,
        che ressi giá lo popul di Cortona,
        tra i quali fui come tra pesci il luccio.

        Cosí ferita è qui la mia persona,
   80 ché la iustizia, secondo l'offese,
        agli offendenti angoscia e pena dona.—

        Ahi, quanta doglia allor il cor mi prese,
        quando in tormenti vidi quel signore,
        che vivo fu magnanimo e cortese!

   85 Per mitigare alquanto a lui 'l dolore,
        diss'io:—Cortona è retta da Francesco,
        pregio di casa tua e gran valore.

        Da lui venuto son quaggiú di fresco;
        convien che a lui di te novelle io porti,
   90 se mai di questo inferno quaggiú esco.

        Minerva, che m'ha qui li passi scorti,
        di senno ha dato a lui sí gran tesoro,
        c'ha i mentali occhi a tutti i casi accorti.

        Il popul cortonese ha buon ristoro
   95 de' loro affanni e lieto vive adesso,
        subietto all'onde celestine e d'oro.—

        Piú dir volea, se non che un appresso,
        che ben di mille colpi era feruto,
        e senza gambe e mezzo 'l capo fesso,
p. 250
  100 gridò:—Io fui da te giá conosciuto.—
        Perché pe' colpi io ben nol conoscea,
        risposi:—Al mio parer, mai t'ho veduto.—

        Ed egli a me:—So' il prence d'Alborea,
        che, quando nella vita io era vivo,
  105 fui crudo piú che Silla ovver Medea.

        Di sangue al grande fiume io feci un rivo
        sol delle genti nate in Catalogna,
        'nanzi ch'io fussi della vita privo.

        Io dirò 'l vero a te e non menzogna:
  110 ben ventimila ne mandai al sonno,
        che desterá la tromba, che non sogna.

        —Iudice mio,—diss'io—signore e donno,
        di quel ch'io veggio in te e che mi dici,
        gli occhi la doglia testificar ponno.

  115 Io mi ricordo de' gran benefici,
        che nella vita lieta a me donasti
        con quell'amor, qual è tra veri amici.

        Or che li membri tuoi veggio sí guasti,
        io delle pene tue tanto mi doglio,
  120 che con parol non posso dir che basti.

        Ma una cosa da te saper voglio:
        per mancamento di quale vertude
        tu diventasti sí senza cordoglio?

        —Quella che, alzando ed abbassando, lude,
  125 tradimenti—rispose—e lusinghe anco
        delle person del mondo, che son Iude,

        nullo stato alto lassano esser franco;
        e quanto ha di timore alcuna cosa,
        tanto ha d'amore e di clemenza manco.

  130 E, se la Signoria non prende a sposa
        la Virtú mansueta ovver Clemenza,
        è a sé ed anche altrui pericolosa;

        ché, quando ira s'aggiunge alla potenza,
        se la vertú benigna non raffrena,
  135 fa piú ruina, quant'ha piú eccellenza.
p. 251
        Sí come Dio, ridendo, rasserena,
        e, turbato egli, tornaría in caosse
        la terra, il cielo e ciò che frutto mena:

        il gran Nettunno, quando irato fosse,
  140 turbaría il mare, ed infiaríansi l'onde,
        e le nereide ancor serían commosse;

        cosí, le Signorie stando iraconde,
        quanto piú alto son, maggior fracasso
        e maggior mal convien che ne seconde.

  145 Innanzi che di qui tu movi il passo,
        sappi: chi spregia altrui, a sé a rispetto,
        riputando sé alto ed altrui basso,

        d'ira e di crudeltá viene in effetto;
        ché sempre ira invilisce e parvipende,
  150 se bene hai inteso ciò che Palla ha detto.

        Dall'ira crudeltá nasce e discende,
        e voglio che tu sappi da me ancora,
        ch'Ira Superbia in sua maestra prende,

ed ogni vizio scorge ed avvalora.—

p. 252

CAPITOLO XII

Trattasi di certi che furono viziosi nell'ira, e si passa a discorrere del vizio della gola.

        Non medico giammai meglior se trova,
        né piú esperto nella medicina
        che quel che pria l'infermitá in sé prova.

        Cosí mostrò quell'anima tapina,
    5 che della crudeltá mi disse il vero;
        poscia soggiunse con vera dottrina:

        —Ogni animo in se stesso è molto altèro,
        se estima alcuno a sé esser fedele,
        e poscia il trova falso e non sincero.

   10 Se non è, molto piú si fa crudele:
        per questo, Silla dinanzi al senato
        morí per l'ira grande e sputò il fele;

        ché, come a te Minerva ha giá 'nsegnato,
        contra chi inganna e contra chi dispreggia,
   15 agevolmente ognun diventa irato.

        Però colui che, lusingando, freggia
        con atti e risa e con dolci parole,
        e poscia inganna come chi dileggia,

        quel ch'è ingannato, tanto irar si suole
   20 e tanto incrudelir di quell'inganni,
        quanto fidava, e tanto mal gli vuole.

        Per questo posto son tra li tiranni,
        che, benché mostrin faccia mansueta,
        nascondon lor vendetta sotto a' panni.

   25 Per cotal colpa io venni a questa meta:
        i traditori a me fûn la cagione
        ch'io diventai crudele e senza pièta.—
p. 253
        Domizian mostrommi e poi Nerone
        e molti altri tiranni, e nulla staccia
   30 ha tanti fori, quant'han lor persone.

        Forata e fessa avean tutta la faccia,
        ed avean mozzo l'uno e l'altro piede
        e dagli omeri suoi ambe le braccia.

        —Tutta questa gran turba, che tu vede,
   35 la notte—disse—risanan le piaghe;
        poi la mattina, quando il giorno riede,

        prendon le spade ovver l'acute daghe;
        tra sé fan la battaglia irati e fieri,
        sí ch'elli stessi a sé dánno le paghe.—

   40 Io stava ad ascoltarlo volentieri,
        se non che Palla disse che n'andassi,
        però ch'altro vedere era mestieri.

        Per una stretta via vòlse ch'intrassi:
        sempre salendo, giunsi su in un balzo,
   45 ove vendetta della gola fassi.

        Io dirò 'l vero, e forse parrá falzo:
        vidi in terra utricelli su in quel giro
        ovver vessiche, quando il viso innalzo.

        E, lamentando con molto sospiro,
   50 gridavano a gran voci:—Omei, omei!—
        come persona afflitta e che ha martíro.

        Per ammirazion fermai li piei
        dicendo:—Che vessiche o che utricelli
        son questi, che tu odi e che tu véi?—

   55 E poscia m'appressai a un di quelli
        e dissi:—O utricello ovver vessica,
        prego, se puoi, che tu a me favelli

        e con aperta voce tu mi dica
        chi sète voi, innanzi che su varchi,
   60 e quale affanno o doglia vi affatica.—

        Rispose come alcun che si rammarchi:
        —Stomachi siamo noi e molto offensi,
        stomachi siam del troppo cibi carchi;
p. 254
        ché Dio ne fece, se tu ben il pensi,
   65 nel corpo umano, ed anco la Natura,
        che 'l cibo a' membri per noi si dispensi.

        E l'uomo ha fatto di noi sepoltura
        a tutti gli animali: il troppo e spesso
        fa generare in noi ogni bruttura.

   70 In noi si sepelisce arrosto e lesso;
        e, quando nostra voglia è piena e sfasta,
        s'adduce il terzo, il quarto e 'l quinto messo.

        Con savoretti or questo or quel si tasta;
        per dilettar la gola e la sua porta,
   75 aggrava noi gridanti:—Oimè, che basta!—

        Però 'l mal cresce, e la vita s'accorta;
        ché, perché 'l cibo in noi non ben si cuoce,
        si manda a' membri crudo e non conforta.

        La quantitá del vin, che tanto nòce,
   80 si corrompe pel troppo; e quinci è 'l grido
        delle incurabil doglie e di lor croce.

        L'animal bruto a Cerere e a Cupido
        non acconsente e non prende acqua o ésca,
        se no' al bisogno, ed anco non fa nido.

   85 E, benché a noi ed a natura incresca,
        il miser'uomo intana dentro al petto
        ciò ch'anda o vola o che nel mar si pesca.—

        Io stava ad ascoltar con gran diletto,
        quando Palla mi disse:—Volta il viso.—
   90 Ond'io 'l voltai, sí come a me fu detto.

        E, risguardando ben con l'occhio fiso
        per l'aer tenebroso e quasi opaco,
        io vidi cosa, che spesso n'ho riso.

        D'un'acqua fresca vidi un ampio laco,
   95 ed un altro di vin, ch'era sí grande,
        che maggior mai nol chiedería briaco.

        Intorno a questi eran tutte vivande,
        ed anco vini eletti v'eran tutti,
        che bevitor ovver ghiotton domande.
p. 255
  100 Di sopra appresso avean tutti que' frutti,
        che mai fûnno in giardino ovver reame
        o da Natura fusson mai produtti.

        Lí stavan genti dolorose e grame,
        che per brama del pasto maggior pianti
  105 facean che 'l tristo, in cui entrò la fame.

        Prostrati in su li liti tutti quanti,
        quando assetiti voglion prender l'onde,
        e l'acqua e 'l vino a lor fuggon dinanti.

        In questo i pomi con le verdi fronde
  110 si fletton giuso sotto le lor ciglia
        alle bocche affamate e sitibonde.

        L'uva s'abbassa bianca e la vermiglia,
        sí che tocca la bocca a loro o quasi;
        poi si ritrânno, e mai nessun ne piglia.

  115 Cosí scornati e delusi rimasi,
        mirano al cibo su le mense posto
        e dell'ottimo vin pien tutti i vasi.

        Se, per prendere il lesso ovver l'arrosto
        ovver il vino, alcun le man distende,
  120 da sua presenza si fuggon tantosto.

        In mezzo all'acqua, che 'l laco comprende,
        Tantalo vidi stare insin al labbro;
        e mai dell'acqua ovver de' frutti prende.

        Sí grande sete mai non ebbe fabbro,
  125 né giovin ch'abbia la febbre terzana,
        che fa la lingua e lo palato scabbro,

        quant'egli ha sete in mezzo alla fontana,
        quando vuol bere e l'acqua da lui fugge,
        sí che sua spene sempre torna vana.

  130 E, perché egli niente ne sugge,
        spesso sbaviglia e batte i denti a vòto,
        ché di fame e di sete si destrugge.

        Cosí privato di cibo e di poto
        sta tra li frutti con bramosa voglia
  135 ed assetito dentro l'acqua a noto.
p. 256
        —O tu, che sali sú di soglia in soglia
        —disse uno a me,—nel mondo, onde tu vieni,
        a questa, che tu vedi, è simil doglia?

        Ché alcun tra gli ampi campi e cofan pieni
  140 bramoso sta e fame non si tolle,
        ché l'avarizia el tien con duri freni.

        Ver è che dá di morso alle cipolle
        spesso spesso messere Buonagiunta,
        ricco pisan; ma non che si sattolle.—

  145 Ancora al detto suo fe' questa giunta:
        —Tra molti cibi sta la voglia magra,
        acciò che dal dolor non sia trapunta;

        ché 'l mal del fianco, febbre e la podagra,
        perché del cibo troppo non s'imbocchi,
  150 menaccia con la doglia acuta ed agra.

        Ma certo non fu' io di quegli sciocchi:
        io son Pier tosco, che dissi:—Addio, lume,
        ch'i' ho piú caro il vin, che non ho gli occhi.

        Il medico dicea:—Bevi del fiume,
  155 ché, se tu bevi mai rinchiuso in botte,
        convien che 'n te il vedere si consume.

        Del buon liquore, che al lor padre Lotte
        fecer le figlie, io bevvi un grosso vaso,
        dicendo:—O giorno, addio, ch'io vo di notte.—

  160 Quel poco lume, che m'era rimaso,
        ché l'altro m'avea tolto la taverna,
        ecclipsò tutto calando in occaso:

però sto qui ed ho la sete eterna.—

p. 257

CAPITOLO XIII

Delle specie e rami discendenti dal vizio della gola.

        Io stava ad ammirar cogli occhi attenti,
        quando Palla mi disse:—Ché non miri
        del vizio della gola i gran tormenti?—

        Allor mirai; e giammai li martíri
    5 dir non potrei con questo parlar brieve,
        a' quai conduce Bacco, e li sospiri,

        non per colpa del vin che si riceve
        (che utile è da sé e ben conforta,
        se temperatamente altrui lo beve),

   10 ma perché la fortezza, ch'è giá morta,
        par che susciti alquanto nel presente:
        però la gente matta e non accorta

        a questo mira; ed anco che splendente
        entra e soave, e non sguardan li matti
   15 che 'l troppo morde, poi, piú che serpente.

        Quindi son gli occhi rossi e i nervi attratti,
        il furor cieco, rabido e rubesto,
        e di scimia canini e porcini atti.

        Quando Minerva m'ebbe detto questo,
   20 vidi una donna tutta brutta ed unta,
        e col volto lascivo e disonesto,

        ch'avea la vesta stracciata e consunta,
        e di cane e di porco avea due grugni
        e lingua a spada armata su la punta

   25 e le man fure ed artigliose l'ugni,
        e, come fa 'l leon, quando divora,
        mangiava il pasto, ch'avea tra li pugni.
p. 258
        —O tu, che qui contempli la signora
        —disse a me un,—che regge questo loco,
   30 sobvieni al gran dolor, il qual m'accora.

        Alla mia lingua, ch'arde come foco,
        un poco d'acqua con la man mi dona,
        che tanto incendio in lei rifreddi un poco.—

        Ed io fra me:—Quest'è quella persona,
   35 che non sobvenne a Lazzaro mendíco,
        sí come Luca nel Vagniel ragiona.—

        Ed io risposi a lui:—Tu sai, amico,
        che Abraam, a cui chiedesti l'acque,
        rispose a te, sí come anch'io ti dico:

   40 —Lazzaro giá alla tua porta giacque
        infermo e nudo, e chiedeva mercede;
        e di lui mai in te piatá non nacque.

        Dio vuol che chi abbundò e non ne diede
        al povero di Dio, quando ne chiese,
   45 egli non n'abbia qui, quando ne chiede.—

        Ahi, quanto si scornò, quando m'intese!
        E dicea seco com'uom che borbotta:
        —Io mi credea che fussi piú cortese.—

        Ed io lo addomandai e dissi allotta:
   50 —Perché la lingua qui ha maggior pena
        che gli altri membri, e piú è incesa e cotta?—

        Rispose:—Nella mensa lauta e piena
        Cerere e Bacco fan le teste calde;
        la lingua allor nel van parlar si sfrena

   55 con motti lerci e con parol ribalde;
        e, mentre il buon Falerno i cor fa lieti,
        balestra le iattanze ardite e balde.

        Allor s'apre il serrame alli secreti:
        sempre mal tace la mensa satolla,
   60 se i mangiator virtú non fa star cheti.

        Quivi si sparla che fama si tolla,
        quivi la lingua dá le gran percosse
        e strazia l'altrui vita, rode e ingolla.
p. 259
        Per questo noi abbiam le lingue rosse
   65 d'ardente foco e abbiamole puntute,
        come di spada ognuna armata fosse.

        Se vuoi saper dell'anime perdute,
        che stanno qui pel vizio della gola,
        che solo in general forse hai vedute,

   70 qui stanno li scolar di monna Ciuola;
        tra' quali è Ciaffo, e fu di Camollía,
        che piú degli altri usava quella scola.

        Egli anche dice che si bevería
        del vino il laco, quando egli s'approccia,
   75 se non che tosto se ne fugge via;

        e dice che, a la bocca se la doccia
        di Fontebranda avesse e fusse Greco,
        la bevería sin all'ultima goccia.

        E molti altri compagni son qui meco,
   80 tra' quali è la brigata spendereccia
        che fe' del molto avere il grande spreco.

        Chi spreca, quando egli ha la bionda treccia,
        degno è che, quando giunge al capo cano,
        venga di povertá sino alla feccia.

   85 Da Leonina infino a Laterano
        stanno anche meco mille ghiottoncelli,
        e dicono che gli uomin di quel piano

        prendon per paternostri i fegatelli,
        l'aman per tempo in cambio della Chiesa,
   90 corrono alle taverne ed ai bordelli.—

        Io l'ascoltava colla mente attesa,
        quando Palla mi fe' del partir cenno;
        onde n'andai per la via da noi presa.

        Cinquanta passi e men da noi si fenno,
   95 ch'ella mi disse per farmi ben dotto:
        —Contra golositá fa' ch'abbi senno.

        Sappi che gola è appetito ghiotto
        d'aver diletto in pasto e sí bramoso,
        che vince la ragion e tienla sotto.
p. 260
  100 S'è naturale, non è mai vizioso;
        e vizioso si fa, se sfrena tanto,
        che a Dio ed a ragion vada a ritroso.

        Questo appetito può sfrenar nel quanto:
        in troppo prender pasto, in troppo stare
  105 a mensa, in troppi cibi, in buffe e canto.

        Nel quale ancora questo può peccare,
        quando non fame l'appetito sveglia
        ovver bisogno, ma sol dilettare.

        Ahi, come è dur sí ben guidar la breglia
  110 tra 'l quanto e 'l qual nel pasto, ch'uom non cada,
        se molta vertú attenta non ci veglia!

        Ché questo passo ognun convien che guada
        del prender pasto; ma servar misura
        è forte, se vertú ben non vi bada.

  115 Quand'altri sfrena sí, che troppo cura,
        perché con dilicanza s'apparecchi,
        costui pecca nel qual ed epicura.

        Non in un modo i cibi, ma in parecchi,
        non per bisogno 'i cuoce e s'affatica:
  120 però Natura fa che raro invecchi.

        Ahi, gola miseranda! ché la mica
        col favor della fame ha piú diletto
        che le molte vivande, e me' notríca.

        Mira colui che quivi sta a rimpetto.—
  125 Ed io sguardai, e ben due passi e piue
        aveva il collo lungo sopra il petto.

        —Colui desiderò 'l collo di grue
        —disse a me Palla,—a dar piú dilettanza
        alla sua gola, il cibo andando ingiue.

  130 Or l'ha sí lungo, ch'ogni struzzo avanza;
        e la sua gola sempre di sete arde,
        né mai di poter bere egli ha speranza.

        Nel tempo ancor si pecca, se ben guarde:
        in questo peccan le persone stolte,
  135 ch'al pasto sempre lor par esser tarde.
p. 261
        Non due fiate il dí, ma vieppiú volte
        il poto e 'l cibo da questi si prende,
        come le bestie fan, che son disciolte.

        Nel modo d'usar cibi anco s'offende,
  140 ch'alcuno è scostumato, alcun ghiottone,
        alcun le braccia su la mensa stende.

        Anche è vorace alcun come lione;
        ed alcun su nel cibo soffia il fiato,
        alcun per fretta va incontra 'l boccone.—

  145 Quando Minerva questo ebbe parlato,
        quell'Epicur col collo di cicogna
        rispose e disse con lungo palato:

        —Ancor detto non t'ha ciò che bisogna,
        ché non t'ha detto le cinque figliuole,
  150 perché nomarle forse si vergogna.

        La prima figlia, che saper si vòle,
        è Immondizia del cibo, che guasto
        corromper in lo stomaco si suole;

        ché, quando ha troppo vin con troppo pasto,
  155 perché cuocer nol può, fuor per la bocca
        corrotto esala e fa al naso contrasto,

        e sopra erutta e sotto quello scocca,
        il qual balestra come traditore,
        che apposta alle calcagne, e 'l naso tocca.

  160 La seconda figliola è vie peggiore,
        Ebetudo, di mente inferma e mesta,
        che toglie all'intelletto ogni valore.

        La terza ha nome brutta e trista Festa,
        di buffonie e di giuochi; e questa è quella
  165 che al Batista giá tagliò la testa.

        La quarta è quella che troppo favella.
        La quinta è truffe ed opere scurrile:
        questa in la lingua porta la fiammella,

e nullo è vizio piú che questo vile.—

p. 262

CAPITOLO XIV

Della lussuria e delle sue specie.

        Su nell'ultima piaggia io era giunto;
        e, quando per la strada io movea 'l passo,
        scontrai Cupido, il qual m'avea trapunto,

        non però mai ch'e' mi gittasse al basso:
    5 timor di Dio e vergogna del mondo
        mi tennon ritto come quadro sasso.

        Trovai adunque lui vaghetto e biondo,
        de cui beltá negli altri versi scrissi,
        che mai sí bello fu, né sí giocondo.

   10 Ma ora veggio ben che 'l falso dissi;
        ch'egli è crudele e brutto e pien di tosco,
        chi ben rimira lui cogli occhi fissi.

        Quando mi vide, egli fuggí in un bosco,
        ch'era ivi appresso, ove nulle eran frondi;
   15 ma era smorto, secco e tutto fosco.

        —Perché, Cupido, da me ti nascondi?
        —chiamava io forte, dietro seguitando;—
        perché pur fuggi, perché non rispondi?

        Io son colui che teco venni, quando
   20 le ninfe mi mostrasti e la via dura,
        e sempre stetti presto al tuo comando.

        Demostra la tua faccia bella e pura.—
        Allor voltossi, ed era sí travolto,
        che, quando el vidi, mi mise paura.

   25 Egli era smorto, e gli occhi brutti e 'l volto;
        e su nel capo nero avea due corni,
        e gli atti avea pazzeschi come stolto.
p. 263
        Allor fuggio da me com'uom che scorni,
        coll'arco in mano e cogli oscuri dardi;
   30 né credo che piú a me giammai ritorni.

        La dea a me:—Se questo Amor riguardi,
        egli è cosa infernal, e chi lo scuopre
        conosce i modi suoi falsi e bugiardi.

        Chiamato è 'l forte dio nel mondo sopre
   35 da quegli stolti, che sol guardan fòre
        all'apparenza, che spesso il ver copre.

        Ma, perché sappi ben che cosa è amore,
        sappi che amore è presente diletto
        ovver futur piacer, che spera il core.

   40 E questo puote aver triplice obietto:
        primo è l'utilitá, qual se si toglie,
        manca l'amor, che all'util facea aspetto.

        L'altro è amor vero, a cui le verdi foglie
        non secca tempo o loco, e che sta fermo
   45 ad ogni caso, che Fortuna voglie;

        e non è losinghiero in atti o sermo
        e coll'amico sta costante e vivo,
        quando è in avversitá povero o infermo.

        E questo vero amore, il qual descrivo,
   50 si chiama virtuoso ovver onesto,
        tesoro alli mortal celeste e divo.

        Il terzo amor, ch'io dico dopo questo,
        «piacer concupiscibile» si chiama,
        ché sol da corporal desio è desto.

   55 E questo è il folle amore, il qual tant'ama,
        quanto dura il diletto e la bellezza,
        e poi si secca in lui la verde rama.

        Questo è Cupido, di cui gran fortezza
        racconta il mondo e ch'a nullo perdona
   60 e che infiamma li dii e la vecchiezza;

        e che giá ferí Febo si ragiona,
        quando la bella Dafne si fe' alloro,
        che imperatori e poeti incorona;
p. 264
        e ch'egli porta le saette d'oro,
   65 e Pluto innamorò, quando gli piacque,
        e Iove fe' mutar in cigno e toro.

        Di questo anco si dice ch'egli nacque
        di quella che fu data a dio Vulcano,
        nata de' membri osceni in mezzo all'acque.

   70 E dal ver, forse, questo non è strano;
        ché di Venus, cioè concupiscenza,
        nasce Amor cieco, fanciullesco e vano;

        e da quel nasce poi la rea semenza
        di molti vizi, a' quai lussuria induce.
   75 E, perché n'abbi perfetta scienza,

        sappi che la Natura e l'alto Duce
        ad alcun fin perfetto ha ordinato
        ogni appetito che 'n voi si produce.

        E, se da quel buon fin è disviato,
   80 quanto quel fine ha piú perfezione,
        chi erra in quello fa maggior peccato.

        Tra tutte cose uman, che sonno buone,
        la meglio è conservar l'umana spece,
        prima nell'esser, poi in coniunzione.

   85 Ed a questi duo fin l'alto Dio fece
        l'appetito lascivo: a questo solo,
        ed a null'altro fine usarlo lece.

        Di questo al padre nasce il bel figliolo
        e tutta prole umana, il degno frutto
   90 fatto a laudare Dio nell'alto polo.

        E, se questo buon fin fusse distrutto,
        mancaría l'uomo, amore e parentele
        e stato di vertú verría men tutto.

        Adunque quel peccato è piú crudele,
   95 dal qual questo buon fine è impedito;
        e questa specie a Dio piú è infedele.

        Questo è il vizio nefando subdomito,
        pien di vergogna detestando scelo
        e strazio umano e infernale appetito,
p. 265
  100 pel qual il foco piobbe giá da cielo
        infino a terra e aprilla ed engollosse
        insieme il biondo col canuto pelo,

        l'un ch'era stato, e l'altro che non fosse
        corrotto tanto. Ahi, smisurato eccesso,
  105 che Dio facesti che tant'ira mosse!

        Per questo in terra fu il diluvio messo,
        quando Dio vide che malizia tanto
        avea corrotto l'uno e l'altro sesso.

        E, per disfar cotanto infetta pianta,
  110 Noè servò e i figli dentro all'arca,
        sola nel mondo la progenie santa.

        Natura d'esta offesa si rammarca
        innanti a Dio e priega ch'egli scocchi
        le sue saette quel sommo Monarca.

  115 Dell'altro vizio omai convien ch'io tocchi,
        ch'è grosso come trave, e quasi stecca
        vien reputato da' miseri sciocchi.

        Dicon che uomo e femmina non pecca,
        consentendosi insieme, essendo sciolti,
  120 se l'un coll'altro fornicando mecca.

        E, perché in questo error son ciechi molti,
        tanto è piú grave il mal, se ben discerno,
        quanto nel suo error ne tien piú involti.

        Sappi che ha ordinato Dio eterno
  125 che tutti gli animali, i cui figlioli
        richiedon padre e madre e suo governo,

        che insieme s'apparecchino duo soli,
        (o reptile che sia o quadrupéde,
        o che in acqua ovvero in aere voli),

  130 e stiano uniti insieme in questa fede,
        ché, quando avvien che alcun di loro si parte,
        s'abbandonan li figli, s'e' non riede.

        E, se il padre e la madre ognun ci ha parte
        giá nella nata ovver nascenda prole,
  135 pensa se pecca qual di loro si parte;
p. 266
        ché, se l'un lassa l'altro, quando vuole,
        chi il patrimonio e senno dá alli figli?
        chi guarda e dá la dote alle figliole?

        Però determinonno i gran consigli
  140 della ragione e delli saggi antichi
        che sien le mogli e sien padrifamigli.

        Questa la casa e quel di fuor notríchi
        i maggior fatti, ed insieme coniunti
        nel matrimonio fedeli e pudichi.

  145 Del terzo vizio se vuoi ch'io racconti,
        è l'adulterio; e piú pericoloso
        nullo è nel mondo e che piú altri adonti.

        Quando la moglie si tolle allo sposo,
        l'animo mite rabido diventa:
  150 tanto al consorzio uman questo è noioso.

        Per questo Troia fu deserta e spenta,
        e la real progenie fu disfatta
        in Roma, che di Troia fu sementa.

        Questo peccato in ciel gran colpa accatta;
  155 ché avviene spesso che 'l marito pasce
        gli altrui bastardi e la moglie gli allatta.

        E, quando cresce ed è fuor delle fasce,
        avvien che alcuna al fratel si marita
        e forse al proprio padre, del qual nasce.

  160 Perché la moglie è col marito unita
        in una carne in fede ed amor puro
        per tutto il tempo che dura lor vita,

        però chi cerca averla, è ladro e furo;
        e, se la donna ad adulterio piega,
  165 commette anco peccato grave e duro,

        ch'è traditrice, fuia e sacriléga,
        ch'al matrimonio e fede fa lo 'nganno
        ed anco al sacramento che la lega;

        e dell'altrui sudore e dell'affanno
  170 spesso nutríca li figlioli altrui,
        onde è tenuta a soddisfar il danno

al marito, che crede che sian sui.—

p. 267

CAPITOLO XV

Trattasi piú in particolare delle specie e de' rami discendenti della lussuria.

        —Di questa brutta porca di Lussuria,
        bench'abbia in sé materia copiosa,
        conviene ch'io ne parli con penuria.

        Da che Natura e Dio la tien nascosa,
    5 non puote alcun giammai senza vergogna
        parlar di sí nefanda e brutta cosa.

        E forse el fece Dio, perché bisogna
        che l'Innocenza pura non impari
        la puzza occulta di questa carogna.

   10 Ma ora li maggiori han fatto chiari
        sí li minori e dotti anco in quell'arte,
        che piú che i mastri sanno gli scolari.

        Di questo vizio dirò d'ogni parte
        in general, ché, se tutto distinto
   15 volessi dire, impirei troppe carte.

        Il quarto membro (e poi dirò del quinto)
        è l'atto, che fe' Pasife col toro,
        madre del mostro chiuso in Laberinto.

        Nel quinto pecca ciascun di coloro,
   20 che, losingando ovver rapendo, tolle
        la vergin 'nanti al suo marital toro.

        E, perché d'esto mal ardito e folle
        il futur matrimonio è impedito,
        però l'antica e nova Legge volle

   25 che quello strupador gli anelli il dito
        e facciagli la dote, o che la testa
        perda, se quella nol vuol per marito.
p. 268
        L'altro è chi stupra, losinga o molesta
        le vergin sacre del santo collegio,
   30 che fu giá in Roma nel tempio di Vesta.

        E questo male è detto «sacrilegio»;
        ché quella cosa, ch'è dicata a Dio,
        s'imbrutta o sforza e trattase in dispregio.

        E l'altro male ancor nefando e rio
   35 è con parenti, ed è chiamato «incesto»,
        ché macula l'amor onesto e pio.—

        Quand'io diceva:—Quanto mal è questo!—
        vedemmo dalla lunga Citarea;
        ond'ella andò piú ratto ed io piú presto.

   40 Dimonio ella mi parve e none dea,
        quando la vidi, e non pareva bella
        com'era, quando apparve al iusto Enea.

        Di fuor adorna avea la sua gonnella;
        e, quando la scoprii, sí brutta fiera
   45 mai vista fu sí come pareva ella.

        Minerva a me:—Questa puttesca cèra
        nel mondo è bella solo in apparenza,
        che fa la cosa falsa parer vera.

        E qui rassembra la Concupiscenza;
   50 e però 'l nome del pianeto piglia,
        che sopra quella parte ha piú influenza.

        Cupido è il primo mostro, ch'ella figlia,
        il qual è fanciullesco, stolto e cieco
        in quella parte, che nell'uom consiglia.

   55 Egli è che verso Dio fece esser bieco
        giá Salamone, ed Aristotil prese
        sí, che fu cavalcato come pieco.

        E, benché paia saggio nel palese,
        Cupido nel secreto e luoghi occolti
   60 è come un pazzo e fa le grandi offese.

        Egli esser fa li saggi matti e stolti,
        e fanciulleschi quei dell'etá vecchia
        negli atti turpi, lascivi e disciolti.
p. 269
        Quest'è che fa che l'antica si specchia
   65 la faccia guizza e fa le trecce bionde
        del pelo altrui, che si pone all'orecchia.

        L'altro è turpe parlar parole immonde.
        Ahi, quanto è ragionevol che si taccia
        quel che Natura occulta e che nasconde!

   70 Il turpe eloquio a poco a poco caccia
        da sé vergogna, il qual è primo freno,
        ch'è posto all'uom che peccato non faccia.

        E 'l parlar brutto e turpe ovver osceno
        dimostra il core; ché quel vaso versa
   75 sempre il liquor, del qual è dentro pieno.

        L'altra figliuola iniqua e piú perversa
        è l'odio di Dio, come si legge:
        tanto Lussuria fa la mente avversa!

        Non che quel sommo Ben, che tutto regge,
   80 mai odiar si possa per se stesso;
        ma odiare si pò nella sua legge.

        Ad ogni vizio, che 'n mal far è messo,
        sempre ogni impedimento è odioso,
        ma piú alla lussuria per eccesso;

   85 però che l'atto suo è furioso,
        e quanto piú il disio corre fervente,
        tanto lo 'mpedimento è piú noioso.—

        Poscia nel fango vidi una gran gente
        coll'arco in mano e colle dur saette;
   90 e ferivansi insieme crudelmente.

        E, perché scudo mai niun si mette,
        né arme indosso, mai non tranno in fallo,
        quantunque volte l'un l'altro saette.

        Ed un gridò:—Io son Sardanapallo
   95 lussurioso, che nel gran reame
        non vissi come re, ma come stallo,

        vestito come donna tra le dame,
        seguendo della carne ogni talento:
        or posto son tra 'l fango e tra 'l letame.
p. 270
  100 Vivo ebbi l'arra, ed ora ho 'l pagamento;
        ch'ogni peccato la pena riceve
        prima nel mondo e poi qui ha 'l tormento.

        Vero è che su nel mondo è ratto e brieve,
        e qui ogni dolor dura in eterno
  105 ed anco è piú intenso e vieppiú grieve,

        però che 'l mal, il qual è sempiterno,
        rispetto a quella doglia, ch'è finita,
        nulla ha proporzion, s'io ben discerno.

        E sappi ben che su la mortal vita
  110 ha l'uom della lussuria molte pene,
        se la ragion e vertú non l'aita.

        La prima è trista e furiosa spene:
        quant'è maggior l'amore, il quale aspetta,
        tanto, aspettando, piú pena sostiene.

  115 L'altra è la gelosia sempre suspetta:
        ciò, che timor possiede o gelosia,
        assai tormenta piú che non diletta.

        Ogni amadore ed ogni signoria
        vuol esser sola ed odia ed inimica
  120 ogni consorte ed ogni compagnia.

        L'altra è il periglio, affanno e la fatica.
        Mai vil gaglioffo chiese il suo bisogno,
        quanto amor chiede la cosa impudica;

        e poscia, avuto, passa come un sogno
  125 quel ch'era chiesto con tanto fervore
        e con parol, di quali ancor vergogno.

        E va languendo il misero amadore,
        chiedendo aiuto alli suoi gran martíri,
        e dice, se non l'ha, che tosto more.

  130 Cogli occhi lagrimosi e con sospiri
        dietro alla 'manza va il misero amante,
        per grazia a lei chiedendo che lui miri.

        E quel, che acquista con fatiche tante
        e con le spese, ratto si dilegua
  135 sí come un'ombra che fugge davante.
p. 271
        E, perché amore i duo amanti adegua,
        abbassa i grandi ed, a viltá condutti,
        convien che altra colpa ne consegua;

        ché si fan femminili e fansi putti,
  140 mostrando amore; e di questo poi nasce
        la bestialitá e gli atti brutti.

        E, perché Venus si notríca e pasce
        di Bacco e Cerer, ch'ogni virtú enerva
        e fa l'infermitá con le sue ambasce,

  145 il corpo infermo e la mente fa serva
        e fálla oscura, e quella parte toglie,
        ove si posa e risplende Minerva.

        In questa mota qui tra queste troglie
        stan li nefandi e vili ermafroditi,
  150 che, essendo maschi, altrui si fecen moglie.

        E i lor mariti ancor qui son puniti
        e posti meco qui tra queste mote,
        e tutti siam di duri archi feriti;

        ché questa è iusta pena, se ben note,
  155 ché quel ch'è amato dall'amor lascivo
        è l'arco e la saetta, che percuote

        il cor del tristo amante, quando è vivo;
        e l'atto consumato è 'l brutto fango,
        il qual infastidisce e viene a schivo:

160 ed io qui questo in sempiterno piango.—

LIBRO QUARTO

DEL REGNO DELLE VIRTÚ

p. 275

CAPITOLO I

Del paradiso terrestre e di Enoc e d'Elia e dell'albero della scienza del bene e del male.

        Lasciata addietro avea la prava terra
        e delli vizi la maligna schiera,
        e trapassata avea tutta lor guerra.

        E sopra l'orizzonte giá 'l sole era
    5 ben quattro gradi, in quella parte posto,
        che li fa state e qui fa primavera;

        quando, per poter giungere piú tosto,
        andava dietro alla scorta benegna,
        la qual a seguitar m'era disposto,

   10 Detto m'avea che nullo è che pervegna
        ad alto fine ovver a nobil cosa,
        se non chi s'affatica e chi s'ingegna.

        Ond'io per quella via sí faticosa
        andava in fretta come il pellegrino,
   15 che, 'nsin che giunge al termine, non posa.

        Quando fui presso al fin di quel cammino,
        il paradiso vidi ch'è terrestro,
        il qual fe' Dio per singular giardino.

        E, s'egli è bello, pensisi il Maestro,
   20 il qual el fece e posel dove il sole
        ha piú vertú e 'l cielo a lato destro.

        Lí era un pian di rose e di viole
        e d'altri fiori e di maggior fragranza
        che qui, dove siam noi, esser non suole;
p. 276
   25 ché ogni frutto, quanto ha piú distanza
        da quello loco, tanto ha vertú meno,
        e quanto piú s'appressa, in virtú avanza.

        Tra quelli fiori e l'aere sereno,
        e tra le melodie di quel piano
   30 io trapassai di dolci canti pieno.

        Da quel giardino er'io poco lontano,
        ch'io vidi un serafino in su la porta,
        ch'è posto lí da Dio per guardiano,

        il qual un gran coltel nella man porta;
   35 e l'uno e l'altro è di color di foco,
        talché lor fiamma al sol non parea smorta.

        Quando appressato a lui mi fui un poco,
        egli mi disse, la spada vibrando:
        —Guarda come trapassi in questo loco,

   40 dal qual per colpa fu l'uom messo in bando,
        non solamente per gustar del pomo,
        ma perch'e' trapassò di Dio il comando.—

        Minerva a me insegnato avea siccomo
        l'intrata da quell'angelo si chiede,
   45 senza il qual modo non v'entra mai uomo.

        In terra mi prostrai da capo a piede,
        ed ivi in croce spasi le mie braccia
        come nel legno Quel che a noi si diede.

        E dissi:—O angel, prego ch'e' ti piaccia,
   50 per amor del Signor, ch'è sí cortese,
        che nullo, che a lui torni, mai discaccia,

        che lí mi lassi entrar nel bel paese.
        Tu sai ch'Egli al ladron su nella croce
        simile grazia fe', quando gliel chiese.—

   55 L'angel allora, al suon di questa voce,
        la porta aprío e diedene l'entrata,
        levando via il coltel tanto feroce.

        Come buona speranza il cor dilata
        d'allegrezza, cotal a me quell'orto
   60 dava letizia e la contrada grata,
p. 277
        ove null'uom giammai sarebbe morto
        senza sua voglia e non giá per natura,
        ché sol per grazia venía tal conforto;

        ché nulla cosa, c'ha in sé mistura
   65 di qualitá ed opposita azione,
        di venir men puote esser mai secura.

        Mentr'io ascoltava la dolce canzone
        degli uccelletti, ed io vidi venire
        due venerande ed antiche persone.

   70 Il meno antico a me cominciò a dire:
        —Come tu in questo luogo se' intrato?
        con qual potenzia vien'? con qual ardire?—

        Minerva allor rispose:—Io l'ho menato;
        l'agnol di Dio a lui la porta aperse,
   75 quando umilmente da lui fu pregato.

        Giú del centro d'inferno, ove s'immerse,
        colle mie mani io da primaio el trassi,
        e feci sí, ch'in quel loco non perse.

        Palla son io, che gli ho guidato i passi
   80 per mezzo a' vizi e tra le fiere crude
        insino a voi, ai qual vuol Dio che 'l lassi,

        ché demostriate a lui ogni vertude:
        quassú venute sonno e quassú stanno,
        quando fuggîr del mondo, ch'è palude.

   85 Tornar io voglio al mio beato scanno:
        a questi lascio te, dolce figliuolo:
        costor inverso il ciel ti guidaranno.—

        Cosí dicendo, in alto prese il volo;
        ed io, piangendo, dissi:—O dolce Palla,
   90 perché di te cosí mi lasci solo?

        Dietro alli passi tuoi ed alla spalla
        lasciato ho 'l mondo, o scorta e mia auriga,
        il qual, rispetto a questo, è una stalla.

        E sempre, andando insú con gran fatiga,
   95 le tue vestige, o donna, seguitai,
        tra 'l mezzo delli mostri e di lor briga.
p. 278
        Ora, che tu cosí lasciato m'hai,
        per tutto l'universo, che ti trovi,
        io anderò cercando sempremai.—

  100 Un degli antichi padri ed a me novi,
        disse:—Non è bisogno tanto pianto,
        ma con noi insieme omai i passi movi

        per questo paradiso in ogni canto.
        Enoc è questo primo, ed io Elia,
  105 quai Dio ne pose in questo loco santo.

        Delle vertú ti mostrerem la via.—
        Allor pel prato di que' fiori belli
        una con lor mi mossi in compagnia,

        tra verzillanti foglie ed arbuscelli
  110 e tra le melodie dolci e gioconde,
        ch'ivi faceano inusitati uccelli,

        quando trovai un arbor senza fronde,
        ch'era di spoglio di serpente avvolto,
        sí come un'edra ch'un ramo circonde.

  115 Lo spoglio avea di forma umana il volto;
        e l'arbore di spine era pien tutto
        intorno a sé, siccome luogo incolto.

        Ogni altro legno ivi era pien di frutto,
        e di be' fiori e frondi fresco e bello;
  120 e questo solo era secco e destrutto,

        e su non vi cantava alcun uccello.
        E, non sapendo perché questo fusse,
        il padre Enoc addomandai di quello.

        —L'arbor profano è questo, che produsse
  125 —rispose Enoc—il frutto del suo ramo,
        col qual il drago il primo uomo sedusse,

        quand'egli ingannò Eva e poscia Adamo
        a non servare a Dio obbedienza
        col pomo dolce, ov'era il mortal amo.

  130 «Legno» chiamato fu «della scienza
        del bene e mal»; che è prima solo bene,
        poscia del mal il ben ha sperienza.
p. 279
        Le piú fiate al miser uomo avviene
        ch'e' non conosce il ben, se non in quella
  135 che n'è privato o c'ha contrarie pene.—

        Poscia trovammo la pianta piú bella
        del paradiso, la pianta felice,
        che conserva la vita e rinovella.

        Su dentro al cielo avea la sua radice
  140 e giú inverso terra i rami spande,
        ove era un canto, che qui non si dice.

        Era la cima lata e tanto grande,
        che piú, al mio parer, che duo gran miglia
        era dall'una all'altra delle bande.

  145 —Questa gran pianta di gran maraviglia
        —disse a me Enoc—è l'arbore vitale,
        che vita dona a chi suoi frutti piglia.

        Fitto nel cielo sta il suo pedale;
        indi vien la vertú, che gli dá Dio,
  150 che possa l'uomo rendere immortale.

        Un ramoscello dall'angelo pio
        n'ebbe giá Set e piantollo in la fossa
        del padre Adamo suo, quando morío.

        E quello crebbe e féssi pianta grossa,
  155 e poscia posta fu nella piscina,
        che sol di sanar uno ebbe la possa;

        ché profetato avea Saba regina,
        che su dovea morir quel gran Signore,
        che faría nuova legge e piú divina.

  160 Allor il legno di tanto valore
        da Salamon fu di terra coperto,
        insin ch'a far suo frutto apparse fòre;

        ché, quando piacque a Dio, venne su ad erto,
        e di quel legno la croce si fece,
  165 ove l'Agnel di Dio per noi fu offerto,

quando su 'n quella il prezzo satisfece.—

p. 280

CAPITOLO II

Della condizione del paradiso terrestre e de' fiumi, che quindi escono.

        E poscia:—Flecte ramos, arbor alta.
        —Elia e Enoc insieme alto cantâro,
        come chi in coro la sua voce esalta.

        Alla lor prece l'arbore preclaro
    5 giú s'abbassò, ed e' colson le fronde,
        che son sí dolci, che vince ogni amaro,

        dicendo a me:—Del frutto, che nasconde
        quest'arbor dentro a sé, nullo ne coglie
        salvo che l'alme felici e ioconde.

   10 E poi mi fên gustar di quelle foglie,
        che porgono alla 'ngiú que' santi rami,
        le quai mi contentôn tutte mie voglie.

        O cupidigia, che tanto t'affami
        e che quanto piú mangi e pasto hai preso,
   15 tanto apri piú la bocca e piú ne brami,

        se gustassi del legno al ciel disteso,
        ratto faresti come san Matteo,
        quando il nostro Signor egli ebbe inteso:

        che lasciò la pecunia e 'l teloneo,
   20 e sí gli piacque, ch'a rispetto a quello
        ogni altro cibo gli era amaro e reo.—

        Quindi n'andammo in un boschetto bello,
        dove Adamo fuggí e steo nascosto,
        quando mangiò del cibo amaro e fello,

   25 allor che non sostenne un sol fren posto,
        un sol comando, il quale Dio gli diede,
        ma fu ardito a romperlo sí tosto.
p. 281
        Ei si nascose. Oh matto chiunque crede
        fuggir ovver celarsi da Colui
   30 che tutto puote ed ogni cosa vede!

        E poscia mi partii con ambidui
        tra' belli fiori di quel prato adorno;
        e, quando ad una fonte io giunto fui,

        considerai che era mezzo giorno,
   35 ché 'l sol toccava in alto giá 'l zenitto,
        e nullo corpo facea ombra intorno.

        Dicea fra me, insú mirando fitto:
        —Com'è che qui il caldo non offende,
        da che li raggi insú rifletton ritto?

   40 Ché 'n quella obliquitá che 'l raggio scende,
        come si prova nella prospettiva,
        in tale a parte opposta si distende.

        Però, se 'l raggio ingiú ritto deriva,
        per linea retta ritorna in quel verso,
   45 ed ei lí si raddoppia e si ravviva.

        E questo luogo è pian, pulito e terso
        assai a questo, e nol torce in oblico
        concusso alcun, che 'l raggio mandi sperso.—

        Allor mi disse il padre piú antico:
   50 —Tu forse ammiri che qui non fa male
        il troppo caldo noioso e nimico.

        Sappi che, dove il giorno è sempre equale
        alla sua notte, quanto il dí riscalda
        il sol, che 'nver' zenitto suso sale,

   55 tanto la notte col fresco risalda;
        e però quella patria, se pon' cura,
        fie temperata, né fredda, né calda.

        E, benché tanto il sol vada in altura,
        non fa di caldo sotto il loco accenso,
   60 quando in cotale altezza poco dura.

        Non è sola cagion del caldo intenso
        l'altezza dello sol, ma sua dimora
        col raggio insú riflesso, s'io ben penso.—
p. 282
        Il suo parlar mi die' piú dubbio allora,
   65 ed io di domandar non avea ardire,
        come scolar che troppo il mastro onora,

        che mostra ancor non voler assentire
        con parole, ma tien il capo basso,
        facendo vista d'altro voler dire.

   70 Ond'ello:—Parla;—ed io:—Cotesto passo
        ha forse veritá solo in quel clima,
        ov'è la gran cittá di Satanasso.

        Ma questo loco tanto si sublima,
        che ben tre ore nell'alto emisfero
   75 vedete il sole innanzi agli altri in prima.

        E cosí, quando il giorno si fa nero
        nell'occidente, a voi ben per tre ore
        luce quassú il celeste doppiero.

        Che cagion è che qui non è ardore,
   80 se qui diciotto or mostra all'aspetto
        nel giorno il sol con suo chiaro splendore?—

        Ed egli a me:—Se intendesti il mio detto,
        io parlai sú del clima di quel loco,
        ov'ha reame il primo maladetto.

   85 E, perché questo da quel dista poco,
        il sol, che dura in questo loco santo,
        come argumenti, accenderebbe il foco;

        se non che 'nsú egli è levato tanto,
        che mai vapor, che faccia pioggia o vento,
   90 salir o nocer può in nessun canto.

        Ma 'l nono ciel e 'l primo movimento
        move qui l'aere, e dolce aura spira
        tal, che conforta ciascun sentimento.

        E, quando il detto cielo intorno gira,
   95 il foco e gli altri ciel voltan con esso
        ed anche seco quest'aere tira.

        Per questo il raggio in diritto riflesso
        si frange e sparge; e, quand'è cosí sparso,
        non accagiona il caldo intenso e spesso.
p. 283
  100 Però dal sol non è questo luogo arso,
        s'el manda il raggio ritto, o alto el move,
        o se la notte sol sei ore ha scarso.—

        Dal ditto loco poscia andammo dove
        nasceva un fiume, ch'era tanto grande,
  105 che mai verun maggior fu visto altrove.

        Elia mi disse senza mie dimande:
        —Questa grand'acqua, che qui ritto emerge,
        per tutto il mondo poscia si dispande.

        Imprimamente questo loco asperge;
  110 poiché la terra ha qui bagnata e infusa,
        per tutta l'altra terra si disperge

        per li meati, sí come Aretusa,
        che bagna pria Calabria e di quindi esce,
        poi va in Trinacria sotterra rinchiusa.

  115 Di questo nasce Gange e 'l Nil, che cresce
        tanto la state, ed il Danubio e 'l Reno
        ed il Tanai col saporoso pesce.

        Di questo Ibero e il grande Geon pieno,
        che passa rifrescando l'Etiopia
  120 e che bagna anco l'arabico seno.

        Di questo il Po, che d'acqua ha sí gran copia,
        che, quando il mondo seccò per Fetonte,
        tra tutti i fiumi n'ebbe meno inopia.

        Ma l'acqua d'ogni fiume e d'ogni fonte
  125 principalmente vien dall'Oceáno,
        e da Natura corre prima al monte.

        Perch'è spognoso e perché dentro è vano,
        e' scaturisce pel caldo impellente
        e poscia scende e corre giuso al piano.

  130 Ed ogni fiume piú pieno e corrente
        diventa per la pioggia, quando cade;
        e questa è l'altra causa conferente.—

        Poi ci movemmo per le adorne strade
        tra la fragranza e soavi melode,
  135 tra 'l nettar dolce in scambio di rosade.
p. 284
        Ivi ogni senso si rallegra e gode,
        alla verzura si conforta il viso,
        l'orecchie a' canti degli uccelli, ch'ode.

        Rallegra tutto il cor quel paradiso;
  140 ivi ogni cosa intorno m'assembrava
        un'allegrezza di giocondo riso.

        La doppia scorta, la qual mi guidava,
        si movea innanti, ed io seguía lor piante
        e con diletto lá e qua mirava.

  145 E, quando fummo andati alquanto avante,
        trovammo in giro un ampio ed alto muro,
        ch'avea le torri di duro diamante.

        Elia mi disse:—Qui l'intrare è duro,
        se l'uomo in prima non si gitta a terra
  150 e se:—Peccai—non dice col cuor puro.

        Allor colei, che la porta apre e serra,
        gli dá l'entrata e fagli anco la scorta;
        e chi senza lei andasse, il cammin erra.

        Ella ti menerá sino alla porta;
  155 dentro la Temperanza troverai,
        che gl'impeti rifrena e 'l troppo accórta.—

Per questo al duro muro m'appressai.

p. 285

CAPITOLO III

Della vertú della temperanza e sue laudi.

        Perché l'intrare a me fusse concesso
        nel bel reame della Temperanza,
        mi feci a quella porta alquanto appresso.

        E, poiché fui in debita distanza,
    5 mi postrai 'n terra, dicendo:—Peccavi,—
        sí come per intrare lí è usanza.

        Ed allora una donna con due chiavi
        aprío la porta, e poi la mia persona
        levò di terra con parol soavi.

   10 —Questa gran donna, che l'intrata dona,
        è quella, senza cui—mi disse Elia—
        né Dio né uomo al peccator perdona.

        Ella è che al ciel t'insegnerá la via:
        dietro alli passi suoi ti guida omai;
   15 con lei noi ti lasciamo in compagnia.—

        Quei patriarchi pria ringraziai;
        poscia mi volsi alla scorta novella
        e ch'ella mi guidasse io la pregai.

        Dentro alla porta intrai insiem con ella;
   20 e, poiché dentro fummo ed ella ed io,
        allor mi fece don di sua favella.

        —Se saper—disse—vuoi il nome mio,
        io sono l'Umiltá, il primo grado
        d'ogni virtú, che vuol salir a Dio.

   25 Come Superbia è prima in ogni lado,
        ardita a romper la legge divina,
        cosí alle vertú io 'nanti vado.
p. 286
        Chi senza me su per andar cammina,
        ritorna addietro intra li luoghi bassi
   30 e non s'accorge quando egli rovina.

        —Io prego, o donna, che tu non mi lassi
        —a lei risposi riverente e piano,—
        ché sempre seguirò dietro a' tuoi passi.—

        Benignamente a me porse la mano;
   35 e, poiché 'n alto luogo giunto fui,
        che d'ogni amenitá era sovrano,

        la Temperanza con belli atti sui
        io trovai quivi e con tanta maiésta,
        quant'hanno i santi, dov'è il dolce frui.

   40 Se ogni cosa è bella in quanto onesta,
        e tutta l'onestá da lei procede,
        quindi si sa quanto era bella questa.

        Ella stava a sedere in una sede.
        La nova scorta appresso a lei si pose,
   45 non però in alto, ma giú basso al piede.

        E sette donne, adorne come spose,
        stavan con lei, e d'oro le corone
        aveano in testa e di fiori e di rose.

        E una un orso e l'altra avea un leone,
   50 legato ed ammansito con un freno;
        la terza similmente un gran dragone.

        E come fa 'l cagnol che dorme in seno,
        cosí le fère si stavan con loro
        ed anche il drago senza alcun veneno.

   55 Intorno intorno a tanto concistoro
        eran tranquilli giuochi e dolce canto
        di diverse persone a coro a coro.

        Perché da loro er'io distante alquanto,
        cenno fatto mi fu che m'appressasse
   60 alla regina del collegio santo.

        Io m'appressai e le ginocchia lasse
        in terra posi, ed ella anco fe' segno
        che confidentemente a lei parlasse.
p. 287
        —Alta regina, a questo loco vegno
   65 —diss'io a lei—dal mondo con fatiga,
        per contemplar di te e del tuo regno.

        Minerva fu a me primiera auriga;
        ella è che m'ha scampato e sú condotto
        per mezzo delli vizi e di lor briga.

   70 E ch'io venisse a te mi fece dotto,
        che m'insegnassi questo tuo reame
        e delle tue donzelle tutte e otto.

        —Dacché di me sapere hai sí gran brame,
        —rispose quella,—ascolta, e dirò pria
   75 del mio uffizio e poi dell'otto dame.

        Dio fatto ha l'uomo per sua cortesia
        e posto in mezzo lui tra 'l bene e 'l male,
        ché lá e qua ei combattuto sia.

        E diede a lui la parte sensuale,
   80 la qual al male impetuosa corre
        come sfrenato e indomito animale.

        E però Dio mi volle con lui porre,
        ché 'nverso il mal egli precipitára,
        se con miei freni a lui non si soccorre.

   85 Per farti ben la mia risposta chiara,
        com'egli verso il mal si move ratto,
        cosí va tardo alla parte contrara;

        ché, come infermo debil e disfatto,
        si move col disio inverso il bene,
   90 se con forti speroni ei non è tratto.

        Perciò altra virtú esser conviene
        cioè Fortezza, e questa i sproni mova,
        quando uom come infingardo si ritiene.

        Ella è che fa che l'uom, il qual si trova
   95 nella battaglia, vince e non s'ammorza,
        sí come il cavalier di buona prova,

        o come il buon nocchier, che allor si sforza
        che ha la gran tempesta in mezzo all'onda,
        quando el combatte da poppa e da orza.
p. 288
  100 Ed io 'l mantengo, quando va a seconda,
        ché 'l fo attento che 'l timon non lassa,
        senza lo qual la nave si profonda,

        e che non dia de' calci a chi lo 'ngrassa;
        e, quando esalta la fortuna destra,
  105 io fo che tiene il freno e che si abbassa.

        Cosí armato a dritta ed a sinestra,
        da un de' lati Fortezza el defende,
        dall'altro lato son io sua maestra.

        Donna è che con mill'occhi su risplende,
  110 che 'l guida dietro e innanti, e 'l fine sguarda,
        tanto che chi lo segue non l'offende.

        Piú suso sta dell'uom la quarta guarda,
        Astrea dico, che resse la gente
        'nanti che fosse fallace e bugiarda.

  115 Alle otto dame omai tu porrai mente;
        dirò de' loro uffizi, se m'ascolti,
        che reggono il reame qui presente.

        In prima sappi che impeti molti
        son rei nell'uomo contra bona legge;
  120 ma tre son li peggiori e li piú stolti.

        Il primo è l'ira in cui governa e regge;
        e questa fa il cor di pietá nudo
        contra li suoi subietti e la sua gregge.

        Clemenza è detta ovver Mansuetudo
  125 la prima dama, che dalle radici
        stirpa l'ira del core troppo crudo.

        E, secondo duo nomi, ell'ha duo uffici:
        l'uno è che li superbi e troppo altèri
        inchina a' servi, quasi a dolci amici;

  130 l'altro è che quei, che son crudeli e fèri
        e c'hanno alla vendetta accesi i cori,
        li fa al perdonar dolci e leggeri.

        Però è detta donna de' signori,
        ché li reami e Stati senza lei
  135 non saríen signorie, ma gran furori.
p. 289
        Ed anco è detta sposa delli dèi,
        che son propizi e non corron mai tosto,
        ma tardi alla vendetta contr'a' rei.

        Ell'è che esser fe' Cesare Agosto
  140 contra 'l nemico suo giá mansueto,
        il qual a tradir lui s'era disposto.

        Ed egli el chiamò seco nel secreto
        dentro alla cambra sua cogli usci chiusi,
        ove gli disse con parlar quieto:

  145 —Non è bisogno, amico, che ti scusi,
        ch'è manifesto e non ne puoi far niego
        del tradimento, che contra me usi.

        Ma una cosa a te chiedendo prego,
        che della tua amistá mi facci dono;
  150 ed io similemente a te mi lego.

        E ciò c'hai detto o fatto ti perdono.—
        E, per piú fede, a lui la destra porse:
        cosí 'l fe' amico a sé verace e buono.

        Questa è, che fe' ch'Alessandro soccorse
  155 con gran benignitá al suo vassallo,
        quando del suo bisogno egli s'accorse,

        e desmontò de su del suo cavallo,
        e del suo manto le membra gli avvolse,
        ché uopo non avea d'altro metallo.

  160 Traian l'insegne al suo gran carro folse
        solo alla voce d'una vedovetta,
        al cui parlar mansueto si volse,

        dicendo:—Imperador, fammi vendetta,
        ché 'l tuo figliolo il mio figliol m'ha tolto,
  165 ond'io a lamentarmi son costretta.—

        Ed ei rispose con benigno volto:
        —Il mio figliolo, o donna che ti lagni,
        ti dono in cambio di quel c'hai sepolto.—

        Cesare primo, il maggior tra li magni,
  170 li suo' famigli ovver li suoi subietti
        non li chiamava «servi», ma «compagni»,

facendo a loro onore in fatti e in detti.—

p. 290

CAPITOLO IV

Delle spezie e rami della temperanza.

        Io stava ad ascoltar come scolaio,
        che dal maestro prende la dottrina,
        mentre narrò dell'impeto primaio.

        E poi continuò quella regina:
    5 —Sappi che rifrenar io debbo ogni atto,
        al qual la parte sensual inclina.

        Il diletto del gusto e quel del tatto
        vuole Dio ch'io rifreni e ch'io m'oppogna:
        questa è la mia materia, ch'io pertratto.

   10 E ciò ch'è inonesto e fa vergogna
        al nobil uomo, e ciò ch'el fa brutale,
        ho io a regolar quanto bisogna.

        Vero è ch'io anco reggo in generale
        i vizi tutti e la lor circumstanza,
   15 e rifren ciò che la ragione assale.

        E questo suona el nome «Temperanza»,
        cioè ch'ella rifreni, regga e tempre
        ogni inonesto e ciò che in troppo avanza.

        E questo tu per regola tien' sempre,
   20 ch'a ciascuna virtude s'appartiene
        corregger ciò, che la ragion distempre.

        Iusto e prudente è l'uom, se noti bene,
        e temperato, ed anche ha in sé fortezza
        e tutte le vertú insieme tiene;

   25 ché dal peccato ovver dalla dolcezza,
        che gli è opprobriosa, si disparte,
        o che, vincendo, sofferisce asprezza.
p. 291
        Ogni virtú, ogni scienza ed arte
        ha sua materia propria, che pertratta;
   30 ma 'n general l'una all'altra comparte.

        La sensualitá brutale e matta
        reggo io con queste dame a me propinque,
        e ciò che all'uom opprobrio e biasmo accatta.

        E questi vizi in radice son cinque,
   35 e prima l'ira, della quale ho detto
        ch'è opposta alla clemenzia, delinque.

        Poscia è superbia, il vizio maladetto
        dell'avarizia ed anco della gola
        e di lussuria il bestial diletto.

   40 Omai contempla la mia bella scòla:
        la bella donna, che ti scorse il passo,
        che mi sta a piè umil senza parola,

        vince superbia e vince Satanasso
        (mirabil cosa!), che 'nsú monta tanto,
   45 quanto nel suo pensier si pone a basso.

        L'altra donzella, che mi siede accanto,
        la moderata Parcitá si chiama:
        ell'è la quarta in questo regno santo.

        Ella lega la lupa sempre grama
   50 e pon mesura alla voglia bramosa,
        che mai non s'empie e che, mangiando, affama.

        L'altra, ch'è tanto adorna e gloriosa,
        è Continenza, agli angioli sorella
        e del sommo Fattor celeste sposa.

   55 Ella Cupido e Venere fragella,
        ogni turpe atto fugge ed hallo a sdegno,
        e sdegna chi ne tratta o ne favella.

        La sesta donna in questo nostro regno
        a Cerere ed a Bacco pone il freno,
   60 ché del bisogno non passino il segno.

        E, perché tutto sappi ben appieno,
        dirò dell'altre mie compagne ancora,
        che stanno meco nel regno sereno.
p. 292
        Io suadisco ciò che l'uomo onora,
   65 e vieto ciò che a lui è turpe e lado,
        perché sua dignitá sia piú decora.

        Però la donna del settimo grado
        è chiamata Onestá ed ha la vesta
        tutta inorata sopra il bel zendado.

   70 Vedi che tutte l'altre gli fan festa;
        vedi che adorna tutte di splendore
        della corona, ch'ella porta in testa.

        Com'io li desidèri di furore,
        i quali rifrenar all'uomo è forte,
   75 tempro col freno dello mio valore;

        cosí è altra donna in questa corte,
        Modestia chiamata, e tiene il loco,
        che qui gli è dato nell'ottava sorte.

        Ella è che 'l modo pon tra 'l troppo e 'l poco
   80 negli atti esteriori, in fatti e in dire,
        nel rider, nell'andar, nel prender gioco,

        in suntuositá e nel vestire;
        e dove e quando, innanzi a cui e come,
        oltra i termini suoi, non lassa ire.

   85 Tra noi coronat'ha le bionde chiome;
        Modestia è detta, perché serva il modo,
        sicché 'l suo uffizio è consequente al nome.

        In questo regno, nel qual io mi godo,
        sta la Vergogna ovver l'Erubescenza;
   90 la qual non per virtú però la lodo,

        ma perché è freno e perché ha temenza
        di fare il lado; e questo è atto buono
        e che mena a virtú, se ha permanenza.

        Ma 'n quei che saggi o che antichi sono,
   95 perché debbono il capo aver esperto,
        il vergognarsi trova men perdono.

        Però Vergogna in testa non ha 'l serto
        perché non è virtú, come siam noi,
        che 'l capo di corona abbiam coperto.
p. 293
  100 Dell'altre cose, che qui saper vuoi,
        elle diranno co' lor dolci canti,
        una cantando pria e l'altra poi.—

        Clemenzia, al cielo alzando gli occhi santi,
        un canto cominciò tanto soave,
  105 piú che mai musa, che cantar si vanti.

        —Non ha peccato—disse—tanto grave,
        che dell'intrar a te, Signor e Dio,
        chiunque si pente non trovi la chiave;

        ché se' sí mansueto e tanto pio,
  110 che tua clemenzia il peccator soccorre,
        pur ch'e' si penta e non voglia esser rio.

        La tua piatá, che a vendicar non corre,
        a quel che volle a te assomigliarse
        e la sua sede a lato alla tua porre,

  115 pur ch'e' volesse ancora umiliarse
        alle tue braccia, dicendo:—Peccai,—
        ad abbracciarlo non faríale scarse.

        Per questo, o Signor mio, saper mi fai,
        che sempre si perdoni a chi si pente;
  120 al superbo non si perdona mai.

        Quando al ciel venne il grido della gente
        di Sodoma e Gomorra e di lor setta,
        tu descendisti a vederlo presente;

        ove m'insegni ch'io non creda in fretta,
  125 quando la fama il peccator condanna,
        e tardo e con piatá faccia vendetta.

        Per questo tu ponesti, o santo Osanna,
        l'asprezza della verga dentro all'arca
        colla dolcezza insieme della manna.

  130 La Maddalena, o sommo Patriarca,
        tu ricevisti pio e mansueto,
        quando a te venne di peccati carca,

        e del suo cor compunto e del suo fleto
        piú ti pascesti che su nella mensa
  135 del fariseo, e piú staesti lieto.
p. 294
        La donna, ch'era allor allor comprensa
        nell'adulterio e menata nel tempio,
        benignamente da te fu defensa;

        dove, alto mio Signor, mi désti esempio
  140 che sol del peccator voglia l'emenda,
        e chi altro ne vuol, è crudo ed empio,

        e quel, che egli fa, nullo riprenda;
        ch'altru' accusando, quel se stesso pugne,
        quand'egli avvien che 'n quel medesmo offenda.

  145 Tu giá facesti e fai che ancor si ugne
        il core a' regi, perch'e' sien benegni,
        e 'l re dell'api fai che non trapugne;

        in questo esempio, mio Signor, m'insegni
        che sieno i grandi grati e mansueti,
  150 e che non sian superbi in li lor regni.—

        E poscia, al cielo alzando gli occhi lieti,
        Parcitá cominciò sua cantilena,
        poiché Clemenzia ebbe i suoi detti quieti.

        —Beato—disse—è l'uom che si raffrena
  155 e pone a quella voglia la mesura,
        che sempre brama e mai diventa piena.

        Beato quello che non sforza o fura
        per piú avere e non prende l'affanno,
        sempre sudante d'infinita cura;

  160 ma, com' Fabrizio nel povero scanno,
        del poco e con vertú piú si contenta
        che di piú posseder con froda e inganno.

        Ma piú felice è l'uomo, il qual diventa
        perfetto sí, che tutto il disio taglia,
  165 e di ricchezza ha ogni voglia spenta,

        e che 'l piú e 'l meno non cura una paglia,
        e che niente alla Fortuna chiede,
        quando losinga e quando dá battaglia.

        Colui di tutto il mondo è ricco erede,
  170 che, avendo o non avendo, piú non vuole;
        ché, quanto uom non desia, tanto possede.—

Qui finí 'l canto ed anco le parole.

p. 295

CAPITOLO V

Della virtú della continenza e delle sue spezie, e dell'astinenza.

        Cominciò Continenza il terzo canto,
        quando l'onesta Parcitá si tacque;
        e prima gli occhi alzò al cielo alquanto,

        dicendo:—A Dio verginitá sí piacque,
    5 che lei elesse sposa, in lei discese,
        quando di vergin madre al mondo nacque.

        A san Ioanni l'angel fu cortese
        per la verginitá, a lor sirocchia,
        quando, di terra su levando, el prese,

   10 dicendo:—Su, su, lieva le ginocchia:
        fratelli e servi siamo in quel Signore.
        che ciò, che è futur, presente adocchia.—

        Non pure il cielo a lei fa onore,
        ma l'universo ed ogni creatura
   15 alla bellezza di tanto valore.

        Subietti stanno a lei, quando scongiura.
        li maladetti piovuti da cielo,
        per forza, per amore o per paura.

        La vergin sacra giá accese il velo
   20 nel foco estinto; e l'altra la gran nave
        trasse con un capello d'un sol pelo.

        Il capricorno sí feroce e grave
        da lei pigliar si lassa, ed ella el regge;
        e segue lei mansueto e soave.

   25 Ma, perché è scritto nell'antica Legge:
        «Crescete insieme vo' e moltiplicate»,
        come in quel testo piú volte si legge,
p. 296
        per questo molti la verginitate
        impugnano, perché non è feconda
   30 come lo stato delle coniugate.

        Convien che a questi detti si risponda
        che funno a tutte spezie e fûn comuni
        non a persona prima ovver seconda,

        ché vòlse Dio e vuol che sianvi alcuni,
   35 perché alle cose sue meglio s'attenda,
        che d'ogni atto venereo sian digiuni.

        Benché verde grillanda o sacra benda
        adorni quella c'ha la mente negra,
        non però vergin esser si comprenda;

   40 ché la verginitá pura ed allegra
        è la mente incorrotta a Dio divota,
        cogli atti onesti e colla carne intègra.

        E, se l'integritá fusse rimota
        contra 'l voler, non però si sospetti
   45 perder corona e la celeste dota.

        La castitá è poi de' men perfetti;
        ma, se si parte dalle cose sozze,
        il frutto di sessanta in cielo aspetti,

        se non trapassa alle seconde nozze,
   50 se lassa ciò in che Marta s'affanna,
        se piú non vuol marito che rimbrozze,

        e se con Michelina e con sant'Anna
        abita sola e dimora in quel templo,
        ove si gusta la celeste manna;

   55 se dalla tortora anche piglia esemplo,
        che beve turbo e sola sempre è 'n lutto,
        quasi dicendo:—Io castitá rassemplo.—

        Il matrimonio è poi di minor frutto;
        perché convien che la famiglia rega,
   60 non può inverso Dio attender tutto;

        ché quanto piú col mondo alcun si lega
        ed alla cura bassa sta piú attento,
        tanto dal contemplar di Dio si piega.
p. 297
        Allora è santo e vero sacramento,
   65 se in una vera fede egli è fundato,
        in santa pace e in un consentimento;

        se solo a quel buon fine egli è usato,
        pel quale al primaio uom, quando fu fatto,
        la sposa Dio gli trasse del costato.

   70 Se bestiale ovver meretricio atto
        fra lor non si usa, allor è continenza,
        ché fuor de' miei confini e' non è tratto.—

        Poi, come donna che fa reverenza,
        lassando il ballo, tal atto fe' ella,
   75 e prese il quarto canto l'Abstinenza.

        Alzando gli occhi al ciel, quella donzella
        disse:—La mente mia libera e lieta
        sublimo al mio Signor, che mi favella.

        Egli è che spira e che mi fa profeta:
   80 Egli è che ciba me, lui contemplando:
        Egli è che di vertú mi fa repleta.

        Di me all'uomo fe' il primo comando;
        e, quando el ruppe, a morte ed a fatiga
        e tra mille timori el pose in bando.

   85 L'offizio mio quella parte castiga,
        dov'è 'l desio e quel voler ribello,
        che alla legge mental dá sí gran briga.

        Li tre fanciulli ed anche Daniello
        profeti fei, perché funno abstinenti
   90 e parlavan con Dio, com'io favello.

        Avventurate giá l'antiche genti,
        a cui il pasto delle giande ed erbe
        fe' 'l viver lungo e san senza tormenti!

        Ora li cibi e le mense superbe
   95 son sí cresciuti, che la vita brieve
        è inferma e poca e pien di doglie acerbe.

        Ora, se innanzi al pranzo non si beve,
        pare altrui pena; e troppa dilicanza
        fa che 'l cibo comune al corpo è grieve.
p. 298
  100 Il corpo, che del poco ha sua bastanza,
        se non ha buono assai e spesso e presto,
        mormora guasto dalla mal usanza.

        Or pochi fanno quel digiun richiesto
        per decima da Dio, che gli sia offerta,
  105 del tempo, che a ben far n'ha dato in presto.

        E non val ch'è precetto e che si accerta
        ch'estirpa i vizi e le virtú acquista,
        e che lieva la mente a Dio sú erta.—

        Qui lasciò 'l canto come 'l citarista;
  110 poi come fa'l falcon, quando si move,
        cosí Umiltá al cielo alzò la vista,

        dicendo:—O alto Dio, o sommo Iove,
        nulla umiltá che pretenda bassezza,
        possibil è che mai in te si trove.

  115 Ma, permanendo in sé la tua altezza,
        il tuo Figliuol l'umanitá si unío
        non con difetti, ma con l'altra asprezza,

        sí ch'egli, essendo insieme e uomo e Dio,
        in quanto Dio che satisfar potesse,
  120 e in quanto uom patisse ove morío,

        per colui che, produtto allora in esse,
        ruppe la sbarra del comando primo
        ed attentò che, quanto Dio, sapesse.

        Però convenne che 'l superbo limo
  125 s'umiliasse quanto insú era ito,
        ed egli non potea piú ire ad imo.

        Ed anco 'l suo peccato era infinito,
        pensando quel Signore, in cui presunse
        e che a non obbedirlo fu ardito.

  130 Per questo, Dio umanitá assunse
        ed un si fece seco e fu quell'Agno,
        che pei peccati altrui s'offerse e punse.

        O alto mio Signor, tu se' sí magno,
        che tutti quanti i ciel son la tua sede,
  135 e la terra è scabello al tuo calcagno.
p. 299
        Alla grandezza tua, che tanto eccede,
        l'umiltá sola gli fece la casa,
        quando umanò 'l tuo eterno Erede

        nel petto di Maria, qual è rimasa
  140 speranza a' peccatori e sempre advoca
        che Piatá tenga a lor la porta pasa.

        Quella Umiltá, che 'n croce si fe' poca,
        fu esaltata e, posta al lato destro
        appresso a Dio, in alto si collòca.

  145 E, quando al mondo stette per maestro,
        con umiltá conversò tra la gente
        non come prince, ma come minestro;

        ove li gradi mostra, a chi pon mente,
        dell'umiltá, e prima che subietta
  150 sie a' maggiori e presta ed obbediente.

        L'altra è che a' suoi egual si sottometta;
        l'umiltá terza alli minor subiace:
        questa è suprema ed è la piú perfetta.

        Di un'altra umiltá, che nel cor giace,
  155 il primo grado non dispregia altroi;
        l'altro, s'è dispregiato, non gli spiace.

        Il terzo grado è dopo questi doi;
        che, s'egli è dispregiato, se ne goda
        e non si turbi, perché altri el nòi;

  160 e che avvilisce sé, quando altri el loda,
        e sol risponde, quando altri el domanda,
        e non si cura, benché opprobrio oda;

        e come il buon corsier, che cosí anda
        come altri mena il fren, cosí la voglia
  165 pon nell'arbitrio di chi ben comanda;

        e, benché alcuno a lui la vesta toglia,
        o se la sua mascella li percuote,
        non contendendo, lo mantel si spoglia

e paragli anco l'altra delle gote.—

p. 300

CAPITOLO VI

Della fortezza e delle sue spezie.

        Menommi poi l'Umilitá piú suso,
        tanto ch'io giunsi al reame secondo;
        e, come il primo, il varco aveva chiuso,

        ed anco 'l muro avea girante in tondo
    5 ed era tutto quanto d'oro fino,
        alto ben cento piè da cima al fondo.

        Enginocchiato, al mur mi fei vicino;
        allora l'uscio grande ne fu aperto;
        e noi intrammo su per quel cammino.

   10 Forse duo miglia era ito suso ad erto
        tra dolci canti e tra li belli fiori,
        da' quai tutto quel pian era coperto,

        ch'io vidi in mezzo delli sacri còri
        star la Fortezza ardita e triunfante
   15 come una dea adorna di splendori.

        Mirava al cielo e tenea le sue piante
        fisse e fermate su 'n una colonna,
        ch'era tutta di fino adamante.

        La spada in mano avea la viril donna
   20 e l'elmo in testa ed in braccio lo scudo,
        e la panziera in scambio della gonna.

        —O vertú alta, o nobil Fortitudo
        —diss'io a lei inginocchiato appresso,—
        che non curi Fortuna e suo van ludo,

   25 per l'aspero viaggio mi son messo,
        passando i vizi insú con grande affanno,
        per veder questo regno a te commesso,
p. 301
        e per veder le dame che qui stanno;
        e vengo, alta regina, ché m'insegni
   30 l'offizio e l'operar, che da te hanno.

        Se 'l priego basso mio, donna, disdegni,
        Minerva disse a me ch'io ti richieggia
        e che venissi qui, ove tu regni.—

        Siccome, quando le sue schier vagheggia,
   35 si mostra ardito il nobil capitano,
        ed ognun delli suoi, perch'egli il veggia,

        cosí fec'ella con la spada in mano,
        e cosí se mostroe ogni sua ancilla,
        in forma femminile ardir umano.

   40 Non mai Pantasilea ovver Camilla
        tanto valor nell'arme dimostrâro,
        né donna d'Amazona o d'altra villa.

        —Da c'hai passato il cammin cosí amaro
        —rispose quella,—e mándati Minerva,
   45 degno è che io t'insegni e faccia chiaro.

        La parte, che nell'uom debbe esser serva,
        per due cagioni alla ragion s'oppone
        e contra buona legge sta proterva.

        Prima è dolcezza delle cose buone
   50 secondo il senso, e, quando troppo move,
        a questa Temperanza il fren gli pone.

        L'altra è quand'ella andar non vuol lá, dove
        la ragion ditta e fállo per paura
        o per diletto, che la tiri altrove.

   55 Ora a' due offizi miei porrai ben cura.
        Uno è che arma l'uom e che lo sprona
        alla vertú contra ogni cosa dura.

        E, perch'abbia vittoria, la corona
        io gli dimostro; e, se vince l'asprezza,
   60 prometto fama e premio, che 'l ciel dona.

        L'altro è che, come Ulisse, la dolcezza
        lassa di Circe e, come Sanson fiero,
        svegliato, i lacci di Dalida spezza.
p. 302
        E giammai non ti caggia nel pensiero
   65 che di fortezza virtual sia armato
        chi il mal fa forte o casual mestiero,

        cioè per furia o ira, o che infiammato
        sia d'amor troppo, e forse per temenza
        o per guadagno ovver come soldato.

   70 Per molta ovver per poca esperienza
        alcun par forte; ma vera radice
        nullo ha di questo, ma sola apparenza;

        ché la fortezza, che fa l'uom felice,
        è animo costante a non volere
   75 ciò ch'a ragione ed a Dio contradice,

        per questo apparecchiato a sostenere
        ogni fatica, ogni briga e periglio
        e voler contrastar con suo potere,

        e per le quattro cose, a quali è figlio,
   80 la patria, il padre, la vertú e Dio,
        ire alla morte con allegro ciglio.

        Non ha però di morte ella il disío;
        ché quanto al mondo è utile sua vita,
        tanto il morir gli dole e pargli rio.

   85 Ma la sua carne libera e espedita
        tiene alla morte, e sol quando bisogna
        e in bene di color che l'han largita;

        ch'è meglio assai che l'uom la vita pogna,
        che Cloto fila e fa corte le tele,
   90 che viver vizioso e con vergogna.

        Perché non fusse a' nemici infedele
        nelle promesse, il buon Regulo Marco
        tornò alla morte ed al dolor crudele.

        Ristette solo Orazio su nel varco
   95 del ponte, insin che gli fu dietro rotto,
        portando de' nemici tutto il carco,

        e poi nel Tever si gittò di sotto
        non per fuggir, ma che non contentasse
        color ch'a ritener s'era condotto.
p. 303
  100 Fortezza fe' che Curzio si gittasse
        nella ruina, acciò che la sua morte
        da morte la sua patria liberasse.

        Omai contempla la mia bella corte.
        Questa che 'n testa porta due ghirlande,
  105 perché a destra ed a sinistra è forte,

        Magnanimitá è, che ha 'l cor sí grande,
        che Fortuna nol flette, se minaccia,
        né lieva in alto con losinghe blande;

        ma tra la gran tempesta e gran bonaccia
  110 conduce la sua barca con salute,
        e troppa spene o tèma non l'impaccia.

        Non per ambizion, ma per vertute
        s'ingegna di salir in grande onore,
        e solo a questo ha le sue voglie acute,

  115 e, non perch'i subietti ella divore,
        ma per far prode, sí come fa 'l lume,
        che, posto in alto, mostra piú splendore.

        Il vizio d'arroganza, e che presume,
        ha ella in odio e la gloria vana
  120 sí come cosa opposta al buon costume.

        Troppa audacia ancor da lei è lontana
        e 'l timor troppo e l'animo pusillo,
        e la temeritá da lei è strana;

        ed è verace, e l'animo ha tranquillo
  125 e tra li grandi mostra aspetto magno,
        ed eccellente ed alto è 'l suo vessillo,

        ed usa tra' minor come compagno.
        L'onor e la vertú vuol che antiposta
        sia all'utilitá ed al guadagno.

  130 Quell'altra donna, che gli siede a costa,
        è sua sorella, chiamata Fidanza:
        questa è seconda, in questo regno posta.

        Questa comincia con molta baldanza
        le cose dure, pria pensando il fine
  135 e la fatica ed ogni circumstanza.
p. 304
        La terza poscia di queste regine
        è Pazienza, ed ella è che sostiene
        della battaglia le piú acute spine.

        E sono dolci a lei l'amare pene,
  140 pensando il premio e 'l grande onor che spera,
        ché senza affanno non si monta al bene.

        La quarta è la vertú che persevéra
        insin al fine, e l'opera conduce
        tutta perfetta e tutta quanta intera.

  145 Ogni atto buono ed arduo, che produce
        la volontá zelante ed iraconda,
        a questo mio reame si reduce.

        Io dico l'ira, quando non abbonda
        tanto che offusche il lume della mente,
  150 ma quella che a ragion sempre seconda.

        In questo regno mio tanto eccellente
        stanno i romani antichi e li gran reggi
        e gli uomin forti dell'antica gente,

        i quai voglio che odi e che li veggi.
  155 Quivi sta Ettòr e quivi stan coloro
        che in magnanimitá fûn li piú egreggi.—

        Allor partíssi, e tutto il sacro coro,
        seguendo la Fortezza, i passi mosse,
        sin che trovammo una gran porta d'oro.

  160 La donna principal quella percosse;
        e senza alcun indugio ne fu aperta;
        ma quel portier che aprío, non so chi fosse:

tanto attesi a seguir la scorta esperta.

p. 305

CAPITOLO VII

De' magnanimi e valentissimi, ne' quali risplendette la virtú della fortezza.

        Non credo che sia loco, sotto il cielo,
        sí delettoso e di tanta allegrezza,
        né tanto temperato in caldo e 'n gielo,

        quanto quel dove andai con la Fortezza.
    5 E lí trovai armato il fiero Marte,
        quanto un gigante grosso ed in altezza.

        E molta gente avea da ogni parte
        e tanto appresso a lui, quanto vantaggio
        ebbon in forza e in battagliosa arte.

   10 E sopra tutti lor scendeva un raggio,
        il qual si derivava dal pianeta,
        che dá nella battaglia buon coraggio.

        Sí come luce ch'esce di cometa,
        cosí scendeva lor sopra la chioma,
   15 secondo la vertú piú chiara e lieta.

        Quando piú bella e piú in fior fu Roma,
        non ebbe in sé sí bella baronia,
        né quella che di Troia ancor si noma.

        Come tra' fiori e dolce melodia
   20 l'anime vanno tra gli elisii campi,
        facendo insieme festa in compagnia;

        cosí su' prati dilettosi ed ampi
        givano questi in gran solazzo e gioco
        col raggio in capo, che par che gli avvampi.

   25 —Secondo il raggio, quanto è assai o poco
        —Fortezza disse,—qui si manifesta
        la vertú de' baron di questo loco.
p. 306
        Colui, che sí gran fiamma ha su la testa,
        Ercule fu, quel valoroso e forte,
   30 che morto fu con venenosa vesta.

        Tornò d'inferno e fuor delle sue porte
        Cerbero trasse e menollo nel mondo
        con tre catene a tre sue gole attorte.

        L'altro, ch'è dopo lui e poi secondo,
   35 è Cesar ceso nel ventre materno,
        che 'l raggio ha poi piú chiaro e piú giocondo.

        Tutta la zona donde viene il verno,
        la Francia, il Reno e l'antica Bretagna,
        sommise a Roma sotto 'l suo governo.

   40 E poi quel terzo, il qual egli accompagna
        e che da tanti è qui menato a spasso
        su per li prati della gran campagna,

        è quel che di combatter mai fu lasso
        nella battaglia, il fortissimo Ettorre,
   45 per la cui morte Troia venne al basso.

        Non bastò, Achille, a lui la vita tôrre,
        ma 'l trascinasti intorno delle mura
        delle porte troiane e delle torre.

        Il quarto, c'ha la luce chiara e pura
   50 su nella testa, è Alessandro altèro,
        che fece a tutto il mondo giá paura.

        Egli ebbe l'Oriente tutto intero:
        forse, se non che morte el lievò tosto,
        di vincer Roma gli riuscía 'l pensiero.

   55 L'altro, a cui tanto raggio in capo è posto,
        è quell'Ottavian, da cui si dice
        ogni altro imperator «Cesare Agosto».

        O alto core, o anima felice,
        la terra tutta facesti subietta
   60 fin dove il caldo accende la fenice.

        Fatt'hai di Cesar tuo la gran vendetta,
        e Perugia condutta a trista fame,
        e guasta tutta pompeiana setta.
p. 307
        Recasti tutto il mondo ad un reame;
   65 per tua virtú, dal ciel discese Astrea
        e chiuse a Ian del tempio ogni serrame.

        Risguarda omai el magnanimo Enea,
        che si rallegra e parla con lui insieme,
        e ben in vista par figliuol di dea.

   70 Vedi da lui disceso il nobil seme,
        Romulo dico, innanti al cui valore
        tutte l'altre fortezze fûnno sceme.

        Vedi che tutti que' gli fanno onore
        e stangli innanzi come figli al padre;
   75 ed ha dal forte Marte piú splendore.

        La grande Roma e l'opere leggiadre
        di farsi grande e vendicare il zio
        e la Sabina a Roma dar per madre,

        il Capitolio e 'l tempio, che fe' a Dio,
   80 la milizia, il senato e la virtude
        el fan sí grande in questo regno mio.

        Oh secolo feroce! oh genti crude!
        il padre de' roman da' roman poi
        fu ucciso ed occultato in la palude.

   85 Quell'altro, che piú presso sta a loi,
        è il gran Pompeo, il quale in mare e in terra
        fe' gloriosi li triunfi suoi.

        Questo fu vincitor in ogni guerra,
        in Grecia, nell'Egitto ed in Tessaglia
   90 e ove 'l libico mar la secca serra,

        sinché col suocer ebbe la battaglia,
        u' Fortuna mostrò che contra lei
        non è fortezza o senno che vi vaglia.

        Vedi il piatoso amator delli dèi,
   95 difensor delle leggi, il buon Catone,
        refugio a' buon e riprensor de' rei.

        Mira il chiaro splendor di Scipione,
        in tanta gioventú verenda immago,
        tanta onestá in etá di garzone,
p. 308
  100 a cui die' 'l nome la vinta Cartago,
        l'Affrica subiugata ed Anniballo,
        che contra Roma fu peggior che drago.

        L'altro è che 'l gran francioso da cavallo
        gittò a terra, e detto fu Torquato
  105 dal torque, che gli tolse, argenteo e giallo.

        Mira Camillo, il forte Cincinnato,
        il qual fortezza e vertú fe' sí grande,
        ch'andò al triunfo, tratto dell'arato.

        Se di quegli altri tre tu mi domande,
  110 che vanno inseme, a cu' il figliol di Iove
        del raggio a lor fa 'n capo tre grillande,

        quello, che i passi innanzi agli altri move,
        è 'l sovran re di Francia Carlo Magno,
        che contr'a' sarracin fe' le gran prove.

  115 L'altro, che va con lui come compagno,
        è 'l valoroso Boglion Gottifredo;
        che della Terrasanta fe' 'l guadagno.

        Il sepolcro di Cristo e 'l santo arredo
        ei conquistò; ed ora l'ha 'l soldano,
  120 non iusto possessor, ma come predo.

        Il terzo, ardito, con la spada in mano
        è 'l re Artus, e i suoi atti pregiati
        nomati son da presso e da lontano.—

        E giá la dea a me avea mostrati
  125 li gran troiani ed anche li gran greci,
        che eccellenti e forti erano stati,

        e detto avea de' Fabi e delli Deci;
        quando vidi un con molta gente intorno:
        ond'io a domandar oltra mi feci:

  130 —Chi è colui, che 'l raggio ha tanto adorno,
        o dea Fortezza, che sí come 'l sole
        faría la notte parer mezzogiorno,

        e che di fiori, rose e di viole
        li spargon sopra il petto e sopra il viso,
  135 sí come a' novi amanti far si sòle?—
p. 309
        Ed ella a me:—Colui, che festa e riso
        riceve qui per la vertú che vince,
        or ora debbe andare in paradiso.

        Ed è concesso a lui che passi quince,
  140 che 'l suo valore a te sia manifesto:
        chiamato fu 'l cortese signor Trince.

        Innanzi a quell'Urbano, il qual fu sesto,
        sotto il vessillo scritto in libertade,
        che servitú per chiosa ebbe nel testo,

  145 tutte sue terre e tutte sue contrade
        di santa Chiesa a lei volson le piante
        e rivoltônsi con lance e con spade.

        Ma questo con pochi altri fu costante,
        e tra quei pochi di costui apparse
  150 la fede ferma piú che diamante;

        tanto ch'egli per questo il sangue sparse,
        drizzando a Dio il core e le sue mani,
        che 'n liberalitá mai fûnno scarse.

        Per questo greci, dardani e romani
  155 l'aspergono di fior, come tu vedi,
        e fangli festa in questi grati piani.

        —O sacra dea—diss'io,—se mel concedi,
        andrò a lui, e reverente e chino
        abbracciar voglio i sui amorosi piedi;

  160 ché 'l suo figliol dal mondo pellegrino
        quassú salir mi mosse: egli mi manda:
        per lui messo mi son in 'sto cammino.

        —Consentirei—respuse—a tua dimanda;
        se non che su nel ciel tu 'l trovarai,
  165 se il core e tua vertú tanto insú anda.—

        In questo sopra lui disceson rai,
        quali il sol la mattina all'oriente
        intensi manda li splendor primai.

        Li tre colle grillande prestamente
  170 insieme in compagnia a lui n'andâro,
        facendo via a lor tutta la gente,
p. 310
        ed entrôn dentro in quello splendor chiaro.
        Allor vennon da cielo agnoli molti,
        che quelli quattro a Dio accompagnâro.

175 Quelli bei fiori, ch'elli avíeno còlti, spargean sopra la gente, andando insue, che ammiravan con sospesi volti,

sinché, allungati, non si viddon piue.

p. 311

CAPITOLO VIII

Nel quale la Fortezza scioglie un dubbio dell'autore, e appresso incominciasi a trattare della prudenza.

        L'intelletto dell'uom, che mai non posa,
        che sempre cerca e sta ammirativo,
        sinch'e' non trova la cagion nascosa,

        dicea fra sé:—Nel loco sí giolivo
    5 come star puote chi non si battezza
        o non credette in Cristo, essendo vivo?—

        Però addomandai la dea Fortezza:
        —Come qui 'n questo loco tanto ameno,
        di tanta festa e di tanta dolcezza,

   10 stan questi che 'l battesmo ebbono meno?
        Non so se fuor del cielo è luogo al mondo,
        che sia sí bello e di letizia pieno.—

        Ed ella a me:—Tu cerchi sí profondo,
        che scusata serò, se bene aperto
   15 alla domanda tua io non rispondo.

        Ma sappi in prima, ed abbilo per certo,
        ch'ogni male da Dio será punito,
        ed anco addolcirá ogni buon merto.

        Ma del voler di Dio, ch'è infinito,
   20 quanto a cercar alcun piú vi s'affanna,
        tanto pel grand'abisso va smarrito.

        Se li non battizzati egli condanna,
        sol che li tien per sempre del ciel fòre,
        per questo non gl'iniuria e non gl'inganna;

   25 ché quei, che ebbon di vertú 'l valore,
        di pena sensitiva non martíra,
        s'altro peccato non dá lor dolore.
p. 312
        E ciò che 'l ciel non toglie, mentre gira,
        dico memoria, volontá, intelletto
   30 e ciò che l'alma sciolta seco tira,

        possono usare ed usan con diletto,
        e la vertú che ama e che ragiona,
        e contemplar con atto piú perfetto.

        Ma 'l ben che Dio per grazia ne dona,
   35 se 'l dá a costui ed a quel nol concede,
        non però fa iniuria a persona.

        Per grazia è solo, non giá per mercede
        salir al paradiso; e tal acquisto
        far non si pò senza battesmo e fede;

   40 ché i battezzati col ben far permisto
        son quelli, a' quali Dio promette il cielo
        ed alli circoncisi innanzi a Cristo.

        Che alcun puniti siano in caldo e gelo
        per gran delitti e scelerosi mali,
   45 apertamente ne 'l mostra il Vangelo.

        Ma questi, ch'ebbon le vertú morali,
        benché del ben di grazia sien privati,
        non però perdon li ben naturali.

        E però qui tra questi belli prati
   50 a te mostrati son, che ti sia nota
        la gran vertú, della qual fûn dotati.

        Sí come Ezechiel vide la rota
        e vide Ieremia un'olla accesa,
        ed altro intende la mente devota;

   55 cosí qui altra cosa s'appalesa
        agli occhi tuoi, ed altra dalla mente
        nel senso vero debbe esser intesa.—

        Poiché mostrata m'ebbe la gran gente,
        quelle sante donzelle si partîro;
   60 ed io su salsi una piaggia repente,

        tanto che io pervenni al quarto giro,
        ove la quarta porta era chiusa anco;
        e 'l muro tutto avíe de fin zaffiro.
p. 313
        Inginocchiato il pié diritto e il manco,
   65 come chi vuol intrar quivi far usa,
        venne una ninfa vestita di bianco.

        Io percepetti ben ch'era una musa,
        ché 'n capo avea d'alloro una grillanda;
        e questa aprí a me la porta chiusa.

   70 Tutti i bei fior, che Zefiro ne manda,
        e tutto il canto della primavera,
        allor che amor la compagnia domanda,

        nulla saríeno al canto che quivi era:
        il lume di quel regno era sí accenso,
   75 che ogni luce di qua parría da sera.

        E, benché lo splendor fusse sí intenso,
        non però quello i mortali occhi offende,
        ma piú acuto fa il visivo senso:

        cosí l'occhio mental, quand'egli intende,
   80 si fa piú vigoroso e fassi forte,
        quanto l'obietto visto piú risplende.

        Della Prudenzia pervenni alla corte;
        e ben pareva la casa del Sole:
        tanti splendori uscían delle sue porte.

   85 Intorno al pian vid'io le grandi scole
        de' filosofi saggi e de' poeti,
        d'Apollo e di Mercurio santa prole.

        Pensa se gli occhi miei erano lieti,
        vedendo di Parnaso il sacro monte,
   90 qual per veder sostenni fami e seti;

        vedendo intorno al pegaseo fonte
        le nove muse, e di peneia fronda
        incoronarsi le tempie e la fronte;

        vedendo lo stillar della sacra onda;
   95 udendo i dolci canti e le favelle,
        a' quai degno parea che 'l ciel risponda.

        Come dal sole è 'l lume delle stelle,
        cosí dalla gran corte di Prudenza
        venía la luce in queste cose belle.
p. 314
  100 Nell'aula di tanta refulgenza
        la musa intrar mi fe', di cui le piante
        venni seguendo insú con riverenza.

        Tra molte donne in mezzo a tutte quante
        una ne vidi, e dietro avea due occhi,
  105 duo nelle tempie e duo ne avea dinante.

        Io dissi a lei, calando li ginocchi:
        —O donna, che 'l passato a mente rechi
        e che 'l presente miri e 'l fine adocchi,

        priego che l'ignoranza in me resechi;
  110 e la mia mente illustra, acciò che io
        non caggia o vada errando com'e' ciechi.

        Venuto son quassú dal mondo rio
        dietro a Minerva, ed ella fu mia duce;
        ella è che ha guidato il passo mio.

  115 Ella mi disse che tua chiara luce
        delle tre tue sorelle illustra ognuna
        e dietro a te ciascuna il piè conduce;

        e che lor mente sería oscura e bruna,
        sí come stella senza l'altrui raggio
  120 o come senza il sole oscura luna.

        Io vengo a te per l'aspero viaggio,
        come scolar che volentieri impara,
        ch'a lungi cerca chi lo faccia saggio.—

        Sí come, quando a Febo s'interpara
  125 alcuna nube, e poscia manifesta
        la bella faccia, che il mondo rischiara;

        cosí schiarò sei occhi della testa,
        de' quai gli risplendette tutto il volto;
        poi mi rispose con parola onesta:

  130 —Sí come il senso e l'appetito stolto
        la Temperanza regge e fren lor pone,
        che è mesura tra lo troppo e 'l molto,

        e sí come Fortezza lo sperone
        porge al voler, s'è tardo o se declina
  135 dalla vertú e dalle cose buone;
p. 315
        cosí qui illustro con la mia dottrina
        la luce d'intelletto ovver mentale,
        ché l'arte e l'uso la vertú raffina.

        Questo splendore e luce naturale
  140 è prima legge all'uomo, ed ella è atta
        poter discerner tra lo ben e 'l male.

        Ed in duo modi può diventar matta,
        quand'ella non al fin del corso umano,
        ma nella via il suo piacere adatta:

  145 cioè in diletti, ovver nell'amor vano,
        in troppa cupidigia, in usar froda,
        o in rapina, o nell'arte di Gano.

        Io dirò 'l vero, e voglio ch'ognun l'oda:
        inganno, tradimento e falso gioco,
  150 pur ch'util abbia, per vertú si loda.

        Prudente è chi al fine, ovver al loco,
        al qual creato fu, drizza il cammino,
        e non al mondo, ov'egli ha a viver poco;

        e per la via fa come il pellegrino,
  155 che per la via, s'è saggio, non si carca,
        per ritornar ov'egli è cittadino,

e, mentre il corpo posa, col cor varca.—

p. 316

CAPITOLO IX

Nel quale ragionasi di assai antichi poeti, filosofi ed autori.

        Io ascoltava ancor con gran piacere,
        quando su si levò quella virago
        per far le cose a me meglio vedere,

        perché s'avvide ben ch'io era vago
    5 voler saper dell'altre cose belle,
        le qual con questo stil ora ritrago.

        Surson dirieto a lei le sue donzelle,
        ognuna in capo con una corona
        splendente piú ch'a mezzanotte stelle.

   10 Ad uno invito di bella canzona,
        la qual dicía:—Venite qui su ad erto,—
        salimmo al nobil monte d'Elicona.

        Quand'io andava, vidi il ciel aperto
        ed un gran lume al monte ingiú disceso,
   15 tanto ch'egli ne fu tutto coperto.

        E tanto piú e piú pareva acceso,
        quanto piú io mirava inver' la cima,
        insino al luogo, ov'egli era disteso.

        Li saggi e li poeti ditti prima
   20 s'acceson di quel lume, ed ognun tanto,
        quanto piú o men nel saper fu di stima.

        Le muse vidi allor a lungi alquanto
        venir ver' noi; ed ognuna di loro
        due rettorici avea appresso e accanto,

   25 incoronati dello verde alloro
        tutto splendente; ed avean tutti quanti
        ancora in capo altra corona d'oro.
p. 317
        —Virgilio e Tullio son quei duo dinanti
        —cominciò a dire a me la dea Prudenza:—
   30 quelli duo fênno i piú soavi canti.

        Inseme Roma e la sua gran potenza
        venne in Augusto all'altura suprema,
        ed in costor lo stil dell'eloquenza.

        E quanto alcun s'appressa al lor poema,
   35 tanto è perfetto; e quanto va da cesso,
        tanto nel dir il bel parlar si scema.

        Omero è l'altro, che vien loro appresso,
        il qual ad ogni dir giá detto in greco
        andò di sopra e vinse per eccesso.

   40 E, come ogni splendor oscuro e cieco
        si fa, quando è presente un maggior lume,
        cosí ogni altro dir, ponendol seco.

        Quell'altro è quel che fece il bel volume,
        Tito Livio dico, il quale spande
   45 dell'arte d'eloquenzia sí gran fiume.

        Il quinto, in cui risplendon le grillande,
        è l'alta tuba dotta di Lucano
        con valoroso dire adorno e grande.

        Egli si lagna che 'l sangue romano
   50 fu sparso per li campi di Farsaglia,
        sí che vermiglio fe' tutto quel piano;

        e raccontò della civil battaglia
        di Cesar e Pompeo e lor grand'onte
        coll'alto dir, che come spada taglia.

   55 Ovidio è l'altro, e 'l gorgoneo fonte
        gli die' nel poetar lingua sí presta
        e nelli metri sí parole pronte,

        che ha maggior grillanda in su la testa
        che gli altri qui, ma non però sí chiara,
   60 sí come agli occhi ben si manifesta;

        e canta quanto è dolce e quanto è amara
        la fiamma di Cupido, e ch'al suo foco
        né senno, né altro scudo si ripara.
p. 318
        Stazio napolitan tien l'altro loco;
   65 Orazio è l'altro e poscia Giovenale;
        Terenzio e Persio vengon dietro un poco.—

        Il pegaseo cavallo con doppie ale
        io vidi poscia, e mille lingue ed occhi
        aveva intra le penne, con che sale.

   70 Avea pennuti i piedi e li ginocchi;
        e tanto sal, che non è mai che Iove
        cosí da alto le saette scocchi.

        E vidi poscia come ben si move,
        volando fuor del fonte pegaseo,
   75 ov'io pervenni e vidi cose nòve.

        Demostene trovai ed anche Orfeo,
        che sí soave giá sonò sua cetra,
        con lo influir di Nisa e di Lieo,

        che moveva i gran sassi ed ogni pietra,
   80 e con la melodia della sua voce
        scese in inferno in quella valle tetra;

        Pluton, senza piatá crudo e feroce,
        mosse a piatá, e l'anime de' morti
        fece scordar del foco, che le coce;

   85 facea tornar a drieto i fiumi torti;
        alfin ne trasse fuor la sua mogliera,
        col suon facendo a lei li passi scorti.

        Prudenzia, tra cotanta primavera,
        salir mi fe' nel gran monte Parnaso,
   90 dove la scòla filosofica era.

        Infino a piè del colle, a raso a raso,
        splendeva il lume grande di quel sole,
        che mai ebbe orto e mai averá occaso.

        Mentr'io sguardava a quelle grandi scole,
   95 un poníe mente a me coll'occhio fiso,
        come chi ben cognoscer altrui vuole;

        e poi la bocca mosse un poco a riso,
        che fu cagion che lo splendor s'accese
        ed illustrògli piú la faccia e 'l viso.
p. 319
  100 Allor Prudenza a me la man distese
        dicendo:—Va', quello è mastro Gentile
        del loco onde tu se', del tuo paese.

        La sperienza e lo 'ngegno sottile,
        ch'ebbe nell'arte della medicina,
  105 e ciò che egli scrisse in bello stile,

        demostra questa luce e sua dottrina.—
        Allor mi mossi ed andai verso lui,
        quando mi disse:—Va'—quella regina.

        —O patriota mio, splendor, per cui
  110 e gloria e fama acquista el mio Folegno
        —diss'io a lui, quando appresso gli fui—

        qual grazia o qual destin m'ha fatto degno,
        che io te veggia? Oh, quanto mi diletta
        ch'io t'ho trovato in cosí nobil regno!—

  115 Come fa alcun che ritornare affretta,
        che tronca l'altrui dire e lo suo spaccia,
        cosí fec'egli alla parola detta,

        e 'l collo poi mi strinse colle braccia,
        dicendo:—S'io son lieto ch'io ti veggio,
  120 el mostra il lampeggiar della mia faccia.

        E son venuto dal celeste seggio
        qui per vederti ed anche a demostrarte
        della filosofia l'alto colleggio.

        Colui, che vedi in la suprema parte,
  125 è Aristotel, l'agnol di natura:
        egli è che aperse la scienzia e l'arte,

        tanto che chi al ver vuol poner cura,
        nullo, in quanto uomo, pescò tanto al fondo,
        quanto fec'egli, e volò sí in altura.

  130 Alberto Magno è dopo lui 'l secondo:
        egli supplí li membri e 'l vestimento
        alla filosofia in questo mondo.

        Il gran Platone è l'altro, che sta attento,
        mirando al cielo, e sta a lui a lato
  135 Averois, che fece il gran comento.
p. 320
        Socrate poscia tiene il principato,
        dottor nella moral filosofia;
        e Seneca è con lui accompagnato.

        Pitagora, che 'l conto trovò pria,
  140 è l'altro; poi Parmenide e Zenone
        e quel che pone che 'l gran caos sia.

        Sguarda Avicenna mio con tre corone,
        ch'egli fu prence e di scienza pieno
        ed util tanto all'umane persone.

  145 Ipocrate è con lui e Galieno
        e gli altri, per cui 'l corpo si defende,
        che innanzi al tempo suo non venga meno.

        Questo splendor, che questo monte accende,
        da Dio deriva e 'nsin quaggiú procede,
  150 e negli angeli suoi prima risplende,

        e poi nelli dottor di santa fede.
        E sappi ben che ciò che 'l ciel su cela,
        nullo intelletto, in quanto umano, el vede,

        se Dio con maggior lume nol rivela;
  155 e questo lume qui, rispetto a quello,
        è tanto, quanto al sol parva candela.—

        Poi su pel raggio, ov'è piú chiaro e bello,
        egli n'andò colle celesti penne,
        volando inverso il ciel sí come uccello;

160 e retornò al loco, onde pria venne.

p. 321

CAPITOLO X

Delle specie ovvero delle parti della prudenza.

        Dietro al mio cittadino avea lo sguardo,
        quando Prudenzia disse:—Ormai ti volta
        a veder l'altre cose, e non sie tardo.—

        Come scolaio che 'l suo mastro ascolta,
    5 io stetti attento e piegai le mie braccia,
        mirando lei con riverenzia molta.

        Ed ella a me:—Io voglio che tu saccia
        che lo mio offizio è quadripartito,
        ché a quattro fin dirizzo la mia faccia;

   10 ché la prudenza, di cui hai udito,
        fatta è da Dio che guidi e signoregge,
        sí come imperator bene obbedito.

        Però il prudente pria se stesso regge;
        ché, se alcun non guida ben se stesso,
   15 mal reggerá la sua subietta gregge.

        E, come il Genesis ne dice espresso,
        l'appetito lascivo all'uom subiace,
        sí come servo a signor sottomesso.

        Il fin di questo è ch'alla somma pace
   20 gli occhi dirizza ed attura l'orecchia
        alle lusinghe del mondo fallace.

        E nell'ultimo fin sempre si specchia,
        io dico in Dio, ed anco indietro sguarda
        al tempo che trasvola e sempre invecchia.

   25 L'altra prudenza, presta e non mai tarda,
        icomica si chiama, c'ha 'l governo
        della famiglia e la sua casa guarda.
p. 322
        Questa provvede l'arriedo paterno
        alli figliuoli, il vestimento e l'ésca,
   30 ed alli campi per la state e 'l verno.

        Il fin di questa è che in divizie cresca
        e ch'abbia prole buona e siagli erede,
        e che del mondo alfin con onor esca.

        Terza prudenza a guerra move 'l piede,
   35 chiamata di milizia triunfale,
        la qual al mondo pria Marte gli diede;

        ché la prudenza, in quel ch'è duca, vale
        piú che la forza e fa vie maggior guerra,
        che non fa 'l caldo giovanil ch'assale.

   40 Gran moltitudin spesse volte atterra
        un ben picciolo stuolo; e questo avviene,
        quando nell'arte militar non s'erra.

        Il fin di questo, se tu noti bene,
        è la vittoria e pace; e sol per questo
   45 guerra si piglia ed anco si mantene.

        L'altra, sí come hai letto in alcun testo,
        politica si chiama e regnativa;
        e, perché bene a te sia manifesto,

        in prima sappi che ogni cosa viva
   50 ed anche ciò che non ha vita, è retto
        dalla prima cagione, onde deriva.

        E questa è primo e supremo intelletto
        e prima provvidenza, e questa ha 'n cura
        e drizza verso il fine ogni suo effetto.

   55 Séguita poi l'angelica natura,
        la qual dispon, voltando sopra il cielo,
        ciò che in spezie in sempiterno dura.

        Onde, che l'ape faccia il favomelo
        e che del gran provvegga la formica
   60 tutta la state pel tempo del gelo,

        el fa l'intelligenza, che 'i notríca;
        e ciò che senza mezzo da lei piove,
        non rinnovella etá, o fálla antica.
p. 323
        Ma ogni effetto, che con mezzo move,
   65 benché influisca, movendo sua spera,
        conven che 'nvecchi e l'altro si rinnove.

        E, quando è discordante la matera
        dall'influenza, non pò l'operante
        dar la sua forma tutta quanta intera:

   70 però le cose non son tutte quante
        d'una perfezione: però 'l naso
        alcuno ha meno e 'l dito, e alcun le piante.

        Non è però ch'ella erri o faccia a caso;
        ma fa come il vasaio, a cui mancasse
   75 la terra, che non fa perfetto il vaso.

        Seguitan poi le signorie piú basse
        delli reami dell'umane genti,
        subiette al tempo, che convien che passe;

        ciò che avvien per casi contingenti,
   80 ciò che puote arte ovver umano ingegno,
        non però che da Dio sien mai esenti,

        commessi sono a vostro umano regno;
        e quanto lo 'ntelletto è acuto e saggio,
        tanto a signoreggiarli è atto e degno,

   85 perché prudenzia, sí come detto aggio,
        del reggimento è la prima radice,
        quando si guida dietro al primo raggio.

        Perciò un disse il mondo esser felice,
        quando a lui guidaranno i saggi il freno
   90 e Sapienza aran per lor nutrice.—

        Per satisfarmi poi del tutto appieno,
        mi disse:—Sguarda omai e drizza il viso
        alle donzelle, che a lato mi meno.

        Questa, che dalla lunga mira fiso
   95 il futur tempo, è detta Provvidenza,
        che bon tesor ripone in paradiso.

        E l'altra è la Presente Intelligenza;
        l'altra è Memoria ovver esperta mente,
        che del passato tempo ha esperienza.
p. 324
  100 E queste tre faríen poco o niente,
        se non che ognuna parturisce e figlia
        altre Vertú, che fanno esser prudente.

        Però la quarta è Vertú che consiglia,
        la qual la Provvidenza mena seco,
  105 che senza consigliar sempre mal piglia;

        ché, come senza guida cade il cieco,
        cosí conven che l'uom, andando, tome
        senza consiglio e ch'erri come pieco.

        Solerzia la quinta ha poscia nome,
  110 cioè sollicitu' ingegnosa ed arte:
        quest'è che trova il fine, il perché e 'l come;

        ch'ogni voler, che da casa si parte
        per voler camminar agli alti fini
        di Iove ovver d'Apollo ovver di Marte,

  115 convien che sia ingegnoso e che festin
        e che la possa e che li modi trovi
        che al proposto fin ben si cammini.

        Alquanto ancora addietro gli occhi movi
        alla vertú che Provvidenza è detta,
  120 acciò ch'anco di lei udir ti giovi.

        Convien ch'ella sia cauta e circumspetta;
        e però è Cautela l'altra luce,
        la qual provvede al mal che si suspetta;

        ché non è saggio ovver prudente duce
  125 chi spregia il suo nemico o chi nol teme,
        ché timor senno e prudenza produce.

        L'altra donzella, che con lei sta inseme,
        è qui chiamata Circumspezione,
        d'Intelligenzia ancor secondo seme.

  130 Ella è che gli atti e la condizione
        e 'l quanto e 'l come, mesurando, attende
        e li subiti casi e le persone.

        Docilitá è l'altra che risplende,
        cosí chiamata, ovver ingegno buono,
  135 se d'uso e di scienza ben s'accende.
p. 325
        Vero è che ingegno è un natural dono;
        ma, quando l'uso e l'arte questa cetra
        temperan sí, che ha perfetto suono,

        Docilitá si chiama, che penètra
  140 sí nel veder, che sa pigliar lo scudo,
        'nanzi che in capo gli giunga la pietra.

        Alcun lo 'ngegno ha tanto grosso e rudo,
        che la scienza s'affatica invano
        che mai a provvedersi egli abbia cudo.

  145 Benché in alcun sia l'intelletto umano
        e grosso e rozzo, si fa luminoso,
        quand'egli stesso vi vuol tener mano;

        ché un, che 'l cielo facea vizioso,
        respuse:—La scienza mi fe' casto,
  150 e l'assiduitá mi fe' ingegnoso.—

        E spesso vidi giá esser contrasto
        tra 'l sasso e l'acqua, e una goccia sola,
        cadendo spesso, l'ha forato e guasto.—

        La man mi prese dopo esta parola,
  155 dicendo:—Addio, addio, dolce figliolo;
        ch'io vo' tornar a mia beata scòla.—

        Partissi allor con quel beato stuolo,
        ed io piú ad alto presi la mia via;
        e forse un sesto miglio era ito solo,

160 quando m'occorse un'altra compagnia.

p. 326

CAPITOLO XI

Della virtú della giustizia, e come e perché furono trovate le leggi.

        La nobil compagnia, ch'io trova' allora,
        fu quella vergin sacra, con cui 'l sole
        a mezzo agosto e settembre dimora,

        non giá d'Astreo, ma di divina prole.
    5 Quand'ella percepette ch'io la vidi,
        benignamente disse este parole:

        —Con qual ardir quassú venir ti fidi?
        come, cosí soletto, movi il passo?
        or non hai tu persona che ti guidi?

   10 Se tu venuto se' dal mondo basso,
        qual fu quella Virtú, la qual ti scòrse
        tra' regni tristi del re Satanasso?—

        Ed io a lei:—Minerva mi soccorse,
        quando per mio errore era ito al fondo,
   15 onde a cavarmi la sua man mi porse.

        Mostrato m'ha lo inferno, il limbo e 'l mondo
        e delli vizi li reami crudi;
        poi mi condusse nel giardin giocondo,

        ove veduto ho io le tre Vertudi;
   20 e tutte insieme con festa e diletto
        menato m'han tra nobili tripudi.

        Cercando or vo colei, da cui fu retto
        sí in pace il mondo, che sub suo governo
        fu l'etá d'oro e 'l secol benedetto.

   25 —Poi ch'Avarizia uscío fuor dell'inferno,
        a cui la voglia mai saziò pasto,
        né poterá saziar mai in eterno,
p. 327
        quel reggimento buon fu tutto guasto,
        perché la forza vinse la ragione
   30 e conculcolla con superbia e fasto.

        Allor li Vizi preson le corone
        delli reami, e leggi inique e rie
        teson per lacci e levôn via le buone.

        Per questo Astrea dal mondo si partíe
   35 e quassú venne; ed ha la signoria
        coll'altre tre sorelle oneste e pie.

        —Perché tu fossi omai la scorta mia,
        che io venissi sol—dissi—a Dio piacque;
        però io prego: mostra a me la via.—

   40 Qual si fe' Citarea, nata tra l'acque,
        in sul partir del suo figliuolo Enea,
        che confessò nel viso ciò che tacque,

        cotal fece ella e disse:—Io sono Astrea,
        che resse il mondo con iuste bilance,
   45 innanzi che la gente fusse rea.

        Quando Superbia colle enfiate guance
        e li danar fên la ragion subietta,
        scacciata fui con spade e con lance.

        Da che il mio regno veder ti diletta,
   50 verraimi dietro; e fa' che mai in fallo
        dall'orme mie il piede tu non metta.—

        Un sesto miglio forse d'intervallo
        era ita, quand'io giunsi al regno quarto,
        ch'avea le mura tutte di cristallo.

   55 Lí era un uscio piccoletto ed arto,
        il qual tantosto a noi aperto fue,
        quando gittaimi in terra tutto sparto.

        Intrammo dentro e poco andammo insue,
        che le sue dame con corone in testa
   60 vennono incontro a noi a due a due.

        Poiché gran riverenzia e molta festa
        ebbon mostrata, stette innanzi ognuna
        come alla donna ancilla a servir presta.
p. 328
        E, come il cerchio che a sé fa la luna,
   65 quando dimostra che 'l seguente giorno
        sará seren, cacciando l'aria bruna:

        cosí facean a lei il cerchio intorno,
        cosí di sé una corona fenno
        alla Iustizia, che fa lí soggiorno.

   70 E, poco stando, ed ella fece cenno
        ad una che dicesse alcuna stanza;
        e l'altre tutte quante attente stenno.

        Come donzella che ha a guidar la danza,
        che a chi l'invita riverenzia face
   75 e po' incomincia vergognosa e manza;

        cosí colei, e disse:—Da che piace
        alla nostra signora che le lode
        dica del regno che a lei subiace,

        tu, che se' vivo, ben ascolta ed ode,
   80 ché la regina, la qual qui ne regge,
        vuol che a noi giovi e a te faccia prode.

        —La voglia e la ragion del sommo Regge
        —cominciò poi—è la prima mesura,
        regola e veritá è prima legge.

   85 E ciò, che segue lei, va a dirittura;
        e, quando alcuna cosa da lei parte,
        tanto convien che torca e vada oscura.

        E, perché questa è regola ad ogni arte,
        quando dall'arte torce l'operante,
   90 convien che l'opra vada in mala parte.

        E le scienze e leggi tutte quante
        vengon da questa; e tanto ognuna è dritta,
        quanto di questa seguitan le piante,

        perché ogni legge convien che sia scritta
   95 e promulgata, acciò che chi 'n quella erra,
        non possa avere alcuna scusa fitta.

        Però, quando Dio fe' l'uomo di terra,
        conscrisse in lui questa legge eternale,
        quando l'alma spirò, che 'l corpo serra.
p. 329
  100 E questa fu la legge naturale;
        e, mediante questa luce eterna,
        ognun conoscer può tra 'l bene e 'l male.

        A questa legge fu poi subalterna
        l'antica e nova; ed ognuna bastâra,
  105 se non che 'l mondo sí mal si governa.

        E, poiché fu la gente fatta avara,
        la legge natural e la divina
        fu ecclipsata, che in prima era chiara.

        Corson le genti a froda ed a rapina;
  110 ed eran senza legge e senza duce,
        ond'era il mondo in rotta ed in ruina.

        Ed uno, in cui splendea piú questa luce,
        congregò alcuno e mostrò in quanto errore
        il vivere bestial altrui conduce.

  115 A poco a poco, con questo splendore
        mostrò che i rei e viziosi e vili
        di legge avean bisogno e di signore.

        Allor principiôn leggi civili,
        sopra le qual son tante chiose poste,
  120 che giá si troncan: sí si fan sottili.

        E le piú sonno storte e sonno opposte
        al senso vero e primo intendimento,
        mercé alli denar che l'hanno esposte.

        Se a ciò, che ho detto, ben se' stato attento,
  125 iustizia è sí degna e sí risplende,
        che d'ogni sodo stato è 'l fundamento,

        tanto che li ladroni e chi l'offende
        e nullo conversar mai durar puote,
        se modo di iustizia non apprende.

  130 Se anche ciò, ch'io ho detto, tu ben note,
        Iustizia fu da cielo e di Dio è figlia,
        ed ogni bona legge a Dio è nipote.—

        E qui tacette; ed io alzai le ciglia
        e vidi molti inver' di noi venire
  135 uomin d'estima e di gran maraviglia.
p. 330
        Ed un di loro a me cominciò a dire:
        —Or cesserá laggiú il mondo unquanco
        novi statuti e nòve leggi ordire?

        Non son venute ancor le carte manco?
  140 non son le voci advocatorie fioche
        delli notai, ch'abbaian forte al banco?

        Se 'l danar non facesse che si advoche,
        non saría in terra conculcato il vero,
        e bastarían le leggi buone e poche.

  145 Io son quel re piatoso, e fui severo,
        che la dolcezza temperai col duolo
        nel nato mio, che trova' in adultèro.

        Io fei cavar un occhio al mio figliolo:
        e, perché ne dovea perdere dui,
  150 io pagai l'altro e serbaimene un solo.

        In quanto padre, fui piatoso a lui;
        in quanto re, servai la legge intera:
        sí che pio padre e iusto re io fui.

        Quest'altro è Bruto, l'anima severa,
  155 che, per servar la legge, ardito e forte
        a duo suoi figli segò la gorgiera.

        Piú tosto volle ad elli dar la morte,
        che la iustizia fusse morta in loro,
        o che mancasse alla pubblica corte.

  160 L'altro, ch'è 'l terzo qui tra 'l nostro coro,
        chiese il figliolo alla mortal sentenza
        'nanti al senato e al roman concistoro;

        ché combattuto avea senza licenza,
        e, benché avesse avuta la vittoria,
  165 reo el provò di tanta penitenza,

che legge contra lui facíe memoria.—

p. 331

CAPITOLO XII

Trattasi delle parti della giustizia.

        Mentr'i' a quegli uomin iusti stava atteso,
        subitamente mi percosse un tuono,
        che mi stordí e fe' cader disteso.

        E, come quei che a forza desti sono,
    5 poi mi levai e vidi star Astrea
        come reina posta in alto trono,

        splendente e triunfal quanto una dea:
        mai tanta maestá mostrò Iunone,
        quando con Iove tra li dèi sedea.

   10 Le dame sue con splendide corone
        aveva innanzi a sé e gran diletti
        di belli fior, di suoni e di canzone.

        Poi drizzò a me, parlando, questi detti:
        —O tu, ch'io scorsi, omai la mente attenda,
   15 se del collegio mio saper aspetti.

        Iustizia vuol che 'l debito si renda
        a chiunque el merta, e quando si conviene,
        e senza colpa mai nessun si offenda,

        e sol da quello, a cui punir pertiene.
   20 Da queste due radici son li frutti,
        che la iustizia produce e contiene.

        L'uomo a tre cose è debitore a tutti:
        ad usar vero e fede e buon amore,
        sí che rancore o froda non l'imbrutti.

   25 Tre debiti si debbono al minore:
        dottrina al figlio e farlo virtuoso,
        e soldo al fante ovver al servidore;
p. 332
        il terzo è sovvenire al bisognoso,
        ché ogn'ardua indigenzia può dir «mio»
   30 di quel che crudeltá gli tien nascoso.

        Tre debiti a colui, il qual è rio:
        cioè correzion, quando si spera
        ch'egli si mendi e si converta a Dio.

        E, nel mal far se indura e persevéra,
   35 tagli col ferro e con la spada nuda
        il membro infetto la Vertú severa.

        Né per questo si debbe chiamar cruda,
        mozzando il morbo ch'alla morte mena:
        convien che la piatá gli occhi vi chiuda.

   40 Severitá adunque a dar la pena
        prima conviensi, e poi ch'anco sia mista
        colla compassion, ch'ira raffrena.

        E tre al buon, il qual virtú acquista,
        ché chiunque può, tenuto è dargli aiuto,
   45 ch'addietro non ritorni o non desista;

        ché spesse volte l'arbor ho veduto
        crescere ratto e far frutto tantosto
        per buon conforto e cólto, ch'egli ha avuto;

        e forse un altro, presso a quello posto,
   50 perch'è negletto o che ha terreno asciutto,
        sta senza frutto ed a mancar disposto;

        e, benché paia smorto e giá distrutto,
        il cólto e buon letame alle radici
        el fan fiorire e fanli far buon frutto.

   55 Quanti sarían per la vertú felici,
        che, desviati, ovver per mancamento,
        son pervenuti a bassi e vili offici!

        Alla vertú, venuta a compimento,
        debito solve chiunque onor gli rende
   60 d'atti e parol, di loco e reggimento.

        Non mai vertú, che di splendor s'accende,
        si debbe por a basso o sotto scanno,
        ma suso in alto, ov'ella piú risplende.
p. 333
        Tre a' benefattor, che ben ne fanno:
   65 prima, che chi riceve, non si scorde
        del benefizio, né di quei che 'l dánno;

        e poscia ch'el ringrazi almeno in corde,
        s'egli non pò coll'opera, e in aperto
        sovente con la lingua lo ricorde.

   70 Ma ora il mondo è sí rio e diserto,
        che, quando il benefizio molto eccede,
        sí che non può o non vuol render merto,

        si duol, se scontra ovver presente vede
        il suo benefattor e china il volto;
   75 ed alcun altro in piú error procede,

        ché, quando il benefizio è grande molto,
        al suo benefattor opta la morte,
        che dall'obligo suo ne sia disciolto.

        Non però 'l liberal chiuda le porte
   80 per l'altrui vizio alla sua cortesia,
        né lassi, a dar, tener le mani sporte;

        ché chiunque dá ch'a lui donato sia
        per ricompenso, non è liberale,
        ma mercatante ch'usa mercanzia.

   85 Tre cose debbi a chiunque tu se' eguale:
        prima, equitá d'una bilancia ritta,
        sí che la sua non saglia e la tua cale.

        L'altra è la legge nel Vangelio scritta:
        ch'altrui non facci cosa, che vorresti
   90 che a te non fusse fatta, né anco ditta.

        Concordia vien la terza dopo questi
        tra l'arti, tra i compagni e dentro al tetto,
        dove dimori, e i vicin non molesti.

        Ed al superior, cui se' subietto,
   95 due cose debbi; e, prima, obbedienza,
        poi onorarlo con fatto e con detto.

        Tre cose al padre, di cui se' semenza,
        ed alla madre tua ed a' primi avi,
        e prima sopra tutto riverenza.
p. 334
  100 Se in la vecchiezza elli han costumi gravi,
        che li sopporti, e loro etá antica
        aiuti lieto e con parol soavi.

        Ricòrdite l'angoscia e la fatica,
        ch'ebbe la madre in te, e degli affanni,
  105 che porta il padre, che 'l figliol notríca.

        L'aquila, quando è giunta agli antichi anni,
        s'attosca e spenna; e nel nido da' figli
        nutrita è, insin che rinnovella i vanni.

        Ed alla patria, da cui l'esser pigli
  110 debitor se', che l'ami e la defensi,
        e 'l comun cresci, aiuti e che 'l consigli.

        Se' debitor a Dio, se tu ben pensi,
        che conosci suoi doni e che tu l'ami
        con tutto il core e con tutti li sensi.

  115 E questo amor produce molti rami:
        religion, che solo Dio adori,
        devoto orando, e genuflesso el chiami,

        e che lui servi come padre, onori
        le chiese e le sue cose, e li dí santi,
  120 vacando a lui, per l'anima lavori.

        E questi detti io posso tutti quanti,
        abbreviando, recarli a sei modi:
        però sei son le dame, ch'io ho innanti.

        Latría è prima, e vien a dir che lodi,
  125 ami ed adori Dio e che 'n Lui fondi
        ogni altro amor terren, del qual tu godi.

        Pietá è l'altra, e due amor secondi
        delli parenti, e prima che sia tanto,
        che alli bisogni lor non ti nascondi.

  130 La terza è Observanzia, l'onor santo
        fatto agli antichi e virtuosi e buoni,
        ed a chi porta di dignitá il manto.

        La quarta è Gratitudin delli doni.
        Equitá è la quinta ed usar vero
  135 in apparenzia, in fatti ed in sermoni.
p. 335
        Sesta è Vendetta e l'animo severo
        con la compassione al cor unita,
        tardo al tormento e non troppo austero;

        ché chiunque vuol che colpa sia punita,
  140 se non ha emenda, molto offende ed erra,
        ché Dio non vuol la morte, ma la vita.

        Però 'l divino fòro a niuno serra
        la porta di piatá, s'egli si pente
        con umiltá inginocchiato a terra.

  145 Ma, perché 'l malfattore spesso mente,
        dicendo:—Io son pentito—, l'altro fòro,
        cioè 'l civile, adopera altramente;

        ch'ogni scienza ed arte ovver lavoro
        prendon diversitá dalli lor fini,
  150 alli quai prima elli ordinati fôro.

        Il civil fòro ha 'l fin che medicini,
        governi e purghi il corpo del comune,
        che per li viziosi non ruini.

        Per questo egli usa spada, fuoco e fune,
  155 sbandisce e taglia e mai non dá speranza
        che chi è reo possa andare impune.

        E, benché pianga e chiegga perdonanza,
        non vuol udir; ché chi è predon o fura,
        s'è liberato, e' torna a prima usanza.

  160 In questo modo la legge assecura
        el viver lieto e i buoni e vertuosi,
        e li cattivi scaccia ed impaura.

        Se questi detti miei tu ben li chiosi,
        concluderai che la legge fu fatta
  165 pe' trasgressor al buon viver noiosi,

e fu da' virtuosi in prima tratta.—

p. 336

CAPITOLO XIII

Dove trattasi singolarmente della virtú dell'equitá e della veritá e de' valenti canonisti e legisti.

        —Domanda—aggiunse Astrea—de' regni miei;
        omai di' ciò che vuoi, e ben t'accerta
        e delle dame mie tutte e sei.—

        Quando mi vidi far tanta proferta,
    5 con quella parte io la ringraziai,
        che chiede Dio all'uom per prima offerta.

        E poi con riverenzia domandai:
        —Perché la Veritá, la quinta sposa,
        che Equitá ancor nomata l'hai,

   10 la veggio singulare in una cosa,
        ché porta la bilancia ed ella sola
        tra la sua schiera è la piú gloriosa?—

        Rispose Astrea a questa mia parola:
        —Da questo nome «ius», se noti bene,
   15 come si espone in la civile scola,

        Iustizia è detta, a cui tener pertiene
        egual bilance. È ver che 'n alcun caso
        ei non si puote ovver non si conviene;

        ché 'l don di Dio accolma tanto il vaso,
   20 e de' parenti a' figli, ché chi rende,
        non pò render appien, ma men che a raso.

        Cosí all'uom, che di vertú risplende,
        piena mesura non si rende ancora,
        ché nullo ben terren tanto s'estende;
p. 337
   25 ché la virtú è sí degna, sí decora
        e sí eccellente, ch'ogni volta eccede
        ogni ben temporal, che lei onora.

        Ed a colui che 'l benefizio diede,
        render si puote egual; ma chi è grato,
   30 anche piú oltra al dato stende il piede.

        E cosí la vendetta del peccato
        merita egual; ché quanto fu 'l delitto,
        tanto ognun merta d'esser tormentato.

        Ma, com'io dissi sopra e trovi scritto,
   35 iustizia punitiva è crudeltá,
        se la pietá non mitiga l'editto.

        Però null'altra in man le bilance ha,
        se non la quinta dama di mia schiera,
        chiamata Equitate e Veritá;

   40 ché a lei sola appartien che la statera
        tegna diritta e che in detto e 'n fatto,
        in quel che tratta, sia trovata vera.

        Ogni ristoro e ciò che si fa a patto,
        ella pertratta e grida che si renda
   45 quanto la froda o forza hanno suttratto.

        Perché tu queste cose meglio intenda,
        pensa se alcun rifar dovesse diece,
        ed egli a nove a ristorar si estenda.

        Costui non pienamente satisfece,
   50 ché convien sempre che 'l ristor sia eguale
        al danno ed all'iniuria, ch'altrui fece.

        Ell'è che grida non far altru' il male,
        che non vorresti tu; e quanto hai offeso,
        tanto restituisci ed altrettale.

   55 D'esto nome Equitate assai ha' inteso;
        or, perché Veritá ella si chiama,
        io ti dirò, ch'ancor non l'hai compreso.

        Dopo il ristoro, questa quinta dama
        pertratta ciò ch'insieme si patteggia:
   60 questa è la sua materia e la sua trama.
p. 338
        A lei pertien che guidi e che proveggia
        che ciò che si promette o mercatanta,
        che sia corretto, quando si falseggia,

        e che la mercanzia sia quella e tanta,
   65 che è promessa, e quando, dove e come
        e qual, se quella è guasta o troppo schianta.

        E però Veritá è l'altro nome;
        ed ha duo nomi, perché ha duo offici,
        ché usa il vero ed eguaglia le some.

   70 L'altra domanda, la qual tu mi dici,
        è, da che porta singular insegna,
        s'ella è maggior tra le dame felici.

        Ogni vertú tanto è eccellente e degna
        —rispose a questo,—quanto è di piú pregio
   75 il fine intento, al qual venir s'ingegna.

        Al fin piú glorioso e piú egregio
        ingegnasi Latría; però l'aspetto
        ha piú splendente in tutto il mio collegio.

        Ella è che sale al ciel con l'intelletto
   80 e, dimorando in terra sua persona,
        ella sta innanzi al divino cospetto;

        e lí, orando, con Dio si ragiona;
        poi si mesura e pon sé in la bilancia,
        nell'altra li gran ben, che Dio ne dona.

   85 E vede i don di Dio di tanta mancia,
        e tanto grandi, che a rispetto a quelli
        ciò che l'uom render può, è una ciancia.

        E, benché vegga Dio cogli occhi belli,
        nientemen le bilance non porta,
   90 ancora che ella, orando, a Dio favelli;

        ché ogni gratitudo è lieve e corta,
        rispetto al don di Dio; e, se si pesa,
        troppo andarebbe la statera torta.

        E con questa ragion, ch'or hai intesa,
   95 sappi che quanto è natural l'amore,
        tanto, negletto o tronco, è di piú offesa.
p. 339
        E nullo vinclo debbe esser maggiore,
        e nullo amor piú stretto e piú eccellente
        che dalla creatura al suo Fattore.

  100 Però chi 'l tronca e chi v'è negligente,
        veder si puote in quanta offesa cade,
        chi nol frequenta o chi non gli è obbediente.

        Questo primaio amor prima pietade
        disson gli antichi, e che 'l culto divino
  105 è la prima vertú, prima bontade.

        Però il re Priámo e 'l buon Quirino,
        ed Alessandro in pria fenno li tempii,
        e Salomone el coprío d'oro fino.

        Ed, offerendo, al vulgo dienno esempii;
  110 e chi non frequentava il divin còlto,
        chiamavano crudeli, iniqui ed empii.

        Ma ora è sí negletto e sí rivolto
        a Satanasso per diverse vie,
        che, piú che a Dio, a lui si volta il volto.

  115 Con superstizioni e con malie
        or son fatti teatri i sacri lochi
        a vagheggiarvi e farvi ruffianie.

        Quanti Iasoni e quanti re Antiòchi
        lo imbruttano ora, e Dionisi e Varri
  120 son stupratori degli eterni fochi!

        I filistei riposono in sui carri
        l'arca di Dio, per non inviziarse,
        e tanto mal che di lor non si narri.

        La barbaresca man, che sangue sparse
  125 giá tanto in Roma, che destrusse e incese
        i gran palagi e il Capitolio arse,

        fu reverente ai tempii ed alle chiese;
        ché chiunque fuggí a quelli de' romani,
        fu libero da morte e dall'offese.

  130 Io ho toccati questi esempli strani
        degl'infideli, e questo ho posto solo
        per emendar li crudeli cristiani.
p. 340
        L'altr'è l'amor, il qual debbe il figliolo
        a' genitori, la pietá seconda,
  135 ed alla patria del nativo suolo.

        Ed ogni amor, che la natura fonda,
        «pietá» si chiama, e cosí per opposto
        «crudel» è detto chiunque el confonda.—

        Tacette poi che questo ebbe risposto.
  140 Allor vidi venir molti col vaio
        ver' noi col lume in su la testa posto.

        —Iustinian son io—disse il primaio,
        —che 'l troppo e 'l van secai fòr delle leggi,
        ora subiette all'arme ed al denaio.

  145 Iurisconsulti e gran dottori egreggi
        vengon qui meco da stato giocondo,
        perché tu gli odi e perché tu li veggi.

        Questo, che mi sta a lato, è fra' Ramondo
        predicatore, a cui papa Gregoro,
  150 quand'egli dimorava giú nel mondo,

        fe' compilar il nobile lavoro
        de' Decretali, e per questo vien esso
        insieme meco in questo sacro coro.

        Bartol Sassoferrato è l'altro appresso,
  155 con la lettura sua, la cara gioia,
        come dimostra il suo chiaro processo;

        e Baldo perusin, che l'ebbe a noia;
        poi 'l dottor Cino, ch'ebbe il gran concorso
        nel tempo suo e l'onor di Pistoia;

  160 poi Ostiense e 'l fiorentino Accorso,
        che fe' le chiose e dichiarò 'l mio testo
        ed alle leggi diede gran soccorso.

        Giovanni Andrea, le Clementine e 'l Sesto
        il qual chiosò, sta qui con la Novella,
  165 sí come il lume a te fa manifesto.

        E sempre il ciel rinfresca e rinnovella
        l'opinioni e li novi dottori;
        e quel che ha detto l'un, l'altro cancella.
p. 341
        Azzo e Taddeo giá funno li maggiori;
  170 ed ora ognun è oscuro e tal appare
        qual è la luna alli febei splendori.—

        Io vidi poi color tutti levare
        inverso il cielo, come fa 'l falcone,
        quando la preda sua prende in su l'are.

175 In questo, Astrea mi disse esto sermone: —Tu hai veduto appien del regno mio quanto dir puossi in rima od in canzone.—

Poscia colle sue dame indi sparío.

p. 342

CAPITOLO XIV

L'autore vede il tempio della fede, e gli appare san Paolo, il quale gli ragiona di questa virtú.

        In su 'l partir che fe' la bella Astrea,
        mi disse la primaia di sue dame,
        fulgurando una luce come dea:

        —Se tu l'aiuto pria da Dio non chiame,
    5 non ti sperar potere andar giammai
        alle Vertudi del quinto reame.—

        Per questo gli occhi al cielo io dirizzai,
        dicendo:—O Maiestá, sempre invocanda
        nelli principi e negli atti primai,

   10 chiunque verso alcun fin senza te anda,
        siccome cieco convien che cammine,
        se pria l'aiuto da te non si manda.

        Dell'altre tre vertú tu sei il fine
        e segno o «Alfa» ed «O»; e son per questo
   15 «teologiche» ditte ovver «divine».—

        Allor vid'io uno splendor celesto
        venirmi al volto alquanto da lontano,
        che quel ch'or dico, mi fe' manifesto.

        La statua grande vidi in un gran piano,
   20 che vide giá Nabucodonosorre,
        significante ogni regno mundano.

        Er'alta vieppiú assai che nulla torre
        e forse piú che non fu quel cavallo,
        che fe' da' greci la gran Troia tôrre.

   25 E di fin oro aveva il capo giallo,
        le braccia e l'orche e 'l petto aveva bianco
        di puro argento senza altro metallo.
p. 343
        Le reni, il ventre e l'uno e l'altro fianco
        eran di rame rubro e resonante,
   30 e quel, con che si siede, ramengo anco.

        Le cosce e gambe insin giuso alle piante
        eran di ferro e i piè di terra cotta,
        parte non cotta, e su quelli era stante.

        Poi una pietra men ch'una pallotta
   35 se stessa si ricise e si remosse
        d'un alto monte e venne a valle in frotta.

        E nelli piedi all'idolo percosse
        e sminuzzollo e prostrollo confratto,
        sí che appena parea che stato fosse.

   40 Quella petruccia in questo crebbe ratto
        e fecesi un gran monte, e su la cima
        tosto un tempio alto ed ampio vi fu fatto.

        Dal loco, ove quell'idolo era prima,
        io mi partii e salsi il monte tanto,
   45 ch'andai tre miglia e piú, alla mia estima.

        Quel tempio risplendea da ogni canto,
        e, quando vidi com'era costrutto,
        ne sospirai con lacrime e con pianto,

        ch'era di corpi morti fatto tutto;
   50 e per calcina v'era il sangue posto
        recente sí, ch'ancor non era asciutto.

        Vapore acceso nel mese d'agosto
        mai non trascorse il ciel tanto veloce,
        né polsa da balestro va sí tosto,

   55 come scese dal ciel con una croce
        donna vestita in bianco, e, giú discesa,
        benigna a me proferse questa voce:

        —Il tempio sacro è questo, ovver la Chiesa,
        fermata in su la pietra; e ferma siede,
   60 bontá del fundamento, ond'è difesa.

        Ed io, che or ti parlo, son la Fede:
        a me con tanto sangue e con martíro
        fu fatto il tempio, che quassú si vede.
p. 344
        E questi santi su di giro in giro
   65 mi fenno il fundamento lá giú in terra
        colla vertude del superno spiro.

        Questi per me si misero alla guerra,
        armati di vertude e cogli scudi
        di quella veritá, che mai non erra.

   70 Essendo agnelli tra li lupi crudi,
        combatteron per me li forti atleti,
        come per 'manza gli amorosi drudi.

        E, se lor corpi fûn morti e deleti
        di quella vita, che, vivendo, more,
   75 nell'alma fûn vittoriosi e lieti.—

        E, ditto questo, con grande splendore
        ritornò al cielo, ed io rimasi solo,
        ancor chiamando aiuto a Dio col core.

        Allor apparve a me l'apostol Polo,
   80 mostrando blando aspetto e lieto viso;
        e poscia disse a me come a figliolo:

        —Hai vista quella che del paradiso
        venne con Cristo e fondossi nel sasso,
        che dal celeste monte fu exciso?

   85 Fu impugnata pria da Satanasso,
        il qual commosse scribi e farisei
        per atterrarla, ovver per darla al basso.

        Allora Pietro e li compagni miei
        gli funno defensori in ogni corte,
   90 innanzi a' prenci e innanzi alli gran réi.

        E pensa quanto a noi pareva forte
        a suader che l'uomo a Dio s'unisse
        ed incarnasse e sostenesse morte,

        e che, resuscitando, rivestisse
   95 glorificato il corpo, ch'avea pria,
        e poi per sua virtú ch'al ciel salisse.

        E, benché questo paresse pazzia
        e che li predicanti fusson vòti
        d'umana possa e di vana sofia,
p. 345
  100 nientemen da pochi ed idioti,
        colla vertú del sacrosanto foco,
        che dal ciel venne in lor petti devoti,

        seminôn questo vero in ogni loco;
        e questo è tal miracol, se ben miri,
  105 ch'ogni altro respective a questo è poco,

        pensando che tra morti e tra martíri
        corse alla fede il mondo, e li fedeli
        non si curavan de' tormenti diri.

        Ed onde esser porría, se non da' cieli,
  110 che 'n cosí poco tempo tanta schiera
        credesse a noi tra le pene crudeli?

        E, per provare ancor la fede vera,
        permise Dio che 'l maladetto drago,
        che sempre adopra che la fede pèra,

  115 unisse la sua possa a Simon mago
        e mostrasse miraculi e gran segni,
        non però ver, ma 'n apparente imago,

        e ch'egli commovesse in molti regni
        piú altri nigromanti e suoi satelli
  120 contra la fede con forza ed ingegni.

        Allor li cavalier pochi e novelli,
        dodici e pochi piú, fên resistenza
        tal, ch'elli confutôn tutti i ribelli.

        E, perché sappi di quant'è eccellenza,
  125 quanto a Dio piace e quanto merto acquista
        la vera fede con ferma credenza,

        ella è che 'nsino al ciel alza la vista
        e vede il premio, il qual alla fatiga
        fa esser forte, perché si resista.

  130 Ella è che vince la triplice briga
        del mondo, del dimonio e sensuale;
        e la vittoria è ben che 'l mondo affliga.

        Ell'è che mostra la pena infernale
        a' peccatori e col timor gl'induce
  135 a far il bene ed a lassare il male.
p. 346
        E, come la Prudenza è guida e luce
        alle vertú moral, cosí questa anco
        alle vertú divine è scorta e duce.

        E, come senza gli occhi nullo è franco
  140 fra' suoi nemici, ed è persona stolta
        quella, in cui al tutto ogni prudenza è manco;

        cosí colui, al qual la fede è tolta,
        va come cieco, e l'avversario el mena
        unque gli piace e come vuole el volta.

  145 E, se saper tu vuoi la piú serena
        loda ch'ell'abbia, attendi e fa' ch'impari
        di quanto merto questa fede è piena.

        Se promettesse alcun tutti i denari
        ad alcun altro, acciò che gli credesse
  150 alcuni effetti a suoi sensi contrari,

        non sería mai che credere el potesse;
        nientemeno el credería per fermo,
        senza denari ovver senza promesse,

        se fusse ditto a lui dal divin sermo.
  155 Allora quel che non puote natura,
        a creder l'intelletto non è infermo.

        E questo solo avvien, se ben pon' cura,
        ché la mente fedel si fonda in Dio,
        onde ha autoritá Sacra Scrittura.

  160 E, se tu ben attendi al parlar mio,
        nulla è maggior offerta e piú eccellente,
        nullo olocausto è piú efficace e pio,

        che quando volontá stringe la mente,
        che tanto crede a Dio, ch'assente quello
  165 che pare a' sensi suoi contradicente.

Chi questo fa, non è a Dio rubello.—

p. 347

CAPITOLO XV

Di coloro che col lor sangue fondarono la fede, e delle cose che dobbiamo credere.

        Paulo mi mise poi nel tempio sacro,
        fatto di sangue e fatto di fortezza
        di santi, morti a duolo acerbo ed acro.

        Parea ch'andasse al cielo la sua altezza,
    5 edificato in dodici colonne,
        e quattro miglia o quasi nell'ampiezza.

        Né Capitolio mai, né Ilionne
        fu di bellezze e gioie tanto adorno,
        né 'l tempio, che 'l gran saggio fe' in Sionne,

   10 quante questo n'avea intorno intorno;
        di mille luci splendea in ogni parte,
        sí come luce il sol di mezzogiorno.

        Mai Policleto, né musaica arte,
        neanco Giotto fe' cotal lavoro,
   15 qual era quel di quelle membra sparte.

        Parean i lor capelli fila d'oro,
        e lor vermiglie ven parean coralli,
        e purpuresche le ferite loro.

        La carne e l'ossa chiar piú che cristalli,
   20 tutte ingemmate a pietre preziose,
        pien di iacinti e di topazi gialli.

        Mostrò a me Paulo tra le belle cose
        prima san Pietro e poi piú altri assai,
        che Cristo in pria per fundamento pose.

   25 Mostrommi cento e piú papi primai,
        i quai fûn morti per la santa fede,
        ch'ora risplende di cotanti rai.
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        Per la qual cosa a chi saliva in sede
        si trasse dirli:—Vuoi esser pastore
   30 con quella valentia, che si richiede?—

        Ciò era a dire:—Hai tu tanto valore,
        che sia costante a sostener la morte
        per santa fede senza alcun timore?—

        Poi disse:—Or mira il giovinetto forte,
   35 il qual inverso il cielo alza la faccia
        e per me prega con le braccia sporte.

        Stefano è quel, che disse:—O Dio, a te piaccia
        che facci agnello del lupo rapace,
        che li tuoi cristian sí mette in caccia.—

   40 Allor refulse in me lume verace,
        e caddi in terra e poi risposi a Cristo:
        —Chi se', Signor? farò ciò ch'a te piace.—

        Laurenzio e poi Vincenzio ed anco Sisto
        mostrommi poi ed il mio Feliciano
   45 tra le gemme piú chiare ivi permisto:

        li martiri sepolti in Vaticano,
        in via Salaria, Callisto e Priscille,
        ognun lucente, chiaro e diafáno.

        Io vidi poi le fortissime ancille,
   50 Lucia, Agnese, Marta e Caterina,
        Cecilia, Margherita e piú di mille;

        e quelli che refulsono in dottrina
        in santa Chiesa con tanti splendori,
        quanti ha nel ciel la stella mattutina;

   55 e, sopra a tutti, li quattro dottori,
        intra li quali risplende Augustino
        tanto, ch'ecclissa li raggi minori.

        Tra quelle luci sta Tomas d'Aquino,
        Anselmo ed Ugo, Ilario e Bernardo,
   60 quasi carbonchi posti in oro fino.

        Isidoro, Boezio e 'l buon Riccardo,
        Crisostomo ed Alano era ivi inserto,
        splendente ognun, che mi vincea lo sguardo.
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        Il tempio, che di sopra era scoperto,
   65 avea per tetto il raggio delle stelle,
        e 'l ciel ogni splendor v'avea aperto.

        Mentr'io mirava queste cose belle,
        Paulo mi disse:—Se tu hai diletto
        altro sapere, perché non favelle?—

   70 Risposi a lui:—Quantunque io abbia letto
        che cosa è fede, ancor non son contento,
        se meglio nol dichiari al mio intelletto.

        —Fede è substanza ovvero fundamento
        delle cose non viste e da sperare,
   75 ferma chiarezza ovver fermo argumento.—

        Cosí egli rispose al mio parlare;
        e poi subiunse che qui la substanza
        vien da quel verbo, che sta per substare.

        E, perché tutto l'esser di speranza
   80 sta su la fede e dietro gli seconda,
        e senza lei ogni vertú ha mancanza,

        fede è substanza, perché 'n lei si fonda
        spene e vertú e vanno dietro poi
        quasi accidenti ovver cosa seconda.

   85 Se d'argumento ancor tu saper vuoi,
        ciò è chiarezza, ché la fede è chiara,
        come chi vede ben cogli occhi suoi.

        E fa' che 'ntendi bene, e questo impara:
        ch'alcuna fede è viva, alcuna è morta,
   90 e sol la fede viva appo Dio è cara,

        perché nell'operare è sempre accorta;
        e cosí è vertú da lei produtta,
        come da pianta che buon frutto porta.

        La fede morta è quella che non frutta
   95 l'opere virtuose e non si guarda
        né dalli vizi, né da cosa brutta.

        E questa fede è morta, a chi risguarda;
        ché, benché dica con parol ch'ell'ama,
        nell'opere si mostra poi bugiarda.
p. 350
  100 Però, se cristiano alcun si chiama
        ovver fedele, e vuoi veder la prova,
        guarda se 'l frutto porta in su la rama.

        Crede il demonio e teme, e non gli giova,
        perché null'atto senza caritate
  105 esser di frutto buon giammai si trova.—

        Poi vidi scritto: «O voi che 'l tempio intrate,
        leggete questo e ben ponete mente,
        e, come dice qui, cosí crediate».

        Io lessi: «Io credo in Dio onnipotente,
  110 e tre persone in un essere solo,
        e che fe' l'universo di niente.

        E credo in Iesú Cristo, suo figliuolo
        e nato di Maria e crucifisso,
        morto e sepolto con tormento e duolo;

  115 e ch'andò al limbo e trasse dall'abisso
        i santi padri, e laggiú di quel fondo
        quassú di sopra li menò con isso;

        il terzo dí poi florido e giocondo
        risuscitò, e poscia al ciel salío
  120 per sua vertú, partendosi del mondo;

        e siede in forma d'uomo a lato a Dio,
        e verrá a iudicare all'ultim'ora,
        salvando i buoni e dannando ogni rio.

        Nello Spirito santo io credo ancora,
  125 e ch'egli è Dio; e credo in santa Chiesa,
        che 'n tre persone un solo Dio adora.

        Credo il battismo, che lava ogni offesa,
        col cor contrito la confessione,
        se a satisfar si tien la man distesa.

  130 Credo nel pane della comunione
        essere Cristo, quando è consacrato,
        in segno che e' giammai non ci abbandone;

        e che, finito il temporale stato,
        che 'l ciel produce, mentre sopra volta,
  135 dal qual è ogni effetto generato,
p. 351
        credo che verrá Cristo un'altra volta,
        e che ognun rivestirá sua carne,
        quantunque sia disfatta e sia sepolta;

        allora egli verrá a giudicarne
  140 con pompa trionfante e con maièsta,
        col corpo che fu offerto a liberarne;

        e ch'alla tromba della sua richiesta
        verranno innanzi a lui i vivi e i morti
        alla sentenza della sua podèsta;

  145 e quelli poi dividerá in due sorti,
        e mandará li rei a valle inferna
        e li suo' eletti agli eterni conforti.

        Credo i beati e credo vita eterna,
        che solo a' virtuosi Dio la dona,
  150 che hanno fede e caritá fraterna;

        ché, come la Scrittura ne ragiona,
        Dio non vuole, né vòlse aver mai seco
        se non vertú perfetta e cosa buona;

        E però comandò che 'l zoppo e 'l cieco,
  155 leproso e brutto non intrasse al tempio,
        né fusse offerto a lui infetto pieco;

e questo fu nel sopradetto esempio».

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CAPITOLO XVI

Della resurrezione de' nostri corpi dopo il Giudizio.

        Inver' l'apostol poscia mi voltai,
        e dissi a lui:—Questa scrittura letta,
        di nostra fede articuli primai,

        bench'io la creda, ancora mi diletta
    5 udir come suade la Scrittura
        la resurrezion, la qual s'aspetta.—

        Ed egli a me:—A due cose pon' cura:
        una è ch'ognun ritornerá in vita,
        ché non va a morte, ma per sempre dura,

   10 e che de' buon la carne rivestita
        será immortale ed ará l'altre dote,
        che fia impassibil, lieve e fia polita;

        l'altra cosa è che le celesti rote,
        che ora giran sí veloce e forte,
   15 non voltaranno piú, né fien piú mote,

        e per questo seran chiuse le porte
        al futur tempo, e non fia piú Carone,
        che ora ognun, che nasce, mena a morte.

        Se vuoi di questo persuasione,
   20 sappi che 'l moto, quando il fine acquista,
        convien che cessi dalla sua azione.

        E cosí 'l ciel convien ch'anco desista,
        quando fie giunto al fin, pel qual si move,
        come opra fatta fa posar l'artista.

   25 Or gira il ciel, perché le cose nòve
        produce e figlia e corrompe l'antiche,
        mentre fa state qui e verno altrove;
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        produce uccelli e quel, del qual nutríche
        gli animal suoi, e produce ogni pomo,
   30 mentre il sol volge tra le rote obliche.

        E tutto questo è fatto a fin dell'uomo;
        e l'uomo è fatto a rifar le ruine
        di que' che su da ciel cadêro a tomo.

        Però convien che 'l ciel tanto cammine,
   35 sinché tanta ruina si ristora;
        e poi il moto suo averá fine.

        Allor cessará il tempo, che divora
        ciò che produce il primo moto, il quale
        fa ciò ch'e' figlia, che vivendo mora.

   40 In questo, Cristo altèro e triunfale
        dirá:—Surgete, o morti, della fossa:
        venite alla sentenzia eternale.—

        Allor ripiglieran la carne e l'ossa
        li rei oscuri, e i buoni con splendori
   45 per la vertú della divina possa.

        Sí come gli arbor, che perdon li fiori
        nell'autunno e perdono ogni foglia
        e paion morti e senza vivi umori,

        talché 'l coltivatore anco n'ha doglia
   50 che paion secchi, e quasi si dispera
        che mai su d'elli piú frutto ne coglia:

        poi la vertú del sol di primavera
        li fa di frondi e fiori adorni e belli,
        e rivivisce in lor la morta cèra;

   55 cosí li corpi sfatti negli avelli
        resurgeranno in istato felice
        co' membri interi insino alli capelli.

        Come di polve nasce la fenice,
        che arde sé e del cenere stesso
   60 giovin resurge, sí come si dice;

        e cosí 'l corpo, sotto terra messo,
        suo spirito averá da quel che viene
        da prima infuso ed al corpo concesso.
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        Ancora alla iustizia s'appartiene
   65 render secondo l'opera a ciascuno
        il mal al male, e 'l premio dar al bene;

        ché ogni atto moral sempre è comuno
        allo spirito e al corpo, e insieme vanno
        ad ogni atto splendente ed anco al bruno.

   70 Se sol del mal lo spirto avesse affanno,
        potrebbe dire:—O Dio, se tu se' iusto,
        perché io solo del peccar n'ho 'l danno?

        perché solo sto io nel fuoco adusto?
        perché no' 'l corpo, dacché la dolcezza
   75 ebbe degli occhi, del tatto e del gusto?—

        Cosí li santi, i quali ebbon fortezza
        tanta, che i sensi fenno consenzienti
        alli martíri, affanni ed all'asprezza,

        potrebbon dire:—O Dio, ché non contenti
   80 noi delli corpi nostri, ch'a' martíri
        ne seguîr volentieri ed a' tormenti?—

        Quando questo dicea, gravi sospiri
        udii nel tempio; e parve ch'ogni morto
        avesse a suscitar mille desiri.

   85 85—Vendica il nostro sangue, sparto a torto
        —diceano,—o Dio, non véi ch'ognun desia
        di rivestirsi i corpi omai 'l conforto?

        Non ch'in noi voglia di vendetta sia,
        cosí preghiam; ma per aver la vesta
   90 de' corpi, a noi natural compagnia.

        Acciò ch'elli con noi abbian la festa,
        perché 'l Iudizio, o Signor, non affretti?
        perché non fai la vendetta piú presta?—

        Risposto fu:—Da voi tanto s'aspetti,
   95 che il numero si compia di coloro,
        che son da Dio con voi nel cielo eletti,

        insin che fatto sia tutto il ristoro
        de' piovuti da ciel primi arroganti,
        che fûn cacciati dal celeste coro.—
p. 355
  100 Poi miglia' d'alme m'apparson innanti,
        ed un angelo die' splendide stole,
        in scambio delli corpi, a lor per manti.

        Sí come un'altra cosa dar si suole
        per consolar alquanto chi pur chiede,
  105 quando non puote aver quel ch'egli vuole;

        cosí l'agnol le vesti bianche diede
        e disse a lor:—Queste vestite, intanto
        che d'uomin s'émpian le superne sede.—

        Quell'alme allora andonno in ogni canto,
  110 cercando il tempio, e lor corpi mirando
        con tal desio, che mi mossono a pianto.

        —Il corpo mio è questo: o Dio, oh! quando
        lo mi rivestirò?—dicevan molti.
        Alquanti il sangue lor givan basciando;

  115 alquanti dimostravan li loro volti
        e le ferite e le lor membra sparte,
        le braccia e i piè intra li ferri involti.

        Po', come fa l'amico, che si parte
        dall'altro amico, e, perché amor dimostri,
  120 sospira e dice:—A me incresce lasciarte;—

        cosí dissono quelli:—O corpi nostri,
        dormite in pace, e tosto Dio ne doni
        voi venir nosco alli beati chiostri.—

        Poi se n'andôn con piú dolci canzoni,
  125 e sol rimase meco il Vaso eletto,
        il qual proferse a me questi sermoni:

        —Se d'altro vuoi ch'io informi il tuo intelletto,
        mentr'io son teco, perché non domandi?—
        Ed io, che il domandar avíe concetto,

  130 risposi:—O dottor mio, da che 'l comandi,
        dichiara a me in qual etá li morti
        resurgeranno e quanto parvi o grandi.—

        Ed egli a me:—Di lor saran due sorti,
        com'io ho detto, ed una de' captivi,
  135 l'altra di quei ch'a ben far funno accorti.
p. 356
        Quei che son morti buon, poiché fien vivi,
        trentaquattro anni in apparente etade
        dimostreranno floridi e giulivi.

        Quella è di umana vita la metade;
  140 ogn'uom, che ci esce prima, ha mancamento,
        e quando cala inver' l'antichitade.

        Se parvitá ovver troppo augumento
        non fie per mostro o natura peccante,
        ognun di sua statura fie contento;

  145 sí che, se alcun fu nano, alcun gigante,
        questo ed ogni altra cosa mostruosa
        ridurrá a forma il divino Operante.

        Ed anco noterai un'altra cosa:
        che ogni dota, che 'l corpo riceve,
  150 gli vien dall'alma sua, ch'è gloriosa;

        sí che l'esser sottile, illustre e lieve,
        non l'ha 'l corpo da sé, se ben pon' mente;
        ch'egli è da sé oscuro, grosso e grieve.

        Ma, quando fie rifatto risplendente,
  155 dall'anima verrá quello splendore
        e 'l mover, che fará subitamente.

        E, perché l'alme ree questo valore
        in sé non averanno, però elle
        non potran dar al corpo tal onore.

  160 Non seran liete e non seranno belle:
        tutti i difetti in lor averanno anco,
        ch'ebbon per caso o per corso di stelle,

e di letizia e luce averan manco.—

p. 357

CAPITOLO XVII

Come Paolo apostolo menò l'autore al reame della Speranza.

        —Apostol mio, che al terzo delli cieli
        tirato fosti alle celesti cose,
        perché di quelle a me tu non reveli?—

        Cosí diss'io; ed egli a me rispose:
    5 —Perché son sí supreme e tanto immense,
        e son sí alte e sí maravegliose,

        che non è cor terren, che mai le pense;
        né mente che le creda ovver discerna,
        se non le gusta in le superne mense.

   10 Come avverria, se un nella caverna
        fusse nutrito, e poi gli dicesse uno
        ovver la sua nutrice, che 'l governa,

        come nasce la rosa su nel pruno,
        e come 'l sol il dí rischiara il giorno,
   15 e poi la sera cala e fállo bruno,

        e quanto il ciel di stelle è fatto adorno,
        e come piove, e che per l'alto mare
        le navi vanno a vento intorno intorno,

        appena el credería; e, poi che chiare
   20 ei le vedesse, diría nel pensiero,
        stando egli stupefatto ad ammirare:

        —Or veggio ben che a sí supremo vero
        non alzava io la mente, e ciò ch'i'ho creso
        è stato diminuto e non intero;

   25 e per questo io, dal terzo ciel disceso,
        parlar non volli tra li saggi e sciocchi,
        che per superbia non m'arebbon 'nteso,
p. 358
        stolti appo Dio e saggi ne' lor occhi,
        pien d'ignoranza e sí di senno vóti,
   30 che suonan, beffeggiando, unque li tocchi.

        Ma a quei, che alla fede eran divoti,
        a Dionisio ed a molt'altri ancora
        li secreti del ciel io feci noti.

        Quel che tu chiedi ch'io ti riveli ora,
   35 tosto fia manifesto al tuo intelletto,
        quando di questo tempio serai fuora.—

        D'un porfido polito, terso e netto
        una via mi mostrò poi 'nsú distesa,
        girante intorno al tempio insin al tetto.

   40 —Per questa è la salita ed è la scesa
        di dea Speranza; e chi vuol veder lei,
        convien che saglia sopra questa chiesa.—

        Cosí dicendo, insú mosse li piei;
        ed io, che sue vestigie mai non lasso,
   45 dirieto a lui mossi li passi miei.

        E, perché ogni monte è assai piú basso,
        che non è 'l monte, ove quel tempio è sito,
        però ratto ch'io salsi il primo passo,

        l'apostol disse a me:—Or sei uscito
   50 fuor del terrestre mondo, e chi sú sale
        e di voltarsi addietro è poscia ardito,

        diventa marmo o statua di sale:
        però fa' che non volti, ché tu forsi
        potresti divenir in tanto male.—

   55 Per questo detto, mentre alla 'nsú corsi,
        dieci miglia salendo insino a cima,
        il viso mio addietro mai non torsi.

        E, quando sopra il tetto giunsi in prima,
        inverso il mondo ingiú chinai la fronte,
   60 come chi d'una torre il viso adima.

        Per l'altezza del tempio e poi del monte
        il mondo parve a me un piccol loco,
        e 'l mare intorno quasi parvo fonte.
p. 359
        —Tu se' appresso alla spera del foco
   65 —disse a me Paulo;—e, perché 'l foco in alto
        riscalda molto, e sotto scalda poco,

        però non arde questo adorno smalto
        di questo tetto, ed anco a te non cuoce,
        degli incendi suoi facendo assalto.—

   70 Non credo mai ch'andasse sí veloce
        coll'ale aperte il nunzio Cilleno
        quando il gran Iove a lui comanda a voce,

        che non venisse a me ancora in meno
        la santa Fede, spargendo li raggi
   75 intorno intorno per l'aer sereno.

        E, giunta a me, mi disse:—Accioché aggi
        tuo' intendimenti, e che tu la Speranza
        possi vedere e sua dolcezza assaggi,

        io venni a te e solo ebbi fidanza
   80 ch'io la possi mostrar, se mi t'accosti,
        sí che tra te e me non sia distanza.

        Ed abbi li piè tuoi su li miei posti,
        il petto al petto; ed alza la pupilla
        al ciel, come l'arcier ch'al segno apposti.—

   85 Cosí udii che fece la sibilla,
        quando mostrò al grande imperadore
        col figlio in braccio l'umiletta ancilla,

        dentro in un cerchio in ciel pien di splendore,
        quando il popol roman (tanto era errante)
   90 volea di sacrificio fargli onore.

        Allor Sibilla gli disse davante:
        —Altro signor ne viene, Octaviano,
        a cui degno non se' scalzar le piante,

        ché unirá 'l celeste coll'umano.
   95 Egli è che fará 'l secolo felice,
        ed al ciel tirerá 'l regno mundano.—

        Allora Cristo e la sua genitrice
        gli fe' vedere e disse:—Quegli è 'l figlio,
        di cu' i profeti e Virgilio dice.—
p. 360
  100 Cosí ed io, al cielo alzando il ciglio,
        un'agnol vidi, ch'era innanzi a Dio,
        il qual dicea per modo di consiglio:

        —Ritorna, o peccatore, al Signor pio,
        il qual perdona a chiunque si converte,
  105 purché si penta e non voglia esser rio.

        Egli t'aspetta colle braccia aperte,
        come padre il figliuol che si desvia,
        che poi l'abbraccia, quando a lui reverte.

        Perché ti parti ed obliqui la via?
  110 Ritorna a tua cittá e alla tua corte
        coll'agnol diputato in compagnia.

        Non vedi tu che quella vita è morte
        che corre a morte, e quella vita è vita
        che al vivere giammai serra le porte?

  115 Non vedi tu che l'alto Dio t'invita,
        e, se ti penti e domandi perdono,
        ti dará 'l cielo e la vita infinita?

        Egli dell'esser uom ti fece dono,
        perché suo fossi, e suo esser non puoi,
  120 se non ti mendi e non diventi buono.

        E, se tu 'l tuo voler seguitar vuoi,
        serai perduto; ché nulla ha fermezza,
        se non in quanto ha 'l fundamento in lui.

        Egli è quel padre che nullo disprezza,
  125 che a lui ritorni.—E, quando questo intesi,
        della speranza io sentii la dolcezza,

        e lacrimoso in terra mi distesi,
        dicendo:—O padre, priego mi perdoni,
        se mai io fui superbo e mai t'offesi.—

  130 Mille tripudi allor, mille canzoni
        io vidi in ciel far della penitenza
        del peccator e mille dolci suoni.

        Ed una donna con gran refulgenza
        dal ciel discese a me dal destro lato
  135 a consolarmi della sua presenza,
p. 361
        e disse:—Al cor contrito ed umiliato
        la porta Dio della pietá mai serra:
        sí quello sacrifizio a lui è grato.

        E, quando il peccator si getta in terra,
  140 di ogni pace Dio gli è grazioso,
        quantunque pria con lui avesse guerra;

        ché non è altro l'esser vizioso,
        se non contra sua legge andar superbo,
        contra l'ordin di Dio ire a ritroso.

  145 Per la superbia di chi 'l pomo acerbo
        gustò e stupefe' a' figli i denti,
        fece umanare Iddio l'eterno Verbo,

        a satisfar per quelle giuste genti,
        ch'eran nel limbo; e con martirio amaro
  150 fe' che dal suo Figliol fusson redenti.

        Or pensa quanto Dio ha l'uomo caro,
        da che ordinò che tanta maiestade
        a sua perdizion fêsse riparo.—

        Quand'ella disse a me tanta pietade
  155 e che Dio fece l'uom non per suo merto,
        ma per parteciparli sua bontade,

        io presi ardire e leva'mi sú erto
        e dissi:—Io non son servo, ma figliuolo
        del padre Dio, che tanto amor m'ha offerto.—

  160 Poi mi rivolsi per veder san Polo;
        e vidi lui e la Fe' con gran luce
        salir al cielo; e non mi lassôn solo,

insin che dea Speranza ebbi per duce.

p. 362

CAPITOLO XVIII

De' peccati nello Spirito santo, i quali sono opposti alla speranza.

        Nel levar sú, ch'io fei, cotanto ardito,
        ché presa forse avíe troppa fidanza
        per quel parlar, che pria aveva udito:

        —Risguarda ben—mi disse dea Speranza,—
    5 che 'n null'altra virtú si può errar tanto,
        quanto in la spen per troppo o per mancanza;

        ché la presunzion sta dall'un canto,
        dall'altro estremo sta il disperare,
        ognun peccato in lo Spirito santo.

   10 Né l'un né l'altro si può perdonare
        in questa vita o nel secol futuro,
        sí come dice a noi 'l divin parlare.

        E, perché questo passo è molto oscuro,
        se a quel, che or dirò, attento bade,
   15 io tel dichiarerò aperto e puro.

        Sappi che la clemenzia e la pietade
        allo Spirito santo è attribuita,
        e ch'e' la porge a chi torna a bontade;

        ché, benché sia la sua pietá infinita,
   20 non la debbe donar, né mai la dona,
        se no' a chi torna dalla via smarrita.

        Però, s'alcun nel mal far s'abbandona,
        credendo che, peccando, Dio 'l sovvegna,
        cotal presunzion mai si perdona;
p. 363
   25 ché colpa non è mai di perdon degna,
        se non si pente; e chi pecca sperando,
        chiude la porta, onde aiuto gli vegna,

        ché Dio, il qual è giusto, non è blando
        mai alla colpa, ma contra s'adira,
   30 sinché si emenda e torna al suo comando.

        All'altra estremitá della spen mira,
        che ha quattro spezie, e contra pietá vera
        pecca 'n Colui ch'eternalmente spira.

        La prima è quando alcun sí persevéra
   35 in far il mal, che tornar a virtude
        o d'emendarse al tutto si dispera.

        Costui alla pietá la porta chiude
        dello Spirito santo ed a' suoi doni,
        dacché non vuol lassar l'opere crude.

   40 L'altra è quando non crede che perdoni
        a lui mai Dio, e pel peccato grande
        crede che Dio pietoso l'abbandoni,

        e non avvien che mai perdon domande.
        Chi si dispera, chiude anco la porta,
   45 ché chi sovvenir vuol, a lui non ande.

        La terza è 'n chi la ragion è sí torta,
        che loda il mal per bene, e sí gli piace,
        che sé ed altri nel mal far conforta.

        E, come agli occhi infermi il lume spiace,
   50 cosí a lui vertú; e chiunque l'usa,
        persegue in fatti e con lingua mordace.

        Costui ancora tien la porta chiusa
        alla pietá; e non ch'egli si penta,
        ma chi torna a vertú biasma ed accusa.

   55 La quarta spezie è morte violenta
        data a se stesso; ché, mentr'egli more,
        di se medesmo omicida diventa.

        Or chiunque in altro modo è peccatore
        per ignoranza ovver per impotenza,
   60 fatto il peccato, alquanto n'ha dolore.
p. 364
        E dentro nel rimorde coscienza,
        sí ch'ancor serva in sé la via e 'l lume,
        per la qual può tornar a penitenza,

        e per cui possa intrar il sacro nume
   65 a suaderli ch'a virtú s'induca
        e che lassi ogni vizio e mal costume.

        E, perché ben la speme in te riluca,
        io la diffinirò chiara ed aperta,
        acciocché dietro a lei tu ti conduca.

   70 Speranza è un attender fermo e certo
        delle cose celesti ed eternali,
        che vengon per buoni atti e per buon merto.

        Questa è l'áncora data alli mortali
        fermar dentro al mar la navicella,
   75 mentre è in fortuna tra cotanti mali.—

        Qui poscia pose fine a sua favella;
        ed io alzai la testa e tenni mente,
        perché lassú udía cosa novella.

        Io udii voci 'n quella spera ardente
   80 del foco, il qual appresso soprastava,
        e sospir gravi d'una afflitta gente.

        Ed ella a me:—Lassú si purga e lava
        il satisfar non fatto, e lí è 'l ristoro
        del tepido, commesso in vita prava.

   85 In quella spera sú sta il purgatoro,
        parte del regno mio: lí sta la Spene,
        e piú lassú che altrove io dimoro.

        Io son che li conforto tra le pene,
        perché hanno speranza di venire,
   90 quando che sia, all'infinito Bene.

        Vero è che la lor doglia e 'l gran martíre,
        per buone orazioni e per indolto
        di sante chiavi, si può sobvenire.—

        Ed io a lei:—Or qui dubito molto;
   95 ché, se 'l peccato sta su nella voglia,
        come senza 'l pentir può esser tolto?
p. 365
        Se l'uom non è contrito e non ha doglia,
        avvenga ben che Dio perdonar possa,
        senza 'l pentir giammai non è che 'l toglia.

  100 Or come, adunque, l'orazione mossa
        laggiú dal mondo fa che perdonato
        sia il vizio qui e l'offesa rimossa?—

        Ed ella a me:—Due cose ha 'n sé 'l peccato:
        prima è la colpa, ovver deformitá,
  105 cioè far contra il ben da Dio ordinato.

        E questa colpa è nella volontá,
        la qual, se non si pente per se stessa,
        Dio la può perdonar, ma mai nol fa.

        E solo questa colpa gli è demessa
  110 al peccator, che corre al sacerdote,
        quando divotamente si confessa.

        L'altra è la pena e satisfar si puote;
        e questa ancora il peccator, se vuole,
        con la contrizion da sé la scuote;

  115 ché, quando del peccato egli si duole,
        tanto che contrizion sia tutta piena,
        morendo, allor convien che su al ciel vole.

        Onde, se ognun come la Maddalena
        satisfacesse, bagnando la faccia,
  120 non sería 'l purgatoro, né sua pena.

        Ma, quando è alcun, il qual non satisfaccia
        integramente, il prete che l'assolve,
        da colpa e non da pena lo dislaccia.

        E però 'l peccator che a Dio si volve,
  125 se 'l convertirsi è tardo o freddo o poco,
        nel purgatòr la pena poi persolve.

        E tanto tempo sta in questo loco,
        quanto ha negletto, se non lo fa brieve
        il papa santo, offerta o iusto invoco.—

  130 Ed io a lei:—Questo credere è grieve,
        che a chi non satisfece ed è defunto,
        il papa od altra offerta pena liève.—
p. 366
        Rispose a questo:—Il membro, ch'è coniunto,
        da suoi coniunti membri è sobvenuto,
  135 quando si duole o quando egli è trapunto.

        Se questo a' suoi coniunti ha provveduto
        la nobil e magnifica natura,
        cioè che un membro dall'altro abbia aiuto,

        dacché la grazia è di maggior altura,
  140 che non è ella, e nobil e suprema,
        siccome affirma e prova la Scrittura,

        ben può supplire alla mesura scema
        del satisfar con quei che son consorti
        in caritá nella partita estrema.

  145 Cosí li vivi sobvengono a' morti
        con satisfar per lor el pentir lento,
        ché 'l tempo d'ire al cielo a lor s'accorti.

        Per questo il Maccabeo mandò l'argento
        e fece al tempio offerta e nobil dono
  150 per lo esercito suo, di vita spento.

        Adunque è santo, pio, salubre e buono
        pregar pe' morti; e pel prego concede
        a lor del satisfare Dio 'l perdono.

        E, quando Cristo a Pier le chiavi diede
  155 d'aprire e di serrare, e capo el fece
        di tutti i membri uniti in santa fede,

        il ben, che i membri fanno, ed ogni prece
        commise a lui, e può participarlo
        ed applicarlo a chi non satisfece.

  160 Il ben participato, di cui parlo,
        non però a chi l'ha fatto, s'amminora,
        né papa a lui porría giammai levarlo;

        sicché, quand'un digiuna ovver che ora
        per quei che son in purgatòr puniti,
  165 fa prode a lui ed a coloro ancora.

        E, dacché li purgati sonno uniti
        in grazia con noi e sonno in via,
        perché a lor patria ancor non son saliti,
p. 367
        il papa, ch'esti beni ha 'n sua balía,
  170 del ben universal della sua greggia
        ne può far parte a lor e cortesia.

Ed ogni capo, ch'alcun corpo reggia, del merito de' membri, ch'e' governa, ne può far parte, pur che altri el chieggia,

175 in quanto sia accetto, in vita eterna.—

p. 368

CAPITOLO XIX

Come la Speranza conduce l'autore a parlare con la Caritá.

        Come la Fede la santa speranza
        mi demostrò, cosí poscia la Spene
        la caritá, ch'ogni vertude avanza.

        Considerai che Dio è sommo bene,
    5 e che da lui ogni altro ben deriva
        prima ne' cieli, e poscia in terra vène.

        Considerai che me fe' cosa viva,
        poi animal, e poi mi diede in dono
        libero arbitrio e vertú intellettiva.

   10 E ciò, che s'ama, s'ama in quanto e buono;
        ed egli è 'l Ben supremo e sí cortese,
        ch'ogni pentir in lui trova il perdono.

        Questo di tanto amore il cor m'accese,
        che fe' di piombo ogni aurato dardo,
   15 che mai Cupido folle in me distese.

        Allor inverso il ciel alzai lo sguardo,
        e venne un raggio a me dal primo Amore,
        che tanto mi scaldò, che ancora io ardo.

        Ond'io gridai:—O alto Dio Signore,
   20 che render posso a tanti benefici,
        se non ch'io ami te con tutto il core?

        Era niente, ed alli ben felici
        tu mi creasti; e, mentre servo io era,
        per grazia, mi facesti de' tuo' amici.—

   25 Quando questo dicea, di luce vera
        resperso fui; ond'io mirai piú fiso,
        per veder onde uscia quella lumiera.
p. 369
        E donna vidi dentro al paradiso
        bella e lucente tanto quanto il sole,
   30 se non che piú acceso aveva il viso.

        E, come aquila fa 'nanti che vole,
        che mira in alto prima che giú vegna
        inver' la preda, che prendere vòle,

        cosí scese ella e disse a me benegna:
   35 —Del purgatòr convien che 'l foco passi,
        anzi che venghi ove per me si regna.—

        Li polsi miei, giá faticati e lassi,
        se sgomentóro un poco a tanta impresa;
        ond'io per questo un gran sospir fuor trassi.

   40 Ma, dacché Muzio nella fiamma accesa
        spontaneamente porse quella mano,
        ch'a dare il colpo avea commessa offesa,

        e dacché sol per un onor mundano
        Pompeo il dito s'arse dentro al foco,
   45 a mostrar forte a non aprir l'arcano;

        come temenza in me potea aver loco
        con Spene e Caritá, che ogni amaro
        fanno esser dolce e fannol parer poco?

        Però, mostrando il viso allegro e chiaro,
   50 risposi:—Io venir voglio, e, con voi due,
        star dentro al purgatoro a me fia caro.

        Come Abacuc insú levato fue,
        quando soccorse a Daniel profeta,
        cosí allora io fui levato insue.

   55 E fui nel purgatoro; e grande pièta
        d'anime vidi in quelle fiamme ardenti,
        che tra' martíri avean sembianza lieta;

        ché, benché fusson tra li gran tormenti,
        la speranza addolcisce in lor la pena,
   60 ché speran ire alle beate genti.

        —Ave, Maria di grazia piena
        —cantavan molti dentro della fiamma,—
        Dominus tecum, o stella serena.
p. 370
        Soccorri tosto, o dolce nostra mamma,
   65 ed a pietá ver' noi il Signor piega
        per quello amor, che te di lui infiamma.

        Quando, o Regina, la tua voce priega,
        nel cospetto di Dio è tanto accetta,
        che nulla a tua domanda mai si niega.

   70 O donna sopra ogni altra benedetta,
        fa' ch'a noi venga il benedetto Frutto,
        che con tanto disio da noi s'aspetta.—

        Io stava ad ascoltar, attento tutto,
        le lor parole e le piatose note,
   75 mostranti insieme l'allegrezza e 'l lutto.

        E parte ancor dell'anime divote
        a coro a cor dicíen le letanie
        con pianto tal, che mi bagnò le gote.

        Ed alcun gl'inni, alcun le psalmodie,
   80 alcuni il Deprofundo e 'l Miserere
        dicíen con pianti e dolci melodie.

        Poi un gridò:—Oh! venite a vedere
        un, che 'nsú sale ed ha viva persona:
        e' dentr'al foco ha le sue membra intiere.—

   85 Come a messaggio, c'ha novella bona,
        corre la gente ed ognuno el domanda,
        ed ei risponde alquanto e non ragiona;

        cosí corríeno a me da ogni banda
        spiriti eletti quivi a farsi belli,
   90 sin ch'a felice stato Dio li manda.

        —Noi ti preghiam—dicíen—che ne favelli;
        dacché tu sei colle benigne scorte,
        non hai timor sentir nostri fragelli.

        Se tu non hai gustata ancor la morte,
   95 dinne se ancor al mondo tornerai,
        acciò che lá di noi novella porte.—

        La Spene e Caritá addomandai
        se volíen ch'io parlasse, ed assentîro:
        ond'io mi volsi a loro e m'arrestai.
p. 371
  100 E vidi li tre, posti a gran martiro,
        che dentro al foco portavan gran some
        con grande ansietá e gran sospiro.

        Il primo addomandai come avea nome,
        e che dicesse a me degli altri doi,
  105 e delle some loro il perché e 'l come.

        In prima sospirò, e disse poi:
        —Io fui il padre di questo secondo,
        ed egli al terzo, ed io avo gli foi.

        Si come spesso avvien del mortal mondo,
  110 che l'uno all'altro la gran soma lassa
        de' mal tolletti e frode il carco e 'l pondo,

        in quella vita che, morendo, passa,
        io lassa' al figlio e 'l figlio all'altro ancora,
        che si rendesse il mal riposto in cassa,

  115 ed egli all'altro che 'n vita dimora;
        e 'l pronepote mio non ce n'aita,
        si che una soma giá tre n'addolora.

        Ahi, quanto è saggio chiunque in sana vita
        provvede a questo e fa con Dio ragione,
  120 e non l'indugia infino alla partita!

        Ché far non pò la satisfazione,
        e spesso a satisfar il mal ablato
        un altro erede rubator ci pone.

        Sabello nella vita fui chiamato,
  125 e fui di Roma, e 'l mio figliol fu Carlo,
        e Lelio è 'l mio nipote, che gli è a lato.

        —Dacché concesso m'è che io ti parlo
        —diss'io a lui,—un dubbio, in che m'hai messo,
        dechiara a me, se tu sai dechiararlo.

  130 Se fu a tuo figlio il satisfar concesso,
        perché 'l peccato suo in te redonda,
        s'egli ha negletto quel che gli hai commesso?—

        Ed egli a me:—Se vuoi ch'io ti risponda,
        sappi che 'l pentir tardo, freddo e lento
  135 e 'l non ben satisfatto qui si monda.
p. 372
        E, se alcuno avesse il pentimento,
        come il ladron, che 'n croce si pentéo,
        senz'altra pena al ciel andría contento;

        ché chi, come san Pietro e san Matteo,
  140 in vita o nello estremo ben si pente,
        prima vorría morir ch'esser piú reo.

        Ma questo ben pentir, se tu pon' mente,
        è raro sí, quanto sería a rispetto
        all'assai 'l poco, ch'è quasi niente.

  145 E cosí 'l mio pentir non fu perfetto,
        ch'io 'l tardai e del mal far m'accorse,
        quand'era per morir su nel mio letto.

        E, s'io fusse guarito, sarei forse
        tornato al mal di prima o, come 'l figlio,
  150 a satisfar arei chiuse le borse:

        siccome chi sta in mare a gran periglio,
        che fa gran voti e par tutto contrito
        e dassi al petto ed al ciel alza il ciglio;

        e, quando il tempo turbo s'è partito,
  155 ovver ch'egli è disceso fuor del mare,
        muta proposto e muta l'appetito.

        Pel freddo pentimento e pel tardare
        e perché 'l satisfar lascia' a costoro,
        allor che meco io nol potea portare,

  160 tanto starò in questo purgatoro,
        che satisfatto sia, se 'l ben comuno,
        che fa la Chiesa, non mi dá adiutoro.

        Di quelle messe e preci ha qui ognuno
        la parte sua, come dá 'l corpo il cibo
  165 a' membri suoi, e piú al piú digiuno.—

E poscia vidi ciò che ora scribo.

p. 373

CAPITOLO XX

Dove trattasi piú distintamente del purgatorio, e si risolvono certi dubbi.

        Io vidi poscia alquanti in purgatoro
        cantar nel foco:—Expectans expectavi,—
        a verso a verso, come si fa 'n coro.

        Ed alcun'altri con voci soavi
    5 dicean anco, cantando:—O Agnus Dei,
        che i peccati del mondo purghi e lavi!—

        E—Verba mea—e—Miserere mei
        —diceano molti con sí duro pianto,
        che a lacrimar condusson gli occhi miei.

   10 E, poscia che silenzio fenno alquanto,
        agnoli vidi su dal ciel venire
        con allegrezza e festa e dolce canto.

        E, giunti quivi, un cominciò a dire:
        —D'este pene esci fuori, o Pier Farnese,
   15 ché Dio ha posto fine al tuo martíre.—

        E quel, ch'egli chiamò, ratto s'accese
        di luce chiara e tanto benedecta,
        che dal fuoco e da incendio lo difese.

        E cominciò a cantar:—O quam dilecta
   20 tabernacula tua
, o Dio Signore!
        Beato chi 'n te spera e chi t'aspecta!—

        E l'agnol disse:—Da questo dolore
        Ugolin d'Ancaran ora ti slega,
        e d'esto purgatòr ti cava fòre.

   25 Ogni volta ch'egli òra, per te priega:
        il digiunar e 'l lacrimar, che ha fatto,
        ha mosso Dio, che a pietá si piega.
p. 374
        E prete Bonzo ha per te satisfatto
        el dever tuo, ed ito tre viaggi;
   30 e le sue messe ancor ti tran piú ratto.—

        Resperso tutto di celesti raggi,
        con quegli angeli insieme in ciel sen gío
        al Ben supremo e sempiterni gaggi.

        E prete Bonzo ben conosceva io
   35 per peccatore; e però ammirai
        che Dio esaudisse un cosí rio.

        Per questo la Speranza domandai:
        —Come chi 'n caritá non è fundato,
        può satisfar per queste pene e guai?—

   40 Ed ella a me:—Tu sai ben che 'l peccato
        è fare o ir contra divina voglia:
        però giammai a Dio pò esser grato.

        Come che pianta mai frutto né foglia
        potrebbe far, remossa la radice,
   45 cosí chiunque è che caritá si spoglia.

        E, se fa ben alcuno ovver che 'l dice,
        giovar li pò al ben, ch'è temporale,
        ma non mai all'eterno ovver felice.

        E, quando alcuno, ch'è in pecca' mortale,
   50 prega per quel ch'è 'n caritá unito,
        a quello, per cui prega, giova e vale;

        ché non per sé da Dio è esaudito,
        ma per colui che prega e satisface,
        che giá è eletto all'eterno convito;

   55 ché spesse volte il messo, che dispiace,
        si esaudisce per colui che 'l manda,
        o perch'e' chiede cosa ch'altrui piace.

        E spesse volte la buona vivanda,
        perché all'infermo si darebbe invano,
   60 negata gli è, quand'egli la domanda;

        la qual, se fusse data a chi è sano,
        ed ei la prenda, el robora e conforta
        in tutti i membri del suo corpo umano.
p. 375
        Ad alcun anco, in cui caritá è morta,
   65 del ben, che fa, gli avviene ex consequente
        che 'l premio eterno e felice ne porta;

        ché, quando egli òra o dona all'indigente,
        prega per lui, e la somma Piatade
        spesso per questo gl'illustra la mente,

   70 sí ch'ei torna a vertú ed a bontade:
        ond'io conchiudo ch'atto virtuoso
        innanzi a Dio giammai in fallo cade.

        —Se tu pervegni al superno riposo
        —un disse a me,—innanzi che tu monti,
   75 star meco alquanto non ti sia noioso.

        Se vuoi che 'l nome mio pria ti racconti
        e la freddezza mia, la qual io mondo
        e che, penando, qui convien ch'io sconti,

        Toso Benigno fui detto nel mondo:
   80 fui piacentino, e da me fu commesso
        ad un per me di satisfar il pondo.

        Romper la fede a Dio è 'l primo eccesso,
        e poscia al morto, il qual, quando decede,
        lascia il suo successor quasi un se stesso.

   85 Cosí un mio compagno io lassa' erede:
        e' di quel ch'io volea, niente fece,
        sí come spesso fa chiunque succede.

        Però ti prego, se tornar ti lece,
        che dichi al fratel mio che satisfaccia
   90 e che per me vada a Roma in mia vece.—

        Risposi a lui:—Ciò, che vorrai ch'io faccia,
        el farò volentier; ma resta un poco,
        ed a me un punto dichiarar ti piaccia.

        Io lessi giá che sta in altro loco
   95 il purgatoro e ch'è parte d'inferno;
        ed ora el veggio qui tra questo foco.—

        Ed egli a me:—Colui, che 'n sempiterno
        mai non si muta ed ogni cosa move
        e tutto l'universo ha 'n suo governo,
p. 376
  100 ha qui il purgatoro ed anco altrove,
        e nell'inferno puote dar gran festa
        e fare il paradiso in ogni dove.

        Basta che qui a te si manifesta
        che cosa è 'l purgatoro e che 'l fece anco
  105 prima Iustizia, ovver prima Maièsta,

        e che lí si ristora ciò che ha manco
        la penitenzia, e che nullo va al cielo,
        se prima non si purga e fassi bianco.

        Ricòrdite dell'alma, che nel gielo
  110 al vescovo gridò:—Io son qui messa
        sol per purgarmi, e questo ti rivelo:

        ch'un mese vogli dir per me la messa,
        ché cosí spero uscir di questo ghiaccio,
        e che indulgenza mi será concessa.—

  115 Ricòrdite il pastor quant'ebbe impaccio
        nel dir le messe, e come Paulino
        giá si purgò, e molti di quai taccio.—

        Giá le mie scorte avean preso il cammino
        su verso il ciel tra l'anime, che stanno
  120 nel foco, come argento a farsi fino,

        ed allo 'ndugio ed alle pene, c'hanno,
        con lacrime chiedean mercé da nui,
        ricordando l'arsura e 'l loro affanno.

        E, quando presso al cielo io giunto fui,
  125 sentii maggior l'incendio; e per riparo
        le scorte mie m'abbracciâro amendui,

        ché 'l foco lí è piú attivo e chiaro,
        e, perché tocca il cielo, in giú reflette:
        però 'l caldo raddoppia ed è piú amaro.

  130 Quelle parti del ciel son sí perfette,
        che non temono arsura ed han vantaggio
        a trasmutazion non star subiette.

        Non so in qual modo, né per qual viaggio,
        mi trova' intrato nel ciel della luna,
  135 assai 'n men tempo che detto non l'aggio.
p. 377
        E di due scorte meco era sol una,
        cioè la Caritá, che risplendea
        sí, che ogni luce arebbe fatta bruna.

        E questa dolce guida ed alma dea
  140 disse:—Alla quinta essenza io t'ho condotto
        dall'altra trasmutabile e sí rea.

        Ciò che sta a questo ciel laggiú di sotto,
        subiace al tempo e convien vada e vegna
        in non niente ed in stato corrotto.—

  145 E poi soggiunse quella dea benegna:
        —'Nanti che trascorriam noi questi cieli
        ed ogni intelligenza che qui regna,

        conviene che il mio offizio ti disveli,
        acciò che, quando torni tra' mortali,
  150 gli atti miei lor insegni e lor riveli.—

        Risposi:—O sacra dea, tra tanti mali
        per veder le vertudi io son venuto;
        e tu a salire qui m'hai dato l'ali.

        Però te invoco ed a te chiedo aiuto,
  155 che tu m'insegni te, sicché, allora
        ch'al mondo narrerò ciò c'ho veduto,

        del regno tuo io possa dir ancora;
        e che vertú in tanto è vertuosa,
        in quanto amor la 'nforma ed avvalora:

  160 non amor di Cupido o d'util cosa,
        ma quel, che 'l sommo Ben ferma per segno,
        e fa l'anima a Dio fedele sposa,

sí ch'ogni amor, ch'è fuor di lui, ha a sdegno.—

p. 378

CAPITOLO XXI

Della caritá e dell'opere della misericordia corporali e spirituali.

        —Amor—diss'ella—è la cagione e 'l fine
        d'ogni vertú e d'ogni atto morale
        e delle cose umane e di divine.

        E tanto ogni vertú appo Dio vale,
    5 quanto ha d'amore; e quanto d'amor manca,
        convien che la vertú da bontá cale;

        ch'amore è volontá accesa e franca
        a voler fare; e, mentre l'amor dura,
        nell'operar la volontá mai stanca.

   10 E questo amor va sempre a dirittura,
        quando elegge per fine e per suo porto
        il Creatore e non la creatura.

        E cosí alcuna volta anco va torto,
        quando elegge per fine e per suo segno
   15 cosa che manca e che ha l'esser corto;

        onde, s'alcun prudenza, ovver lo 'ngegno,
        ovver iustizia, ovver mostri fortezza,
        ovver clemenza con atto benegno,

        e ciò facesse a fin d'aver ricchezza,
   20 non saría questo il buon amor, ch'i' ho detto,
        né quella caritá, che Dio apprezza;

        ché caritá è un amor perfetto,
        ed è dilezion contemplativa,
        che 'n ciò, che ama, ha Dio per suo obietto;

   25 ed ogni cosa, o che sia morta o viva,
        ama ed apprezza, in quanto è buona in Dio,
        e sopra tutto Lui, donde deriva.
p. 379
        E questa caritá, ch'ora dico io,
        ama il demonio, in quanto da Dio pende
   30 per creatura, e non in quanto è rio.

        Cosí di grado in grado ella descende,
        amando piú e men, secondo i gradi;
        e quanto trova il ben, tanto s'accende.

        Ma, perché amor, se tu diritto badi,
   35 sta in congiunzion stretta e perfetta,
        quando è onesta e fuor degli atti ladi

        questa coniunzion cosí costretta,
        chiunque la rompe, separa o disparte,
        convien che grave offesa egli commetta.

   40 Però, mirando quanto a questa parte
        la caritá è altramente ordita,
        ed altramente il suo amor comparte,

        prima ama Dio, che l'esser e la vita
        dona alla mente, e poi ama se stesso,
   45 ché nulla cosa ha l'uom piú che sé unita;

        poi ama i genitor dopo sé appresso,
        e li figli, la donna e li nepoti,
        secondo il grado loro ovver processo.

        In questo amor, se tu attento noti,
   50 vertú, natura e caso altrui coniunge,
        quando è onesto e con atti divoti.

        E, quando questo amor va alla lunge,
        se caritá lo scalda e fállo grande,
        a' peccatori ed a' nemici adiunge.

   55 Non ch'a lui piaccian l'opere nefande,
        ma, 'nquanto uomini, gli ama e per essi òra,
        ed a ben far ancor la man lor spande.

        La caritá appar perfetta allora
        laggiú nel mondo, quando è sí accesa,
   60 che del suo iniuriante s'innamora.

        E, perché la vertude s'appalesa
        nell'operar, cosí si manifesta
        nell'operar la caritá, c'hai 'ntesa,
p. 380
        che 'l pover pasce e che dona la vesta
   65 a chi è nudo, e visita e dá aiuto
        a quello, il qual l'infermitá molesta;

        e va al prigion, che 'n carcere è tenuto,
        e che sia liberato e sia disciolto
        s'adopra con favore e con tributo;

   70 anco è da lei 'l pellegrin raccolto,
        e fa che 'l morto di terra si copre,
        facendo aiuto perch'e' sia sepolto.

        E fuor di queste sonno anco sette opre
        di spirital pietá laggiuso in terra,
   75 che per grandezza a queste van di sopre.

        Prima riprende il prossimo, quando erra,
        soavemente; e, s'e' non si corregge,
        d'asprezza e poi d'accusa gli fa guerra.

        L'altra consiglia con senno e con legge,
   80 il prossimo drizzando in la via dritta,
        quando sta in dubbio e non sa che si elegge.

        L'altra conforta poi la mente afflitta,
        l'animo roborando a pazienza,
        che vince, se a terra non si gitta.

   85 La quarta dá il dono della scienza
        allo ignorante, il nobile tesoro,
        che piú che la ricchezza ha d'eccellenza.

        La quinta prega per tutti coloro
        che sonno viator nel mortal mondo,
   90 e per color che stanno in purgatoro.

        L'altra sopporta il gravissimo pondo
        de' viziosi e chi mal si nutríca
        col mal costume e col vivere immondo;

        ché, dacché 'l vizio ha la vertú nemica
   95 e fagli sempre oltraggio, or quinci pensa
        se a sopportar li rei è gran fatica.

        L'altra rimette e perdona ogni offensa.
        Queste due sempre son l'opre pietose,
        che Caritá giú nel mondo dispensa.
p. 381
  100 Alza la mente omai all'alte cose,
        ch'io ti dirò, ch'agl'intelletti bassi
        per troppa sottigliezza son nascose.

        Sappi che amor sempre move li passi
        dietro al conoscimento; e, se ben note,
  105 senza esso gli atti del voler son cassi;

        ché amar si posson ben cose rimote
        dagli occhi e dalli sensi, ma non mai
        s'aman le cose all'intelletto ignote.

        Quanto è 'l conoscimento, o poco o assai,
  110 del ben, che move ed ha 'l voler piacente,
        tanto s'accende amor, di cu' udito hai.

        E, perché 'l mondo ovver la mortal gente
        non ben conosce le cose del cielo,
        però non l'ama ben perfettamente;

  115 ché non posson veder se non col velo
        de' sensi lor, sí come vede il vecchio
        al lume fioco d'un piccol candelo.

        E, perché veggion Dio sol nello specchio,
        il Creator nelle sue creature,
  120 però l'amor laggiú non ha parecchio

        a questo di quassú, che aperte e pure
        vede este cose e che da Dio procede
        ogni altro bene e tutte altre nature.

        Or veder puoi ch'amor sempre col piede
  125 va dietro al bene, e tanto ha 'n sé augumento,
        quanto el conosce e quanto in bontá eccede.

        Or mira ben a quel ch'ora argumento:
        che, quando amor pervien col suo desire
        al sommo Ben, che 'l posa e fa contento,

  130 giammai da quello amor si può partire,
        ché nulla displicenzia è che 'l rimova,
        ed ogni complacenzia ha nel fruire.

        E, dacché ogni dolcezza quivi trova
        e che quel sommo Bene è infinito,
  135 sempre la mente trova cosa nova.
p. 382
        Cosí contentasi il doppio appetito,
        in pria la mente e poi la volontade,
        ché l'uno e l'altro ha ciò, che ha concupito.

        La mente ve' la prima veritade
  140 nella prima cagion, dalla qual vène
        ogni altro effetto ed ogni altra bontade.

        La volontá, che ha sete d'aver bene,
        lo gusta e beve quivi in la sua fonte,
        ch'eternitá e securtá contiene.

  145 Però chi vede Dio a fronte a fronte,
        convien che abbia caritá compiuta,
        se ben ha' inteso le parole cónte.

        Ma giuso in terra è fredda e diminuta,
        sinché, illustrata di lume sereno,
  150 alzará 'nsino a Dio la sua veduta.

        Per satisfarti ancora ben appieno,
        benché sia in cielo amare Dio necesse,
        non però il libero arbitrio è qui meno;

        però che quei, che stan nel beato esse,
  155 amano Dio con volontá amorosa,
        se ben hai 'nteso le parole espresse;

        ch'amor e volontá è una cosa,
        ed a quel pasto, ove l'amor si pone,
        il voler anco libero si posa.

  160 E, perché 'n Dio è tutta la cagione,
        che ad amar la volontade move,
        la qual si move sempre a cose bone,

        però, quand'ella ha lui, non va altrove,
        sí come fa la pietra ovvero il foco,
  165 quand'egli giunge al suo proprio dove,

ché ogni cosa ha posa nel suo loco.—

p. 383

CAPITOLO XXII

La Caritá mena l'autore nel cielo e tratta delle cose superiori ed eterne.

        Il grato e bel parlar, ch'ella facea,
        mi fu interrotto da dolci armonie
        d'un canto d'angel dentro una corea.

        Per questo ad alto alzai le luci mie,
    5 mosso dal cantar dolce e sí giocondo,
        che mai in terra simile s'udíe.

        Veder mi parve allora un miglior mondo
        e tanto bello, che questo, a rispetto,
        è una stalla ed un porcile immondo;

   10 ché questo è brutto, e quel polito e netto:
        lassú son le cagion, qui son gli effetti:
        quel signoreggia, e questo qui è subietto.

        Quando tra canti e tra tanti diletti
        trovarmi vidi ed essermi concesso
   15 di vedere tanti angel benedetti,

        venne la mente mia quasi in eccesso
        pel iubilo soave e tanti balli
        di miglia' d'angel, ch'io mi vidi appresso.

        —Fa', fa' che tosto le ginocchia avvalli
   20 —disse la scorta mia,—e riverente
        va', come a suo signor vanno i vassalli.—

        Allor m'avvidi e non tardai niente;
        e, quando appresso fui, m'inginocchiai
        prostrato in terra tutto umilemente.

   25 Un angel bello, ch'era de' primai,
        mi die' la mano, e, quando mosse il riso,
        di luce sparse intorno mille rai.

        —Noi siam qui posti, e sempre in paradiso
        vediamo Dio; e lí la nostra vista
   30 sempre contempla il suo eternal viso.
p. 384
        Per volontá del nostro primo Artista
        agli uomini del mondo siam custodi,
        che ancor combatton nella vita trista

        contra il prince mundan, che 'n mille modi
   35 lor dá battaglia, el drago Satanasso
        con suoi satelli e con sue false frodi.

        Da noi è retto ciò che sta giú abbasso:
        ciò, che consiglia il senno di Parnaso,
        se noi vogliam, s'adempie o viene in casso;

   40 ché ciò, che è laggiú fortuna o caso,
        vien di quassú da quel primo consiglio,
        che mai ebbe orto, né avrá occaso.

        E, se in terra, ch'è un granel di miglio
        rispetto al ciel, son sí le cose belle,
   45 talché fan lieto il core ed anco il ciglio,

        che debbe esser quassú, onde son quelle?
        Qui son gran regni e spiriti divoti,
        rettor di questi cieli e delle stelle.

        Non fece Dio li lochi ad esser vòti,
   50 ma per empirli; ed adornò ciascuno,
        ratto che gli ebbe fatti, se ben noti.

        Sub terra pose il fratel di Neptuno
        e li metalli e l'anime nel duolo
        tra lochi sulfurigni e l'aer bruno,

   55 e gli animali nel terrestre suolo
        e l'erbe e i frutti, acciocché nutricare
        possa la madre terra ogni figliolo.

        E fece l'acque ed adunolle in mare,
        e poscia l'adornò di vario pesce,
   60 che va notando tra quell'acque chiare.

        E fece Dio che ogni fiume n'esce,
        ed anco v'entran tutti i fiumicelli;
        né però manca il mar giammai, né cresce.

        E su nell'aer pose i belli uccelli,
   65 e, dove fa la grandine, in quel loco
        parte di que' che funno a Dio ribelli.
p. 385
        Nel quarto regno, elemento del foco,
        fe' il purgatoro, dove li fedeli
        ristorano il pentir, il qual fu poco.

   70 Fe' dieci regni poi tra questi cieli
        e gl'ordini degli angel quassú pose,
        pien di fervore e d'amorosi zeli.

        E l'universo in tal modo dispose,
        che, quanto piú si sale inver' l'altura,
   75 piú grandi e piú perfette son le cose.

        Tra gli elementi il foco ha men mistura;
        tra i cieli quei c'han maggiori contegni
        insino al primo, il qual è forma pura.

        Di sopra a noi sono amplissimi regni
   80 di Troni e Principati e di Cherúbi;
        e, quanto stan piú su, piú sonno degni.

        Tu li vedrai, se tanto alla 'nsú subi;
        ed ogni regno n'ha mille migliaia,
        ed hanno il paradiso in ciascun ubi.—

   85 E poscia tutta quella turba gaia
        ricominciôn lor canti e lor tripudi
        con splendore, che 'l sol par ch'ognun paia.

        O uomini mundan, mortali e rudi,
        perché tardate su al ciel venire
   90 per la via aspra e dolce di vertudi?

        La scorta mia a me cominciò a dire:
        —Se altro vuoi veder qui, presto mira,
        ché omai debbiamo ad altro ciel salire.—

        Allor mirai e vidi come gira
   95 la figlia di Latona il Zodiáco
        e come giú sopra gli umori spira,

        e, come quando è 'n coda o in co' del draco,
        che per la terra il suo fratel non sguarda,
        il lume suo si oscura e fassi opaco.

  100 Vidi quando è veloce e quando tarda,
        e come a poco a poco si raccende,
        e come per vapor par pur ch'ell'arda.
p. 386
        Poscia al secondo ciel, che piú risplende,
        dall'amorosa scorta io fui condotto;
  105 e questo l'altro circonda e comprende.

        Lí sta Mercurio, e l'animo fa dotto
        nell'eloquenza ed anco signoreggia
        sopra agli attivi nel mondo di sotto.

        E, perché l'epiciclo suo attorneggia
  110 il volto al Sole, il suo lume minore
        fa Febo che nel mondo non si veggia;

        ché sempre mai la luce e lo splendore
        convien ch'offuschi, manchi e che s'appochi
        alla presenza del lume maggiore.

  115 Angeli e santi io vidi in mille lochi
        giranti su e giú ed ire a danza,
        con canti dolci ed amorosi invochi:

        canto, che tanto quel di quaggiú avanza,
        che, poi che io torna' al mondo diserto,
  120 ogni dolce armonia m'è dissonanza.

        E, perché ben ridir non posso aperto
        quello ch'io vidi, vuol però la musa
        ch'io ponga fine al mio parlar coperto.

        Il suo comando a me fará la scusa,
  125 e che nel mondo il ben non è inteso,
        dove la 'nvidia la vertude accusa.

        Dacché san Paulo, quando fu disceso
        dal terzo ciel dell'amorosa stella,
        di quell'arcano, il qual avea compreso,

  130 a' mortali non disse altra novella,
        se non:—Io fui e vidi ed io udii
        cosa, che di quaggiú non si favella;—

        chi dir potrebbe degli angeli pii
        e della venustá, che 'n lor si spande,
  135 che, a rispetto dell'uom, paiono dii?

        O palazzo di Dio, tanto se' grande,
        che mille miglia e piú 'l Zenitte muta,
        quando avvien ch'un quaggiú un sol passo ande.
p. 387
        E, poscia che ogni sfera ebbi veduta
  140 e l'anime salvate e i Serafini,
        de' quai narrare appien la lingua è muta,

        tra le lor vaghe rime e soavi ini,
        tra l'allegrezze e modulosi canti,
        tra dolci suoni e piú vari tintíni,

  145 la scorta mia mi fe' salir sí avanti,
        che io pervenni a quel supremo regno,
        ove piú splende Dio e li suoi santi.

        —O sommo Ben—diss'io,—a cui io vegno,
        benché sia verme e vilissima polve,
  150 non mi scacciare e non mi aver a sdegno.

        Risguarda al peccator, ch'a te si volve;
        e, s'è rimaso in lui anco alcun rio,
        sola la tua piatá è che l'absolve.—

        Quando questo ebbi detto, io vidi Dio
  155 e chiar conobbi ch'era il sommo Bene,
        il qual contentar può ogni disio;

        e che era il primo prince, da cui viene
        ogni verace effetto, e sua potenza
        ha fatto tutto, e solo egli el mantiene.

  160 La sua grandezza e sua alta eccellenza
        sol egli la comprende e tanto abonda,
        che nulla mente n'ha piena scienza.

        Chi piú a contemplarlo si profonda
        nel mar di Dio, e chi piú addentro beve,
  165 ancora si ritrova in su la sponda.

        E, perché 'l corpo l'anima fa grieve,
        non molto stetti, che, pel suo comando,
        in terra fui posato lieve lieve.

        Cogli occhi lacrimosi e sospirando,
  170 io mi ricordo di quei lochi adorni;
        e 'l volto alzando al cielo, i' dico:—Oh quando

será, mio Dio, il dí che a te retorni!

NOTA

I

Il poema frezziano, composto tra la fine del sec. XIV e il principio del XV, ebbe non meno di trenta trascrizioni e non piú di dieci ristampe.

È inutile che io parli di cinque trascrizioni, che sono o irreperibili o assolutamente perdute; né vale la pena di tener conto di due brevissimi frammenti di codici, che si trovano uno a Firenze e l'altro a Oxford. Gli altri ventitré, per la maggior parte, furono redatti nel sec. XV, e tra essi quelli di data certa sono sette, cioè:

1° il cod. 989 della Biblioteca Universitaria di Bologna, col titolo Liber de Regnis, con l'attribuzione a Niccolò Malpigli a principio e con la data del 1430;

2° il cod. Conv. Soppr. C. I. 505 della Nazionale Centrale di Firenze, col titolo aggiunto Quatriregio del decursu della vita umana, con l'attribuzione a «Federico vescovo della cittá de Foligni» e con la data del 1449;

3° il cod. Ashb. 565, della Laurenziana, con in fine l'indicazione di Libro de quatro reami, la stessa attribuzione precedente e la data del 1461;

4° il cod. Cappon. n. 70 della Naz. Centr. di Firenze, col titolo Libro de' regni, adespoto e con la data del 1464;

5° il cod. Ashb. 372 della Laurenziana, col titolo precedente, adespoto e con la data del 1469;

6° il cod. Magliab. II. II. 35 della Naz. Centr. di Firenze, col titolo precedente, adespoto e con la data del 1474;

7° il cod. Class. n. 124 di Ravenna, col titolo precedente, adespoto e con la data del 1476.

Appartengono anche al sec. XV i seguenti 12 codici del Quadr. senza data, cioè:

1° il cod. Ottobon. 2862 della Vaticana, con in fine l'indicazione Liber de quattuor regnis e l'attribuzione a Federico vescovo di Foligno;

2° il cod. Palat. 343 della Naz. Centr. di Firenze, col titolo marginale Quatriregio del decursu della vita umana, con l'attribuzione precedente;

3° il cod. Class. n. 231 di Ravenna, col titolo Libro di regni e con l'attribuzione precedente;

4° il cod. Ashb. 1287 della Laurenziana, col titolo Quadriregio del decurso della vita umana e con l'attribuzione precedente;

5° il cod. Riccard. 2716, col titolo Libro de' regni e senza nome d'autore;

6° il cod. Magliab. II. II. 34, col titolo precedente e adespoto;

7° il cod. 1346 della Biblioteca Pubblica di Lucca, col titolo moderno Quadriregio e con uguale attribuzione a Federico Frezzi;

8° il cod. ora Cora di Torino, col titolo Federghina, giá posseduto dal Convento di S. Michele presso Venezia;

9° il cod. 1454 dell'Angelica di Roma, col titolo Liber magistri Federici;

10° il cod. Canonic. n. 37 della Bodleiana di Oxford, col titolo Libro de Regni e adespoto;

11° il cod. 10424 del British Museum di Londra, col titolo precedente e adespoto;

12° il cod. Hamilton 265 della R. Bibl. di Berlino, col titolo precedente e adespoto.

Appartengono al sec. XVI:

1° la trascrizione Gaddiana contenuta nel cod. XXXII, plut. LXXXX della Laurenziana, col solito titolo Libro de Regni, senza nome d'autore e con la data d'un esemplare precedente perduto (1493);

2° il cod. Segniano XIX della stessa biblioteca fiorentina, col titolo suddetto e senza data.

Appartiene al sec. XVII la trascrizione contenuta nel cod. C. X. 16 della Comunale di Siena, col titolo Quadriregio, con l'erronea attribuzione a Ludovico Frezza e mutila in fine.

In ultimo, appartiene al sec. XVIII il cod. Palat. 344 della Naz. Centr. di Firenze, col titolo Libro de Regni, adespoto, senza data ed esemplato sull'Ashb. 372.

Naturalmente, fra tutti codesti codici, i piú importanti sono quelli redatti nel 400, di cui occorrerebbe stabilire la genealogia, per poter rintracciare il piú antico e il piú vicino all'autografo frezziano, che non si conosce; ma l'impresa è per molte ragioni difficile, e non so se troverá mai uno studioso di buona volontá, che se l'assuma e l'assolva.

Quanto poi alle stampe del poema, la serie cominciò alla fine del sec. XV con la Perugina, fatta da Stefano Arns, nel 1481, in caratteri gotici, intitolata Quatriregio del decurso della vita umana, esemplata sul cod. Palat. 343 e fornita dell'attribuzione a Federico vescovo di Foligno: bella, ma non poco scorretta. La seconda è quella apparsa nel 1488 a Milano pei tipi di Antonio Zarotto, anch'essa in caratteri gotici, con lo stesso titolo e con la stessa attribuzione, e quindi figlia legittima della Perugina precedente. Seguí quasi certamente un'edizione fiorentina senza data e senza nome d'impressore, in caratteri rotondi, con titolo e attribuzione uguali alle altre, ma con indizi di affinitá maggiore alla Perugina e con qualche notevole novitá, di cui non si può stabilire la provenienza. La quarta ristampa si ebbe nel 1494 a Bologna per opera di Francesco De Regazonibus, che non fece altro se non ricalcare le orme dell'anonimo editore fiorentino, e di suo aggiunse soltanto il titolo isolato nel r. della prima carta: Libro chiamato Quatriregio del decorso della vita umana in terza rima.

Alle quattro edizioni quattrocentesche tennero dietro tre altre nel primo 500, e sono: quella impressa nel 1501 a Venezia da Piero da Pavia e discendente dalla Bolognese, quantunque presenti molti errori tipografici ed abbreviature in piú; quella uscita a Firenze nel 1508 per cura intelligente di Piero Pacini da Pescia, col titolo Quatriregio in terza rima volgare, cioè del Reame temporale e mondano di questo mondo etc., in caratteri rotondi e con la stessa attribuzione delle altre, ma anche con molte pregevoli silografie e con molti utili richiami in margine, e assai piú corretta e moderna della Fiorentina senza data, che l'editore sembra abbia tenuto presente; e la seconda ristampa veneziana del 1511, fatta da editore ignoto, scorrettissima e con indizi manifesti di discendenza diretta da quella del 1501.

Dopo codeste edizioni, il poema giacque dimenticato per piú di due secoli, e solo nel 1725 apparve una nuova ristampa pei tipi di Pompeo Campana di Foligno, in due volumi e col doppio titolo di Quadriregio o poema de' quattro regni di monsignor Federigo Frezzi etc., che, condotta con metodo affatto nuovo, pur non rispondendo a tutte le esigenze della critica moderna, superò tutte le altre. Di essa, che fu l'unica edizione del poema nel 700, dirò meglio in séguito. Basterá qui ricordare che, quando si volle nel secolo successivo ridare alla luce il Quadriregio, non si fece che riprendere il testo folignate e ripresentarlo quasi tal quale sotto una veste tipografica piú moderna. Cosí si ebbero i due Quadriregi, pubblicati nel 1839 dall'Antonelli di Venezia e inseriti, con lievi differenze, nella doppia collezione in formato diverso del suo Parnaso classico italiano.

II

La fortuna di questo poema non è tutta nelle sue redazioni manoscritte e nelle sue ristampe. Se nel sec. XVII esso non fu cosí letto e studiato come nei secoli precedenti, sorse appunto in quel tempo la famosa controversia sulla sua paternitá per opera del Montalbani, allora possessore del codice ora 989 dell'Universitaria bolognese. E l'affermazione gratuita di lui, che il Quadriregio fosse opera del Malpigli, passata dapprima inosservata, accolta poi senza discussione anche dai maggiori letterati del primo Settecento, provocò le piú ampie riserve da parte del Crescimbeni e suscitò un grande rumore e una grande attivitá nel seno dell'accademia folignate dei Rinvigoriti, fintanto che il Canneti, che ne era magna pars, pubblicò nel 1723 la sua nota Dissertazione, nella quale con abbondanza di argomenti restituiva il poema al suo legittimo autore Federico Frezzi. Seguí a breve distanza la ristampa folignate, cui si è accennato, giá preparata da gran tempo dalla stessa accademia con la collazione di piú codici ed edizioni precedenti, e accompagnata da un ricco corredo di commenti del Pagliarini, del Boccolini, del Canneti stesso e dell'Artegiani, che diede anche il primo e maggiore impulso alla ricerca delle fonti del poema frezziano. E si deve a quell'importante e raro lavoro collettivo del primo Settecento, se il poema tornò ad essere oggetto di studio da parte del Palermo, del Marchese, del Rajna e del Mazzi, che ne parlarono nei loro scritti; se nel 1878 fu compreso fra i testi spogliati e citati dalla Crusca nel suo Vocabolario; e se in séguito si discorse di esso piú ampiamente nelle opere di divulgazione letteraria e di critica, che sarebbe qui troppo lungo ricordare. Venne poi il Fornaciari a fare in una rivista fiorentina del 1883 un'ampia esposizione del Quadriregio messo in relazione col poema dantesco; e pochi anni dopo il Faloci-Pulignani, nella sua monografia su Le lettere e le arti alla corte dei Trinci, presentava i frutti di speciali ricerche da lui compiute sulla vita e l'attivitá letteraria del Frezzi. Si occupò, in séguito, del poeta folignate L. Frati nello scritto intorno a Nicolò Malpigli e le sue rime, aggiungendo nuovi argomenti alle stringenti conclusioni del Canneti sulla paternitá del poema; di lui si occupò ancora il Crocioni, esaminando i Dialettismi del Quadriregio; e una serie di studi diversi sull'opera frezziana pubblicava dal 1903 l'autore di questa Nota. Ricorderò fra essi: 1° I codici del Quadriregio (in Boll. di storia patria per l'Umbria, vol. X, fasc. III.); 2° La materia del Quadriregio (Menaggio, Baragiola, 1905); 3° Le edizioni del Quadriregio (in Bibliofilia, voll. VIII e IX); 4° Il P. C. Lodoli M. O. a proposito d'un codice del Quadr. da lui posseduto (in Miscellanea francescana del dicembre 1910); 5° Un'accademia umbra del primo Settecento e l'opera sua principale (in Boll. di storia patria per l'Umbria, voll. XIII-XVIII, pubbl. anche a parte in due volumi con aggiunte e indici speciali). Un nuovo e notevole contributo allo studio delle fonti frezziane diede L. F. Benedetto nel volume Il Roman de la Rose e la letteratura italiana, pubblicato nel 1910 ad Halle, in cui dedicava alcune pagine importanti alle relazioni tra la prima parte del Quadriregio e il libro francese. Nel 1911 B. Gilardi dava alla luce alcuni suoi Studi e ricerche intorno al Quadriregio di Federico Frezzi (Torino, Lattes), che veramente ben poco di nuovo e di esatto contengono. Poco dopo, chi scrive riuniva sotto il titolo di Varietá frezziane (Udine, Vatri, 1912) alcuni saggi sullo stesso poema giá sparsamente pubblicati, a cui aggiungeva una monografia su L'ottava edizione del Quadriregio nel carteggio fontaniniano (da lui consultato nella Capitolare di Udine), colmando cosí una lacuna del citato lavoro sull'Accademia folignate dei Rinvigoriti. Ed ora si annunzia una monografia di A. Pellizzari Riflessi danteschi nel Trecento, in cui si discorrerá a lungo dell'imitazione della Commedia nel poema frezziano.

III

Gli editori del 1725, come ho giá detto, non si contentarono di riprodurre il testo di una delle vecchie ristampe del poema, e per la prima volta ne costituirono uno nuovo, che riuscí molto diverso e migliore. A questo giunsero con l'esame del cod. Palat. 343 (allora Boccoliniano), dei due codd. Class. 124 (allora Estense) e 231, del cod. Bol. Univ. 989 (allora Beccariano), nonché delle edizioni precedenti (meno la Milanese, che non conoscevano), e specialmente della Perugina, facendo conoscere agli studiosi anche le varianti non accettate. Ma quel lavoro critico, certamente faticoso e in gran parte lodevolissimo, se piacque agli eruditi del tempo, non poteva accontentare in tutto e per tutto quelli di epoca piú a noi vicina, che vedevano in esso troppo ingentilito l'aspetto linguistico del poema rispetto alla rozzezza dialettale delle precedenti edizioni, e vi trovavano ancora molti luoghi oscuri, una punteggiatura spesso inesatta e altri difetti minori. Se quell'edizione insomma ha maggiore importanza delle altre, non può avere il valore di definitiva, anche per il limitato numero di codici consultati dal Canneti, che piú direttamente degli altri si occupò della critica del testo.

Ciò posto, sarebbe stato conveniente, nell'apprestare una nuova ristampa del Quadriregio, non curarsi piú che tanto della Folignate e procedere alla formazione d'un nuovo testo su altri manoscritti autorevoli. Ma questo avrebbe imposto una fatica tutt'altro che lieve (si tratta di 12101 verso!); né lievi sarebbero state le difficoltá per riunire e consultare in un luogo solo il maggior numero possibile di codici appartenenti a tante biblioteche italiane e straniere. Miglior partito, quindi, mi è sembrato quello di riprendere ora come base del nuovo il testo del poema edito nel 1725 e correggerlo col soccorso di altre lezioni non esaminate o non apprezzate da quegli editori, e coll'uso dei mezzi suggeriti dalla moderna critica filologica. E questo è ciò che io ho fatto scrupolosamente libro per libro, canto per canto, verso per verso.

Fra i codici del Quadriregio ancora inosservati e tuttavia importanti ho scelto quello segnato Conv. Soppr. C. I. 505 della Nazionale Centrale di Firenze e l'Ashb. 372 della Laurenziana, che sono dei piú antichi e meglio redatti. E li ho tenuti presenti dal principio alla fine del poema, ma specialmente in quei luoghi, in cui il Canneti accenna alle varianti dei codici da lui consultati. Per i luoghi poi piú oscuri e dove non credevo sufficiente codesto materiale a stabilire una lezione persuasiva, son ricorso anche ad altri manoscritti, e precisamente agli Ashb. 565 e 1287 e all'Angel. 1454. Ciò però non vuol dire che in molti altri casi, in cui il Canneti non ci ha dato le varianti dei quattro codici da lui esaminati, io non abbia fatto appello anche ad essi, com'era necessario.

Alla collazione dei codici suddetti ho creduto opportuno aggiungere quella di qualche antica ristampa. E poiché il Canneti non aveva tenuto conto della Milanese del 1488, pensai subito di metterla a profitto io; ma, oltreché questa non differisce, come ho detto dianzi, dalla Perugina, è anche rarissima, e credo che in Italia non si trovi che la copia posseduta dall'Ambrosiana di Milano. Piú vantaggioso, certamente, sarebbe stato tener presente la Fiorentina del 1508; ma anche questa è divenuta molto rara e di difficile consultazione. Dato quindi lo scarso valore della Fiorentina senza data, della Bolognese e delle due Veneziane, del 1501 e del 1511, non restava che servirmi della Perugina, che, per quanto giá studiata dal Canneti nel 1725, poteva essermi utilissima e illuminarmi su molte cose da lui trascurate. Infatti essa conserva piú genuina la forma dialettale delle parole umbre e quella umanistica delle parole derivate dal latino, e, pur essendo irta di errori d'interpretazione e di stampa, pur mancando di qualche terzina e di ogni segno d'interpunzione, pur avendo versi incompleti o troppo lunghi e rime inesatte, offre ancora una quantitá notevole di varianti, oltre quelle giá notate dal Canneti. Io l'ho esaminata con grandissima cura e me ne sono valso in numerosi luoghi, che qui indicherei, se non dovessi impormi una certa brevitá. Ho tenuto anche conto delle scarse correzioni apportate al testo del poema dalle due edizioni del 1839, che non sono però neanch'esse prive di nuovi errori.

A tutti codesti testi mss. e stampati devo se in molti luoghi il senso è stato chiarito o semplificato con l'uso prudente delle varianti, con l'inversione delle parti di alcune frasi, con l'aggiunta di qualche parola, che nella edizione folignate non si trova, e con la soppressione di altre, che il Canneti aveva creduto di conservare o d'inserire. Ecco un elenco sommario di versi, che hanno subito piú o meno notevoli cambiamenti di codesto genere:

Libro I, cap. I, vv. 9, 26; cap. III, v. 142; cap. IV, v. 147; cap.
VI, v. 52; cap. VII, v. 59; cap. VIII, vv. 117, 151, 153; cap. IX, vv.
48, 109, 122, 148; cap. XI, vv. 24, 30, 133; cap. XII, v. 70; cap.
XIII, vv. 21, 73, 87, 107; cap. XIV, v. 27; cap. XVI, v. 95; cap.
XVII, vv. 28-29, 32, 72, 108; cap. XVIII, vv. 25, 26, 33, 107.

Libro II, cap. I, v. 121; cap. II, vv. 58, 66; cap. III, vv. 52, 57, 61, 104, 126, 141, 147; cap. IV, vv. 6, 15, 70, 82, 93, 104, 134; cap. V, vv. 26, 88; cap. VII, vv. 109, 137, 157; cap. VIII, vv. 49, 65, 68, 71, 81; cap. IX, v. 116; cap. X, vv. 17, 29, 149; cap. XI, vv. 34, 44; cap. XII, vv. 53, 60, 143; cap. XIII, vv. 49, 144; cap. XIV, vv. 4, 12, 75, 118; cap. XV, vv. 35, 39, 99; cap. XVI, vv. 5, 39, 41, 50, 66, 90, 143, 152; cap. XVII, vv. 38, 51; cap. XVIII, vv. 16, 98; cap. XIX, vv. 22, 100, 102, 120, 170.

Libro III, cap. I, v. 119; cap. II, v. 70; cap. III, v. 28; cap. IV, vv. 19, 24, 36, 43, 54, 59, 99; cap. V, vv. 48, 55, 67, 82, 86, 122; cap. VI, vv. 10, 65, 74, 147, 157; cap. VII, vv. 17, 45, 69, 142, 152, 160; cap. VIII, vv. 3, 91; cap. IX, v. 126; cap. X, vv. 45, 70; cap. XI, v. 99; cap. XII, v. 39; cap. XIII, vv. 131, 155, 167, 168; cap. XIV, v. 76; cap. XV, vv. 27, 37; cap. XV, v. 157.

Libro IV, cap. I, vv. 26, 47, 132; cap. II, vv. 17, 24, 40, 45, 59; cap. III, vv. 42, 61, 92, 93; cap. IV, vv. 16, 71, 73, 79, 120, 135; cap. V, vv. 84, 100; cap. VI, vv. 72, 89, 93, 130, 150; cap. VII, vv. 40, 56, 122, 175; cap. VIII, vv. 59, 63; cap, IX, vv. 21, 76, 101, 105; cap. X, vv. 31, 33, 36, 61, 63, 125, 149; cap. XI, vv. 12, 16, 38, 66, 84; cap. XII, vv. 19, 33, 48, 52, 91, 158; cap. XIII, vv. 3, 16, 62, 74, 99, 141; cap. XIV, vv. 23, 26, 29, 130; cap. XVI, vv. 23, 87; cap. XVII, vv. 7, 8, 19, 27, 65, 140, 153; cap. XVIII, vv. 2, 61, 116, 138, 146; cap. XIX, vv. 50, 57, 61, 123, 132, 140; cap. XX, vv. 18, 29, 36, 49, 76, 87, 104, 160; cap. XXI, vv. 38, 84, 100, 110, 148; cap. XXII, vv. 17, 26, 35, 71, 77, 83, 93, 106, 113, 136.

L'elenco sarebbe molto piú lungo, se avessi voluto tener conto di tutti i versi, nei quali furono soppressi molti «e», «io», «e'» ed «in» (davanti a «pria»), di cui le edizioni del 1725 e 1839 son piene, e che ho ritenute inutili e ingombranti o che non erano nei testi precedenti. Cosí non vi ho compreso quelli, nei quali tutti i pronomi «le» sono stati cambiati in «gli» e gli articoli e i pronomi «il» hanno ceduto il posto ad «el», secondo i testi mss. e stampati piú antichi, né quelli in cui sono state ritoccate le rime.

Piú numerosi mutamenti ho introdotti nel Quadriregio per ciò che riguarda la forma, ora dialettale ora umanistica delle parole. Sotto questo aspetto si dirá che il poema frezziano ora riappare invecchiato in paragone delle ultime ristampe, che avean cercato di ringiovanirlo rispetto a quelle piú antiche. Ma che importa ciò, se esso, senza ritornare alla rozzezza delle prime edizioni, riacquista un aspetto piú confacente alla sua origine, al luogo, cioè, ed ai tempi in cui fu composto? A me insomma è parso che, date le condizioni del poeta, il quale visse molto tra la sua Umbria e la Toscana in quel periodo di transizione dal sec. XIV al XV, l'opera sua dovesse risentire, piú di quanto non risulti dall'edizione cannetiana, degl'influssi esercitati su lui dal natio dialetto e dall'umanesimo fiorentino. Del resto, se si leggono i codici e le prime edizioni del Quadriregio, vi si trovano moltissime parole dialettali umbre e moltissime altre di forma assolutamente latina; e se le prime sono talvolta frutto e conseguenza delle abitudini dei copisti e dei tipografi, non si può dire lo stesso delle altre. Io non ho preso dai testi consultati tutto ciò che avrei potuto mietere in questo doppio terreno: tanto è vero che qua e lá il lettore potrá incontrare le stesse parole ora riprodotte in una forma ora in un'altra; ma tutte le volte che ho trovato piú testi concordi o quasi nella riproduzione dialettale o latineggiante d'un vocabolo, io l'ho accettato e introdotto nella stampa. Un glossario spiegherá in fondo le parole umbre meno facili a comprendersi, e vi si terrá conto, fin dove sará possibile, delle Dichiarazioni del Boccolini e delle osservazioni del Crocioni sui dialettismi frezziani.

Cosí ho cercato di dare al testo del Quadriregio una forma piú genuina, o, per lo meno, piú corrispondente a quella antica. Inoltre ho tolto il maggior numero di maiuscole inutili; ho disteso molte forme verbali e mutato molte «e» in «ed»; ho stabilito una punteggiatura piú esatta e meno capricciosa; ho curato, per quanto ho potuto, l'ortografia delle parole e l'esattezza metrica dei versi, che spesso sciolgono i dittonghi ed escludono l'elisione, ed ho corretto tutti gli errori tipografici sfuggiti agli editori del 1725 e del 1839.

Dopo ciò che son venuto dicendo fin qui, ben pochi sono i versi del poema frezziano che in questa edizione abbiano conservato in tutto e per tutto l'aspetto che avevano nelle ultime. Esporrò ora alcune osservazioni ed avvertenze che riguardano versi e terzine speciali.

Libro I, cap. III, v. 8: Ho conservato la lezione della Folignate, sebbene nella Perugina se ne abbia un'altra: «che tu non l'abbia avuta al tuo desire»; v. 126: Ho tolto il secondo «con» della Folignate, perché non è necessario e del resto non si trova nella Perugina.—Cap. VI, v. 109: Noto che nella Perugina invece di «Alconia» si legge chiaramente «Meonia». Il Canneti, non registra questa variante ed io, per essermene accorto troppo tardi, non so se si trovi anche in qualche codice; ma si può ritenere per certo che almeno nel cod. Palat. 343, che serví a quella prima edizione, non manchi.—Cap. VIII, v. 47: Aggiungo un «e», che, se non è estremamente necessario, non sta male e del resto si trova nella Perugina.—Cap. XVIII, v. 22: Della doppia lezione «quarta-quinta» parla lungamente l'Artegiani nel suo commento del 1725 (cfr. Quadr., vol. II, pagg. 28-29). Il suo ragionamento molto persuasivo mi ha indotto a conservare la lezione «quarta» della Folignate, confermata anche dal cod. Conv. Soppr. c. I. 505 della Naz. Centr. di Firenze, sebbene io abbia letto «quinta» nel cod. Ashb. 372.

Libro II, cap. I, v. 101: È chiaro che qui si parla della leggendaria Arianna. La forma «Adriana», che io prendo dalla Folignate, si trova giá nella Perugina e forse anche nei codici osservati dal Canneti, che non aggiunge varianti. A me è toccato di leggere nei codici anche «Andriana» e «Dadriana». Del resto, il Petrarca scriveva «Adrianna» (cfr. Trionfo d'Amore), da cui forse viene la forma frezziana.—Cap. VI, vv. 16-21: Ho tolto la «e» al v. 19, sebbene si trovi anche nei testi da me consultati, ed ho punteggiato diversamente dal Canneti tutto il periodo, per renderlo meno oscuro e piú spedito.—Cap. X, v. 6: Ho cambiato il «nullo» in «nulla», sebbene i testi confermino quella lezione, perché essa non ha senso.—Cap. XI, v. 20: Il verbo «pon» sembra una corruzione di «son», che darebbe maggior chiarezza al concetto; ma io non l'ho mutato, perché esso può accordarsi con uno solo dei soggetti precedenti, e perché è scritto proprio «pon» nei testi da me veduti.—Cap. XV, v. 153: Non credo si debba leggere «Ser Vagnone», come legge il Canneti, perché bisognerebbe ammettere che quel gran delinquente fosse un signore rispettabile; meglio conservare la forma unita, quale si trova nelle prime edizioni, come se fosse tutto un nome.—Cap. XVI, v. 36: I codici da me visti e la stampa perugina hanno «gani» - «ganni» - «inganni» invece di «Giani» (cfr. su questa questione il mio cit. lavoro Un'accademia umbra ecc., I, 263). Del resto, il famoso traditore di Maganza è ricordato anche altrove dall'autore del Quadriregio (cfr. la pag. 315 di questa ristampa).—Cap. XVIII, v. 11: Sebbene i testi da me visti non abbiano l'articolo «'l» davanti a «sesto», ho creduto necessario aggiungerlo; vv. 115-118: Tutti i testi da me consultati, anche il Class. 124, hanno «Ai miseri» invece di «I miseri», che leggiamo nella Folignate; io ho creduto opportuno di riprender quella costruzione, perché, se non si accorda col verbo «n'han diletto», si collega meglio dell'altra con l'ultimo verso—Cap. XIX, v. 159: Sostituisco «mézze gelse» a «more gelse», perché cosí leggo in due codici e nell'ediz. perugina, e perché, significando in questo luogo «more molto mature», l'espressione è piú propria dell'altra.

Libro III, cap. III, v. 26: Conservo la lezione cannetiana «E 'l sesto prete grande», sebbene sembri piú logico dire «del sesto» ecc.; ma di cinque testi antichi nessuno mi autorizza a fare questo cambiamento; v. 83: Aggiungo una «d'» a principio, senza il consenso dei testi; v. 96: Invece della lezione «chi le è legge», i testi da me consultati hanno «chi lo reggie»-«chi li leggie»-«chi glitegge»: io ho sostituito la prima variante col combiamento del «lo» in «la» come piú logica.—Cap. IV, v. 71: In qualche testo antico manca «addietro», ed io lo tolgo, svolgendo il verbo, che nel testo perugino è «ritraea», e aggiungendo l'articolo «le»; v. 72: L'ultima parola, nel testo folignate, non rima coi versi precedenti; quindi correggo «se n'addette» in «se n'addetta», sebbene la Crusca non registri un verbo «addettarsi».—Cap. VI, v. 161: Correggo «rimettea» in «rimette» senza il consenso del testo perugino, perché questa forma verbale si collega meglio con quella che segue, e anche il verso ci guadagna.—Cap. VII, vv. 7-9: Per l'abbondanza dei «che» e dei «suo» in questa terzina, credo conveniente sostituire a due di queste forme, nel secondo verso, gli articoli relativi ai nomi.—Cap. X, v. 27: Io non credo che in questo verso si debba leggere «bionde danze», come si legge nella Folignate e in alcuni testi antichi: il verso dev'essere guasto: questa lezione non stará per «biondanze»?—Cap. XI, v. 72: Cinque codici da me consultati e la Perugina hanno «agazza»-«aggaza», invece di «aggrada», che si legge nella Folignate: io riprendo la prima forma, sebbene la Crusca non la registri; v. 110: la Folignate ha «fonno» (per «fondo»), le Veneziane del 1839 hanno «sonno», perché gli editori credettero che quello fosse un errore di stampa, mentre il Boccolini giustificava «fonno» nelle sue Dichiarazioni. I codici e la Perugina hanno sempre «sonno».—Cap. XII, v. 1: Conservo il «non», sebbene io non l'abbia trovato né nei codici consultati per la prima volta da me, né in quelli giá studiati dal Canneti, né nella Perugina. Noto che solo il cod. Angel. 1454, fra quanti ne ho esaminati, lo registra.—Cap. X, v. 89: È strano che il Canneti non abbia capito la necessitá di correggere «la man», che ha trovato in qualche testo ed anche nella Perugina, in «l'aman», che io ho letto chiaramente nel cod. Ashb. 372 e non mi son curato di cercare in altri codici: tanto mi pare esatta questa forma per il concetto. Ma piú strano ancora è che neanche gli editori del 1839 si sieno accorti dell'errore.—Cap. XIV, vv. 128-129: Ho chiuso questi versi in parentesi per la forma singolare degli aggettivi e dei verbi, che essi contengono e che non si accordano con quelli dei vv. 127 e 130. L'edizione perugina e il cod. Palat. 343 hanno nel v. 128 forme plurali, che sarebbero accettabili, se poi non seguisse il singolare «voli» nel v. 129.—

Libro IV, cap. I, v. 29: Contiene nelle stampe precedenti un «dolci», che si ripete nel verso seguente: per questo io ho tolto di mezzo questo aggettivo e messo in principio del verso un «e», che non mi pare sia fuori di luogo; v. 60: I testi da me confrontati dánno ragione alla lezione cannetiana «e letizia»; ma il senso diventa piú chiaro, mi pare, spostando la «e»; v. 65: Mi son permesso di allungare «opposto» in «opposito» per dare al verso una piú giusta misura.—Cap. IV, v. 39: Anche qui mi son permesso di aggiungere un articolo, che solo nel cod. Ashb. 372 ho trovato e che mi pare necessario; vv. 112-117: Il plurale verbale dell'ultimo verso, che si legge nei testi antichi forse per attrazione della parola «braccia» del penultimo, discorda col soggetto «pietá» del primo: per questo ho creduto di cambiare «sariano» in «fariale».—Cap. V, v. 13: Sebbene i testi antichi confermino la lezione cannetiana «a lei le», ho tolto il «le», che è un'inutile ripetizione.—Cap. VI, v. 139: Nella Folignate si legge «son le» con una prolessi di «a lei»: nella Perugina abbiamo ugualmente «songli»: io ho tolto il «le» e compiuto il verbo. Cap. VII, v. 144: La lezione folignate «quel testo», che pure si trova nei codici e nelle altre stampe, non si accorda col senso della frase: per questo l'ho ritenuta falsa correzione di «nel testo».—Cap. VIII, v. 27: Invece di «non lor dá» alcuni testi hanno «non lo dá», che è lezione meno chiara: io mi son permesso di invertire le parole della lezione folignate; v. 147: Al Canneti sfuggí la variante della Perugina «nell'arte di Gano», che trovo confermata da due codici e che mi sembra migliore della lezione, da lui accolta, «nell'arte d'ingano».—Cap. IX, v. 50: In tre codici e nella Perugina invece di «Farsaglia» si legge «Tesaglia»: la variante, che non fu registrata dal Canneti, si sarebbe potuta anche accettare, se la lezione folignate non fosse piú determinata; v. 64: La variante «tolosano», giá registrata dal Canneti, si trova anche in altri testi, che egli non vide, e nella Perugina, che non cita; vv. 101 e 110: In nessuno dei testi da me consultati mi è occorso di leggere le varianti errate del cod. Bol. 989 «Niccolò dalla Fava gentile» e «figliuolo» invece di «Mastro Gentile» e «Folegno», su cui si fonda principalmente la rivendicazione cannetiana del Quadriregio a F. Frezzi.—Cap. XII, v. 107: Della opportunitá del verbo «s'attosca» in questo luogo discussero giá il Boccolini (cfr. le sue Dichiarazioni, p. 231) e il Canneti (cfr. la sua Dissertazione, p. 75), che pensarono a una possibile corruzione della parola originaria; ma io non ho trovato alcuna variante che giustifichi quei dubbi; v. 140: Ho cambiato la preposizione «a» nel verbo «ha», che però non ho letto in alcun testo antico.—Cap. XIII, v. 61: Ho ridotto di mia iniziativa «appartien» a «pertien»; v. 77: Negli altri testi invece di «ingegnasi» si legge «si ingegna».—Cap. XIV, v. 132: Non avendo trovato varianti o correzioni al verso oscuro della Folignate «e la vittoria benché 'l mondo affliga», ho creduto di chiarirlo aggiungendo un «è» e separando le due parti di «benché».—Cap. XVI, v. 119: Mi è parso necessario aggiungere un «e», che nella Folignate e nei testi antichi da me consultati manca; v. 140: Il verbo «cresce» della Folignate non dá un senso chiaro; io gli ho sostituito «ci esce», che mi è stato molto opportunamente suggerito dal cod. Ashb. 372.—Cap. XVII, v. 140: Scegliendo la variante «ad ogni pace», che ho trovato in altri quattro codici, invece di «ad ogni parte», ho cambiato di mio l'«ad» in «di».—Cap. XVIII, v. 80: Il Canneti, stampando «il qual lí sopra appresso stava», non vide la lezione perugina «el qual appresso soprestava», che è confermata anche dal cod. Conv. Soppr. C. I. 505 di Firenze, e che io credo sia da preferirsi all'altra.—Cap. XIX, v. 38: Nella Folignate si legge «isgomentaro»; ma nella Perugina si ha «sgomentorono» e nel cod. fiorentino or ora indicato «e sgomentoro», dove par di vedere un resto di «se», che io ho creduto opportuno restituire.—Cap. XX, v. 150: La lezione folignate «degli atti miei lo 'nsegni e lo riveli» non è esatta; e, sebbene essa sia confermata da altri testi, ho ritenuto necessaria la correzione dei due «lo» in «lor».—Cap. XXII, v. 137: È evidente che qui «Zenit», che si legge nella Folignate, si deve compiere in «Zenitte», ed io l'ho fatto senza trovare il consenso dei testi antichi.

Codesto elenco dimostra anzitutto che, se l'editore del 1914 si è permesso di commettere sul testo del Quadriregio qualche coraggioso arbitrio, ciò avvenne soltanto per amore di esattezza e di chiarezza. Inoltre esso dimostra che nel poema restano ancora punti oscuri, che forse anche un esame piú largo dei testi antichi non riuscirebbe a chiarire. Cosí vi restano parecchi versi un po' zoppicanti, che la collazione dei codici e delle stampe non è bastata a rabberciare: tali sono, per es., i vv. 90 del cap. IV, 19 e 91 del cap. V del libro I; 40 del cap. VIII e 35 del cap. X del libro III; 120 del cap. IV, 39 del cap. XII, 128 del cap. XV, 167 del cap. XVIII, 35 del cap. XXI del libro IV, ed altri. Non sarebbe stato difficile dar loro un'andatura migliore con spostamenti, soppressioni ed aggiunte di parole; ma io non ho voluto farlo e non l'ho fatto.

E basti per il testo poetico. Ora occorre che io dica qualcosa intorno al titolo del poema, alla distribuzione dei capitoli ed ai sommari che li precedono. Chi ha letto l'elenco dei codici e delle ristampe, con cui si apre la presente Nota, avrá visto una certa varietá di titoli assegnati dagli amanuensi e dagli editori all'opera frezziana. Io ignoro se la parola Quatriregio o Quadriregio sia stata proprio coniata dall'autore: i codici piú antichi di data certa ci presentano altre intitolazioni, e, tra quelli del 400 senza data, non sappiamo quale sia il piú vicino all'autografo perduto. Ma sta il fatto che, sebbene quel nuovo vocabolo non sia di buona lega (sarebbe stato meglio dire Quadriregno, come pensava anche il Canneti), esso si trova giá in testa all'Ashb. 1287 e alla prima edizione, e fu accolto anche dai dotti editori del 1725: sarebbe quindi fuori di luogo troncare ora una tradizione letteraria cosí radicata. Per questo io ho creduto conveniente conservare inalterato questo titolo, spogliandolo però del secondo, che ha nella Folignate e che mi sembra inutile.

Molto piú gravi si presentavano le altre questioni. Tutti i codici e le edizioni del Quadriregio, ad eccezione dell'Angel. 1454, assegnano a questo poema non meno di 74 capitoli. Ma, se quel ms. ne ha uno di meno rispetto agli altri, non è detto perciò che questi siano completi. A me, dopo tante letture dell'opera frezziana, sembra ognora piú strano il passaggio dal capitolo 52° al 53°, cioè dal discorso di Sardanapalo, con cui quello si chiude, alla descrizione del viaggio verso il paradiso terrestre, con cui questo si apre: passaggio che contrasta assolutamente, per mancanza di naturalezza, cogli altri precedenti da un regno ad un altro, e che è tanto piú brusco, in quanto nelle prime terzine del cap. 53° si richiamano cose e fatti, che non si trovano prima neppure accennati. Spinto quindi dal dubbio che tra quei due capitoli l'autore ne avesse scritto un altro, che le diverse edizioni non ci hanno tramandato, io ho cercato di rintracciarlo in qualche codice dei piú antichi; ma le mie ricerche sono state vane. Forse quel capitolo si sarebbe potuto trovare in qualcuna delle trascrizioni che sono definitivamente perdute.

Ora questi 74 capitoli, che nelle ristampe sono ugualmente distribuiti, nei codici hanno una ripartizione affatto diversa. Su quindici, che io ne ho potuti esaminare, otto (cioè il Bol. 989, l'Ashb. 565, il Class. 124, l'Ottobon. 2862, il Class. 231, il Magliab. II. II. 34, il Lucch. 1346 e il cod. Cora) assegnano 18 capp. al l. I, 19 al II, 17 al III e 20 al IV; altri sei (cioè il Fiorent. Conv. Sopp. C. I. 505, l'Ashb. 372, il Palat. 343, l'Ashb. 1287, l'Angel. 1454 e il Palat. 344) assegnano 18 capp. al l. I, 19 al II, 15 al III e 22 al IV; ed uno (cioè il Segn. XIX) assegna 18 capp. al l. I, 19 al II, 18 al III e 19 al IV. Mentre quindi codesti codici sono tutti d'accordo sul numero dei capitoli che costituiscono i primi due libri del poema, sono in gran disaccordo su quello degli altri due. E poiché la concorde distribuzione dei capitoli dei primi due libri risponde esattamente alla partizione voluta dal poeta, su di essa non occorre discutere; ma, per ciò che riguarda le ultime due parti, sorgeva necessariamente la questione: Quale delle tre maniere di distribuzione si doveva introdurre nella presente ristampa? Si doveva accettare senz'altro la distribuzione tradizionale delle dieci edizioni, che fa capo a quella del secondo gruppo di codici? Certo la tradizione è un argomento molto valido, ma in questo caso non è decisivo: quante tradizioni non sono basate su errori iniziali? Se quindi questo argomento non fosse suffragato da altri, la distribuzione giá consacrata nelle stampe avrebbe dovuto cedere il posto a quella del primo gruppo di codici, che è rappresentata da un maggior numero di manoscritti. Ma tanto questa quanto quella dell'unico cod. Segniano non si conciliano affatto con la partizione generale del poema, poiché i capp. 16, 17 e 18, che quegli amanuensi includono nel l. III, parlano del paradiso terrestre e del regno della Temperanza, che sono indubbiamente materia del l. IV. All'assurditá di quelle due maniere di distribuire i capitoli degli ultimi due libri del Quadriregio si oppone la razionale esattezza dell'altra, e soprattutto per questo ho seguito anche qui la tradizione.

Quanto ai sommari, è notevole il fatto che giá il Canneti aveva lasciato da parte quelli, sempre uguali, delle stampe precedenti e ne aveva introdotti di nuovi e piú brevi. Donde egli traesse questi sommari, cosí diversi dagli antichi, non ci ha detto in nessuno scritto. Ma è facile supporre che il Canneti, desideroso di pubblicare argomenti chiari e concisi ad un tempo, si servisse soprattutto di quelli che trovava nei due codd. Classensi e che rispondevano meglio degli altri al suo intento, e li adattasse qua e lá al gusto dei suoi tempi: cosí ho desunto da un confronto, che ho potuto fare tra i due codici e la stampa folignate. Forse codesti sommari non sempre soddisfano a tutte le esigenze, perché non sempre ci dicono tutto ciò che i vari capitoli del poema contengono; ma io non ho voluto sostituir loro altri tratti da qualche codice non esaminato dal Canneti, per la semplice ragione che non si sa se il Frezzi abbia lasciato coi versi anche le rubriche, e quale sia, tra le diverse forme che ne abbiamo, la piú antica. Riproducendo però gli argomenti cannetiani, ne ho ritoccato l'ortografia e l'interpunzione e ne ho eliminato le lettere maiuscole non necessarie.

La numerazione marginale dei versi e l'indice analitico dei nomi e delle cose notevoli, che ho aggiunto alla presente ristampa del poema frezziano, ne renderanno, spero, piú facile l'uso agli studiosi.

GLOSSARIO

Abbrusciò, bruciò

addovagliava, uguagliava

alzôn, alzarono

andonno, andarono

arroscia - arrosciò, arrossa - arrossò

attura - atturi, ottura - otturi

bambace, bambagia

basci (n. e v.), baci

biastema (n.), bestemmia

biastimante - biastemi - biastimò, bestemmiante - bestemmi - bestemmiò

biastimatore, bestemmiatore

breglia, briglia

cambra, camera

catarcione, catorcio

ceneraccio, sedimento

colcasse, coricasse

comincionno, cominciarono

como, come

corría - corrisse - corson, correva - corrésse - corsero

crepaccio, rottura rumorosa

crese - creso, credette - creduto

crista, cresta

daesse, desse

denno, devono

dinar, denaro

enco, incubo

fo - foi - fûn e funno - fusse - fussono, fu - fui - furono - fossi e fosse - fossero

fracido, fradicio

fuline, fuliggine

fume, fumo

grillanda, ghirlanda

groppoloni, con la groppa in su

guizza, vizza, sciupata

ingavicchiai, intrecciai

logra (v.), logora

'manza, amanza o innamorata

mossono, mossero

none, non

odíe, udiva

orche, spalle

pasi, lunghezze ottenute col distendere ambe le braccia

pieco, pecora

pigliôn, pigliarono

piobbe, piovve

pioti, lenti

polsa, freccia

portôn, portarono

presto (in), prestito (in)

puse - pusono, pose - posero

ra'ca e raica, radica o radice

robba, ruba

roscio, rosso

sacci e saccia - saccio, sappi - so

salea - salse, saliva - salí

sbaviglia, sbadiglia

'sciuccava - 'sciuccando - 'sciuccòe, asciugava - asciugando - asciugò

sedíen, sedevano

sentéa, sentiva

siccomo, siccome

smongono - smonti, smungono - smunti

so' - sonno, sono (I. p. s.) - sono (3. p. p.)

solcoe, solcò

soppresce (n.), soppresse

spoglio, pelle squamosa

staccio, vaglio

staesti, stesti

statera, stadera o bilancia a mano

stenno, stettero

'sto, questo

tennon, tennero

testo, cotesto

troglie, sudicerie

Vagniel, Vangelo

verchione, chiavistello

vicenna, vicenda

visson, vissero

voglie (v.), volge e volga.

INDICE DEI NOMI

Abacuc, 369.

Abele, 116, 215.

Abraam, 98, 116, 258.

Abstinenza (person.), 237-39.

Acchilogo, 143.

Accidia (person.), 297.

Accorso (?), 118.

Accorso fiorentino, 340.

Acheronte, 111, 128.

Achille, 4, 55, 151, 180, 185, 245, 306.

Acteone e Atteone, 13, 24, 221.

Adamo, 113, 116, 182, 278-80.

Adorno Antoniotto, 161.

Adriana (Arianna), 100.

Affrica, 248, 308.

Agnello (dell') Ioanni, 162.

Agnese (santa), 348.

Agnolo da Rieti, 118.

Agone (campo d'), 240.

Agosto (imperatore), vedi Ottaviano.

Aguto Ioanni, 186.

Alano, 348.

Alardo, 206.

Alberto Magno, 319.

Alborea, 131, 250.

Alcide, vedi Ercule.

Alconia, 33.

Alessandria, 176.

Alessandro (Magno), 192, 289, 306, 339.

Aletto, 175.

Alfea, vedi Pisa.

Alpi, 123.

Alterezza (person.), 144.

Amasa, 174.

Amazona, 301.

Ambrosino (Visconti), 185.

Amore (person.), vedi Cupido.

Anania, 93.

Anna (santa), 296.

Anniballo (Annibale), 308.

Anselmo (sant'), 348.

Anteo, 198.

Antiochi (Antioco re), 339.

Antioco (prete), 234.

Antonio (sant'), 174.

Apocalisse, 127, 235.

Apollo e Febo, 3-7, 9, 15, 16, 26, 29, 32, 43, 50, 51, 83, 92, 97, 99, 115, 117, 154, 212, 263, 313, 314, 324, 386 — chiamato Cilleno, 53, 188, 359.

Appiano (d') Iacopo, 175, 182.

Arabia, 146.

Architofelle, 155.

Aretusa, 283.

Argo (dai cento occhi), 62.

Argo (nave), 190.

Aristotele, 268, 319 — Etica, 157 — Fisica, 160.

Arno, 248.

Arnoldo (da Rieti), 118.

Artus (re), 308.

Asia, 93.

Asma (person.), 136.

Assiria, 146.

Assuero, 192.

Astrea, 63, 104, 288, 307, 327, 331, 336, 341, 342.

Astreo, 326.

Atalante (Atlante), 16, 84.

Atreo, 117.

Augustino (sant'), 348.

Aurora (person.), 87.

Austro, 55, 203.

Avarizia (person.), 103, 224, 229, 326.

Averois, 319.

Avicenna, 135, 320.

Azzo (da Casalmaggiore), 341.

Babele, 207.

Bacco e Lieo, 257, 258, 271, 291, 318.

Baldo (perugino), 340.

Barnabò, vedi Visconti.

Bartolo (da Sassoferrato), 340 — Lettura, id.

Batista di Senso, 120.

Batista (Il), vedi Ioanni B. (san).

Bellona, 184.

Benci Giorgio, 224.

Bencio da Fiorenza, 224.

Bernardo (san), 348.

Biastema (person.), 244.

Boezio, 348.

Boglione Gottifredo, 308.

Bollicame, 168.

Bonzo (prete), 374.

Bordone (san), 134.

Bretagna, 304.

Bruno (del) Francesco, 131.

Bruto, 330.

Buonagiunta (pisano), 256.

Cadmo, 232.

Caino e Caini, 110, 162, 176.

Callisto (catacombe di san), 348.

Calabria, 283.

Camilla, 301.

Camillo, 308.

Camollia, 259.

Cancro (costell.), 108.

Capitolio, 307, 339, 347.

Caribdi, 128.

Caritá (person.), 369, 370, 377, 380.

Carlomagno, 308.

Carone (Caronte), 129, 130, 132, 133, 352.

Cartago (Cartagine), 245, 308.

Catalogna, 250.

Catarro (person.), 136.

Caterina (santa), 348.

Catone, 307.

Cautela (person.), 324.

Cecilia (santa), 348.

Cerbero, 10, 78, 112, 129, 218-20, 306.

Cerere e Ceres, 76, 254, 258, 271, 291.

Cesare Agosto (titolo imperiale), 306.

Cesare Agosto (imperatore), vedi Ottaviano.

Cesare (Giulio), 192, 205, 289, 306, 317.

Cherubi, 385.

Chiesa (cattolica), 259, 309, 343, 348, 350, 351, 372.

Chirone, 184.

Ciaffo di Camollia, 259.

Cilleno, vedi Apollo.

Cincinnato, 308.

Cino (da Pistoia), 340.

Cipri (Cipro), 176.

Ciprigna, vedi Venere.

Circe, 105, 170, 173, 301.

Circumspezione (person.), 324.

Citarea, vedi Venere.

Ciuola (monna), 259.

Clemenza, Mansuetudo e Virtú mansueta (person.), 250, 288, 293, 294.

Cloto, 302.

Cocito, 109.

Cola di Renzo, 161.

Colco, 214.

Coliseo, 171.

Colonna (famiglia), 161.

Concupiscenza (person.), 91, 268.

Continenza (person.), 291, 295.

Copia (person.), 233.

Cortona, 249.

Creusa, 86.

Crisostomo (san Giovanni), 348.

Cristo, 116, 178, 235, 236, 241, 276, 297, 308, 311, 312, 344, 347-51, 353, 359, 366 — chiamato Agnello e Agno celeste, 240, 279, 298; — alto Emanuele, 116; — Erede di Dio, 299; — Figliuolo di Dio, 116, 298, 361; — Frutto di Maria, 370; — Iesú Salvatore, 179, 350; — «Quel che a noi si diede», 276; — Signore, 116, 228, 280, 294, 348; — Verbo eterno, 361.

Crudeltá (person.), 104.

Cupido e Amore, 3-8, 11-13, 15, 17, 18, 20, 21, 29, 37, 39-43, 46, 47, 49, 50, 53, 56, 57, 59, 60, 63-66, 69-74, 76, 80-82, 84, 85, 87-91, 93, 94, 98, 99, 144, 166, 188, 254, 262-64, 268, 291, 317, 368, 377.

Curio, 238.

Curzio, 303.

Dafne, 263.

Dalida, 301.

Daniele e Daniello (profeta), 297, 369.

Danubio, 283.

Dario (re), 192.

David, 198.

Deci (i), 308.

Deianira, 185.

Demostene, 318.

De profundo (preghiera), 370.

Diana, 5, 6, 11-14, 16, 17, 19, 22-36, 39, 41, 44, 46, 47, 57, 60, 81, 181.

Dido e Didone, 3, 99.

Dio, Deo e Iddio, 18, 20, 41, 49, 53, 63, 76, 97, 98, 101, 105, 106, 108, 110, 113-116, 119, 120, 123, 126, 127, 130, 136, 160, 164-167, 171-74, 176, 178-80, 190-92, 197, 201, 204, 207-10, 215, 218, 229, 233-38, 241, 244, 251, 254, 258, 260, 262, 264, 265, 267-69, 275-80, 285, 287, 290, 293, 295-99, 302, 307, 309-12, 320, 321, 323, 327-29, 332, 334-36, 338, 339, 342, 344-46, 348-51, 354, 355, 358, 360-66, 368, 370-75, 377-79, 381-384, 386, 387 — chiamato primo Amore, 368; — primo Artista, 384; — Bene supremo, 209, 269, 364, 374, 377, 381, 387; — «Colui che tutto puote», 281; — Creatore, 106, 114, 165, 208, 378, 381; — Dominus, 369; — Duce, 264;—Fattore, 115, 291,339; — Giudice supremo e del tutto, 112, 115; — Iove, 298; — Maestro del paradiso, 275; — Mastro del mondo, 120; — Monarca, 117, 157, 265; — Operante divino, 356; — Osanna, 293; — sommo Patriarca, 293; — primo Prince, 244; — Re del mondo, 215, 240, 328; — Signore, 130, 139, 148, 170, 240, 276, 293, 295, 297, 298, 354, 360, 368, 370, 373; — Vertú suprema, 244.

Diomede, 187.

Dionisio e Dionisi, 339, 358.

Dite, 112, 168, 169.

Docilitá (person.), 324, 325.

Dolore gridante ecc. (person.), 136.

Domiziano, 253.

Eaco, 178.

Ebetudo (person.), 261.

Eco, 86, 87, 231.

Egina, 140.

Egitto, 307.

Elia, 278, 280, 283-85.

Elicona, 316.

Enea, 3, 86, 268, 307, 327.

Enoc, 278-80.

Eolo, 75-78.

Epicuro, 261.

Equitá (person.), 324, 336, 337.

Ercolano (sant'), 164.

Ercole e Alcide, 4, 10, 99, 218, 219, 226, 306.

Eresia (person.), 144.

Erubescenza (person.), 292.

Erode, 235, 242.

Etiopia, 283.

Ettore, 245, 304, 306.

Eva, 116, 179, 278.

Ezechiele, 312.

Fabi (i), 308.

Fabricio e Fabrizio, 62, 205, 294.

Fagiola (della) Uguccione, 141.

Falerno (vino), 258.

Fantasia (person.), 144.

Farnese Piero, 373.

Farsaglia, 317.

Febbri (person.), 136.

Fede (person.), 136, 343, 359, 361, 368.

Feliciano (san), 348.

Fetonte, 29, 56, 283.

Fialte, 192.

Fiammegna, 93.

Fiandra, 81.

Filena, 5-7, 10-16, 18, 19, 21, 22.

Filomena (Filomela), 25.

Fineo, 146.

Fiorenza, 81, 224.

Flamminea, 92, 93.

Flegetonte, 168, 169.

Fleias, 154.

Foligno e Folegno, 93, 319.

Fontebranda, 259.

Forteguerra da Lucca, 152.

Fortezza e Fortitudo (person.), 287, 300, 304, 305, 308, 311, 314.

Fortuna (person.), 158, 159, 161, 263, 294, 300, 303.

Francesco (Casali) da Cortona, 249.

Francia, 81, 306, 308.

Frenesia (person.), 135.

Froda (person.), 104, 227.

Furie (le), 174, 243, 247, 248.

Gabriello (arcangelo), 236.

Galieno, 320.

Gambacorti (de') Piero, 176, 182.

Gange, 283.

Ganimede, 123, 205.

Gano (di Maganza) e Gani, 174, 315.

Genesis, 321.

Genova, 161.

Gentile (da Foligno), 319.

Geone, 283.

Gerione, 10.

Giotto, 347.

Giovanni Andrea (del Mugello), 340 — Clementine, Novella, Sesto, ivi.

Giove, vedi Iove.

Giovenale, 318.

Giuda, vedi Iuda.

Goliatte (Golia), 198.

Gomorra, 98, 293.

Gorgo e Gorgone, 98, 175, 184, 220.

Gratitudine (person.), 334.

Grecia, 307.

Greco (vino), 259.

Gregorio (san), 119, 150, 340.

Gualterotto (Lanfranchi), 182.

Guerra (person.), 104.

Iacchetto (re di Cipro), 176.

Iano (Giano), 307.

Iasone e Iasoni, 214, 339.

Ibero, 283.

Icomica (person.), 321.

Idropisia (person.), 136, 241.

Ieremia, 312.

Ignazio (sant'), 179.

Ilario (sant'), 348.

Ilbina, 54, 56-59, 63, 87, 91.

Ilionne (Troia), 347.

Imbro, 185.

Immania (person.), 244.

Immondizia (person.), 261.

Inganno (person.), 104.

Innocenza (person.), 267.

Intelligenza presente (person.), 323.

Inumanitá (person.), vedi Immania.

Invidia (person.), 45, 46, 48, 83, 103, 213, 215, 219, 223, 224.

Ioab, 174.

Ioan d'Azzo, 186.

Ioanna (I, regina di Napoli), 161.

Ioanni Batista (san), 261, 295.

Iobbe, 106, 165.

Iole, 10.

Ionia, 81, 84-86, 88, 89.

Iosef (ebreo), 215.

Iove, 3, 9, 25, 30, 31, 40, 47, 51, 52, 57, 59, 70, 72, 73, 82, 106, 108, 146, 159, 160, 191, 205, 264, 324, 331, 359 — chiamato Tonante, 26, 123.

Ipocrate, 320.

Ipodria, 32, 33.

Ippolito, 24, 41.

Ira (person.), 243-245, 251.

Iris, 33, 57.

Isac, 116.

Isidoro (sant'), 348.

Israele e Israelle, 116, 155.

Issione, 160.

Italia, 210, 245, 248.

Iuda e Giuda, 19, 110, 215, 228, 241.

Iudi (come Iuda), 174.

Iuno e Iunone, 22, 24-28, 30-36, 44-50, 52, 53, 57, 58, 66, 72, 211, 331 — chiamata Saturnia, 51.

Iustiniano (imperatore), 340.

Iustizia (person.), 171, 328, 331, 336, 376.

Laberinto e Labrinto, 172, 267.

Lanfranchi (famiglia), 182.

Laterano, 259.

Latona, 30, 36, 385.

Latria (person.), 334, 338.

Laurenzio (san), 348.

Lazzaro, 234, 258.

Leda, 3.

Legge antica e nuova, 267.

Leonina (cittá), 259.

Licaona e Licaone, 98, 172.

Lico, 211.

Lieo, vedi Bacco.

Lippea, 27-32, 34-38, 40-43, 45, 46, 48-58.

Lisbena, 25, 27-32, 34, 36, 47.

Lisna, 33, 34.

Lotto e Lotte (Lot), 98, 256.

Luca (san), 258.

Lucano, 140, 317.

Lucca, 141, 151, 162.

Lucia (santa), 348.

Lucrezia (romana), 207.

Luna (divin.), 181.

Lussuria (person.), 267, 269.

Macario (san), 134.

Maccabeo, 366.

Maddalena (la), 293, 365.

Maiestá divina, 190, 342, 376.

Magna (La), 123.

Magnanimitá (person.), 303.

Mal di fianco (person.), 135.

Malizia (person.), 104, 239.

Mal podagrico (person.), 135.

Mal che par la carne arda (person.), 136.

Mamone e Mammone, 169, 170, 236.

Margherita (santa), 348.

Maria (santa), 299, 350, 369 — chiamata Madre di Cristo, 236;
  — Regina del cielo, 370.

Marta, 296.

Marta (santa), 348.

Marte, 31, 92, 117, 149, 163, 184, 305, 307, 322, 324.

Matteo (san), 280, 372.

Medea, 250.

Medone, 185.

Medusa, 9, 39, 59, 175, 176.

Megera, 175, 244, 248.

Memoria (person.), 323.

Menzogna (person.), 229.

Mercurio, 205, 313, 386.

Michele (san), 116.

Michelina (santa), 296.

Mida, 234.

Minerva, Palla e Pallade, 54, 56-61, 63, 64, 84, 88, 90, 91, 93, 94, 97-99, 101, 107-10, 113, 118-20, 123, 124, 126, 129, 130, 132-34, 136, 138, 139, 144, 146-49, 153, 155, 158, 159, 163, 164, 169-71, 173, 178, 179, 181-84, 186, 187, 189, 197, 198, 200, 202, 203, 208, 212, 217-20, 226-28, 235, 240, 249, 251-54, 257, 259-61, 268, 271, 276, 277, 287, 301, 314, 326.

Minos, 178.

Miserere (preghiera), 370.

Modestia (person.), 292.

Moises, 117.

Mollizia (person.), 238.

Mongardo Annichino, 185.

Mongibello, 71, 104.

Morbi (person.), 135.

Moriale (fra), 185.

Morte (person.), 131, 138, 139, 224, 225.

Musa (Dante), 204.

Muzio (Scevola), 369.

Nabucodonosor, 207, 342.

Natura (person.), 81, 104, 255, 260, 264, 267, 269, 283.

Negligenza (person.), 238.

Nembrotte, 207.

Nerone, 253.

Nesso, 185.

Nettuno, Neptuno e Nettunno, 9, 79, 104, 177, 251, 384.

Nilo, 283.

Nisa, 318.

Noè, 53, 116, 265.

Nummo, 178, 179.

Observanzia, 334.

Oceano, 9, 128, 212, 283.

Olimpo, 25, 48.

Omero, 317.

Onestá (person.), 292.

Opinione falsa (person.), 143, 144.

Orazio (Coclite), 302.

Orazio (poeta), 318.

Orfeo, 205, 318.

Oriente, 306.

Origene, 136.

Orlando, 232.

Orse, 108.

Ossa, 191.

Ostiense (Arrigo da Susa), 340.

Ottaviano, Agosto e Cesare Agosto, 150, 192, 289.

Ovidio, 317.

Palla e Pallade, vedi Minerva.

Pallia, 25, 27, 28, 47.

Panfia, 76.

Pantasilea, 301.

Parche (le), 139.

Parcitá (person.), 291, 295.

Parigi, 206.

Parmenide, 320.

Parnaso, 15, 313, 318, 384.

Pasife, 185, 267.

Patto (divino), 53.

Paulino (san), 376.

Paulo e Polo (san), 93, 178, 343, 347, 359, 361, 386.

Pazienza (person.), 304.

Peloro, 191.

Perseo, 59, 184.

Persia, 92.

Persio (poeta), 318.

Perugia, 92, 164, 306.

Pier d'Alborea, 131.

Pietá (person.), 324.

Pietro (re di Cipro), 176.

Pietro (san), 92, 107, 178, 236, 344, 347, 366, 372.

Pigmalione, 234.

Pirro, 180.

Pisa e Alfea, 54, 141, 162, 175, 176, 182.

Pistoia, 340.

Pitagora, 320.

Platone, 319.

Pluto e Plutone, 9, 76, 78, 104, 169, 170, 178, 179, 181, 264, 318.

Po, 283.

Policleto, 347.

Polisena, 180.

Polmonia (person.), 136.

Pompeo, 192, 210, 307, 317.

Povertá (person.), 124, 224.

Presagio (person.), 154.

Priamo, 192, 339.

Principati, 385.

Priscille (catacombe di santa), 348

Proserpina, 9, 76, 180.

Provvidenza (person.), 323, 324.

Prudenza e Prudenzia (person.), 313, 317-19, 321, 346.

Quirino, vedi Romulo.

Radamanto, 178.

Ramondo (fra'), 340 — Decretali, ivi.

Regulo Marco (Attilio), 302.

Remo, 177.

Reno, 283, 306.

Riccardo (da san Vittore), 348.

Rieti, 118.

Rifa, 11, 12, 14, 18, 20.

Roma, 26, 81, 111, 161, 192, 205, 222, 240, 266, 268, 305-08, 317, 339, 371, 375.

Romulo e Quirino, 210, 222, 223, 307.

Saba, 279.

Sabello, 371 — Carlo figlio e Lelio nipote di S., ivi.

Sabina (regione), 307.

Salamone e Salomone, 55, 268, 279, 339.

Salaria (via), 348.

Sansone, 161, 301.

Sapienza (person.), 323.

Sardanapallo, 269.

Satan, Satana e Satanasso, 100-02, 105, 106, 109, 110, 113, 116, 179, 187-90, 192, 198, 199, 202, 207, 208, 235, 291, 326, 339, 344, 384.

Saturnia, vedi Iuno.

Saturno, 63, 77.

Saul, 150, 155.

Scala (della) famiglia, 177.

Scala (della) Mastino e Mastini, 162, 176.

Schirone, 119.

Scilla, 128.

Scipio e Scipione, 62, 192, 205, 210, 222, 307.

Scrittura sacra, 346, 351, 352.

Sdegno (person.), 144, 244.

Seneca, 235, 320.

Servagnone, 172.

Sesto (Tarquinio), 207.

Seth e Set, 116, 279.

Sibilla, 359.

Sicilia e Trinacria, 161, 283.

Signoria (person.), 250, 251.

Silla, 250, 252.

Simon mago, 207, 345.

Sionne, 347.

Sirena (la), 25.

Sisifo, 148.

Sisto (san), 348.

Socrate, 320.

Sodoma, 98, 293.

Sogni (person.), 154.

Sole, 3, 313, 386.

Solerzia (person.), 324.

Sonnolenza, 238.

Soprasia (monte), 93.

Sospizione (person.), 144.

Spello, 92.

Spene e Speranza (person.), 50, 144, 358, 359, 361, 362, 364, 368-70, 374.

Spirito santo, 350, 362, 363 — chiamato «Colui che eternamente spira», 363.

Stati, 288.

Stazio, 318.

Stefano (santo), 348.

Stige, 146.

Superbia (person.) 251, 285, 327.

Taddeo (Pepoli), 341.

Tanai, 283.

Tantalo, 255.

Tarquinio (il superbo), 207.

Tarso, 242.

Taura, 65, 69, 73, 74.

Tauro (costell.), 114.

Tebe, 248.

Temperanza (person.), 284-86, 290, 301, 314.

Tepidezza (person.), 238.

Terenzio, 318.

Terrasanta, 308.

Teseo, 100, 177, 219.

Tesifone, 175.

Tessaglia, 248, 307.

Tevere, 98, 302.

Tieste, 177.

Timia, 92.

Timore (person.), 144.

Tirena, 32.

Tito Livio, 317.

Titone, 87.

Tizio, 133.

Tomas d'Aquino (san), 348.

Topino, 92, 98.

Torquato (Manlio), 308.

Toscana, 161.

Tosco Piero, 256.

Toso Benigno, 375.

Traiano, 289.

Trieve (Trevi), 92.

Trinacria, vedi Sicilia.

Trincia e Trinci (famiglia), 93.

Trinci, Trince, 309.

Troia, 86, 92, 192, 248, 266, 305, 306, 342.

Troni, 385.

Tros, 92, 93.

Tullio (Cicerone), 317.

Ugo (cardinale), 348.

Uguccio (Casali) da Cortona, 249.

Ulisse, 25, 301.

Umbria, 98.

Umiltá (person.), 285, 298, 300.

Urbano (VI, papa), 309.

Ursenna, 27, 28.

Vagniel, Vangelio e Vangelo, 167, 258, 312, 333.

Varri (Varrone), 339.

Vaticano, 348.

Vecchiezza (person.), 134.

Vencioli (famiglia), 164.

Vendetta (person.), 335.

Venere e Venus, 53, 56-58, 63, 64, 72, 74-76, 79-83, 205, 264, 271, 291 — chiamata Ciprigna, 57, 59, 80, 81, 86; — Citarea, 58, 64, 82, 86, 268, 327.

Veritá (person.), 336-38.

Verona, 176.

Vesta, 268.

Vincenzio (san), 348.

Virgilio, 103, 317, 359.

Virtú e Vertudi (person.), 326, 342.

Vizi (person.), 327.

Vulcano, 51, 55, 65-67, 69-74, 98, 191, 218, 264.

Zefiro, 313.

Zenitte, 386.

Zenone, 320.

Zodiaco, 385.

INDICE

LIBRO PRIMO
DEL REGNO D'AMORE

I. Come all'autore apparve Cupido, e questi lo condusse nel regno di Diana, ove a' preghi del medesimo ferí la ninfa Filena pag. 3

II. Nel quale l'Amore prova per molti esempli che nessuno può far resistenza a lui ed alle sue saette » 9

III. L'autore vien tradito da un satiro, mentre cerca Filena, che, aspramente da Diana punita, in quercia si trasmuta » 15

IV. Lamento dell'autore sopra la perduta Filena: promessa di piú bella ninfa fattagli da Cupido » 20

V. Dell'avvenimento di Giunone invitata alla festa di Diana » 25

VI. Della caccia del cervo per la gara della ghirlanda tra
Lisbena e Lippea » 30

VII. Come la ninfa Lippea fu coronata della ghirlanda, che avea vinta » 35

VIII. Come Cupido, irato con la ninfa Lippea, la ferí d'una saetta d'oro » 40

IX. Come la ninfa Lippea si duole che le convien partire » 45

X. Nel quale l'Amore discorre delle varie impressioni dell'aere con l'autore, a cui da Venere vien promessa la ninfa Ilbina » 50

XI. Come la dea Minerva discese e seco menò Ilbina ninfa » 55

XII. Come la dea Minerva racconta all'autore l'eccellenza del suo reame » 60

XIII. Come l'autore trova una ninfa chiamata Taura, la quale gli rende ragione di molti fenomeni » 65

XIV. Come Cupido fece battaglia con Vulcano e come a prego di Venere Giove discese dal cielo e pose pace fra loro » 70

XV. Come l'autore trova una ninfa di Cerere, chiamata Panfia, la quale gli conta il reame di Eolo, dio delli venti » 75

XVI. Del reame di Venere, e come le ninfe del medesimo reame dispiacquero all'autore, perché usavano atti disonesti d'amore; onde Venere il menò a ninfe piú oneste, ma piú piene d'inganno » 80

XVII. Dove si tratta dell'inganno, che fu fatto all'autore dalla ninfa Ionia » 85

XVIII. Dove si tratta del reggimento della casa de' Trinci e della cittá di Foligno » 90

LIBRO SECONDO

DEL REGNO DI SATANASSO

I. Come la dea Pallade appare all'autore e gli descrive la sedia e signoria di Satanasso » 97

II. Come l'autore narra a Minerva che e' si confida vincere
Satanasso e suoi vizi » 103

III. Come l'autore mediante la dea Minerva ritornò dell'inferno, dove era disceso » 108

IV. Dove trattasi del limbo e del peccato originale » 113

V. Come l'autore trova certe anime, che stavano penando presso al limbo » 118

VI. Come l'autore, uscito dall'inferno, venne nel mondo nell'emisfero di Satan » 123

VII. Dove trattasi del regno d'Acheronte » 128

VIII. Dove trattasi della pena del gigante Tizio e quello ch'e' significhi » 133

IX. Come l'autore trova la Morte, la quale parla acerbamente contro i mortali » 138

X. Dove l'autore discorre delle pene, che l'uomo dá a se stesso per false opinioni » 143

XI. Dove si tratta della pena di Sisifo » 148

XII. Dove l'autore parla di Flegias e della pena, che cagiona il timore » 153

XIII. Come l'autore vede la Fortuna » 158

XIV. Dove trattasi della pena, che dá l'Amore, quando ha il vero fondamento » 163

XV. Come l'autore riconosce la cittá di Dite in questo mondo, e quindi trova Circe, la quale trasmuta gli uomini » 168

XVI. Delle tre Furie infernali e delli tradimenti mondani » 173

XVII. Come l'autore vede il tempio di Plutone » 178

XVIII. Dove si tratta delli centauri » 183

XIX. Come l'autore trova Satan trionfante nel suo reame » 188

LIBRO TERZO

DEL REGNO DE' VIZI

I. Come l'autore fu a battaglia con Satanasso e, umiliandosi, lo vinse » 197

II. Delle cagioni onde viene la superbia, e come ella è vizio principale » 202

III. Dichiaransi gli effetti della superbia » 207

IV. Ove trattasi del vizio dell'invidia e della sua natura » 212

V. Di tre spezie d'invidia e di Cerbero, dal quale l'autore fu assalito » 217

VI. Dichiarasi come l'invidia si oppone alla virtú » 222

VII. Ove trattasi del vizio dell'avarizia » 227

VIII. Dove si ragiona del vizio dell'avarizia » 232

IX. Del vizio dell'accidia e delli suoi descendenti rami » 237

X. Del vizio dell'ira e delle sue specie » 242

XI. Trattasi della pena dell'ira » 247

XII. Trattasi di certi che furono viziosi nell'ira, e si passa a discorrere del vizio della gola » 252

XIII. Delle specie e rami discendenti dal vizio della gola » 257

XIV. Della lussuria e delle sue specie » 262

XV. Trattasi piú in particolare delle specie e de' rami discendenti della lussuria » 267

LIBRO QUARTO

DEL REGNO DELLE VIRTÚ

I. Del paradiso terrestre e di Enoc e d'Elia e dell'albero della scienza del bene e del male » 275

II. Della condizione del paradiso terrestre e de' fiumi, che quindi escono » 280

III. Della vertú della temperanza e sue laudi » 285

IV. Delle spezie e rami della temperanza » 290

V. Della virtú della continenza e delle sue spezie, e dell'astinenza » 295

VI. Della fortezza e delle sue spezie » 300

VII. De' magnanimi e valentissimi, ne' quali risplendette la virtú della fortezza » 305

VIII. Nel quale la Fortezza scioglie un dubbio dell'autore, e appresso incominciasi a trattare della prudenza » 311

IX. Nel quale ragionasi di assai antichi poeti, filosofi ed autori » 316

X. Delle specie ovvero delle parti della prudenza » 321

XI. Della virtú della giustizia, e come e perché furono trovate le leggi » 326

XII. Trattasi delle parti della giustizia » 331

XIII. Dove trattasi singolarmente della virtú dell'equitá e della veritá e de' valenti canonisti e legisti » 336

XIV. L'autore vede il tempio della fede, e gli appare san
Paolo, il quale gli ragiona di questa virtú » 342

XV. Di coloro che col lor sangue fondarono la fede, e delle cose che dobbiamo credere » 347

XVI. Della resurrezione de' nostri corpi dopo il Giudizio » 352

XVII. Come Paolo apostolo menò l'autore al reame della Speranza » 357

XVIII. De' peccati nello Spirito santo, i quali sono opposti alla speranza » 362

XIX. Come la Speranza conduce l'autore a parlare con la
Caritá » 368

XX. Dove trattasi piú distintamente del purgatorio, e si risolvono certi dubbi » 373

XXI. Della caritá e dell'opere della misericordia corporali e spirituali » 378

XXII. La Caritá mena l'autore nel cielo e tratta delle cose superiori ed eterne » 383

Nota » 389

Glossario » 407

Indice dei nomi » 409